La rivoluzione industriale e l'impero. Dal 1750 ai giorni nostri


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La rivoluzione industriale e l'impero. Dal 1750 ai giorni nostri

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Dal 1750 ai giorni nostri

Piccola Biblioteca Einaudi

• < iì ■ infasciale - pur costituendo di fatto l'atto di nasci ra c ■ noi d t moderne - è st. ' fino a poco tempo fa inspiegabil­ mente trascutata dagli studiósi. ■ o studio di Eric Hobsbawm - che s’inquadra in una più ampia ir.' iativa editoriale di storia deli’ co nornia britannica, affidata, oltre a lui, ad altri due studiosi di gran­ de levatura, come Postan e Hill - non colma soltanto una lacuna. Esso ci mostra la rivoluzione industriale in una prospettiva di sto­ ria universale che ci consente di capirne tutta la portata e gli svi­ luppi. In questo libro, scrive Hobsbawm, «ho cercato infatti di de scrivere e spiegare l’ascesa della Gran Bretagna come prima poter, za industriale, il suo declino dal temporaneo predominio pionieri­ stico, le sue relazioni con il resto del mondo e alcuni effetti che que­ sti avvenimenti hanno avuto sul popolo britannico. Sono tutti ar­ gomenti che non possono essere trascurati da nessun uomo dota­ to di senso politico, e, quindi ho cercato di scrivere nel modo meno tecnico possibile, senza presumere nel lettore alcuna conoscenza preliminare di scienze sociali».

Eric J. Hobsbawm, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1917, professore di sto ria al Birkbeck College dell’università di Londra, è fra i maggiori studiosi di marxismo e storia del movimento operaio. Di Hobsbawm sono stati tradotti in italiano: Le rivoluzioni borghesi 1789-1848 (Il Saggiatore 1968), I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna (Einaudi 1971), I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale (Einaudi 1974), 1 rivoluzionari (Einaudi 1975), Studi di sto­ ria del movimento operaio (Einaudi 1972), Il trionfo della borghesia (18481875) (Laterza 1976). Dirige e collabora alla Storia del marxismo Einaudi.

Altre opere del catalogo Einaudi su questi argomenti:

George Macaulay Trevelyan, Storia dell’Inghilterra nel secolo xix («Bibliote­ ca di cultura storica »). Raymond Williams, Cultura e rivoluzione industriale: Inghilterra 1780-1950 (« PBE »). David S. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri(« Paperbacks »). Karl Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche del­ la nostra epoca (« Paperbacks»). Paul Bairoch, Rivoluzione industriale e sottosviluppo («NBSE»), Ruggiero Romano, Industria: storia e problemi (« PBE »). Storia d’Italia. Annali, I: Dal feudalesimo al capitalismo.

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Storia economica dell’Inghilterra: M. m. postan, Economia e società nell’Inghilterra medievale. Dal xii al xvi secolo. Christopher hill, La formazione della potenza inglese. Dal 1530 al 1780. Eric John hobsbawm, La rivoluzione industriale e l’impero. Dal 1750 ai giorni nostri.

ERIC JOHN HOBSBAWM

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO Dal 1750 ai giorni nostri

Piccola Biblioteca Einaudi

Titolo originale Industry and Empire An economic history of Britain since 1750 Penguin Books, Harmondsworth, Middlesex © 1968 by E. J. Hobsbawm Copyright © 1972 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Terza edizione

Traduzione di Aldo Martignetti

Indice

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Prefazione

La rivoluzione industriale e l’impero 3 15 28

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Introduzione 1. L’Inghilterra nel 1750

2. L’origine della rivoluzione industriale 3. La rivoluzione industriale ( 1780-1840) 4. I risultati umani della rivoluzione industriale (1750-1850) 5. L’agricoltura (1750-1850) 6. L’industrializzazione: la seconda fase (1840-95) 7. La Gran Bretagna nell’economia mondiale 8. Livelli di vita (1850-1914) 9. L’inizio del declino io. La terra (1850-1960) 11. Fra le due guerre 12. Il governo e l’economia 13. Il lungo boom 14. La società dopo il 1914 15. L’altra Gran Bretagna

Conclusione

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Diagrammi P-373

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1. La popolazione della Gran Bretagna, 1750-1951. 2. Composizione della popolazione britannica per gruppi di età. 3. Tassi di mortalità in Inghilterra e nel Galles. 4. Declino della popolazione agricola. 5. Inghilterra industriale, 1851. 6. Inghilterra industriale, 1851. 7. Gran Bretagna industriale, 1963. 8. Alcune occupazioni britanniche, 1841-1951. 9. Operai specializzati e semispecializzati, 1911-51. 10. Datori di lavoro, tecnici, professionisti, 1911-51. 11. Composizione per classe, 1750-1961. 12. Il declino del datore di lavoro, 1911-51. 13. Trasformazione delle professioni della classe media, 1931-51. 14. Popolazione urbana e popolazione rurale, 1801-1961. 15. Lo sviluppo di Londra. 16. Lo sviluppo di Manchester. 17. La rivoluzione della velocità: tempi di viaggio. 18. La rivoluzione dei trasporti: le ferrovie. 19. La rivoluzione dei trasporti: le automobili. 20. La rivoluzione dei trasporti: il traffico stradale, i960. 21. I contatti: analfabetismo in Inghilterra, 1840. 22. I contatti: i libri. 23. Produzione industriale britannica, 1811-1960. 24. Produzione industriale britannica come percentuale del totale mondiale, 1780-1958. 25. La Gran Bretagna nell’industria mondiale nel secolo XIX. 26. La Gran Bretagna nell’industria mondiale alla metà del secolo xx. Acciaio. 27. La Gran Bretagna nell’industria mondiale alla metà del secolo xx. Elettricità. 28. La Gran Bretagna nell’industria mondiale alla metà del secolo xx. Veicoli a motore. 29. Aliquota della Gran Bretagna nel commercio mondia­ le in vari periodi. 30. Commercio britannico per gruppi di articoli, 18141963-

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VII 31. Il carattere del commercio britannico, 1750-1962. 32. I porti britannici nel i960. 33- Il carattere del commercio coi territori d’oltremare, i960. 34. I porti britannici nel 1888. 35- Investimenti britannici all’estero. 36. Distribuzione geografica degli investimenti britannici all’estero. 37. Il portafoglio degli investimenti britannici. 38. La bilancia dei pagamenti. 39. Come venivano pagate le importazioni britanniche. 40. Movimenti dei prezzi britannici, 1700-1959. 41. Spese statali, 1792-1955. 42. Spese statali come percentuale del prodotto nazionale lordo. 43. Percentuale delle spese per la difesa rispetto alle spe­ se statali. 44. Percentuale del reddito nazionale speso per la sicurez­ za sociale. Anni ’50 del secolo xx. 45. Voci principali della spesa per la sicurezza sociale; 1900-55. 46. Ricchi e poveri: ¡vittoriani. 47. Ricchi e poveri nel 1955. 48. Spese di famiglia dei lavoratori. 49. Consumo di tè e zucchero. 50. Aree di alto e di basso reddito, 1959-60. 51. Mortalità infantile nelle città britanniche, 1955-57. 52. Guadagni settimanali medi e prezzi al dettaglio, 19001958. 53. La disoccupazione, 1860-1960. 54. Forza numerica dei sindacati, 1860-1960. 55. Giornate di lavoro perse per scioperi, 1890-1960.

Letture ulteriori

Prefazione

Questo libro sarà certamente letto anche da alcuni di coloro che preparano qualcuno dei numerosi esami di sto­ ria economica e sociale imposti agli studenti di oggi, e na­ turalmente spero che esso sia loro di aiuto. Tuttavia devo dire che questo libro non è un manuale, né può essere im­ piegato molto proficuamente come testo di consultazione. Ho cercato infatti di descrivere e spiegare l’ascesa della Gran Bretagna come prima potenza industriale, il suo de­ clino dal temporaneo predominio pionieristico, le sue rela­ zioni con il resto del mondo e alcuni effetti che questi av­ venimenti hanno avuto sul popolo britannico. Sono tutti argomenti che non possono essere trascurati da nessun uo­ mo dotato di senso politico, e quindi ho cercato di scrivere nel modo meno tecnico possibile, senza presumere nel let­ tore alcuna conoscenza preliminare di scienze sociali. Que­ sto non significa che i problemi qui sollevati in un lin­ guaggio consueto (e ai quali spero di avere dato una ri­ sposta), non potrebbero essere riformulati nei linguaggi, più tecnici, delle varie discipline. D’altro canto, ho pre­ sunto una conoscenza elementare delle linee generali del­ la storia inglese a partire dal 1750. È perciò opportuno che i lettori che ignorano completamente ciò che furono le guerre napoleoniche o non conoscono personaggi come Peel e Gladstone, si informino su questo altrove. Poiché non esiste un accordo generale sulle questioni e le spiegazioni riguardanti la storia economica e sociale britannica, non posso certo dire che questo libro rappre­ senti ciò che hanno affermato gli studiosi. Se lo studio del­ la rivoluzione industriale e delle sue conseguenze non fos­

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se stato cosi incredibilmente trascurato per una intera ge­ nerazione prima degli anni ’50, sarebbe stato possibile parlare con maggiore sicurezza di questi avvenimenti, ma attualmente le discussioni, fortunatamente riprese, sono ben lungi dal concludersi. Esse affrontano non solo pro­ blemi molto generali, come la natura dello sviluppo eco­ nomico e gli aspetti sociali dell’industrializzazione, ma an­ che problemi particolari, come le origini della rivoluzio­ ne industriale, che cosa eventualmente non sia andato per il verso giusto nell’economia britannica nell’ultimo tren­ tennio del secolo xix, il sorgere della classe operaia, gli effetti della depressione fra le due guerre, e le caratteristi­ che dell’«imperialismo», per non citare questioni ancor più precise. Vi saranno probabilmente specialisti che accetteranno le interpretazioni da me adottate, ma non mancano certo altre interpretazioni contrastanti. Sono poi numerosi i settori della ricerca in cui di recente si è svolto scarsissi­ mo lavoro, per cui allo storico si offre soltanto l’alternati­ va di accettare ciò che i suoi predecessori hanno scritto, o di lasciare delle pagine in bianco. È un piacere notare che la storia economica e sociale della Gran Bretagna negli ultimi duecento anni è divenu­ to un campo di studio su cui le ricerche sono intense e le discussioni sono vivaci e talvolta appassionate, ma natu­ ralmente ciò rende molto più diffìcile il compito dello sto­ rico che voglia dare un’interpretazione generale dell’intero periodo, e ne rende assai più provvisorio il lavoro. Natu­ ralmente non posso dare per scontato che le risposte date in questo libro si impongano come esatte, anche se spero che sia cosi. Se formino poi un tutto ragionevole e coe­ rente, è cosa che i lettori dovranno giudicare da sé. Anche in un altro senso ogni libro come questo è, natu­ ralmente, un prodotto di un particolare periodo: esso ri­ flette non solo lo stato delle conoscenze, ma anche gli in­ teressi del presente, che non sono sempre quelli del pas­ sato, e possono non essere quelli del futuro. Per esempio, vent’anni fa gli storici economici avrebbero senza dubbio rivolto molta attenzione alle fluttuazioni dell’economia britannica, poiché sia essi sia gli economisti vivevano an­

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cora sotto ¡’impressione delle fasi di depressione del pe­ riodo fra le due guerre. Oggi si preoccupano piuttosto dei problemi dello sviluppo economico e dell’industrializza­ zione e, vista l’importanza dei grandi movimenti di deco­ lonizzazione politica, della netta e sempre piu ampia spac­ catura esistente fra i paesi «sviluppati» e quelli «sotto­ sviluppati» o «emergenti». Risulterà ovvio al lettore che questo libro riflette le preoccupazioni degli anni ’50 e ’60 trascurandone alcune di altri decenni, talvolta delibera­ tamente. Questo è un lavoro di sintesi piu che di ricerca origina­ le, e pertanto si basa sulle opere di molti altri studiosi. Anche i giudizi che esprime sono a volte di altri. Ricono­ scere tutti i miei debiti richiederebbe una complicata e voluminosa quantità di citazioni e, anche se sarebbe un atto di cortesia verso i miei colleghi, sarebbe di scarsa im­ portanza per i lettori. Ho quindi limitato in complesso i rinvii alle sole fonti direttamente citate, e al caso a fatti tratti da fonti non troppo note. Non ho nemmeno cercato di dare citazioni complete quando, come in alcune parti del libro, mi sono valso di fonti primarie e non di altri la­ vori a stampa. La guida per ulteriori letture e le note bi­ bliografiche che seguono ogni capitolo menzionano alcune delle opere di cui mi sono valso, e quelle verso cui ho un debito particolare sono contrassegnate da un asterisco. Questa guida non intende formare una vera e propria bi­ bliografia; le opere che contengono buone bibliografie so­ no contrassegnate con (B). Un ultimo avvertimento. La storia economica è essen­ zialmente quantitativa, e quindi si vale parecchio di stati­ stiche. Tuttavia, le cifre hanno limiti spesso non compresi da profani e trascurati talvolta dagli specialisti, i quali, dal momento che hanno bisogno delle cifre, le accettano con un senso critico minore di quello che dovrebbero ave­ re. Varrà allora la pena di elencare alcuni di questi limiti. Non possono darsi statistiche se prima qualcuno non ha ef­ fettuato un computo, ma nel passato è accaduto spesso che nessuno lo abbia fatto fino a tempi relativamente recenti. (Per esempio, non si hanno dati per la produzione di car­ bone prima del 1854, e neanche dati adeguati sulla disoc-

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cupazione prima del 1921 ). In tali casi non abbiamo stati­ stiche, ma soltanto stime documentate, o congetture piu o meno valide. Il meglio che possiamo aspettarci sono or­ dini di grandezza. Per quanto possiamo desiderare di ot­ tenere di piu da questi dati, non ne siamo in grado. Nes­ suno può costruire un ponte capace di sopportare gravi pesi, con poche assi marce. Le statistiche, per qualsiasi fine siano state raccolte, hanno un margine di errore, e quanto prima sono state raccolte, tanto meno attendibili sono. Tutte le statistiche rispondono a domande specifi­ che ed estremamente ristrette, e se vengono impiegate per rispondere ad altre domande, sia nella loro forma primiti­ va, sia attraverso elaborazioni piu o meno raffinate, devo­ no essere trattate con estrema cautela. In altre parole, i lettori devono imparare a guardarsi dall’apparente solidità e compattezza delle tabelle di statistiche storiche, specialmente se sono presentate nude e crude, senza quell’elabo­ rato involucro descrittivo con cui le circonda lo statistico esperto. Certo, sono essenziali. Ci permettono di esprime­ re certe cose in modo estremamente conciso e (per alcuni di noi) molto vivido. Ma non sono necessariamente piu at­ tendibili dell’approssimazione della prosa. Quelle che ho adoperato sono tratte in gran parte da quell’ammirevole compendio che è Abstract of British Historical Statistici di Mitchell e Deane. Sono in debito con Kenneth Berrill che ha letto gran parte di questo libro nel manoscritto, ma non è responsa­ bile degli errori che vi si trovano, anche se ne ha eliminati alcuni. Sono anche grato a quei lettori che hanno richia­ mato la mia attenzione su vari errori di stampa e d’altro genere, corretti nella presente edizione. A parte alcuni cambiamenti di minor conto, il libro non è stato modifi­ cato. Pur andando talvolta oltre, esso finisce, ai fini prati­ ci, con l’avvento del governo laburista, nel 1964. E. J. H.

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

A Marlene

Introduzione

La rivoluzione industriale costituisce la più fondamen­ tale trasformazione della vita umana in tutta la storia uni­ versale tramandata da documenti scritti. Per un breve pe­ riodo essa coincise con la storia di un solo paese, la Gran Bretagna. Un’intera economia mondiale fu costruita so­ pra questo paese, o piuttosto attorno ad esso, e pertanto la Gran Bretagna ascese temporaneamente a una posizio­ ne di influenza e potenza universali, senza paragone con al­ tri Stati della sua misura, e senza possibilità di confronto in un prevedibile futuro. Vi fu un momento nella storia del mondo in cui la Gran Bretagna poteva essere definita, se non siamo troppo pedanti, come la sola officina della terra, la sola grande nazione importatrice ed esportatrice, la sola che si occupasse dei trasporti, la sola potenza im­ perialistica, e quasi la sola nazione che investisse all’este­ ro; e per queste ragioni, la sola potenza navale e la sola che svolgesse un’autentica politica mondiale. Gran parte del suo monopolio era semplicemente dovuta alla solitu­ dine del pioniere, sovrastante su tutti proprio a causa del­ l’assenza di altri concorrenti. Quando altri paesi si indu­ strializzarono, quel monopolio fini automaticamente, an­ che se l’apparato di transazioni economiche mondiali co­ struito da e per la Gran Bretagna rimase indispensabile al resto del mondo ancora per un certo tempo. Nondime­ no, per la maggior parte del mondo l’era «britannica» dell’industrializzazione fu soltanto una fase, quella ini­ ziale o una fra le prime, della storia contemporanea. Per la Gran Bretagna si trattò ovviamente di molto più di que­ sto. Noi inglesi siamo stati profondamente marcati dall’e­ sperienza del nostro pionierismo economico e sociale, e ne

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

portiamo ancora oggi il segno. Questa situazione storica della Gran Bretagna, veramente unica, è l’argomento di questo libro. Economisti e storici economici hanno discusso ampia­ mente le caratteristiche, i vantaggi e gli svantaggi di es­ sere i pionieri dell’industrializzazione, e sono giunti a con­ clusioni differenti, a seconda, principalmente, se hanno cercato di spiegare perché le economie sottosviluppate non riescano oggi a raggiungere quelle sviluppatelo perché le prime nazioni industriali, e soprattutto la Gran Bretagna, si facciano distanziare da altre arrivate dopo. I vantaggi di effettuare una rivoluzione industriale nel secolo xvm e nei primi decenni del xix erano grandi, e ne considerere­ mo alcuni nei capitoli che affrontano tale periodo. Gli svantaggi - per esempio una tecnologia e una struttura d’affari piuttosto arcaiche, che possono incastrarsi troppo profondamente per essere rapidamente abbandonati o an­ che solo modificati - si manifestano di solito in una fase più tarda: in Gran Bretagna, negli ultimi decenni del se­ colo xix, a partire dagli anni ’60. Anche di questo trat­ teremo rapidamente nei capitoli su quel periodo. L’ipote­ si di questo libro è che il relativo declino della Gran Bre­ tagna è dovuto, parlando in termini generali, al nostro precoce e prolungato inizio come potenza industriale. Tut­ tavia questo fattore non va analizzato isolatamente: ha un’importanza per lo meno uguale la particolare posizio­ ne, unica anzi, del nostro paese nell’economia mondiale, che fu in parte la causa dei nostri primi successi e che fu rafforzata da questi. Noi inglesi fummo, o divenimmo sempre di più, l’impulso motore dell’interscambio econo­ mico fra le regioni progredite del mondo e quelle arretra­ te, fra quelle industriali e quelle produttrici di materie prime, fra quelle metropolitane e quelle coloniali o quasi coloniali. Forse perché fu costruita per tanta parte attorno alla Gran Bretagna, l’economia mondiale capitalistica del secolo xix si maturò in un singolo sistema di liberi flussi, in cui i trasferimenti internazionali di capitali e merci pas­ savano attraverso mani e istituzioni britanniche, e su navi britanniche fra un continente e l’altro, oltre ad essere cal­ colati in termini di sterline. E siccome la Gran Bretagna

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cominciò con l’immenso vantaggio di essere indispensabile alle aree sottosviluppate (o perché avevano bisogno di noi o perché non veniva loro permesso di fare a meno di noi) e anche indispensabile ai sistemi di commercio e di paga­ menti del mondo progredito, essa non si trovò ad avere sempre con una linea di ritirata aperta quando la concor­ renza di altre economie si faceva troppo pressante. Potem­ mo ritirarci ancor piu nell’impero e nel libero scambio, va­ le a dire nel monopolio esercitato in regioni non ancora sviluppate (il che le aiutò a restare non industrializzate), e nella nostra funzione di perno del commercio dei trasporti marittimi e delle transazioni finanziarie mondiali. Non fummo in grado di competere con la concorrenza, ma riu­ scimmo ad evitarla, e la nostra capacità di evasione contri­ buì a perpetuare l’arcaica e superata struttura industriale e sociale dell’epoca pionieristica. L’economia liberale mondiale, in teoria autoregolantesi ma in effetti dipendente dal quadro di comando della Gran Bretagna, crollò fra le due guerre. Il sistema politi­ co che ad essa corrispondeva, in cui un limitato numero di capitalisti occidentali avevano il monopolio dell’industria, della forza militare e del controllo politico nel mondo sot­ tosviluppato, cominciò anch’esso a crollare dopo la rivo­ luzione russa del 1917, e il processo distruttivo divenne molto piu rapido dopo la seconda guerra mondiale. Altre economie industriali trovarono piu facile adeguarsi a quel collasso perché l’economia liberale del secolo xix era sta­ ta soltanto un episodio del loro sviluppo, e anzi proprio la loro ascesa era stata uno dei motivi per cui infine l’econo­ mia liberale crollò. La Gran Bretagna si trovò in una si­ tuazione molto peggiore, non essendo piu indispensabile per il mondo. In effetti, come stavano le cose nel secolo xix, non c’era piu un mondo uno e singolo a cui si poteva essere indispensabili. Quale nuova base poteva essere tro­ vata per l’economia? Senza un’azione sistematica, spesso non intenzional­ mente, il paese riuscì, è vero, ad adeguarsi mutando ra­ pidamente la propria economia (che da molto ristretta e incontrollata divenne straordinariamente monopolistica e controllata dallo stato) e ripiegando, anziché affidarsi a

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industrie di base rivolte all’esportazione su quelle che producevano per il mercato interno, abbandonando nel contempo, anche se piuttosto lentamente, la vecchia tec­ nologia e le vecchie forme di organizzazione industriale per adottarne di nuove. Tuttavia il problema maggiore ri­ mase non risolto: potevano questi adeguamenti fornire una base sufficientemente larga perché l’economia, rela­ tivamente gigantesca, di quella che nel i960 era ancora la terza potenza economica mondiale riuscisse a conserva­ re l’ampiezza consueta? E in caso contrario, quali erano le alternative? Gli storici sociali hanno discusso meno degli economi­ sti le caratteristiche singolari che la Gran Bretagna do­ vette ai suoi esordi pionieristici. Eppure si tratta di carat­ teristiche molto pronunciate. Nella Gran Bretagna si con­ fondono, infatti, come ognuno sa, due fenomeni inconci­ liabili a prima vista. Le sue istituzioni e le sue consuetudi­ ni sociali e politiche mostrano una notevole, anche se su­ perficiale, continuità col passato preindustriale. Si tratta di una continuità simbolizzata da tutte quelle cose che, es­ sendo rare nel mondo moderno, attraggono il visitatore straniero e una quantità, fortunatamente in aumento, di valuta estera portata dai turisti: la regina e i lord, i ceri­ moniali di istituzioni da lungo tempo superate o arcaiche, e via dicendo. Al tempo stesso la Gran Bretagna è sotto molti aspetti il paese che in modo più radicale ha rotto con le epoche precedenti della storia umana: la classe dei contadini è scomparsa quasi completamente, la propor­ zione dei suoi abitanti, uomini e donne, che si guadagnano da vivere col lavoro stipendiato o salariato è più alta che in qualsiasi altro paese, l’urbanizzazione è più antica e probabilmente più estesa che altrove. Di conseguenza, la Gran Bretagna è anche il paese in cui le divisioni di classe sono state, almeno fino a tempi recenti, più nette che al­ trove, e la stessa osservazione vale anche per le divisioni regionali. Infatti, malgrado sia sempre esistito un nume­ ro abbastanza grande di livelli di reddito, di gradi di con­ dizione sociale e di snobismo, la maggior parte della gen­ te tende a prender per buono il presupposto che solo due sono le classi che contano, cioè la classe operaia e la clas­

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se media, e questo dualismo si è riflesso notevolmente nel sistema bipartitico britannico. Che poi esso non abbia por­ tato alle conseguenze politiche previste dai primi sociali­ sti, è un’altra questione. Entrambi i fenomeni sono evidentemente connessi con gli inizi economici della Gran Bretagna, anche se le loro origini si riallacciano, almeno in parte, a un periodo pre­ cedente a quello di cui ci occupiamo in questo libro. La misura in cui le istituzioni politiche e sociali vengono mu­ tate nel processo che trasforma un paese in uno stato in­ dustriale e capitalistico, dipende da tre fattori: la flessi­ bilità, l’adattabilità o la resistenza delle sue vecchie isti­ tuzioni, l’urgenza del suo effettivo bisogno di trasformar­ si, e i rischi inerenti alle grandi rivoluzioni, che normal­ mente sono le vie d’attuazione di drastici cambiamenti. In Gran Bretagna, la resistenza allo sviluppo capitalistico aveva cessato di essere operante già alla fine del secolo xvii. La stessa aristocrazia era giudicata in base agli esem­ pi continentali, quasi una forma di «borghesia» e due ri­ voluzioni avevano dimostrato che la monarchia era un’isti­ tuzione capace di adattamenti. Come vedremo, i proble­ mi tecnici dell’industrializzazione furono insolitamente facili, e i costi supplementari e le inefficienze dovuti al fatto di affrontarli con un complesso istituzionale anti­ quato (specialmente antiquato era il sistema giuridico) si dimostrarono facilmente tollerabili. D’altro canto, allor­ ché il meccanismo di un pacifico adattamento funzionò in modo cattivo e il bisogno di un mutamento radicale sem­ brò, come accadde nella prima metà del secolo xix, più che mai urgente, il rischio che scoppiasse una rivoluzione fu anch’esso straordinariamente grave, e questo perché se quel sistema fosse sfuggito a chi lo controllava, ciò sareb­ be apparso come una rivoluzione dovuta alla nuova classe operaia. Nessun governo britannico poteva ricorrere, co­ me i governi francesi, tedeschi o americani del secolo xix, alla mobilitazione delle forze politiche rurali contro la cit­ tà, di ampie masse di contadini o piccoli bottegai o altri piccoli borghesi contro una minoranza, spesso sparsa e localizzata, di proletari. La prima potenza industriale del mondo era anche quella in cui la classe dei lavoratori ma­

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nuali era numericamente dominante. Mantenere basse le tensioni sociali, impedire che i dissensi fra i vari settori delle classi dominanti diventassero incontrollabili, sem­ brò non soltanto consigliabile, ma essenziale. E successe anche che, con poche eccezioni, questa politica si dimo­ strasse attuabile. La Gran Bretagna arrivò in questo modo alla caratteri­ stica combinazione di una base sociale rivoluzionaria e, almeno per un certo momento, il momento cioè del libera­ lismo economico militante, di una ubriacatura di ideolo­ gie dottrinarie, con una soprastruttura istituzionale tra­ dizionalista e lenta a cambiare. L’immensa barriera di po­ tenza e profitto eretta nel secolo xix evitò al paese quel­ le catastrofi politiche ed economiche che avrebbero po­ tuto imporgli mutamenti radicali. Gli inglesi non furono mai sconfitti in guerra, e tanto meno annientati. Anche il contraccolpo del più grave cataclisma non politico del se­ colo xx, la «grande depressione» degli anni 1929-33, non fu cosi improvviso, acuto e generale come negli altri pae­ si, compresi gli Stati Uniti. Lo status quo risultò scosso, ma non fumai mandato in frantumi. Fino ad ora, in Gran Bretagna si è subita un’erosione, ma non si è avuto un collasso. E ogniqualvolta una crisi ha minacciato di diven­ tare irrisolvibile, i governanti del paese hanno sempre te­ nuto presenti i pericoli connessi col fatto di perderne il controllo. Si può dire che non sia mai esistito un momento in cui i responsabili politici abbiano dimenticato l’elemen­ to politico fondamentale della Gran Bretagna moderna, vale a dire che il paese non può essere governato sfidan­ do apertamente la maggioranza composta dalla classe ope­ raia, e che è sempre possibile affrontare la modesta spesa di conciliarsi una sezione importante di quella maggioran­ za. Se si pensa a quello che è successo in altri importanti paesi industriali, in pratica non è stato sparso del sangue in Gran Bretagna (non si parla qui delle colonie o di ter­ ritori dipendenti) in difesa del sistema politico ed econo­ mico, per piu di un secolo *. * Gli avvenimenti di Trafalgar Square 1887, Featherstone 1893, To­ nypandy 1911, costituiscono drammatiche eccezioni nella storia del movi­ mento operaio britannico.

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Fra i datori di lavoro e gli operai, fra i governanti e i governati britannici, non si sono mai frapposte barriere di odio come la «Comune di Parigi», lo «sciopero degli agricoltori», o i «Corpi liberi» e le «ss». Questo rifuggire dagli scontri frontali, questa prefe­ renza per le etichette nuove su bottiglie vecchie, non va confusa con una assenza di cambiamenti. Per quel che ri­ guarda sia la struttura sociale sia le istituzioni politiche, i cambiamenti, a partire dal 1750, sono stati profondi e, in certi momenti, rapidi e spettacolari. Essi sono stati cela­ ti dalla tendenza di riformatori moderati a definire le tra­ scurabili modifiche delle cose passate come rivoluzioni «pacifiche» o «silenziose» *, dal gusto della parte rispet­ tabile dell’opinione pubblica di far passare i cambiamenti più importanti come aggiunte alle condizioni precedenti, e dall’incredibile tradizionalismo e conservatorismo di tante istituzioni britanniche. Questo tradizionalismo è senz’altro reale, ma il termine stesso comprende due fe­ nomeni del tutto distinti. Il primo è dato dalla tendenza a confermare la forma di vecchie istituzioni con un contenuto profondamente mutato, tanto che in alcuni casi si è arrivati a creare del­ le pseudotradizioni e una legittimità pseudoconsuetudi­ naria per istituzioni completamente nuove. Le funzioni della monarchia odierna hanno poco in co­ mune con quelle della monarchia del 1750, e nello stesso modo le «public schools» come le conosciamo oggi non esistevano di fatto prima della metà del secolo xix, sic­ ché la loro incrostazione di tradizioni è quasi compietamente vittoriana. Il secondo fenomeno è dato dalla netta tendenza delle innovazioni un tempo rivoluzionarie ad ac­ quisire la patina di una tradizione propria in base alla du­ rata della loro esistenza. Dato che la Gran Bretagna è sta­ ta il primo paese industriale, e che per lungo tempo i suoi * Cosí, i risultati a cui giunsero i governi laburisti negli anni 1945-51, che contrassegnarono in effetti un abbandono dell’economia britannica bel­ lica, di stampo spiccatamente socialista, costituirono una «rivoluzione» del genere, e lo stesso accadde per i progressi compiuti nel campo del­ l’istruzione in Gran Bretagna nella prima metà del secolo xx, che colpi­ scono l’osservatore per la loro eccezionale incertezza.

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cambiamenti sono stati relativamente lenti, tale tendenza ha fornito ampie opportunità per un simile tradizionali­ smo industrializzato. Quello che è conosciuto come con­ servatorismo britannico è, ideologicamente, il liberalismo del laissez-faire che trionfò fra gli anni 1820 e 1850; e, a parte l’aspetto formale, il contenuto è lo stesso dell’an­ tica e consuetudinaria Common Law, almeno nel campo della proprietà e del contratto. Per quanto riguarda il con­ tenuto delle loro sentenze, la maggior parte dei giudici britannici dovrebbero portare cappelli a cilindro e basettoni anziché lunghe parrucche. E per quanto riguarda la vita delle classi medie britanniche, il suo aspetto più ca­ ratteristico, vale a dire la casa suburbana con giardino, esso rimonta alla prima fase dell’industrializzazione, quan­ do gli antenati cominciarono a lasciare il fumo e la nebbia dei centri urbani contaminati per trasferirsi verso le col­ line e i terreni di proprietà comune. E per quanto riguar­ da la classe operaia, come vedremo, quello che è chiamato il suo modo di vita tradizionale è ancor più recente non essendo stato adottato da per tutto prima degli anni ’80 del secolo xix. E il modo di vita «tradizionale» dell’in­ tellettuale professionista, col giardino suburbano, la caset­ ta in campagna, la rivista settimanale di cultura e tutto il resto, è ancor più recente, dato che questa classe quasi non esisteva come gruppo cosciente di sé prima del periodo edoardiano. La «tradizione» intesa in questo modo, non costituisce un serio ostacolo ai mutamenti. Spesso ci si tro­ va semplicemente di fronte all’usanza britannica di attri­ buire un’etichetta di antichità a cose che esistono da non lungo tempo, ed è interessante che tale attribuzione av­ venga quando tali cose cominciano a cambiare. E passata una generazione quelle cose stesse diventeranno a loro volta tradizionali. Non voglio certo negare la forza autonoma delle tradi­ zioni e delle abitudini che si accumulano e si fossilizzano, quali freni capaci di agire sui processi di trasformazione. Fino a un certo grado esse hanno sicuramente questa ca­ pacità anche se sono ostacolate, almeno potenzialmente, dall’altra inveterata «tradizione» britannica che consiste nel non opporsi mai ai mutamenti irresistibili, cercando

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invece di assorbirli quanto più rapidamente e pacifica­ mente è possibile. Quello che passa per la forza del «con­ servatorismo» o del «tradizionalismo» è spesso qualcosa di molto differente: si tratta infatti di interessi acquisiti e della mancanza di una pressione sufficiente. La Gran Bretagna non è, di per se stessa, più tradizionalista di altri paesi. Lo è infatti, per esempio, molto meno della Francia in fatto di costumi sociali, e molto meno degli Stati Uniti in fatto di inflessibilità ufficiale nei riguardi di istituzioni superate, come può essere una costituzione del secolo xviii. È stata finora più conservatrice semplicemen­ te perché l’interesse acquisito per il passato è stato straor­ dinariamente forte, e più compiacente perché più protet­ to; e forse si è anche mostrata meno disposta a cercar nuo­ ve strade per la sua economia perché nessuna nuova via sembra condurre a una meta più invitante. Le vecchie vie possono sembrare impraticabili, ma anche le nuove non appaiono molto comode. Questo libro si occupa di storia della Gran Bretagna. Tuttavia, come le stesse poche pagine precedenti avranno chiarito, una storia insulare del paese (e ce ne sono state troppe del genere) non può che essere insufficiente. In primo luogo, la Gran Bretagna si sviluppò come parte es­ senziale di un sistema economico mondiale, e più partico­ larmente come il centro di quell’« impero » ufficiale o non ufficiale, su cui si sono basate per tanta parte le sue fortu­ ne. Scrivere della Gran Bretagna senza dire qualcosa an­ che delle Indie occidentali o dell’india, dell’Argentina, dell’Australia, è impossibile. Nondimeno, visto che non sto scrivendo la storia dell’economia mondiale, o della sua sezione dell’impero britannico, i miei riferimenti alle al­ tre parti del mondo non possono essere che marginali. Ve­ dremo nei capitoli successivi quelle che furono le relazio­ ni della Gran Bretagna col mondo esterno, come su di es­ sa influirono i mutamenti che si verificarono in quel mon­ do, e ci occuperemo brevemente, in una o due occasioni, di come la dipendenza della Gran Bretagna abbia influito su quelle parti del mondo appartenenti al sistema satelli­ te o coloniale britannico: vedremo, ad esempio, come l’in­ dustrializzazione del Lancashire abbia prolungato e favo­

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rito la schiavitù in America, o come alcuni degli oneri del­ la crisi economica britannica possano essere andati a gra­ vare sui paesi produttori di materie prime, per le cui esportazioni la Gran Bretagna o altre nazioni industrializ­ zate costituivano l’unico sbocco commerciale. Ma lo sco­ po di cenni del genere è solo e soltanto quello di rammen­ tare costantemente al lettore che la Gran Bretagna era collegata al resto del mondo, senza di che la nostra storia non può essere compresa. Comunque, non potrà essere evitato un altro tipo di ri­ ferimenti internazionali. La storia della società industriale britannica costituisce un caso particolare - il primo e a volte il più importante - del fenomeno generale dell’in­ dustrializzazione sotto il sistema capitalistico e, se guar­ diamo a un orizzonte più vasto, del fenomeno generale dell’industrializzazione in generale. Inevitabilmente do­ vremo chiederci quanto sia tipico di questo fenomeno l’e­ sempio britannico, o, in termini più pratici, dato che il mondo è oggi formato da paesi che cercano di industria­ lizzarsi rapidamente, quali altre nazioni possono appren­ dere dall’esperienza britannica. La risposta è che esse pos­ sono imparare parecchio in via di principio, ma molto po­ co in termini pratici. La stessa priorità dello sviluppo bri­ tannico lo rende sotto la maggior parte degli aspetti uni­ co e a sé stante. Nessun altro paese si trovò a compiere la propria rivoluzione industriale virtualmente da solo, sen­ za poter beneficiare di un settore industriale già affermato dell’economia mondiale e senza potersi avvantaggiare del­ le risorse di esperienza, di capacità o di capitale di un tale settore. Sia gli estremi cui, ad esempio, fu spinto lo svi­ luppo sociale britannico (per esempio la virtuale elimina­ zione della classe contadina e dei piccoli artigiani), sia il tipo particolarissimo delle relazioni economiche britanni­ che col mondo sottosviluppato possono essere stati dovu­ ti in gran parte a questa situazione. Per contro, il fatto che la Gran Bretagna abbia effettuato la sua rivoluzione indu­ striale nel secolo xvm e fosse abbastanza ben preparata per compierla, minimizzò alcuni problemi che sono ap­ parsi ben più gravi in paesi dal più tardo sviluppo indu­ striale, o in quelli che dovettero compiere un balzo mag­

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giore dall’arretratezza a una buona posizione economica. La tecnologia con cui i paesi in via di sviluppo devono ope­ rare al giorno d’oggi è molto più complessa e costosa di quella con cui la Gran Bretagna effettuò la propria rivolu­ zione industriale. Le forme dell’organizzazione economica sono differenti: oggi i paesi non devono necessariamente limitarsi a un sistema di iniziativa privata o capitalistico, ma possono anche sceglierne uno socialista. Differente è anche il contesto politico. Oggi i paesi in fase di industria­ lizzazione si sviluppano in presenza di forti movimenti che raggruppano le classi lavoratrici, e di potenze sociali­ ste mondiali, il che rende politicamente quasi impensabi­ le l’idea di una industrializzazione da compiere senza preoccuparsi della sicurezza sociale o dei sindacati dei la­ voratori. La storia della Gran Bretagna non costituisce quindi un modello per lo sviluppo economico del mondo contem­ poraneo. E se per studiarla e analizzarla cerchiamo i moti­ vi che non siano quell’interesse automatico che il passa­ to, e specialmente la grandezza passata, suscitano in molte persone, ne troviamo soltanto due veramente convincen­ ti. Il passato della Gran Bretagna a partire dalla rivolu­ zione industriale grava pesantemente sul presente, e la soluzione pratica dei problemi reali della nostra econo­ mia e della nostra società esigono che noi comprendiamo qualcosa di quel passato. Più generalmente, la storia della prima potenza industriale, quella che conta una più lunga vita, non può non illuminare lo sviluppo dell’industrializ­ zazione come uno dei fenomeni della storia mondiale. Per il pianificatore, l’organizzatore sociale, l’economista (in quanto non concentrino la loro attenzione sui problemi britannici) la Gran Bretagna è soltanto un «caso di stu­ dio» e, per quanto riguarda il secolo xx, neanche il più interessante e rilevante. Per lo storico del progresso uma­ no dall’uomo delle caverne ai possessori della forza ato­ mica e ai viaggiatori spaziali, essa è di un interesse unico. Nessun mutamento nella vita umana da quando si comin­ ciò a praticare l’agricoltura e la metallurgia e furono co­ struite le città nell’età neolitica, è stato cosi importante come l’avvento dell’industrializzazione. Essa ebbe luogo,

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inevitabilmente e temporaneamente, nella forma di un’e­ conomia e di una società capitalistiche, e fu probabilmen­ te anche inevitabile che dovesse attuarsi secondo il mo­ dello di una singola economia mondiale « liberale » dipen­ dente per un certo periodo da un singolo paese pioniere. Quel paese fu la Gran Bretagna, e per questo aspetto es­ so spicca unico nella storia.

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L’Inghilterra nel 17501

Quello che l’osservatore contemporaneo vede non cor­ risponde necessariamente alla verità, ma lo storico da par­ te sua lo ignora a tutto suo rischio. La Gran Bretagna, o meglio l’Inghilterra, fu nel secolo xvm un paese che at­ tirò molta attenzione, e se dobbiamo renderci conto di quello che vi accadde a partire dalla rivoluzione indu­ striale, tanto varrà cominciare col cercare di vedere il pae­ se attraverso gli occhi dei suoi numerosi e attenti visita­ tori stranieri; sempre ansiosi di imparare, generalmente pronti ad ammirare, avevano a loro disposizione tutto il tempo necessario per rendersi conto dell’ambiente che li circondava, e in base ai criteri attuali moderni, di tempo libero avevano veramente bisogno. Il viaggiatore che in­ torno al 1750 fosse sbarcato a Dover o a Harwich dopo una traversata fortunosa e spesso lunga (una trentina d’o­ re dall’Olanda), avrebbe fatto bene a passare la notte in una delle locande inglesi, che, sia pure a prezzi piuttosto alti, gli offrivano ogni comodità, facendogli un’ottima im­ pressione. L’indomani avrebbe viaggiato per una cinquan­ tina di miglia in diligenza e, dopo aver sostato un’altra notte a Rochester o a Chelmsford, avrebbe raggiunto Lon­ dra verso la metà del giorno successivo. Viaggiare in que­ sto modo richiedeva tempo a disposizione. L’alternativa per chi era sprovvisto di mezzi finanziari, ossia andare a piedi o proseguire navigando lungo la costa, comportava un viaggio meno costoso e piu lento, oppure meno costo­ so, ma incerto. Nel giro di pochi anni nuove rapide dili­ genze sarebbero state in grado di portarlo da Londra a Portsmouth dall’alba all’imbrunire, e da Londra a Edim-

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burgo in sessantadue ore, ma nel 1750 doveva ancora pre­ vedere da dieci a dodici giorni per questo viaggio. Il viaggiatore sarebbe rimasto subito colpito dal verde, dal lindore e dall’evidente prosperità della campagna, ol­ tre che dalle condizioni di vita, manifestamente buone, dei contadini. «L’intera regione, — scriveva nel 1761 a pro­ posito dell’Essex il conte Kielmansegge, un tedesco del­ lo Hannover, — non è dissimile da un giardino ben tenu­ to»2, e la maggior parte dei viaggiatori la pensava come lui. Poiché in generale la visita dell’Inghilterra si limita­ va alle zone meridionali e centrali, l’impressione non era del tutto precisa, ma il contrasto con la maggior parte del continente era abbastanza netto. Il viaggiatore sarebbe poi stato colpito, altrettanto invariabilmente, dall’immen­ sa estensione di Londra, e ben a ragione, perché essa, con la sua popolazione di circa tre quarti di milione d’abitan­ ti, era allora di gran lunga la più grande città della cristia­ nità, quasi due volte la sua rivale più prossima, Parigi. Certo, non era bella, e poteva anche apparire triste a uno straniero. «Dopo aver visto l’Italia, — osservava l’abate Le Blanc nel 1747, - non vedrete niente negli edifici di Londra che vi dia piacere. In realtà la città è meravigliosa soltanto per la sua grandezza». (Ma anche lui, come tut­ ti gli altri, era «fortemente colpito dalla bellezza della campagna, dalla cura posta nel migliorare le terre, dalla ricchezza dei pascoli, dai numerosi greggi che li ricopro­ no e dall’atmosfera di prosperità e pulizia che regna fin nei più piccoli villaggi»)’. E Londra non era neanche una città pulita o ben illuminata, anche se sotto questo aspet­ to era migliore di centri industriali come Birmingham, dove «la gente sembra tanto presa dai propri affari all’in­ terno delle abitazioni da curare assai poco l’aspetto ester­ no. Le strade non sono né lastricate né illuminate»4. Non c’erano altre città inglesi che potessero essere an­ che lontanamente paragonate a Londra, anche se i porti e i centri commerciali o industriali delle province, a differen­ za di quanto avveniva nel secolo xvu, si espandevano ra­ pidamente e prosperavano a vista d’occhio. Nessun’altra città inglese raggiungeva i cinquantamila abitanti. Poche di esse avrebbero meritato la visita di un viaggiatore non

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mosso da ragioni commerciali, anche se chi si fosse reca­ to intorno al 1750 a Liverpool (non ancora raggiunta dal­ le carrozze di posta di Londra) sarebbe stato senza dub­ bio impressionato dall’attività febbrile che regnava in quel porto in rapida espansione, dedito come Bristol e Glasgow soprattutto ai traffici di schiavi e di prodotti co­ loniali: zucchero, tè, tabacco, e, in misura crescente, coto­ ne. Le città portuali del secolo xvm andavano fiere delle loro solide e nuove installazioni portuali e dell’eleganza provinciale dei loro edifici pubblici, che formavano, come il visitatore avrebbe favorevolmente notato, « un piacevo­ le compendio della metropoli»’. Era agli abitanti delle classi inferiori che toccava stare a contatto con la dura brutalità delle zone portuali, piene di taverne e di prosti­ tute sempre pronte ad accogliere i marinai che avevano terminato il viaggio o che stavano per diventare preda de­ gli accaparratori di manodopera o delle squadre di reclu tamento forzato della marina di Sua Maestà. Le navi e il commercio d’oltremare costituivano, come ognuno sa, la linfa vitale dell’Inghilterra, e la marina, la sua arma piu potente. Verso la metà del secolo xvm il paese possedeva circa seimila navi mercantili per una stazza complessiva che si aggirava sul mezzo milione di tonnellate, varie volte il tonnellaggio della marina mercantile francese, che era la sua maggior rivale. Nel 1700 quella flotta rappresentava circa un decimo di tutti gli investimenti di capitale fisso (escluse le proprietà immobiliari), mentre i suoi centomi­ la marinai costituivano probabilmente il gruppo piu nu­ meroso dei lavoratori non agricoli. Nella metà del secolo xvm, il viaggiatore straniero avrebbe probabilmente prestato meno attenzione alle ma­ nifatture e alle miniere, pur conoscendo già bene l’alta qualità (non si parla di buon gusto) del prodotto inglese, e rendendosi anche conto di quanta ingegnosità l’operaio inglese ponesse nel suo lavoro accanito e costante. Gli in­ glesi andavano già famosi per le macchine «che, — nota­ va l’abate Le Blanc, - in effetti moltiplicano gli uomini di­ minuendone il lavoro... Cosi, nelle miniere di carbone di Newcastle, un solo uomo per mezzo di un congegno tanto sorprendente quanto semplice, può sollevare cinquecento

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tonnellate d’acqua all’altezza di centottanta piedi»6. Il motore a vapore, nella sua forma primitiva, esisteva già. Era oggetto di discussione se il talento degli inglesi per l’impiego di invenzioni fosse dovuto alle loro doti inven­ tive o all’abilità di valersi delle invenzioni straniere. For­ se era vero questo, pensava l’acuto osservatore berlinese Wendeborn, che viaggiò in Inghilterra negli anni ’80 del secolo xviii, quando l’industria era già oggetto di vivissi­ mo interesse. Ma anche a lui, come per la maggior parte dei viaggiatori la parola «manufatto» richiamava alla mente soprattutto città come Birmingham, con la sua va­ rietà di piccoli oggetti metallici, Sheffield, con la sua am­ mirevole coltelleria, le ceramiche dello Staffordshire, e l’industria laniera, ampiamente distribuita nelle campa­ gne dell’East Anglia, delle regioni occidentali e dello Yorkshire, ma non le città importanti, a parte Norwich, peraltro ormai in decadenza. Del resto, era questa l’indu­ stria basilare e tradizionale dell’isola. Egli accenna appe­ na al Lancashire, e solo di sfuggita. In realtà, se l’agricoltura e le manifatture erano pro­ spere e in via di sviluppo, esse erano chiaramente, agli oc­ chi degli stranieri, meno importanti del commercio. L’In­ ghilterra, dopo tutto, era «una nazione di bottegai», e il mercante piu dell’industriale era il suo più tipico cittadi­ no. «Bisogna riconoscere, - scriveva l’abate Le Blanc, che i prodotti naturali del paese ammontano tutt’al più a un quarto delle sue ricchezze: il resto lo deve alle sue co­ lonie e all’industria dei suoi abitanti, i quali con il tra­ sporto e lo scambio delle ricchezze di altri paesi, aumenta­ no continuamente le proprie»7. Il commercio britannico costituiva nel mondo settecentesco, un fenomeno degno del massimo interesse. Era al tempo stesso affaristico e bellicoso, come Voltaire osservava negli anni ’20 del se­ colo, quando le sue Lettere inglesi fecero diventare di mo­ da ammirati resoconti stranieri sulle isole britanniche. Ma non basta: esso era strettamente collegato con quel siste­ ma politico, unico nel suo genere, in cui i re erano subor­ dinati al parlamento. Gli storici inglesi ci ricordano giu­ stamente che quel parlamento era controllato da un’oligar­ chia di aristocratici proprietari terrieri più che da quelle

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che non erano ancora chiamate le classi medie. E tuttavia, ancora agli occhi dei continentali, quanto poco aristocra­ tici erano quei nobili! In che modo strano e anche ridico­ lo - pensava l’abate Le Blanc - erano inclini a scimmiot­ tare i loro inferiori! «A Londra i padroni vestono come i loro servitori, e le duchesse imitano le cameriere». Quan­ to lontani erano in spirito dall’ostentazione aristocratica propria delle società realmente nobili: È facile notare che gli inglesi non si sforzano di impres­ sionare, con l’abito o con gli equipaggi; i mobili delle loro case sono semplici quanto potrebbe essere prescritto da leg­ gi suntuarie... e se le tavole degli inglesi non sono notevoli per frugalità, lo sono almeno per la semplicità dei cibi *. L’intero sistema britannico era basato, a differenza di quello di altre nazioni meno dinamiche e certamente me­ no prospere, su un governo che si preoccupava dei biso­ gni di quella che l’abate Coyer chiamava «l’onesta clas­ se media, la parte preziosa delle nazioni»’. «Il commer­ cio, - scriveva Voltaire, - che ha arricchito i cittadini d’In­ ghilterra, ha contribuito a renderli liberi, e la libertà a sua volta ha dato impulso al commercio. Questa è la base del­ la grandezza di quello stato» ”. La Gran Bretagna impressionava quindi il viaggiatore straniero principalmente come un paese ricco, e ricco so­ prattutto grazie al suo commercio e al suo spirito d’inizia­ tiva: come uno stato di potenza formidabile, ma la cui forza si basava sulla marina, un’arma cioè essenzialmen­ te fondata sul commercio e orientata verso i traffici; come uno stato in cui erano straordinariamente presenti la li­ bertà e la tolleranza, cose a loro volta strettamente colle­ gate col commercio e la classe media. E sebbene il paese non brillasse per aristocratiche leggiadrie di vita, spirito e joie de vivre, e fosse incline ad eccentricità religiose e d’al­ tro genere, pure aveva senza dubbio un’economia fra le più fiorenti e progressive, e vantava una parte di spicco nei campi scientifico e letterario, per non parlare di quel­ lo tecnologico. La sua gente comune, insulare, presuntuo­ sa, competente e sempre pronta ai tumulti, appariva ben nutrita e prospera, in base ai modesti livelli allora ritenuti

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accettabili per i poveri. Le sue istituzioni erano stabili, nonostante la grande debolezza dell’apparato destinato a mantenere l’ordine pubblico o a pianificare e amministra­ re gli affari economici. Per quanti desideravano immette­ re i loro paesi sulla strada del progresso economico, costi­ tuiva chiaramente una lezione quel visibile successo di una nazione fondata sostanzialmente sull’iniziativa priva­ ta. «Meditate su questo, - esclamava nel 1799 l’abate Coyer, — voi che sostenete ancora la necessità di un siste­ ma di regolamenti e privilegi esclusivi» “, osservando che perfino le strade e i canali erano costruiti e mantenuti in Inghilterra seguendo il criterio del profitto *. Progresso tecnico ed economico, iniziativa privata e quello che oggi chiameremo liberalismo, erano tutte cose evidenti. Tuttavia, nessuno si aspettava l’imminente tra­ sformazione del paese ad opera di una rivoluzione indu­ striale, neppure i viaggiatori che visitarono la Gran Bre­ tagna nei primi anni ’80 del secolo, allorché, come sappia­ mo, il nuovo corso era già iniziato. Pochi si aspettavano quell’imminente esplosione demografica che doveva por­ tare la popolazione inglese e gallese da sei milioni e mez­ zo circa di abitanti nel 1750, a più di nove milioni nel 1801 e a sedici milioni nel 1841. Verso la metà del secolo xviii, e ancora qualche decennio dopo, si continuava a di­ scutere se la popolazione britannica fosse in aumento o stagnante; alla fine del secolo, Malthus dava già per scon­ tato che aumentava a un ritmo fin troppo rapido. Se ci volgiamo al 1750, vedremo senza dubbio molte cose sfuggite ai contemporanei, non ovvie per loro (o for­ se troppo ovvie per essere rilevate), ma non ci troveremo, sostanzialmente, in disaccordo. Noteremo, per prima co­ sa, che l’Inghilterra (il Galles e gran parte della Scozia continuavano a presentare alcune differenze: si veda il ca­ pitolo 15) costituiva già un’economia monetaria e di mer­ * Non tutti erano d’accordo su questo punto, e specialmente quelli che, come la famosa Madame du Bocage, sentivano dire che la sporcizia di Lon­ dra « era dovuta al fatto che in un paese libero i cittadini si fanno i lastri­ cati come ritengono più opportuno, ciascuno pensando alla parte antistante la propria abitazione». «La libertà, - diceva l’abate Le Blanc, - è a quanto pare la benedizione che impedisce ai cittadini di Londra di avere dei buoni lastricati e una buona politica amministrativa».

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cato su scala nazionale. Una «nazione di bottegai» impli­ ca una nazione di produttori per il mercato, senza contare quella dei clienti. Nelle città, questo stato di cose era ab­ bastanza naturale, perché un’economia chiusa e autosuffi­ ciente è impossibile nelle città che superino una certa am­ piezza, e la Gran Bretagna era, economicamente, tanto fortunata da avere con Londra la piu grande di tutte le cit­ tà occidentali e di conseguenza il piu grande mercato di concentrazione delle merci. A Londra abitava, verso la metà del secolo, circa il 15 per cento della popolazione in­ glese, e la sua insaziabile richiesta di cibo e combustibile andava trasformando l’agricoltura in tutto il Sud e 1’0vest, esigendo regolari rifornimenti per via di terra e lun­ go i corsi d’acqua navigabili fino dalle zone piu remote del Galles e del Nord, e stimolando la produzione nelle mi­ niere di carbone di Newcastle. Già di lieve entità erano le variazioni regionali dei prezzi di generi alimentari non de­ peribili e di facile trasporto, come il formaggio. Ancor piu importante era il fatto che l’Inghilterra non soffriva più le conseguenze peggiori delle economie autosufficienti locali e regionali: le carestie. Abbastanza comune nel continen­ te, non scomparsa dal ricordo nella bassa Scozia, la care­ stia non costituiva più un grave problema in Inghilterra, anche se alcuni cattivi raccolti causarono ancora bruschi rialzi del costo della vita e conseguenti disordini in ampie zone del paese, come avvenne negli anni 1740-41, 1757 e 1767. Quello che già sorprendeva nelle campagne inglesi era l’assenza di una classe di contadini nel senso continentale del termine. Non si trattava soltanto del fatto che lo svi­ luppo di un’economia di mercato aveva scardinato l’auto­ sufficienza locale e regionale e avviluppato anche i villag­ gi in una rete di acquisti e vendite per contanti, anche se questo sviluppo era una cosa di cui ci si rendeva conto an­ che allora. Il consumo crescente di merci interamente im­ portate come il tè, lo zucchero e il tabacco, dà un’idea non soltanto dell’espansione raggiunta dal commercio d’oltremare, ma del grado di commercializzazione cui era pervenuta la vita nelle campagne. Verso la metà del seco­ lo si era arrivati a importare, legalmente, circa 0,6 libbre

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di tè per abitante, ma è da tener presente la considerevole quantità di tè contrabbandato, e già si sapeva che la be­ vanda non era rara nelle campagne fra gli stessi lavoratori agricoli (o, più precisamente, fra le loro mogli e le loro fi­ glie). Gli inglesi, riteneva Wenderborn, consumavano tè in quantità tre volte maggiore rispetto a tutto il resto d’Europa messo insieme. C’era anche il fatto che i piccoli coltivatori diretti, che vivevano essenzialmente del prodotto della loro azienda familiare, stavano diventando molto meno numerosi che in altri paesi, anche se questa diminuzione non aveva toc­ cato l’arretrata frangia celtica e alcune altre aree, soprat­ tutto nel Nord e nell’Ovest. Il secolo seguito alla restau­ razione del 1660 aveva visto una più accentuata concen­ trazione della proprietà terriera nelle mani di una piccola classe di grandi proprietari, e questo a spese sia delle loca­ li classi dirigenti minori, sia dei contadini. Non disponia­ mo di cifre attendibili, ma è chiaro che nel 1750 era già possibile discernere la struttura caratteristica della pro­ prietà terriera inglese: alcune migliaia di proprietari che cedevano la terra ad alcune decine di migliaia di affittuari, i quali provvedevano a lavorarla impiegando alcune cen­ tinaia di migliaia di braccianti agricoli, servi, o piccoli pro­ prietari, che lavoravano per conto d’altri per la maggior parte del tempo. Questo di per sé implicava un sistema sostanziale di redditi e vendite in contanti. Ciò che più conta, parecchie industrie e manifatture della Gran Bretagna, forse la maggior parte, erano di tipo rurale; l’operaio tipico era una sorta di artigiano di villag­ gio o un piccolo proprietario che abitava nel proprio caso­ lare, e che andava sempre più specializzandosi nella mani­ fattura di alcuni prodotti, soprattutto tessuti, calzetteria, e di tutta una gamma di articoli di metallo, sicché si mutò gradatamente da piccolo coltivatore o artigiano in operaio salariato. E in misura crescente i villaggi in cui gli uomini impiegavano i giorni e le stagioni libere tessendo, lavo­ rando a maglia o nelle miniere, tendevano a diventare vil­ laggi industriali di tessitori, calzettai o minatori a tempo pieno, e infine alcuni villaggi, ma naturalmente non tutti, divennero delle città industriali. Ancor più di frequente

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accadeva poi che i piccoli centri di mercato da cui i com­ mercianti partivano per fare incetta di prodotti dei villag­ gi o per distribuire le materie prime e dare in affitto i telai agli abitanti dei casolari divenissero città, piene di officine o manifatture primitive che preparavano (arrivando però talvolta al prodotto finito), i materiali e le merci da distri­ buire a quegli operai sparsi che lavoravano nei casolari e presso i quali il prodotto era poi raccolto. La natura stessa di un simile sistema rurale «domestico» ne causò un’am­ pia diffusione nelle campagne, rafforzando quella rete di transazioni in contanti che andava ricoprendole. Infatti, ogni villaggio che si specializzava nelle attività manifattu­ riere, ogni zona di campagna che diveniva una zona di vil­ laggi industriali (come il Black Country, le regioni mine­ rarie e la maggior parte delle aree dedite all’industria tes­ sile), implicava che qualche altra zona si specializzasse nel vendere alla prima il cibo che questa non produceva più. Questa rapida diffusione dell’industria nelle campagne ebbe due importanti conseguenze collegate fra loro. Fece sorgere nelle classi dei proprietari terrieri politicamente onnipotenti, un diretto interesse per le miniere situate sotto le loro terre (da cui, a differenza di quanto avveniva nel continente, essi, e non il re, ricavavano royalties} e per le manifatture dei loro villaggi. Il forte interesse della no­ biltà e delle classi dirigenti locali per investimenti come canali e strade a pedaggio, era dovuto non semplicemente alla speranza di aprire mercati più ampi per i prodotti agri­ coli locali, ma al previsto vantaggio di ottenere trasporti meno costosi per le manifatture e le miniere locali *. Pe­ raltro, nel 1750, questi miglioramenti ai trasporti interni erano appena incominciati: consorzi per l’apertura di stra­ de a pedaggio venivano formati a un ritmo di meno di die­ ci l’anno (fra il 1750 e il 1770 il ritmo fu di più di qua­ ranta l’anno) e la costruzione di canali quasi non ebbe ini­ zio fino al 1760. La seconda conseguenza fu che gli interessi manifattu­ * Dai canali e dalle strade a pedaggio raramente ci si aspettava di piu che un recupero delle spese, e al massimo un modesto interesse sul ca­ pitale.

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rieri si trovarono già in grado di determinare la politica di governo, a differenza di quanto accadeva nell’altro grande paese commerciale, l’Olanda, dove predominavano netta­ mente gli interessi dei mercanti. E questo, nonostante che le ricchezze e l’influenza di quegli industriali in erba fos­ sero modeste. Fu stimato infatti che nel 1760, la classe piu povera dei «mercanti» guadagnava quanto la classe più ricca dei «maestri m’anifalturieri » (i piu ricchi dei pri­ mi guadagnavano in media tre volte tanto), e che lo strato piu elevato dei «commercianti», gente molto piu mode­ sta, aveva un reddito doppio di quello della categoria equi­ valente dei maestri manifatturieri. Queste cifre sono sol­ tanto orientative, ma indicano quali fossero le posizioni reciproche dell’industria e del commercio nell’opinione dei contemporanei *. Sotto ogni aspetto il commercio, e specialmente quello d’oltremare, appariva piu lucrativo, piti importante e prestigioso dell’attività manifatturiera. Tuttavia, quando si trattò di scegliere fra gli interessi del commercio (che consistevano nella libertà di importare, esportare e riesportare) e quelli dell’industria (che in quel­ la fase consistevano già nel proteggere, come al solito, il * Le cifre (in sterline per anno) erano intorno al 1760:

Mercanti

Famiglie

Reddito

1 000 2 000

600 400 200

IO OOO

Piccoli commercianti

2 500 5 OOO IO OOO

20 OOO 125 OOO Maestri manifatturieri

2 500 5 OOO IO OOO

62 500

400 200 100 70 40 200 100 70 40

A titolo di raffronto si tenga presente che il reddito medio degli avvo­ cati e dei locandieri era valutato in 100 sterline, quello degli agricoltori piu ricchi in 150 sterline, quello dei piccoli coltivatori diretti o dei brac­ cianti in .5 o 6 scellini la settimana.

L’INGHILTERRA NEL 1750

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mercato interno britannico contro quello straniero e nel conquistare il mercato d’esportazione per i prodotti bri­ tannici), fu il produttore interno ad avere la meglio, per­ ché il mercante aveva dalla sua soltanto Londra e alcuni porti, e il manifatturiere gli interessi politici di vaste zone del paese e di buona parte degli organi di governo. La que­ stione fu decisa alla fine del secolo xvii, quando i fabbri­ canti di tessuti, facendo leva sulla tradizionale importanza che avevano per le finanze britanniche i panni di lana, ot­ tennero che fosse proibita l’importazione dei calicò stra­ nieri. Tutto sommato, l’industria britannica potè svilup­ parsi in un mercato interno protetto fino a quando non fu abbastanza forte da pretendere la libera entrata nei mer­ cati di altre nazioni, ossia il «libero scambio». Ma né l’industria né il commercio sarebbero potuti fio­ rire se non fosse stato per quelle straordinarie circostanze politiche che giustamente colpivano gli stranieri. In teo­ ria, l’Inghilterra non era uno stato «borghese»; era un’oli­ garchia di aristocratici proprietari terrieri capeggiati da una classe di pari, chiusa e autoperpetuantesi, formata da circa duecento persone, e costituente un sistema di potenti e ricchi gruppi di parentela sotto l’egida dei capi delle grandi famiglie ducali Whig: i Russel, i Cavendish, i Fitzwilliam, i Pelham e cosi via. Chi poteva competere con co­ storo per ricchezze? (Joseph Massie stimò nel 1760 per dieci famiglie nobili un reddito di 20 000 sterline l’anno, per venti uno di 10 000, e per altre centoventi, redditi di 6000-8000 sterline, vale a dire più di dieci volte quello che secondo le valutazioni era il guadagno della classe più ricca dei mercanti). Chi poteva paragonarsi a quegli aristo­ cratici in fatto di influenza, quando in base al sistema poli­ tico un duca o un conte che lo volessero ottenevano un’al­ ta carica quasi automaticamente, oltre ad essere inevitabil­ mente sostenuti da un blocco di parenti, seguaci e sosteni­ tori in entrambe le camere del parlamento, e quando lo stesso sistema faceva dipendere tutti i diritti politici, an­ che i meno importanti, dal disporre di proprietà terriere che diventavano sempre più diffìcili da acquisire per chi non ne possedeva già? E tuttavia, come gli stranieri scor­ gevano più chiaramente di quanto possiamo fare noi, i



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grandi di Gran Bretagna non costituivano una nobiltà da porre sullo stesso piano delle gerarchie assolutiste e feuda­ li del continente. Essi erano un’élite postrivoluzionaria, gli eredi delle Teste Rotonde, e le loro vite non erano piu improntate agli ideali di onore, valore, eleganza e liberali­ tà, virtù delle aristocrazie feudali e di corte. Uno junker tedesco di media importanza poteva benissimo avere servi e dipendenti domestici in numero maggiore di quelli dello stesso duca di Bedford. I parlamenti e i governi controllati dagli aristocratici inglesi muovevano guerre e concludeva­ no paci in cerca di profitto, colonie e mercati, per imporsi ai concorrenti commerciali. Quando, nel 1745, irruppe in Inghilterra quella vera e propria reliquia di un’epoca tra­ scorsa che era il principe Carlo Edoardo Stuart, il « Gio­ vane Pretendente», col suo esercito di fedeli montanari scozzesi, gente per niente preoccupata di problemi com­ merciali, la differenza tra l’Inghilterra dei Whig, per quan­ to aristocratica, e società più arcaiche, divenne evidente. I grandi signori Whig (anche se lo stesso non era altrettan­ to vero per i gentiluomini di campagna Tory) sapevano be­ nissimo che la potenza del paese, e la loro stessa potenza, si basava sulla sollecitudine a guadagnare danaro con le ar­ mi e il commercio. Ecco perché nel 1750 non erano anco­ ra molti i profitti che si potevano ottenere con l’industria. Quando invece l’industria si impose, gli oligarchi non tro­ varono difficile adeguarsi alla nuova situazione. Ma, provando a collocarci nella Gran Bretagna del 1750 senza beneficiare del senno di poi, avremmo potuto pre­ dire l’imminente rivoluzione industriale? Quasi certa­ mente, no. Saremmo stati colpiti, come i viaggiatori stra­ nieri, dalla natura essenzialmente «borghese», commer­ ciale del paese. Ne avremmo ammirato il dinamismo e il progresso economico, magari l’aggressivo espansionismo, e saremmo potuti rimanere impressionati dai suoi ecletti­ ci e quasi incontrollati imprenditori privati. Avremmo predetto un futuro di crescente prosperità e potenza per il paese, ma ci saremmo aspettata la sua trasformazione e, cosa ancora meno prevedibile, la susseguente trasforma­ zione del mondo intero? Ci saremmo aspettati che in meno v m secolo il figlio di un «maestro manifatturiere»

L’INGHILTERRA NEL I75O

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il quale nel 1750 lasciava le poche terre degli antenati semplicemente per trasferirsi in una cittadina senza im­ portanza del Lancashire, sarebbe diventato primo mini­ stro di Gran Bretagna? Certamente no. Ci saremmo aspet­ tati che la quieta Inghilterra del 1750 sarebbe stata dila­ niata dal radicalismo, dal giacobinismo, dal cartismo e dal socialismo? Guardando indietro, ci rendiamo conto che nessun altro paese era cosi ben preparato per la rivoluzio­ ne industriale. Ma dobbiamo ancora appurare perché es­ sa esplose nelle ultime decadi del secolo xvm, con risul­ tati che, per il meglio o per il peggio, sono diventati irre­ versibili.

1 Cfr. le opere di Cole e Postage, Ashton, Wilson, Deane e Cole elencate in Letture ulteriori, nn. 2 e 3. Cfr. anche i diagrammi 1, 3,11, 15,17, 29, 31,40. 2 Conte Friedrich kielmansegge, Diary of a Journey to England 1761-62, London 1902, p. 18. 3 Monsignor l’Abbe le blanc, Letters on the English and French Nations, London 1747, vol. I, p. 177. 4 A Tour through England, Wales and part of Ireland made dur­ ing the summer of 1791, London 1739, p. 373. 5 Ibid., p. 354. ‘ le blanc, Letters cit., vol. I, p. 48. 7 Ibid., vol. II, p. 345. ’ Ibid., vol. I, p. 18; vol. II, p. 90. ’ Abbé coyer, Nouvelles observations sur l’Angleterre, 1779, p. 1510 voltaire, Lettres philosophiques, Lettera x. 11 Abbé coyer, Nouvelles observations sur l’Angleterre cit., p. 27.

2.

L’origine della rivoluzione industriale1

Il problema dell’origine della rivoluzione industriale già di per sé si prospetta difficile, ma lo diventa ancora di più se non ne chiariamo i termini. Sarà bene quindi co­ minciare con una rapida precisazione. In primo luogo, la rivoluzione industriale non consi­ stette semplicemente in un’accelerazione dello sviluppo economico, ma in un’accelerazione dello sviluppo dovuta alla trasformazione economica e sociale, e conseguita at­ traverso questa. I primi osservatori, che concentrarono la loro attenzione sulle vie qualitativamente nuove di pro­ duzione, cioè le macchine, il sistema delle fabbriche e tut­ to il resto, seguirono un istinto esatto, anche se talvolta con senso critico insufficiente. Non fu Birmingham, che nel 1850 produceva molto di più rispetto al 1750, ma so­ stanzialmente con i vecchi sistemi, a spingere i contem­ poranei a parlare di una rivoluzione industriale, ma Man­ chester, una città che aveva aumentato la produzione ma in un modo più evidentemente rivoluzionario. Verso la fine del Settecento, la trasformazione economica e sociale si verificò nell’ambito di un’economia capitalistica e gra­ zie ad essa. Come sappiamo da ciò che è accaduto nel se­ colo xx, non è questa la sola forma che la rivoluzione in­ dustriale può assumere, anche se fu la prima e probabil­ mente l’unica possibile nel secolo xvm. L’industrializza­ zione capitalistica richiede per certi aspetti un’analisi dif­ ferente da quella impiegata per quella non capitalistica, perché dobbiamo spiegare in che modo la ricerca del pro­ fitto privato portò a una trasformazione tecnologica, quan­ do non è affatto ovvio che ciò avvenga automaticamente.

L’ORIGINE DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

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Sotto altri aspetti, senza dubbio, l’industrializzazione ca­ pitalistica può essere considerata come un caso speciale di un fenomeno piu generale, ma non è chiaro fino a che punto ciò possa essere d’aiuto per lo storico della rivolu­ zione industriale britannica. In secondo luogo, la rivoluzione industriale inglese fu la prima della storia. Questo non significa che si sia par­ titi da zero, o che non possano essere rintracciate fasi precedenti di un rapido sviluppo industriale e tecnologi­ co. Nondimeno, nessuna di esse diede inizio alla fase ca­ ratteristica della storia moderna, quella di uno sviluppo economico che si perpetua grazie a una rivoluzione tec­ nologica e a una trasformazione sociale continue. Essendo stata la prima, è stata anche, sotto aspetti sostanziali, dif­ ferente da tutte le rivoluzioni sociali successive. Non può essere spiegata in primo luogo o in parte, con fattori ester­ ni come, ad esempio, l’imitazione di tecniche più avanza­ te, l’importazione di capitali, l’influsso di un’economia mondiale già industrializzata. Le rivoluzioni che seguiro­ no poterono valersi dell’esperienza, dell’esempio e delle risorse inglesi. L’Inghilterra potè avvantaggiarsi molto limitatamente di quello che era stato fatto in altri paesi. Nello stesso tempo, come abbiamo visto, la rivoluzione inglese fu preceduta da almeno due secoli di sviluppo eco­ nomico discretamente continuo, che ne gettarono le ba­ si. A differenza, ad esempio, della Russia dei secoli xix e xx, la Gran Bretagna entrò nella fase dell’industrializza­ zione ben preparata, e non virtualmente impreparata. Comunque, la rivoluzione industriale non può essere spiegata in termini puramente inglesi, perché la Gran Bretagna costituì una parte di un’economia più ampia che possiamo chiamare 1’«economia europea» o 1’«economia mondiale degli stati marittimi europei». Il paese fu solo una parte di una rete più ampia di relazioni economiche, che includeva varie aree «sviluppate», alcune delle quali erano anche aree d’industrializzazione potenziale o am­ bita, ma includeva anche aree di «economia dipendente», oltreché margini di economie straniere non ancora so­ stanzialmente connesse con l’Europa. Queste economie dipendenti erano date in parte da vere e proprie colonie

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(come nelle Americhe) o da ristrette zone commerciali e d’importanza strategica (come in Oriente), e in parte da regioni che erano fino a un certo grado specializzate eco­ nomicamente nel sopperire alle richieste di aree «svilup­ pate» (come in alcune parti dell’Europa orientale). Il mondo sviluppato era collegato con il mondo dipendente grazie a una certa suddivisione dell’attività economica: da una parte un’area relativamente urbanizzata, dall’altra zo­ ne che producevano e largamente esportavano prodotti agricoli o materie prime. Queste relazioni possono essere definite come un sistema di flussi economici: di attività commerciali, di pagamenti internazionali, di trasferimen­ ti di capitali, di migrazioni, e cosi via. L’« economia euro­ pea» aveva mostrato chiari segni di espansione e svilup­ po dinamico per piu secoli, anche se aveva subito gravi ro­ vesci e aveva mostrato notevoli spostamenti, particolar­ mente nel periodo dal secolo xiv al xv e nel secolo xvn. Tuttavia è importante rilevare che essa tese a dividersi, almeno a partire dal secolo xvi, in unità politico-economi­ che (stati territoriali) indipendenti e in concorrenza fra di loro, come ad esempio l’Inghilterra e la Francia, cia­ scuno con una struttura economica e sociale sua propria, e ciascuna avente regioni e settori progrediti, e dipenden­ ti o arretrati. Fin dal secolo xvi era diventato abbastanza ovvio che se si fosse verificata una rivoluzione industria­ le, questa non avrebbe potuto attuarsi che nell’ambito di un sistema economico europeo. Il motivo non può esse­ re discusso qui, perché la questione si riferisce a un pe­ riodo storico precedente quello di cui si occupa questo li­ bro. Comunque, non era stabilito quale delle unità in con­ correnza sarebbe stata la prima a industrializzarsi. Il pro­ blema delle origini delle rivoluzioni industriali che ci ri­ guarda in questa sede è, essenzialmente, perché sia stata la Gran Bretagna a diventare la prima « officina del mon­ do». Una seconda questione collegata a questa è perché questo sconvolgimento sia avvenuto verso la fine del se­ colo xviii, e non prima o dopo. Prima di dare una risposta, che rimane comunque un elemento dibattuto e incerto, potrà essere utile eliminare un certo numero di spiegazioni o pseudospiegazioni che

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sono state accettate per lungo tempo e sono talvolta an­ cora sostenute. La maggior parte di esse lasciano punti oscuri più numerosi di quelli che illuminino. Questo può dirsi per le teorie che tentano di spiegare la rivoluzione industriale in termini di clima, di geogra­ fia, di mutamenti biologici nella popolazione, o di altri fattori eterogenei. Se, per fare un esempio, l’impulso al­ la rivoluzione fu dato, come è stato sostenuto, dallo stra­ ordinario periodo di buoni raccolti che si ebbe nella pri­ ma parte del secolo xvm, resta da spiegare perché perio­ di simili verificatisi precedentemente in varie epoche del­ la storia non abbiano portato a conseguenze analoghe. Se le ampie riserve di carbone della Gran Bretagna potesse­ ro spiegarne la priorità, ci si dovrebbe chiedere perché le sue disponibilità relativamente esigue per quel che riguar­ da la maggior parte di altre materie prime industriali (per esempio, il minerale di ferro) non abbiano invece costi­ tuito un ostacolo, oppure perché le grandi miniere di car­ bone della Slesia non abbiano provocato uno sviluppo in­ dustriale altrettanto precoce. Se il clima umido del Lan­ cashire dovesse poi spiegare la concentrazione dell’indu­ stria cotoniera in quella regione, dovremmo pur chiederci perché altre zone ugualmente umide delle isole britanni­ che non abbiano attratto o conservato la stessa industria. E cosi via. I fattori climatici, la geografia, la distribuzio­ ne delle risorse naturali non operano già in modo indipen­ dente, ma solo nell’ambito di una data struttura economi­ ca, sociale e istituzionale. Questo vale anche per i più im­ portanti di tali fattori, come l’accesso al mare o ai fiumi navigabili, vale a dire la disponibilità della meno costosa e più utilizzabile forma di trasporto, anzi la sola veramen­ te economica dell’età preindustriale per quanto riguarda le merci ingombranti. È quasi inconcepibile che una re­ gione senza nessuno sbocco al mare potesse avere iniziato la moderna rivoluzione industriale, anche se regioni del genere sono più rare di quanto si pensi. Tuttavia, anche i fattori non geografici vanno tenuti presenti: le Ebridi hanno più sbocchi al mare che la maggior parte dello Yorkshire. Il problema della popolazione è in qualche modo diffe-

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rente, perché i suoi movimenti possono essere spiegati in base a fattori eterogenei, ai mutamenti che si verificano nella società umana, o a una combinazione dei primi e dei secondi. Ce ne occuperemo in seguito. Qui notiamo sol­ tanto che le spiegazioni che si riallacciano a elementi pu­ ramente esogeni non incontrano attualmente molto fa­ vore fra gli storici, e non sono accettate in questo libro. Da rifiutare sono anche le spiegazioni della rivoluzione industriale in base ad «accidenti storici». Di per sé sole, le scoperte di territori d’oltremare nei secoli xv e xvi non spiegano l’industrializzazione, cosi come non la spiega la «rivoluzione scientifica» del secolo xvn *. E del resto, in base a questi elementi non risulta perché la rivoluzione industriale si sia verificata alla fine del secolo xvm e non, per esempio, alla fine del xvu, quando in Europa sia la conoscenza del mondo esterno sia la tecnologia scientifi­ ca erano potenzialmente del tutto adeguate per quel tipo di industrializzazione che si sviluppò piu tardi. La rivo­ luzione industriale non può nemmeno essere attribuita alla riforma protestante, direttamente o tramite qualche speciale «spirito capitalistico» o qualche cambiamento nell’atteggiamento economico dovuto al protestantesimo, e inoltre la riforma protestante non è sufficiente a spie­ gare perché la rivoluzione industriale si sia avuta in Gran Bretagna e non in Francia. La riforma avvenne piu di due secoli prima della rivoluzione industriale, e non si può certo dire che tutte le regioni convertitesi al protestante­ simo siano diventate delle pioniere della rivoluzione in­ dustriale: tanto per fare un esempio ovvio, le regioni dei Paesi Bassi che rimasero cattoliche (Belgio) si indu­ strializzarono prima di quelle che divennero protestanti . ** (Olanda) Infine, vanno respinti i fattori puramente politici. Nel­ la seconda metà del secolo xvm, praticamente tutti i go* È irrilevante, ai nostri fini, se tali avvenimenti siano stati puramente fortuiti o se siano stati, come è molto piu probabile, il risultato di prece­ denti sviluppi economici e sociali europei. ** Inoltre, la teoria secondo cui lo sviluppo economico francese nel se­ colo xvm sarebbe stato gravemente danneggiato dall’espulsione dei prote­ stanti avvenuta alla fine del secolo precedente, non è ampiamente accettata o, quanto meno, è molto discutibile.

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verni d’Europa perseguivano ¡’industrializzazione, ma sol­ tanto gli inglesi riuscirono nell’intento. D’altro canto, i governi britannici dal 1660 in poi seguirono fermamen­ te politiche che favorivano, a preferenza di ogni altro scopo, il conseguimento di profitti, ma la rivoluzione in­ dustriale non si verificò prima che trascorressero cento anni. Rifiutare questi fattori come spiegazioni semplici, esclu­ sive, o anche soltanto primarie, non significa, natural­ mente, negare loro qualsiasi importanza. Questo sarebbe sciocco. Si tratta soltanto di stabilire delle graduatorie di importanza, e di chiarire incidentalmente alcuni problemi che incontrano i paesi i quali iniziano l’industrializzazione al giorno d’oggi, almeno nella misura in cui questi proble­ mi sono suscettibili di una comparazione.

Le condizioni di base perché si verificasse l’industrializ­ zazione esistevano già nella Gran Bretagna del secolo xviii, o si poté facilmente fare in modo che si verificasse­ ro. In base ai criteri di valutazione che oggi si applicano ai paesi «sottosviluppati», l’Inghilterra non era un paese sottosviluppato, anche se certamente lo erano parti della Scozia e del Galles, e ¡’Irlanda. I legami economici, so­ ciali e ideologici che immobilizzavano la maggior parte delle popolazioni preindustriali in situazioni e occupazioni tradizionali erano deboli e potevano facilmente essere re­ scissi. Per fare l’esempio più ovvio, è dubbio, come abbia­ mo visto precedentemente, che continuasse ad esistere nel 1750 una classe di contadini proprietari in ampie zone del­ l’Inghilterra, ed è certo che era stata superata la fase del­ l’agricoltura di sussistenza *. Non sussistevano dunque seri ostacoli al trasferimento di uomini da attività non industriali a industriali. Il paese aveva accumulato capitali ed era di una ampiezza suffi­ ciente a permettere investimenti nelle attrezzature neces­ sarie per una trasformazione economica, peraltro non mol­ to costose, prima delle ferrovie. Buona parte dei capitali * Quando gli scrittori della prima metà del secolo xix parlavano di «classe contadina» essi tendevano a significare «braccianti agricoli».

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era concentrata nelle mani di uomini disposti a investire nel progresso economico, mentre relativamente scarsi era­ no quelli in mano di persone disposti a investire le risorse in altri usi, economicamente meno auspicabili, come il mero lusso. Non vi era scarsità di capitali, né relativa né assoluta. Il paese non costituiva semplicemente un’econo­ mia di mercato (un’economia, cioè, in cui il grosso dei beni e dei servizi sono comperati e venduti agendo fuori del­ l’ambito familiare) ma sotto molti aspetti formava un uni­ co mercato nazionale. Possedeva inoltre un esteso e abba­ stanza sviluppato settore manifatturiero, e un apparato commerciale altamente sviluppato. Ciò che piu importa, alcuni seri problemi che si presen­ tano nei moderni paesi sottosviluppati e agli inizi del pro­ cesso di industrializzazione, avevano scarsa importanza nella Gran Bretagna del secolo xviii. Come abbiamo visto, i trasporti e le comunicazioni erano facili e a buon mer­ cato, dato che nessuna parte delle isole britanniche dista piu di centodieci chilometri dal mare, e la distanza rispet­ to a una qualche via d’acqua navigabile è ancora inferiore. I problemi tecnologici dei primi tempi della rivoluzione industriale erano piuttosto semplici. Per risolverli, non era necessaria una classe di persone con una formazione scientifica specializzata, ma semplicemente della gente che sapesse leggere e scrivere, cui fossero familiari congegni meccanici semplici e la lavorazione dei metalli, e che aves­ se esperienza pratica e spirito d’iniziativa. I secoli seguiti al 1500 avevano certamente dato vita a una simile classe di persone. Alla maggior parte delle invenzioni tecniche e delle installazioni produttive si potè dare l’avvio econo­ micamente su piccola scala, con una espansione tranquilla mediante aggiunte successive. Ossia, si trattò di inizia­ tive che richiesero scarsi investimenti iniziali, e la loro espansione potè essere finanziata con i profitti accumulati. Lo sviluppo industriale rientrava nell’ambito della capa­ cità di parecchi piccoli imprenditori e abili artigiani tradi­ zionali. Nessun paese del secolo xx che inizi l’industrializ­ zazione dispone, né potrebbe disporre, di vantaggi ana­ loghi. Questo non significa che non vi fossero ostacoli sulla

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via dell’industrializzazione britannica, ma soltanto che erano facili da superare perché le condizioni fondamentali sociali ed economiche dell’industrializzazione preesisteva­ no; perché il tipo di industrializzazione del secolo xvm era relativamente poco costoso e semplice e perché il pae­ se era abbastanza ricco e fiorente per non essere angustiato da insufficienze che avrebbero potuto mettere in ginoc­ chio economie meno fortunate. Forse soltanto un paese industriale fortunato come la Gran Bretagna potè permet­ tersi quella sfiducia verso la logica e la pianificazione (an­ che privata), quella fiducia nella capacità di cavarsela alla meno peggio, che divennero caratteristiche della Gran Bretagna del secolo xix. Vedremo in seguito come furono superate alcune delle difficoltà di sviluppo. La cosa impor­ tante da rilevare subito è che esse non ebbero mai un’im­ portanza cruciale. Il problema riguardante l’origine della rivoluzione in­ dustriale e di cui ci occupiamo qui, non è dunque quello di scoprire in che modo sia stato accumulato il materiale per l’esplosione economica, ma come abbia preso fuoco; inoltre, è quello di sapere come si impedì che la prima esplosione non concludesse nulla dopo un impressionante botto iniziale. Ma fu veramente necessario un meccanismo speciale? Non era forse inevitabile che un periodo, suffi­ cientemente lungo, di accumulazione di capitale esplosivo, avrebbe prima o poi, in qualche modo, in qualche luogo, prodotto una combustione spontanea? Forse è proprio cosi. Nondimeno, sono il «qualche modo» e il «qualche luogo» a dover essere spiegati, e questo tanto più in quan­ to un’economia basata sull’iniziativa privata che porti a una rivoluzione industriale fa sorgere parecchi interrogati­ vi. Noi sappiamo che l’iniziativa privata portò alla rivolu­ zione in alcune parti del mondo; ma sappiamo anche che in altre parti non sorti lo stesso effetto, e che impiegò pa­ recchio tempo prima di raggiungerlo anche nell’Europa occidentale. L’interrogativo principale è quello della relazione tra il conseguimento di profitti e l’innovazione tecnologica. Si presume spesso che un’economia basata sull’iniziativa in­ dividuale mostri una tendenza automatica verso l’innova-

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zione, ma non è cosi. Essa mostra spesso soltanto una ten­ denza verso il profitto. Sarà capace di rivoluzionare l’atti­ vità manufatturiera solo se sono le innovazioni a permet­ tere i profitti maggiori. Ma nelle società preindustriali le cose non stanno quasi mai in questo modo. Il mercato di­ sponibile e quello cui occorre indirizzarsi (non si dimen­ tichi che è il mercato a stabilire quello che un imprendi­ tore produce), è dato dai ricchi, che domandano merci di lusso, che presentano un alto margine unitario di profitto pur essendo vendute in piccole quantità, e dai poveri, che, se partecipano all’economia di mercato e non producono i loro beni di consumo all’interno della famiglia o localmen­ te, hanno poco denaro, non sono abituati alle novità e ne sono sospettosi, sono maldisposti verso il consumo di mer­ ci standardizzate, e talvolta non sono concentrati in città e raggiungibili dalle manifatture nazionali. Inoltre, il mer­ cato di massa difficilmente ha un incremento più rapido del tasso d’accrescimento demografico, relativamente bas­ so. Sarà più consigliabile vestire principesse con modelli di haute-couture che puntare sulle probabilità di trovare fra le figlie di contadini delle acquirenti di calze di seta artifi­ ciale. L’imprenditore di buon senso, se ha modo di sce­ gliere, produrrà costosissimi orologi ingioiellati per aristo­ cratici piuttosto che orologi da polso a buon mercato, e più sarà costosa l’iniziativa di lanciare merci rivoluzionarie a buon mercato, più esiterà a rischiare il suo denaro. Un milionario francese del secolo xix, operante in un paese in cui le condizioni necessarie per l’industria moderna era­ no relativamente misere, espresse questo concetto in mo­ do ammirevole: «Ci sono tre modi per perdere il proprio denaro, — disse il grande Rothschild, — le donne, il gioco d’azzardo e gli ingegneri. I primi due sono più piacevoli, ma il terzo è di gran lunga più sicuro»2. Nessuno poteva accusare Rothschild di non conoscere il modo migliore per accumulare i profitti più alti. In un paese non industrializ­ zato la via migliore non era data dall’industria. L’industrializzazione cambia tutto questo consentendo alla produzione, entro certi limiti, di espandere i propri mercati, anche se non arriva a crearli. Quando Henry Ford produsse il suo modello T, produsse anche quello che pri­

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ma non esisteva, cioè un gran numero di clienti per un’au­ tomobile a buon mercato, semplice e standardizzata. Na­ turalmente, la sua iniziativa non era più cosi cinicamente speculativa come sembrava. Un secolo di industrializzazio­ ne aveva già dimostrato che la produzione di massa di merci a basso costo può moltiplicarne i mercati, aveva abi­ tuato gli uomini a comperare beni migliori di quelli che i loro padri avevano comperato, e a scoprire bisogni che i loro padri non avevano sognato. Il punto essenziale è che prima della rivoluzione industriale o nei paesi che non era­ no ancora stati trasformati, Henry Ford non sarebbe stato un pioniere economico, ma un matto che desiderava anda­ re in fallimento. In che modo dunque si verificarono nella Gran Breta­ gna del secolo xvm le condizioni che indussero gli uomini d’affari a rivoluzionare la produzione? Come arrivarono gli imprenditori a scorgere la prospettiva non della mo­ desta anche se solida espansione della domanda (che po­ teva essere soddisfatta nella maniera tradizionale o me­ diante una estensione e un miglioramento di poco conto dei vecchi metodi) ma della rapida e illimitata espansione che avrebbe portato a una rivoluzione? Certo, si trattava di una rivoluzione piccola, semplice e poco costosa se­ condo i nostri livelli, ma era pur sempre una rivoluzione, un salto nel buio. Due sono a questo proposito le scuole di pensiero. Una attribuisce l’importanza maggiore al mer­ cato interno, che chiaramente costituiva di gran lunga lo sbocco più ampio per i prodotti del paese; l’altra, inve­ ce, al mercato straniero o d’esportazione che era, non me­ no chiaramente, di gran lunga più dinamico e capace di espandersi. La risposta giusta è probabilmente che en­ trambi furono essenziali in modo differente, al pari di un terzo fattore spesso trascurato: il governo. Il mercato interno, ampio e in espansione com’era, po­ teva espandersi soltanto lungo quattro direttrici principa­ li, tre delle quali non avevano probabilità di consentire una grande rapidità. Poteva aversi un incremento demo­ grafico, cosa che crea un maggior numero di consumatori (e, naturalmente, di produttori); un trasferimento di po­ polazione da redditi non monetari a monetari, il che crea 3

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un maggior numero di acquirenti; e una sostituzione di merci prodotte industrialmente al posto di piu vecchie for­ me di manufatti o merci importate. La questione della popolazione è cosi importante che in anni recenti è stata oggetto di ampie e positive ricerche; pertanto occorrerà a questo punto discuterla, sia pure bre­ vemente. Essa solleva tre altre questioni di cui soltanto la terza è direttamente rilevante per il problema dell’espan­ sione del mercato, ma che sono tutte importanti per il pro­ blema più generale dello sviluppo economico e sociale bri­ tannico. Esse sono: i) Che cosa accadde alla popolazione britannica, e perché? 2) Quali effetti questi mutamenti nella popolazione ebbero sull’economia? 3) Quali effetti essi ebbero sulla composizione del popolo britannico? Manchiamo pressoché completamente di attendibili mi­ surazioni della popolazione britannica prima del 1840, cir­ ca, allorché fu introdotta la registrazione pubblica delle nascite e delle morti, ma il suo movimento generale non è materia molto controversa. Fra la fine del secolo xvu, quando gli abitanti dell’Inghilterra e del Galles erano in­ torno a 5 250 000, e la metà del secolo xvm, l’incremento demografico fu molto lento, e può essere successo che in certi periodi la popolazione non sia aumentata o sia dimi­ nuita. Dopo gli anni ’40 del secolo xvm essa aumentò con­ siderevolmente, e secondo i livelli contemporanei, anche se non in base a quelli attuali, molto rapidamente dagli anni ’70 *. Si raddoppiò in cinquanta-sessant’anni dopo il 1780, e di nuovo nei sessant’anni dal 1841 al 1901, anche se i tassi sia delle nascite sia delle morti calarono rapida­ mente a partire dagli anni ’70 del secolo xix. Comunque, queste cifre globali nascondono variazioni cronologiche e regionali notevolissime. Cosi, per esempio, mentre nella prima metà del secolo xvm e ancora fino al 1780, l’area di Londra sarebbe rimasta spopolata se non fosse stato per la massiccia immigrazione dalle campagne, il futuro cen­ tro dell’industrializzazione, cioè il Nord-Ovest e le Mid­ lands, mostravano già un rapido incremento demografi­ co. Dopo che la rivoluzione industriale ebbe avuto real* Nel 1965, la popolazione del continente a più alto sviluppo demogra­ fico, l’America latina, aumentava a un ritmo poco meno che doppio.

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mente inizio, i tassi di incremento naturale (anche se non quelli di migrazione) tesero a diventare simili, nelle re­ gioni maggiori, con l’eccezione del terribile circondario di Londra. È indubbio che questi movimenti non furono molto in­ fluenzati, prima del secolo xix, dalle migrazioni interna­ zionali, neppure da quella irlandese. Furono essi dovuti a variazioni nei tassi di natalità e di mortalità? E quali fu­ rono le cause di tali variazioni? A parte la insufficienza delle informazioni di cui disponiamo, tali questioni, pur essendo di grande interesse, sono straordinariamente com­ plicate *. Esse ci riguardano in questa sede solo nella mi­ sura in cui ci aiutano a stabilire fino a che punto l’aumen­ to della popolazione sia stato una causa e fino a che punto una conseguenza di fattori economici: a stabilire, per esempio, i) di quanto i matrimoni e il concepimento di figli fossero affrettati dalle aumentate possibilità di otte­ nere un pezzo di terra o un lavoro oppure, come è stato so­ stenuto, dalla domanda di lavoro minorile; 2) fino a che punto la mortalità sia diminuita perché la gente si nutriva meglio o più regolarmente, oppure perché si erano avuti miglioramenti ambientali. (Poiché uno dei pochi fatti che conosciamo con certezza è che il declino nei tassi di mor­ talità fu dovuto al numero minore di neonati, bambini e forse adulti giovani che morivano piuttosto che a un reale prolungamento della vita oltre il periodo biblico di settant’anni ** , tale declino potrebbe aver comportato un tas­ so di natalità più alto. Per esempio, se è minore il nume­ ro di donne che muoiono prima dei trent’anni, aumentano quelle che potrebbero avere dei figli fra l’età dei trent’anni e la menopausa). Come al solito, non siamo in grado di rispondere a que­ ste domande con certezza. È indubbio che in fatto di ma­ trimoni e di procreazione la gente dipendeva da fattori economici, più di quanto è stato talvolta supposto, e che * Per una guida a questi problemi, cfr. d. v. glass e e. grebenik, World Population 1800-1950, in Cambridge Economie History of Europe, VI, 1, pp. 60-138. ** Le cose stanno ancora cosi. Molta gente supera quel periodo, ma i vecchi, in complesso, non vivono piu a lungo che in passato.



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alcuni mutamenti sociali (per esempio il declino dell’u­ sanza per cui gli operai formavano tutta una famiglia con i datori di lavoro), deve aver incoraggiato e magari impo­ sto una formazione di famiglie più precoci e più ampie. È anche chiaro che un’economia familiare la quale possa es­ sere fatta quadrare soltanto col lavoro di tutti i suoi mem­ bri, e inoltre le forze di produzione che si valevano sul la­ voro minorile, erano cose tendenti a favorire l’incremento demografico. Indubbiamente, i contemporanei considera­ vano la popolazione come qualcosa che reagiva a muta­ menti nella domanda di manodopera, e probabilmente il tasso di natalità aumentò fra gli anni ’70 e ’80 del secolo xviii, anche se forse non si elevò sostanzialmente dopo quel periodo. Quanto alla mortalità, i progressi della me­ dicina (con l’eccezione forse dell’immunizzazione contro il vaiolo) quasi certamente non svolsero un ruolo importan­ te nella sua riduzione fino a dopo la metà del secolo xix, cosicché le variazioni dei tassi di mortalità devono essere dipesi in gran parte da mutamenti economici, sociali, o am­ bientali. Tuttavia non sembra che il tasso di mortalità sia declinato nettamente fin verso la fine del secolo xix. At­ tualmente non è possibile andar molto oltre queste genera­ lizzazioni senza addentrarsi in un campo di battaglia acca­ demico, oscurato dalla nebbia di una disputa dottissima. Quali furono gli effetti economici di questi mutamenti? Più gente significa più manodopera e manodopera più a buon mercato, e si è spesso supposto che ciò costituisca di per sé uno stimolo allo sviluppo economico, almeno in un’economia capitalistica. Ma, come oggi si nota spesso in molti paesi sottosviluppati, le cose non stanno cosi. Una popolazione numerosa può anche causare semplicemente uno stato di indigenza e stagnazione o addirittura delle ca­ tastrofi, come avvenne in Irlanda e nelle montagne scoz­ zesi nella prima parte del secolo xix (cfr. p. 346). La ma­ nodopera a buon mercato può in effetti ritardare l’indu­ strializzazione. Se nell’Inghilterra del secolo xviii una ma­ nodopera in aumento favori, come accadde indubbiamen­ te, lo sviluppo economico, ciò avvenne perché l’economia era già dinamica, e non perché qualche influsso demogra­ fico esterno la rese tale. In ogni caso, la popolazione au-

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mento rapidamente in tutta l’Europa, ma l’industrializza­ zione non si ebbe dappertutto. D’altro canto, piu gente si­ gnifica senza alcun dubbio più consumatori, ed è stato so­ stenuto, certo non a torto, che una popolazione più nu­ merosa stimola sia l’agricoltura (perché bisogna nutrire quelle bocche) sia l’attività manifatturiera. Ma, come abbiamo visto, la popolazione nazionale au­ mentò soltanto gradualmente nei cento anni precedenti il 1750, e un rapido aumento si ebbe con la rivoluzione indu­ striale (salvo in qualche località) ma non prima. Se l’In­ ghilterra avesse avuto un’economia meno sviluppata, avrebbe potuto esservi, ad esempio, uno spazio maggiore per improvvisi e ampi spostamenti di persone da un’eco­ nomia di sussistenza a un’economia di mercato o da una economia domestica e artigiana a una di mercato. Ma, co­ me abbiamo visto, l’Inghilterra era già un’economia di mercato, con un settore manifatturiero ampio e in espan­ sione. Il reddito medio inglese aumentò probabilmente in modo sostanziale nella prima metà del secolo xvm, grazie a una popolazione stagnante e alla scarsità di manodo­ pera, cosicché quel periodo è felicemente definito nella canzone del vicario di Bray come il «periodo della torta». La gente era più ricca e poteva spendere di più, c’era pro­ babilmente in quell’epoca una minore percentuale di bam­ bini (che deviano nettamente le spese dei genitori poveri verso l’acquisto di beni di prima necessità) e una percen­ tuale maggiore di giovani adulti appartenenti a famiglie poco numerose (che hanno redditi da risparmiare). È molto probabile che in quel periodo molti inglesi abbiano imparato a « coltivare nuovi bisogni e a stabilire nuovi li­ velli di ambizioni» e qualcosa fa pensare che intorno al 1750 essi cominciarono a preferire di destinare il surplus produttivo più a beni di consumo che al riposo e allo sva­ go. Tuttavia quell’aumento di produzione faceva pensare più al movimento di un fiume di discreta portata che agli scrosci dell’acqua di una cascata. Esso spiega perché tante città inglesi furono ricostruite (senza rivoluzioni tecnolo­ giche) con un’eleganza rurale di stampo classico, ma non basta a spiegare perché si sia avuta una rivoluzione indu­ striale.

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Con l’eccezione, forse, di tre casi particolari: trasporti, cibo e materie prime (in particolare il carbone). Miglioramenti molto importanti e costosi in fatto di tra­ sporti interni - sui fiumi, sui canali e anche nella rete stra­ dale - furono attuati fin dagli inizi del secolo xvm al fine di diminuire i proibitivi costi dei trasporti di merci nella terraferma: verso la metà del secolo, venti miglia di tra­ sporto per via di terra potevano raddoppiare il costo di una tonnellata di merci. È difficile stabilire quanto impor­ tanti siano stati questi miglioramenti per lo sviluppo del­ l’industria, ma non v’è dubbio che essi furono dovuti al mercato interno, e più particolarmente alla sempre mag­ gior richiesta di generi alimentari e di combustibile da par­ te dei centri urbani. I manufalturieri di merci casalinghe delle Midlands occidentali (produttori di terraglie nello Staffordshire, di vari prodotti metallici nella zona di Bir­ mingham), non disponendo di uno sbocco al mare, preme­ vano anch’essi per avere trasporti meno costosi. Le diffe­ renze nei costi di trasporto erano cosi nette che forti inve­ stimenti erano chiaramente consigliabili. Lo scavo di ca­ nali fece diminuire dell’8o per cento i costi dei trasporti per tonnellata fra Liverpool e Manchester o Birmingham. Le industrie alimentari sono in concorrenza con quelle tessili come battistrada dell’industrializzazione basata sul­ l’iniziativa privata, perché esiste indubbiamente per en­ trambe sempre e in ogni tempo (almeno nelle città) un va­ sto mercato che aspetta soltanto di essere sfruttato. An­ che il meno immaginoso degli uomini d’affari si rende con­ to che ogni uomo, per quanto povero, mangia, beve e si veste. La domanda di cibi e bevande manufatte, con l’ec­ cezione di generi come la farina e le bevande alcooliche, che sono prodotti nell’ambito familiare solo in economie piuttosto primitive è senz’altro più limitata di quella dei tessili, ma d’altro canto i prodotti alimentari risentono molto meno che i tessili della concorrenza straniera. La loro industrializzazione tende dunque a svolgere un ruolo ben più importante nei paesi sottosviluppati che in quelli progrediti. E tuttavia, la macinazione del grano e la fer­ mentazione della birra svolsero un importante ruolo pio­ nieristico nella rivoluzione tecnologica anche in Gran Bre­

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tagna, pur se attirano l’attenzione dell’economista meno dei prodotti tessili perché piu che trasformare l’economia circostante, spiccano anzitutto come giganteschi monu­ menti moderni all’interno di un’economia, cosi come av­ venne a Dublino per la fabbrica di birra Guinness e per i famosi mulini a vapore di Londra, che tanto impressiona­ rono il poeta William Blake. Piu ampia era la città (e Londra era di gran lunga la piu grande città dell’Europa occidentale), e maggiore era la possibilità che l’urbanizza­ zione fosse rapida, e piu grande era la portata dei nuovi sviluppi. Non fu l’invenzione del manico sui bicchieri di birra, noto a ogni bevitore di Gran Bretagna, uno dei gran­ di trionfi di Henry Maudslay, grande pioniere della tec­ nica? Il mercato interno forni anche un importante sbocco per quelle che in seguito divennero le materie prime. Il carbone crebbe d’importanza quasi in relazione diretta col numero dei caminetti dei centri urbani e specialmente di Londra; il ferro, anche se in misura assai minore, riflette la domanda di pentole, padelle, chiodi, stufe, e oggetti si­ mili. Dato che le quantità di carbone bruciato nelle case britanniche superavano il fabbisogno familiare di ferro (in parte a causa dell’inefficienza del caminetto inglese ri­ spetto alla stufa continentale), la base preindustriale del­ l’industria carbonifera risultò molto più salda di quella dell’industria del ferro. Già prima della rivoluzione indu­ striale la sua produzione poteva essere misurata in milioni di tonnellate, e fu la prima merce per cui fossero applica­ bili certe cifre astronomiche. I motori a vapore furono un prodotto delle miniere: nel 1769, cento «motori atmo­ sferici» erano già stati costruiti attorno a Newcastle-onTyne, e cinquantasette erano in attività. (Comunque, i motori più moderni, del tipo James Watt, che costitui­ rono realmente la base della tecnologia industriale, con­ quistarono le miniere solo lentamente). D’altra parte, il consumo totale britannico di ferro era nel 1720 inferiore a 50 000 tonnellate, e ancora nel 1788, quando era già in corso la rivoluzione industriale, non po­ teva superare di molto le 100 000 tonnellate. La doman­ da d’acciaio era trascurabile, col prezzo che aveva allora

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quel metallo. Il mercato civile più importante che s’of­ friva al ferro era probabilmente ancora quello agricolo (aratri e altri attrezzi, ferri da cavallo, cerchioni per ruote e cosi via), che si ampliò di parecchio, ma senza diventare ancora abbastanza grande da dare inizio a una trasforma­ zione industriale. In effetti, come vedremo, una vera rivo­ luzione industriale nel campo del ferro e dell’acciaio do­ vette aspettare fino a quando l’era della ferrovia provvide un mercato di massa non solo per i beni di consumo ma anche per le materie prime. Il mercato interno preindu­ striale, e la stessa prima fase dell’industrializzazione, non giunsero a tanto. I vantaggi principali del mercato interno preindustriale furono quindi la sua grande ampiezza e la sua stabilità. Esso non avrà contribuito sostanzialmente alla rivoluzione industriale, ma indubbiamente favori lo sviluppo econo­ mico e, ciò che più conta, fu sempre pronto a proteggere le industrie esportatrici, più dinamiche, contro le fluttua­ zioni e i collassi che erano il prezzo pagato per il loro supe­ riore dinamismo. Esso venne in loro aiuto negli anni ’80 del secolo xviii, quando la guerra e la rivoluzione ameri­ cana le sconquassarono e ancora, probabilmente, dopo le guerre napoleoniche. Ma, cosa più importante, il mercato interno forni gli elementi di fondo per una economia indu­ striale generalizzata. Se l’Inghilterra pensava l’indomani quello che Manchester aveva pensato il giorno prima, que­ sto era perché il resto del paese era preparato a seguire la via tracciata dal Lancashire. A differenza di Shanghai nella Cina precomunista, o di Ahmedabad nell’india coloniale, Manchester non rimase un moderno enclave nell’arretra­ tezza generale, ma divenne il modello per il resto del pae­ se. Il mercato interno forse non fece sprizzare la scintilla, ma certo forni combustibile e ossigeno sufficienti ad ali­ mentare il fuoco. Le industrie esportatrici lavoravano invece in condizio­ ni molto differenti e potenzialmente molto più rivoluzio­ narie. Esse fluttuavano ampiamente, con punte di varia­ zione fino al 50 per cento l’anno, cosicché il manufatturiere capace di spingersi in avanti approfittando delle espan­ sioni di mercato poteva fare colpi colossali. Alla lunga

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queste industrie riuscirono a espandersi molto di più, e più rapidamente, del mercato interno. Fra il 1700 e il 1750, le industrie operanti per il mercato interno aumen­ tarono la produzione del 7 per cento, contro il 67 per cen­ to di quelle esportatrici; e fra il 1750 e il 1770 (un perio­ do che possiamo considerare come la piattaforma che con­ senti il decollo industriale), rispettivamente di un altro 7 e 80 per cento. La domanda interna aumentò, ma quella esterna si moltiplicò. Se occorreva una scintilla, fu dal mercato esterno che essa scaturì. La manifattura del co­ tone, la prima a essere industrializzata, era sostanzialmen­ te collegata col commercio d’oltremare. Ogni oncia della sua materia prima doveva essere importata dalle aree sub­ tropicali e tropicali e, come vedremo, i suoi prodotti erano destinati soprattutto all’esportazione. Dalla fine del seco­ lo essa era un’industria che esportava la maggior parte del­ la produzione totale, forse i due terzi già nel 1805. Il motivo di questa straordinaria potenzialità d’espan­ sione fu che le industrie esportatrici non dipendevano dal modesto tasso di sviluppo «naturale» della domanda in­ terna di un qualche paese. Potevano invece creare l’illu­ sione che vi fosse un rapido sviluppo principalmente in due modi: conquistando una serie di altri mercati d’espor­ tazione già appartenenti ad altri paesi, e annullando la con­ correnza all’interno di determinati paesi, ossia impiegan­ do i mezzi politici o semipolitici della guerra e della colo­ nizzazione. La nazione che fosse riuscita a concentrare a proprio beneficio i mercati d’esportazione di altri popoli o anche a monopolizzare i mercati d’esportazione mondiali in un periodo di tempo sufficientemente breve, poteva espandere le proprie industrie esportatrici con un ritmo che rese la rivoluzione industriale non solo possibile, ma talvolta virtualmente obbligatoria per i suoi imprendito­ ri. E questo è quanto la Gran Bretagna riuscì a fare nel secolo xviii *. Ma la conquista dei mercati con la guerra e la coloniz­ * Ne consegue che se un paese riusciva nell’intento, rendeva molto dif­ ficile ad altri lo sviluppo delle basi necessarie per la rivoluzione industria­ le. In altre parole, date le condizioni dell’epoca preindustriale, c’era proba­ bilmente posto per una sola industrializzazione nazionale pionieristica (la

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zazione richiedeva non soltanto un’economia capace di sfruttarli, ma anche un governo disposto a muover guerra e a colonizzare a benefìcio dei manufatturieri britannici. Questo fatto ci porta al terzo fattore della genesi della ri­ voluzione industriale, il governo. Qui il vantaggio della Gran Bretagna sui suoi concorrenti potenziali è piu che evidente. A differenza di alcuni di essi (come la Francia) essa era disposta a subordinare tutta la sua politica estera a fini economici. I suoi obiettivi bellici erano commerciali e, ciò che era la stessa cosa, marittimi. Il grande Chatham espose cinque motivi nel memorandum con cui propugna­ va la conquista del Canada: i primi quattro erano pura­ mente economici. A differenza poi di quanto avveniva per altri paesi (come l’Olanda) gli obiettivi economici della Gran Bretagna non erano dominati soltanto da interessi commerciali e finanziari, ma anche, e sempre più, dal grup­ po di pressione dato dai manifatturieri; dapprincipio si trattò dell’industria della lana, importante ai fini fiscali, in seguito delle altre. Questa gara tra l’industria e il commer­ cio (rappresentata nel modo più drammatico dalla East In­ dia Company), ebbe un vincitore nel mercato interno nel 1700, quando i produttori britannici ottennero di essere protetti contro le esportazioni tessili indiane; non fu però decisa nel mercato esterno prima del 1813, quando l’East India Company fu privata del suo monopolio in India, sic­ ché quel subcontinente dovette rassegnarsi alla deindu­ strializzazione e alla massiccia importazione di cotonerie del Lancashire. Infine, a differenza di quanto avvenne per tutti i concorrenti, la politica britannica del secolo xvm fu sistematicamente aggressiva, e in modo particolare con­ tro la rivale più pericolosa, la Francia. Nelle cinque grandi guerre dell’epoca, la Gran Bretagna fu nettamente sulla difensiva in una soltanto *. Il risultato di questo secolo di guerre intermittenti fu il più grande trionfo mai raggiunbritannica, come poi risultò), ma non per la simultanea industrializzazione di più «economie progredite», e di conseguenza ci fu posto, almeno per un certo periodo, per una sola «officina del mondo». * La guerra di successione spagnola (z7oz-r3), la guerra di successione austriaca (1739-48), la guerra dei Sette Anni (1736-63), la guerra d’indi­ pendenza americana (1776-83), e le guerre francesi rivoluzionarie e napo­ leoniche (1793-181.5).

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to da una sola nazione: un virtuale monopolio in fatto di colonie d’oltremare fra le potenze europee, e ancora un predominio navale su scala mondiale. Inoltre le guerre, mettendo in ginocchio le maggiori concorrenti della Gran Bretagna in Europa, tesero a far aumentare le esportazio­ ni; la pace tendeva semmai a rallentarle. Per di più le guerre, e specialmente quell’organizzazio­ ne volta a scopi commerciali e imbevuta di uno spirito di classe media che era la marina britannica, contribuirono ancor più direttamente all’innovazione tecnologica e all’in­ dustrializzazione. I suoi fabbisogni non erano trascurabi­ li: la marina passò da circa roo ooo tonnellate nel 1685 a circa 325 000 nel 1760, e la sua domanda di cannoni au­ mentò nettamente, anche se non con la stessa proporzione. Le guerre furono certamente le più grandi consumatrici di ferro, e aziende come la Wilkinson, la Walkers, e la Carron dovettero l’ampiezza dei loro impianti in parte ai con­ tratti stipulati col governo per la fornitura di cannoni, mentre l’industria siderurgica del Galles meridionale di­ pendeva dagli scontri a fuoco. Di solito i contratti col go­ verno o quelli con vasti organismi importanti quasi quan­ to un governo, come l’East India Company, arrivavano in grosse quantità e comportavano scadenze da rispettare. Gli imprenditori trovavano conveniente introdurre meto­ di rivoluzionari per rispettare i termini di consegna. Ogni tanto ci si imbatte in un inventore o in un imprenditore stimolati da prospettive tanto lucrative. Henry Cort, che rivoluzionò la manifattura del ferro, cominciò negli anni ’60 del secolo xvm come incaricato della marina, ed era ansioso di migliorare la qualità del prodotto inglese «con­ siderate le forniture di ferro destinate alla marina» 4. Hen­ ry Maudsley, il pioniere delle macchine utensili, iniziò la carriera nell’arsenale di Woolwich e le sue fortune (come quelle del grande ingegnere Mark Isambard Brunel, già della marina francese), rimasero strettamente collegate coi contratti navali *. * Non va dimenticato il ruolo pionieristico delle aziende statali. Du­ rante le guerre napoleoniche, esse anticiparono, fra l’altro, i trasportatoti a cinghia e l’industria degli scatolami.

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Il ruolo dei tre settori principali della domanda nella genesi dell’industrialismo può essere sintetizzato nel mo­ do seguente. Le esportazioni, sostenute dal sistematico e aggressivo aiuto del governo, fecero scoccare la scintilla e, assieme ai tessuti di cotone, costituirono il « settore di gui­ da» dell’industria. Ad esse furono anche dovuti impor­ tanti miglioramenti nei trasporti marittimi. Il mercato in­ terno forni gli elementi di fondo per un’economia indu­ striale generalizzata e (tramite il processo d’urbanizzazio­ ne) l’incentivo per importanti miglioramenti nei trasporti interni, una salda base per l’industria carbonifera e per alcune importanti innovazioni tecnologiche. Il governo appoggiò sistematicamente i mercanti e i manufatturieri, e forni alcuni incentivi, per niente trascurabili, alle inno­ vazioni tecniche e allo sviluppo delle industrie produt­ trici di attrezzature. Se infine ritorniamo alle domande che ci siamo già po­ ste: perché la Gran Bretagna e non un altro paese? Per­ ché alla fine del secolo xvm e non prima o non dopo? - troviamo che le risposte non possono essere cosi sem­ plici. Certo, già nel 1750 non si poteva dubitare che se c’era uno stato destinato a vincere la corsa per essere la prima potenza industriale, questo era la Gran Bretagna. Gli olandesi avevano ripiegato su quella comoda, affer­ mata attività che era lo sfruttamento del loro vasto appa­ rato commerciale e finanziario e delle loro colonie. I fran­ cesi, pur espandendosi più o meno col ritmo degli inglesi (quando questi ultimi non glielo impedivano con la guer­ ra) non riuscivano a riguadagnare il terreno perduto nella grande epoca della depressione economica, il secolo xvn. In cifre assolute essi potevano sembrare, almeno fino alla rivoluzione industriale, una potenza di ampiezza equiva­ lente, ma le loro attività commerciali e manifatturiere ve­ nivano, computato la produzione corrispondente per ca­ pita, molto dopo quelle britanniche. D’altro canto, questo non spiega perché la breccia indu­ striale sia stata aperta proprio in quel periodo, cioè negli ultimi trenta o venticinque anni del secolo xvm. Una ri­ sposta precisa non è ancora stata data, ma è chiaro che possiamo soltanto trovarla volgendoci al sistema economi­

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co generale europeo o «mondiale» di cui la Gran Breta­ gna costituiva una parte *, vale a dire alle aree «progre­ dite» principalmente dell’Europa occidentale e alle loro relazioni con le economie dipendenti coloniali e semicolo­ niali, con le controparti commerciali marginali, e con le re­ gioni non ancora sostanzialmente immesse nel sistema eu­ ropeo di flussi economici. Il modello tradizionale dell’e­ spansione europea, dato dal Mediterraneo coi suoi mer­ canti italiani e i loro associati e con i conquistatori spagno­ li e portoghesi, o dal mar Baltico con le sue città-stato te­ desche, s’era disfatto durante la grande depressione eco­ nomica del secolo xvu. I nuovi centri di espansione erano gli stati marittimi bagnati dal Mare del Nord e dall’Atlantico settentrionale. Lo spostamento non fu soltanto geo­ grafico, ma anche strutturale. Il nuovo tipo di relazioni fra le aree «sviluppate» e il resto del mondo tese costantemente, a differenza del vecchio, a intensificare e ad amplia­ re i flussi commerciali. Le potenti, e sempre più ampie e veloci correnti del commercio d’oltremare che trascinaro­ no con sé le industrie dell’Europa appena nate, e talvolta addirittura le crearono, non possono essere concepite sen­ za un cambiamento del genere. Esso si basò su tre cose: il sorgere in Europa di un mercato di merci d’oltremare d’u­ so giornaliero, un mercato che poté espandersi quando quelle merci divennero disponibili in quantità maggiori e a minor prezzo; la creazione nei territori d’oltremare di si­ stemi economici (per esempio le piantagioni coltivate da­ gli schiavi) volti alla produzione di queste merci; la con­ quista di colonie destinate al vantaggio economico dei lo­ ro padroni europei. Per illustrare il primo fatto: attorno al 1650, un terzo del valore delle merci dell’East India Company vendute ad Amsterdam era dato dal pepe, la tipica merce da cui si ricavano profitti accantonandone piccole quantità da ri­ vendere a prezzi monopolistici, ma nel 1780 la proporzio­ ne era ormai ridotta all’n per cento. Per contro, nel 1780 * Qui si intende dire che l’economia europea era soltanto il centro di una rete mondiale, ma non che tutte le parti del mondo fossero connesse con questa rete.



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il 56 per cento di quelle vendite era dato da prodotti tes­ sili, dal tè e dal caffè, mentre nel 1650 le stesse raggiun­ gevano il 17,5 per cento del totale. Lo zucchero, il tè, il caffè, il tabacco e prodotti analoghi, piuttosto che l’oro e le spezie, erano diventate ormai le caratteristiche impor­ tazioni dai tropici, cosi come il frumento, le tele di lino, il ferro, la canapa e il legname, e non già le pellicce, costitui­ vano le caratteristiche importazioni dall’Est d’Europa. Il secondo fatto può essere illustrato dall’espansione del più inumano fra i traffici, la tratta degli schiavi. Nel secolo xvi, meno di un milione di negri furono trasportati dall’Africa nelle Americhe; nel xvu si arrivò a forse tre mi­ lioni, trasportati per la maggior parte, nella seconda metà del secolo, nelle piantagioni brasiliane, che anticiparono il successivo modello coloniale; nel secolo xvm si arrivò a forse sette milioni *. Il terzo fatto quasi non richiede di essere illustrato. Nel 1650, né la Gran Bretagna né la Francia avevano grossi imperi, e buona parte dei vecchi imperi spagnolo e portoghese era in rovina o consisteva soltanto in linee tracciate sui mappamondi. Il secolo xvm vide non soltanto una rinascita dei vecchi imperi (per esempio in Brasile e nel Messico), ma l’espansione e lo sfruttamento di nuovi, quello britannico, quello francese, per non menzionare tentativi di colonizzazione, ormai di­ menticati, da parte dei danesi, degli svedesi e di altri po­ poli. Ciò che più conta, l’ampiezza di questi imperi in quanto sistemi economici andò aumentando notevolmen­ te. Nel 1701, quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America contavano meno di trecentomila abitanti, ma quasi quattro milioni nel 1790; e il Canada passò dai quat­ tordicimila abitanti del 1695 al quasi mezzo milione del 1800. E man mano che la rete del commercio internazionale s’infittiva, aumentava in Europa l’importanza percentuale del commercio nei territori d’oltremare. Nel 1680, gli scambi dell’East India Company ammontavano a forse 1’8 per cento del commercio estero degli olandesi, ma nella * Anche se, come è quasi certo, queste cifre sono esagerate, gli ordini di grandezza relativi sono realistici.

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seconda metà del secolo xviii equivalevano al 25 per cen­ to, e analoga fu l’evoluzione del commercio francese. Gli inglesi anticiparono le altre nazioni nel dedicarsi al com­ mercio coloniale, che nel 1700 ammontava già al 15 per cento dei traffici britannici ed era giunto al 30 per cento nel 1775. La generale espansione del commercio nel seco­ lo xviii fu notevole in quasi tutti i paesi, ma addirittura fantastica fu l’espansione del commercio connessa col si­ stema coloniale. Per citare un solo esempio: dopo la guer­ ra di successione spagnola, da 2000 a 3000 tonnellate di navi inglesi salpavano ogni anno dall’Inghilterra alla volta dell’Africa, destinate soprattutto al traffico degli schiavi; dopo la guerra dei Sette Anni le tonnellate furono fra 15 000 e 19 000, e dopo la guerra d’indipendenza ameri­ cana (1787), 22 000.' Questa vasta e sempre maggiore circolazione di merci non soltanto creò nuovi bisogni e lo stimolo a fabbricare in patria merci importate. «Se la Sassonia e altri paesi d’Europa fanno della buona porcellana, - scriveva l’abate Raynal nel 17775, - se Valencia fabbrica seta stampata mi­ gliore di quella cinese; se la Svizzera imita la mussolina e i calicò del Bengala; se Inghilterra e Francia stampano tele di lino con grande eleganza; se tanta roba prima sco­ nosciuta nei nostri climi ora occupa i nostri migliori arti­ sti, non è all’india che siamo debitori di tutti questi van­ taggi? » *. Cosa ancor più importante, offri prospettive illimitate di vendite e profitti ai mercanti e ai manifattu­ rieri. E furono gli inglesi che, con la politica e la forza e grazie al loro spirito d’iniziativa e alla loro capacità inven­ tiva, conquistarono questi mercati. Dietro la rivoluzione industriale britannica stanno que­ sta concentrazione sui mercati coloniali e sottosviluppati d’oltremare, e la vittoriosa battaglia combattuta per esclu­ derne tutti i concorrenti. Noi inglesi li sconfiggemmo in Oriente: nel 1766 avevamo eliminato gli stessi olandesi dal commercio con la Cina. Li sconfiggemmo in Occiden­ te: già nei primi anni ’80 del secolo xviii più di metà de* Non avrèbbe mancato, nel giro di pochi anni, di menzionare la piu fortunata imitatrice degli indiani, Manchester.

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gli schiavi trasportati dall’Africa (per un numero quasi doppio di quelli trasportati dai francesi) procuravano gua­ dagni agli schiavisti britannici. Questo si faceva a benefi­ cio delle merci britanniche. Per circa tre decenni dopo la guerra di successione spagnola, le navi britanniche dirette in Africa continuarono a trasportare merci straniere, so­ prattutto indiane; ma poco dopo la fine della guerra di suc­ cessione austriaca trasportavano ormai merci britanniche in misura preponderante. La nostra economia industriale nacque dal nostro commercio, e specialmente dal nostro commercio col mondo sottosviluppato. Per tutto il secolo xix l’economia britannica doveva conservare questa parti­ colare struttura storica: il commercio e i trasporti navali sostenevano la nostra bilancia dei pagamenti, e lo scambio di materie prime dei territori d’oltremare con manufatti britannici costituiva il fondamento della nostra economia. Mentre il flusso di scambi internazionali aumentava, si avverti nel secondo trentennio del secolo xvm un anda­ mento più rapido delle economie interne. Questo feno­ meno non fu specificamente britannico, ma si verificò su scala generale, e si rifletté nei movimenti dei prezzi (che iniziarono un lungo periodo di lenta inflazione dopo un secolo di fluttuazioni indeterminate), in quel poco che sap­ piamo circa la popolazione e la produzione, e in altri ele­ menti ancora. La rivoluzione industriale fu generata in queste decadi, dopo gli anni ’40 del secolo, quando il mas­ siccio ma lento sviluppo delle economie interne si com­ binò con la rapida (estremamente rapida dopo il 1750) espansione dell’economia internazionale; e si verificò in un paese che afferrò le opportunità internazionali di acca­ parrarsi una grossa fetta dei mercati d’oltremare.

' L’esame moderno della rivoluzione industriale e del decollo eco­ nomico ha iniziato con KARL marx, Il Capitale, vol. I, parti III e IV, capp. xxm-xxiv. Per analisi marxiste più recenti, cfr. m. h. dobb, Studies in Economie Development, Delhi 1951, e l’interes­ santissimo *k. Polanyi, Origins of Our Time, 1945. *d. s. landes, The Unbound Prometheus, 1969, è un’eccellente introdu­ zione alla moderna trattazione economica della materia; cfr. an-

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che Phyllis Deane, The First Industrial Revolution, 1963 (B). Per confronti fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, e la Gran Bretagna e la Francia, *h. j. habbakuk, American and British Technology in the 19th Century, 1962; p. bairoch, Revolution industrielle et sous-développement, 1963. Per un esame delle teorie accademiche sul decollo industriale in generale, si possono consultare vari manuali fra cui b. higging, Economie Development, 1959. Più orientati verso una trattazio­ ne sociologica sono best hoselitz, Sociological Aspects of Eco­ nomie Growth, i960; Wilbert Moore, Industrialization and La­ bour, 1951; everett hagen, On the Theory of Social Change, 1964 (B). Cfr. anche i diagrammi 1, 3,15, 24,29,31,40. Sulla Gran Bretagna nell’economia mondiale del secolo xviii, cfr. F. mauro, L’expansion européenne 1600-1870, « La Nouvel­ le Clio», 1964; ralph davis, English Foreign Trade 1700-1774, «Economie History Review», 1962. c. p. kindleberger, Economic Growth in France and Britain, 1964, p. 158. Da un saggio non pubblicato, Population and Labour Supply, di h. c. pentland. Samuel smiles, Industrial Biography, p. 114. Abbé raynal, The Philosophical and Political History of the Settlements and Trade of the European in the East and West In­ dies, 1776, vol II, p. 288.

3La rivoluzione industriale (1780-1840)1

Chi dice rivoluzione industriale, dice cotone. Quando pensiamo alla rivoluzione vediamo, come i turisti stranie­ ri che visitavano allora l’Inghilterra, la nuova e rivoluzio­ naria città di Manchester che aumentò di dieci volte in ampiezza fra il 1760 e il 1830 (passando da 17000 a 180000 abitanti), dove «osserviamo centinaia di fabbri­ che a cinque e a sei piani, ciascuna con a lato un’alta cimi­ niera che espelle vapore di carbone nero»; pensiamo a Manchester che, secondo il proverbio, pensava il giorno prima quello che l’Inghilterra avrebbe pensato il giorno dopo, e diede il nome alla scuola di economia liberale che dominò il mondo. E non v’è dubbio che si tratta di una prospettiva esatta. La rivoluzione industriale britannica non fu certo solo cotone o Lancashire e nemmeno soltanto prodotti tessili, e il cotone perse il primato dopo un paio di generazioni. Tuttavia il cotone fu il battistrada del mu­ tamento industriale, e costituì la base economica delle pri­ me regioni che non sarebbero esistite se non fosse stato per l’industrializzazione, e che espressero una nuova for­ ma di società, quella del capitalismo industriale, basata su una nuova formula di produzione: la «fabbrica». Altre città erano piene di fumo e di motori a vapore nel 1830 (in ogni caso non tanto quanto le città cotoniere, perché nel 1838 Manchester e Salford disponevano di forza va­ pore in misura tripla di quella di Birmingham) *, ma non divennero città dominate dalle fabbriche prima della metà * La popolazione rispettiva delle due zone urbane nel 1841 era di circa 280 000 e 180 000 abitanti.

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del secolo. Altre regioni industriali possedevano grandi aziende con masse proletarie e circondate da attrezzature impressionanti, come nel caso delle miniere di carbone e delle ferriere, ma la loro dislocazione isolata o rurale, le caratteristiche tradizionali della loro manodopera con il suo differente ambiente sociale, le facevano in qualche modo meno tipiche della nuova era, eccetto che per la loro capacità di trasformare centri abitati e panorami in un mai visto spettacolo di fuoco, scorie e strutture di ferro. I mi­ natori erano, e sono rimasti in gran parte, contadini, e i loro modi di vita e di lotta erano estranei a chi non lavora­ va nelle miniere, gente con cui i minatori avevano pochi contatti. I padroni del ferro potevano, come i Crawshay di Cyfartha, chiedere e spesso ottenere una fedeltà poli­ tica dai loro uomini, e questo ricorda le relazioni fra i pos­ sidenti di campagna e i braccianti agricoli più che quelle fra gli industriali e i loro dipendenti. Il nuovo mondo del­ l’industrialismo nella sua forma più ovvia non era da cer­ care nei centri minerari, ma a Manchester e dintorni. La manifattura del cotone fu un tipico sottoprodotto di quella corrente, sempre più veloce, di commercio interna­ zionale e specialmente coloniale, senza del quale, come abbiamo visto, non si può spiegare la rivoluzione indu­ striale. La sua materia prima, che si cominciò ad adoperare in Europa mista a lino per fabbricare una versione meno costosa del prodotto tessile (il fustagno), era quasi inte­ ramente coloniale. La sola industria cotoniera «pura» co­ nosciuta in Europa nei primi anni del secolo xvm fu quel­ la dell’india, il cui prodotto (il calicò) era venduto dalle compagnie commerciali orientali all’estero e in patria, do­ ve incontrava l’aspra concorrenza delle manifatture inter­ ne di lana, di lino e di seta. L’industria laniera inglese ot­ tenne nel 1700 di fare bandire del tutto l’importazione, riuscendo in tal modo per caso a offrire alle future mani­ fatture interne di cotone mano libera sul mercato interno. Queste ultime erano ancora troppo arretrate per rifornire il mercato, tuttavia il primo prodotto della moderna in­ dustria cotoniera, il calicò stampato, si affermò come un parziale sostituto delle importazioni in vari paesi europei. Modeste manifatture locali sorsero nell’entroterra dei

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grandi porti coloniali dediti al commercio degli schiavi; di Bristol e, ancor più, di Glasgow e Liverpool, anche se la nuova industria alla fine si accentrò vicino a quest’ultimo centro. Per il mercato interno, essa produceva un sostituto per le calze di lino o di lana e seta; per il mercato straniero, per quanto era possibile, un sostituto delle merci indiane (che erano comunque superiori) specialmente quando le guerre o altre crisi interrompevano i rifornimenti indiani ai mercati d’esportazione. Fino al 1770, più del 90 per cento delle esportazioni britanniche di cotone andava ai mercati coloniali in questo modo, specialmente verso l’Africa. L’ampia espansione delle esportazioni dopo il 1750 diede all’industria il suo slancio: fra il 1750 e il ’70 si mol­ tiplicarono di più di dieci volte. Il cotone acquisi in questo modo quel suo caratteristico legame col mondo sottosviluppato, un legame che conser­ vò e rafforzò attraverso tutte le fluttuazioni della fortuna. Le piantagioni coltivate dagli schiavi nelle Indie occiden­ tali fornirono la materia prima fino quando, negli anni ’90 del secolo, l’industria cotoniera trovò una nuova e virtual­ mente illimitata fonte di rifornimento nelle piantagioni coltivate dagli schiavi negli Stati Uniti meridionali, i qua­ li divennero cosi in complesso un’economia dipendente dal Lancashire. In tal modo, il centro di produzione più moderno conservò ed estese la forma di sfruttamento più antica. Di tanto in tanto l’industria cotoniera dovette ri­ piegare sul mercato interno britannico dove andò sosti­ tuendo sempre più quella del lino, ma dagli anni ’90 in poi esportò sempre la maggior parte della produzione, qualco­ sa come il 90 per cento alla fine del secolo xix. Il cotone era e rimase essenzialmente un’industria d’esportazione. Di tanto in tanto si affacciava sui remunerativi mercati d’Europa e degli Stati Uniti, ma le guerre e il sorgere della concorrenza locale misero un freno a questa espansione, e l’industria cotoniera ritornò spesso a qualche nuova o vec­ chia regione del mondo sottosviluppato. Dopo la metà del secolo xix, trovò il suo sbocco principale nell’india e nell’Estremo Oriente. L’industria cotoniera britannica fu cer­ tamente ai suoi giorni la migliore del mondo, ma giunse al suo termine perché aveva cominciato ad affidarsi non più

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alla sua superiorità concorrenziale ma a un monopolio di mercati coloniali e sottosviluppati che le era consentito dall’impero, dalla marina e dalla supremazia commerciale britannici. I suoi giorni erano ormai contati alla fine della prima guerra mondiale, quando gli indiani, i cinesi e i giapponesi poterono fabbricare o anche esportare le loro merci di cotone senza essere ostacolati da interferenze po­ litiche britanniche. Come ogni scolaretto sa, il problema tecnico che deter­ minò la natura della meccanizzazione nell’ambito dell’in­ dustria cotoniera fu lo squilibrio fra l’efficienza della fila­ tura e della tessitura. Il filatoio, un congegno assai meno produttivo del telaio a mano (specialmente del telaio acce­ lerato dalla spoletta, che fu inventata negli anni ’30 del se­ colo xviii e si diffuse negli anni ’60), non riusciva a rifor­ nire a sufficienza i tessitori. Tre invenzioni note a tutti equilibrarono la bilancia: il filatoio multiplo, degli anni ’60, che consentiva a un solo filatore nel suo cottage, di filare vari fili in una volta; il telaio ad acqua del 1768, ba­ sato sull’originale idea di filare combinando cilindri e fusi; e la fusione dei due congegni, il filatoio intermittente de­ gli anni ’80 *, a cui fu tosto applicata la forza vapore. Le ultime due innovazioni implicarono una produzione di fabbrica. I cotonifici della rivoluzione industriale furono essenzialmente delle filande e complessi per cardare il co­ tone prima di filarlo. La tessitura tenne il passo con queste innovazioni grazie a una moltiplicazione di telai a mano e di tessitori. Anche se negli anni ’80 era stato inventato un telaio a mano, que­ sta branca manifatturiera non fu in alcun modo meccaniz­ zata prima della fine delle guerre napoleoniche. Da allora i tessitori che erano stati prima attirati nell’industria ne fu­ rono eliminati col semplice mezzo della fame, e furono so­ stituiti nelle fabbriche da donne e bambini. Gli anni dal 1815 al decennio del 1840 videro quindi la diffusione del­ la produzione di fabbrica nell’ambito dell’industria, e il * L’idea non fu di Richard Arkwright (1732-92), che ottenne il bre­ vetto ma fu soltanto un operatore senza scrupoli il quale, a differenza della maggior parte dei veri inventori del periodo, divenne ricchissimo.

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suo punto di perfezione con l’introduzione, negli anni ’20, dei congegni automatici e di altri miglioramenti. Comun­ que non era in atto un’ulteriore rivoluzione tecnica. Il fila­ toio intermittente rimase alla base della filatura in Gran Bretagna, e il filatoio ad anelli, inventato negli anni ’40 e d’uso generale ai nostri giorni, fu lasciato agli stranieri. Il telaio a vapore divenne il signore della tessitura. Lo schiacciante predominio mondiale che il Lancashire aveva raggiunto in quel periodo lo rese tecnicamente conserva­ tore, anche se non stagnante. La tecnologia della lavorazione del cotone era abba­ stanza semplice e cosi, come vedremo, furono le tecnolo­ gie della maggior parte delle altre industrie a provocare nel loro insieme la rivoluzione industriale. La prima abbi­ sognava di scarse nozioni scientifiche o capacità tecniche che superassero la portata di un meccanico pratico e abile dei primi anni del secolo xviii. Aveva anche scarso biso­ gno della forza vapore, perché anche se l’industria coto­ niera veniva adottando il motore a vapore rapidamente e in misura maggiore delle altre industrie (tranne la mine­ raria e la metallurgica), ancora nel 1838 un quarto della forza motrice era fornita dall’acqua. Ciò non rifletteva una mancanza di innovazioni scientifiche o di interesse da par­ te dei nuovi industriali per la rivoluzione tecnica. Al con­ trario’, le innovazioni scientifiche abbondavano, ed erano tosto applicate a fini pratici da scienziati che ancora rifiu­ tavano di distinguere, come si fece in seguito, tra pensiero «puro» e «applicato». E gli industriali assorbivano le in­ novazioni senza por tempo in mezzo quando erano neces­ sarie e vantaggiose e, soprattutto, applicavano un rigoroso razionalismo ai loro metodi di produzione, il che è carat­ teristico di un’epoca scientifica. I padroni del cotone impa­ rarono presto a costruire secondo un criterio puramente funzionale («spesso - come rilevò un osservatore stra­ niero non al passo con la modernità - a spese dell’estetica esterna»)2, e a partire dal 1805 prolungarono la giornata lavorativa illuminando le fabbriche col gas. Eppure i primi esperimenti di illuminazione a gas non risalivano a prima del 1792. Non esitarono a candeggiare e tingere i tessuti adottando le più recenti invenzioni della chimica, una

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scienza di cui si può dire che sia diventata maggiorenne fra gli anni ’70 e ’80 del secolo xvm, con la rivoluzione indu­ striale. Si pensi che l’industria chimica divenuta fiorente in Scozia nel 1800 per via di queste applicazioni, dovette la sua fortuna al suggerimento, dato appena nel 1786 da Berthollet a James Watt, che il cloro poteva essere impie­ gato per il candeggio. La prima fase della rivoluzione industriale fu tecnicamente piuttosto primitiva non perché non esistessero una scienza e una tecnologia migliori, ma perché gli uomini non vi ponevano interesse e non si riuscivano a persuade­ re a valersene. Fu semplice perché in genere l’applicazio­ ne di idee e accorgimenti semplici - e spesso si trattava di idee vecchie di secoli e niente affatto costose da applica­ re - già bastava a dare risultati eccellenti. La novità non consiste nelle innovazioni, ma nella disposizione di uomi­ ni pratici a decidersi ad adoperare la scienza e la tecnolo­ gia da lungo tempo disponibili e, per cosi dire, a portata di mano; e consiste nell’ampio mercato che si spalancava alle merci man mano che i costi e i prezzi diminuivano rapidamente. Non consistè nel fiorire di geni inventivi in­ dividuali, ma nella situazione pratica che volse il pensiero degli uomini verso problemi risolvibili. Fu una situazione fortunatissima, perché diede a quel fenomeno pionieristico che fu la rivoluzione industriale una fortissima, forse essenziale, spinta in avanti. La pose alla portata di un complesso di uomini d’affari e abili ar­ tigiani non particolarmente istruiti e astuti, non partico­ larmente ricchi, ma intraprendenti e operanti in una eco­ nomia fiorente e in espansione, le cui opportunità pote­ rono sfruttare facilmente. In altre parole, si trattò di una situazione che riduceva al minimo quei requisiti essenzia­ li di capacità, di capitali disponibili, di ampiezza dell’at­ tività o dell’organizzazione e pianificazione statale, senza di cui nessuna industrializzazione può essere raggiunta. Consideriamo, per contrasto, quella che è la situazione nella nazione «emergente» del giorno d’oggi, che inizia appena la sua rivoluzione industriale. I primi progressi, per esempio l’attuazione di un adeguato sistema di tra­ sporti, presuppongono una competenza scientifica e tee-

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nologica che è lontana di secoli dalle capacità comuni, fi­ no a ieri, a più di una piccola frazione della popolazione. I tipi più caratteristici di produzione moderna, per esem­ pio la produzione di motoveicoli, sono di un’ampiezza e di una complessità che li pone oltre l’esperienza della mag­ gior parte degli appartenenti alla piccola classe di uomini d’affari che possa finora essersi formata, e richiedono una quantità di investimenti iniziali di capitali che sorpassa di parecchio le capacità indipendenti di accumulare capi­ tali. Anche le capacità e le abitudini di minor rilievo che si dànno per scontate nei paesi sviluppati, ma la cui man­ canza li sconvolgerebbe, sono rare come rubini: manca­ no l’alfabetismo, il senso della puntualità e della regolari­ tà, l’organizzazione di routines. Per fare un solo esempio: era ancora possibile, nel secolo xviii, dare inizio a un’in­ dustria carbonifera scavando pozzi e gallerie laterali rela­ tivamente poco profondi, facendo lavorare uomini con picconi e trasportando il carbone alla superficie e trainan­ do piccoli carri o a mano o con ponies e inviando il carbo­ ne alla superficie entro ceste *. Sarebbe impossibile sca­ vare pozzi di petrolio con sistemi di questa levatura al giorno d’oggi, e mai in concorrenza con la gigantesca ed estremamente complessa industria petrolifera internazio­ nale. Analogamente, il problema cruciale dello sviluppo eco­ nomico dei paesi arretrati è oggi, più spesso che no, quel­ lo espresso dalla frase di Giuseppe Stalin, che aveva pa­ recchia esperienza in merito: «i quadri delle forze di la­ voro decidono tutto». È molto più facile trovare il capi­ tale per dare inizio a una moderna industria che condur­ la; molto più facile trovare il personale per una commis­ sione centrale di pianificazione, col gruppetto di dottori in filosofia che la maggior parte dei paesi ha a sua dispo­ sizione, che riuscire ad avere quella massa di persone con una capacità e una completezza tecnica e amministrativa di grado intermedio senza di cui ogni economia moderna * Non voglio dire che questo non richieda parecchie capacità accumu­ latesi nel tempo, e tecniche abbastanza elaborate, o che l’industria carbo­ nifera britannica non avesse o non si costruisse delle attrezzature piu com­ plesse e potenti, come il motore a vapore.

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rischia di annullarsi. Le economie arretrate che si sono in­ dustrializzate con successo sono anche state quelle che hanno trovato il modo di moltiplicare rapidamente questi quadri di lavoratori e di valersene nel contesto di una po­ polazione che pure continuava a mancare, in generale, delle capacità e delle abitudini connesse con un sistema industriale moderno. Esse hanno trovato la storia dell’in­ dustrializzazione britannica senza importanza rispetto ai loro bisogni semplicemente perché la Gran Bretagna qua­ si non ebbe problemi del genere. In nessuna fase dell’in­ dustrializzazione, per esempio, la Gran Bretagna soffri in modo evidente per una penuria di uomini capaci di lavo­ rare i metalli, e come sta a indicare l’uso inglese della pa­ rola «engineer», alle posizioni più alte in campo tecnolo­ gico potevano sollecitamente giungere uomini con una pratica esperienza d’officina. La Gran Bretagna potè an­ dare avanti senza un sistema di istruzione elementare sta­ tale fino al 1870, senza l’istruzione secondaria statale fi­ no a dopo il 1902. I sistemi britannici possono essere meglio illustrati con un esempio. Il più grande dei primi industriali cotonieri fu Sir Robert Peel (1750-1830), un uomo che lasciò mo­ rendo un capitale di un milione e mezzo di sterline, una somma enorme per quei tempi, e un figlio che doveva di­ ventare primo ministro di Gran Bretagna. I Peel erano una famiglia di piccoli proprietari terrieri che, come altri nelle colline del Lancashire, abbinavano all’agricoltura la produzione tessile domestica, almeno a partire dalla me­ tà del secolo xvu. Il padre di Robert (1723-95) era anco­ ra uno che andava in giro vendendo le merci nelle campa­ gne; si trasferì nella città di Blackburn solo nel 1750, e anche allora non aveva del tutto abbandonato l’agricol­ tura. Non mancava d’istruzione, comunque non tecnica, e di talento per progetti e invenzioni semplici (o per lo meno non gli mancava la capacità di apprezzare le inven­ zioni di uomini come il concittadino James Hargreaves, tessitore, falegname e inventore del filatoio multiplo) e aveva terre per un valore di 2000-4000 sterline, che ipo­ tecò nei primi anni ’60 del secolo, quando fondò un’azien­ da per la fabbricazione di calicò stampato in società col

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cognato Haworth e un certo Yates, che apportò alla so­ cietà i risparmi accumulati dalla famiglia con la locanda del Black Bull. Era una famiglia con esperienza nel ramo: vari suoi membri lavoravano nel campo tessile e le pro­ spettive per il calicò stampato, fino allora soprattutto una specialità londinese, sembravano eccellenti. E lo erano. Tre anni dopo, alla metà degli anni ’60, il suo fabbisogno di cotone da stampare era tale che l’azienda si diede essa stessa a fabbricare il tessuto, un fatto che, come ebbe a osservare uno storico locale, «offre una prova della faci­ lità con cui allora si accumulava denaro »3. L’azienda pro­ sperò e si divise: Peel restò a Blackburn, mentre i suoi due soci si trasferirono a Bury, dove si uni a loro il futuro Sir Robert, aiutato dal padre agli inizi, ma lasciato quasi a se stesso in seguito. Non c’era molto bisogno di aiuto. Il giovane Peel, un imprenditore di grande energia, non ebbe difficoltà a rac­ cogliere altri capitali trovando tra la gente locale soci an­ siosi di investire in quell’industria in sviluppo o che sem­ plicemente erano in grado di fare affermare l’azienda in nuove città e campi d’attività. Dato che soltanto la stam­ pa del cotone doveva dare all’azienda costanti profitti di 70 000 sterline l’anno per lunghi periodi, non vi fu penu­ ria di capitali. Alla metà degli anni ’80 l’azienda era di­ ventata di un’ampiezza veramente notevole, e capace di adottare con facilità tutti i nuovi congegni utili e remu­ nerativi che si rendessero disponibili, come i motori a va­ pore. Nel 1790, all’età di quarant’anni e appena diciotto anni dopo essersi dato agli affari, Robert Peel era baro­ netto, membro del parlamento e riconosciuto rappresen­ tante della nuova classe, quella degli industriali *. Egli si differenziò dagli altri duri imprenditori del Lancashire della sua specie soprattutto perché non si ritirò dagli af­ fari dopo aver raggiunto l’agiatezza, cosa che avrebbe po­ * «Egli fu un buon campione di una classe di uomini che, valendosi nel Lancashire delle scoperte di altri cervelli oltre che del proprio, e ap­ profittando delle opportunità locali che si offrivano alla fabbricazione e al­ la stampa del cotone, oltreché della necessità e della domanda di manufatti che si ebbero piu di un secolo fa, riuscì ad accumulare una grossa fortuna senza possedere maniere raffinate, un intelletto coltivato o nozioni che non fossero di tutti » (p. a. whittle, Blackburn As li Is, Preston 18.52, p. 262).

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tuto facilmente fare dopo gli anni ’80, ma si elevò ad al­ tezze ancor maggiori come capitano d’industria. Con una modesta base di senso degli affari e di energia, qualunque membro della media classe rurale del Lancashire che si fosse dedicato al cotone al tempo di Peel, difficilmente non avrebbe ammucchiato denaro in brevissimo tempo. E forse caratteristico di questo modo essenzialmente sem­ plice di darsi agli affari il fatto che per molti anni dopo che aveva incominciato a stampare calicò, l’azienda non avesse un reparto di disegno, ossia si limitava a curare appena l’indispensabile per quanto occorreva a disegnare i modelli su cui le sue fortune erano basate. La verità era che in quella fase si poteva vendere praticamente tutto, specialmente data la rozzezza del cliente interno e di quel­ lo straniero. Un nuovo sistema industriale basato su una nuova tec­ nologia emerse cosi con grande rapidità e facilità fra le fattorie e i villaggi del piovoso Lancashire. Ma emerse, come abbiamo visto, grazie a una combinazione di vecchi e nuovi elementi, con i nuovi che infine prevalsero. Il ca­ pitale accumulato nell’ambito dell’industria sostituì le ipoteche sulle fattorie e le economie dei locandieri, i tec­ nici sostituirono gli inventivi tessitori-falegnami, e i te­ lai a vapore i tessitori a mano, mentre un proletariato di fabbrica sostituì la combinazione di poche aziende mec­ canizzate e una massa di dipendenti domestici. Nei de­ cenni che seguirono le guerre napoleoniche i vecchi ele­ menti ancora presenti nel campo industriale recedettero gradualmente, e un’industria moderna, che era stata il ri­ sultato conquistato da una minoranza pionieristica, di­ venne la norma della vita del Lancashire. Il numero dei telai a vapore in Inghilterra salì da 2400 nel 1813 a 55 000 nel 1829, a 85 000 nel 1833 e a 224 000 nel 1850, mentre il numero dei tessitori a mano, che aveva raggiun­ to il massimo di circa 250 000 unità negli anni ’20 del secolo xix, scese a poco più di 100 000 nei primi anni ’40 e a poco più che 50 000 persone derelitte e affamate ne­ gli anni ’50. Tuttavia non sarebbe saggio non rilevare la relativa primitività di questa stessa seconda fase della tra­ sformazione, e l’eredità di arcaismo che si lasciò dietro.

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Possono essere menzionate due conseguenze di questo stato di cose. La prima è la struttura operativa estremamente decentralizzata dell’industria cotoniera (lo stesso vale anche per la maggior parte delle industrie britanni­ che del secolo xix), e questo perché dovette il suo fiorire alle attività non pianificate di uomini mediocri. Essa emer­ se, ed è in gran parte rimasta, come un complesso di or­ ganizzazioni altamente specializzate di media ampiezza, spesso anche parecchio localizzate, comprendenti mercan­ ti di vario tipo, filatori, tessitori, tintori, rifinitori, candeg­ giatori, stampatori, e cosi via, in molti casi specializzati anche all’interno delle loro branche, collegati l’uno all’al­ tro da una fitta rete di transazioni affaristiche individua­ li che li faceva congiungere «nel mercato». Una tale strut­ tura presenta il vantaggio della flessibilità e si presta fa­ cilmente a una rapida espansione iniziale, ma negli stadi successivi dello sviluppo industriale, quando i vantaggi tecnici ed economici della pianificazione e della integra­ zione sono assai maggiori, presenta caratteristiche di rigi­ dità e inefficienza preoccupanti. La seconda conseguenza fu la nascita di un forte movimento sindacale in un’indu­ stria normalmente caratterizzata da organizzazioni di ca­ tegoria che erano molto deboli o instabili perché si trat­ tava di manodopera composta in gran parte di donne e bambini, immigrati non qualificati e cosi via. Le unions dell’industria cotoniera del Lancashire si basavano su una minoranza di maschi specialisti del filatoio intermittente che non venivano o non potevano essere sloggiati dalla lo­ ro forte posizione contrattuale da più avanzati stadi di meccanizzazione (i tentativi fatti in questo senso negli an­ ni ’30 del secolo xviii fallirono) e che infine riuscirono a organizzare la maggioranza non qualificata che li circon­ dava in unions subordinate, e questo perché questa era in gran parte composta dalle loro mogli e dai loro figli. Il cotone diede cosi vita a un’industria di fabbrica organiz­ zata da qualcosa di simile alle associazioni di mestiere, e questi metodi ebbero successo perché quello fu, nella fa­ se cruciale del suo sviluppo, un tipo veramente arcaico di industria di fabbrica.

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Nondimeno, in base ai livelli del secolo xviii, fu un’in­ dustria rivoluzionaria. Questo fatto non va dimenticato, pur con tutte le riserve fatte circa le già note caratteristi­ che di transitorietà e protratto arcaismo. Essa configurò una nuova relazione economica fra gli uomini, un nuovo sistema di produzione, un nuovo ritmo di vita, una nuo­ va società, una nuova era storica, e i contemporanei se ne resero conto fin quasi dall’inizio: Come a seguito di un’improvvisa inondazione, le costitu­ zioni e le limitazioni medievali applicate all’industria scom­ parvero, e gli uomini di stato rimasero stupefatti dal gran­ dioso fenomeno che non riuscivano a capire né a seguire. La macchina serviva ubbidiente lo spirito dell’uomo. Tuttavia, man mano che i macchinari rimpicciolivano la forza umana, il capitale trionfava sulla manodopera e creava una nuova forma di servitù. La meccanizzazione e una divisione del la­ voro incredibilmente elaborata diminuiscono la forza e l’in­ telligenza che occorrono nelle masse, e la concorrenza ne ab­ bassa i salari al livello minimo, quello di sussistenza. Quan­ do sopravvengono quelle crisi di intasamento dei mercati, che si verificano ad intervalli sempre meno lunghi, i salari scendono al di sotto anche di questo minimo. Spesso il la­ voro cessa del tutto per qualche tempo... e una massa uma­ na miserabile è esposta alla fame e a tutte le torture dell’in­ digenza... “.

Queste parole, curiosamente simili a quelle di rivolu­ zionari sociali come Federico Engels, sono di un uomo d’affari tedesco, liberale, che scriveva nei primi anni ’40 del secolo xix. Ma già una generazione prima un altro in­ dustriale, Robert Owen, che era egli stesso un cotoniere, aveva sottolineato il carattere rivoluzionario dei muta­ menti nel suo Observations on thè Effect of thè Manu­ facturing System (1815): La generale diffusione delle manifatture in tutto un pae­ se genera un nuovo carattere nei suoi abitanti; e dato che questo carattere si forma in base a un principio del tutto sfavorevole alla felicità individuale o generale, produrrà i mali più deplorevoli e duraturi, a meno che la vera tenden­ za non venga controbilanciata dalle interferenze e dalla di­ rezione del governo. Il sistema manifatturiero ha già tal­ mente esteso la sua influenza sull’impero britannico, che ha

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effettuato un cambiamento sostanziale nel carattere genera­ le della massa del popolo.

Il nuovo sistema che i contemporanei videro esempli­ ficato soprattutto nel Lancashire, consisteva, cosi sem­ brò loro, di tre elementi. Il primo era dato dalla divisione della popolazione industriale in datori di lavoro capitali­ sti, e in operai i quali non possedevano niente eccetto la loro forza lavorativa che vendevano in cambio dei salari. Il secondo era dato dalla produzione nella «fabbrica», una combinazione di macchine specializzate e lavoro uma­ no anch’esso specializzato, o, come la definì un suo primo teorico, il dottor Andrew Ure, « un grosso automa forma­ to da vari organi meccanici e intellettuali che agiscono con un accordo costante... e sono tutti subordinati a una forza motrice autoregolantesi »5. Il terzo consisteva nella dominazione dell’intera economia, anzi di tutta la vita, ad opera degli scopi di profitto dei capitalisti. Alcuni dei teo­ rici, coloro che non vedevano niente di fondamentalmen­ te sbagliato nel nuovo sistema, non si preoccuparono di distinguere fra i suoi aspetti sociali e quelli tecnici. Altre persone, quelle che erano sospinte nel nuovo sistema con­ tro la loro volontà e non ne ottenevano altro che una con­ dizione di poveri, come quel terzo della popolazione di Blackburn che nel 1833 viveva con un reddito familiare di 9 scellini e 2 denari la settimana (equivalenti a una me­ dia di circa 1 scellino e 8 denari per persona)*, erano in­ clini a respingere completamente sia gli aspetti sociali sia quelli tecnici del sistema. Un terzo gruppo, di cui Robert Ówen fu il primo importante rappresentante, distingueva tra industrialismo e capitalismo. Acettava la rivoluzione industriale e il progresso tecnico come apportatori di co­ noscenza potenziale e abbondanza potenziale per tutti. Ne rigettava la forma capitalistica come causa di sfruttamen­ to e pauperismo. È, come al solito, facile criticare il punto di vista con* Una stima dei redditi familiari effettuata nel 1833 diede i seguenti risultati: il reddito totale di 1778 famiglie (tutte operaie) di Blackburn, comprendenti 9779 individui, ammontava a soltanto 828 sterline, 19 scel­ lini e 7 denari. p. A. whittle, Blackburn As It Is cit., p. 223. Cfr. anche cap. 4.

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temporaneo nei dettagli, perché la struttura dell’industria­ lismo non era affatto moderna come si pensava, neppure alla vigilia dell’epoca delle ferrovie, per non parlare del­ l’anno di Waterloo. Né il «datore di lavoro capitalista», né il «proletario» allo stato puro erano una cosa comune. Parecchia gente si trovava in quel « grado medio della so­ cietà» (che si autodenominò classe media soltanto nel pri­ mo trentennio del secolo xix) ben disposto a cercare il profitto, ma solo una minoranza era pronta ad applicare al conseguimento del profitto tutta intera la spietata logica del progresso tecnico e del comandamento di « comperare nel mercato meno costoso e rivendere nel più caro». C’era abbondanza di uomini e donne che vivevano di lavoro sa­ lariato, anche se molti costituivano ancora versioni, pe­ raltro degenerate, di artigiani, piccoli proprietari terrieri in cerca di lavoro per il tempo libero, piccoli imprenditori a tempo perso e cosi via: tutta gente che un tempo era stata indipendente. Ma pochi erano i veri operai. Fra il 1778 e il 1830 non mancarono ogni tanto rivolte contro la diffusione delle macchine. Che queste rivolte siano sta­ te spesso sostenute e talvolta istigate da uomini d’affari e locali e da coltivatori, mostra quanto fosse ancora limita­ to il settore «moderno» dell’economia, giacché quelli che si trovavano all’interno del settore tendevano ad accetta­ re, e anche volentieri, la macchina. Erano quelli che si trovavano ancora all’esterno che cercavano di distrugger­ la. Il fatto che non siano riusciti nell’intento mostra d’al­ tro canto che il «settore moderno» era diventato predo­ minante nell’economia. Inoltre, abbiamo dovuto aspettare la tecnologia della metà del secolo xx per rendere possibile nella produzione di fabbrica quelle semiautomazioni o automazioni che i « filosofi del vapore » della prima metà del secolo xix pre­ videro con tanta soddisfazione e che riuscirono a discer­ nere nelle imperfettissime e arcaiche filande della loro epoca. Prima dell’avvento della ferrovia non vi era proba­ bilmente un ramo di attività, con l’eccezione forse di qual­ che rara officina del gas e di qualche impianto chimico, che un tecnico industriale moderno non considererebbe di interesse soltanto archeologico. Tuttavia, il fatto che le

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filande ispirassero visioni di operai disumanizzati e ridot­ ti ad «automi» e «braccia» prima di essere liberati dal macchinario «autooperante» (automatico), è ugualmente significativo. La «fabbrica» — col suo flusso logico di pro­ cedimenti, ciascuno dato da una macchina specializzata a cui badavano «braccia» specializzate, e tutti tenuti insie­ me dal passo inumano e costante del motore e dalla disci­ plina della meccanizzazione - illuminata a gas, con uno scheletro di ferro, e fumante, era una forma rivoluziona­ ria di lavoro. Anche se i salari pagati dalle fabbriche ten­ devano ad essere più alti che nell’industria domestica (con l’eccezione di quelli di lavoratori manuali qualificatissimi e versatili), si notava una riluttanza a lavorare nelle fab­ briche perché questo comportava la perdita di un diritto dato dalla nascita, l’indipendenza. Senza dubbio questo era uno dei motivi per cui le fabbriche erano piene di don­ ne e fanciulli, gente più trattabile: nel 1838, solo il 23 per cento degli operai delle fabbriche tessili erano maschi adulti. Nessun’altra industria può essere paragonata per im­ portanza a quella del cotone nella prima fase dell’indu­ strializzazione britannica. La quota con cui partecipava al reddito nazionale non era magari molto alta - forse il 7 o 1’8 per cento verso la fine delle guerre napoleoniche — anche se era maggiore di quella di altre industrie. Ma cominciò a espandersi prima e più rapidamente di altre, e in un certo senso il suo passo condizionò quello dell’eco­ nomia *. * Tasso d’aumento della produzione industriale del Regno Unito (au­ menti percentuali per decenni). 1800-1810 1810-1820 1820-1830 1830-1840 1840-1850

22,9 38,6 47,2 37,4 39,3

1850-1860 1860-1870 1870-1880 1880-1890 1890-1900

27,8 33,2 20,8 17,4 17,9

La diminuzione negli anni ’50 e ’60 del secolo fu dovuta in gran parte alla « carestia di cotone » causata dalla guerra civile americana.

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Nel periodo in cui l’industria cotoniera si sviluppava col forte tasso del 6-7 per cento annuo, nei venticinque anni che seguirono a Waterloo, l’espansione industriale britannica toccò il suo culmine. Quando la stessa indu­ stria cessò di espandersi, come avvenne nell’ultimo ven­ ticinquennio del secolo xix, allorché il suo tasso di svilup­ po scese allo 0,7 per cento annuale, tutta l’industria bri­ tannica calò. D’importanza ancor più fondamentale fu il suo contributo all’economia interna britannica. Nelle de­ cadi postnapoleoniche, qualcosa come metà del valore di tutte le esportazioni britanniche era dato da prodotti di cotone e nel periodo più favorevole (verso la metà degli anni ’30 del secolo xix), il cotone greggio ammontò al 20 per cento delle importazioni totali nette. La bilancia dei pagamenti britannica dipendeva dalle fortune di quella singola industria, e dalla stessa industria dipendevano buona parte dei trasporti marittimi in generale e del com­ mercio estero britannico. In terzo luogo, l’industria co­ toniera quasi certamente contribuì più che altre industrie all’accumulazione di capitali, se non altro perché la rapi­ da meccanizzazione e l’impiego massiccio di manodopera a buon mercato (donne e minori) permetteva una forte diversione dei redditi dalla manodopera al capitale. Nei venticinque anni che seguirono il 1820, il prodotto netto dell’industria cotoniera aumentò di circa il 40 per cento (in valori di allora) e le spese per i salari soltanto del 5 per cento. Non c’è bisogno di sottolineare che l’industria del co­ tone stimolò l’industrializzazione e la rivoluzione tecnica in generale. Sia l’industria chimica sia quella meccanica dovettero molto alla prima: nel 1830 c’erano soltanto i fabbricanti londinesi di macchine a contestare la superio­ rità di quelli del Lancashire. Tuttavia, sotto questo rispet­ to l’industria del cotone non fu di importanza ecceziona­ le, e mancò della capacità diretta di stimolare le industrie che avevano maggior bisogno di spinta, cioè le industrie pesanti del carbone, del ferro e dell’acciaio, alle quali non offri un grande mercato. Fortunatamente, il processo ge­ nerale di urbanizzazione provvide uno stimolo sostanzia­ le per il carbone nei primi anni del secolo xix oltreché nel 4

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Ancora nel 1842, i fumosi caminetti delle case bri­ tanniche consumavano due terzi della produzione interna del carbone, che ammontava a quel tempo a circa 30 mi­ lioni di tonnellate, equivalenti a circa due terzi dell’inte­ ra produzione del mondo occidentale. La produzione di carbone conservò il suo carattere primitivo. Alla sua ba­ se stava un nano rannicchiato che spicconava in un pas­ saggio sotterraneo. Ma la produzione di carbone nel suo complesso obbligò l’industria mineraria a mutamenti tec­ nici pionieristici, a pompare l’acqua dalle miniere, sem­ pre piu profonde, e soprattutto a trasportare il minerale dai filoni carboniferi alla superficie e di li ai porti e ai mer­ cati. L’industria del carbone svolse quindi assai prima di James Watt un ruolo pionieristico nei confronti del mo­ tore a vapore, ne impiegò le versioni migliorate del mec­ canismo d’estrazione a partire dagli anni ’90 del secolo xviii, e soprattutto inventò e sviluppò la ferrovia. Non fu un caso che i costruttori, i tecnici e i macchinisti delle prime ferrovie a cominciare da George Stephenson, pro­ venissero cosi spesso dal Tyneside. La nave a vapore, pe­ raltro, il cui avvento precedette quello della ferrovia, an­ che se il suo impiego generale si ebbe in seguito, non do­ vette niente alle miniere. L’industria del ferro dovette superare difficoltà mag­ giori. Prima della rivoluzione industriale la produzione di ferro in Gran Bretagna non era notevole né per quan­ tità né per qualità*. Le guerre in generale e la marina in particolare diedero all’industria del ferro un incoraggia­ mento costante e spesso un mercato. La produzione di combustibili fu per essa un incentivo permanente al pro­ gresso tecnico. Per questi motivi, fino a quando non si ebbe l’avvento della ferrovia, la capacità produttiva tese a superare quella di assorbimento del mercato, e i suoi rapidi scatti in avanti erano seguiti da penose depressio­ ni che gli industriali cercavano di risolvere cercando nuo­ vi impieghi per il loro metallo, e di lenire con prezzi con-

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* Ma il consumo britannico per capita era molto più alto che quello di altri paesi raffrontabili; per esempio, fu circa tre volte maggiore del con­ sumo francese nel periodo 1720-40.

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cordati e diminuendo la produzione (l’acciaio rimase vir­ tualmente non influenzato dalla rivoluzione industriale). Tre innovazioni fondamentali aumentarono la capacità produttiva dell’industria del ferro: la fusione del metal­ lo con l’impiego del carbone coke anziché del carbone di legna, le invenzioni del puddellaggio e della laminazione, entrambe sfruttate più ampiamente negli anni ’80 del se­ colo xviii, e, dopo il 1829, la corrente d’aria calda di Ja­ mes Neilson. Esse inoltre spostarono definitivamente le locazioni dell’industria del ferro verso i campi carbonife­ ri. Dopo le guerre napoleoniche, quando l’industrializza­ zione cominciò a prender piede in altri paesi, il ferro con­ quistò un importante mercato d’esportazione: già fra il 15 e il 20 per cento della produzione poteva essere ven­ duto all’estero. L’industrializzazione britannica diede vi­ ta a una domanda interna di articoli di metallo molto va­ ria, trattandosi non soltanto di macchine utensili, ma an­ che di ponti, tubi, materiale per costruzione e utensili do­ mestici. Tuttavia, anche cosi la produzione totale rimase molto al di sotto di quella che oggi considereremmo ne­ cessaria per un’economia industriale, specialmente se si tiene presente che i metalli non ferrosi erano allora di scarsa importanza. Probabilmente non raggiunse mai il mezzo milione di tonnellate prima degli anni ’20, e appe­ na 700 000 tonnellate con la punta massima del periodo precedente la ferrovia, nel 1828. L’industria siderurgica stimolò non soltanto tutte le industrie consumatrici di ferro, ma anche quella carboni­ fera (il cui prodotto impiegava per un quarto del totale nel 1842), l’adozione del motore a vapore, e, per lo stes­ so motivo valido per l’industria carbonifera, anche i tra­ sporti. Nondimeno, come avvenne per il carbone, il fer­ ro non iniziò la sua vera rivoluzione industriale prima dei decenni di mezzo del secolo xix, ossia cinquant’anni do­ po del cotone. Infatti, mentre le industrie produttrici di beni di consumo hanno un mercato anche nelle economie preindustriali, quelle produttrici di beni strumentali ne trovano uno solo in economie industrializzate e in corso di industrializzazione. Fu l’epoca della ferrovia, che tri-

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plico la produzione di carbone e ferro in vent’anni e vir­ tualmente creò un’industria dell’acciaio *. Anche altrove si ebbero un evidente e forte sviluppo economico e una trasformazione industriale, ma non an­ cora una rivoluzione industriale. Un gran numero di in­ dustrie, come quelle produttrici di vestiario (eccetto le calze), calzature, materiale per costruzione e d’uso dome­ stico, continuarono a lavorare secondo schemi interamen­ te tradizionali, salvo l’impiego, in qualche caso, di nuovo materiale. Tutt’al più provarono a soddisfare la doman­ da in vasta espansione estendendo il «sistema interno» che mutava artigiani indipendenti in manodopera impo­ verita e sudata che lavorava in scantinati urbani e offici­ ne sistemate nei solai. L’industrialismo non creò fabbri­ che di mobilio e di vestiario, ma abili e organizzati stipet­ tai declinanti verso la condizione di abitatori di topaie, e quegli eserciti affannati e tubercolotici di cucitrici e ca­ miciaie che commuovevano l’opinione della classe media anche in quell’epoca tanto insensibile. Altre attività industriali adottarono forme elementari di meccanizzazione e di forza motrice, inclusa la forza del vapore, nelle piccole officine, e questo accadde specialmen­ te nella moltitudine di industrie che impiegavano metal­ li ed erano cosi caratteristiche di Sheffield e delle Midlands, ma senza mutare il carattere della loro attività, o la produzione destinata al mercato interno. Alcuni di que­ sti complessi di piccole officine interdipendenti erano ur­ bani, come a Sheffield e a Birmingham, altri rurali, come negli sperduti villaggi del «Black Country»; alcuni dei loro operai erano artigiani a giornata quasi partecipi del­ l’orgoglio di appartenere a un’organizzazione di mestiere, ben qualificati, organizzati (come avveniva per le coltel­ lerie di Sheffield) ** ; altri andavano sempre più degeneran* Produzione (in migliaia di tonnellate). Carbone Ferro 1830 16 000 600 18.50 49 000 2000 ** Essi furono in effetti definiti come «organizzati in gilde» da un tu­ rista tedesco che immaginò di riconoscere li un fenomeno familiare nel continente.

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do, nei villaggi imbarbariti e micidiali dove uomini e don­ ne fabbricavano chiodi, catene, e altre semplici merci me­ talliche. (A Dudley, nel Worcestershire, la durata media della vita che ci si poteva aspettare alla nascita nel perio­ do 1841-50, era di diciotto anni e mezzo). Tuttavia altre attività, come la fabbricazione di terraglie, diedero vita a qualcosa di più vicino a un primitivo sistema di fabbri­ ca, o piuttosto a impianti su scala relativamente ampia, basati su una elaborata divisione interna del lavoro. In complesso, comunque, con l’eccezione delle aziende co­ toniere e di quelle su larga scala caratteristiche del ferro e del carbone, la produzione in fabbriche meccanizzate o in complessi analoghi non si ebbe prima della metà del secolo xix, e l’ampiezza media degli impianti o delle azien­ de fu piccola. Ancora nel 1851, 70 industriali cotonieri possedevano un numero di impianti considerevolmente maggiore, che impiegavano circa cento uomini in più che il totale complessivo di 41 000 sarti, calzolai, fabbricanti di motori e macchine, costruttori, carrai, conciatori, ma­ nifatturieri di lana e pettinati, mugnai, fabbricanti di mer­ letti e terracotta che riferirono l’ampiezza delle loro azien­ de all’ufficio del censimento. Ma un’industrializzazione cosi limitata e basata essen­ zialmente su un solo settore dell’industria tessile non po­ teva essere né stabile né sicura. Noi che osserviamo il pe­ riodo dagli anni ’80 del secolo xvm agli anni ’40 del se­ colo seguente alla luce di sviluppi posteriori, lo vediamo semplicemente come la prima fase del capitalismo indu­ striale. Ma non potrebbe essersi trattato della fase finale? La domanda sembra assurda, perché evidentemente non fu quella una fase finale. Considerarla tale significhereb­ be sottovalutare la instabilità e la tensione di quella fase che fu soltanto iniziale, in particolare dei tre decenni do­ po Waterloo, e il senso di malessere dell’economia e di coloro che ne consideravano seriamente le prospettive. La Gran Bretagna industriale della prima fase attraversò una crisi che raggiunse il culmine negli anni ’30 e nei pri­ mi anni ’40 del secolo scorso. Il fatto che non si trattasse di una crisi «finale», ma soltanto di una crisi di nascita, non deve indurci a sottovalutarne la gravità, come inve­

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ce gli storici dell’economia (ma non quelli sociali) sono stati costantemente inclini a fare6. Il segno più evidente dell’esistenza di una crisi fu la forte corrente di malcontento sociale che investi la Gran Bretagna a ondate successive fra gli ultimi anni delle guer­ re e gli anni ’40 del secolo scorso: si ebbero i ludditi e i ra­ dicali, i sindacalisti e i socialisti utopisti, i democratici e i cartisti. In nessun altro periodo della storia britannica moderna la gente comune fu scontenta in modo cosi per­ sistente, profondo e spesso disperato. In nessun altro pe­ riodo, dopo il secolo xvu, possiamo parlare di un cosi va­ sto movimento rivoluzionario, e individuare altrettanto bene almeno un periodo di crisi politica (fra il 1830 e il Reform Act del 1832) in cui avrebbe potuto determinar­ si una situazione rivoluzionaria. Alcuni storici hanno ten­ tato di negare questo malcontento, sostenendo che le con­ dizioni di vita degli operai (salvo una minoranza depres­ sa) continuavano a migliorare, anche se meno rapidamen­ te di quanto avevano fatto prevedere le rosee prospetti­ ve dell’industrialismo. Ma la «rivoluzione delle aspetta­ tive crescenti» si trova più nei libri che nella realtà. Non si sono ancora visti esempi di gente disposta a salire sulle barricate perché non è riuscita a passare dalla proprietà di biciclette a quella di automobili (anche se le stesse per­ sone potrebbero diventare dei rivoluzionari militanti qua­ lora una volta abituate alle biciclette, diventassero trop­ po povere per permettersele). Altri hanno sostenuto, più convincentemente, che il malcontento si manifestò sol­ tanto a causa delle difficoltà di adattarsi a un nuovo tipo di società. Ma anche difficoltà del genere, come dovrebbe risultare chiaramente se si pensa alle migrazioni negli Stati Uniti, devono accompagnarsi ad avversità economi­ che straordinariamente gravi perché gli uomini possano percepire che non stanno guadagnando niente al posto di quanto vanno perdendo. Un malcontento endemico co­ me quello che scosse la Gran Bretagna in quei decenni non può aversi senza la disperazione e la fame, entrambe ben presenti. La povertà degli inglesi era di per sé un ele­ mento importante delle difficoltà economiche del capita­ lismo, perché poneva limiti ristretti all’ampiezza e all’e­

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spansione del mercato interno destinato ad assorbire i prodotti britannici. Questo risulterà evidente se si raffron­ ta il netto aumento del consumo per capita di alcune mer­ ci d’ampio consumo dopo gli anni ’40 del secolo scorso (durante gli anni «aurei» dei vittoriani), con la stagna­ zione avvenuta in epoca precedente. Cosi, l’inglese medio, fra il 1815 e il 1844, consumò meno di 20 libbre di zuc­ chero l’anno (16-17 libbre negli anni ’30 e nei primi anni ’40); ma il suo consumo sali a 34 libbre l’anno, nei trent’anni seguiti al 1844, e a 80-90 libbre negli anni ’90. Co­ munque né la teoria né la prassi economica della prima fase della rivoluzione industriale facevano affidamento sul potere d’acquisto della classe operaia, i cui salari, co­ si si riteneva, non si allontanavano molto dal livello di sussistenza. Quando accadeva che qualche settore di que­ sta classe guadagnasse tanto da poter acquistare le stesse merci dei suoi «migliori» (cosa che si verificò di tanto in tanto durante periodi economici molto favorevoli), l’opi­ nione della classe media deplorava e metteva in ridicolo una simile presuntuosa mancanza di parsimonia. I van­ taggi economici degli alti salari in quanto incentivi a una maggiore produttività o in quanto capaci di far aumenta­ re il potere d’acquisto, non furono scoperti fino a dopo la metà del secolo, e anche allora solo da una minoranza di datori di lavoro moderni e illuminati come Thomas Brassey. Fu soltanto nel 1869 che Stuart Mill, il guardia­ no dell’ortodossia economica, abbandonò la teoria del «Wages Fund», ossia quella che era una teoria di salari di sussistenza *. Per contro, sia l’economia sia la prassi economica at­ tribuirono la più grande importanza all’accumulazione di capitali da parte dei capitalisti, vale a dire al massimo mar­ gine di profitto e alla massima diversione del reddito da­ gli operai (non accumulatori) ai datori di lavoro. Erano i profitti che permettevano all’economia di funzionare e di espandersi mediante i reinvestimenti. I profitti dove* A partire dagli anni ’30 del secolo xix, comunque, alcuni economisti mostrarono di non essere del tutto convinti di questa teoria.

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vano quindi essere aumentati ad ogni costo*. Tale opi­ nione si basava su due presupposti: che il progresso in­ dustriale richiedeva forti investimenti, e che avrebbe avu­ to a disposizione risparmi insufficienti se non si fossero tenuti bassi i redditi delle masse non capitalistiche. Il pri­ mo di questi presupposti era più vero se riferito a un lun­ go periodo di tempo che a uno breve. Le prime fasi della rivoluzione industriale (diciamo dal 1780 al 1815) furo­ no, come abbiamo visto, relativamente limitate e non com­ portarono grosse spese. La capitalizzazione complessiva non superava forse nei primi anni del secolo xix il 7 per cento del reddito nazionale, ossia non raggiungeva quel tasso del io per cento che alcuni economisti considerano oggi essenziale per l’industrializzazione, ed era molto al di sotto di quei tassi fino al 30 per cento che si sono notati nei rapidi processi di industrializzazione di paesi emergen­ ti o di modernizzazione di paesi sviluppati. Non fu prima degli anni ’30 e ’40 del secolo xix che la capitalizzazione complessiva oltrepassò il tetto del io per cento, e in quel periodo, l’epoca dell’industrializzazione a buon mercato, basata su prodotti come quelli tessili, stava cedendo il passo all’epoca della ferrovia, del carbone, del ferro e del­ l’acciaio. Il secondo presupposto, quello per cui i salari dovevano essere tenuti bassi, era del tutto errato, ma pre­ sentava qualche elemento plausibile agli inizi, perché le classi più ricche e i più grossi investitori potenziali di quel periodo, ossia i grandi proprietari terrieri, i ricchi mer­ canti e i finanzieri non investivano forti capitali nelle nuo­ ve industrie. I cotonieri e gli altri capitalisti che andava­ no sbocciando furono quindi lasciati a racimolare un pic­ colo capitale iniziale e ad aumentarlo col solo mezzo di reinvestire i profitti non perché vi fosse una mancanza di capitali in senso assoluto, ma perché essi avevano poche * È impossibile dire di quanto la loro percentuale di formazione del reddito nazionale complessivo sia aumentata in questo periodo, ma non mancano elementi in base a cui si potrebbe supporre che la percentuale di contribuzione dei salari al reddito nazionale sia diminuita fra il 1811 e il 1842, e questo in un periodo in cui i salariati stavano aumentando rapida­ mente la loro proporzione rispetto alla popolazione totale. Si tratta, co­ munque, di una questione difficile da risolvere e il materiale su cui potreb­ be basarsi una risposta è del tutto inadeguato.

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possibilità di accesso ai grossi finanziamenti. Negli anni ’30, ancora una volta ogni penuria di capitali spari *. Due cose quindi angustiavano gli uomini d’affari e gli economisti dei primi anni del secolo xix: il margine dei profitti e il tasso di espansione dei mercati. Entrambe le cose erano causa di preoccupazione, anche se oggi siamo inclini a rivolgere una maggiore attenzione alla seconda. Con l’industrializzazione, la produzione si moltiplicò e i prezzi delle merci finite diminuirono sostanzialmente. (Data la concorrenza in corso tra produttori piccoli e me­ di, raramente si riusciva a tenere alti i prezzi mediante cartelli o analoghe misure volte a tenere fissi i prezzi o a restringere la produzione). I costi di produzione non si riducevano con lo stesso tasso, e del resto nella maggior parte dei casi questo non era neppure possibile. Quando il clima economico generale mutò, sicché da un periodo di inflazione a lungo termine dei prezzi si passò a uno di deflazione alla fine delle guerre, la pressione sui margini di profitto aumentò, perché in un clima di inflazione i profitti si avvantaggiano di una spinta supplementare**, mentre la deflazione li rallenta leggermente. L’industria cotoniera risenti acutamente di questa compressione dei suoi margini di profitto (cfr. tabella). Naturalmente, cento volte 4 denari formavano una * In Scozia, peraltro, si ebbe probabilmente una penuria generale di capitali. È per questo che il sistema bancario scozzese creò un’organizza­ zione di partecipazione all’industria mediante società per azioni molto pri­ ma di quello britannico. Infatti un paese povero abbisogna di un qualche meccanismo per concentrare i molti rivoli dei risparmi in una riserva di­ sponibile per i grossi investimenti produttivi, mentre un paese ricco può valersi delle numerose sorgenti e dei numerosi canali locali. ** Questo perché i salari tendono ad aumentare meno dei prezzi, e in ogni caso, il livello dei prezzi delle merci all’atto della vendita tendeva ad essere maggiore di quello che era stato prima, quando le merci venivano prodotte.

Costi e prezzi di vendita di una libbra di cotone filato7. Materie prime Prezzo di vendita Margine di profitto

1784

1812

1832

los. nd. 2S. 8s. nd.

2S. 6d. xs. 6d. IS.

n%d. 7%d. 3%d.

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somma più alta che 9 scellini una sola volta, ma cosa sa­ rebbe successo se il margine di profitto fosse sceso a zero, imponendo al veicolo dell’espansione economica di fer­ marsi rovinandone il motore e causando quella « situazio­ ne stazionaria» che gli economisti temevano? Se sussiste una rapida espansione dei mercati, la prospettiva ci sem­ bra irreale, cosi come sembrò sempre più irreale (forse a partire dagli anni ’30 del secolo xvili) agli economisti. Ma i mercati non andavano espandendosi cosi rapidamen­ te da assorbire la produzione col tasso di aumento a cui l’economia si era abituata. I mercati interni erano pigri, e probabilmente lo divennero ancor più durante gli anni ’30 e i primi anni ’40, quelli «della fame». All’estero, i paesi in via di sviluppo non erano disposti a importare prodotti tessili inglesi (e il protezionismo britannico li re­ se ancor meno disposti), e quelli sottosviluppati, sui qua­ li l’industria del cotone faceva affidamento, non erano ab­ bastanza grandi o non si espandevano abbastanza rapida­ mente per poter assorbire la produzione britannica. Nei decenni postnapoleonici le cifre della bilancia dei paga­ menti ci mostrano uno spettacolo straordinario: l’unica economia industriale del mondo e il solo vero paese espor­ tatore di manufatti erano incapaci di conservare un sur­ plus di esportazioni nel commercio dei loro prodotti (cfr. cap. 7). Dopo il 1826, inoltre, il paese fu in deficit non solo nell’attività commerciale, ma anche in fatto di servi­ zi (trasporti marittimi, assicurazioni, profitti su attività commerciali e servizi stranieri, e cosi via) *. Nessun periodo della storia britannica è stato cosi te­ so, cosi agitato politicamente e socialmente, come gli an­ ni ’30 e i primi anni ’40 del secolo scorso, quando sia la classe operaia sia la classe media, separatamente o unite, esigevano dei mutamenti che consideravano essenziali. Dal 1829 al 1832 i loro motivi di malcontento si fusero nella richiesta della riforma parlamentare, una richiesta che le masse sostennero con tumulti e dimostrazioni, e * Per essere più precisi, la bilancia dei pagamenti fu leggermente pas­ siva nel periodo 1826-30, attiva nel periodo 1831-35, e di nuovo passiva in tutti i quinquenni dal 1836 al 1855.

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gli uomini d’affari con la forza del boicottaggio politico. Dopo il 1832, quando furono accolte varie richieste dei radicali della classe media, il movimento dei lavoratori combatte e perse da solo. A partire dalla crisi del 1837, l’agitazione della classe media riprese sotto l’insegna del­ la lega contro la Legge sui cereali, e quella delle classi la­ voratrici si ampliò divenendo il gigantesco movimento per la Carta del popolo, anche se le due classi in quel pe­ riodo lottarono indipendentemente e anzi contrastandosi reciprocamente. Tuttavia entrambe le classi, nella loro ri­ valità, erano decise a toccare gli estremi, specialmente du­ rante la peggiore delle depressioni del secolo xix, quella degli anni 1841-42: il cartismo mirava a uno sciopero ge­ nerale, gli estremisti della classe media a una serrata na­ zionale che, riempendo le strade di lavoratori affamati, avrebbe obbligato il governo a intervenire. Buona parte della tensione che si ebbe nel periodo dal 1829 al 1846 fu dovuta alla combinazione di due fattori: le classi lavo­ ratrici disperate perché non avevano abbastanza da man­ giare, e i manifatturieri disperati perché realmente rite­ nevano che le istituzioni politiche e fiscali prevalenti avrebbero lentamente soffocato l’economia. E avevano motivo di allarmarsi. Negli anni ’30 del secolo, anche il dato più semplice con cui si misura il progresso econo­ mico, il reddito reale per capita (da non confondere col livello medio di vita) denunciava un cedimento, per la prima volta dal 1700. L’economia capitalistica non sareb­ be crollata se non si fosse provveduto in qualche modo? E non poteva succedere, come gli osservatori di tutta Eu­ ropa cominciarono a temere sempre più intorno al 1840, che le masse diseredate e impoverite dei lavoratori si ri­ bellassero? Come Marx e Engels giustamente rilevarono, negli anni ’40 lo spettro del comunismo si aggirava per l’Europa. Se esso era temuto relativamente meno in Gran Bretagna, c’era però lo spettro del disastro economico a terrorizzare ugualmente la classe media.

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1 Cfr. Letture ulteriori, e cap. 2, nota 1, p. 52. *p. mantoux, The Industriai Revolution in the 18th Century è ancora apprezzabi­ le; *T. s. ashton, The Industriai Revolution, è breve e chiaris­ simo. Per il cotone, a. p. wadsworth e j. l. mann, The Cotton Trade and Industrial Lancashire, 1931, è fondamentale, ma ar­ riva solo al 1780. N. smelser, Social Change in the Industrial Revolution, 1959, tratta del cotone, ma in gergo. Sugli imprendi­ tori e l’ingegneria cfr. le opere di Samuel smiles, Lives of the Engineers, Industrial Biography, sul sistema di fabbrica, Il Ca­ pitale di Karl Marx rimane indispensabile. Cfr. anche A. redford, Labour Migration in England 1800-1850, 1926, e s. pol­ lard, The Genesis of Modem Management, 1965. Cfr. anche i diagrammi 1-3, 8,14,16-17, 23> 30-31,4°2 «Fabriken-Kommissarius», maggio 1814, citato in j. kuczynski, Geschichte der Lage der Arbeiter unter dem Kapitalismus, Ber­ lin 1964, vol. XXIII, p. 178. 3 T. burton, History of the Borough of Bury, 1874, p. 59. 4 f. harkort, Bemerkungen über die Hindernisse der Zivilisation und die Emancipation der unteren Klassen, 1844, citato in j. kuczynsky, Geschichte der Lage der Arbeiter unter dem Kapi­ talismus cit., vol. IX, p. 127. 5 Andrew ure, The Philosophy of Manufactures, 1835, citato in MARX, Capital, ed. ingl. 1938, p. 419. 6 s. g. checkland, The Rise of Industrial Society in England, 1964, si occupa della questione; cfr. anche r. c. 0. Matthews, A Study in Trade Cycle History, 1954. 7 T. Ellison, The Cotton Trade of Great Britain, 1886, p. 61.

4I risultati umani della rivoluzione industriale (1750-1850)1

L’aritmetica fu lo strumento fondamentale della rivo­ luzione industriale. Gli autori della rivoluzione videro l’aritmetica come una serie di risultati di addizioni e sot­ trazioni: la differenza di costo fra l’acquistare nei merca­ ti meno cari per rivendere nei più cari, fra il costo di pro­ duzione e quello di vendita, fra investimenti e redditi. Per Jeremy Bentham e i suoi seguaci, i più forti campio­ ni di questo tipo di razionalità, tali calcoli semplici pote­ vano essere applicati persino alla morale e alla politica. L’obiettivo della politica era la felicità. Il piacere e anche la pena di ciascuno potevano essere espressi (almeno in teoria) in termini di quantità. Deducendo la pena dal pia­ cere, il risultato netto era la felicità. Sommando la felici­ tà di tutti gli uomini e deducendo le infelicità, si trovava che il governo migliore era quello capace di procurare la maggior felicità del maggior numero di persone. La conta­ bilità della specie umana avrebbe quindi i suoi bilanci di attività e di passività, come quella degli affari *. La discussione dei risultati umani della rivoluzione in­ dustriale non si è interamente emancipata da questo pri­ mitivo metodo di analisi. Noi tendiamo ancora a chieder­ ci: la rivoluzione migliorò o peggiorò le condizioni eco­ nomiche del popolo, e di quanto? Più precisamente ci chiediamo quali ammontari di potere d’acquisto o di mer­ ci, servizi, e cosi via, che il denaro può comperare, furo­ no consentiti dalla rivoluzione industriale e quante per­ * È irrilevante, ai nostri fini, che l’effettivo tentativo di applicare il «calcolo felicistico» di Bentham implichi tecniche matematiche che supe­ rano di parecchio l’aritmetica, anche se non è irrilevante che tale calcolo si sia dimostrato impossibile sulla base proposta da Bentham.

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sone ne beneficiarono, presumendo che una donna in pos­ sesso di una macchina lavatrice stia meglio di una donna che non l’abbia (il che è ragionevole), ma presumendo an­ che a) che la felicità privata consiste in un’accumulazio­ ne di cose come i beni di consumo e ¿) che la felicità pub­ blica consiste nella massima accumulazione del genere da parte del maggior numero di persone (il che non è ragio­ nevole). Tali questioni sono importanti, ma inducono in errore. Stabilire se la rivoluzione industriale abbia dato alla maggior parte degli inglesi, in senso relativo e asso­ luto, cibo, vestiario e abitazione migliori e in quantità maggiori, interessa naturalmente qualsiasi storico. Ma questi andrà fuori strada se dimenticherà che non si trat­ tò semplicemente di un processo di addizione e sottra­ zione, bensì di un mutamento sociale fondamentale. Esso trasformò le vite degli uomini fino a renderle irriconosci­ bili. O, per essere piu esatti, nelle sue fasi iniziali distrus­ se i vecchi modi di vita degli uomini e li lasciò liberi di scoprirne e farsene di nuovi, se potevano. Ma raramente suggerì loro come fare. C’è, indubbiamente, una relazio­ ne fra la rivoluzione industriale in quanto fornitrice di comodità e in quanto trasformatrice sociale. Le classi le cui vite furono meno trasformate furono anche, normal­ mente, quelle che piu ricavarono benefici in termini ma­ teriali (e viceversa) e il fatto che non riuscissero a capire che cosa stesse angustiando le altre classi, o a porvi rime­ dio, fu dovuto a uno stato di soddisfazione non solo ma­ teriale, ma anche morale. Nessuno è piti autocompiacen­ te di un uomo agiato e fortunato che si trovi in un mondo il quale sembri costruito apposta e precisamente con in mente persone come lui. L’aristocrazia e le classi dirigenti locali britanniche ri­ sentirono quindi ben poco dell’industrializzazione, e quel poco fu adoro vantaggio. I canoni di affitto che praticava­ no aumentarono di parecchio con la domanda di beni pro­ dotti nelle fabbriche, con l’espansione delle città (del cui suolo quelle classi erano proprietarie), e delle miniere, degli altiforni e delle ferrovie (che erano situate nelle lo­ ro proprietà). E anche quando ci furono tempi duri per l’agricoltura, come fra il 1815 e gli anni ’30, non corsero

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il rischio di essere ridotte alla miseria. Il loro predominio sociale non fu messo in crisi, il loro potere politico rima­ se intatto nelle campagne e non fu seriamente contestato nell’ambito nazionale, anche se a partire dagli anni ’30 le stesse classi dovettero tenere presente le suscettibilità di una potente e militante classe media di uomini d’affari provinciali. Può ben darsi che dopo il 1830 delle nubi co­ minciassero ad apparire nel puro cielo della vita dei signo­ ri, ma quelle nubi sembravano piu grosse e scure di quel che erano, soltanto perché i primi cinquant’anni dell’in­ dustrializzazione erano stati un’epoca veramente aurea per il britannico titolato e proprietario terriero. Se il se­ colo xviii fu un’età gloriosa per l’aristocrazia, l’era di Giorgio IV (la sua reggenza e il suo regno), fu il paradiso. I branchi di cani da caccia dell’aristocrazia (la moderna tenuta per la caccia alla volpe riflette tuttora essenzial­ mente le sue origini nell’epoca della reggenza) attraver­ savano le contee. I suoi fagiani, protetti da armi da fuo­ co con funzioni di trappola e da guardiani contro tutti quanti non incassavano canoni d’affitto per un equivalen­ te di 100 sterline l’anno, aspettavano la battue. Le case di campagna palladiane e neoclassiche si andavano molti­ plicando a un ritmo mai visto se non nell’epoca elisabet­ tiana. Dato che i suoi indirizzi economici, a differenza del suo stile sociale, erano già allineati con i metodi affaristi­ ci della classe media, l’epoca del vapore e degli uffici di contabilità non pose per l’aristocrazia gravi problemi di adeguamento spirituale a meno che non si trattasse dei suoi membri appartenenti alle gerarchie inferiori o i cui redditi provenissero da quella crudele caricatura di eco­ nomia rurale che era l’Irlanda. L’aristocrazia non dovette cessare di essere feudale, perché da parecchio tempo ave­ va smesso di esserlo. Tutt’al più, qualche rude e ignoran­ te baronetto dell’entroterra senti il nuovo bisogno di man­ dare il figlio in qualche buona scuola (le nuove «public schools » furono fondate a partire dagli anni ’40 del seco­ lo scorso per civilizzare i rampolli dell’aristocrazia oltre che quelli della gente nuova, gli uomini d’affari) o di ras­ segnarsi a più frequenti soggiorni a Londra. Ugualmente placide e prospere erano le vite dei nume­

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rosi parassiti appartenenti alla società aristocratica rura­ le, alta e bassa, quel mondo cioè rurale e provinciale na­ to dalla nobiltà e dalle classi dirigenti locali e dalle pro­ fessioni tradizionali, corrotte e, man mano che la rivolu­ zione procedeva, sempre piu reazionarie. Era un mondo che comprendeva anche i fornitori di quella gente. La chiesa e le università inglesi sonnecchiavano fra il morbi­ do dei loro redditi, privilegi e abusi, delle loro relazioni coi pari del regno, e della loro corruzione, attaccata più seriamente in teoria che in pratica. Gli uomini di legge, e quello che passava per un servi­ zio civile, avevano bisogno di riforme e di essere rigene­ rati. Ancora una volta il vecchio regime andò incontro a uno splendido periodo nel decennio seguito alle guerre na­ poleoniche, dopo di che qualche increspatura cominciò a formarsi sulla superficie delle quiete acque stagnanti dei recinti delle cattedrali, dei colleges, delle associazioni fo­ rensi, e cosi via. A partire dagli anni ’30 anche per queste cose sopravvennero dei cambiamenti, ma in modo piutto­ sto tranquillo (se si eccettuano gli attacchi duri e sprez­ zanti, ma non molto efficaci, mossi da gente esterna e di cui i romanzi di Charles Dickens sono l’esempio più fa­ miliare). Ma il rispettabile clero vittoriano del Barchester di Trollope, anche se era molto differente dai magi­ strati parroci, amanti della caccia che vivevano nel pe­ riodo della reggenza e che furono immortalati da Hogarth, fu il prodotto di un adeguamento moderato e non di uno sconvolgimento. Le suscettibilità dei parroci e dei professori dei col­ leges furono tenute in assai maggior conto che quelle dei tessitori e dei braccianti agricoli, quando si trattò di im­ mettere quelle rispettabili persone in un mondo nuovo. Un importante effetto di questa continuità - riflesso in parte del potere della vecchia classe superiore e in par­ te di una deliberata ritrosia a esacerbare le tensioni poli­ tiche fra gli uomini ricchi e potenti - fu che le nuove classi degli uomini d’affari trovarono un saldo modello di vita ad attenderle. 11 successo non dava luogo a incertez­ ze, purché fosse cosi grande da sollevare un uomo alle fi­ le delle classi superiori. L’uomo di successo diventava un

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«gentleman», naturalmente con una casa in campagna, e magari alla fine con un cavalierato o un titolo di pari, un seggio in parlamento per sé o per il figlio istruito a Oxford o a Cambridge, e un chiaro e definito ruolo sociale. La moglie diventava una «lady» istruita nei suoi doveri da una moltitudine di manuali d’etichetta che uscirono dalle stamperie dopo gli anni ’40. Di questo processo di assi­ milazione, aveva già da lungo tempo beneficiato più l’uo­ mo d’affari nella versione più antica, quella del merchant e del finanziere, e specialmente il mercante dedito ai traf­ fici d’oltremare, che rimase l’incarnazione più importante e rispettabile dell’imprenditore parecchio tempo dopo che i mulini, le fabbriche, le fonderie ricoprissero di fumo e nebbia i cieli settentrionali. Anche per lui la rivoluzione industriale non significò trasformazione importante se non forse nelle merci che comprava e vendeva. E in real­ tà, come abbiamo visto, la rivoluzione industriale si in­ serì benissimo nella forte e prosperosa struttura commer­ ciale mondiale che fu la base della potenza britannica nel secolo xviii. Economicamente e socialmente le attività e la condizione di quei mercanti erano cose conosciute e ac­ cettate da tutti, quale che fosse il piolo della scala del successo a cui erano arrivati. Al tempo della rivoluzione industriale, i discendenti di Abel Smith, banchiere di Not­ tingham, avevano già residenze di campagna, sedevano in parlamento, avevano contratto matrimoni con la classe di­ rigente locale, anche se non ancora come in seguito, con membri della famiglia reale. I Glyn erano già passati da un’azienda del sale a Hotton Garden a una posizione ana­ loga, i Baring da manifatturieri di vestiario nel West Country erano divenuti una grande potenza del commer­ cio e della finanza internazionali, e la loro ascesa sociale aveva tenuto il passo coi loro progressi economici. Titoli di pari erano già stati ottenuti o erano in vista. Niente era più naturale che uomini d’affari con altre attività, come Robert Peel senior, il cotoniere, dovessero ascendere la scala della ricchezza e dei pubblici onori, in cima alla qua­ le stava un posto al governo, o addirittura (come accad­ de per il figlio di Peel e il figlio di Gladstone, il mercante di Liverpool), la carica di primo ministro. Il cosiddetto

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gruppo «peelita» in parlamento, nel secondo trentennio del secolo xix era rappresentativo di questo gruppo di fa­ miglie di uomini d’affari assimilate in un’oligarchia ter­ riera, anche se venne a trovarsi in urto con questa oligar­ chia quando gli interessi terrieri e quelli affaristici furono in contrasto. Comunque, l’assorbimento di un’oligarchia aristocrati­ ca è, per definizione, possibile solo per una minoranza, nel nostro caso una minoranza di persone ricchissime o di uomini d’affari che avevano raggiunto la rispettabilità per mezzo della tradizione *. La gran massa degli uomini che erano saliti da inizi modesti (anche se raramente mise­ ri) all’agiatezza consentita dagli affari, e la massa ancora maggiore di coloro che, ancora al di sotto, premevano uscendo dalla classe operaia per raggiungere la classe me­ dia, erano troppo numerose per poter essere assorbite, tanto più che nelle prime fasi dell’avanzamento i loro membri si curavano poco di essere assorbiti (anche se sa­ rà accaduto spesso che le loro mogli non fossero altret­ tanto neutrali nella questione). Essi si identificarono sem­ pre più - e dopo il 1830 questo divenne un criterio gene­ rale — come una « classe media » e non semplicemente co­ me un «grado medio» nella società, e rivendicarono i di­ ritti e il potere propri della classe media. Inoltre, quan­ do, come accadeva spesso, erano di origini non anglicane e provenivano da regioni mancanti di una solida struttu­ ra aristocratica tradizionale, non erano legati sentimen­ talmente al vecchio regime. Uomini del genere furono i pilastri della lega contro la legge sui cereali, gente che ap­ parteneva al nuovo mondo degli affari di Manchester: Henry Ashworth, John Bright of Rochdale (quaccheri entrambi); Potter del «Manchester Guardian»; i Greg; Brotherton, il cristiano biblico ex cotoniere; George Wil­ son, l’industriale dell’amido e della gomma, e lo stesso Cobden, che doveva ben presto abbandonare la sua non molto brillante carriera nel campo del calicò per diven­ tare un ideologo a tempo pieno. * Come non accadde, ad esempio, per il commercio al minuto e per certi tipi di industrie.

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Tuttavia la rivoluzione industriale, che aveva fatto tra­ sferire quegli uomini in nuove città e aveva posto a loro e alla nazione nuovi problemi, pur mutando fondamen­ talmente le loro vite e forse quelle dei loro genitori, non le disorganizzò. Le semplici massime della filosofia utili­ taria e dell’economia liberale, volgarizzate negli slogan dei giornalisti e dei propagandisti pagati da quei nuovi potenti fornivano la guida di cui c’era bisogno, e se questo non bastava, l’etica tradizionale, protestante o d’altra con­ fessione dell’imprenditore ambizioso, e la parsimonia, il duro lavoro, il puritanismo morale, facevano il resto. Le fortezze del privilegio aristocratico, della superstizione e della corruzione, che dovevano ancora essere abbattute per permettere alla libera iniziativa di introdurre il suo millennio, proteggevano la nuova classe sottraendo alla vi­ sta le incertezze e i problemi che si nascondevano dietro le loro mura. Fino agli anni ’30 del secolo, quasi non si era affacciato a quegli uomini il problema di che cosa fa­ re con i capitali eccedenti, che potevano essere spesi per avere agi a sufficienza, e essere reinvestiti nelle aziende in espansione. L’ideale di una società individualista, di un’unità familiare che soddisfava tutti i propri bisogni materiali e morali andava bene per loro, perché erano uo­ mini che non avevano più bisogno di tradizioni. I loro stessi sforzi li avevano allontanati dalla via consuetudina­ ria. Quegli sforzi erano in un certo senso la ricompensa di se stessi, e se questo non bastava, c’era sempre il de­ naro, la casa comoda lontana dal fumo dell’opificio e del­ l’ufficio di contabilità, la moglie devota e modesta, il cir­ colo di famiglia, i piaceri dei viaggi, dell’arte, della scien­ za e della letteratura. Era gente di successo e rispettata. «Accusate la classe media quanto volete, - disse un agi­ tatore che si opponeva alla Legge sui cereali a un ostile pubblico cartista, - non c’è nessuno fra voi che guada­ gni mezzo penny la settimana, il quale non sia ansioso di entrare a far parte di quella classe»2. C’era solo l’incubo della bancarotta e dei debiti a rattristarne talvolta la vita, e di questo possiamo renderci conto leggendo i romanzi dell’epoca, dove vediamo la fiducia posta in un socio che non la meritava, la crisi commerciale, la perdita degli agi

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propri della classe media, le donne ridotte a una dignito­ sa miseria, e talvolta l’emigrazione verso quel secchio di spazzatura della gente che non aveva avuto successo e di cui nessuno aveva bisogno, le colonie. La classe media, che aveva raggiunto il successo, e quelli che speravano di emularla, erano molto soddisfat­ ti. Non cosi i poveri che lavoravano, e che secondo la na­ tura delle cose erano la maggioranza, il cui mondo e il cui modo di vita tradizionale la rivoluzione industriale di­ struggeva senza una sostituzione automatica con qualcosa d’altro. È questo disgregamento che è alla base della que­ stione circa gli effetti sociali dell’industrializzazione. Il lavoro, in una società industriale, è sotto molti aspet­ ti differente da quello che si svolge in una società preindu­ striale. In primo luogo esso è soprattutto il lavoro dei «proletari», che non hanno fonti di reddito degne di no­ ta eccetto un salario in contanti che ricevono per la loro opera. La manodopera preindustriale, invece, è formata in gran parte da famiglie con le loro proprietà contadine, con le proprie attrezzature artigianali, e cosi via, o con un reddito salariale che integra questo diretto accesso ài mezzi di produzione, e che d’altro canto può costituire esso stesso un’integrazione dei salari. Inoltre il proletario, il cui unico legame con il proprio datore di lavoro è quel­ lo del salario, va distinto dal «servo» o dal dipendente preindustriale, che ha col «padrone» una relazione uma­ na e sociale molto complessa e comportante doveri per entrambe le parti, anche se non equamente divisi. La ri­ voluzione industriale sostituì il servo e l’uomo col lavo­ rante e «le braccia», eccettuati naturalmente i servitori domestici (perlopiù donne), il cui numero essa moltipli­ cò per il beneficio della media classe in sviluppo, perché il miglior modo di distinguersi dai lavoratori manuali era appunto quello di avere dei lavoratori dipendenti *. In secondo luogo, il lavoro industriale, e specialmente * Alcune categorie di operai non furono però ridotte completamente al semplice legame salariale, come i «servitori delle ferrovie» che pagava­ no con la disciplina e la mancanza di diritti una sicurezza straordinaria­ mente buona, possibilità di promozione graduali e una pensione dopo il ritiro dal servizio.

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il lavoro meccanizzato di fabbrica, impone una regolarità, una routine e una monotonia che non si notano nei rit­ mi preindustriali di lavoro, dipendenti dalle variazioni delle stagioni e del tempo, dalla molteplicità dei compiti in occupazioni non sottoposte alla razionale divisione del lavoro, dai capricci di altri esseri umani o animali, o an­ che dal fatto che un uomo può desiderare di divertirsi an­ ziché di lavorare. Questo valeva anche per il lavoro pre­ industriale salariato svolto dai lavoratori qualificati, come gli artigiani a giornata la cui invincibile tendenza a non iniziare il lavoro prima del martedì mattina («lunedi san­ to») era la disperazione dei loro padroni. L’industria por­ ta la tirannia dell’orologio, la macchina che fissa il tempo, e porta una complessa interazione dei processi, con tempi accuratamenti stabiliti; si ha cioè la misurazione della vita non in stagioni (i termini quadrimestrali in cui scadono i contratti d’affitto) e nemmeno in settimane e giorni, ma in minuti, e si ha soprattutto una regolarità meccanizza­ ta del lavoro che è in conflitto non soltanto con la tradizio­ ne, ma con tutte le inclinazioni di un’umanità tuttora non completamente disposta ad accettare un simile stato di co­ se. E dato che gli uomini non adottavano spontaneamente queste novità, bisognò obbligarli con la disciplina e le multe, con leggi sul lavoro dipendente come quella del 1823 che li minacciava di prigione in caso di rottura di contratto (ma per i padroni c’era solo la minaccia di mul­ te), e con salari tanto bassi che soltanto una fatica dura e ininterrotta consentiva di guadagnare il denaro necessa­ rio alla sopravvivenza, senza per altro fornire loro il de­ naro che avrebbe permesso di tralasciare il lavoro per piu del tempo da dedicare ai pasti, al sonno e, dato che la Gran Bretagna era un paese cristiano, alla preghiera nel giorno del Signore. In terzo luogo, l’attività lavorativa dell’età industriale veniva svolta sempre più nell’ambiente della grande cit­ tà (una novità rispetto al passato), e questo malgrado il fatto che la più antiquata delle rivoluzioni industriali aves­ se dato vita a parecchie delle sue attività in villaggi indu­ strializzati di minatori, tessitori, fabbricanti di chiodi e catene, e altri operai specializzati. Nel 1750 erano solo

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due in Gran Bretagna le città con oltre cinquantamila abi­ tanti, Londra e Edinburgo; nel 1801 ce n’erano già otto, e nel 1851 ventinove, fra cui nove con piu di centomila abitanti. In quell’epoca, gli abitanti delle città erano di­ ventati piu numerosi degli altri, e quasi un terzo della popolazione viveva in città con più di cinquantamila abi­ tanti. E che città! Non c’era soltanto il fatto che erano co­ perte da una coltre di fumo e impregnate di cattivo odore, e che i servizi pubblici elementari - il rifornimento di ac­ qua, i servizi igienici, la pulizia delle strade, gli spazi aperti, e cosi via - non riuscivano a tenere il passo con l’immigrazione di massa nelle città, causando cosi, spe­ cialmente dopo il 1830, epidemie di colera, febbre tifoi­ dea, e un numero spaventoso e costante di morti dovute ai grandi assassini delle aree urbane nel secolo xix, la pol­ luzione dell’aria e dell’acqua che si risolvevano nelle ma­ lattie respiratorie e in quelle intestinali. Non c’era soltan­ to il fatto che le nuove popolazioni urbane, talvolta per niente abituate alla vita non rurale, come gli irlandesi, si pigiavano in slums tetri e sopraffollati, la cui sola vista raggelava il cuore degli osservatori. «La civiltà fa i suoi miracoli, - scrisse a proposito di Manchester il grande li­ berale francese de Tocqueville, - e cosi l’uomo civile è stato quasi fatto ridiventare un selvaggio»3. Né si trat­ tava semplicemente della dura concentrazione sull’utilità e il profitto di coloro che costruivano gli slums (è famosa a questo proposito la descrizione di Charles Dickens in Co­ ketown) e che costruivano file interminabili di case e ma­ gazzini, strade acciottolate e canali, dimenticando però le fontane e le piazze pubbliche, i viali e gli alberi, e qual­ che volta anche le chiese. (La compagnia che costruì la cittadina di Crewe, un nodo ferroviario, concesse grazio­ samente ai suoi abitanti di usare ogni tanto, per il servizio divino, un recinto dove si tenevano le locomotive). Do­ po il 1848, le città tesero ad acquisire questa specie di ar­ redamenti pubblici, ma durante le prime generazioni del­ la rivoluzione industriale ne ebbero in quantità molto scarsa, salvo i casi in cui esistevano tradizioni di edifici pubblici e spazi aperti benevolmente offerti da chi co­ mandava, e la vita dei poveri, quando non erano al la-

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voro, era spesa nelle file di casette o casone popolari, nel­ le improvvisate locande a buon mercato, e nelle misere cappelle altrettanto improvvisate, unica cosa messa li a ricordare che l’uomo non si contenta di vivere di solo pane. Non si trattò dunque soltanto del fatto che la città di­ strusse realmente la società. «Non c’è un’altra città al mondo in cui la distanza fra i ricchi e i poveri sia altret­ tanto grande o in cui la barriera fra le due classi sia al­ trettanto difficile da superare, - scriveva un pastore a pro­ posito di Manchester. - Ci sono meno rapporti personali fra un padrone di filanda e i suoi operai, fra uno stampa­ tore di calicò e i suoi ragazzi dalle mani blu, fra il mae­ stro sarto e i suoi apprendisti, di quanti ce ne siano fra il duca di Wellington e il piu umile dei suoi braccianti»4. La città era un vulcano, e i ricchi e i poveri ascoltavano con timore il suo rumore assordante, temendone le eru­ zioni. Ma per i suoi poveri abitanti la città non era soltan­ to un costante richiamo alla loro esclusione dalla società umana. Era anche un deserto di pietra da rendere abita­ bile soltanto con i loro sforzi. Quarto, l’esperienza, la tradizione, la saggezza e la mo­ ralità dei tempi preindustriali non fornivano una guida adeguata per il tipo di comportamento richiesto da un’e­ conomia capitalistica. Il lavoratore preindustriale era sen­ sibile a incentivi materiali, in quanto desiderava guada­ gnare abbastanza da arrivare a godere quella che era con­ siderata una vita confortevole al livello sociale a cui era piaciuto a Dio di porlo, ma anche le sue idee di vita con­ fortevole erano determinate dal passato, e limitate da quello che era «appropriato» per un uomo della sua po­ sizione o magari della posizione immediatamente supe­ riore alla sua. Se guadagnava più di quello che conside­ rava sufficiente, poteva capitare che, come facevano gli immigrati irlandesi, disperazione del razionalismo bor­ ghese, ne approfittasse per lavorare meno o spendere de­ naro in divertimenti e alcool. La sua completa ignoranza materiale circa il modo migliore di vivere in una città o di approfittare del cibo prodotto industrialmente (cosi differente da quello dei villaggi) poteva in effetti rende-

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re la sua povertà peggiore di «quanto bisognasse»; os­ sia peggiore di quello che sarebbe stata se il lavoratore non fosse stato l’uotno che inevitabilmente era. Questo conflitto fra 1’«economia morale» del passato e il raziona­ lismo economico del presente capitalistico era partico­ larmente evidente nel campo della sicurezza sociale. Se­ condo il concetto tradizionale che sopravviveva ancora, anche se distorto, in tutte le classi della società rurale e nelle relazioni interne dei gruppi della classe operaia, un uomo aveva il diritto di guadagnarsi da vivere e, se non poteva farlo, aveva il diritto di essere tenuto in vita dal­ la comunità. Il principio degli economisti liberali della classe media era che gli uomini dovevano accettare quei lavori che il mercato offriva, quali che fossero le condizio­ ni dell’offerta, e che un uomo razionale sarebbe ricorso al risparmio e alle assicurazioni, individualmente o attra­ verso iniziative collettive volontarie, per garantirsi con­ tro gli incidenti, le malattie e la vecchiaia. Gli altri pove­ ri, si ammetteva, non dovevano essere lasciati a morire di fame, ma non avrebbero dovuto ricevere più del minimo indispensabile (ammesso che esistesse un minimo infe­ riore ai salari più bassi offerti dal mercato). La legislazio­ ne riguardante i poveri, più che essere volta ad aiutare gli sfortunati, intendeva imprimere un marchio sui falliti della società che ammettessero di esserlo. Il concetto della classe media circa le « Società degli amici » era che si trat­ tava di forme razionali di assicurazione. Era un concetto che faceva a pugni con quello della classe operaia, che prendeva la denominazione alla lettera, e le considerava come comunità di amici in un deserto di individui, amici che naturalmente spendevano il loro denaro anche in riu­ nioni, feste e in quegli «inutili» costumi e riti che tanto piacevano agli Oddjellows, ai Foresters e agli altri «ordi­ ni» che sorsero in tutto il settentrione dopo il 1815. An­ che le veglie funebri e i funerali irrazionalmente costosi con cui gli operai tenevano a tributare un omaggio tra­ dizionale ai morti e a riaffermare la solidarietà comunita­ ria dei viventi erano incomprensibili per una classe me­ dia la quale osservava che la gente cui piaceva organizza­ re quelle cerimonie spesso non era in grado di pagarle.

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Tuttavia il primo servizio che un sindacato operaio o una associazione amichevole si preoccupava di offrire era ine­ vitabilmente quello dei funerali. In quanto dipendente dalle iniziative stesse dei lavo­ ratori, i servizi di sicurezza sociale tendevano ad essere economicamente insufficienti secondo i livelli della clas­ se media; in quanto dipendenti dai governanti, i quali de­ cidevano quale fosse il poco di assistenza pubblica neces­ saria, era uno strumento di degradazione e oppressione piu che di soccorso materiale. Poche leggi sono state più inumane della Legge per i poveri del 1834, che fissò per gli aiuti un livello «meno conveniente» del salario più basso sul mercato, limitandoli a quanti si adattavano a vivere in quelle prigioni che erano le case di lavoro, ren­ dendo obbligatoria la separazione dei mariti, delle mogli e dei figli con l’intento di punire i poveri per il loro sta­ to miserando e di allontanare da loro la pericolosa tenta­ zione di procreare altri indigenti. La legge non fu mai com­ pletamente applicabile, perché i poveri, dove erano abba­ stanza forti ne respinsero gli aspetti più brutali, e perché col tempo divenne meno punitiva. Rimase però la base del soccorso agli inglesi indigenti fino alla vigilia della prima guerra mondiale, e le esperienze di Charlie Chaplin nella sua fanciullezza dimostrarono che la legge era ri­ masta molto simile a quella che era stata quando Oliver Twist di Dickens espresse negli anni ’30 * l’orrore popo­ lare che ispirava. E negli anni ’30, anzi fino agli anni ’50 del secolo, almeno il io per cento della popolazione in­ glese era formata da indigenti. Almeno fino a un certo punto, come accadde per i mer­ canti e gli industriali del periodo georgiano, l’esperienza dei tempi andati non fu trascurabile quanto avrebbe po­ tuto essere in un paese che fosse passato in modo più ra­ dicale e diretto da un’epoca non industriale a un’epoca in­ dustriale moderna, e fu questo il caso dell’Irlanda e del­ le parti settentrionali della Scozia. La Gran Bretagna se­ miindustriale dei secoli xvu e xvm sotto molti aspetti preparò e anticipò il periodo industriale del secolo xix. Le leggi scozzesi per i poveri erano in certo modo differenti.

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Per esempio, l’istituzione fondamentale con cui la classe operaia si difendeva, la trade union, esisteva già nel seco­ lo xviii, in parte sotto forma di «trattativa collettiva so­ stenuta da tumulti» (se ne valevano i marinai, i mina­ tori, i tessitori a mano e gli orditori) e in parte quella mol­ to più stabile delle associazioni di mestiere dei lavoratori a giornata qualificati, talvolta con collegamenti su scala nazionale, soprattutto dati dalla pratica di assistere i col­ leghi senza lavoro che vagabondavano in cerca di occu­ pazione e di esperienza. In un senso molto reale la gran massa degli operai bri­ tannici si erano adattati a una società in via di mutamento, che andava industrializzandosi, ma che non era ancora ri­ voluzionaria. Per alcune categorie di lavoratori le cui con­ dizioni non erano ancora cambiate sostanzialmente - ven­ gono di nuovo alla mente i minatori e i marinai - le vec­ chie tradizioni potevano ancora bastare: i marinai molti­ plicavano le loro canzoni sulle nuove esperienze del seco­ lo xix, come la caccia alla balena al largo della Groenlan­ dia, ma si trattava di canzoni popolari tradizionali. Un gruppo importante aveva accettato, e volentieri, l’indu­ stria, la scienza e il progresso (ma non il capitalismo). Era­ no questi gli «artigiani», gli uomini qualificati, esperti, in­ dipendenti e istruiti, che non vedevano una grande diffe­ renza tra loro stessi e quelle altre persone di condizione so­ ciale analoga che preferivano diventare imprenditori o ri­ manere piccoli proprietari terrieri o piccoli negozianti; era la classe che superava le linee di demarcazione esistenti fra la classe media e quella operaia *. Gli «artigiani» furono le guide naturali dell’ideologia e dell’organizzazione fra la massa della gente povera che lavorava, furono i pionieri del radicalismo (e in seguito delle prime versioni del so­ * La famiglia di Harold Wilson, primo ministro della Gran Bretagna a seguito delle elezioni del 1964, è quasi un’illustrazione da manuale di questo strato sociale. Ecco le otto precedenti generazioni paterne: piccolo coltivatore diretto, piccolo proprietario, agricoltore, cordaio, direttore di ospizio, commesso di magazzino, decoratore, operaio chimico. Nel secolo xix il ramo si imparentò con una generazione di tessitori e filatori, con un’altra comprendente un manifatturiere di orditi di cotone, un fuochista di ferrovia, e una terza comprendente un impiegato di ferrovia e un inse­ gnante (cfr. «Sunday Times», 7 marzo 1965).

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cialismo, quelle owenite), della discussione e di una piu elevata istruzione popolare perseguita attraverso gli isti­ tuti per artigiani, i palazzi della scienza e tutta una serie di club, società, stampatori ed editori senza pregiudizi, e formarono anche il nucleo delle trade unions, del giaco­ binismo, del cartismo e di tutti gli altri movimenti pro­ gressisti. I tumulti dei braccianti erano appoggiati dai ciabattini e dai muratori dei villaggi; nelle città piccoli gruppi di tessitori a mano, stampatori, sarti, e talvolta al­ cuni piccoli imprenditori e bottegai, fornirono una con­ tinuità politica di capi di sinistra fino al declino del carti­ smo, se non oltre. Ostili al capitalismo, costoro furono im­ pareggiabili nell’elaborazione di ideologie che non sol­ tanto propugnavano il ritorno ad una idealizzata tradi­ zione, ma immaginavano una società giusta che sarebbe anche stata ideologicamente progressiva. Soprattutto, rap­ presentavano l’ideale di libertà e indipendenza in un’epo­ ca in cui tutto cospirava a degradare i lavoratori. Tuttavia anche queste non erano che soluzioni tempo­ ranee del problema dei lavoratori. L’industrializzazione moltiplicò il numero dei tessitori a mano e degli ordito­ ri fino al termine delle guerre napoleoniche. Dopo di al­ lora li distrusse con un lento strangolamento: comunità militanti e consapevoli come gli operai della Dunferm­ line divennero preda della demoralizzazione e dell’indi­ genza e dovettero cercare sollievo nell’ernigrazione degli anni ’30 del secolo. Abili artigiani furono degradati a sfruttati lavoranti a domicilio, come accadde ai mobilie­ ri di Londra, e pur essendo sopravvissuti ai terremoti eco­ nomici degli anni ’30 e ’40, non poterono piu svolgere un importante ruolo sociale in un’economia in cui la fab­ brica non era più un’eccezione regionale, ma la regola. Le tradizioni preindustriali non poterono tener dietro al livello, inevitabilmente sempre più alto, della società in­ dustriale. Nel Lancashire vediamo morire dopo il 1840 i vecchi modi di passare i giorni festivi: le feste dei giun­ chi, gli incontri di lotta, i combattimenti di galli, e i cani aizzati contro i tori incatenati; e gli anni ’40 segnarono anche la fine di un’epoca in cui la canzone popolare era rimasta la principale espressione musicale degli operai

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industriali. Morirono anche i grandi movimenti che ave­ vano attinto forza non soltanto dalle estreme durezze dell’epoca, ma anche dalla potenza di quei più vecchi me­ todi d’azione adottati dai poveri. Dovevano passare altri quarant’anni prima che la classe operaia britannica evol­ vesse nuovi modi di lotta e di vita. Tali furono le tensioni qualitative che opprimevano i lavoratori poveri durante le prime generazioni industria­ li. A queste vanno aggiunte quelle quantitative, date dal­ la loro povertà materiale. Gli storici hanno aspramente discusso sulla questione se essa realmente aumentò o no, ma il semplice fatto che ci sia una simile questione da discutere fornisce una triste risposta: nessuno sostiene seriamente che le condizioni di vita peggiorano in perio­ di in cui chiaramente questo non succede, come negli an­ ni ’50 del nostro secolo *. Non c’è, naturalmente, nessuna disputa circa il fatto che, in senso relativo, i poveri diventarono più poveri già perché il paese, e le sue classi superiore e media, divenne­ ro cosi chiaramente più ricche. Il vero momento in cui i poveri si trovarono agli sgoccioli della loro resistenza economica, nei primi e medi anni ’40 del secolo xix, fu quando la classe media trasudava capitali che venivano investiti nelle ferrovie e spesi negli opulenti arredi do­ mestici messi in mostra nella Grande Esposizione del 1851, e nei palazzi municipali che ci si accingeva a costrui­ re nelle fumose città settentrionali. In secondo luogo, non c’è, o non sembra esserci, alcu­ na disputa circa l’anormale pressione sui consumi della classe operaia nella prima fase dell’industrialismo, una pressione che è riflessa in questa riduzione a un relativo stato d’indigenza. Industrialismo significa una relativa di­ versione del reddito nazionale dal consumo all’investi­ mento, fonderie al posto di bistecche. In un’economia ca­ * In effetti, durante periodi del genere, si tende a dimenticare le ampie aree in cui sussiste la povertà, a cui tocca di essere riscoperta periodica­ mente (almeno da quelli che non sono poveri), come accadde negli anni ’80 del secolo scorso, quando le prime indagini sociali le rivelarono a una stu­ pida classe media. Una riscoperta analoga ebbe luogo nei primi e medi an­ ni ’60 del nostro secolo.

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pitalistica questa diversione prende in gran parte la forma di uno spostamento di reddito dalle classi non investitrici, come i contadini e gli operai, verso classi potenzial­ mente investitrici, come i proprietari terrieri e gli im­ prenditori, ossia dai poveri verso i ricchi. In Gran Bre­ tagna non si ebbe mai la più piccola mancanza generale di capitali, grazie alla ricchezza del paese e al costo relati­ vamente basso dei primi processi industriali, ma una gran parte di quanti beneficiarono di questo spostamento di reddito e in particolare i più ricchi fra questi, investiva­ no i capitali direttamente nell’industria o li sprecavano, obbligando cosi il resto degli imprenditori (minori) a pre­ mere ancor più duramente sulla manodopera. Inoltre, l’e­ conomia non poteva basarsi, per il suo sviluppo, sul pote­ re d’acquisto delle classi lavoratrici. Gli economisti ten­ devano infatti a presumere che i loro salari non superas­ sero di molto il livello di sussistenza. Teorie che soste­ nevano la necessità di alti salari in quanto economica­ mente vantaggiosi cominciarono ad apparire solo verso la metà del secolo xix, e le industrie che rifornivano il mercato dei consumi interni, per esempio quello del ve­ stiario e del mobilio, non furono rivoluzionate fino alla metà dello stesso secolo. L’inglese che voleva un paio di calzoni poteva scegliere fra farseli fare su misura da un sarto, comprare gli indumenti smessi dai suoi superiori sociali, rivolgersi alla carità, andare vestito di stracci, o farsi i calzoni da sé. Ancora, certe cose essenziali per la vita — il cibo e forse le abitazioni, ma certamente le co­ modità urbane - faticavano parecchio a tenere il passo con l’espansione delle città e della popolazione nel suo in­ sieme, e talvolta chiaramente non ci riuscivano. Cosí, i ri­ fornimenti di carne per Londra quasi certamente furono insufficienti per la popolazione della città dal 1800 fino agli anni ’40 del secolo. In terzo luogo, non ci sono dispute a proposito di al­ cune classi della popolazione le cui condizioni peggioraro­ no senza alcun dubbio. Si tratta dei lavoratori agricoli (circa un milione di persone nel 1851), in ogni caso di quelli dell’Inghilterra meridionale e orientale, e dei picco­ li proprietari e affittuari delle alee celtiche della Scozia e

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del Galles. Gli otto milioni e mezzo di irlandesi, perlopiù contadini, erano naturalmente ridotti all’indigenza oltre ogni credere. Non molto meno di un milione di loro mo­ rirono realmente di fame durante la carestia degli anni 1846-47, e fu quella la più grande catastrofe umana del se­ colo xix in tutto il mondo *. Ci furono inoltre il declino delle industrie e delle occupazioni, rimpiazzate dal pro­ gresso tecnico: quello del mezzo milione di tessitori a ma­ no rimasti senza lavoro è l’episodio più conosciuto, ma non il solo. Quegli operai si ridussero progressivamente alla fame nel vano tentativo di competere con le nuove macchine lavorando di più e con guadagni minori. Il loro numero s’era raddoppiato fra il 1788 e il 1814, e i loro sa­ lari erano aumentati nettamente fino al periodo medio del­ le guerre napoleoniche, ma fra il 1805 e il 1833 i salari sce­ sero da 23 scellini la settimana a 6 scellini e 3 denari. C’e­ rano poi le occupazioni non industrializzate che acconten­ tavano la domanda sempre crescente delle stesse merci non grazie ad una rivoluzione tecnica, ma con un declas­ samento del lavoro e lo sfruttamento. Si pensi ad esem­ pio alle innumerevoli cucitrici che lavoravano nelle soffit­ te o nei sottoscala. È impossibile stabilire se troveremmo un guadagno medio o una perdita media netti riunendo tutte le sezioni dei lavoratori poveri e gravati e raffrontandole con quelle sezioni di lavoratori che riuscivano in qualche modo a migliorare i loro redditi. La questione è insolubile perché non sappiamo abbastanza circa i guadagni, la disoccupa­ zione, i prezzi al dettaglio e altri dati necessari per una ri­ sposta conclusiva. Certamente non si ebbe un migliora­ mento generale di rilievo. Può esserci o non esserci stato un peggioramento fra la metà degli anni ’90 del secolo xix e la metà degli anni ’40 del secolo successivo. In se­ guito, il miglioramento fu indiscutibile, ed è il contrasto fra questo miglioramento (comunque modesto) e i dubbi che si hanno per il periodo precedente a dirci quello che abbiamo bisogno di sapere. Dopo i primi anni ’40 del se­ colo scorso, tuttora e giustamente chiamati «gli anni ’40 Vale a dire in relazione al numero degli abitanti.

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della fame», anche se in Gran Bretagna (ma non in Ir­ landa) le cose migliorarono durante la maggior parte del decennio, la disoccupazione diminuì senza dubbie netta­ mente. Per esempio, nessuna depressione ciclica susse­ guente fu sia pure lontanamente catastrofica come il crol­ lo degli anni 1841-42. E soprattutto, il senso di immi­ nente esplosione sociale che si era avvertito quasi ininterrottamente in Gran Bretagna dalla fine delle guerre na­ poleoniche (con l’eccezione della maggior parte degli anni ’20) scomparve. Gli inglesi cessarono di essere rivolu­ zionari. Naturalmente questo diffuso malcontento sociale e po­ litico rifletteva non soltanto la esistente povertà mate­ riale, ma il corrente processo di impoverimento sociale: la distruzione cioè dei vecchi modi di vita senza una so­ stituzione con qualcosa che i lavoratori poveri potesse­ ro considerare come un sufficiente equivalente. Ma qua­ li che fossero i motivi, ondate di disperazione si abbatte­ rono periodicamente sul paese: negli anni 1811-13, negli anni 1815-17, nel 1819, nel 1826, negli anni 1829-35, ne­ gli anni 1838-42, 1843-44, e 1846-48. Nelle aree agrico­ le i tumulti furono ciechi, spontanei, e quando ebbero obiettivi definiti, questi furono quasi interamente econo­ mici. Come disse uno dei dimostranti nella regione delle Fens nel 1816: «Qui mi trovo fra la terra e il cielo, e co­ si Dio mi aiuti. Preferirei perdere mia moglie che torna­ re a casa come sono. Di pane ho bisogno, e pane avrò» Nel 1816 in tutte le contee orientali, nel 1822 nell’East Anglia, nel 1830 ovunque tra Kent e Dorset, tra Somerset e Lincoln, negli anni 1843-44 ancora nelle Midlands orientali e nelle contee orientali furono distrutte le treb­ biatrici, i covoni di grano e di fieno furono bruciati notte­ tempo mentre gli uomini domandavano un minimo di so­ stentamento. Nelle zone industriali e urbane, dopo il 1815 il malcontento sociale ed economico si accompagnò ge­ neralmente a un’ideologia e a un programma politico spe­ cifici, di tipo radicaldemocratico, o anche «cooperativi­ stico» (o, come diremmo adesso, socialista), sebbene nei primi grandi movimenti di protesta a partire dagli anni 1811-13 i ludditi spaccassero le loro macchine senza per

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questo avere un programma specifico di riforma e rivolu­ zione politiche. Si ebbe una tendenza all’alternarsi di fa- ’ si di agitazione politica e di agitazione sindacale, con una partecipazione generalmente assai più massiccia nel primo caso; la politica costituì una nota dominante negli anni 1815-19 e 1829-32 e soprattutto nel periodo cartista (1838-48); l’organizzazione industriale, nei primi anni ’20 e negli anni 1833-38. Comunque, a partire da circa il 1830, tutti questi movimenti divennero più consapevol­ mente e caratteristicamente politici. Le agitazioni del pe­ riodo 1829-35 videro sorgere l’idea del sindacato generale e.della sua arma estrema, lo «sciopero generale», e il car­ tismo poggiò fermamente sulla consapevolezza delle clas­ si operaie vedendo un metodo reale per il conseguimen­ to dei suoi fini soltanto nella speranza di uno sciopero ge­ nerale, o come era allora chiamato di un «Mese sacro». Ma sostanzialmente, quello che teneva uniti tutti questi movimenti o li faceva rivivere dopo sconfitte e disgrega­ zioni periodiche, era il malcontento generale di uomini che soffrivano la fame in una società trasudante ricchez­ za, che si sentivano schiavi in un paese che si gloriava del­ la sua libertà, e cercavano pane e speranza, ma riceveva­ no pietre e disperazione. E non erano giustificati? Un ufficiale prussiano che si recò a Manchester nel 1824, espresse un giudizio scher­ zoso: La nuvola del vapore di carbone può essere osservata da lontano. Le case ne sono annerite. Il fiume che attraversa Manchester è cosi pieno di rifiuti delle tintorie, che sembra una tinozza di tintore. Il quadro, nel suo insieme, è malin­ conico. Tuttavia si vede dappertutto gente affaccendata, fe­ lice e ben nutrita, e questo solleva lo spirito del visitatore6.

Nessuno che abbia visitato Manchester negli anni ’30 e ’40 del secolo potè osservare gente felice e ben nutrita. «Esseri umani meschini, defraudati, oppressi, prostrati, sparsi come frammenti sanguinanti su tutta la superficie della società; - questo scriveva nel 1845 l’americano Colman, - ogni giorno ringrazio il cielo di non aver fatto di me un poveraccio con la famiglia in Inghilterra»7. Pos­

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siamo meravigliarci se la prima generazione dei poveri che lavorarono nella Gran Bretagna industriale considerava­ no difettosi i risultati del capitalismo?

1 Cfr. Letture ulteriori, specialmente n. 4 (E. P. Thompson, F. En­ gels, N. Smelser, K. Polanyi [cap. 2, nota 1, p. 52]). Per le que­ stioni riguardanti il « livello di vita », cfr. anche e. j. hobsbawm, Labouring Men, 1964; phillis beane, The First Industriai Re­ volution, 1965. Per i movimenti delle classi lavoratrici, cfr. Cole e Postgate (Letture ulteriori, n. 2), Chartist Studies, a cura di A. Briggs, 1959. Per le condizioni sociali, cfr. E. CHADWICK, Report on the Sanitary Conditions of the Labouring Populations, a cura di M. W. Flinn, 1965; a. briggs, Victorian Cities, 1963. Cfr. an­ che i diagrammi 2-3,14, 21,40,48-49. 2 N. mccord, The Anti-Corn Law League, 1958, pp. 57-58. 3 a. de Tocqueville, Journeys to England and Ireland, a cura di J. P. Mayer, 1958, pp. 107-8. 4 Canon Parkinson, citato in a. briggs, Victorian Cities, pp. no­ ni. 5 William Dawson of Upwell, citato in a. j. peacock, Bread or Blood, 1965. 6 « Fabriken-Kommissarius », maggio 1814 (cfr. cap. 3, nota 2, p. 80). 7 Citato in A. briggs, Victorian Cities cit., p. 12.

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5L’agricoltura (1750-1850)1

Già verso la metà del secolo xvm, l’agricoltura non do­ minava piu l’economia della Gran Bretagna come succe­ deva invece per la maggior parte degli altri paesi, e nel 1800 essa probabilmente non occupava più di un terzo della popolazione e contribuiva nella stessa proporzione alla formazione del reddito nazionale. Tuttavia appariva più importante di quanto il suo contributo all’economia avrebbe comportato, e questo per due motivi. In primo luogo, costituiva un indispensabile fondamento dell’in­ dustria, perché non c’era un’altra regolare fonte di ap­ provvigionamento di cibo per la nazione. Marginali im­ portazioni di generi alimentari erano possibili, ma fino a dopo la metà del secolo xix i costi di trasporto e la tec­ nologia non permisero al grosso della nazione, e sia pure di una nazione cosi ben fornita di porti come la Gran Bre­ tagna, di essere nutrita regolarmente con importazioni dal­ l’estero. Durante tutta una generazione dopo l’introdu­ zione del libero scambio (1846) l’agricoltura britannica rimase, per tale motivo, una riserva di alti prezzi prospe­ rosi, immune dalla concorrenza straniera. Gli agricolto­ ri britannici dovevano nutrire una numerosa popolazio­ ne in rapido aumento. Anche se non la nutrivano troppo bene, non permisero che morisse di fame. Ancora negli anni ’30 del secolo xix, più del 90 per cento del cibo con­ sumato in Gran Bretagna era prodotto localmente. Quan­ do consideriamo che nel 1830 la popolazione della Gran Bretagna era più che raddoppiata rispetto al 1750, e che le famiglie impegnate nell’agricoltura erano invece assai diminuite, abbiamo una misura del compito che toccò ai

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produttori britannici di cibo e dei risultati a cui giunsero. Il secondo motivo della preminenza dell’agricoltura era che gli «interessi terrieri» dominavano la politica e la vita sociale britanniche. Appartenere alle classi supe­ riori significava possedere un patrimonio terriero e un «seggio»..La proprietà terriera era il biglietto d’ingresso nell’alta politica. In parlamento, le «contee» e le citta­ dine dominate dalla nobiltà e dalle classi dirigenti locali avevano un peso assai maggiore che le città. Lo stesso si­ stema di vita delle classi superiori era rurale: rurali erano gli sport che furono la caratteristica esportazione cultura­ le d’Inghilterra (prima ancora dei giochi urbani e prole­ tari come il calcio e di quelli suburbani e da classe media come il tennis e il rugby), rurale l’idealizzazione del par­ co e del villaggio pittoresco, che ancora sopravvive nei calendari del «Times», e lo stesso vale per i «membri di campagna» dei club e delle biblioteche inglesi, e per le stesse scuole che la nuova classe media vittoriana costruì o si prese per dare ai suoi figli una conveniente educazione spartana. I grossi proprietari terrieri erano ricchi e po­ tenti, e gli uomini ricchi e potenti erano tutti dei proprie­ tari terrieri, anche se non tutti potevano essere dei du­ chi. Qualunque mutamento economico che riguardasse le terre (o piuttosto le classi rurali superiori e medie, da­ to che quelle povere non parlavano e, a meno che non ci fossero catastrofi o ribellioni nessuno si occupava di loro) non poteva manifestarsi che attraverso la politica. Lo sta­ to britannico era costruito in modo da ingigantire e rie­ cheggiare il fracasso della politica. Ma la rivoluzione industriale impose inevitabilmente nella terra dei mutamenti fondamentali dovuti alla stes­ sa dimensione dello sforzo economico dell’agricoltura bri­ tannica. A prima vista, le pressioni di cui la terra risenti­ va potrebbero sembrare tecniche ed economiche piuttosto che sociali, dato che la società rurale del secolo xvm era (se si eccettuano alcune parti della Scozia e del Galles e la Cornovaglia) già ingranata in una produzione da river­ sare sul mercato, e questo perché erano impiegati i mi­ gliori metodi tecnici e commerciali. La struttura fonda­ mentale della proprietà terriera e dell’agricoltura risulta­

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va già fissata verso la metà del secolo xvm e non vi sono comunque dubbi che lo fosse nelle prime decadi della ri­ voluzione industriale. L’Inghilterra era un paese di gran­ di proprietari terrieri, coltivato da affittuari che lavorava­ no la terra valendosi dei dipendenti. Tale struttura era an­ cora in parte dissimulata da una classe di piccoli coltivato­ ri diretti che lavoravano anche per i grandi proprietari, e di altre persone indipendenti e semidipendenti, ma questo non deve oscurare il fatto che già si era avuta una trasfor­ mazione fondamentale. Nel 1790 la situazione era che i proprietari terrieri possedevano forse tre quarti delle ter­ re coltivate, i coltivatori diretti probabilmente dal 15 al 20 per cento, e una «classe contadina» nel senso comu­ ne della parola non esisteva più. C’era, o sembrava es­ serci, una differenza di grado tra l’agricoltura parzialmen­ te modernizzata di questo periodo e quella completamen­ te modernizzata dei primi decenni del secolo xix, ma non una differenza di specie; questo tanto più in quanto il grosso dell’aumento di produttività individuale durante il secolo xvm risulta essersi verificato prima del 1750. Tuttavia la vita non è cosi semplice. Seguendo la logi­ ca, sembrava naturale che l’agricoltura dovesse comple­ tare la sua conversione in un’efficiente fonte di produzio­ ne commerciale, ricompensata dei suoi sforzi da una do­ manda illimitata, a prezzi crescenti, da parte di una popo­ lazione che, specialmente nelle aree urbane, aumentava costantemente a un ritmo leggermente superiore a quello con cui il contadino poteva aumentare la sua produzione. Ovviamente, i proprietari terrieri britannici non aveva­ no niente in contrario a un corso di cose cosi convenien­ te, e in effetti lo seguirono. Ma a differenza della lavora­ zione del cotone nelle fabbriche, «la terra» non rappre­ sentava soltanto un modo con cui i suoi possessori pote­ vano accumulare denaro, ma anche un modo di vita. La logica economica implicava che i prodotti agricoli andas­ sero completamente a favorire non solo un’agricoltura e un mercato efficienti, ma anche la terra e gli uomini che ci vivevano. I grandi proprietari terrieri si opposero alla prima di queste grandi esigenze, anche se non a impor­ tanti trasferimenti di terre fra agricoltori e agli avvicen-

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¿amenti di affittuari. A partire dal 1660 avevano mobili­ tato la loro influenza politica e l’ingegnosità dei loro le­ gali per rendere difficili, se non impossibili, le vendite ob­ bligate di terre da parte di chi le possedeva. Sia i proprie­ tari terrieri sia un’ampia sezione degli agricoltori erano preoccupati e angustiati dalle conseguenze sociali del pro­ gresso agricolo, ossia dall’eccedenza sempre maggiore di contadini poveri e dalla distruzione della stabile gerar­ chia tradizionale delle campagne. Può darsi che quell’ec­ cedenza, se fosse stata pacificamente assorbita dalle città e dalle manifatture, non sarebbe risultata cosi inopportu­ na. Ma è caratteristico dell’agricoltura agli inizi dell’era industriale che il suo disfacimento sociale superi nella maggior parte dei casi la capacità iniziale del settore non agricolo d’assorbire manodopera, e che i poveri delle cam­ pagne siano lenti ad abbandonare la vita degli antenati, la vita stabilita da Dio e dal destino, la sola vita che le co­ munità tradizionali sanno e possono concepire. Era un problema che poteva essere trascurato fino a quando una catastrofe non lo avesse brutalmente posto sotto gli oc­ chi dei padroni della campagna. I duri tempi della metà degli anni ’90 del secolo xvni lo resero evidente anche agli occhi piu miopi. A quei duri tempi segui, venti anni dopo, la fine del­ l’espansione agricola, che aveva raggiunto le punte più vertiginose (e irrefrenabili) durante le guerre napoleoni­ che che, come tutte le guerre, furono un’epoca d’oro per i prezzi dei prodotti agricoli. Dopo il 1895 non soltanto i poveri, ma anche gli agricoltori soffrirono le conseguenze della trasformazione agricola. Gli «interessi terrieri» non avevano più a che fare soltanto col problema dei loro po­ veri, che poteva essere (e veniva) risolto a livello locale dai nobili e dagli appartenenti alle classi dirigenti locali in quanto funzionari governativi e dagli appartenenti alla classe media rurale in quanto guardiani e sovrintendenti dei poveri: gli interessi terrieri si trovavano ad affrontare problemi loro propri che richiedevano iniziative a livello nazionale. Gli economisti urbani proposero soluzioni che furono trovate assolutamente inaccettabili: che le fatto­ rie non economiche cessassero di operare in modo che ri­

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manessero in piedi soltanto quelle economiche, e che i po­ veri in eccedenza non venissero mantenuti in modo non economico, ma mandati via a trovarsi le occupazioni of­ ferte da chi aveva da offrirne, col salario, quale che fos­ se, stabilito dal mercato. Contro la prima prospettiva, gli «interessi terrieri» si valsero del loro predominio politi­ co per imporre le leggi sui cereali, una politica di prote­ zionismo di cui gli interessi urbani e industriali si risenti­ rono aspramente e che provocò gravi tensioni nella poli­ tica britannica, fino a raggiungere talvolta quasi il punto di rottura, fra il 1815 e il 1846. Naturalmente furono me­ no intransigenti sul secondo punto, e in effetti cedettero nel 1834 accettando la Legge sui poveri di quell’anno. Nondimeno, con l’eccezione di alcuni nobili scozzesi che portarono in Canada gli uomini sempre supinamente fe­ deli dei loro clan per cercare posto alle pecore, che ren­ devano bene, pochi furono disposti ad accettare simili mi­ sure estreme, sia pure a spese di quelli che essi sfruttava­ no. Che i braccianti si trovassero molto al di sotto dei col­ tivatori, e immediatamente al di sotto dei gentiluomini di campagna, era naturale; ma non era naturale che non aves­ sero il diritto di vivere nelle terre dei padri. (Inoltre, se se ne fossero andati, che cosa sarebbe successo al livello dei salari agricoli e alla manodopera di cui i coltivatori po­ tevano valersi?) Due questioni resero drammatico il problema sociale dello sconvolgimento agricolo: le «recinzioni» e la «le­ gislazione sui poveri». Le «recinzioni» significavano che campi già liberi o di proprietà comune diventavano unità terriere private e indipendenti, o significavano suddivi­ sioni di terre prima comuni ma non coltivate (boschi, pa­ scoli «deserti» e cosi via) in proprietà privata. Le «recin­ zioni», cosi come una ripartizione più razionale delle pro­ prietà private (mediante scambi, acquisti o cessioni in af­ fitto di strisce di terra al fine di ottenere unità più com­ patte), erano state praticate già da lungo tempo; e a par­ tire dalla metà del secolo xvu, senza causare troppi fer­ menti. Dal 1760 circa i grandi proprietari terrieri (anco­ ra una volta sfruttando il loro controllo del governo) af­ frettarono il processo di conversione delle terre in un in­

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sieme di proprietà soltanto private, valendosi sistemati­ camente di leggi fatte approvare dal parlamento, e va­ lendosene prima su scala locale, e su scala generale dopo il 1801. Fu un movimento che riguardò soprattutto le zo­ ne dell’Inghilterra in cui i campi aperti erano stati comu­ ni nel Medioevo e in cui si praticavano a preferenza col­ ture come quelle dei cereali. Erano le aree comprese nel triangolo invertito con la base lungo le coste dello York­ shire, del Lincolnshire e del Norfolk, e il vertice nel Dor­ set. La recinzione di terre «comunitarie» e «deserti» av­ venne con una distribuzione più regolare, eccetto nelle aree situate nelle estremità sudorientale e nordoccidenta­ le. Fra il 1760 e il 1820, circa metà dello Huntingdon­ shire, del Leicester e nel Northampton, più del 40 per cento del Bedfordshire e del Rutland, dell’Oxford e dell’East Riding dello Yorkshire, e un quarto o più del Berk­ shire, del Buckingham, del Middlesex, del Norfolk, del Nottingham, del Warwick e del Wiltshire, furono cosi recintati, soprattutto a spese dei campi aperti, anche se in alcuni casi le leggi si limitarono ad allinearsi col fatto compiuto *. A favore della recinzione giocava il fatto che essa con­ sentiva l’utilizzazione di terre non coltivate e rendeva il coltivatore «miglioratore», orientato in senso commer­ ciale, indipendente dai suoi vicini legati alla tradizione e antiquati. E che questo fosse vero, non c’era dubbio. I motivi che venivano opposti alla recinzione non erano af­ fatto chiari, perché gli oppositori hanno confuso troppo spesso quel mezzo specifico che fu la Legge per la recin­ zione col fenomeno generale della concentrazione agrico­ la di cui essa rappresentava un solo aspetto. La Legge fu accusata di scacciare i contadini dai loro appezzamenti e di privare i braccianti del lavoro. La seconda accusa era fondata dove la recinzione trasformava in pascoli campi un tempo coltivati, il che accadde talvolta, ma non di re­ gola, dato l’enorme aumento della domanda di granturco, * D’altro canto, la recinzione a seguito di interventi legislativi fu tra­ scurabile in contee come la Cornovaglia (0,4 per cento), il Devon (1,6), l’Essex (1,9), il Kent (0,3), il Sussex (1,2) e, per quanto riguardava i cam­ pi coltivati, nel Nord e nell’Ovest.

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specialmente durante le guerre napoleoniche. La recin­ zione fatta allo scopo di coltivare le terre, o di terre non coltivate, probabilmente consentiva, in effetti, maggiori possibilità di lavoro a livello locale. Si discute fino a qual punto le leggi per la recinzione abbiano privato i piccoli coltivatori delle loro terre, ma non vi è un motivo specia­ le per supporre che esse abbiano contribuito a ciò più che la vendita o l’affittanza di strisce e piccole proprietà du­ rante il periodo precedente. Quelli che vendevano co­ stretti da una legge anziché in base ad un accordo privato potevano magari risentirsi di esservi costretti dai loro più ricchi e potenti vicini, ma tale costrizione non significava necessariamente che il guadagno o la perdita fossero, dato l’intervento della legge, differenti. D’altro canto, ci fu una classe che la recinzione danneggiò gravemente: quel­ la dei coltivatori di minor conto che integravano il reddi­ to dei loro piccoli appezzamenti talvolta col lavoro sala­ riato e talvolta con i vantaggi, miseri ma d’importanza estrema per loro, dati dai diritti comuni: pascoli per gli animali, legna da ardere, materiale da costruzione, legno per riparare gli attrezzi, recinti e cancelli, e cosi via. La recinzione poté bene trasformarli in semplici salariati, ma fece ancora di più, perché andò trasformando loro e i braccianti da membri uguali di una comunità, con un di­ stinto complesso di diritti, in inferiori dipendenti dai ricchi. Non si trattava di un mutamento insignificante. Un ecclesiastico del Suffolk scriveva nel 1844 a proposito dei suoi paesani: Non hanno un campo di proprietà comune per praticare gli sport attivi. Alcuni anni fa, mi si dice, avevano diritto a un campo da gioco in un certo campo in certe stagioni del­ l’anno, e andavano famosi per il loro football; ma è succes­ so che hanno perso questo diritto, e il campo è adesso lavo­ rato dall’aratro... Di recente hanno cominciato a praticare un po’ di cricket e a due o tre coltivatori viene graziosamen­ te concesso di giocare nei loro campi. [Il corsivo è mio. E. j. H.]2.

Era duro per inglesi, nati liberi, cambiare i loro diritti col permesso dei loro «migliori», per quanto benigno fosse. Nel 1800, ormai, anche i più accesi sostenitori del-

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la recinzione perché capace di miglioramenti produttivi, come Arthur Young, cominciavano a storcere la bocca di fronte ai suoi risultati sociali. «Preferirei, - egli scrisse, che tutti i campi in comune d’Inghilterra sprofondassero nel mare, piuttosto che vedere i poveri trattati come sono stati finora a causa della recinzione»3. Tuttavia, a che co­ sa erano dovute questa indigenza e mancanza di terre per la parte non attribuibile alla recinzione? Erano dovute soprattutto a quella concentrazione delle fattorie, per cui quella che passava per una «piccola fattoria» nellTnghilterra del 1830, era grande quanto una piccola tenuta sul continente. La recinzione costituì soltanto l’aspetto più drammati­ co e, per cosi dire, ufficiale e politico di un processo gene­ rale per cui le fattorie divennero più ampie, i coltivatori diminuirono relativamente di minor numero, e gli abi­ tanti dei villaggi divennero ancor più scarsi di terre. Fu questo più che la recinzione di per sé (che quasi non inte­ ressò alcune parti estremamente impoverite dell’Inghil­ terra rurale) a causare la degradazione dei paesani poveri. « I piccoli coltivatori, - scriveva un esperto alla fine del se­ colo xvin, - furono ridotti di numero in ogni contea, e quasi annientati in alcune». In quel periodo ormai una proprietà di venticinque acri, a meno che non fosse, ad esempio, coltivata a ortaggi vendibili sul mercato, non po­ teva più mantenere un uomo; il viaggiatore straniero, abi­ tuato a vedere piccole proprietà di dieci o dodici acri, spa­ lancava gli occhi quando sentiva definire «piccole» le fat­ torie di più di cento acri. Questa concentrazione avvenne per le terre aperte e per quelle recintate (da tempo o di re­ cente) per mezzo dell’espropriazione, delle vendite forzate o volontarie, e specialmente si ebbe per i nuovi vastissi­ mi appezzamenti di terre messe a coltivazione *. Questo avrebbe già ridotto alla miseria una popolazione stabile, * Per esempio, nel 1724 c’erano sessantacinque fattorie di circa 4400 acri delle tenute Bagot nello Staffordshire; 16 superavano i 100 acri (am­ piezza media, 135 acri); nel 1764 c’erano soltanto 46 fattorie sui 5700 acri delle tenute; 23 superavano i 100 acri (ampiezza media, 189 acri), g. mingay, The Size of Tarms in thè i8th century, «Economie History Review», xiv, p. 481.

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ma fu addirittura un disastro per una popolazione che andava espandendosi. La popolazione eccedente viveva vendendo il proprio lavoro. Ma in molte parti d’Inghilterra (in misura minore nella Scozia e nel Nord), le caratteristiche stesse di que­ sto lavoro dipendente mutarono in peggio. «Il sistema dei salari settimanali, — scrisse un osservatore del Nor­ folk negli anni ’40 del secolo raffrontando la situazione con quella di “trenta o quaranta anni fa”, - fu il primo colpo che indebolì i legami che avevano fino allora unito i lavoratori delle campagne, in ogni circostanza, ai loro da­ tori di lavoro»’. Il bracciante tradizionale veniva assun­ to annualmente alle grandi fiere delle braccia e, se non era sposato, viveva e mangiava col padrone. Una gran parte del suo reddito era in natura. Guadagnava poco, ma ave­ va almeno la sicurezza di un impiego regolare. L’uomo assunto settimanalmente o giorno per giorno e per un de­ terminato lavoro, non guadagnava niente quando non la­ vorava effettivamente per qualcuno, e nella morta stagio­ ne invernale non c’era molto lavoro. (Ecco perché i brac­ cianti agricoli nel 1816, nel 1822 e nel 1830 concentraro­ no la loro cieca furia contro le macchine trebbiatrici che li privavano del lavoro invernale piu comunemente dispo­ nibile). Se il lavoratore viveva fuori nella sua casupola (che era poi del padrone), il datore di lavoro non gli dove­ va che un miserabile salario in contanti. Se aveva buon senso, il bracciante tirava su una famiglia numerosa, per­ ché una moglie e dei figli significavano guadagni supple­ mentari e, in certi periodi, qualche sussidio previsto dal­ le leggi sui poveri. Cosi la dissoluzione della fattoria tra­ dizionale semipatriarcale favori la moltiplicazione della manodopera locale, e di conseguenza la diminuzione dei suoi salari. Negli anni ’90 del secolo xvm il conseguente decadi­ mento dei contadini poveri aveva raggiunto proporzioni catastrofiche in parti dell’Inghilterra meridionale e orien­ tale *, e toccò alla legislazione sui poveri di occuparsi del * Nella zona industriale, il trasferimento della manodopera dalla terra, ne aveva già migliorato le condizioni, e nella Scozia e nell’estremo Nord il sistema tradizionale non fu infranto fino allo stesso punto.

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problema. I notabili delle contee, nel secolo xviii, non erano dei filantropi, ma trovavano difficile semplicemen­ te concepire che una comunità non offrisse un minimo di salario anche ai più umili dei suoi lavoratori, e possibili­ tà di sostentamento a quanti erano inabili al lavoro. Na­ turalmente questo non valeva per i «forestieri», i quali venivano rispediti alla « parrocchia d’appartenenza » quan­ do non erano in grado di guadagnarsi da vivere. Fu ispi­ randosi a questi concetti vagamente determinati ma in­ discussi che i funzionari del Berkshire, riunitisi a Speenhamland nel 1795 cercarono di mutare la legislazione sui poveri da un’istituzione che integrava il corso normale dell’economia in un mezzo sistematico per assicurare alla manodopera dei salari sufficienti al suo mantenimento. Furono fissati dei minimi di paga, dipendenti dal prezzo del grano turco. Se i guadagni scendevano sotto i minimi fissati, si doveva ricorrere a un’integrazione con i sussi­ di per i poveri. Il «sistema Speenhamland» non si estese nelle forme estreme cosi ampiamente quanto si crede, ma nella forma moderata di sistematici (e per quell’epoca molto generosi) contributi per i figli, di cui godevano gli uomini con famiglie numerose *, divenne quasi universale in molte zone meridionali e orientali. Si è molto discusso sugli effetti dovuti a questo siste­ ma di sicurezza sociale che si era propagato spontaneamen­ te. Si può ritenere che sia esatta l’opinione tradizionale, secondo cui essi furono disastrosi. Secondo quel sistema, tutti i contribuenti locali sussidiavano i proprietari agri­ coli (e specialmente i più grossi, che impiegavano una nu­ merosa manodopera), in misura tanto maggiore quanto più erano bassi i salari che i proprietari pagavano. Era un sistema che impoveriva, demoralizzava e immobilizzava il lavoratore, il quale poteva sperare di evitare appena la fame nella sua parrocchia, ma solo li e in nessun altro po­ sto; e poi, comportava una netta discriminazione a sfavo­ re dei celibi o di chi aveva famiglie poco numerose. Fece salire i sussidi per i poveri senza diminuirne la povertà: * 1 scellino e 6 denari 0 addirittura 2 scellini per bambino (al di sopra dei tre o quattro anni) costituivano una notevole integrazione per un sala­ rio settimanale di circa 7 scellini.

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le spese si raddoppiarono dagli anni ’50 ai tardi anni ’80 del secolo xvm, arrivarono ancora a raddoppiarsi nei pri­ mi anni del secolo seguente, e poi ancora nel 1817. Il me­ glio che si può dire del sistema è che siccome l’industria non poteva assorbire la manodopera contadina eccedente, bisognava far qualcosa per mantenerla nei villaggi. Ma il significato del « sistema Speenhamland » fu sociale piu che economico. Si trattò di un ultimo, inefficiente, sconsidera­ to e fallito tentativo di conservare un ordinamento socia­ le tradizionale di fronte all’economia di mercato. Ma quegli stessi uomini che fecero il tentativo stavano rovinando quello che desideravano conservare. L’eco­ nomia inumana dell’agricoltura commerciale e «progre­ dita» soffocò i valori umani di un ordine sociale. Ciò che piu conta, la stessa ricchezza dei sempre piu prosperi pro­ prietari, con le figlie che suonavano il pianoforte, li rese ancor piu remoti, anche in spirito, dai lavoratori ridotti all’indigenza. Il lusso sempre crescente dei proprietari, simbolizzato nella nuova usanza di conservare la selvag­ gina per gare di massacro e nelle leggi sempre piu inuma­ ne contro la caccia e la pesca di frodo *, ampliarono la già profonda spaccatura esistente tra le classi. L’inglese nato libero degenerò in un villano «servile e demoralizzato» come lo vide un viaggiatore americano negli anni ’40 del secolo scorso. Nel frattempo, comunque, la produzione e la produttività agricole salirono. Fra il 1750 e gli anni ’30 del secolo successivo questo non fu, generalmente, do­ vuto a importanti innovazioni tecnologiche (meno, forse, in Scozia, una regione che faceva da battistrada a un’agri­ coltura efficiente e meccanizzata), ma a un aumento del­ la superficie coltivata, alla maggior efficienza con cui ope­ ravano le fattorie diventate più ampie, ai mutamenti nel­ le colture e a un maggior ricorso al sistema delle rotazio­ ni, ai metodi di allevamento del bestiame, e agli attrezzi * I «registri di caccia» che riportavano il numero di uccelli uccisi, e le severe esclusioni del diritto di caccia, sembrano essere apparsi nel tardo secolo xvm. La caccia alla volpe (il numero delle mute di cani raggiunse la punta massima nel 1835) divenne sistematica nel primo trentennio del secolo xix.

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da lavoro impiegati: tutte cose già ben conosciute prima del 1750. La rivoluzione industriale e la scienza quasi non influirono sull’agricoltura prima dei tardi anni ’30 del se­ colo scorso, in un periodo che vide la fondazione della Royal Agricultural Society (1838) e della stazione speri­ mentale di Rothamsted (1843). In seguito il progresso fu molto rapido. Il «drenaggio sotterraneo», essenziale per mettere a coltivazione i pesanti e umidi terreni argillosi, si diffuse a partire dagli anni ’20; nel 1843 fu inventato il tubo di scolo cilindrico d’argilla. Si affermò rapidamente l’uso di fertilizzanti; nel 1842 fu brevettato il superfo­ sfato, e dal 1840 al 1847 le importazioni di guano peruvia­ no salirono da virtualmente zero a più di 200 000 tonnel­ late. L’«alta agricoltura» coi suoi forti investimenti e la sua pesante meccanizzazione, dominò i medi anni del se­ colo, e a cominciare dal 1837 circa si ebbe un forte au­ mento di produttività delle colture. L’agricoltura britan­ nica, dopo i settant’anni d’espansione prima del 1815 e due o tre decenni incerti, entrò nella sua epoca aurea. Ne­ gli anni ’50 del secolo migliorò rapidamente anche la sor­ te dei miserabili braccianti, anche se questo non fu dovu­ to a progressi dell’agricoltura, ma a quella «fuga» in mas­ sa dalla terra verso le ferrovie, le miniere, le città e i ter­ ritori d’oltremare, che causò una provvidenziale scarsità di manodopera e un lieve aumento dei salari. Tale miglioramento si ebbe quando, nonostante l’op­ posizione dei proprietari e dei gentiluomini di campagna, furono abolite le leggi sui cereali (1846) e l’agricoltura britannica fu lasciata aperta alla concorrenza straniera. C’erano voluti trent’anni per infrangere la loro resisten­ za, perché gli interessi «terrieri» difendevano non sol­ tanto i propri profitti e le favorevoli valutazioni fiscali delle entrate, ma anche la propria superiorità sociale e po­ litica, simbolizzata da una Camera dei Lord formata da nobili proprietari di terre e da una Camera dei Comuni formata da gentiluomini di campagna. Questa superiori­ tà fu scossa non soltanto da una nuova e consapevole clas­ se media che chiedeva il posto che le spettava, alla pari o anche al di sopra dei decadenti governanti del regno, ma

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da una classe media che considerava i canoni praticati dai proprietari come un furto in ogni caso, e la protezione ar­ tificiosa degli alti canoni e degli alti prezzi dei generi ali­ mentari dopo le guerre napoleoniche, in un’epoca di in­ certezza negli affari (cfr. pp. 77-79), come un fucile spia­ nato contro il cuore economico della nazione. Tuttavia, eccetto che per la questione del libero scambio, la classe media non si oppose a compromessi. Dopo la riforma par­ lamentare del 1832 insiste per fare approvare la nuova legislazione sui poveri e per ottenere un controllo politico delle municipalità, ma lasciò gli organi di governo locali, nelle contee, nelle mani dei lord e della nobiltà minore (fino al 1889), trattenendosi dall’infierire con critiche, che pure sarebbero state giustificate, contro interessi acquisiti antichi e aristocratici: la corte, il servizio civile, le forze armate, le università. Tralasciò anche di attaccare la chie­ sa, che era il complesso maggiore di interessi acquisiti. (Comunque, gli interessi economici della chiesa, impopo­ larissimi fra i coltivatori, furono infine ridotti a un livello razionale con una Legge per la commutazione delle deci­ me del 1836, anche se non furono aboliti). Dal canto suo, la nobiltà fu altrettanto incline al com­ promesso, anche sul libero scambio. I proprietari terrieri veramente importanti non dipendevano necessariamente dai canoni agricoli. Molti godevano i frutti dell’aumentato valore delle aree urbane, o dei profitti di miniere e fer­ rovie che una generosa provvidenza avevano situato sotto o sopra i loro possedimenti, o godevano gli interessi del­ le quote dei loro giganteschi redditi investite in passato. Il settimo duca di Devonshire, lasciato in un piccolo im­ barazzo finanziario dell’ordine di un milione di sterline o giù di li da un sesto duca di Devonshire piuttosto spendac­ cione, non si trovò a dover vendere neppure la più remo­ ta delle sue numerose residenze di campagna, ma poté trarsi d’impaccio con lo sviluppo della sorgente termale di Barrow-in-Furness e Buxton. Socialmente, i grandi pro­ prietari terrieri non erano neanche sfiorati dalla rivalità dei ricchi industriali, cui il denaro non poteva dare di più che la condizione e le proprietà della nobiltà minore rie-

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ca, anche se il finanziere occasionale poteva trovarsi in condizioni decisamente migliori. In ogni caso, la creazio­ ne di nuovi pari, anche se inquietante agli occhi dei due­ cento autoperpetuantisi del secolo xviii, non avveniva in misura molto considerevole in base ai livelli dei nostri giorni: ci furono 133 nuovi pari nei cinquant’anni che precedettero il 1837 (con una media annuale, quindi, di 2,5), e in molti casi si trattò di ammiragli e generali, che tradizionalmente ricevevano quella ricompensa. La nobil­ tà era aperta a nuove sistemazioni. Soltanto le classi diri­ genti minori, Tory e rurali, e i coltivatori, difesero fino all’ultimo le loro posizioni. Ma una lunga esperienza sto­ rica aveva dimostrato che la nobiltà di campagna da sola non costituiva un’apprezzabile forza politica all’interno della nazione. Per di piu negli anni ’40 del secolo scorso l’agricoltura era divenuta nettamente un interesse di mi­ noranza. Occupava non piu di un quarto della popolazio­ ne e rappresentava ancor meno rispetto al reddito nazio­ nale. Quando la nobiltà abbandonò l’agricoltura, come ac­ cadde nel 1846 e ancor più vistosamente nel 1879, tutto quello che rimase fu la pressione esercitata da un gruppo di minoranza rafforzato da un blocco di membri del par­ lamento senza importanza, buoni solo a cacciar la volpe.

Cfr. Letture ulteriori, specialmente le opere a cura di Carus-Wilson, e quelle a cura di Glass e Eversley. C’è adesso un utile e ag­ giornato manuale, *j. d. chambers e G. e. mingay, The Agricul­ tural Revolution 1750-1888, 1966. G. e. mingay, English Landed Society in the Eighteenth Century, 1963, è più pregevole sulle questioni dell’agricoltura. * f. m. c. Thompson, English Landed Society in the Nineteenth Century, 1963, tratta della nobiltà e delle classi dirigenti locali. Per la manovalanza agricola, j. l. e b. hammond, The Village Labourer, 1911, e w. hasbach, A Histo­ ry of the English Farm Labourer, 1908, sono ancora dei buoni punti di partenza, ma l’opera migliore è il magistrale The Life of Joseph Ashby of Tysoe, di m. ashby, 1961. Cfr. anche e. j. hobsbawm e g. rude, Captain Swing, 1969, K. Polanyi (cap. 2, no­ ta 1, p. 52), tratta in modo eccellente della legislazione sui po­ veri. Cfr. anche i diagrammi 4,14.

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2 Reverendo J. s. henslow, Suggestions towards an enquiry into the present condition of the Labouring Population of Suffolk, Hadleigh 1844, pp. 24-25. 3 «Annals of Agricolture», xxvi, p. 214. 4 R. N. bacon, History of the Agriculture of Norfolk, 1844, p. 143.

6.

L’industrializzazione: la seconda fase (1840-95)1

La prima fase dell’industrializzazione britannica, quel­ la tessile, aveva raggiunto i suoi limiti o sembrava che do­ vesse raggiungerli in breve tempo. Fortunatamente, sta­ va per iniziare una nuova fase industriale che avrebbe for­ nito fondamenta assai piu salde per lo sviluppo economi­ co: la fase basata sulle industrie produttrici di beni pri­ mari, sul carbone, il ferro e l’acciaio. L’epoca che fu di cri­ si per l’industria tessile fu quella stessa che permise l’af­ fermarsi del carbone e del ferro, l’epoca delle costruzioni delle ferrovie. C’erano due ragioni convergenti perché questo avvenis­ se. La prima era la crescente industrializzazione nel resto del mondo, che offriva un mercato in rapida espansione per quel tipo di materie prime che potevano essere impor­ tate solo comperandole dall’«officina del mondo» e che non potevano ancora essere prodotte in quantità sufficien­ te in patria, fi tasso d’incremento delle esportazioni bri­ tanniche " fu molto più alto fra il 1840 e il 1860 (e specialmente negli anni 1845-55), quando la vendita all’estero dei prodotti interni sali del 7,3 per cento l’anno, di quan­ to mai fosse e di quanto sia mai più stato in seguito. Fu, ad esempio, assai più alto che durante il periodo pionieristi­ co del cotone, 1780-1800. Esso avvantaggiò soprattutto i nuovi prodotti primari che costituirono circa l’n per cento in valore delle esportazioni britanniche di manufat* Vale a dire, il tasso d’incremento in relazione all’ampiezza della po­ polazione britannica. Cfr. w. schlote, British Overseas Trade, Oxford 19^2, pp. 41-42.

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ti negli anni 1840-42, il 22 per cento negli anni 1857-59, e il 27 per cento negli anni 1882-84. Fra gli anni 1840-42 e 1857-59 le esportazioni di carbone salirono da meno di 750 000 sterline a piu di tre milioni, quelle di ferro e ac­ ciaio da tre milioni a piu di 13, mentre le esportazioni di cotone aumentarono piu lentamente, anche se anch’esse giunsero quasi a raddoppiarsi. Nel 1873 i totali rispettivi furono di 13,2 milioni, 37,4 milioni, e 77,4 milioni di sterline. La rivoluzione operata nei trasporti dalla ferro­ via e dalla nave a vapore, che esse stesse costituivano forti mercati per l’esportazione di ferro, acciaio e carbone bri­ tannici, aggiunsero un altro stimolo a questa apertura di nuovi mercati e all’espansione dei vecchi *. La seconda ragione ha comunque poco a vedere con l’aumentare della domanda. Consistè nella pressione con cui i capitali sempre più vasti cercavano proficui investi­ menti, cosa di cui furono una prova la costruzione delle ferrovie. Fra ili83oeili85o furono costruite in Gran Bretagna circa 6000 miglia di ferrovie a seguito di due straordina­ rie corse all’investimento seguite da realizzazioni, « la pic­ cola mania ferroviaria» degli anni 1835-37 e quella gigan­ tesca degli anni 1845-47. In effetti, nel 1850 le basi della rete ferroviaria inglese erano già esistenti. Questa costi­ tuì sotto ogni aspetto una trasformazione rivoluzionaria, ancor più rivoluzionaria, in un certo senso, che il sorgere dell’industria cotoniera, perché rappresentò una fase di industrializzazione molto più avanzata che inoltre influì sulla vita del cittadino ordinario ben oltre le zone piutto­ sto ridotte in cui operavano le fabbriche. Fu una trasfor­ mazione che raggiunse alcune delle aree più remote delle campagne e i centri delle città maggiori. Trasformò la ve* Percentuale delle esportazioni principali rispetto al totale delle espor­ tazioni, 1830-70.

Filati e altri prodotti cotonieri Altri prodotti tessili Ferro, acciaio, macchinario, veicoli Carbone, carbone coke

1830

18.50

1870

50,8 19,5 ro,7 0,5

39,6 22,4 li, x x,8

35,8 18,9 x6,8 2,8

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locità degli spostamenti, anzi della vita umana, da un rit­ mo misurato in poche miglia l’ora in un altro di ventine di miglia, e introdusse la nozione di una routine gigante­ sca, su scala nazionale, complessa e con precisi ingranaggi interni simbolizzata dall’orario delle ferrovie (da cui tutti gli orari successivi presero il nome e l’ispirazione). Essa rivelò le possibilità del progresso tecnico come niente al­ tro aveva fatto prima d’allora, perché era più progredita che altre forme di attività tecnica, e insieme onnipresen­ te. Le filande del 1800 stavano ormai scomparendo nel 1840; ma nel 1850 le ferrovie avevano raggiunto un livel­ lo di efficienza che non fu veramente migliorato prima che verso la metà del secolo attuale venisse abbandonata la forza vapore, la loro organizzazione e i loro metodi opera­ vano su una scala di cui non si avevano esempi in alcuna altra industria, ed erano senza precedenti con il loro im­ piego di una tecnologia nuova e basata sulla scienza (si pensi al telegrafo elettrico). Esse apparivano avanti di va­ rie generazioni rispetto al resto dell’economia, e in effet­ ti « ferrovia » divenne una specie di sinonimo di ultra mo­ dernità negli anni ’40 del secolo scorso, come doveva suc­ cedere per «atomico» dopo la seconda guerra mondiale. Le loro dimensioni, la scala su cui operavano colpivano l’immaginazione, e facevano apparire come cose da poco le più gigantesche opere pubbliche del passato. Sembrerebbe naturale che questo forte sviluppo riflet­ tesse forti necessità di un’economia industriale nel campo dei trasporti ma, almeno per quanto riguarda le prospet­ tive a breve termine, le cose non stavano cosi. La maggior parte del paese aveva facili accessi ai trasporti per via d’acqua sul mare, sui fiumi e sui canali *, e tali trasporti erano, e sono tuttora, di gran lunga i meno costosi per le merci di grande ingombro. La velocità aveva un’importan­ za relativamente scarsa per le merci non deperibili, essen­ do sufficiente che si avesse un regolare afflusso di riforni­ menti, e quelle deperibili erano virtualmente soltanto prò* Nessun punto del paese dista piu di 70 miglia dal mare e tutte le zone industriali, eccetto alcune parti delle Midlands, distano considerevol­ mente meno.

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dotti dell’agricoltura e della pesca. Niente fa pensare che difficoltà di trasporto abbiano seriamente ostacolato lo sviluppo industriale in generale, anche se questo accadde manifestamente in qualche caso. Per contro, molte delle ferrovie costruite furono e rimasero del tutto irrazionali se mezzi di trasporto dovevano essere, e di conseguenza non resero mai altro che profitti modesti, quando pure ve ne furono. Questo era perfettamente evidente in quel pe­ riodo, e, in effetti, economisti realistici come J. R. McCul­ loch si dichiararono pubblicamente scettici su un sistema ferroviario che non fosse ristretto a un limitato numero di linee principali o di linee destinate specialmente al tra­ sporto di merci pesanti, anticipando cosi di piu di un seco­ lo le proposte razionalizzatrici degli ultimi anni ’60. Naturalmente, le necessità che si manifestarono nel corso dei trasporti diedero vita alle ferrovie. Era cosa ra­ zionale tirare vagoni di carbone lungo «tranvie» dalla su­ perficie delle miniere al canale o al fiume, e naturale farli trainare da motori a vapore fissi, e cosa sensata progettare un motore a vapore semovente (la locomotiva) per tirare e spingere i vagoni. Fu conveniente e opportuno collega­ re con la costa una miniera di carbone dell’entroterra me­ diante una lunga ferrovia da Darlington a Stockton (1825) perché gli alti costi di costruzione comportati da una linea del genere si sarebbero poi piu che ripagati con le vendite di carbone che essa avrebbe reso possibile, anche se i pro­ fitti erano molto scarsi *. Gli accorti quaccheri che trova­ rono o investirono il denaro necessario per la ferrovia eb­ bero ragione; l’investimento fruttò il 2,5 per cento nel 1826,1’8 per cento nel biennio 1832-33, e il 15 per cento negli anni 1839-41. Una volta dimostrato che era possibi­ le costruire ferrovie economicamente vantaggiose, altri fuori delle aree minerarie, o piu precisamente fuori dei campi carboniferi nordorientali, naturalmente copiarono e migliorarono l’iniziativa, come fecero i mercanti di Li­ verpool e Manchester e i loro amici londinesi, i quali capi­ * La linea Stockton-Darlington fu inizialmente condotta come una ve­ ra e propria strada, vale a dire che essa era disponibile per chiunque po­ tesse far viaggiare un treno pagando un pedaggio.

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rono quale fosse, sia per gli investitori, sia per il Lanca­ shire, il vantaggio di infrangere il collo di bottiglia dato da un canale operante a prezzi monopolistici (che peraltro era stato costruito per ovviare a difficoltà analoghe). Anch’essi videro giusto. Per la linea Liverpool-Manchester (1830) fu virtualmente fissato un dividendo massimo del io per cento che non era difficile pagare. Essa poi, prima fra le linee ferroviarie di impiego generale, ispirò altri in­ vestitori e uomini d’affari desiderosi di ampliare gli affari delle loro città e di ricavare adeguati profitti dai loro ca­ pitali. Ma soltanto una piccola frazione dei 240 milioni di sterline investiti nelle ferrovie a tutto il 1850 ebbero una simile razionale giustificazione. La maggior parte dei capitali disponibili andò a finire nelle ferrovie, e per buona parte senza lasciare traccia, perché negli anni ’30 del secolo erano ormai enormi i ca­ pitali che i loro proprietari cercavano disperatamente di investire con un profitto che non fosse soltanto quel 3,4 per cento delle azioni pubbliche *. Negli anni ’40 del se­ colo il surplus annuale per cui si cercavano degli investi­ menti aveva raggiunto, secondo una valutazione, sessan­ ta milioni di sterline annui, equivalenti a quasi il doppio di quanto si valutava fossero i capitali investiti nell’indu­ stria cotoniera a metà degli anni ’30. L’economia sempli­ cemente non offriva opportunità per investimenti di quel­ la portata, e d’altra parte la sempre maggiore tendenza di uomini d’affari che pure avevano idee chiare a tirar fuori denaro da investire in iniziative senza profitto - ad esem­ pio, per costruire quei giganteschi, spaventosi e costosis­ simi edifici municipali con cui le città del Nord cercarono di superarsi l’un l’altra dopo il 1848 - testimonia non soltanto della sempre maggiore prosperità di quella gen­ te, ma anche di una sempre maggiore eccedenza di capita­ li rispetto a quelli di cui le industrie abbisognavano per i reinvestimenti. Lo sbocco piu ovvio per questi capitali eccedenti erano gli investimenti all’estero, e probabilmen­ * In effetti i profitti delle ferrovie infine si stabilizzarono - fatto che può non essere privo di significato - appena al di sopra dei dividendi delle azioni pubbliche, vale a dire su una media di circa il 4 per cento.

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te le esportazioni di capitali superarono le importazioni già al termine del secolo xvm. Le guerre permisero di fa­ re prestiti agli alleati della Gran Bretagna, e l’epoca post­ bellica prestiti per riinsediare i governi continentali rea­ zionari. Queste operazioni erano prevedibili, ma tutta la massa dei prestiti fatti negli anni ’20 del secolo scorso a stati latino-americani da poco indipendenti, e a governi balcanici, furono tutto l’opposto. E lo stesso furono i pre­ stiti degli anni ’30 del secolo scorso a stati degli Stati Uniti, altrettanto entusiasti nell’accettare e altrettanto po­ co raccomandabili. Ormai in quel periodo gli investitori che si erano bruciate le dita erano diventati troppi per in­ coraggiare ulteriori afflussi di capitali nelle tasche dei go­ vernanti stranieri. Il denaro che il ricco britanno aveva «in gioventù investito in prestiti di guerra ma che da adulto aveva sprecato nelle miniere sudafricane», «quel­ l’accumulazione di ricchezza per cui succede sempre che un popolo industriale non trova più sufficienti i modi or­ dinari di investimento» (per citare la frase di uno stori­ co contemporaneo delle ferrovie)2 era adesso pronto ad essere investito con fiducia in Gran Bretagna. In effetti, i capitali andarono a finire nelle ferrovie perché non c’e­ ra nient’altro che potesse assorbirli altrettanto bene, e fe­ cero di una apprezzabile innovazione nei trasporti un gran­ de programma nazionale di investimenti. Come succede quando i capitali sono troppi, parte di essi furono in­ vestiti sconsideratamente, stupidamente e a volte in mo­ do pazzesco. Gli inglesi con capitali da investire, incorag­ giati da progettisti e appaltatori i cui profitti proveniva­ no non dall’essere proprietari di ferrovie, ma dal proget­ tarle e costruirle, non si spaventavano per i costi enorme­ mente aumentati che esse comportavano, o che rendeva­ no l’impiego di capitale per miglio di linea in Inghilterra e nel Galles tre volte maggiore che in Prussia, cinque vol­ te maggiore che negli Stati Uniti, e sette volte maggiore che in Svezia *. Parecchi capitali andarono persi nelle de­ * Le spese preliminari e quelle legali furono valutate in 4000 sterline per miglio di linea, e il costo della terra, negli anni ’40 del secolo, poteva raggiungere 8000 sterline per miglio. La sola superficie occupata per la fer­ ri .ia Londra-Birmingham costò 750 000 sterline.

L’INDUSTRIALIZZAZIONE

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pressioni che seguirono a quelle manie. Molti altri ancora furono forse attratti non tanto da calcoli razionali di pro­ fitto e perdita quanto dal romantico richiamo della rivolu­ zione tecnologica, che la ferrovia simboleggiava cosi mera­ vigliosamente e che faceva nascere il sognatore (o, in ter­ mini economici, lo speculatore; o, in termini di corse ippi­ che, lo scommettitore sui cavalli meno probabili) in un cit­ tadino che sotto ogni altro aspetto era pieno di buon sen­ so. Inoltre, il denaro era li per essere speso, e se in com­ plesso non produsse molto in termini di profitto, creò qualcosa di piu apprezzabile: un nuovo sistema di traspor­ ti, un nuovo modo di impiegare accumulazioni di capitali di ogni genere per fini industriali e, soprattutto, una nuova vasta fonte di occupazione, e un gigantesco e duraturo stimolo per le industrie produttrici di beni primari in Gran Bretagna. Dal punto di vista del singolo investitore, le ferrovie furono spesso soltanto un’altra versione dei prestiti americani. Dal punto di vista dell’intera economia furono, per caso piu che per un disegno preordinato, un’ammirevole soluzione della crisi cui andò incontro la prima fase del capitalismo britannico. Alla ferrovia giun­ se presto a dar man forte la nave a vapore, una forma di trasporto di cui si fecero pionieri gli americani nel primo decennio del secolo scorso ma che non fu in grado di competere seriamente con la sempre piu efficiente nave a vela fino alla rivoluzionaria trasformazione inaugurata dalla ferrovia nella base di materie prime e attrezzature dell’economia industriale *. Il bilancio della costruzione di ferrovie negli anni ’40 del secolo scorso è impressio­ nante. In Gran Bretagna, piu di 200 milioni investiti, con circa duecentomila dipendenti diretti, allorché l’opera di costruzione toccò la punta massima. Si ebbe poi uno sti­ molo indiretto, che non può essere calcolato, all’occupa­ * Fino a metà degli anni ’30, la costruzione annua di navi a vapore raramente superò le 3000 tonnellate; nel periodo 1835-45 il livello annuo fu di circa io 000 tonnellate; di 81 000 nel 1855 (contro un tonnellaggio dieci volte maggiore di navi a vela). Fu soltanto negli anni ’80 che il ton­ nellaggio delle navi a vapore costruite in Gran Bretagna superò quello del­ le navi a vela. Comunque, se una tonnellata di nave a vapore costa più che una di nave a vela, maggiore è il suo rendimento.

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

zione nel resto dell’economia *. Alla ferrovia fu dovuto in gran parte il raddoppio della produzione di ferro bri­ tannico fra gli anni ’30 e gli anni ’40, e nel periodo del massimo sviluppo, gli anni 1845-47, il suo consumo di ferro ammontò forse al 40 per cento del consumo inter­ no del paese, scendendo poi a un costante 15 per cento della produzione nazionale. Uno stimolo economico cosi imponente, manifestandosi proprio quando l’economia stava subendo la più catastrofica recessione del secolo (1841-42) non avrebbe potuto giungere in un momento migliore. Fuori della Gran Bretagna, esso si concretò in una forte spinta all’esportazione di attrezzature per la co­ struzione di ferrovie all’estero. La Dowlais Iron Compa­ ny, per esempio, rifornì fra il 1830 e il 1850 dodici com­ pagnie ferroviarie britanniche contro ben sedici compa­ gnie straniere. Ma lo stimolo non si esaurì con gli anni ’40. Al contra­ rio, la costruzione di ferrovie continuò nel mondo su sca­ la sempre più massiccia, almeno fino agli anni ’80, come risulta chiaramente dalla tabella; le ferrovie furono co­ struite in gran parte con capitali, materiali e attrezzature britannici, e spesso da appaltatori britannici. Questa notevole espansione rifletté quel doppio pro­ cesso di industrializzazione nei paesi «sviluppati» e di * Il numero degli uomini occupati nelle miniere, nella metallurgia, nella costruzione di macchine e di veicoli e cosi via, su cui la rivoluzione delle ferrovie influì parecchio, sali di quasi il 40 per cento fra il 1841 e il x8ji.

Linee ferroviarie costruite nel mondo, per decennio (con arrotonda­ mento per eccesso o per difetto a 1000 miglia).

Regno Unito

1840-50 1850-60 1860-70 1870-80

6000 4000 5000 2000

Europa (incluso il Regno Unito)

13 17 31 39

000 000 000 000

Resto America del mond

7 000 24 000 24 000 51 000

1 000 7 000 12 000

L’INDUSTRIALIZZAZIONE

12?

sboccio economico delle aree sottosviluppate che trasfor­ mò il mondo nei decenni di mezzo dell’epoca vittoriana, facendo della Germania * e degli Stati Uniti delle grandi economie industriali divenute ben presto paragonabili con quella britannica, aprendo aree come le praterie nord­ americane, le pampas sudamericane e le steppe della Russia meridionale all’agricoltura di esportazione, infran­ gendo con flottiglie o navi da guerra la resistenza di Cina e Giappone al commercio estero, e gettando le fondamen­ ta di economie tropicali e subtropicali basate sull’espor­ tazione di prodotti minerari e agricoli. Le conseguenze di questi cambiamenti non furono avvertite in Gran Breta­ gna prima della crisi degli anni ’70 del secolo scorso. Fi­ no allora, i loro effetti principali erano stati evidentemen­ te vantaggiosi per la nazione che era stata la più grande esportatrice di prodotti e capitali industriali, e anzi l’uni­ ca per quanto riguardava alcune parti del mondo (cfr. cap. 7). Possono essere rilevate tre conseguenze di questo mu­ tato stato di cose nell’orientamento dell’economia britan­ nica. La prima fu la rivoluzione industriale nelle industrie pesanti, che per la prima volta rifornirono l’economia con abbondanti quantitativi di ferro e, cosa più importan­ te, di acciaio (fino allora prodotto con metodi piuttosto antiquati e su piccola scala) ** . Nell’industria carbonifera, questo aumento fu rag­ giunto sostanzialmente con metodi familiari, vale a dire senza impiegare accorgimenti che permettessero un im­ portante risparmio di manodopera, e questo significò che * O, meglio, l’area che divenne Germania nel 1871. ** Nel 1850 la produzione totale di acciaio del mondo occidentale non superava forse 70 000 tonnellate, prodotte per cinque settimi dalla Gran Bretagna.

Produzione di ghisa, acciaio e ferro (in migliaia di tonnellate). 1850 1880

2250 7750

49 1440

49 000 147 000

I2Ó

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

l’aumento della produzione di carbone causò a sua volta un aumento del numero dei minatori. Nel 1850 essi era­ no in Gran Bretagna piu di 200 000, diventarono circa mezzo milione intorno al 1880, ed erano più di 1 200 000 nel 1914, in circa tremila miniere. Era una forza di lavo­ ro quasi uguale all’intera popolazione agricola e al com­ plesso dei lavoratori tessili (uomini e donne). Questo do­ veva riflettersi non solo sul carattere del movimento dei lavoratori britannici, ma anche sulla politica nazionale, perché i minatori, concentrati in agglomerati di villaggi con una singola industria, erano uno dei pochi gruppi di lavoratori manuali (e nelle campagne quasi l’unico) ca­ pace di determinare le fortune dei collegi elettorali. Che il congresso britannico delle trade unions abbia fatto proprio lo slogan socialista della nazionalizzazione delle industrie già negli anni ’90 del secolo scorso fu dovuto in gran parte alla pressione dei minatori, dovuta a sua vol­ ta alla loro generale e ampiamente giustificata insoddisfa­ zione, specie per quanto riguardava l’indifferenza dei pro­ prietari per la sicurezza e la salute degli uomini impegnati in quell’occupazione buia e omicida *. Il forte aumento della produzione di ferro fu dovuto an­ che a miglioramenti non rivoluzionari, soprattutto a un notevole aumento della capacità o produttività degli altiforni, che, incidentalmente, tendevano a far si che la capa­ cità potenziale dell’industria superasse di parecchio la pro­ duzione effettiva (provocando cosi una costante tenden­ za a far diminuire il prezzo del ferro, anche se esso su­ biva ampie fluttuazioni nei prezzi pure per altri motivi): a metà degli anni ’80 del secolo scorso, la produzione ef­ fettiva inglese fu considerevolmente inferiore alla metà della capacità potenziale. La produzione di acciaio, dal canto suo, fu rivoluzionata dall’invenzione del converti­ tore di Bessemer nel 1850, dal forno a suola negli anni ’60, e da un nuovo processo di base nei tardi anni ’70. La * Circa mille minatori morirono annualmente in incidenti nel periodo 18.56-86. Si ebbero di tanto in tanto disastri giganteschi, come quello di High Blantyre (200 morti, 1877), Haydock (189 morti, 1878), Ebbw Vale (268 morti, 1878), Risca (120 morti, 1880), Seaham (164 morti, 1880), Peny-Craig (101 morti, 1880).

L’INDUSTRIALIZZAZIONE

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nuova capacità di produrre acciaio in grosse quantità, raf­ forzò l’impeto generale dato alle industrie produttrici di beni primari dai trasporti, perché non appena l’acciaio fu disponibile in quantità, ebbe inizio un processo su vasta scala per cui esso veniva sostituito al ferro, di minore du­ rata, sicché la ferrovia, la nave a vapore e cosi via richie­ sero in effetti due assorbimenti di ferro in poco più che una generazione. Dato che la produttività per capita di queste industrie aumentava rapidissimamente e che co­ munque esse non avevano mai avuto bisogno di molta manodopera, il loro effetto sull’occupazione non fu molto sensibile. Ma come il carbone, e naturalmente come la va­ sta espansione dei trasporti che si accompagnò a quella del ferro, dell’acciaio e del carbone, fornirono posti di la­ voro a gente fino allora non impiegata o che aveva meno possibilità di trovare un’occupazione, cioè ai lavoratori non qualificati tratti dall’eccedenza della popolazione agrigola (britannica o irlandese). L’espansione di queste in­ dustrie fu quindi doppiamente utile: offrirono alla mano­ dopera non qualificata un lavoro meglio remunerato, e as­ sorbendo l’eccedenza rurale, migliorarono la sorte dei la­ voratori agricoli rimasti nelle campagne, le cui condizioni cominciarono a migliorare nettamente, e anche con forti sbalzi, negli anni ’50 del secolo scorso *. Comunque, il sorgere delle industrie produttrici di ma­ terie prime stimolò nella stessa misura l’impiego di ma­ nodopera qualificata nei campi in rapida espansione del­ l’ingegneria, della costruzione di macchine, navi e cosi via. Il numero dei lavoratori impiegati in queste indu­ strie si raddoppiò all’incirca fra il 1851 e il 1881 e, a dif­ ferenza di quanto avvenne per l’industria del carbone e quella del ferro, ha continuato da allora ad aumentare. Nel 1914 essi costituivano ormai la più grossa categoria di lavoratori maschi in Gran Bretagna, ed erano molto più numerosi che i lavoratori, maschi e femmine, dell’in­ dustria tessile. Rafforzarono cosi grandemente un’aristo­ * Il numero dei lavoratori impiegati nei trasporti arrivò a piu che rad­ doppiarsi negli anni ’40 del secolo xix, e si raddoppiò ancora fra il 1851 e il 1881, quando quasi raggiunse le novecentomila unità.

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L'IMPERO

crazia del lavoro che si considerava, ed era, in condizioni assai migliori di quelle del grosso della classe operaia. La seconda conseguenza della nuova era fu quindi da­ ta, come evidente, da un notevole miglioramento dell’oc­ cupazione in tutti i settori e da un trasferimento su vasta scala della manodopera da lavori peggio pagati a meglio pagati. È a questo che si dovette in gran parte la genera­ le sensazione di un miglioramento del tenore di vita, e l’allentarsi della tensione sociale durante gli anni aurei della media epoca vittoriana, perché in effetti i livelli sa­ lariali di molte classi di lavoratori non aumentarono di parecchio, mentre le abitazioni e le comodità urbane ri­ masero su un livello impressionantemente basso. Una terza conseguenza fu il notevole aumento delle esportazioni di capitale britannico all’estero. A tutto il 1870 qualcosa come 700 milioni di sterline si trovavano investiti in paesi stranieri, per più di un quarto nella sorgente economia industriale degli Stati Uniti, cosicché il susseguente fortissimo aumento di titoli stranieri in mani britanniche avrebbe potuto aversi anche senza esportare nuovi capitali e semplicemente reinvestendo gli interessi e i dividendi di quanto già si possedeva all’este­ ro. (Se questo sia quanto effettivamente accadde, è un’al­ tra questione). Questa emigrazione di capitali era, natu­ ralmente, solo una parte di un forte flusso di profitti e di risparmi in cerca di investimenti; e, grazie alla trasforma­ zione del mercato dei capitali nell’epoca della ferrovia, spianò la via alla ricerca di investimenti non per l’anti­ quato mezzo dei beni immobili o delle obbligazioni stata­ li, ma tramite le azioni industriali. A loro volta, gli uomi­ ni d’affari e i fondatori di società commerciali (i contem­ poranei avrebbero probabilmente parlato di «poco saggi uomini d’affari e di disonesti fondatori») si trovarono meglio in grado di raccogliere capitali non soltanto da potenziali soci o altri investitori bene informati, ma an­ che da investitori tutt’altro che informati che cercavano profitti per i loro capitali in qualunque settore dell’aurea economia mondiale e li trovavano con la mediazione del­ l’avvocato di famiglia e degli agenti di cambio, che spes­ so pagavano l’avvocato perché indirizzassero i fondi nella

L ’ INDUSTRIALIZZAZIONE

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loro direzione. La nuova legislazione che rese possibili le società a responsabilità limitata incoraggiò investimenti più avventurosi, perché se una società di questo tipo an­ dava in fallimento, l’azionista perdeva soltanto i suoi in­ vestimenti e non, come prima, l’intero patrimonio *. Economicamente, la trasformazione del mercato del ca­ pitale nell’era della ferrovia (le borse di Manchester, Liverpool, e Glasgow furono tutte prodotti della mania de­ gli anni ’40 del secolo scorso) costituì un mezzo apprez­ zabile, anche se quasi certamente non essenziale, per rac­ cogliere capitale destinato a grosse iniziative oltre il rag­ gio dell’associazione in affari, o per iniziative in remote parti del mondo. Socialmente, comunque, essa rifletté un altro aspetto dell’economia della media epoca vittoriana: lo sviluppo di una classe di rentiers, i quali vivevano dei profitti e dei risparmi fruttati dalle accumulazioni di due o tre generazioni precedenti. Nel 1871 la Gran Bretagna contava 170 000 « persone di rango e benestanti » senza occupazioni visibili, e queste erano quasi tutte donne, o, piuttosto «ladies», con un numero sorprendente di ladies non maritate ** . Le obbligazioni e le azioni, comprese le azioni delle imprese familiari sotto l’opportuna forma di «società private», costituivano un modo conveniente di provvedere per le vedove, le figlie e altri parenti che non potevano, o non desideravano più, essere impegnati con l’amministrazione della proprietà e dell’impresa. I bei viali di Kensington, le ville delle stazioni termali, le loca­ lità di villeggiatura marina che allora cominciavano a di­ ventare di moda, i dintorni delle montagne svizzere e le città toscane accolsero quelle signore. L’era della ferrovia del ferro e degli investimenti all’estero creò anche la ba­ se economica della zitella e dell’esteta vittoriani.

Con le ferrovie la Gran Bretagna entrò quindi nel pe­ riodo della piena industrializzazione. La sua economia non * Naturalmente, prima che la responsabilità limitata fosse adottata su scala generale, erano stati presi dei provvedimenti per certi tipi di investi­ menti in società per azioni. ** Negli anni ’70 del secolo, due quinti degli azionisti della Banca di Scozia e della Banca commerciale di Scozia erano donne, per due terzi nubili.

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poggiava più pericolosamente sulla stretta piattaforma di due o tre settori pionieristici, quello tessile in partico­ lare, ma si basava sulle ampie fondamenta di una produ­ zione di materie prime e di attrezzature che a loro volta facilitarono l’introduzione di una tecnologia e un’orga­ nizzazione moderne (almeno per quello che era il concet­ to di modernità verso la metà del secolo xix) in un’ampia varietà di industrie. Aveva la capacità di produrre non tutto, ma tutto quello che voleva produrre. Aveva supe­ rato la crisi originale della prima fase della rivoluzione in­ dustriale ma non ancora incominciato a percepire la cri­ si del paese industriale pionieristico che cessa di essere la sola « officina del mondo ». Un’economia industriale completamente industrializza­ ta implica un grado di permanenza, sia pure della perma­ nenza di un’ulteriore industrializzazione. Uno dei riflessi più notevoli del nuovo stato di cose nei campi dell’econo­ mia, della vita sociale e della politica, è la nuova disposi­ zione degli inglesi ad accettare i loro nuovi modi di vita ri­ voluzionari come naturali o quanto meno irreversibili, e di adattarvisi. Classi differenti lo fecero in modi differenti. Occorrerà che ci occupiamo brevemente delle due classi più importanti, quella dei datori di lavoro e quella dei la­ voratori. Fondare un’economia industriale non è la stessa cosa che condurne una già esistente, e le considerevolissime energie della «classe media» britannica erano state dedi­ cate principalmente al primo di questi obiettivi nel mez­ zo secolo che trascorse da Piti a Peel. Politicamente e so­ cialmente, questo significò uno sforzo concentrato con cui la classe media dava fiducia a se stessa e provava orgoglio per lo storico compito che aveva avanti a sé (la prima par­ te del secolo xix fu il primo e ultimo periodo in cui delle signore scrissero piccoli saggi pedagogici di economia po­ litica con cui altre signore potevano insegnare ai loro fi­ gli, o, meglio ancora, ai poveri *), e significava una lunga * Ci riferiamo a scrittrici come la Marcet, Harriet Martineau e la ro­ manziera Maria Edgeworth, molto ammirate da Ricardo e lette dalla gio­ vane principessa Vittoria. Uno scrittore recente osserva molto acutamente che l’evidente mancanza di riferimenti alla rivoluzione francese e alle guer-

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battaglia contro «l’aristocrazia» per riplasmare le istitu­ zioni della Gran Bretagna in un modo adatto al capitali­ smo industriale. Le riforme degli anni ’30 e l’adozione del libero scambio nel 1846 raggiunsero, più o meno, questi obiettivi, almeno per quanto questo poteva essere fatto senza correre il rischio di una forse incontrollabile mobi­ litazione delle masse lavoratrici (cfr. capp. 4 e 12). All’e­ poca degli «anni d’oro» queste battaglie erano ormai state vinte, anche se rimanevano da combattere delle scaramuc­ ce contro la retroguardia del vecchio regime. La regina stessa era un ben visibile pilastro della rispettabilità del­ la classe media, o cosi sembrava essere, e il partito conser­ vatore, organo di tutto quanto non era in carattere con la Gran Bretagna industriale, fu per vari decenni una mino­ ranza politica permanente, priva di un’ideologia o di un programma. Il formidabile movimento dei lavoratori po­ veri — giacobino, cartista e anche, nella sua forma origi­ naria, socialista — scomparve lasciando esiliati stranieri come Karl Marx a cercare sconsolatamente di valersi co­ me potevano del liberal-radicalismo o del rispettabile sin­ dacalismo che ne avevano preso il posto. Ma il mutamento fu altrettanto impressionante anche in campo economico. I manufatturieri capitalisti della pri­ ma fase della rivoluzione industriale erano, o si conside­ ravano, una minoranza di pionieri che cercavano di fon­ dare un sistema economico in un ambiente per niente fa­ vorevole: circondati da una popolazione profondamente diffidente dei loro sforzi, impiegavano una manodopera non abituata all’individualismo e ad esso ostile, lottando, almeno inizialmente, per costruirsi le fabbriche con un modesto capitale iniziale e con profitti reinvestiti grazie alla parsimonia, al duro lavoro, e al nessuno scrupolo di stritolare i poveri. L’epoca dell’ascesa della classe media vittoriana, quale è rappresentata nelle opere di Samuel Smiles, si rifaceva a un’era spesso mitica di eroi che si era­ no fatti da sé, allontanati dalla stupida moltitudine nemire napoleoniche nei romanzi di Jane Austin e Maria Edgeworth può aver significato la deliberata esclusione di soggetti che non avrebbero dovuto presentare interesse per la rispettabile classe media.

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ca del progresso ma poi tornati trionfalmente coi loro cap­ pelli a cilindro. Ancora è da rilevare che erano essi stessi uomini plasmati dal loro passato, e questo tanto più in quanto mancavano di istruzione scientifica e si gloriavano soprattutto del loro empirismo. Si rendevano quindi con­ to soltanto imperfettamente di quale fosse il modo più ra­ zionale di condurre le loro imprese. Oggi può sembrare grottesco che degli economisti potessero sostenere, come fece Nassau Senior opponendosi al progetto di legge per le dieci ore del 1847, che il profitto dei datori di lavoro si formava nell’ultima ora di lavoro, e che quindi una ri­ duzione dell’orario lavorativo sarebbe loro riuscita fata­ le, ma c’era parecchia gente dalla testa dura convintissima che il solo modo di conseguire dei profitti consisteva nel pagare i salari in contanti più bassi possibili per la giorna­ ta lavorativa più lunga possibile. La classe dei datori di lavoro non conosceva quindi es­ sa stessa molto bene le regole del gioco industriale, o ten­ deva a non osservarle. Queste regole stabilivano che le transazioni economiche erano governate essenzialmente dal libero gioco delle forze nel mercato, ossia dalla libe­ ra e competitiva ricerca di vantaggi economici da parte di tutti gli uomini, il che avrebbe automaticamente prodot­ to dappertutto i risultati migliori. Ma, a parte la riluttan­ za degli uomini d’affari ad agire in concorrenza quando questo non conveniva loro *, essi non guardavano a queste considerazioni come applicabili agli operai. Questi ultimi erano talvolta vincolati da contratti lunghi e inflessibi­ li, come avveniva per I’«impegno annuale» dei minatori nei campi carboniferi del Nord-Est, e spesso erano munti da chi cercava un profitto supplementare con la coerci­ zione antieconomica del «truck» (pagamenti in natura, o acquisti obbligati nelle botteghe della compagnia) o delle multe, e in generale erano tenuti bene a freno da una legi­ slazione contrattuale (codificata nel 1823) che li faceva passibili di imprigionamento per rottura del rapporto di * Tuttavia i cartelli, gli accordi per fissare i prezzi, e cosi via, erano in quel periodo raramente durevoli o efficienti, eccetto in campi come quello dei contratti col governo.

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lavoro, mentre i loro padroni andavano impuniti o erano soltanto multati quando erano loro a fare la stessa cosa. Gli incentivi economici, come il pagamento in base ai ri­ sultati, non erano affatto cosa comune, eccetto che in alcu­ ne industrie o per certi tipi di lavoro, sebbene (come Karl Marx doveva sostenere in modo convincente), il «lavoro a cottimo » comportasse in quell’epoca la forma di remune­ razione salariale più conveniente per il capitalismo. Il solo incentivo riconosciuto generalmente era il profitto, e quan­ ti non guadagnavano profitti come imprenditori o subap­ paltatori in campi svariati erano lasciati a lavorare al passo dettato dalla macchina o dalla disciplina, o dalla tirannia dei subappaltatori o, se erano troppo qualificati per esse­ re tiranneggiati, erano lasciati lavorare ai loro attrezzi. Anche se si sapeva già che salari più alti e orari più brevi potevano aumentare la produttività, i datori di lavoro continuarono a non aver fiducia nei dipendenti, cercando invece di diminuire i salari e allungare gli orari. Una con­ tabilità dei costi e una conduzione industriale veramente razionali erano rare, e quanti le raccomandavano, come lo scienziato Charles Babbage (pioniere del computer) era­ no considerati come eccentrici senza spirito pratico. Delle trade unions si pensava che fossero condannate a un fal­ limento quasi immediato, o erano viste come capaci di cau­ sare il disastro economico. Anche se esse cessarono di esse­ re illegali nel 1824 * ogni sforzo fu fatto per distruggerle tutte le volte che fu possibile. In queste circostanze, non era sorprendente che gli operai dovessero anche rifiutarsi di accettare il capitali­ smo che, come abbiamo visto, era in primo luogo lungi dall’attirarli. Esso offriva loro molto poco, in pratica. E contrariamente a quanto sostenevano gli apologisti del si­ stema offriva loro poco anche in teoria, se non altro fino a quando fossero rimasti operai, secondo il destino che si offriva alla maggior parte di loro. Fino all’epoca delle fer­ rovie, il sistema capitalistico non offri agli operai nem* Grazie agli sforzi dei radicali filosofici, i-quali sostennero che una volta divenute legali, le trade unions avrebbero tosto dimostrato la loro totale inefficacia, cessando cosi di tentare i lavoratori. 6

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meno la garanzia di una sua stessa permanenza. Poteva crollare. Poteva essere rovesciato. Poteva consistere in un episodio e non in un’epoca. Era troppo giovane per aver deciso la propria permanenza in base soltanto al tempo che era durato, perché, come abbiamo visto, con l’ecce­ zione di alcune aree d’avanguardia, in tutte le altre, com­ presa quella della produzione tessile, il peso decisivo del­ l’industrialismo si fece sentire solo dopo le guerre napo­ leoniche. All’epoca del grande sciopero generale cartista del 1842 ogni persona adulta di una città come Blackburn poteva ricordarsi di quando erano apparsi nella città, me­ no di venticinque anni prima, la prima filanda e il telaio a vapore. E se i «poveri che lavoravano» esitavano ad ac­ cettare il sistema come permanente, ancor meno verosi­ mile era che vi si adattassero, a meno che non vi fossero obbligati, spesso da coercizioni non economiche. Poteva darsi che cercassero di aggirarlo, come fecero i primi so­ cialisti, creando libere comunità a produzione cooperati­ va. Poteva darsi che cercassero, con prospettive di tempo limitato, di sfuggirgli, come fecero le prime trade unions, mandando i loro membri disoccupati a mendicare lavoro presso qualche altra città, fino a quando scopersero che i «tempi duri» erano periodici e universali nella nuova economia. Poteva accadere che cercassero di dimenticar­ lo sognando un ritorno alla proprietà contadina. Non è un caso che il piu grande trascinatore di masse di quest’e­ poca, il tribuno cartista Feargus O’Connor, fosse un ir­ landese il cui programma economico positivo per le mas­ se che giuravano su di lui, era un piano per la spartizione delle terre. Negli anni ’40 del secolo xvm tutto questo cominciò a cambiare, e a cambiare rapidamente, sebbene a seguito di un’azione locale e non ufficiale piuttosto che di una qual­ che legislazione o organizzazione nazionale. I datori di la­ voro cominciarono ad abbandonare i metodi «estensivi» di sfruttamento come il prolungamento dell’orario di la­ voro e la riduzione dei salari, adottandone di «intensivi» che implicavano l’opposto. La Legge delle dieci ore del 1847 fece di ciò una necessità nell’industria cotoniera, ma troviamo che la stessa tendenza si diffuse nel nord in-

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dustriale senza interventi legislativi. Quel che i continen­ tali dovevano chiamare la «settimana inglese», cioè un fine settimana libero, in ogni caso a partire dal mezzogior­ no del sabato, cominciò a diffondersi nel Lancashire ne­ gli anni ’40, e a Londra negli anni ’50 del secolo scorso. I pagamenti in base ai risultati (vale a dire i pagamenti fatti agli operai sotto forma di incentivi) divennero indub­ biamente un’usanza più generale, mentre i contratti tese­ ro certamente ad abbreviare i termini e a diventare più flessibili, anche se su ciò non siamo ancora pienamente documentati. Diminuirono le pressioni extraeconomiche, e aumentò la disposizione ad accettare la supervisione del­ le condizioni di lavoro, ad esempio ad opera degli ammi­ revoli ispettori di fabbrica. Si trattò non tanto di vittorie della razionalità o anche della pressione politica, quanto di allentamenti di tensione. Gli industriali britannici si sentirono ormai ricchi, e abbastanza fiduciosi da potersi permettere cambiamenti del genere. È stato notato che i datori di lavoro i quali sostennero politiche di salari re­ lativamente alti e di riforme a favore dei lavoratori negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, frequentemente erano a capo di imprese fiorenti e da lungo tempo affermate, non più minacciate da fallimenti a causa di fluttuazioni del commercio. I datori di lavoro «di nuovo tipo», più comu­ ni all’esterno che all’interno del Lancashire, furono uomi­ ni come i fratelli Brass (birra), Lord Elcho (carbone e fer­ ro), Thomas BrasSey (costruzioni ferroviarie), Titus Salt, Alfred Illingworth, i fratelli Kell dei dintorni di Bradford, A. J. Mundella e Samuel Morley (calzetterie). Fu forse un caso che Bradford, ove nacquero parecchi di questi uomi­ ni, abbia dato il via nel West Riding alla gara di prestigio per la costruzione di monumenti municipali erigendo un opulento edificio (con un ristorante «per ospitare gli uo­ mini del commercio», un salone per 3100 persone, un grande organo e illuminazione fornita da una linea conti­ nua di 1750 becchi a gas) e spingendo cosi la sua rivale, Leeds, alla spesa gigantesca di 122 000 sterline per il pro­ prio palazzo municipale? Bradford, come tante altre città, cominciò a pensare di allontanarsi dalla solita avarizia mu­ nicipale nel 1849.

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Verso la fine degli anni ’60 questi cambiamenti diven­ nero più visibili perché più formali e ufficiali. Nel 1867 la legislazione sulle fabbriche fu per la prima volta estesa seriamente oltre le industrie tessili, e cominciò anche ad abbandonare la finzione che suo solo scopo fosse quello di proteggere i bambini essendo gli adulti teoricamente capaci di difendersi da sé. Anche in campo tessile, dove l’opinione generale degli uomini d’affari era stata che le leggi del 1833 e del 1847 (la Legge sulle dieci ore) costi­ tuivano capricciose e rovinose interferenze nell’iniziativa privata, quei provvedimenti non erano più visti con sfa­ vore. Nessuno, scrisse l’«Economist» «aveva ora alcun dubbio sulla saggezza di quelle misure»3. Il progresso in campo minerario fu più lento, anche se nel 1872 fu abo­ lito l’impegno annuale nel Nord-Est e fu teoricamente ri­ conosciuto il diritto dei minatori a controllare, mediante un «controllore del peso» eletto, l’onestà dei compensi che ricevevano in base ai risultati. L’ingiusto codice del padrone e del servitore fu finalmente abolito nel 1875. Co­ sa ancor più importante, le trade unions acquisirono quel­ la che è la loro condizione moderna, cioè furono da allo­ ra accettate come permanenti e non come parti nocive della scena industriale. Questo cambiamento fu tanto più stupefacente in quanto la commissione reale del 1867 che ad esso diede inizio, fu il risultato di drammatici e com­ pletamente inescusabili atti di terrorismo compiuti da pic­ cole associazioni di mestiere a Sheffield («gli scoppi di fu­ rore di Sheffield » ) di cui si pensava che avrebbero porta­ to, e venti anni prima probabilmente lo avrebbero fatto, a forti misure contro il movimento delle trade unions. In effetti le leggi del 1871 e del 1875 diedero alle unions un certo grado di libertà legale che giuristi orientati in sen­ so conservatore hanno poi, a intervalli, cercato di elimi­ nare. Ma il sintomo più ovvio del cambiamento fu di natu­ ra politica: la Legge per le riforme del 1867 (seguita, co­ me abbiamo visto, da un’intera serie di importanti inno­ vazioni legislative) accettò un sistema elettorale dipen­ dente dai voti della classe operaia. Essa non introdusse

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la democrazia parlamentare, ma implicava che i gover­ nanti della Gran Bretagna non ne avversavano più un’e­ ventuale introduzione, che in effetti riforme susseguenti (negli anni 1884-85, 1918 e 1928), conseguirono fra con­ trasti sempre meno gravi *. Venti anni prima il cartismo era stato combattuto perché si riteneva che la democra­ zia comportasse la rivoluzione sociale. Cinquant’anni pri­ ma la democrazia sarebbe parsa inconcepibile, eccetto che alle masse e a un pugno di radicali estremisti della classe media. George Canning nel 1817 aveva ringraziato Dio « che la Camera dei Comuni non si identifica col popolo al punto di farne proprio ogni desiderio incipiente... Nes­ sun principio della nostra costituzione aveva del resto sta­ bilito una cosa del genere, mai fu pretesa una cosa del ge­ nere, né si potrebbe pretendere una cosa simile senza causare al regno rovine e miseria»4. Un certo Cecil, schie­ rato con la parte più retriva in quei dibattiti degli anni 1866-67 cosi rivelatori di quello che era l’atteggiamento delle classi superiori britanniche, era ancora del parere che democrazia significava socialismo. I governanti della Gran Bretagna non gradirono la riforma. Al contrario, se non fosse stato per le agitazioni di massa dei poveri, non avrebbero consentito a niente del genere, anche se la lo­ ro disposizione a cedere nel 1867 contrastò nettamente con la massiccia mobilitazione di forze che essi avevano organizzato contro il cartismo nel 1839, nel 1842 e nel 1848. Essi, comunque, si trovarono in seguito disposti ad accettare la democrazia quando non considerarono più la classe operaia britannica come rivoluzionaria. Ormai la vedevano divisa in un’aristocrazia del lavoro politicamente moderata, incline ad accettare il capitalismo, e in una plebe proletaria, politicamente inefficiente perché di­ sorganizzata e senza capi, che non faceva temere grandi pericoli. Infatti, i grandi movimenti di massa che, come il cartismo, avevano mobilitato i proletari contro la clas­ se padronale, erano morti. Il socialismo era scomparso dal paese che gli aveva dato i natali. * Ma «The Times» non considerò accettabile la democrazia fino al 1914-

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Le mie penose impressioni [scriveva un vecchio cartista nel 1870] furono confermate. È vero che ai vecchi tempi di noi cartisti c’erano migliaia di operai nel Lancashire vestiti di stracci, e che molti pativano la fame. Ma quegli uomini sprizzavano intelligenza da tutti i pori. Si poteva vederli riuniti in gruppo discutere la grande dottrina della giustizia sociale... Adesso... non si vedono gruppi del genere nel Lan­ cashire. Si possono invece vedere operai ben vestiti che chiacchierano, passeggiando con le mani in tasca, delle coo­ perative e delle loro quote di partecipazione appunto nelle cooperative o nelle società di costruzione. E se ne vedono altri con aria di idioti che portano al guinzaglio piccoli le­ vrieri !.

Il benessere - o quella che uomini abituati a soffrire la fame consideravano come una condizione confortevo­ le — aveva estinto il fuoco che bruciava negli stomachi af­ famati. E, cosa di pari importanza, la scoperta che il ca­ pitalismo non era una catastrofe temporanea, ma un si­ stema permanente che permetteva dei miglioramenti, ave­ va alterato l’obiettivo della loro lotta. Non c’erano socia­ listi che sognassero una nuova società. C’erano trade unions che cercavano di valersi delle leggi dell’economia politica per provocare una scarsità delle rispettive cate­ gorie di manodopera facendo cosi salire i salari dei loro membri. Il cittadino britannico della classe media che osservas­ se la scena nei primi anni ’70 del secolo scorso poteva be­ ne pensare che tutto andava per il meglio e nel migliore dei modi possibile. Niente di veramente grave sembrava poter danneggiare l’economia britannica. Ma avvenne il contrario. Come la prima fase dell’industrializzazione era andata a cascare in una depressione e in una crisi auto­ provocate, cosi la seconda fase si procurò da sé le proprie difficoltà. Gli anni fra il 1873 e il 1896 sono noti agli sto­ rici economici, che li hanno discussi piu animatamente di quanto abbiano fatto con qualunque altra fase di con­ giuntura economica del secolo xix, come il periodo della «grande depressione». È una definizione che induce in errore. Per quanto riguarda la classe operaia, quella con­

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giuntura non può essere paragonata con i cataclismi degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso e degli anni ’20 e ’30 del nostro secolo (cfr. oltre, pp. 234-36). Ma se «depressio­ ne» sta a indicare un diffuso e, per le generazioni poste­ riori al 1850, nuovo stato mentale di malessere e pessi­ mismo circa le prospettive dell’economia britannica, l’e­ spressione è precisa. Dopo il suo glorioso progresso, l’eco­ nomia ristagnò. Anche l’ascesa economica britannica dei primi anni ’70 del secolo scorso, pur se non portò a quel crollo rovinoso e improvviso che si ebbe negli Stati Uni­ ti e nell’Europa centrale fra patrimoni distrutti e altiforni spenti, acquistò inesorabilmente una tendenza depres­ siva. A differenza di quanto avvenne in altri paesi indu­ striali, non si ebbe un altro boom dell’economia britanni­ ca. I prezzi, i profitti e i tassi d’interesse scesero e rimase­ ro bassi in modo preoccupante. Non bastarono alcuni pic­ coli febbrili rialzi ad arrestare veramente questa discesa demoralizzante che non invertì il suo corso prima della metà degli anni ’90 del secolo scorso. E quando il sole economico dell’inflazione tornò ad affacciarsi nel mare di nebbia, fu in un mondo molto differente che si trovò a brillare. Fra il 1890 e il 1895 sia gli Stati Uniti sia la Germania avevano sorpassato la Gran Bretagna nella pro­ duzione dell’acciaio. Durante la «grande depressione» la Gran Bretagna cessò di essere 1’«officina del mondo» di­ venendone soltanto una delle grandi potenze industriali, e una delle meno forti, sotto certi aspetti fondamentali. La «grande depressione» non può essere spiegata in termini esclusivamente britannici, perché fu un fenome­ no di portata mondiale anche se i suoi effetti furono di­ versi da un paese all’altro e in alcuni, in modo particolare negli Stati Uniti, in Germania e in altri che da poco si era­ no affacciati sulla scena industriale, come i paesi scandi­ navi, costituì tutto sommato un periodo di straordinario progresso anziché di stagnazione. Tuttavia in complesso la «grande depressione» contrassegnò la fine di una fase dello sviluppo economico - la prima, o, se si preferisce, la fase «britannica dell’industrializzazione» - e l’inizio di un’altra. In termini generali, il boom della metà del seco­ lo fu dovuto all’iniziale (o virtualmente iniziale) industria­

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lizzazione delle principali economie «sviluppate» all’e­ sterno della Gran Bretagna, e al fatto che si aprirono al­ la produzione di beni primari e all’agricoltura nuove aree prima d’allora non sfruttate perché inaccessibili o sotto­ sviluppate *. Per quanto riguardava i paesi industriali, si trattò di una specie di estensione della rivoluzione indu­ striale britannica e della tecnologia su cui questa era ba­ sata. Per quanto riguardava i produttori di beni primari, si trattò della costruzione di un sistema globale di tra­ sporti basato sulla ferrovia, su navi migliori (e in misura sempre crescente azionate dal vapore), capace di collega­ re regioni utilizzabili economicamente con relativa faci­ lità, e varie aree minerarie, ai loro mercati nei settori ur­ banizzati e industriali del mondo. Entrambi i processi sti­ molarono enormemente l’economia britannica senza pe­ raltro arrecarle danni apprezzabili (cfr. p. 152). Tutta­ via, né l’uno né l’altro potevano continuare indefinita­ mente. Per prima cosa, la netta riduzione dei costi nell’indu­ stria e (grazie alla rivoluzione nei trasporti) dei prezzi delle materie prime doveva prima o poi risolversi (quan­ do i nuovi impianti industriali e le nuove ferrovie comin­ ciarono a funzionare, erano state poste a coltura le nuove aree agricole) in una caduta dei prezzi. In effetti, la ridu­ zione dei costi si identificò con quella spettacolare defla­ zione ventennale che ridusse il livello generale dei prez­ zi di circa un terzo e fu quello a cui la maggior parte de­ gli uomini d’affari si riferivano quando parlavano di de­ pressione persistente. I suoi effetti furono più sensibili, addirittura catastrofici, in alcuni settori dell’agricoltura, che fortunatamente costituivano una parte minore dell’e­ conomia britannica, anche se lo stesso non poteva dirsi per altri paesi. Appena gli afflussi massicci di generi ali­ mentari a buon mercato cominciarono (negli anni ’70) a * Con questo non si intende negare lo sviluppo industriale fuori della Gran Bretagna prima degli anni ’40, ma la possibilità di un confronto con l’industrializzazione britannica. Cosi, nel 1840, il valore dei manufatti fer­ rosi degli Stati Uniti e della Germania ammontò, per ciascuno di questi paesi, a un sesto di quelli britannici; il valore di tutti i manufatti tessili, fu rispettivamente, di un sesto e un quinto; il valore della produzione di ghisa, di circa un sesto e un ottavo.

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convergere sulle aree urbanizzate d’Europa, i prezzi del mercato agricolo sprofondarono non solo nelle aree im­ portatrici, ma nelle regioni concorrenti dei produttori d’oltremare. Il forte malcontento degli agricoltori popu­ listi del continente nordamericano, i rumori, ancor piu minacciosi, con cui il desiderio di una rivoluzione agra­ ria si manifestava nella Russia degli anni ’80 e ’90, per non parlare di quel violento manifestarsi di un malcon­ tento agrario e nazionalista nell’Irlanda del periodo del parnellismo e della Lega agraria di Michael Davitt, illu­ strano bene quali fossero gli effetti di quei massicci arrivi di generi alimentari * in regioni in cui predominavano i coltivatori diretti o le piccole aziende agricole a condu­ zione familiare, che si trovavano direttamente o indiret­ tamente alla mercè dei prezzi mondiali. I paesi preparati a proteggere i loro coltivatori con tariffe doganali, cosa che alcuni di essi fecero dopo il 1879, pensarono di ave­ re dei mezzi di difesa. L’agricoltura britannica soffri gra­ vemente per essersi specializzata nella produzione di ce­ reali, divenuti incapaci di sopportare la concorrenza, ma era troppo poco importante per ottenere una protezione, e infine si spostò verso prodotti non minacciati, o minacciabili, da parte dei produttori d’oltremare (cfr. p. 225). Seconda cosa, i benefici immediati della prima fase del­ l’industrializzazione svanirono. Le possibilità offerte dal­ le innovazioni tecnologiche dell’era industriale origina­ ria (la britannica) tesero a esaurirsi, e in misura maggio­ re nei paesi che piu erano stati trasformati in quella prima fase. Una nuova fase tecnologica apri nuove possibilità negli anni ’90, ma sussistevano ovviamente delle incer­ tezze. Era uno stato di cose tanto piu inquietante in quan­ to sia le nuove sia le vecchie economie industriali cozzava­ no contro problemi di mercato e di profitti marginali ana­ loghi a quelli che avevano scosso l’industria britannica quarant’anni prima. Man mano che si andava riempiendo * Effetti che si fecero sentire ma più debolmente perché si trattò di fenomeni localizzati, nelle poche regioni della Gran Bretagna in cui pre­ dominava la piccola proprietà contadina. Ricordiamo qui l’agitazione di piccoli affittuari delle montagne scozzesi e il movimento analogo dei colti­ vatori delle colline gallesi.

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il vuoto dato dalla preponderanza della domanda, i merca­ ti tesero a ingolfarsi, perché anche se si erano ampliati, non lo avevano fatto — almeno in pratica — con un ritmo capace di reggere il passo con l’espansione multipla della produzione e della potenzialità di produzione di manufat­ ti. Mentre i giganteschi profitti degli industriali pionieri declinavano, compressi in alto dalla lotta per la riduzione dei prezzi e in basso dal costo sempre maggiore degli im­ pianti e della loro sempre piu complessa meccanizzazione, gli industriali cercavano ansiosamente una via d’uscita. E mentre la cercavano, le masse operaie dei paesi indu­ striali, sempre piu numerose, si univano alla popolazio­ ne agraria chiedendo miglioramenti e riforme, come ave­ vano fatto nell’era corrispondente dell’industrializzazio­ ne britannica. L’epoca della grande depressione fu anche quella che vide sorgere i grandi partiti di massa sociali­ sti (vale a dire prevalentemente marxisti) in tutta Euro­ pa, organizzati in un’Internazionale marxista. In Gran Bretagna, gli effetti di questi cambiamenti glo­ bali furono allo stesso tempo maggiori e minori che al­ trove. La crisi agraria si fece sentire nel paese (non però in Irlanda) solo marginalmente, e in effetti l’afflusso di generi alimentari e materie prime sempre più a buon mercato aveva i suoi vantaggi. D’altro canto, quello che altrove fu soltanto un incespicamento e un cambio di pas­ so, fu cosa assai più grave in Gran Bretagna. Questo in un primo momento fu dovuto al fatto che l’economia britan­ nica era stata in gran parte collegata con un’espansione ininterrotta all’estero, specialmente negli Stati Uniti. La costruzione della rete ferroviaria mondiale era tutt’altro che completa negli anni ’70 del secolo scorso, e tuttavia l’arresto del furore costruttivo dei primi anni ’70 * ebbe sulle esportazioni britanniche di capitali e merci un effet­ to sufficiente a far si che almeno uno storico descrivesse la grande depressione con la frase «Quel che successe quando le ferrovie furono ormai costruite »6. Gli inglesi che vivevano di rendita s’erano cosi abituati al flusso di * Sia negli Stati Uniti sia in Germania, il crollo del 1873 fu soprattutto un crollo nell’espansione delle ferrovie.

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reddito che ritornava dal Nordamerica e dalle aree sotto­ sviluppate del mondo, che le inadempienze dei loro debi­ tori negli anni ’70 (per esempio, quando si ebbe il crollo delle finanze turche nel 1876) obbligarono parecchie car­ rozze al riposo e portarono a un temporaneo arresto del­ l’edilizia in posti come Bournemouth e Folkestone. (Piu precisamente, mobilitarono quegli attivi consorzi di pro­ prietari di obbligazioni stranieri o quei governi che agiva­ no per conto dei loro investitori, i quali a loro volta dove­ vano far si che stati nominalmente indipendenti divenisse­ ro virtuali o effettivi protettorati o colonie delle potenze europee, come successe all’Egitto e alla Turchia dopo il 1876). Ma la crisi non fu soltanto temporanea. Essa rivelò che molti altri paesi erano ormai diventati capaci di produrre da sé, magari anche per l’esportazione, quel che prima in pratica era stato disponibile soltanto in Gran Bretagna. E rivelò anche che la Gran Bretagna era preparata ad adottare solo uno dei possibili metodi, per fronteggiare la situazione. A differenza di altri paesi (per esempio la Fran­ cia, la Germania e gli Stati Uniti), che adottarono tariffe doganali protettive sia per la loro agricoltura sia per i lo­ ro mercati industriali interni, la Gran Bretagna si atten­ ne fermamente al libero scambio (cfr. cap. 12). Essa fu poi ugualmente riluttante a battere quella strada della concentrazione economica sistematica — con la formazio­ ne di trust, cartelli, gruppi monopolistici e cosi via - che fu cosi caratteristica della Germania e degli Stati Uniti negli anni ’80 (cfr. cap. 9). Essa era troppo profondamen­ te impegnata con la tecnologia e l’organizzazione affaristi­ ca della prima fase dell’industrializzazione, che l’avevano servita cosi bene, per aderire entusiasticamente a quella tecnologia e a quel tipo di conduzione industriale del tut­ to nuovi e rivoluzionari che avevano fatto la loro appa­ rizione negli anni ’90 del secolo. Questo la lasciò con una sola importante via d’uscita, tradizionale per il paese an­ che se adottata anche dalle potenze concorrenti: la conqui­ sta economica, e in misura crescente politica, delle aree mondiali non ancora sfruttate. La via, cioè, dell’imperiali­ smo.

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L’epoca della grande depressione diede cosi inizio al­ l’epoca dell’imperialismo; di quell’imperialismo ufficiale che prese la forma della spartizione dell’Africa negli an­ ni ’80 del secolo scorso, di quell’imperialismo semiufficia­ le con consorzi nazionali o internazionali che assumeva­ no la direzione finanziaria dei paesi deboli e di quello non ufficiale dato dagli investimenti all’estero. Gli storici po­ litici hanno affermato di non aver trovato dei motivi eco­ nomici per questa virtuale suddivisione del mondo fra un gruppo di potenze europee occidentali (più gli Stati Uniti) negli ultimi decenni del secolo xix, ma gli storici economici non hanno incontrato difficoltà del genere. L’imperialismo non era niente di nuovo per la Gran Bre­ tagna. Di veramente nuovo ci furono la fine del virtua­ le monopolio britannico nel mondo sottosviluppato, e la necessità di contrassegnare ufficialmente delle regioni sog­ gette all’influenza imperiale escludendone i concorren­ ti potenziali. A questo, però, si dovette spesso giungere con troppo anticipo rispetto a effettive prospettive di van­ taggi economici e di frequente, bisogna ammetterlo, i ri­ sultati economici furono deludenti *. Occorre mettere in rilievo un’ulteriore conseguenza della grande depressione, vale a dire il sorgere di un grup­ po concorrenziale di potenze industriali economicamente progredite. Si trattò della fusione della rivalità politica con quella economica, della fusione dell’iniziativa privata con l’appoggio statale, come è dimostrato da un raffor­ zamento del protezionismo e da un aumento della frizio­ ne imperialistica. In misura sempre crescente, il mondo degli affari, in un modo o in un altro si rivolgeva allo sta­ to non soltanto per offrirgli mano libera, ma per salvar­ lo. Una nuova dimensione si affermò nell’ambito della po­ litica internazionale, e, cosa significativa, dopo un lun­ go periodo di pace generale le grandi potenze si addentra­ rono in un’altra epoca di guerre mondiali. * Del resto, di novità non si può parlare neppure in questo caso. Gli uomini d’affari britannici fondarono grandi speranze sull’America latina negli anni ’20 del secolo scorso, quando si lusingarono di creare li un im­ pero non ufficiale con l’erezione di repubbliche indipendenti. Rimasero de­ lusi, almeno agli inizi.

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Nel frattempo, la fine di un’epoca di espansione senza ostacoli, e i dubbi che sorgevano circa le prospettive futu­ re dell’economia britannica, diedero il via a un cambia­ mento fondamentale nella politica britannica. Nel 1870, la Gran Bretagna era stata liberale. Il grosso della bor­ ghesia britannica, la gran massa della classe operaia po­ liticamente consapevole, e persino la vecchia ala Whig dell’aristocrazia terriera, trovarono la loro espressione po­ litica e ideologica nel partito di William Ewart Gladstone, che cercava la pace, la riduzione delle spese e le ri­ forme, l’abolizione completa della tassa sul reddito e del reddito nazionale. Quelli che non aderivano non aveva­ no un altro programma o prospettive reali. Verso la metà degli anni ’90 del secolo il grande partito liberale si tro­ vò scisso, poiché virtualmente tutti i suoi aristocratici e un grosso settore dei suoi capitalisti erano passati ai con­ servatori. La City di Londra, che era stata una roccaforte liberale fino al 1874, aveva acquisito la sua fisionomia po­ litica conservatrice. Un partito laburista indipendente so­ stenuto dalle trade unions stava per nascere. Il primo so­ cialista proletario col berretto di panno sedeva già nella Camera dei Comuni. Pochi anni prima, ma è come dire un’era storica prima, un acuto osservatore poteva ancora scrivere (nel 1885), a proposito degli operai britannici: Qui la tendenza al socialismo è minore che fra altre na­ zioni del vecchio mondo o del nuovo. L’operaio inglese... non avanza, quelle stravaganti richieste di protezione da parte dello stato nella regolazione del suo lavoro giornalie­ ro e dell’aumento dei suoi salari, che sono comuni fra le classi operaie dell’America e della Germania, e fanno si che una certa forma di socialismo sia la peste di entrambi que­ sti paesi

Quando fini la grande depressione, le cose erano cam­ biate.

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' Checkland, Chambers, Clapham, Landes (cfr. Letture ulteriori, n. 3). Sfortunatamente non abbiamo storie moderne di alcuna delle industrie base. m. r. robbins, The Railway Age, 1962, è un’utile introduzione all’argomento. The Migration of British Capital to 1875, di L. H. jenks, 1927, è piu ampio di quanto il suo titolo suggerisca, c. erickson, British Industrialist: Steel e Hosiery, 1969, è utile sull’argomento degli uomini d’affari; A History of Labour in Sheffield, di s. pollard, 1959, è virtual­ mente unico come studio regionale della manodopera. Before the Socialists, di royden harryson, 1965, illustra bene la politica so­ ciale del periodo. Sulle migrazioni, cfr. brinley Thomas, Migra­ tion and Economie Growth, 1954, e J. iavible, Rural Depopula­ tion in England and Wales, 1957. La bibliografia sulla «grande depressione» è ampia. Ashton (cfr. Letture ulteriori, n. 3) può servire a introdurre i fatti, e c. wilson, Economy and Society in late Victorian Britain, «Economie History Review», xviu, 1965, e A. E. Musson, in «Journal of Economie History», 1959, gli argomenti. Cfr. anche i diagrammi 1, 3, 5, 8, 14-18, 22-23, 25, 29-3i> 34-35,40, 53-542 John Francis, A History of the English Railway, 1851, vol. II, p. 136. 3 Citato in j. h. clapham, An Economic History of Modern Bri­ tain, vol. II, p. 41. 4 Citato in w. smart, Economic Annals of the 19th Century, 1910, vol. I, p. 54. 5 The Life of Thomas Cooper, Written by Himself, 1872, p. 393. 6 w. w. ROSTOW, British Economy in the 19th Century, 1948, p. 88. 7 T. h. escott, England, ed. 1885, pp. 135-36.

7La Gran Bretagna nell’economia mondiale1

La media epoca vittoriana è un buon punto d’osserva­ zione da cui esaminare le caratteristiche e il sistema di ba­ se delle relazioni economiche della Gran Bretagna col re­ sto del mondo. Forse la Gran Bretagna non fu mai «l’officina del mon­ do» nel senso letterale dell’espressione, ma il suo predo­ minio industriale fu nella metà del secolo xix tale che la definizione è corretta. Il paese produceva forse due terzi del carbone mondiale, forse metà del ferro, cinque setti­ mi di quella poca quantità d’acciaio, metà dei tessuti di cotone prodotti su scala industriale, il 40 per cento (in va­ lore) degli articoli di ferro. D’altro canto, anche nel 1840 la Gran Bretagna contava solo un terzo della forza vapore mondiale, e non produceva probabilmente nemmeno un terzo di tutti i manufatti mondiali. Il suo rivale più temi­ bile erano, anche allora, gli Stati Uniti, o piuttosto le re­ gioni settentrionali di quella nazione, seguiti dalla Fran­ cia, dalla Confederazione germanica e dal Belgio. Erano tutti stati che, con l’eccezione parziale del piccolo Belgio, si trovavano molto indietro rispetto al grado di industria­ lizzazione raggiunto dalla Gran Bretagna, ma era già chia­ ro che se essi ed altri avessero continuato ad industrializ­ zarsi, il vantaggio della Gran Bretagna si sarebbe inevita­ bilmente ristretto. E cosi avvenne. Anche se la posizione britannica rimase abbastanza salda nel campo del cotone e forse migliorò effettivamente nella produzione di ghi­ sa, nel 1870 la «officina del mondo» poteva ormai conta­ re soltanto su qualcosa come un quarto o un quinto della forza vapore di tutto il mondo e produceva molto meno

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della metà di tutto l’acciaio mondiale. Alla fine degli an­ ni ’80 del secolo, il relativo declino era visibile nei settori produttivi un tempo dominanti. Nei primi anni ’90 sia la Germania sia gli Stati Uniti avevano sorpassato la Gran Bretagna nella fabbricazione del prodotto fondamentale per l’industrializzazione, l’acciaio. Da allora, la Gran Bre­ tagna, fu soltanto una delle grandi potenze industriali, e non piu la nazione guida dell’industrializzazione. In ef­ fetti, fu la piu pigra delle potenze industriali e quella che mostrò i segni più evidenti di un relativo declino. Questi raffronti internazionali erano non soltanto una questione di orgoglio (o di inquietudine) nazionale, ma anche di urgente importanza pratica. Come abbiamo vi­ sto, l’economia industriale britannica della prima fase in­ dustriale si appoggiava soprattutto, per la sua espansione, sul mercato internazionale. Vi era obbligata, perché con l’eccezione del carbone, le sue disponibilità di materie pri­ me non erano enormi, e alcune industrie di importanza fondamentale, come il cotone, poggiavano interamente sulla importazione. Per di più, a partire dalla metà del se­ colo xix il paese non fu più in grado di nutrirsi attingen­ do soltanto alla propria produzione agricola. Inoltre la popolazione britannica, pur aumentando rapidamente, era in origine troppo scarsa per mantenere un apparato in­ dustriale e commerciale dell’ampiezza che esso poi in ef­ fetti raggiunse, e questo tanto più in quanto la maggior parte di essa, vale a dire le classi lavoratrici, erano troppo povere per costituire un mercato importante per merci che non fossero quelle essenziali per l’esistenza: cibo, abi­ tazioni, e pochi elementari oggetti di vestiario e d’uso do­ mestico. Per quanto povero, il mercato interno avrebbe potuto essere sviluppato assai meglio, ma questo non ac­ cadde, in gran parte perché la Gran Bretagna cercò sboc­ chi nel commercio d’oltremare. Ciò fece ancora aumentare la dipendenza dal mercato internazionale. Cosa ancora più importante, la Gran Bretagna si tro­ vò anche in una posizione che le consenti di sviluppare il commercio internazionale in modo anormalmente ampio semplicemente grazie al suo monopolio dell’industrializ­ zazione e a quelle relazioni con i territori sottosviluppa-

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ti d’oltremare che le era riuscito di stabilire fra il 1780 e il 1815. In un certo senso la sua industria andò espanden­ dosi entro un vuoto internazionale, anche se in certe par­ ti del mondo quel vuoto era stato creato dalle attività del­ la marina inglese e veniva mantenuto per impedire che potenze commerciali rivali potessero attaccare gli spazi marini controllati dalla Gran Bretagna. L’economia britannica diede vita quindi ad un caratte­ ristico e particolare tipo di relazioni internazionali. Essa si affidava principalmente al commercio estero, vale a di­ re, in termini generali, allo scambio di propri manufatti e altre merci e servizi offerti da un’economia sviluppata (capitali, trasporti marittimi, attività bancarie, assicura­ zioni, e cosi via) con beni primari stranieri (materie prime e generi alimentari). Nel 1870, il commercio britannico pro capite (escluse le voci «invisibili») toccava l’aliquo­ ta di 17 sterline e 6 scellini contro 6 sterline e 4 scellini per ogni francese, 5 sterline e 6 scellini per ogni tedesco, e 4 sterline e 1 scellino per ogni cittadino degli Stati Uniti. Soltanto il piccolo Belgio, l’altro pioniere dell’in­ dustria, poteva vantare, fra tutti gli altri stati industriali, cifre paragonabili con quelle britanniche. I mercati d’ol­ tremare svolsero un ruolo d’importanza crescente nell’e­ conomia per quanto riguardava i prodotti, e gli sbocchi d’oltremare per quanto riguardava i capitali. Alla fine del secolo xvm le esportazioni dal paese aumentavano a cir­ ca il 13 per cento del reddito nazionale, nei primi anni ’70 del secolo xvm a circa il 22 per cento, e poi si aggirarono su una media fra il 16 e il 20 per cento eccettuato il perio­ do fra la depressione del 1929 e i primi anni del ’50 del nostro secolo. Fino alla «grande depressione» del secolo xix, le esportazioni normalmente aumentarono più rapi­ damente del reddito nazionale reale nel suo complesso. Nelle industrie più importanti, il mercato straniero svol­ se un ruolo ancor più decisivo. Questo vale soprattutto per l’industria cotoniera, che esportava più di metà della sua produzione in valore all’inizio del secolo xix, e per il ferro e l’acciaio, la cui produzione lorda si riversò sui mercati d’oltremare nella misura del 40 per cento a par­ tire dalla metà del secolo xix.

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Il risultato «ideale» di questo massiccio interscambio sarebbe stato la trasformazione del mondo in un comples­ so di economie dipendenti da quella britannica e ad essa complementari, ciascuna scambiante i beni primari per la cui produzione una posizione geografica la rendeva più adatta (almeno cosi sostenevano gli economisti del pe­ riodo più ingenui) contro i manufatti dell’officina del mondo. In effetti varie economie complementari del ge­ nere si svilupparono in vari periodi, soprattutto sulla ba­ se di prodotti locali specializzati di cui la Gran Bretagna era l’acquirente principale: il cotone nelle regioni meri­ dionali degli Stati Uniti fino alla guerra civile americana, la lana in Australia, i nitrati e il rame in Cile, il guano in Perù, il vino in Portogallo, e cosi via. Dopo gli anni ’70 del secolo lo sviluppo di un massiccio commercio interna­ zionale di generi alimentari aggiunse a questo impero eco­ nomico vari altri paesi, fra cui notevoli l’Argentina (fru­ mento, carne di bue), la Nuova Zelanda (carni, prodotti caseari) e altri ancora. Non va poi dimenticato il settore agrario dell’economia danese. Nel frattempo il Sudafri­ ca sviluppò un sistema di relazioni commerciali analogo sulla base delle sue esportazioni d’oro e di diamanti (men­ tre il mercato mondiale era controllato da Londra), e va­ ri paesi tropicali fecero lo stesso basandosi su vari pro­ dotti vegetali (ad esempio l’olio di palma, la gomma). Ovviamente, non poteva succedere che il mondo inte­ ro prendesse la forma di questa specie di sistema planeta­ rio accentrato intorno al sole economico della Gran Bre­ tagna, non fosse altro perché la Gran Bretagna non era il solo paese sviluppato e in corso d’industrializzazione. Le altre economie sviluppate, ciascuna col suo proprio modello di relazioni internazionali, erano naturalmente controparti commerciali della Gran Bretagna, e in effet­ ti erano potenziali acquirenti delle sue merci di maggiore importanza più che mondo sottosviluppato, sia perché erano più ricche, sia perché avevano un maggiore bisogno di acquistare manufatti. È un luogo comune che il com­ mercio fra due paesi sviluppati sia normalmente più in­ tenso che quello fra un paese sviluppato e uno arretrato o fra paesi arretrati. Comunque, questo tipo di attività

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commerciale era molto più vulnerabile perché non era protetta da un controllo economico o politico. Un paese progredito o in corso di industrializzazione aveva agli ini­ zi bisogno della Gran Bretagna perché in ogni caso nelle prime fasi, avrebbe beneficiato di quei capitali, di quei macchinari e di quella capacità tecnica che soltanto la Gran Bretagna poteva offrire, e del resto a volte non ave­ va altra scelta. Ogni tanto si vedono sul continente d’Eu­ ropa le tali fabbriche o officine meccaniche avviate da qualche inglese, le prime rozze macchine copiate da qual­ che progetto inglese (illegalmente contrabbandato se la cosa era avvenuta prima del 1825, acquistato legalmente in caso di data posteriore). L’Europa era piena di Thornton (Austria e Russia), Evans e Thomas (Cecoslovacchia), Cockerill (Belgio), Manby e Wilson (Francia) o Mulvany (Germania), e la diffusione universale del football nel se­ colo xx è in gran parte dovuta alle squadre di fabbrica messe in piedi da proprietari, dirigenti e altro personale qualificato inglese in tutte le parti del continente. Inevi­ tabilmente si trovano poi le prime ferrovie, e spesso il grosso di interi sistemi ferroviari, costruiti da appalta­ tori britannici, con locomotive, rotaie, personale tecnico e capitali britannici. Accadeva comunque, altrettanto inevitabilmente, che un’economia in corso di industrializzazione tentasse di proteggere le proprie industrie contro quelle britanniche, perché se non l’avesse fatto sarebbe stata incapace di svilupparsi al punto di poter competere con la Gran Bre­ tagna nei propri territori e tanto meno all’estero. Gli eco­ nomisti nazionali, negli Stati Uniti e in Germania, non ebbero mai molti dubbi sul valore della protezione, e gli industriali dei settori in concorrenza con gli inglesi ne eb­ bero ancor meno. Persino studiosi che credevano ferma­ mente nel libero scambio, come Stuart Mili, accettavano la legittimità di una discriminazione in favore delle «in­ dustrie infanti». Comunque, legittimo o no che ciò fosse, niente impedì agli stati sovrani e indipendenti politicamente ed economicamente di comportarsi cosi, come fe­ cero gli Stati Uniti (settentrionali) a partire dal 1816 e la maggior parte dei paesi sviluppati dagli anni ’80 del

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secolo. E anche senza una simile discriminazione, una volta che un’economia locale diventava capace di stare in piedi da sé, il suo bisogno della Gran Bretagna diminuiva rapidamente, eccetto magari per quella parte del commer­ cio internazionale e del meccanismo finanziario che veniva trattato a Londra. A partire dalla metà del secolo xix, questa cominciò a diventare una realtà evidente. Le espor­ tazioni di merci britanniche nel « mondo progredito » era­ no e rimasero cospicue, ma anche statiche e declinanti. Nel decennio 1860-70 il 52 per cento delle esportazioni britanniche di capitali era ancora andato all’Europa e agli Stati Uniti. Nel periodo 1911-13, soltanto il 25 per cen­ to di quegli investimenti era ancora in quelle aree. L’egemonia britannica nel mondo sottosviluppato si basava cosi su una complementarietà di economie; l’ege­ monia britannica sul mondo in corso di industrializzazio­ ne, su una concorrenza potenziale o effettiva. La prima aveva quindi probabilità di durare, la seconda era, per sua natura, temporanea. Altre economie «sviluppate», anche quando erano piccole e lottavano per affermarsi, erano ugualmente interessate ad affrettare il loro corso attin­ gendo alle risorse della Gran Bretagna e a difendersi con­ tro la supremazia industriale britannica. Una volta servi­ tesi quanto potevano di quel che la Gran Bretagna poteva offrire, tendevano inevitabilmente a volgersi verso il pro­ tezionismo a meno che, naturalmente, non fossero progre­ dite fino al punto di battere la concorrenza britannica. In questo caso potè succedere che gli inglesi pensassero di proteggere se stessi e i loro mercati in terzi paesi contro quelle economie. In termini generali si può dire che vi sia stato un solo periodo relativamente breve in cui sia le aree sviluppate, sia quelle sottosviluppate del mondo, ebbero un uguale interesse a lavorare d’accordo con l’economia britannica e non contro di essa, o in cui non ebbero da scegliere: fu­ rono quelli i decenni fra l’abolizione delle leggi sui cerea­ li nel 1846 e il manifestarsi della grande depressione del 1873. Molte aree sottosviluppate non avevano virtual­ mente altro mercato che quello britannico, dato che la Gran Bretagna costituiva il solo sistema economico mo-

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derno *. I paesi sviluppati stavano iniziando un periodo di rapida industrializzazione proprio quando il loro biso­ gno di importazioni, e specialmente di capitali e beni pri­ mari, era virtualmente illimitato. E quei paesi che non si preoccupavano di entrare in rapporti col mondo sviluppa­ to (ossia, soprattutto con la Gran Bretagna) furono obbli­ gati a farlo dall’artiglieria navale e dai fanti di marina: gli ultimi paesi «chiusi» del mondo, la Cina e il Giappone, furono cosi costretti a un illimitato interscambio con le economie moderne fra il 1840 e il 1860. Sia prima sia dopo questo breve periodo, la situazione della Gran Bretagna nel mondo economico fu sotto im­ portanti aspetti differente. Prima degli anni ’40 del seco­ lo scorso l’ampiezza delle operazioni economiche interna­ zionali fu relativamente modesta, e la possibilità di mas­ sicci flussi internazionali limitata, in parte data l’assenza di adeguate eccedenze di produzione da dedicare all’espor­ tazione (questo non valeva per la Gran Bretagna), oppu­ re a causa della difficoltà tecnica o sociale di trasportare uomini e merci in quantità sufficienti, oppure a causa dei saldi relativamente modesti (anche in Gran Bretagna) da destinare all’estero e accumulati fino allora. Fra il 1800 e il 1830 il commercio internazionale totale aumentò di un modesto 30 per cento passando da 300 a circa 400 mi­ lioni di sterline; ma fra il 1840 e il 1870 si moltiplicò di parecchie volte, superando i 2000 milioni. Fra il 1800 e il 1840 un po’ più di un milione di europei emigrarono ne­ gli Stati Uniti, che possono servire come un conveniente termine di misura per il flusso migratorio generale; ma fra il 1840 e il 1870 quasi sette milioni di persone attra­ versarono l’Atlantico. Nei primi anni ’40 del secolo scor­ so, la Gran Bretagna era arrivata ad accumulare circa 160 milioni di sterline di crediti all’estero, divenuti circa 250 milioni nei primi anni ’50; ma fra il 1855 e il 1870, la * Per esempio, anche nel periodo 1881-84 la Gran Bretagna, con un consumo prò capite piu che doppio, consumava quasi la metà di tutto lo zucchero consumato in Europa e di gran lunga la maggior parte dello zuc­ chero di canna importato dai territori d’oltremare, dato che vari paesi con­ tinentali soddisfacevano gran parte del loro fabbisogno con il prodotto lo­ cale (zucchero di barbabietola).

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Gran Bretagna esegui investimenti all’estero nella misu­ ra media di 29 milioni di sterline l’anno, e nel 1873 i suoi saldi complessivi avevano quasi raggiunto i 1000 milioni. Tutto questo è soltanto un altro modo per dire che prima dell’epoca della ferrovia e della nave a vapore, la portata dell’economia mondiale era limitata, e con essa era limi­ tata la portata di quella britannica. Dopo il 1873, il mondo «progredito» si trovava sostan­ zialmente in una condizione di rivalità tra i paesi sviluppa­ ti, e quel ch’è più si trattava di paesi fra i quali soltanto la Gran Bretagna aveva un interesse, connesso con le stesse fondamenta della sua struttura economica, a una totale li­ bertà degli scambi. Né gli Stati Uniti, né la Germania o la Francia abbisognavano sostanzialmente di massicce im­ portazioni di generi alimentari e materie prime; anzi, con l’eccezione della Germania, si trattava di paesi forti espor­ tatori di generi alimentari. Né dipendevano nella stessa misura della Gran Bretagna dalle esportazioni per dare un mercato alle loro industrie: gli Stati Uniti, anzi, si rivol­ gevano quasi interamente al mercato interno, e cosi per una gran parte faceva la Germania. Non esistè mai un si­ stema di flussi virtualmente illimitati di capitali, manodo­ pera e merci, che abbracciasse il mondo intero, ma fra il 1860 e il 1875 si ebbe qualcosa di non molto dissimile. «Nel 1866, - ha scritto uno storico, - la maggior parte dell’Europa occidentale si trovava in uno stato di cose molto prossimo al libero scambio e comunque molto più prossimo al libero scambio di quanto sia stato in qualun­ que altro periodo della sua storia»2. Gli Stati Uniti furo­ no l’unica grande potenza economica che rimase sistema­ ticamente protezionista, ma anch’essi arrivarono a periodi in cui abbassarono le loro tariffe doganali, fra il 1832 e il 1860 e di nuovo dopo la guerra civile (1861-65) fino al 1875. Nello stesso tempo, ancora con l’eccezione parziale degli Stati Uniti, l’adozione generale del sistema aureo da parte delle principali nazioni europee per le loro valute fra il 1863 e il 1874, semplificò le operazioni di un singolo si­ stema, libero e multilaterale di commercio mondiale sem­ pre più accentrantesi su Londra. Fu un sistema che non durò. Il libero flusso di merci fu

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la prima cosa ad essere inibita dalle barriere tariffarie e da altre misure discriminatorie, adottate sempre piu frequen­ temente e pesantemente dopo il 1880. Il libero flusso di uomini rimase non ostacolato fino alla prima guerra mon­ diale e al dopoguerra *. Rimase libero, fino al 1931, soltan­ to il flusso di capitali e di pagamenti, anche se con difficol­ tà che andarono aumentando dopo il 1914 e si ripercosse­ ro sulla supremazia di Londra e sul fuoco fatuo di un’eco­ nomia mondiale interamente liberale. Se questa ebbe mai, il che è molto dubbio, una pratica possibilità di affermar­ si, essa era ormai scomparsa alla fine degli anni ’70 del se­ colo scorso.

Il principale criterio di misurazione delle relazioni di un’economia col resto del mondo è dato dalla sua bilancia dei pagamenti, vale a dire da quel rapporto fra i redditi e i capitali che ad essa provengono dall’estero da una parte, e gli esborsi verso paesi stranieri dall’altra. Qualunque cosa stia a indicare la relativa cifra, che come avviene per ogni forma di contabilità richiede un’interpretazione espertis­ sima, essa illumina la natura e il modello delle transazioni internazionali di un paese. È un bilancio formato da voci «visibili» e «invisibili». Quelle «visibili» attive sono da­ te dalle esportazioni di mercanzie (incluse le merci impor­ tate in Gran Bretagna e reisportate) e dalle vendite di oro e di argento in lingotti. Quelle «invisibili» sono date dai profitti del commercio estero e dai servizi connessi con l’estero (è il caso di aziende britanniche che trattano al­ l’estero per la vendita e l’acquisto di merci britanniche e straniere), dai profitti provenienti dalle assicurazioni, dal­ le mediazioni e poi dai trasporti marittimi, dalle spese per­ sonali degli stranieri in Gran Bretagna (è il caso del turi­ smo) e dalle rimesse degli emigranti, e da voci veramente invisibili e spesso non misurabili, come i guadagni dei con­ trabbandieri. Le voci passive sono quelle contrarie: il co­ sto delle importazioni di mercanzie, dei pagamenti fatti ad aziende e a trasportatori marittimi stranieri, i pagamenti * I movimenti migratori non furono di grande importanza per la Gran Bretagna.

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di dividendi e interessi all’estero, e cosi via. In una situa­ zione estrema le voci attive e le passive dovrebbero tro­ varsi in perfetto equilibrio, anche se questo non succede quasi mai, e probabilmente non è nemmeno da desiderare che succeda. Se si verificano un’eccedenza o un deficit, la teoria classica del commercio internazionale richiede pre­ sto o tardi dei trasferimenti di oro e di argento in lingotti (se tale è lo standard dei pagamenti internazionali, ma lo squilibrio può naturalmente essere sanato prestando o prendendo a prestito). Ancora, idealmente, la bilancia dei pagamenti nei confronti del resto del mondo implica un si­ stema di compensazioni e liquidazioni su scala internazio­ nale, per cui l’attivo dato dalle transazioni con alcuni pae­ si serve a colmare il passivo delle transazioni con altre. È molto improbabile che la bilancia dei pagamenti sia in equilibrio nei confronti di tutti i paesi. In effetti, c’erano state tradizionalmente aree del globo rispetto a cui il com­ mercio britannico (visibile) era stato passivo in modo piut­ tosto consistente (ricordiamo la Francia, l’Europa baltica e quella orientale e specialmente l’india), e nell’epoca pre­ liberale questo aveva preoccupato seriamente gli econo­ misti e gli uomini politici. La bilancia (visibile) riflette non soltanto le quantità di merci e altro importate ed esportate, ma i loro prezzi, vale a dire le cosiddette condizioni di commercio. Se es­ se «migliorano», una tonnellata di esportazioni compre­ rà più importazioni, se «peggiorano», ne comprerà me­ no *. Per un paese come la Gran Bretagna, le «condizioni di commercio » esprimono essenzialmente la relazione fra il prezzo dei prodotti industriali (britannici) e le materie prime e i generi alimentari (stranieri). Infatti, almeno du­ rante la supremazia industriale della Gran Bretagna, più del 90 per cento delle importazioni nette del paese erano date da materie prime, mentre qualcosa fra il 75-90 per cento delle merci esportate e prodotte nel paese era dato da manufatti, con un’alta proporzione di merci riesporta­ te dopo essere state lavorate (raffinate, distillate e cosi * Esse sono normalmente misurate attribuendo il valore di zoo al rap­ porto fra esportazioni e importazioni in un anno base, e valutando gli altri anni percentualmente rispetto al primo.

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via) dall’industria britannica. Ma a questo punto si mani­ festa una situazione curiosa. Supponiamo che le condizioni di commercio si spostas­ sero a favore della Gran Bretagna, vale a dire che essa ot­ tenesse le materie prime di cui abbisognava a minor prez­ zo di prima, o che i manufatti esportati costassero di piu, o che si verificassero entrambe le condizioni. I principali acquirenti di merci britanniche, cioè i paesi produttori di materie prime, si sarebbero trovati con una diminuita ca­ pacità di acquistare merci britanniche, disponendo di red­ diti minori per pagarle. Ma un peggioramento delle con­ dizioni di commercio non avrebbe sortito necessariamen­ te l’effetto opposto, dato che la Gran Bretagna dipendeva dalle importazioni di una quantità di generi alimentari e materie prime scarsamente riducibile qualunque cosa ac­ cadesse, perché aveva bisogno di mantenere la sua popola­ zione e di far funzionare le fabbriche. Le importazioni avrebbero teso a rimanere alte qualunque cosa succedes­ se: se le condizioni di commercio le favorivano, si aveva una tendenza ad acquisti maggiori, e se invece peggiora­ vano, non c’era modo di importare di meno. Le esporta­ zioni britanniche mostravano poi una tendenza naturale a crescere, quando le condizioni di commercio peggiorava­ no. Quando le condizioni divenivano sfavorevoli, la pro­ porzione della produzione industriale britannica esporta­ ta aumentava, e viceversa. Per quanto riguardava la su­ premazia industriale della Gran Bretagna era preferibile che essa dovesse comperare a prezzi alti anziché a buon mercato. Ora, in termini generali, l’industria andò incontro a un costante processo di ribasso dei prezzi a causa della con­ tinua rivoluzione tecnologica, ma la produzione agricola, a cui sino alla fine del secolo fu dovuto il grosso sia dei ge­ neri alimentari sia delle materie prime industriali (fino ai primi anni ’80 del secolo, fra il 60 e il 70 per cento di que­ ste materie prime era dato da quelle che occorrevano per l’industria tessile), subì dei ribassi di prezzi intermittenti, non paragonabili con quanto avvenne a seguito della ri­ voluzione industriale. Nel complesso, fino a quando la rivo­ luzione industriale sotto forma di ferrovie e navi a vapo­

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re (che aprirono nuove e poco costose fonti di rifornimen­ to, come il Middle West americano), di singoli impieghi di macchinario nell’agricoltura (come nel caso degli zuc­ cherifici operati dalla forza vapore), e di una crescente do­ manda di materie prime non agricole, come i prodotti mi­ nerari e petroliferi, non trasformò il settore produttore di materie prime, le condizioni di commercio tesero a spo­ starsi in senso sfavorevole ai prodotti industriali, i cui prezzi ribassavano rapidamente. Ma l’agricoltura non fu trasformata fino all’ultimo trentennio del secolo xix. Quindi, per i primi sessant’anni del secolo, il meccanismo di lancio delle esportazioni britanniche funzionò bene. In seguito non più, non soltanto a causa di mutamenti nel set­ tore produttore di materie prime, ma anche a causa di mutamenti in seno al sistema britannico. Le esportazioni britanniche cessarono di essere basate essenzialmente sui prodotti tessili, spostandosi in misura crescente verso be­ ni primari e materie prime di maggior costo: ferro, accia­ io, carbone, navi, macchinari. I prodotti tessili, che ave­ vano costituito il 72 per cento delle esportazioni britan­ niche di manufatti nel periodo 1867-69, scesero del 51 per cento alla vigilia della prima guerra mondiale, men­ tre i beni primari salirono dal 20 al 39 per cento. Lo svi­ luppo del mercato interno, grazie principalmente a un au­ mento del livello di vita, alle importazioni di cibi più a buon mercato, e alla proporzionale diminuzione d’impor­ tanza del cotone, ridusse la proporzione netta di materie prime importate da più del 70 a circa il 40 per cento, e fe­ ce aumentare l’importazione di generi alimentari da circa il 25 a circa il 45 per cento delle importazioni totali. La va­ riazione maggiore si verificò piuttosto rapidamente dopo il 1860. C’era naturalmente un motivo che induceva a tenere basso il prezzo dei generi alimentari importati a preferenza di quello delle materie prime; infatti i prezzi alti dei generi alimentari non potevano, come quelli delle materie pri­ me, essere compensati da miglioramenti nell’efficienza in­ dustriale. Un terzo fattore influì sul rapporto fra i due li­ velli di prezzi. Nelle periodiche depressioni, i prezzi delle materie prime presero a diminuire più nettamente di quel­ li dei prezzi industriali, mentre nella prima metà del se-

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colo xix si era semmai verificato l’opposto *** . Infine, il sor­ gere di economie semicoloniali o coloniali satelliti e di­ pendenti, che producevano materie prime, ne posero per buona parte le condizioni di commercio sotto il controllo delle economie industriali dominanti, e specialmente di quella britannica. Cosi, un periodo in cui le condizioni di commercio si erano spostate in senso sfavorevole alla Gran Bretagna fu seguito, dopo il 1860, da uno in cui esse si spostarono ra­ pidamente e poi lentamente in suo favore, e dopo la pri­ ma guerra mondiale da un altro periodo in cui questo mo­ vimento fu nettissimo (a partire dalla seconda guerra mondiale hanno teso a peggiorare di nuovo). Di conse­ guenza, durante tutto quel tempo lo stimolo all’esporta­ zione cessò di operare con la forza di una volta, anche se naturalmente di tanto in tanto forti investimenti bri­ tannici in territori d’oltremare misero a disposizione dei clienti della Gran Bretagna maggiori fondi per acquisti, e le riduzioni di altri costi (per esempio delle tariffe dei trasporti) migliorarono anch’esse la situazione. Crebbe, comunque, l’incentivo per l’industria britannica a prefe­ rire il mercato interno a quello estero quando non era im­ pegnata nelle esportazioni. Potremmo quindi aspettarci di trovare, e in effetti tro­ viamo, un crescente eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni dopo il 1860. Ma troviamo anche, e questo è piuttosto strano, che in nessun periodo durante il seco­ lo xix la Gran Bretagna ebbe un’eccedenza di esportazio­ ni in merci, malgrado il suo monopolio industriale, il suo netto orientamento verso le esportazioni, e il suo modesto mercato interno di beni di consumo". Prima del 1846, * Vari motivi possono essere suggeriti per questo importante fenome­ no. Due importanti sono ¿z) che fino alla seconda metà del secolo le depres­ sioni continuarono spesso a verificarsi nel settore agricolo (per esenapio in occasione di cattivi raccolti), ma in seguito si ebbero nel settore industria­ le, e b} che il «grado di monopolio», vale a dire la capacità di mantenere stabili i prezzi e combattere le depressioni diminuendo la produzione o in qualche altro modo, diventava, nel settore industriale sempre maggiore che in quello agricolo. In effetti, poteva succedere che l’agricoltore tendesse a combattere le depressioni aumentando la produzione. ** L’interpretazione di queste statistiche è una questione molto contro­ versa. Alcuni studiosi negano che non ci fosse un’eccedenza di esportazio-

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i fautori del libero scambio sostenevano che questo avve­ niva perché le leggi sui cereali impedivano ai potenziali clienti della Gran Bretagna di guadagnare, con le loro esportazioni, quanto bastava a pagare quelle britanniche, ma è dubbio che questo fosse vero. Gli acquirenti delle esportazioni britanniche riflettevano i limiti dei mercati in cui la Gran Bretagna esportava, trattandosi di paesi che o non volevano acquistare maggiori quantità di tessuti britannici o erano troppo poveri per avere più che una molto ristretta domanda per capita. Ma ciò rifletteva an­ che la inclinazione «sottosviluppata» dell’economia bri­ tannica e anche, in certo grado, la domanda di generi di lusso da parte delle classi britanniche medie. Come abbia­ mo visto, fra il 1814 e il 1845 circa il 70 per cento delle importazioni nette (in valore) era costituito da materie prime, e circa il 25 per cento da generi alimentari — in massima parte prodotti tropicali o simili (tè, zucchero, caffè) - e alcool. Non v’è dubbio che gli inglesi consumas­ sero grandi quantità di questi generi perché comportava­ no un commercio di riesportazioni tradizionalmente im­ portante. Proprio come la produzione di cotone si svilup­ pò come un sottoprodotto di un ampio scambio interna­ zionale, lo stesso accadde per lo straordinario consumo di zucchero, tè, e cosi via, che spiega in buona parte la con­ tinuità della situazione deficitaria. Ai nostri giorni i governi si preoccuperebbero parec­ chio di un deficit del genere. Nel secolo xix no, e non sol­ tanto perché nella prima parte del secolo non si erano ac­ corti che esistesse *. In effetti, le transazioni «invisibili» della Gran Bretagna le procuravano un ampio surplus e ni. Fanno presente che siccome le merci venivano trasportate su navi bri­ tanniche, esse dovevano logicamente essere valutate in porti stranieri, e che in queste condizioni il valore delle esportazioni è spesso superiore a quello delle importazioni. D’altro canto, possono esservi stati dei vantaggi nel non avere avuto un continuo surplus nelle transazioni visibili e invisi­ bili. Se vi fosse stato, la Gran Bretagna avrebbe accumulato una vasta ri­ serva d’oro o causato una crisi di liquidità a meno che non avesse finan­ ziato il surplus esportato con prestiti ancor piu numerosi e consistenti di quelli effettuati. Di questo concetto, vado debitore a K. Berrill. * Questo a causa del curioso e ingannevole modo in cui venivano re­ datte le statistiche commerciali.

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non un deficit con il resto del mondo. Probabilmente, i più importanti di questi guadagni vennero inizialmente dalle navi da carico britanniche, che ammontavano a qual­ cosa fra un terzo e la metà del tonnellaggio mondiale. (Il tonnellaggio britannico tese a declinare relativamente nel­ la prima metà del secolo, soprattutto a causa dello svilup­ po della flotta mercantile americana, ma riacquistò tutta la sua supremazia, e andò anche più in là, dopo il 1860, nell’era delle vaporiere di ferro). Fino ai primi anni ’70 del secolo i profitti della flotta mercantile britannica su­ perarono gli interessi e i dividendi fruttati dagli investi­ menti britannici all’estero. Questa fonte di reddito che divenne sempre più il modo con cui si colmava il divario tra importazioni ed esportazioni, iniziò modestamente do­ po le guerre napoleoniche, ma dopo i tardi anni ’40 del secolo era diventata di un’importanza quasi uguale a quel­ la della terza maggiore fonte di reddito invisibile, i profit­ ti sul commercio estero e i servizi prestati all’estero, e nei tardi anni ’60 giunse a superarli. Nei decenni di mezzo del secolo, una quarta fonte, i guadagni provenienti dalle assi­ curazioni, dalle mediazioni e cosi via, in breve dalla do­ minante posizione finanziaria della City di Londra, erano anch’essi diventati abbastanza importanti. In termini generali, il reddito invisibile proveniente da voci che non fossero gli interessi, unito ai dividendi, arri­ vò a più che coprire il deficit commerciale nel primo quar­ to del secolo, ma fra il 1825 e il 1850, gli anni difficili del­ la prima fase dell’economia industriale le cose, come ab­ biamo rilevato (cfr. sopra, pp. 78-79), andarono per un altro verso, e dopo il 1875 tali fonti cessarono normal­ mente di essere adeguate. Comunque, nella prima fase i redditi fruttati dai capitali precedentemente esportati pro­ dussero già un modesto surplus, e uno maggiore dopo il 1875 allorché si erano accumulati i dividendi dei prece­ denti ampi investimenti. La posizione internazionale del­ l’economia britannica si trovò quindi a dipendere sempre più dalle inclinazioni del paese a investire o prestare al­ l’estero le sue eccedenze accumulate di capitali. Ma la posizione internazionale dell’economia della Gran Bretagna, cosi come il suo commercio visibile, di-

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venne sempre più collegata col mondo sottosviluppato, e specialmente con quella parte di esso che era sotto l’effet­ tivo controllo economico o politico della Gran Betagna, che faceva cioè parte, ufficialmente o no, dell’impero bri­ tannico. O, per essere più esatti, la particolare posizione della Gran Bretagna fece affluire naturalmente in questa direzione sia le transazioni visibili, sia quelle invisibili. Il commercio visibile britannico, come abbiamo visto, ave­ va sempre trovato più facile, dopo il 1820, penetrare ul­ teriormente nel mondo sottosviluppato anziché introdur­ si nei più lucrativi, ma anche più resistenti e ostili mer­ cati dei paesi sviluppati. Questo accadde sia che l’indu­ stria britannica fosse dinamica e ricoprisse un ruolo di gui­ da oppure no, come si può rilevare dalla tabella. L’andamento generale delle esportazioni britanniche era in genere simile a quello delle esportazioni di cotone, anche se non proprio con le stesse caratteristiche estreme: si aveva cioè un continuo spostamento dai mercati moder­ ni, resistenti e competitivi versò quelli sottosviluppati. Due aree del mondo furono di speciale importanza per la Gran Bretagna sotto questo aspetto. La prima fu l’Ame­ rica latina, che, si può dire, salvò l’industria britannica del cotone nella prima metà del secolo xix, quando divenne il più grande mercato singolo che assorbisse le esportazio­ ni britanniche di cotone, con una percentuale che raggiun­ se il 35 per cento nel 1840, destinata soprattutto al Bra­ sile. Nel corso del secolo, l’importanza dell’America lati­ na sotto questo aspetto diminuì un po’, anche se verso la

Esportazione di tessuti di cotone (in milioni di yards), % del totale. Europa e Usa

1820 1840 1860 1880 1900

60,4

29,5 19 9,8 7,r

Mondo sottosvi­ luppato

31,8 66,7 73,3 82 86,3

Altri paesi

7,8 3,8 7,7 8,2 6,6

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fine del secolo quella colonia britannica non ufficiale che era l’Argentina, divenne un importante mercato. La se­ conda furono le Indie orientali (che tosto divennero cosi importanti da essere divise in India e Estremo Oriente). Quest’area divenne ben presto di un’importanza cruciale. Dal 6 per cento delle esportazioni britanniche di cotone che assorbivano dopo le guerre napoleoniche, queste re­ gioni arrivarono a riceverne il 22 per cento nel 1840 e il 31 per cento nel 1850, fino a che dopo il 1873 assorbiro­ no la maggior parte delle esportazioni di cotone britanni­ co, raggiungendo qualcosa come il 60 per cento. L’impor­ tatrice maggiore fu l’india, con una aliquota del 45 per cento dopo la grande depressione. In effetti, in quel pe­ riodo di difficoltà l’Asia salvò il Lancashire, e ancor più decisivamente di quanto l’America latina aveva fatto du­ rante la prima parte del secolo. Non fu quindi senza buo­ ni motivi che la politica estera britannica favori nella pri­ ma metà del secolo xix l’indipendenza dell’America lati­ na e 1’«apertura della Cina». Motivi ancor più convincen­ ti resero l’india d’importanza vitale per la politica bri­ tannica durante tutto lo stesso periodo. Le esportazioni di capitale, incluse in particolare quel­ le dirette al mondo sottosviluppato e all’impero britanni­ co, divennero importanti qualche tempo dopo. Prima de­ gli anni ’40 del secolo, esse consisterono essenzialmente in prestiti governativi, e dopo, in prestiti governativi, in­ vestimenti in ferrovie e opere di utilità pubblica. Verso il 1850, l’Europa e gli Stati Uniti partecipavano ancora per una metà all’importazione di capitali britannici, ma fra il 1860 e il 1890, come ci si potrebbe aspettare, la pro­ porzione dell’Europa diminuì nettamente (dal 25 all’8 per cento) e quella degli Stati Uniti andò diminuendo lenta­ mente fino a che ebbe anch’essa una netta flessione duran­ te la prima guerra mondiale (dal 19 al 5,5 per cento). L’America latina e l’india, come al solito occuparono gli spazi lasciati vuoti, ma se si eccettuano i deludenti inve­ stimenti nella prima area dopo le lotte per l’indipenden­ za, con un avvicendamento. Negli anni ’50 del secolo l’in­ dia grazie a pesanti investimenti statali nelle ferrovie (con­ tro la teoria del laissez-faire) e ad altre voci, balzò in te-

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sta con circa il 20 per cento di tutti gli investimenti bri­ tannici; dopo, le sue importazioni di capitali diminuirono nettamente. L’America latina, grazie allo sviluppo dell’Argentina e di altre economie dipendenti, arrivò a rad­ doppiare la sua quota di titoli azionari britannici negli anni ’80, giungendo a sua volta alla percentuale di circa il 20 per cento *. Ma un aumento veramente notevole si ebbe nelle aree in via di sviluppo piuttosto che in quelle arretrate del mondo sottosviluppato, in special modo del­ l’impero britannico. I dominions «bianchi» (Canada, Au­ stralia, Nuova Zelanda, Sudafrica), aumentarono la loro quota dal 12 per cento negli anni ’60 a quasi il 30 per cen­ to negli anni ’80 del secolo; e se includiamo l’Argentina, il Cile e l’Uruguay come dominions «onorari» (essendo le loro economie non dissimili da quelle dei domini), l’au­ mento in questi sbocchi per l’esportazione di capitali fu ancor piu notevole. Dopo la prima guerra mondiale, la aliquota dei domini divenne ancor piu importante, avvi­ cinandosi al 40 per cento. Considerando insieme l’impero britannico e l’America latina, la loro aliquota percentuale crebbe come si può rilevare nella tabella. Con un’unica eccezione d’importanza, questi sviluppi furono indipendenti dalla politica. Il carattere dell’ege­ monia economica pionieristica della Gran Bretagna cau­ sò, per cosi dire, un piano inclinato nel panorama econo­ mico internazionale, e la Gran Bretagna slittò lungo quel piano per forza naturale di cose. L’unica eccezione fu l’in­ dia. La anormalità del suo caso salta all’occhio. Essa fu, intanto, l’unica parte dell’impero britannico a cui non fu * Nel 1890, su circa 424 milioni di sterline investiti nell’America lati­ na, l’Argentina ne aveva assorbiti circa 157, il Brasile, già principale clien­ te, circa 69, il Messico 69, l’Uruguay 28, Cuba 27, il Cile 25.

Impero America britannico latina

Decennio 1860 Decennio 1880 1900-13 1927-29

36 47 46 59

10,5 20 22 22

Totale

46,5 67 68 81

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mai applicato il laissez-faire. Quelli che in Gran Bretagna ne erano stati i campioni più entusiastici divennero, una volta trasferitisi in India, dei pianificatori burocratici, e i più accesi oppositori della colonizzazione politica rara­ mente, e mai seriamente, suggerirono la liquidazione del dominio britannico. E l’impero britannico «ufficiale» con­ tinuò a espandersi in India anche quando segnava il pas­ so in ogni altra area. I motivi economici che spingevano a questo ebbero la meglio su tutto. Come abbiamo visto, l’india costituiva un mercato di importanza sempre più vitale per il principale prodotto d’esportazione, i manufatti di cotone, e questo accadde perché nel primo quarto del secolo xix la politica britan­ nica aveva distrutto l’industria tessile locale, che era in concorrenza col Lancashire. In secondo luogo, l’india con­ trollava il commercio dell’Estremo Oriente grazie alle esportazioni di eccedenze in quell’area. Erano esportazio­ ni date soprattutto dall’oppio, un prodotto soggetto al monopolio statale che gli inglesi favorirono sistematicamente, principalmente per motivi fiscali, fin quasi dagli inizi. Ancora nel 1870 quasi la metà delle importazioni totali della Cina consistevano in narcotici del genere, cor­ tesemente forniti dall’economia liberale dell’Occidente. Queste eccedenze, e le altre che l’india immetteva in mer­ cati internazionali, andavano poi in ultima analisi a bene­ ficio della Gran Bretagna grazie al deficit commerciale in­ diano con la Gran Bretagna (stabilito e mantenuto per vie politiche), alle «spese amministrative» (vale a dire i pa­ gamenti fatti dall’india per il privilegio di essere gover­ nata dalla Gran Bretagna), e grazie agli esborsi relativi ai sempre più alti interessi che venivano pagati per il debito pubblico indiano. Verso la fine del secolo queste voci an­ darono aumentando di importanza. Anteriormente alla prima guerra mondiale l’intero sistema britannico dei pa­ gamenti faceva perno sull’india, che colmava probabil­ mente più di due quinti dei deficit totali britannici3. Co­ me si espresse un altro scrittore, Cosi, non soltanto i fondi per gli investimenti in India, ma gran parte del totale dei redditi dati da investimenti in 7

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territori d’oltremare, a cui la Gran Bretagna dovette l’attivo nella sua bilancia dei pagamenti nell’ultimo quarto del se­ colo xix, erano forniti dall’india. L’India era davvero il gioiello più prezioso del diadema imperiale

Non può sorprendere, quindi, che nemmeno i paladini del libero scambio desiderassero vedere sfuggire al con­ trollo politico britannico una simile miniera d’oro, e che la politica estera e quella militare o navale britannica fos­ sero in gran parte essenzialmente volte a conservare un saldo controllo. In India, l’impero ufficiale non cessò mai di rivestire un’importanza vitale per l’economia britannica. In altre aree divenne sempre più vitale dopo gli anni ’70 del se­ colo, quando la concorrenza straniera si fece acuta, e la Gran Bretagna cercò, riuscendovi in larga misura, di evi­ tarla rivolgendosi ai territori su cui esercitava un domi­ nio politico. A partire dagli anni ’80 1’«imperialismo», ossia la suddivisione del mondo in colonie ufficiali e « sfe­ re di influenza » delle grandi potenze, generalmente com­ binata col tentativo di instaurare deliberatamente quel ti­ po di sistema economico satellite che la Gran Bretagna aveva sviluppato spontaneamente, divenne universalmen­ te popolare tra le grandi potenze. Per la Gran Bretagna si trattò invece di un regresso. Essa si trovò infatti ad aver scambiato il suo dominio non ufficiale sul mondo sotto­ sviluppato contro un impero che comprendeva un quarto di quel mondo più le vecchie economie satelliti. Né si trat­ tò di uno scambio particolarmente facile o invitante. Le economie satelliti veramente importanti si trovavano (con l’eccezione dell’india) al di fuori di un controllo politico, come succedeva per l’Argentina, oppure erano «domi­ nions» abitati da coloni bianchi, con interessi economici propri che non coincidevano necessariamente con quelli della Gran Bretagna. Essi chiedevano concessioni com­ pensatorie per i loro prodotti in Gran Bretagna per il fat­ to di dover cedere completamente i loro mercati alla ma­ dre patria, e fu contro questo scoglio che i piani di Joseph Chamberlain tendenti a un’integrazione imperiale si in­ fransero nei primi anni del nostro secolo. Certamente non

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mancavano i buoni motivi che suggerivano l’annessione di tutte le aree arretrate possibili per acquisire il control­ lo delle materie prime da esse prodotte, che già alla fine del secolo xix sembravano dover diventare vitali per le economie moderne e difatti lo divennero. Alla fine della seconda guerra mondiale, la gomma e lo stagno della Ma­ lesia, i ricchi depositi minerari dell’Africa centrale e me­ ridionale, e soprattutto i depositi petroliferi del Medio Oriente erano diventati le maggiori fonti internazionali di reddito della Gran Bretagna, e il sostegno principale della sua bilancia dei pagamenti. Ma alla fine del seco­ lo xix l’annessione di larghi tratti di giungla, sterpaglia e deserto non prometteva vantaggi economici enormi. Co­ munque, a prendere l’iniziativa non fu la Gran Bretagna, che dovette seguire la via tracciata dai suoi rivali. Del re­ sto, come abbiamo visto, nel periodo fra le due guerre e dopo il collasso delle strutture su cui si basavano le sue relazioni economiche internazionali prima del 1914, l’im­ pero forni una buona difesa contro un mondo diventato sempre piu difficile. In termini di commercio visibile, il collasso avvenne improvvisamente dopo la prima guerra mondiale. Esso fu dovuto sia alla crisi generale dell’economia mondiale, che restrinse la portata delle transazioni economiche interna­ zionali e nello stesso tempo di quelle britanniche, basate sulle prime, e insieme alla ritardata ma inevitabile rivela­ zione che l’industria britannica era diventata antiquata e inefficiente. Soltanto per un breve periodo dopo la guer­ ra (1926-29) il commercio mondiale tornò ai livelli del 1913,6 nei periodi peggiori fu inferiore di un quarto con un cambiamento davvero poco rassicurante rispetto agli anni dal 1875 al 1913, quando si era triplicato. Ma se du­ rante questo duro periodo le esportazioni britanniche di­ minuirono della metà, questo non fu soltanto a causa del­ la contrazione generale, bensì perché non reggevano piu alla concorrenza. La Gran Bretagna era sfuggita alla grande depressione (1873-96), la prima grande prova internazionale che do­ vette subire, non modernizzando la propria economia, ma sfruttando le rimanenti possibilità della sua situazione

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tradizionale. Aveva esportato di più verso le economie ar­ retrate e satelliti, come era successo per il cotone, e rica­ vato tutto quello che poteva dall’ultima delle grandi inno­ vazioni tecniche che aveva lanciato, ossia la nave a vapore costruita in ferro, avvantaggiandosi nelle costruzioni na­ vali e nelle esportazioni di carbone. Quando le ultime grandi aree importatrici di merci di cotone (India, Giap­ pone e Cina) crearono industrie tessili proprie, per il Lan­ cashire suonò a morto. Infatti, neanche il controllo politi­ co poteva mantenere permanentemente l’india in uno sta­ to di non industrializzazione, sebbene ancora negli anni ’90 del secolo scorso il gruppo di pressione composto da­ gli industriali del Lancashire avesse impedito l’imposizio­ ne di tariffe doganali volte a proteggere l’industria coto­ niera indiana *. La guerra, che interruppe il corso normale del commer­ cio internazionale e stimolò lo sviluppo economico in mol­ ti paesi che dovettero poi essere protetti, rivelò brutal­ mente quella che era la nuova situazione. Prima l’indu­ stria indiana aveva contribuito soltanto per il 28 per cen­ to ai consumi interni di prodotti tessili, ma dopo la guerra arrivò a superare il 60 per cento. Fonti di rifornimento ri­ vali e più efficienti e le motonavi azionate a nafta fecero diminuire le esportazioni di carbone. Esse erano salite da circa 20 milioni di tonnellate nei primi anni ’80 del secolo scorso, a 73 milioni nel 1913. Negli anni ’20 del secolo at­ tuale la loro media fu di 49 milioni, e di 40 negli anni ’30. Il deficit nel commercio visibile, cioè il divario esistente fra importazioni e esportazioni, fu raramente meno che doppio rispetto ai peggiori anni del periodo anteriore al 1913. I redditi invisibili della Gran Bretagna, d’altro canto, si dimostravano più che adeguati a colmare tale divario. La sua industria languiva, ma la sua finanza trionfava. I suoi servizi nel campo delle spedizioni marittime, del commercio e delle mediazioni nel sistema mondiale dei pa­ gamenti diventarono più che mai indispensabili. In effet­ ti, se Londra si trovò mai a essere il perno economico del In effetti questi dazi non furono imposti fino a dopo il 1917.

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mondo, e se la sterlina ne costituì le fondamenta, questo fu fra il 1870 e il 1913.

Come s’è visto, gli investimenti all’estero aumentarono con balzi formidabili, soprattutto negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, e in seguito questo accadde grazie ai reinve­ stimenti degli interessi e dei dividendi. Nel 1913 la Gran Bretagna possedeva capitali investiti all’estero per circa 4000 milioni di sterline contro i meno di 5500 milioni di Francia, Germania, Belgio, Olanda e Stati Uniti messi in­ sieme. Nei tardi anni ’50 del secolo scorso, le navi britan­ niche avevano trasportato circa il 30 per cento dei carichi diretti ai porti francesi o degli Stati Uniti, ma nel 1900 le percentuali erano salite al 45 e al 55 per cento rispettiva­ mente *. Paradossalmente, lo stesso processo che indebolì la produzione britannica, il sorgere cioè di nuove potenze industriali e il declino della forza competitiva britannica, resero piu grande il trionfo della finanza e del commercio. Le nuove potenze industriali incrementarono le loro im­ portazioni di beni primari dal mondo sottosviluppato, ma non avevano con quelle aree i rapporti tradizionali sim­ biotici della Gran Bretagna, e quindi raggiunsero un pe­ sante deficit complessivo. La Gran Bretagna colmava il suo deficit a) con le crescenti importazioni di manufatti dai paesi industriali, b) con i redditi «invisibili» dei tra­ sporti navali e servizi simili, c) con i redditi che le prove­ nivano dall’essere la più grande esportatrice mondiale di capitali. I fili della tela mondiale di transazioni commer­ ciali e finanziarie passavano per Londra, con un processo che non poteva che accentuarsi, perché soltanto Londra poteva riparare i buchi della rete. La prima guerra mondiale lacerò questa rete, quantun­ que il governo britannico facesse sforzi disperati per con­ servarla. La Gran Bretagna cessò di essere la più grande nazione creditrice del mondo soprattutto perché fu obbli­ gata a liquidare una gran parte dei suoi investimenti ne­ gli Stati Uniti (circa 500 milioni di sterline, principal­ * Soltanto la Germania, che iniziò una deliberata politica di rivalità marittima con la Gran Bretagna negli anni ’90 del secolo scorso, diminuì da allora il suo impiego di navi britanniche.

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mente in titoli ferroviari) divenendo a sua volta forte­ mente indebitata verso gli Stati Uniti, che subentrarono, alla fine della guerra, nella posizione di piu grande nazio­ ne creditrice. Dopo il 1929 la Gran Bretagna sembrò ria­ versi, e i suoi governi fecero un eroico tentativo per ripri­ stinare le condizioni del 19136 riguadagnare cosi il para­ diso perduto. Nel 1925, i redditi da investimenti e altri guadagni invisibili erano saliti, in valori contemporanei, ad altezze mai prima raggiunte. Ma fu soltanto un’illusio­ ne. Il reddito lordo degli investimenti era salito da circa il 4,5 per cento del reddito nazionale negli anni ’70 del se­ colo scorso, a circa il 9 per cento nel periodo 1910-13; do­ po la prima guerra mondiale, la percentuale tornò, in me­ dia, a quella che era stata negli anni ’70 del secolo scorso, e dopo la seconda guerra mondiale, ai livelli degli anni ’60. La recessione del 1929 fece morire l’illusione di un ritor­ no alla belle epoque del periodo anteriore al 1913, l’ulti­ ma guerra la seppellì. La Gran Bretagna non ha adesso redditi visibili o invisibili adeguati. Le ricorrenti crisi del­ la «bilancia dei pagamenti» che cominciarono a provoca­ re sistematiche crisi di insonnia ai governi britannici nel 1931, sono le prove tangibili dell’esattezza di quanto af­ fermiamo.

1 * Ashworth, Landes, Deane e Cole (Cfr. Letture ulteriori, n. 3). *m. barrat brown, After Imperialism, 1963, è un’introduzione eccellente, a. imlah, Economie Elements in the Pax Britannica, 1958; Charles Feinstein, Income and Investment in the UK (1856-1914), «Economie Journal», 1961, sono di tipo piu tecni­ co. l. h. jenks (cfr. cap. 6, nota 1, p. 146); rimane indispensabi­ le. Una trattazione fondamentale del commercio è quella di w. schlote, British Overseas Trade, ed. ingl. 1952. Per il periodo fra le due guerre, cfr. *w. a. lewis, Economie Survey 19191959, 1949. Sull’influenza industriale britannica all’estero, cfr. w. o. Henderson, Britain and Industrial Europe 1750-1870, 1954. m. Greenberg, British Trade and the Opening of China, 1951, e h. s. ferns, Britain and Argentina in the 19th Century, 1960, si occupano di argomenti specifici. Cfr. anche i diagrammi 24-29.

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2 Hauser, maurain e bernaerts, Du liberalism à I’Imperialism, 1939. PP- 62-63. 3 S. B. SAUL, CÌt., p. 62. 4 m. barrat brown, After Imperialism cit., p. 85.

8. Livelli di vita (1850-1914) *

Indugiamo un po’ a guardare da un altro punto di vi­ sta la Gran Bretagna all’apice della sua carriera capitali­ stica, tre o quattro generazioni dopo la rivoluzione indu­ striale. Essa era, anzitutto, una nazione di lavoratori. R. Dudley Baxter, valutando l’ampiezza delle varie classi bri­ tanniche nel 1867, calcolò che più di tre quarti - il 77 per cento - dei 24,1 milioni di abitanti della Gran Bretagna appartenevano alla «classe dei lavoratori manuali»; e in­ cluse nella « classe media » tutti gli impiegati degli uffici e i commessi dei negozi, tutti i bottegai, per quanto di scar­ sa importanza, tutti i capireparto e i supervisori, e simili. Non più del 15 per cento di costoro appartenevano a una qualificata o moderatamente ben pagata aristocrazia del lavoro, con salari da 28 scellini fino a 2 sterline la settima­ na; più di una metà erano gente non qualificata, lavoratori agricoli, donne e altro personale malpagato, con salari di 10-12 scellini la settimana, e il resto apparteneva ai gradi intermedi. Una parte di questi, i lavoratori tessili, gli ope­ rai delle varie «fabbriche e officine» che proprio negli an­ ni ’60 del secolo scorso venivano assimilati entro il siste­ ma legislativo regolante le fabbriche, e fino a un certo gra­ do anche i minatori, già godevano di qualche regolamen­ tazione legale delle loro condizioni (più raramente del loro orario di lavoro). A partire dal 1871, ottennero anche il primo riconoscimento giuridico di un riposo non legato a motivi religiosi, i Bank Holidays. Ma i salari e le condizio­ ni di lavoro dipendevano pur sempre soprattutto dai patti che riuscivano a concludere con i datori di lavoro, da soli o tramite le loro trade unions. Nei primi anni ’70 del seco-

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lo il sindacalismo era ormai accettato e riconosciuto uffi­ cialmente là dove era riuscito ad affermarsi. Grazie alla struttura arcaica dell’economia britannica, questo avven­ ne non soltanto fra gli artigiani qualificati (per esempio i muratori, i sarti, gli stampatori e cosi via) ma anche nel nucleo interno delle industrie di base, vale a dire nei coto­ nifici e nelle miniere di carbone e nel grande complesso delle fabbriche di macchinari e dei cantieri navali, in cui la maggior parte del lavoro qualificato continuava ad esse­ re un lavoro manuale di tipo artigianale. Ma anche cosi, il sindacalismo si era affermato in non piu che una piccola minoranza dei lavoratori, con l’eccezione di alcune località e mestieri. La stessa grande espansione delle tracie unions negli anni 1871-73 portò il numero dei lavoratori organiz­ zati ad appena mezzo milione circa. Vasti settori dell’eco­ nomia, per esempio i trasporti, mancavano ancora virtual­ mente di un’organizzazione. Comunque, il fatto che un sindacalismo piuttosto antiquato, spesso ricalcante gli schemi delle riunioni artigianali, fosse riuscito a stabilire una base permanente capace di permettere ulteriori pro­ gressi in alcuni dei settori principali della Gran Bretagna industriale, aveva la sua importanza. Era un sindacalismo che presentava il vantaggio di dare al movimento dei lavo­ ratori una considerevole forza potenziale, ma anche lo svantaggio (che condivideva con l’industria britannica nel suo complesso) di pesare su di esso con una struttura piut­ tosto antiquata, inadattabile, da cui i susseguenti fautori di un’organizzazione piu razionale ed efficiente (auspican­ ti, per esempio l’istituzione di unions industriali), non l’hanno mai liberata. Quando gli operai perdevano il loro impiego, il che po­ teva succedere alla fine del lavoro, o della settimana o del­ la giornata o persino dell’ora, non avevano niente su cui contare eccetto i loro risparmi, la loro società d’amici o la loro trade union, il credito dei bottegai locali, i vicini e gli amici, il prestatore su pegni o le leggi sui poveri, che costituivano tuttora l’unica forma di quella che oggi chia­ miamo sicurezza sociale. Quando diventavano vecchi o si ammalavano si trovavano perduti, a meno che non fossero aiutati dai figli, perché solo pochi di loro erano garantiti

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da assicurazione o pensione. Niente è più caratteristico della vita della classe operaia vittoriana e più difficile da concepire ai nostri giorni, che questa mancanza virtual­ mente totale di sicurezza sociale. Gli operai qualificati, o quelli delle industrie in espansione, avevano la possibilità di avvantaggiarsi del fatto di non essere in numero suffi­ ciente, eccetto che nei periodi delle ricorrenti crisi econo­ miche. Si avvantaggiavano anche delle trade unions, delle società degli amici, delle cooperative, e anche di modesti risparmi personali. Quelli non qualificati erano fortunati quando riuscivano a sbarcare il lunario, e probabilmente riempivano i vuoti di ciascuna settimana impegnando e tornando a impegnare le loro poche cose. A Liverpool, negli anni ’50 del secolo scorso, il 60 per cento dei pegni erano per prestiti di 5 scellini o meno, e il 27 per cento per 2 scellini e 6 denari o meno. A differenza di quanto avveniva in altri paesi non c’era una «classe media inferiore» che separasse questa gente dalle classi medie o li collegasse con esse. In effetti, il ter­ mine « classe media inferiore » come era adoperato allora, comprendeva l’aristocrazia del lavoro cosi come i botte­ gai, i locandieri, i piccoli datori di lavoro, e cosi via, che provenivano spesso da quello stesso ceto sociale, oltre al­ lo sparuto gruppo di impiegati e altri lavoratori dipenden­ ti che svolgevano comunque un lavoro non manuale. Nel 1871 c’erano appena centomila «impiegati commerciali» e «impiegati di banca» a mandare avanti gli affari della più grande nazione commerciale e bancaria del mondo, non più che un terzo del numero dei minatori. La loro era una posizione rispettata, anche se non erano persone ne­ cessariamente molto ricche, perché fino a dopo il 1870, quando fu istituito un sistema nazionale di istruzione ele­ mentare (che non divenne effettivamente obbligatorio fi­ no al 1871), l’alfabetismo non era affatto universale. Il modo di vita della classe media era visibilmente quello di famiglie come i Pooter di « The Laurels » a Holloway (i su­ burbi abitati da impiegati andavano sorgendo solo gra­ dualmente) con un processo accentuatosi a partire dagli anni ’70 del secolo anche se gli aristocratici del lavoro o i piccoli bottegai, relativamente agiati, potevano magari

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unire un’imitazione dei livelli materiali della classe media (acquisti di orologi d’oro e pianoforti) ad altre abitudini che ne mantenevano la solidarietà col resto della classe di lavoratori manuali in mezzo alla quale essi perlopiù con­ tinuavano a vivere. Se diventavano economicamente indi­ pendenti o datori di lavoro, come era senz’altro possibile se esercitavano industrie su piccola scala come l’edilizia e varie industrie metalliche o conducevano piccole botte­ ghe, c’era il caso che lasciassero le trade unions, anche se il forte rischio di andare in fallimento e rientrare nella classe proletaria li distoglieva dal farlo. Ma fino a quando continuavano ad essere dei lavoratori, l’agiatezza li porta­ va a una moderazione politica, non aW’embourgeoisement. Osservatori contenti di come andavano le cose poteva­ no magari parlare della Gran Bretagna dell’epoca medio­ vittoriana come di una nazione di appartenenti alla classe media, ma in effetti la classe media vera e propria non era ampia. In termini di reddito poteva forse coincidere con i settecentomila inglesi e gallesi le cui entrate erano state valutate in più di 300 sterline l’anno, ai fini dell’imposta sul reddito, sotto il prospetto D (profitti di attività indu­ striali e commerciali, professioni e investimenti) nel bien­ nio 1865-66 e fra i quali erano comprese 7500 persone con redditi'di più di 5000 sterline l’anno, una cifra molto ragguardevole per quei tempi, e 47 000 con redditi fra le 1000 e le 5000 sterline. Questa comunità relativamente esigua comprendeva circa 17 000 commercianti e banchie­ ri nel 1871, i circa 1700 armatori, il numero sconosciuto di proprietari di fabbriche e di miniere, la maggior parte dei 15 000 medici, i 17 000 procuratori legali e i 3500 av­ vocati, i 7000 architetti e i 5000 ingegneri civili, una pro­ fessione, quest’ultima, che si sviluppò molto rapidamente durante quei decenni, ma che, sfortunatamente e signifi­ cativamente, cessò di espandersi verso la fine del secolo *. La comunità non includeva però molte di quelle che oggi sono chiamate le occupazioni intellettuali o «creative». C’erano soltanto 2148 «autori, redattori e giornalisti» * Il loro numero sali da 3329 nel 1861 a 7124 nel 1881; ma nel 1911 erano soltanto 7208, compresi gli ingegneri minerari.

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contro i 14 000 della vigilia della prima guerra mondiale, non c’era una classe di scienziati separata e distinta, e il numero degli insegnanti universitari era stazionario, per­ ché la Gran Bretagna vittoriana era una società filistea. La definizione più generale della classe media e di quel­ li che desideravano imitarla era che impiegava servitori domestici. Il loro numero aumentò, è vero, in misura con­ siderevole, passando dalle 900000 unità del 1851 a 1,4 milioni del 1871, quando toccarono quasi la punta massi­ ma *. Ma nel 1871 le cuoche erano soltanto 90 000, e non molte di più erano le domestiche, il che offre un termine di misura più preciso, anche se probabilmente troppo ristret­ to, dell’ampiezza reale della classe media; e un criterio di valutazione di quante fossero le persone ancor più ricche, ce lo dà la cifra di 16 000 cocchieri privati. Chi erano i re­ stanti che impiegavano domestici? Forse quegli aspiranti ancora membri della classe media inferiore, che lottavano per raggiungere una buona condizione sociale e la rispet­ tabilità e proprio allora stavano scoprendo nel controllo delle nascite un modo per affrettare il conseguimento del loro scopo; infatti, come recenti ricerche hanno dimostra­ to, fu la scelta fra un più alto tenore di vita, divenuto più facilmente raggiungibile, e una famiglia numerosa, a de­ terminare quel declino dei tassi di natalità nelle classi su­ periori e medio superiori che si poté osservare dagli anni ’70 del secolo. Questa era dunque la piramide sociale dell’epoca me­ dio-vittoriana. Essa divenne sempre più un fenomeno ur­ bano, o forse, per quanto riguardava i suoi strati centrali, suburbano, perché l’emigrazione dei non-proletari verso la periferia della città andò accentuandosi, specialmente negli anni ’60 e in seguito negli anni ’90 del secolo. Gli abitanti della città superarono numericamente per la pri­ ma volta quelli delle campagne nel 1851. Ancor più indi­ cativo è il fatto che nel 1881, all’incirca due inglesi e gal­ lesi su cinque vivevano nelle sei grandi aree abitate attor­ no a Londra (le «conurbations»), il Lancashire sudorien­ * Escluso il personale di servizio delle locande e degli alberghi, che era allora classificato fra il personale domestico.

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tale, le Midlands occidentali, lo Yorkshire occidentale, il Merseyside e il Tyneside. Le aree rurali, poi, erano agrico­ le soltanto in parte. Nel 1851, appena due milioni sui no­ ve milioni di inglesi che lavoravano erano impiegati nel­ l’agricoltura. La proporzione scese a 1,6 milioni su 12,8 nel 1881, e alla vigilia della prima guerra mondiale la per­ centuale era scesa a meno dell’8 per cento. Le città che ora costituivano la vera Gran Bretagna non erano più quei luoghi desolati produttori di denaro, negletti e trascurati, della prima metà del secolo. Gli orrori di quel periodo, re­ si drammatici dalle epidemie sempre più gravi che non ri­ sparmiavano nemmeno la classe media, portarono a rifor­ me sanitarie e sistematiche a partire dagli anni ’50 del se­ colo (drenaggi, rifornimenti d’acqua, pulizia delle strade, e cosi via), il benessere fece fiorire opere edilizie municipa­ li e, in concomitanza con agitazioni radicali, riuscì anche a risparmiare spazi aperti e parchi per la popolazione in quelle aree fortunate in cui non si era ancora costruito. Dal canto loro le ferrovie, i raccordi ferroviari e le stazioni si aprirono ampi varchi nei centri delle città sospingendo la gente che ci viveva verso altre abitazioni popolari, e ri­ coprendo gli abitanti che rimanevano con quel denso stra­ to di fuliggine e sporcizia che ancora si può vedere in alcu­ ne zone delle città settentrionali. La nebbia acrida che gli stranieri trovavano cosi caratteristica avviluppò ancor più strettamente la Gran Bretagna vittoriana. La città dell’epoca medio-vittoriana rappresentava, sot­ to molti aspetti, eccettuato magari quello estetico, un net­ to miglioramento rispetto alle città degli anni ’30 e ’40, an­ che se questo fu dovuto più a spese generali per altre at­ trezzature e comodità urbane essenziali che non a uno sforzo pubblico inteso a migliorare la vita della classe ope­ raia come tale. Inoltre, si manifestò una corrente di rifor­ me municipali che andò a vantaggio della classe operaia e un ancor più forte movimento commerciale tendente a sfruttare i desideri insoddisfatti che i lavoratori poveri nutrivano per divertimenti e comodità surrogatorie, me­ diante istituzioni come il grosso spaccio d’alcoolici, tutto specchi e cristalli e mediante la finta opulenza del musichall vittoriano, il cui ambiente stilistico è ancora, e visi­

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bilmente, quello degli anni ’60 del secolo scorso. Se la cit­ tà britannica rimase nondimeno un posto in cui era spa­ ventoso vivere, superato in orrore soltanto dalle arcigne strade rettilinee costeggiate da basse casette dei villaggi industriali e minerari britannici, questo fu perché l’espan­ sione urbana e industriale aveva ancora la meglio sui ten­ tativi, spontanei o pianificati, di miglioramenti urbani. Londra sali da un po’ piu di due milioni di abitanti nel 1841 a poco meno di cinque milioni nel 1881 ; Sheffield da in 000 a 285000, Nottingham da 57000 a 187000, Salford da 53 000 a 176 000, anche se le città del Lanca­ shire crescevano già piu lentamente. Veri miglioramenti (con un’eccezione, ancora una volta, in campo estetico) si ebbero nei suburbi in espansione abitati dalla classe me­ dia - Kensington è in gran parte una creazione degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso - e nelle nuove località balneari e termali che si svilupparono rapidamente negli anni ’50 e ’60, generalmente quando le raggiunsero le ferrovie, spes­ so su iniziativa di proprietari terrieri ansiosi di valorizzare le loro tenute *.

In generale la vita della maggior parte degli inglesi mi­ gliorò negli «anni d’oro», ma forse non quanto pensava­ no i con temporanei. Migliorò ancor di più, e in modo più impressionante, durante la «grande depressione», anche se per motivi differenti. Per quanto riguarda i redditi, essi smisero probabilmente di aumentare intorno al 1900, e nel 1914 ci fu una stagnazione percettibile o addirittura un abbassamento dei salari reali, e questa fu probabil­ mente la ragione principale per cui negli ultimi anni pre­ cedenti la prima guerra mondiale si ebbe un malumore molto acuto e diffuso nel settore del lavoro. Tuttavia è probabile che sotto altri aspetti il processo di migliora­ mento continuò. Gli anni ’70 del secolo scorso contrassegnarono una * Il duca di Devonshire diede impulso allo sviluppo di Eastbourne a partire dal 1851. I famosi «frangiflutti» furono costruiti a Southport nel biennio 18.59-60, a Bournemouth (che aveva soltanto mille abitanti nel 1851) nel 1861, e furono ampliati a Brighton nel biennio 1865-66.

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netta svolta. Fino a quel periodo, qualunque cosa acca­ desse ai redditi, attendibili indici di benessere sociale co­ me i tassi di mortalità (e specialmente il tasso di mortali­ tà infantile) non erano scesi in modo sostanziale. Senza dubbio è probabile che i tassi di mortalità siano saliti du­ rante parte degli «anni d’oro». Dopo di allora iniziarono quella discesa quasi continua che è cosi caratteristica dei paesi sviluppati: una discesa lenta ma visibile dapprin­ cipio, che andò accentuandosi dopo l’inizio del secolo xx *. Dato che grazie al controllo delle nascite e ai piu al­ ti livelli di vita anche il tasso di natalità cominciò a scen­ dere, almeno nelle classi media e media inferiore (cfr. p. 176), l’incremento demografico dipese non tanto da un divario fra un alto tasso di mortalità e un ancor piu alto di natalità, ma sempre piu da un divario fra un tasso di mortalità decrescente e un tasso di natalità che declinava meno rapidamente. Sotto questi aspetti, gli «anni d’oro» non furono d’o­ ro neanche un po’. Comunque, in termini di redditi reali e di consumi quel periodo fu già contrassegnato da un net­ to progresso. I salari reali medi (tenuto conto della di­ soccupazione) rimasero piu o meno immutati dal 1850 fino ai primi anni ’60 del secolo, ma salirono di quasi il 40 percento fra il 1862 e il 1875. Diminuirono per un an­ no o due nei tardi anni ’70, ma erano di nuovo ai livelli di prima nella metà degli anni ’80, e in seguito salirono rapidamente. Nel 1900 avevano superato di un terzo i li­ velli del 1875 e dell’84 per cento quelli del 1850. Poi, come abbiamo visto, cessarono di aumentare. Decessi per 1000 abitanti.

1838-1842 1858-1862 1868-1872 1878-1882 1888-1892 1898-1902 1908-1912 1914

Maschi

Femmine

Nati vivi (decessi da 0 a 1 anno)

22,9 22,8 23,5 21,5 20,2 18,6

21,2 21 20,9 I9J 17,9 16,4 13,3 13,1

150 149,4 155,8 142,2 145,6 152,2 in,8 105

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Queste cifre riguardanti le medie dei salari, anche se le consideriamo attendibili (ma è dubbio che lo siano) non danno, naturalmente, un quadro realistico della situazio­ ne. Quando, verso la fine del secolo, furono eseguite le prime serie indagini sociali, da Booth a Londra e da Rowntree a York, risultò che circa il quaranta per cento della classe operaia viveva in quella che era allora chiamata «po­ vertà» o in condizioni anche peggiori, vale a dire che que­ sto gruppo viveva con un reddito familiare di 18-21 scel­ lini *, formando una massa miserabile di cui i due terzi, in un periodo o in un altro della loro vita, generalmente nella tarda età, diventavano niente più che indigenti. Al­ l’altro capo della classe operaia, un massimo del 15 per cento, probabilmente anche meno, viveva in quella che era allora considerata come una condizione confortevo­ le, con redditi cioè di 2 sterline o più. In altre parole, le classi operaie delle epoche vittoriana e edoardiana erano divise in un’aristocrazia del lavoro, che normalmente vi­ veva in un « mercato di venditori » vale a dire poteva far­ si desiderare fino a esigere salari più alti, la massa non qualificata e non organizzata che poteva ottenere soltan­ to salari di sussistenza o di quasi sussistenza dai datori di lavoro, e uno strato intermedio. Questo spiega i movimenti piuttosto vari dei livelli di vita negli «anni d’oro», durante la grande depressione, e nell’epoca edoardiana. In periodi d’inflazione quali fu­ rono il primo e l’ultimo, i lavoratori che riuscivano a far * Rowntree calcolò il costo minimo settimanale del mantenimento di una coppia e tre bambini nel 1899, in 71 scellini e 6 denari, suddivisi co­ me segue: 6s. Cibo pei marito e moglie 6s. 9d. Cibo per tre figli 4S. Affitto Vestiario per gli adulti is. Vestiario per i figli is. 3d. Combustibile is. rod. Varie (illuminazione, attrezzature domestiche, sapone, ecc.) rod. Il cibo non includeva carne fresca ed era stato calcolato deliberatamen­ te in modo meno generoso di quanto le diete prescrivevano per gli indi­ genti in buona salute. Si trattava invero di uno standard di mera sussi­ stenza.

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aumentare i loro salari più velocemente dei prezzi pote­ vano migliorare le loro condizioni di vita. E questo face­ vano infatti: Cibo in abbondanza, vestiti dello stesso tipo di quelli della classe media, quando l’affitto della casa lo permette un salotto bene ordinato, con mobilio solido e poco costoso che, se non è di per sé lussuoso o bello, è tuttavia un segno di lusso, di rispetto della propria condizione, del desiderio di raggiungere altri obiettivi: un giornale, un club, una va­ canza di quando in quando, e magari uno strumento musi­ cale 2.

In questi termini un osservatore descrive la condizione di quella gente verso la metà degli anni ’80 del secolo scorso. Le stesse cose non potevano dirsi di quel 40 per cento della scala inferiore, o di coloro il cui numero non era scarso sul mercato del lavoro. La loro situazione mi­ gliorava soltanto quando diminuiva la disoccupazione, op­ pure quando si trasferivano ad altre industrie che paga­ vano meglio, da industrie stagnanti ad altre in espansio­ ne (quello che molti facevano negli «anni d’oro», come abbiamo visto). Comunque, è abbastanza evidente che non si ebbe un gran miglioramento generale prima degli anni ’60, eccetto forse fra la manodopera delle campagne, la quale, abbandonando in gran numero la terra, migliorò le condizioni di quelli che restavano e di quelli che arri­ vavano. La massa dei poveri che si trovava al fondo della piramide sociale rimase quasi stagnante come prima. Nei primi anni del nostro secolo, ricordava un vecchio, ci si poteva fare un’idea delle condizioni di Liverpool tenen­ do presente che era cosa normalissima comperare un quar­ to di denaro di latte, che veniva non soltanto comperato e venduto, ma anche portato a casa. Alla fine della settimana, si arrivava ad avere un denaro e tre quarti e quindi sette quarti di denaro di latte. Questo nella zona più povera di Liverpool... Ricordo una volta che lavoravo sul tram nel tratto fra il deposito di Smithdown Road e Pier Head, e avevo settantacinque passeggeri e tutti dovevano pagare due denari, e quando passai a riscuotere le tariffe mi trovai con un solo pezzo da tre denari. Tutte le altre monete erano di rame. Era un ritorno indubbio di povertà3.

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La grande depressione causò importanti mutamenti. Probabilmente, il più rapido miglioramento generale nel­ le condizioni di vita del lavoratore del secolo xix avvenne negli anni 1890-95, attenuato soltanto dalla disoccupazio­ ne, un po’ più elevata in quel periodo. Il miglioramento si ebbe perché del costo della vita in diminuzione i più po­ veri beneficiano come gli altri e, anzi, proporzionalmen­ te, più degli altri, e la «depressione» fu, come abbiamo visto, soprattutto un periodo di prezzi in diminuzione. Tuttavia, i prezzi ribassarono in primo luogo perché tutta una nuova serie di cibi importati, poco costosi, fu messa a disposizione del popolo britannico. Fra il 1870 e il 1896 il consumo di carne sali di circa un terzo, ma la proporzio­ ne di carne importata triplicò. Dalla fine del secolo fino a dopo la prima guerra mondiale, circa il 40 per cento della carne mangiata in Gran Bretagna provenne dall’estero. In effetti, dopo il 1870, il cibo e le abitudini alimentari del popolo britannico cominciarono a subire delle trasfor­ mazioni. Gli inglesi, per esempio, cominciarono a mangia­ re la frutta, che prima era un genere di lusso. Per la clas­ se operaia, la frutta fu dapprima consumata sotto forma di marmellata; in seguito ci fu la banana fresca, importa­ ta, che integrava o sostituiva la mela come il solo frutto fresco mangiato dai poveri. Anche un elemento cosi carat­ teristico della scena proletaria britannica come lo spaccio di pesce con patate fritte cominciò ad apparire in quel periodo. Si diffuse dal suo luogo d’origine, probabilmen­ te Oldham, dopo il 1870. Inoltre, a partire dagli anni ’70 del secolo, non soltan­ to i generi alimentari, ma l’intero mercato dei beni di con­ sumo per i poveri, cominciò ad essere trasformato dal moltiplicarsi delle botteghe (e specialmente di quelle che vendevano generi diversi) e da una produzione di fabbri­ ca destinata specificamente alla classe operaia. Una cate­ goria di operai più favorita aveva cominciato, specialmente nel Nord, a organizzare, a partire dagli anni ’40 del secolo un proprio meccanismo distributivo, le «coopera­ tive», che in un primo tempo si svilupparono modesta­ mente (nel 1881 contavano soltanto mezzo milione di soci); in seguito il loro sviluppo crebbe rapidamente. Nel

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1914, i soci delle cooperative erano tre milioni. Più rapi­ do fu l’aumento delle botteghe con merci varie e dei ma­ gazzini a catena: da dieci filiali di macellerie con vari ti­ pi di carne nel 1880 si passò a 2000 nel 1900, e da 27 fi­ liali di drogherie a 3444 (aumentarono più lentamente nel decennio seguito al 1900). Ancor più importante, poi­ ché le prime botteghe che vendevano generi diversi si in­ dirizzavano soprattutto al mercato della classe operaia, fu l’apertura di botteghe di vestiario e di calzature, che fu­ rono un sottoprodotto della produzione di calzature su scala industriale negli anni ’60, e della produzione di ve­ stiario negli anni ’80 del secolo. Furono le calzature ad aprire la strada. Infatti i trecento negozi collegati di scar­ pe del 1875 erano diventati 2600 venticinque anni dopo (creati per metà negli anni ’90). I negozi di indumenti ma­ schili seguirono su scala più modesta e continuarono a dif­ fondersi rapidamente anche nel difficile primo decennio del nostro secolo, mentre quelli di indumenti femminili seguirono più lentamente degli altri. Il loro tempo non era ancora arrivato. Una cosa importante nei riguardi del futuro, anche se non lo era molto per il presente, fu che l’industrialismo cominciò a produrre, sulla scia degli Stati Uniti, beni du­ revoli più a buon mercato, come la macchina segatrice (venduta a 4 sterline negli anni ’90 del secolo e con cui cominciò l’usanza dell’affitto-acquisto) e la bicicletta. Que­ sta macchina nuova ed entusiasmante entrò quasi subito a far parte del folklore popolare grazie ai music-hall, a un folklore ideologico, ai Clarion Cycling Clubs dei giovani socialisti entusiasti, e al signor Bernard Shaw dai panta­ loni alla zuava. La bicicletta non era a portata dei più po­ veri, ma quello stesso periodo offri loro il primo mezzo di trasporto destinato specificamente alla classe operaia, os­ sia il tram. Le tranvie, appena esistenti nel 1871, impie­ gavano già più di 18000 persone nel 1901: la tariffa tranviaria media era negli anni ’80 del secolo appena infe­ riore a un denaro e mezzo. Infine, e anche qui gli anni ’80 segnarono una svolta, anche i divertimenti popolari si trasformarono. In Gran Bretagna fatti rivoluzionari come il fonografo e il cinema si trovavano allo stadio iniziale an-

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cora nel 1914, ma il music-hall, almeno a Londra, ebbe il suo primo periodo di splendore negli anni ’8o, e i suoi anni di gloria nel decennio successivo. Edifici sempre più opulenti destinati agli spettacoli di varietà furono costrui­ ti nei centri stessi delle città, senza essere più confinati ai suburbi proletari dove avevano cominciato la loro carrie­ ra. Nello stesso tempo lo sport, e specialmente il gioco del calcio, divenne l’istituzione nazionale che conoscia­ mo. Nel 1885 fu legalizzato il professionismo. In breve, fra il 1870 e il 1900 si affermò quel modello di vita della classe operaia britannica che gli scrittori, i drammaturghi e i produttori di spettacoli televisivi degli scorsi anni ’50 ritenevano «tradizionale». In qùel perio­ do non era tradizionale, ma nuovo. Arrivò a essere consi­ derato antico e non soggetto a cambiamenti perché cessò in effetti di mutare considerevolmente dopo la grande trasformazione che si ebbe nella vita britannica nei ricchi anni ’50 di questo secolo, e perché la sua espressione più completa era da individuare nei centri caratteristici della vita della classe operaia nel tardo secolo xix, vale a dire le aree industriali settentrionali o quelle proletarie di grandi città non industriali, come Liverpool, o nelle zone meridionale e orientale di Londra, che non cambiarono molto, eccetto che in peggio, nella prima metà del secolo xx. Non era una vita né comoda né ricca, ma fu probabil­ mente il primo tipo di vita, dopo la rivoluzione industria­ le, che offrisse alla classe operaia britannica un sicuro ri­ cetto all’interno della società industriale. L’ultimo quarto del secolo xix fu chiaramente un pe­ riodo in cui la vita diventò molto più facile e più varia per la classe operaia, sebbene l’epoca edoardiana portasse un regresso. Tuttavia, le tendenze non sono risultati con­ seguiti, e il quadro delle condizioni sociali rivelato dalle indagini dell’epoca, spesso con enorme sorpresa dei ricer­ catori, era orribile. Era il quadro di una classe operaia storpiata e indebolita da un secolo di industrialismo. Ne­ gli anni ’70 del secolo scorso, i ragazzi dagli undici ai do­ dici anni delle public schools riservate alla classe supe­ riore erano in media cinque pollici più alti di quelli del­ le scuole industriali e, nell’età dai dodici ai diciannove

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anni, tre pollici più alti che i figli degli artigiani. Quan­ do il popolo britannico fu per la prima volta esaminato in massa ai fini del servizio militare nel 1917, comprende­ va il io per cento di giovani completamente inabili al ser­ vizio, il 41,5 per cento (il 48-49 per cento a Londra) con insufficienze spiccate, e il 22 per cento con «insufficienze parziali», e appena più di un terzo in condizioni soddisfa­ centi. Il nostro era un paese abitato da una stoica massa composta da quanti erano destinati a trascorrere tutta la vita appena a un incerto livello di sussistenza prima che la vecchiaia li ammucchiasse fra i relitti umani denutriti, malamente alloggiati e vestiti, di cui si occupava la legi­ slazione sui poveri. Se si fanno raffronto coi livelli di vita del 1965, o anche del 1939, l’ascesa della classe operaia a un livello di vita modestamente umano era appena in­ cominciato. Fortunatamente la disoccupazione, l’incertezza, e for­ se soprattutto il declino della fede nel progresso automa­ tico del capitalismo britannico fecero si che il popolo di­ venisse meno incline ad accettare passivamente il suo de­ stino, e gli offrirono mezzi più efficaci per migliorarlo. Il socialismo riapparve negli anni ’80 del secolo, e reclutò un’élite di attivi e abili operai che a loro volta crearono o trasformarono i movimenti di massa dei lavoratori fonda­ ti su basi più ampie: le trade unions e i nuovi partiti indi­ pendenti della classe operaia, che si volsero verso una di­ rezione comune, dando vita al partito laburista nei primi anni del nostro secolo. I tempi più duri dell’Inghilterra edoardiana spianarono la via a una più massiccia trasfor­ mazione politica, accelerata poi dalla guerra. Il movimen­ to sindacalista sali a qualcosa come un milione e mezzo di membri nella grande esplosione degli anni 1889-90, arri­ vò più lentamente a due milioni, raddoppiò a quattro mi­ lioni durante le grandi lotte operaie degli anni 1911-13, e raddoppiò ancor fino a raggiungere temporaneamente la quota massima di otto milioni di aderenti alla fine del­ la prima guerra mondiale. Ciò si verificò in buona parte grazie all’affermarsi delle unions in industrie fino allora disorganizzate, come i trasporti per via d’acqua, o in cate­ gorie non organizzate di industrie preesistenti, come le ca­

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tegorie dei lavoratori non qualificati o semiqualificati. For­ te fu anche il contributo dato dall’espansione di unions di piu antica data. La dichiarazione politica d’indipendenza fatta dai la­ voratori ebbe risultati meno importanti, anche se nel 1914 il partito laburista poteva contare su quaranta mem­ bri in parlamento. Fortunatamente, l’estensione del voto nel biennio 1884-85 consenti alla classe operaia un’in­ fluenza politica molto maggiore sui partiti piu vecchi, e specialmente su quello liberale, in genere molto attento a conservare il suo seguito proletario. Per la prima volta, le pubbliche autorità si preoccuparono seriamente del pro­ gresso sociale. Nel 1914 già esisteva a grandi linee un si­ stema di sicurezza sociale, che era il risultato della legi­ slazione liberale dopo il 1906. Il settore pubblico, comun­ que, non aveva ancora una seria importanza pratica. Le pensioni di vecchiaia (cinque scellini la settimana all’età di settant’anni), introdotte nel 1908, erano l’unica forma di pagamento sociale genuinamente redistributivo, se si eccettua la legislazione sui poveri. La legge per l’assicu­ razione nazionale del 1914 intendeva costituire, come era implicito nella sua denominazione, uno schema assicura­ tivo su solide basi, finanziato coi premi, e mentre i suoi servizi medici erano miseri ma utili, la sua capacità di co­ stituire un riparo contro la disoccupazione si dimostrò nettamente limitata dopo il 1920. Il governo centrale spendeva ancora soltanto scarse somme per obiettivi di­ rettamente sociali, a parte l’istruzione: 17 milioni di ster­ line, su una spesa totale lorda di 184 milioni, andarono nel 1913 per le pensioni di vecchiaia, gli uffici di collo­ camento e l’assicurazione contro la disoccupazione. Nel 1939 le stesse spese erano salite a 205 milioni di sterline su 1006 milioni. La spesa degli enti amministrativi lo­ cali era, relativamente, ancor meno importante. Ammon­ tava a 13 milioni di sterline su una spesa totale di 140 milioni (in Inghilterra e nel Galles, 1913) con una per­ centuale che era in effetti assai inferiore a quella di cinquant’anni prima, perché gli esborsi dovuti alle leggi sui poveri, che costituivano le voci principali, non erano nem­ meno raddoppiate, mentre la spesa totale degli enti ammi­

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nistrativi locali era aumentata di più di cinque volte dal 1868. L’edilizia pubblica era del tutto trascurabile. Nel 1884, l’anno da cui partono le nostre cifre, furono spese 200 000 sterline prese da tasse comunali e prestiti volti a questo scopo; nel 1913, la spesa fu di circa un milione. In via di raffronto possiamo rilevare che negli scorsi an­ ni ’30 la spesa pubblica per l’edilizia non scese mai sotto 70 milioni di sterline l’anno. Tutto sommato, quindi, i poveri pagavano in tasse più di quanto ricevevano in ser­ vizi sociali. La situazione delle classi superiori era molto differen­ te, e l’immensità del divario esistente tra la cima e il fon­ do della società fu sottolineata da un’orgia di spreco a cui una parte dei ricchi, capeggiati da quel simbolo di una classe dedita al lusso che fu Edoardo VII, si abbandonò nei decenni anteriori al 1914. Biarritz, Cannes, Monte Carlo e Marienbad (l’albergo internazionale di gran lus­ so fu in gran parte il prodotto di quell’epoca e trovò nello stile «edoardiano» la sua migliore forma architettonica), gli yacht a vapore e le grandi scuderie di cavalli da corsa, i treni privati, i massacri di selvaggina e i weekends in opulente case di campagna, che in effetti duravano setti­ mane: erano queste le cose che consolavano le ore sem­ pre più lunghe che i ricchi dedicavano ai piaceri. Soltanto il 6 per cento della popolazione lasciava, morendo, pro­ prietà degne di essere menzionate. Soltanto il 4 per cen­ to lasciava più di 300 sterline. Ma negli anni 1901-902 poco meno di 4000 patrimoni pagavano tasse su capitali valutati 19 milioni di sterline, mentre 149 di essi avevano un valore complessivo accertato di 62,5 milioni. I ricchi erano ancora ricchi, perché la sterlina era ancora la ster­ lina. Il duca di Bedford, in difficoltà (come tutti i proprie­ tari terrieri si lamentavano di essere) sotto gli effetti della depressione agricola, non era andato in fallimento fino al punto di non poter offrire al suo uomo di fiducia uno sti­ pendio e una pensione generosi, insieme all’uso gratuito di una casa di campagna con tre domestici interni e sette esterni e tre guardiacaccia pagati con la borsa ducale, l’u­ so di un’altra casa di campagna, e in più selvaggina, or­ taggi, panna, latte, burro e whisky, tutto gratis.

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Al di sotto si trovavano le classi media e media inferio­ re, un ampio gruppo comprendente — se consideriamo co­ me appartenenti a quelle classi quanti tenevano domesti­ ci - circa il 30 per cento della popolazione, almeno nello York. Verso la metà dell’epoca edoardiana circa 1 750 000 persone appartenevano a famiglie che guadagnavano (o, comunque ricevevano) piu di 700 sterline l’anno, che era una condizione agiata, e circa 3 750 000 a famiglie con redditi da 160 a 700 sterline l’anno, che era una condi­ zione ragionevole. Nel biennio 1913-14 l’uomo adulto medio guadagnava intorno a 30 scellini per una settimana lavorativa di cinquantaquattro ore, con un reddito annuo purché avesse lavorato senza interruzione, di 77 sterline. La donna adulta media impiegata nell’industria guada­ gnava 13 scellini e 6 denari per una settimana lavorativa della stessa lunghezza, ossia circa 35 sterline l’anno per un lavoro ininterrotto. Gli strati medi mangiavano bene, e mangiavano troppo. Vivevano bene, e andavano sempre piu riempiendo quei suburbi riservati alle classi media e media inferiore che circondavano le zone meno fumose delle città, e che andavano da quartieri come Tooting, con le sue modeste case a terrazze o semidistaccate con giardi­ no, fino a quelli piu opulenti come Wimbledon, verso le zone in cui operavano gli speculatori, circondate dalla verde campagna: queste ultime erano fortezze di conser­ vatorismo politico i cui difensori uscivano il mattino ar­ mati dei nuovi giornali tipo «Daily Mail» (1896) per rag­ giungere gli uffici in cui lavoravano in numero sempre maggiore. Nel 1906 circa mezzo milione di impiegati guadagna­ vano più di 160 sterline l’anno (qualcosa come la metà del reddito della classe media), anche se la gran massa del­ la crescente popolazione di impiegati avevano in comune con gli strati più alti della classe media soltanto le aspira­ zioni. Più di tre quarti degli impiegati di sesso maschile che lavoravano nel commercio, e tutte le donne, guada­ gnavano meno di tre sterline la settimana nel 1910. (Più di tre quarti delle impiegate, che costituivano ancora un’e­ sigua minoranza, guadagnavano meno di una sterlina la settimana). Soltanto nelle banche e nelle assicurazioni i

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guadagni erano sensibilmente migliori. Il povero impie­ gato, specialmente se insisteva, come naturalmente face­ va, a seguire uno stile di vita da classe media, non stava molto meglio di un operaio ben pagato, sebbene negli ul­ timi decenni del secolo aumentò il proprio reddito ridu­ cendo l’ampiezza della propria famiglia col controllo del­ le nascite, principalmente astenendosi dal rapporto ses­ suale o ricorrendo al coitus interruptus * . Come disse A. J. P. Taylor, «Lo storico deve rammentare che fra il 1880 e il 1940 il popolo di cui ci si occupa era un popolo fru­ strato»’, e che per nessuna classe questo era più vero che per la classe media inferiore delle tarde epoche edoardiana e vittoriana. Comunque, oltre a tali mutamenti suscettibili di misu­ razione nei modi di vita britannici, ve ne furono altri ugualmente importanti ma non riducibili a valutazioni concrete. Il primo fu dato dalla tendenza al conservato­ rismo, dovuto a una specie di compiacimento, che, come abbiamo visto, andò sempre più fossilizzando la gente ricca. Il processo per cui i conservatori andarono rimpiaz­ zando il partito liberale come espressione della classe ric­ ca dopo il 1874, riflette appunto queste tendenze anche se esso fu brevemente interrotto nei primi decenni del secolo xx. Il declino del nonconformismo religioso, specie di quello della classe media, fu mascherato dal crescente peso elettorale della «coscienza nonconformistica», che non fu mai più forte che negli ultimi decenni del secolo xix, e dalla continua ascesa di uomini di affari nonconfor­ misti all’agiatezza e alle posizioni di prestigio. In effetti, però, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso il noncon­ formismo cessò di diffondersi rapidamente, e con esso de­ clinò una forza poderosa capace di sostituire il liberali­ smo e l’iniziativa privata competitiva. L’assimilazione delle classi affaristiche britanniche nel­ l’ambito sociale delle classi dirigenti locali e dell’aristo­ crazia era progredita con grande rapidità a partire dalla * I mezzi meccanici per gli uomini non furono ampiamente adoperati fino al periodo fra le due guerre, e quelli per le donne non prima degli an­ ni ’30 del nostro secolo.

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metà del secolo xix, il periodo cioè in cui tante delle co­ siddette «public schools» furono fondate, o riformate, escludendo proprio quei poveri a cui in origine erano state *. destinate Nel 1869 queste scuole furono tutte rese piu o meno libere da ogni intervento statale, e divennero la fu­ cina di quell’imperialismo tory antiintellettuale, antiscien­ tifico e improntato ai giochi agonistici, che doveva rima­ nere una loro caratteristica. (Non fu il duca di Wellington, ma un mito della tarda epoca vittoriana a proclamare che la battaglia di Waterloo era stata vinta sui campi da gio­ co di Eton, che in quell’epoca non esistevano). Sfortunatamente, la «public school» diede vita al mo­ dello del nuovo sistema di istruzione secondaria, che i set­ tori meno privilegiati della nuova classe media ebbero il permesso di instaurare a proprio beneficio dopo la Legge per l’istruzione del 1902, e il cui scopo principale era di escludere dall’istruzione superiore i figli della classe ope­ raia. Quest’ultima aveva acquistato il diritto all’istruzio­ ne elementare obbligatoria nel 1870. La conoscenza, e specialmente la conoscenza scientifica, passò quindi al secondo posto nel sistema scolastico britannico in favore della conservazione di una rigida divisione di classe. Nel 1897 meno del 7 per cento degli studenti ginnasiali pro­ veniva dalla classe operaia. Gli inglesi, quindi, entrarono nel secolo xx e nell’era della scienza e della tecnologia mo­ derna in uno stato di ignoranza spettacolare. La stasi dell’economia era già evidente nella società britannica negli ultimi decenni che precedettero il 1914. I rari imprenditori dinamici in Gran Bretagna erano già, per lo piu, stranieri o appartenenti a gruppi di minoran­ za (finanzieri tedesco-ebrei che offrirono un pretesto a buona parte dell’antisemitismo che andava diffondendosi in quel periodo; americani, cosi importati nell’industria elettrica; tedeschi, che eccellevano nel campo chimico, quaccheri e dissenzienti religiosi della provincia, ultimi arrivati come Lever, che sfruttarono le nuove risorse del­ * Le scuole di Cheltenham, Marlborough, Rossall, Haileybury, Well­ ington, Clifton, Malvern, Lancing, Hurstpierpoint e Ardingly furono tutte fondate (e quella di Uppingham trasformata) fra gli anni ’40 e gli anni ’60 del secolo scorso.

LIVELLI DI VITA (185O-1914)

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l’impero tropicale). Per contro, le fiorenti attività della «City», anche quando erano in modo evidentissimo il pro­ dotto di iniziative provinciali non conformistiche come le nuove attività delle società che assicuravano sulla vita e di quelle edilizie, si trovavano già in una rete pseudo­ baronale di non competizione aristocratica. Divenne co­ mune la figura del «direttore di paglia», un aristocratico messo nel consiglio di assicurazione di una società spesso louche per il valore pubblicitario del nome di famiglia. La figura opposta era quella del borghese genuino che, a differenza dei suoi predecessori all’epoca delle leggi sui cereali, aspirava ad essere, e in effetti diventò, il «gen­ tleman» del tipo della saga dei Forsyte. La caratteristica, mitica Gran Bretagna dei cartelloni dedicati alla pubblicità dei viaggi, e dei calendari del «Ti­ mes», sorse come una conseguenza di questo stato di co­ se. La pesante incrostazione di riti pseudomedievali e d’altro genere, come il culto della regalità, che domina la vita pubblica britannica, risale alla tarda epoca vittoria­ na, cosi come la finzione che ogni inglese è in fondo al cuore un abitante di case dal tetto di paglia e un gentiluo­ mo di campagna. Ma, come abbiamo visto, all’altro capo della scala sociale lo stesso periodo vide il sorgere di un fenomeno sociale molto differente, il caratteristico, «tra­ dizionale» modo di vita della classe operaia urbana di Gran Bretagna. Comunque, a differenza degli sviluppi che si ebbero presso le classi superiori, il verificarsi di questo fenomeno non rifletté soltanto un processo di re­ gresso e di fossilizzazione, ma, a dispetto di una certa ri­ strettezza e rigidità, anche di modernizzazione. Il socia­ lismo che andò sempre più facendo presa sul movimento operaio sarà magari stato di tipo molto vago. Spesso, co­ me accadde per i suoi aspetti pacifisti e internazionalisti, fu poco più che un prolungamento proletario di quel pic­ colo « inghilterrismo » nonconformista e radical-liberale che le classi imprenditrici andavano abbandonando rapi­ damente: era però indubbiamente volto a provocare un mutamento fondamentale nelle strutture dell’economia. Era basato su un’analisi economica che teneva conto, cosa che l’economia ortodossa ossificata della mente volta al

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profitto faceva invece sempre meno, di fattori come la ten­ denza alla concentrazione, e del bisogno crescente di un sistematico intervento pubblico negli affari dell’econo­ mia. Fu forse questo il motivo per cui piccoli e fino allora non rappresentativi gruppi di tecnocrati e pensatori che si dedicavano a teorizzare le funzioni dei dirigenti, come i fabiani, si trovarono a operare all’interno del movimen­ to operaio. La tragedia del movimento fu che non riuscì ad adeguare la pratica alla sua teoria.

1 Briggs, Cole e Postgate, Kitson Clark (Cfr. Letture ulteriori, n. 2), Clapham, Checkland, Ashworth (Letture ulteriori, n. 3). Gli elementi sostanziali sui livelli di vita della classe operaia si trova­ no in articoli di G. H. Wood, in «Journal of the Royal Statistical Society», 1899 e 1909. Per i problemi urbani, cfr. asa briggs, Victorian Cities-, s. pollard, History of Labour in Sheffield-, h. j. dyos, Victorian Suburb. Per la legislazione e le condizioni so­ ciali E. Phelps brown, Growth of British Industrial Relations, 1959. Per la legislazione sul lavoro, cfr. K. w. wedderburn, The Worker and the Law, 1965. Retail Trading in Great Britain 1850-1950, 1954, è buono, ma di tipo statistico. H. pelling, A History of Trade Unionism, 1963, e The Origins of the Labour Party, 1965, vanno integrati con r. tressell, The Ragged-Trou sered Philanthropists (romanzo). Per la classe media inferiore, cfr. g. e w. grossmith, Diary of a Nobody. Sull’istruzione, cfr. Brian Simon, Education and the Labour Movement 1870-1920, 1965. Sulle classi superiori, è eccellente w. s. adams, Edwardian Portraits, 1957. Homage to Tom Maguire, di e. p. Thompson (in Essays in Labour History a cura di A. Briggs e J. Saville, i960), è una superba introduzione alla rinascita del socialismo. Cfr. an­ che i diagrammi 2-3, 8, ri, 15, 22, 35, 40, 44, 46, 48-49, 52-55. 2 pollard, History of Labour in Sheffield cit., p. 105. 3 Tom Barker and The IWW (a cura di E. T. Fray, Australian So­ ciety for Labour History, 1965), pp. 5, 7. 4 A. J. p. Taylor, English History 1914-1915, 1965, p. 166.

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L’inizio del declino1

A partire dalla rivoluzione industriale, il processo di trasformazione dell’industria è diventato continuo, ma ogni tanto i risultati cumulativi appaiono cosi ovvi che gli osservatori sono tentati di parlare di una «seconda» rivoluzione industriale *. Gli ultimi decenni del secolo xix costituirono un periodo del genere, e la differenza ap­ parve molto più grande in quanto la prima fase dell’industrialismo era stata visibilmente arcaica, e perché la Gran Bretagna, pioniere di quella fase, rimase ancorata in modo evidente a quel modello arcaico, cosa che non ac­ cadde ad altre e più recenti economie industriali. Il primo e alla lunga più profondo cambiamento fu quello che avvenne nel ruolo svolto dalla scienza nella tecnologia. Nella prima fase dell’industrialismo il cam­ biamento fu, come abbiamo visto, piccolo e secondario. Le invenzioni importanti furono semplici e dovute a pe­ rizia, esperienza pratica e disposizione a provare qualun­ que cosa per vedere se andava bene, piuttosto che a teo­ rie complesse e a una vera conoscenza scientifica; le fonti fondamentali di energia (carbone, acqua) erano antiche e familiari, le materie prime di base non erano differenti da quelle ben conosciute da lungo tempo, sebbene natural­ mente (come il ferro) venissero impiegate su una scala * Curiosamente, non c’è una «terza» o una «quarta». Col passare del tempo, la «seconda rivoluzione» forma un tutto unico coi cambiamenti del passato, e a tempo debito, si scopre un’altra «seconda rivoluzione indu­ striale», magari negli anni ’20 del nostro secolo, e poi ancora nell’epoca di esperimenti nel campo ambizioso dell’automazione dopo la seconda guerra mondiale.

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mai vista e con alcune migliorie. Ritrovati tecnologica­ mente più rivoluzionari esistevano già, ad esempio nel campo dell’industria chimica, e talvolta, come nel caso dell’illuminazione a gas, suscitarono attenzione per la lo­ ro importanza pubblica, ma la loro importanza ai fini del­ la produzione rimase secondaria. I maggiori trionfi tec­ nologici della fase arcaica dell’industrializzazione, vale a dire la ferrovia e la nave a vapore, furono prescientifici o tutt’al più soltanto semiscientifici. Tuttavia, l’ampiezza stessa del sistema ferroviario, e la rivoluzione a cui esso diede vita nel campo dei trasporti, resero più necessaria la tecnologia scientifica, e l’espan­ sione dell’economia mondiale andò sempre più offrendo all’industria strane materie prime naturali (per esempio la gomma e il petrolio) che abbisognavano di una elabo­ razione scientifica per poter essere effettivamente impie­ gate. Uno dei mezzi più importanti della tecnologia scien­ tifica, la fisica classica (compresa l’acustica) era già dispo­ nibile da lungo tempo, e un altro, la chimica inorganica, usci di minorità nelle prime fasi della rivoluzione indu­ striale. Negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso se ne resero disponibili altri due: l’elettromagnetismo e la chimica or­ ganica. L’istituzione che sta alla base della scienza, il la­ boratorio di ricerca, specialmente il laboratorio universi­ tario, s’era anch’essa affermata fra il 1790 e il 1830. La tecnologia scientifica divenne non soltanto desiderabile, ma anche possibile. f più importanti progressi tecnici della seconda metà del secolo xix ebbero quindi un carattere essenzialmente scientifico, vale a dire che richiedevano almeno una qual­ che conoscenza dei più recenti sviluppi della scienza pura applicati a invenzioni originali, una assai più consistente attività di esperimenti e prove scientifiche volte al loro sfruttamento, oltre a un collegamento sempre più stretto e continuo fra industriali, tecnologi e scienziati professio­ nisti, e istituzioni scientifiche. Un inventore che non ave­ va mai sentito parlare di Newton potè inventare qualco­ sa come il filatoio intermittente; ma anche i meno qualifi­ cati fra gli inventori dell’era dell’elettricità, per esempio l’americano Samuel Morse, cui si deve il telegrafo elettri-

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co e da cui il codice Morse prese il nome, dovette quanto meno avere ascoltato delle lezioni scientifiche. (Il suo equivalente britannico, Sir Charles Wheatstone, era però un professore universitario e un membro della società reale). L’ambiente scientifico andò sempre più diventan­ do quello in cui venivano fatte invenzioni «accidentali», come accadde per il colore malva, il primo dei coloranti anilinici, scoperto da W. H. Perkin nel 1856 quando era un giovane studente presso il Royal College of Chemistry. La scienza andò sempre più prospettando non semplicemente delle soluzioni, ma dei problemi. Significativo fu il caso di Gilchrist-Thomas, un impiegato di tribunale che frequentando lezioni serali si interessò alla difficoltà di impiegare minerali fosforici di ferro in metallurgia, e nel­ lo stesso modo acquisi le conoscenze chimiche che gli permisero di superare la difficoltà nel 1878. Fortunata­ mente, Gilchrist-Thomas aveva un cugino, chimico in un’azienda metallurgica gallese che fu quindi in grado di verificare l’esattezza della soluzione prospettata, con­ sistente nel rivestire internamente un convertitore Bes­ semer con scoria basica. Due delle più importanti industrie in sviluppo della prima fase dell’industrialismo, quella elettrica e quella chimica, erano interamente basate sulla conoscenza scientifica. La terza, data dalla costruzione del motore a com­ bustione interna, pur non imponendo di per sé problemi scientifici veramente nuovi, dipendeva da almeno due branche dell’industria chimica, quelle cioè che elabora­ vano e raffinavano il petrolio e la gomma, materiali rela­ tivamente non trattabili allo stato greggio. Industrie mi­ nori, che non raggiunsero un pieno sviluppo fino al secolo xx, come il complesso di quelle basate sulla fotografia, poggiavano ancor più saldamente su un fondamento scientifico di fisica e ottica. La famosa industria ottica tedesca diede vita a una sola azienda, la Zeiss, che fu il prodotto pianificato dei laboratori di ricerca accademica dell’uni­ versità di Jena. E alla fine del secolo xix era ormai evi­ dente, specialmente in base all’esperienza dell’industria chimica tedesca, la quale faceva scuola a tutto il mondo, che il processo scientifico era in funzione delle immissio-

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ni di manodopera qualificata, di attrezzature e capitali in progetti di ricerca sistematici. Negli Stati Uniti Thomas Alva Edison (1847-1931) dimostrò in modo piu empiri­ co i risultati che si potevano ottenere con laboratori su vasta scala attrezzati per l’invenzione tecnologica a Menlo Park a partire dal 1876. Il secondo grande cambiamento fu meno rivoluziona­ rio. Consistè semplicemente nella diffusione sistematica del sistema di fabbrica — con la divisione della fabbrica­ zione in un’ampia serie di processi semplici ciascuno at­ tuato da una macchina specializzata azionata da forza mo­ trice - in aree ancora intatte. Il più importante dei nuovi campi di produzione divenne alla lunga la fabbricazione del macchinario stesso, e in tempi moderni, dei «beni di consumo durevoli», che consistono in gran parte in mac­ chine per uso personale piuttosto che produttivo. È que­ sto quel tipo di sviluppo, in parte tecnico, in parte orga­ nizzativo, che conosciamo col nome di «produzione di massa» e che, quando l’applicazione del lavoro umano al­ l’effettivo processo di produzione è ridotta a un livello trascurabile, chiamiamo «automazione». In linea di prin­ cipio, l’automazione non comportava niente di rivoluzio­ nario. La fabbrica di cotone dei primi tempi già mirava al­ l’ideale di diventare un complesso meccanismo gigantesco e automatico (come si diceva allora) e ogni innovazione tecnica la avvicinava un po’ di più a questo obiettivo. Con qualche eccezione, come l’impiego del telaio di Jacquard, rimase però piuttosto distante dall’obiettivo se si consi­ derano i livelli moderni, perché gli incentivi a eliminare la manodopera specializzata non erano mai abbastanza forti, ma soprattutto perché l’opera direttiva e l’organiz­ zazione di produzione non erano ponderate in modo si­ stematico. Si trattava comunque chiaramente di una pro­ duzione di massa già sulla via dell’automazione, e certe forme della produzione chimica dei primi tempi, con la loro operazione continua, col controllo automatico della temperatura (nel 1831 fu brevettato un termostato) e la virtuale eliminazione di superati processi di lavorazione, s’erano accostate ancor più all’automazione. La meccanizzazione della fabbricazione di macchinari

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fu dovuta a un’ampia, standardizzata domanda dello stes­ so tipo di macchina. Fu per questo che la meccanizzazio­ ne fu raggiunta dapprima nel campo degli armamenti (fab­ bricazione di bossoli e di armi leggere) fino a che l’ampiez­ za del mercato potenziale dato dall’industria e da consu­ matori privati sufficientemente ricchi resero l’automazio­ ne commercialmente conveniente. I primi prodotti di que­ sto nuovo indirizzo furono, per motivi evidenti, soprat­ tutto americani: la macchina per cucire di Elias Howe (1846), meglio conosciuta nella versione di Isaac Singer (1850), che ne assicurò il successo commerciale; la mac­ china per scrivere, inventata nel 1843, che trovò un mer­ cato favorevole dopo il 1868; la serratura Yale (1855), la rivoltella Colt del 1835, e la mitragliatrice (1861). Fu­ rono ancora gli Stati Uniti a introdurre la produzione di massa dei veicoli semoventi, anche se in effetti l’automo­ bile fu invenzione europea, soprattutto francese e tede­ sca, e anche se il più modesto dei veicoli meccanici, la bi­ cicletta (1886) non divenne mai un prodotto importante nel nuovo mondo. Ma dietro questi prodotti visibili si ce­ lava una trasformazione, assai più importante, nel campo delle macchine utensili: il tornio a revolver (circa 1845), la fresatrice universale (1861), il tornio automatico (circa 1870); un po’ più tardi, si ebbero poi le leghe d’acciaio (e nel secolo xx altre leghe come quella di tungsteno e carbonio) dure quanto bastava per tagliare l’acciaio alle alte velocità meccaniche e — detto per inciso — a produr­ re armi più formidabili, soprattutto nel tardo secolo xix. Sostanze fino allora conosciute come mere curiosità dai geoioghi o dai chimici - il tungsteno, il manganese, il cro­ mo, il nichel, e altre ancora — divennero componenti es­ senziali della metallurgia dopo il 1870, iniziando cosi una rivoluzione in questo campo. L’altro aspetto di questo sviluppo fu l’organizzazione sistematica della produzione di massa grazie a un insieme pianificato di processi e alla «direzione scientifica» del la­ voro, vale a dire un’analisi e una suddivisione precise tanto delle operazioni umane quanto di quelle meccani­ che. Anche in questo campo un ruolo d’avanguardia fu svolto dagli Stati Uniti, soprattutto perché gli americani

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soffrivano di un’acuta mancanza di manodopera specia­ lizzata. I primissimi esperimenti di linee di produzione continua furono dovuti a ingegnosi tecnici americani del tardo secolo xvm, come Oliver Evans (1775-1819), che costruì un mulino interamente automatico e inventò il tra­ sportatore a cinghia, anche se non fu prima degli anni ’90 del secolo scorso che la nuova tecnica fu seriamente ap­ plicata nell’industria di inscatolamento della carne a Chi­ cago e altrove, raggiungendo la maturità soltanto nei pri­ mi anni del nostro secolo nella fabbrica di automobili di Henry Ford *. La «direzione scientifica» divenne insieme un programma e una realtà negli anni ’80 del secolo scor­ so, grazie soprattutto all’opera dell’americano F. W. Tay­ lor. Nel 1900, quindi, erano già state gettate le basi del­ l’industria moderna su ampia scala. Il terzo grande cambiamento è strettamente connesso con il secondo: esso consiste nella scoperta che i piu gros­ si mercati potenziali erano da scoprire nei redditi crescen­ ti della massa dei cittadini di paesi economicamente pro­ grediti. Anche in questo campo gli Stati Uniti svolsero un ruolo di guida, in parte grazie alla stessa ampiezza po­ tenziale del loro mercato interno, e in parte grazie ai red­ diti medi relativamente alti di un popolo abitante in un paese con una scarsezza permanente di manodopera. L’in­ dustria motoristica americana, per citare un esempio ov­ vio, fu creata partendo dal presupposto che un’automo­ bile venduta a prezzo sufficientemente conveniente, pur costosa com’era, avrebbe comunque trovato un mercato . Nell’era arcaica dell’industrialismo, una cosa di massa ** del genere era inconcepibile. La domanda di merci molto elaborate e quindi costose proveniva soltanto da una nu­ mericamente ristretta classe media e dai pochi ricchi. La domanda delle masse si limitava al cibo, all’abitazione (con qualche rudimentale attrezzo domestico) o al vestia­ rio. Il mercato à cui la produzione di massa avrebbe po­ * Le fabbriche statali che lavoravano per la natura britannica avevano, comunque, creato la prima vera linea di montaggio nel famoso biscottifi­ cio di Deptford nei primi anni del secolo xix. ** Questo sebbene gli Stati Uniti avessero in effetti nelle campagne un mercato di massa per i calessi, a cui Ford in certo grado si rivolse.

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tuto dirigersi era quindi intensivo e non estensivo, e an­ che cosi si restringeva agli articoli piu semplici e standar­ dizzati. E dato che i salari delle masse erano bassi, e si riteneva che fosse giusto cosi, non soltanto le masse aveva­ no uno scarso potere d’acquisto, ma lo stesso incentivo a meccanizzare la manifattura delle merci destinate ai loro bisogni erano limitati. Dove la servitù è abbondante e a buon mercato, la domanda di aspirapolvere è piccola. L’ultimo maggiore cambiamento fu dato dall’aumento nella scala dell’iniziativa economica, dalla concentrazio­ ne della produzione e della proprietà, e dal sorgere di un’e­ conomia formata da pochi enormi massicci blocchi di trust monopoli, oligopoli *, più che da un gran numero di sas­ solini. Che la concentrazione fosse il logico risultato della concorrenza, alcuni lo sospettavano da tempo. Karl Marx fece di questa tendenza una delle pietre angolari della sua analisi economica. In Germania e negli Stati Uniti, que­ sto processo divenne chiaramente visibile fino dai primi anni ’80 del secolo scorso. Gli economisti di quasi tutte le tendenze politiche lo giudicarono sfavorevolmente. Da­ to che era in conflitto con l’ideale di un’economia affari­ stica liberamente concorrenziale esso doveva essere neces­ sariamente, cosi pensavano, non soltanto socialmente in­ desiderabile (perché favoriva i grandi a scapito dei picco­ li, i ricchi a scapito dei poveri), ma economicamente re­ trogrado. Comunque, c’è ogni motivo di ritenere che un’attività economica su vasta scala fosse migliore che una su scala ridotta, rivelandosi più dinamica ed efficiente, più capace di affrontare il sempre più complesso e costo­ so compito dello sviluppo. Quello che si doveva rimpro­ verare alla grande industria non era che fosse grande, ma il suo carattere antisociale. La stessa accusa non poteva infatti essere mossa all’attività maggiore di tutte, quella statale, e ad altre attività pubbliche. Mentre in questo pe­ * Quando un’azienda controlla virtualmente o interamente un campo di attività economica, si tratta di monopolio. Quando lo fanno un piccolo numero di aziende d’accordo fra loro (come è il caso dell’industria automo­ bilistica americana, dominata dalla General Motors, dalla Ford e dalla Chrisler), si tratta di un oligopolio. Il secondo caso è più comune del pri­ mo, ma non ne differisce molto.

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riodo l’ampliamento delle operazioni economiche prese la forma delle nuove gigantesche aziende private e dei loro raggruppamenti, lo stato andò svolgendo un ruolo sem­ pre più determinante. Infatti, l’ideale della media epoca vittoriana, che lo stato dovesse astenersi deliberatamen­ te dal dirigere e dall’interferire economicamente fu ab­ bandonato in linea generale dopo il 1873. Per quanto soffiassero impetuosamente altrove, i ven­ ti dei cambiamenti si affievolivano quando attraversava­ no la Manica verso le coste britanniche. Sotto ognuno dei quattro aspetti economici che abbiamo tratteggiato, la Gran Bretagna rimase addietro ai suoi rivali; e la cosa di­ venne tanto più sorprendente, per non dire penosa, quan­ do i concorrenti occuparono campi che la stessa Gran Bre­ tagna era stata la prima ad arare prima di abbandonarli. Questa improvvisa trasformazione della prima e più di­ namica economia industriale nella più pigra e conserva­ trice nel breve spazio di trenta o quaranta anni (1869-90 o 1900), costituisce il problema cruciale della storia eco­ nomica britannica. Possiamo chiederci perché dopo gli anni ’90 del secolo tanto poco sia stato fatto per ridare all’economia britannica il suo dinamismo, e possiamo bia­ simare le generazioni che si sono susseguite dopo quel pe­ riodo per non aver fatto di più, per avere sbagliato e addi­ rittura per aver peggiorato la situazione. Ma si tratta in sostanza di discussioni su come riportare il cavallo nella stalla dopo che è scappato. Fu un cavallo che scappò fra la metà e gli anni ’90 del secolo scorso. Il contrasto fra la Gran Bretagna e gli stati industriali più moderni è particolarmente notevole nelle nuove «in­ dustrie in sviluppo » e diventa ancor più marcato quando ne raffrontiamo gli scarsissimi risultati con quelli dell’in­ dustria britannica nei settori in cui una struttura e una tecnica arcaiche riuscivano ancora a raggiungere i risulta­ ti migliori. Il settore principale di queste ultime era quel­ lo delle costruzioni navali, ultimo e solo fra i più trion­ fanti settori della supremazia britannica. Durante l’epoca della tradizionale nave di legno e a vela, la Gran Bretagna

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era stata una grande produttrice, ma non senza rivali. In effetti il suo peso di costruttore navale era stato dovuto non a una superiorità tecnologica, giacché i francesi dise­ gnavano navi migliori e gli Stati Uniti ne costruivano di molto migliori; di questo fanno fede i quasi costanti trionfi delle navi a vela americane nelle gare dei clippers che trasportavano cereali e in quelle degli yacht apparte­ nenti a gruppi di ricchissimi uomini d’affari. Nel periodo fra la conquista dell’indipendenza, e lo scoppio della guer­ ra civile, gli Stati Uniti svilupparono le loro costruzioni navali con un ritmo molto più veloce, guadagnarono co­ stantemente terreno nei confronti del tonnellaggio bri­ tannico, e nel 1860 lo avevano quasi raggiunto *. I costrut­ tori britannici beneficiavano, piuttosto, della grande im­ portanza della Gran Bretagna come potenza dedita ai tra­ sporti e ai traffici, e della preferenza degli spedizionieri britannici (anche dopo l’abrogazione delle leggi sulla na­ vigazione, fortemente protettive) per le navi costruite in patria. Il vero trionfo dei cantieri inglesi si ebbe con la nave in ferro e acciaio. Mentre il resto dell’industria bri­ tannica rimaneva indietro, i cantieri navali progredirono magnificamente: nel 1860, il tonnellaggio britannico era un po’ superiore a quello americano, sei volte maggiore di quello francese e otto volte di quello tedesco; nel 1890 era il doppio di quello americano, superava di dieci volte quello francese, ed era ancora circa otto volte superiore a quello tedesco. Ora, nessuno dei vantaggi della tecnica produttiva e dell’organizzazione moderna valeva per le navi, che era­ no costruite in gigantesche unità singole, con materiali in gran parte non standardizzati e un ampio uso dei più vari c qualificati tipi di manodopera. Le navi non erano più meccanizzate dei palazzi. D’altro canto, però, i vantaggi della specializzazione nella costruzione di piccole unità erano immensi, perché esse permettevano di raggiungere quei risultati a cui portano adesso, nelle aziende più gran* Nel 1800, il tonnellaggio britannico (incluso quello coloniale) era di 1.9 milioni, circa il doppio di quello americano; nel 1860 era di 5,7 milio­ ni contro i 2,4 milioni degli Stati Uniti.

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di, le suddivisioni sistematiche dei processi di lavorazio­ ne, risultati che certamente non avrebbero potuto essere conseguiti in altro modo nella fabbricazione di prodotti cosi complessi. Venivano inoltre moltiplicate le possibi­ lità, e minimizzati i costi delle innovazioni tecniche. Una azienda specializzata in ingegneria navale e operante in un mercato competitivo aveva ogni interesse a costruire mo­ tori migliori, né le costruzioni navali dovevano poi soffri­ re del fatto che le aziende specializzate negli impianti idri­ ci delle navi non tenevano il passo con le innovazioni da loro stesse apportate. Fu soltanto dopo la seconda guer­ ra mondiale, quando i vantaggi dell’integrazione erano di­ ventati molto più decisivi, che le costruzioni navali bri­ tanniche persero il loro primato. Nelle industrie in svilup­ po a carattere scientifico-tecnologico, settori in cui l’inte­ grazione e la produzione su larga scala sarebbero state al­ tamente redditizie, la situazione era tristemente diversa. La Gran Bretagna svolse un ruolo di pioniere nell’indu­ stria chimica e nell’invenzione dei colori a base anilinica, sebbene già negli anni ’40 del secolo scorso questo avve­ nisse in parte grazie al contributo della chimica accade­ mica tedesca. Ma nel 1913 la produzione britannica am­ montava soltanto all’r 1 per cento di quella mondiale (con­ tro il 34 per cento della produzione americana e il 24 per cento di quella tedesca), mentre le esportazioni tedesche erano il doppio di quelle britanniche e, cosa ancor più si­ gnificativa, rifornivano il mercato interno britannico del 90 per cento dei suoi coloranti sintetici. Inoltre, l’indu­ stria chimica britannica era basata largamente sull’inizia­ tiva di stranieri immigrati, come accadeva per l’azienda di Brunner-Mond, che divenne in seguito il nucleo delle Imperiai Chemical Industries. L’elettrotecnica fu, in teoria e in pratica, un campo in cui gli inglesi fecero da pionieri. Faraday e Clerk Max­ well ne gettarono le basi scientifiche, Wheatstone (inven­ tore del telegrafo elettrico) fu quello che rese possibile al padre d’epoca vittoriana che viveva a Londra di scopri­ re immediatamente se la figlia era scappata o no col bel­ l’uomo alto dai baffi neri e indossante un mantello milita­ re (per citare un’illustrazione dei vantaggi di questa in­

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venzione in un manuale tecnico dell’epoca)1. Swann co­ minciò ad occuparsi di una lampada a filamento di car­ bonio incandescente nel 1845, due anni prima della na­ scita di Edison. Tuttavia, nel 1913 la produzione dell’in­ dustria elettrica britannica arrivava a poco più di un ter­ zo di quella tedesca, e le sue esportazioni appena alla me­ tà. E, ancora una volta, furono gli stranieri a invadere la Gran Bretagna. L’industria nazionale fu iniziata e control­ lata da capitali stranieri, soprattutto americani, come fu il caso della Westinghouse, e quando nel 1905 si trattò di elettrificare la metropolitana di Londra e fu costruita la prima linea, l’impresa e i capitali furono in gran parte americani. Nessuna industria fu più britannica all’origine di quel­ la dei macchinari e delle macchine utensili. «L’innovazione cosi apportata, — scriveva nel 1853 a proposito delle macchine automatiche Sir William Fairbain, uno dei pionieri del campo, - e i miglioramenti in­ trodotti nel nostro macchinario da produzione sono della più alta importanza; ed è con piacere che aggiungo che questi miglioramenti sono dovuti a Manchester, sono sta­ ti messi a punto a Manchester, e da Manchester hanno avuto origine»3. Tuttavia in nessun altro campo come in questo gli altri paesi, e ancora soprattutto gli Stati Uniti, passarono in testa più decisamente. Già nel 1860 si guar­ dava ai progressi americani con una certa ansietà, anche se non ancora con vero timore. Ma negli anni ’90 del se­ colo, fu dagli Stati Uniti che parti la spinta all’introdu­ zione di macchine utensili e fu un americano, il colonnello 1 )yer, che guidò i datori di lavoro britannici associati nel loro tentativo (completamente fallito) di togliere all’ar1 igiano qualificato la forte posizione che deteneva nell’in­ dustria, e fu una società americana a raggiungere il mono­ polio del macchinario di fabbricazione nella prima indu­ stria di beni di consumo completamente meccanizzata, quella delle calzature. Il caso più triste fu forse quello dell’industria siderur­ gica, perché ne vediamo svanire la preminenza proprio quando il suo ruolo nell’economia britannica era più im­ portante e il suo predominio nel mondo era fuori discus­

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sione. Tutte le maggiori innovazioni nella fabbricazione dell’acciaio vennero dalla Gran Bretagna e si svilupparono in Gran Bretagna: il convertitore Bessemer (1856), che rese possibile la produzione di massa dell’acciaio, il forno Martin-Siemens (1867) che aumentò di parecchio la pro­ duttività, e il processo Gilchrist-Thomas (1877-78) che re­ se possibile l’impiego di tutta una gamma di nuovi mine­ rali nella fabbricazione dell’acciaio. Tuttavia, con l’ecce­ zione del convertitore, l’industria britannica fu lenta nell’applicare i nuovi metodi (Gilchrist-Thomas regalò assai piu benefici ai francesi e ai tedeschi che ai suoi connazio­ nali), e del resto quei metodi non riuscirono a tenere il passo coi miglioramenti successivi. Non soltanto la produ­ zione, ma anche la produttività britannica restò dietro a quella tedesca e americana nei primi anni ’90 del secolo scorso. Nel 1910, gli Stati Uniti producevano acciaio ba­ sico in misura doppia dell’intera produzione d’acciaio del­ la Gran Bretagna. Molto si è discusso su perché ciò sia accaduto. È indub­ bio che gli inglesi non seppero adattarsi alle nuove circo­ stanze. Invece, avrebbero potuto farlo. Non c’è motivo per cui l’istruzione tecnica e scientifica britannica sarebbe dovuta rimanere di valore trascurabile in un periodo in cui la serie di ricchi scienziati dilettanti e di laboratori di ricerca con esperienza pratica di produzione, sovvenzio­ nata con fondi privati chiaramente non bastavano più a bilanciare la virtuale assenza di istruzione universitaria e la debolezza di un addestramento tecnologico regolare. Niente costringeva la Gran Bretagna ad avere soltanto novemila studenti universitari contro sessantamila in Ger­ mania o soltanto cinque studenti diurni su diecimila (nel 1900) contro i quasi tredici degli Stati Uniti; né si vede perché la Germania dovesse laureare tremila ingegneri l’anno, mentre in Inghilterra e nel Galles soltanto trecentocinquanta si laureavano in tutti i rami della scienza, del­ la tecnologia e della matematica con diplomi di prima e seconda classe e solo pochi di questi erano qualificati per il lavoro di ricerca. Furono in parecchi, durante il secolo

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xix, a mettere in guardia il paese contro i pericoli della sua arretratezza nel campo dell’istruzione; non mancavano i fondi, e certamente neanche i candidati adatti a ricevere un addestramento tecnico piu elevato. Era senza dubbio inevitabile che le industrie pionieri­ stiche britanniche dovessero relativamente perdere terre­ no man mano che il resto del mondo progrediva nell’in­ dustrializzazione, e che il loro ritmo d’espansione decli­ nasse; ma non c’era bisogno che questo fenomeno pura­ mente statistico fosse accompagnato da una perdita asso­ luta di impeto e di energia. Ancor meno era inevitabile che la Gran Bretagna dovesse essere battuta dalla concor­ renza in industrie in cui non era partita né con i discuti­ bili svantaggi di aver cominciato per prima né con quelli altrettanto discutibili di essere arrivata tardi, avendo in­ vece iniziato sostanzialmente nello stesso tempo e allo stesso punto degli altri. Ci sono economie il cui ritardo può essere spiegato in termini di pura debolezza materia­ le: sono troppo piccole, hanno risorse troppo scarse, in­ sufficiente è la loro manodopera qualificata. La Gran Bre­ tagna non apparteneva certo a questo tipo di economie, eccetto nel vago senso che ogni paese della sua ampiez­ za e della sua consistenza demografica aveva, alla lunga, minori possibilità di sviluppo economico rispetto a paesi molto più vasti e più ricchi come gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Certamente, però, le sue possibilità non era­ no molto più limitate di quelle della Germania del 1870. La Gran Bretagna non si era adattata alle nuove con­ dizioni non perché non potesse, ma perché non volle far­ lo. La questione è: perché non volle? Una spiegazione sempre più popolare è quella sociologica, che dà la colpa alla mancanza (o al declino) di spirito di iniziativa negli uomini d’affari, al conservatorismo della società britanni­ ca, o a entrambi i fattori. Ciò ha per gli economisti il van­ taggio di caricare del peso di una spiegazione gli storici e i sociologi, che sono ancora meno capaci di sostenerlo, ma hanno esattamente la stessa disposizione a provarcisi. Ci sono varie versioni di simili teorie, tutte non convincenti, ma la più conosciuta dice pressappoco cosi: il capitalista britannico mirava ad essere infine assorbito nello strato

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superiore e socialmente più rispettato dei «gentlemen» o magari degli aristocratici, e quando c’era riuscito — e la gerarchia britannica era dispostissima ad accettarlo non appena avesse fatto il suo mucchio di denaro, che nelle contee più remote poteva anche essere modesto - cessa­ va di lottare. Come imprenditore mancava di quella spin­ ta costituzionale a mantenere un ritmo costante di pro­ gresso tecnico quasi solo per il gusto della cosa in se stes­ sa, che è ritenuta caratteristica degli industriali america­ ni. La piccola azienda a conduzione familiare, che era il tipo caratteristico dell’impresa, si ritrovava ad essere qua­ si impedita a raggiungere un’ampiezza eccessiva dal ti­ more che la famiglia ne perdesse il controllo. Di conse­ guenza ogni generazione diventava meno intraprendente e, trincerata dietro i poderosi bastioni dei profitti dei pri­ mi tempi, aveva meno bisogno di esserlo. C’è una parte di verità in queste spiegazioni. La sca­ la aristocratica dei valori, che includeva lo stato dilettan­ tesco e il non far vedere di sforzarsi troppo fra le quali­ tà del «gentleman» e inculcava questi criteri nelle «public schools » che indottrinavano i figli della sorgente clas­ se media, dominava su tutto. L’essere «in commercio» era senza discussione un terribile stigma sociale, anche se «commercio», in questo senso, significava la condizione dei piccoli bottegai molto più che una qualche attività in cui si poteva guadagnare molto denaro e quindi l’accetta­ zione sociale *. Il ricco capitalista poteva certamente, li­ berandosi delle sue rudezze provinciali e a partire dall’e­ poca edoardiana senza nemmeno arrivare al punto di ri­ formarsi l’accento, ottenere il suo cavalierato o la sua pa­ ria; e i suoi figli entravano a far parte della classe dalla vita comoda senza difficoltà di sorta. La piccola azienda familiare era quella che certamente predominava. I ba­ stioni del profitto erano veramente molto alti. A un uo­ * Fino a quando rimase effettivamente più ricca della classe media, l’aristocrazia non ebbe nemmeno bisogno di mitigare il suo disprezzo; e spesso continuò a essere molto ricca, localmente. A Cambridge (1867), i « gentlemen » e gli ecclesiastici lasciarono morendo proprietà del valore me­ dio di 1^00-2000 sterline; i professori dei colleges una media di 26 000 sterline ciascuno; ma gli uomini d’affari locali solo una media di 800 ster­ line, e i bottegai di 350.

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mo poteva toccare di dover lavorare duramente per en­ trare nella classe media, ma una volta che si trovava in un giro d’affari moderatamente fiorente poteva prender­ sela comoda, a meno che non avesse fatto qualche terri­ bile errore di calcolo o fosse capitato su un sentiero stra­ ordinariamente disgraziato nel corso di una recessione straordinariamente cattiva. La bancarotta era, secondo la teoria economica, la pena che toccava all’uomo d’affari inefficiente, e il suo spettro si aggira per i romanzi dell’e­ poca vittoriana,"ma in effetti i rischi di andar falliti erano scarsissimi, eccetto per l’uomo di risorse molto limitate come il piccolo bottegaio, o quello che lavorava ai margini dell’edilizia o negli strati inferiori di alcune industrie an­ cora dinamiche, come la metallurgica. Nell’Inghilterra edoardiana, in cui ci furono due anni di crisi, il fallimento di media portata fu per passivi non superiori a 1350 ster­ line. Il rischio di perdite a causa di fallimenti * diminuì costantemente durante gli ultimi trent’anni precedenti la prima guerra mondiale. Nelle industrie importanti, il ri­ schio era trascurabile. Cosi negli anni 1905-909 in cui si ebbe un periodo di depressione, su circa 2500 aziende co­ toniere ne andò fallita solo una media di undici l’anno, con una percentuale talvolta inferiore all’i per cento. Libero dallo spettro di ridursi all’indigenza e di inconirare l’ostracismo sociale - lo stesso orrore che ispirava il fallimento era un sintomo della sua relativa rarità — l’uomo d’affari inglese non aveva bisogno di lavorare mol­ lo. Frederick Engels potrà forse non essere stato un esem­ plare specifico, ma niente smentisce che fino a quando si ritirò a vita privata all’età di quarantanove anni con una * Valutazione delle perdite di creditori a causa di fallimenti in Inghilterra e nel Galles: media annua in sterline. 1884-1888 1889-1893 1894-1898 1899-1903 1904-1909

8 662 000 7 521 000 6 417 000 6 017 000 5 965 000

Va tenuto presente che il numero totale delle aziende aumentò certa­ mente durante questo periodo.

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cospicua rendita vitalizia per sé e per la famiglia Marx, abbia abbondantemente pesato sulla fiorente ditta Ermen e Engels, mercanti di cotone di Manchester, anche se tutti sanno che dedicò il minor tempo possibile al la­ voro nell’azienda. È ugualmente vero che l’attività economica britannica mancava di un qualche stimolo non economico all’inizia­ tiva; una nazione che abbia già raggiunto la vetta politi­ camente ed economicamente, e tenda a guardare al resto del mondo con autocompiacimento e un po’ di disprezzo, inevitabilmente si trova in quelle condizioni. Gli ameri­ cani e i tedeschi potevano sognare di rendere manifesto il loro destino; gli inglesi sapevano che esso si era già ma­ nifestato. Non c’è dubbio, per esempio, che a un desiderio nazionalistico di raggiungere gli inglesi sia stato in gran parte dovuto il sistematico rafforzamento tedesco dell’in­ dustria mediante la ricerca scientifica: furono gli stessi tedeschi a dirlo. Né si potrebbe ragionevolmente negare che il desiderio tipicamente americano di possedere l’e­ quipaggiamento meccanico di tipo più nuovo e più mo­ derno, mentre dà un impeto costante al progresso tecni­ co, è anche spesso, e forse nella maggior parte dei casi, piuttosto economicamente irrazionale all’origine. L’azien­ da media che installi oggi un complicato computer, ne trae un beneficio ancora minore di quello che ha un uo­ mo che sostituisca un rasoio elettrico alla semplice, pic­ cola, adattabile, poco costosa e in definitiva superiore, la­ metta da barba. Tuttavia, un’economia che faccia dei ca­ pitali e dei beni di consumo i simboli di una condizione sociale, forse perché non dispone di altri simboli, ha un indubbio vantaggio in fatto di progresso tecnico rispetto a un’altra che si regoli diversamente. Nondimeno, il valore di queste osservazioni è limita­ to, non fosse altro perché non sono valide per molti uomi­ ni d’affari britannici. Prima del secolo xx l’uomo d’affari britannico medio non era un «gentleman», e non diven­ ne mai né cavaliere, né pari, né proprietario di una casa di campagna. Era un’idea di Lloyd George che le città pro­ vinciali fossero «ripiene di spaventosi cavalieri». L’assor­ bimento dei figli di droghieri e di filatori di cotone nell’a­

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ristocrazia iu una conseguenza del diminuito dinamismo dell’attività affaristica britannica, e non la causa; e anche ai nostri giorni, il vero personale direttivo delle aziende di media grandezza (si tratta di quegli uomini che negli an­ ni 1860-90 sarebbero stati certamente proprietari-diretto­ ri) annovera non più di una persona su cinque che abbia frequentato l’università, e non più di una su quattro che sia stata in una public school, e in ogni caso non più di una su venti ha frequentato una di quelle circa venti pu­ blic school che vanno per la maggiore". Sociologicamente, l’incentivo ad accumulare denaro ra­ pidamente non fu per niente debole nella Gran Bretagna vittoriana, e l’attrattiva che esercitavano le classi dirigen­ ti locali e l’aristocrazia non fu affatto onnipotente, e que­ sto valeva soprattutto per le coorti di quei settentrionali e abitanti delle Midlands appartenenti alle classi medie, consapevoli e spesso anticonformisti (che è quanto dire deliberatamente antiaristocratici) che avevano la testa pie­ na di motti come «dove c’è concime c’è denaro» e anda­ vano positivamente orgogliosi dei loro successi produtti­ vi. Erano orgogliosi della fuliggine e del fumo di cui riem­ pivano le città in cui ammucchiavano denaro. Inoltre, nel secolo xix alla Gran Bretagna non era cer­ to mancato quel compiacimento acuto e irrazionale per il progresso tecnico in quanto tale, che siamo abituati a con­ siderare come caratteristico degli americani. Diffìcilmen­ te ci si potrebbe immaginare l’innovazione delle ferrovie, e tanto meno la loro costruzione, in un paese o da parte di una comunità affaristica che non fosse entusiasmata già per la loro pura e semplice novità tecnica; abbiamo visto infatti che le prospettive affaristiche delle ferrovie erano conosciute come relativamente modeste. È vero che la va* Sono cifre che si riferiscono al 1956. Possiamo assumere il criterio che l’assorbimento nella «classe superiore» avviene almeno in Inghilterra per aver frequentato una public school e una delle due antiche università, magari anche prescindendo dalla public school. Ma la cosa interessante è che nella tarda epoca vittoriana e in quella edoardiana entrò nel campo de­ gli affari una percentuale sempre maggiore di gente che aveva frequentato una public school, ma andò diminuendo la percentuale di quegli ex allievi che entravano nelle professioni esperte. L’etica della public school non scoraggiava l’accumulazione di denaro, ma solo il professionismo tecnolo­ gico e scientifico.

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sta letteratura di opere di scienza popolare e di tecnolo­ gia andò esaurendosi dopo gli anni ’50 del secolo scorso e che essa si era forse sempre indirizzata a un pubblico di «artigiani» ohi che alla classe media, cioè a quelli che vo­ levano o avrebbero voluto salire più che a quelli che era­ no già saliti. Tuttavia, erano proprio quelle le reclute del­ l’esercito borghese che avevano maggiori probabilità di sentirsi con il bastone da maresciallo nello zaino. E anco­ ra nella seconda metà del secolo ci fu tanta di quella gen­ te da bastare a fare la fortuna di Samuel Smiles, il bardo degli ingegneri. Il suo Self Help usci nel 1859. Nel giro di quattro anni se ne vendettero 55 000 copie. Il roman­ zo della tecnologia rimase abbastanza forte da far si che il 75 per cento dei ragazzi di almeno una grande public school degli anni ’8o del secolo scegliesse l’ingegneria. Quel ch’è più, erano evidenti dei settori dell’econo­ mia britannica per cui valevano ben poche delle lamente­ le di torpore e conservatorismo. C’erano le Midlands oc­ cidentali, la cui capitale era Birmingham: una giungla di piccole aziende che producevano soprattutto beni di con­ sumo - spesso merci metalliche durevoli - per il mercato interno. Le Midlands arrivarono in effetti a trasformarsi dopo il 1860, essendosi fatta sentire prima molto poco la rivoluzione industriale. Industrie vecchie e declinanti fu­ rono sostituite e talvolta subirono una trasformazione, co­ me a Coventry, dove si cessò di produrre tessili, ma gli oro­ logiai locali divennero il nucleo dell’industria delle bici­ clette e in seguito di quella motoristica. Se il Lancashire nel 1914 era visibilmente quello che era stato nel 1840, non poteva dirsi lo stesso del Warwickshire. C’erano in­ dustrie come settori delle sempre più importanti indu­ strie meccanica e metallurgica che rivelavano tutta la ri­ bollente instabilità della dinamica iniziativa privata come la configuravano i teorici; erano settori in cui gli uomini salivano e cadevano, ed erano in movimento. Mentre nel­ l’industria cotoniera andò fallita nel periodo 1905-909 soltanto una media di undici aziende l’anno, nello stesso periodo andò fallita una media di 390 aziende metallur­ giche; si trattava perlopiù di persone con scarsi mezzi che tentavano una produzione indipendente con risorse inade­

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guate. E c’erano parti dell’economia come le attività di­ stributive, in cui nessuno avrebbe potuto parlare di sta­ gnazione. Anche questi settori si basavano sul mercato in­ terno e non sulle esportazioni. Le spiegazioni Semplicemente sociologiche, quindi, non soddisfano. In ogni caso, per i fenomeni economici sono preferibili le spiegazioni economiche, quando possono aversi. Ce ne sono senz’altro parecchie, tutte basate taci­ tamente o apertamente sul presupposto che in un econo­ mia capitalistica (e comunque nelle sue versioni del seco­ lo xix ) gli uomini d’affari saranno dinamici solo fino al punto in cui ciò è richiesto dal criterio a cui si ispira l’a­ zienda individuale, che è quello di guadagnare il piu pos­ sibile, perdere il meno possibile, o forse semplicemente conservare quello che essa considera una soddisfacente ali­ quota di profitto a lungo termine. Ma dato che la raziona­ lità dell’azienda individuale è inadeguata, i suoi criteri possono non risolversi nel miglior vantaggio per l’econo­ mia del suo insieme o anche della stessa azienda. Ciò av­ viene in parte perché l’interesse dell’azienda e quello del­ l’economia possono arrivare a divergere dopo un breve o lungo periodo, in parte perché l’azienda individuale è in certa misura impotente a raggiungere gli obiettivi a cui mira, e in parte perché è impossibile per la contabilità del­ l’azienda individuale determinare quali siano i suoi mi­ gliori interessi. Tutti questi sono semplicemente modi differenti per esprimere la proposizione che un’economia capitalistica non viene pianificata, ma emerge da una mol­ titudine di decisioni individuali prese alla ricerca dell’in­ teresse individuale. La più comune, e forse migliore spiegazione economi­ ca della perdita di dinamismo dell’industria britannica è che essa fu il risultato «in definitiva del lungo sforzo ini­ ziale e senza precedenti sostenuto come potenza industria­ le»’. Questa spiegazione illustra le deficienze del mecca­ nismo dell’industria privata in più modi. L’industrializ­ zazione pionieristica avvenne naturalmente in condizioni speciali che non potevano essere mantenute, con metodi e tecniche che, per quanto progredite ed efficienti fossero in quell’epoca’, non potevano rimanere le più progredite

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ed efficienti, e l’industrializzazione creò un sistema di pro­ duzione e di mercati che non sarebbe necessariamente ri­ masto il più adatto a sostenere lo sviluppo economico e l’e­ voluzione tecnica. Inoltre, cambiare da un modello vec­ chio e antiquato a uno nuovo, era nello stesso tempo co­ stoso e difficile. Era costoso perché comportava sia l’eli­ minazione di vecchi investimenti ancora capaci di dare buoni profitti, sia nuovi investimenti dal costo iniziale ancora maggiore; infatti, come regola generale, tecnolo­ gia più nuova significa tecnologia più costosa. Era difficile perché avrebbe quasi certamente richiesto un accordo a razionalizzare le cose fra un gran numero di aziende o in­ dustrie individuali, che non potevano avere la certezza precisa di dove sarebbero arrivati i benefici della raziona­ lizzazione e nemmeno potevano sapere se nell’intraprenderla non avrebbero regalato denaro ai concorrenti. Fino a quando c’erano guadagni soddisfacenti da fare nel vec­ chio modo e fino a quando la decisione di modernizzare continuava a dipendere dalle decisioni complessive delle aziende individuali, l’incentivo a passare all’azione non poteva che essere debole. Quel ch’è più, si sarebbe con ogni probabilità perso di vista l’interesse generale dell’e­ conomia. L’industria britannica del ferro e dell’acciaio ci dà un buon esempio del primo effetto. I padroni di fabbriche siderurgiche furono lenti ad adottare il processo « basico » Gilchrist-Thomas perché potevano importare minerali non fosforici facilmente e a basso costo, e perché una gran parte dei capitali investiti negli impianti per la produzio­ ne di acciaio acido avrebbero perso il loro valore. Forse è vero che altre nazioni avevano un incentivo molto mag­ giore a passare all’acciaio basico, dato che ne avrebbero tratto maggiori vantaggi, mentre la Gran Bretagna pote­ va tutt’al più sperare di non rimetterci. Tuttavia, la sua lentezza a sfruttare adeguatamente il nuovo processo e insieme le sue proprie risorse di minerali fosforici fu in­ credibile. Se la Gran Bretagna degli anni ’20 del nostro secolo era in grado di produrre quasi cinque milioni di tonnellate di acciaio basico contro due milioni e mezzo del vecchio acciaio acido, perché non avrebbe potuto produr­

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ne, vent’anni dopo che un suo cittadino aveva inventato il processo, più delle 800 000 tonnellate che ne produs­ se (contro i più di 4 milioni di tonnellate di acciaio del vecchio tipo)? E perché i depositi di minerale fosforico dell’Inghilterra orientale non furono seriamente sfruttati prima degli ultimi anni ’30? La risposta è che pesanti in­ vestimenti in impianti antiquati e aree industriali supe­ rate ancoravano l’industria britannica a una tecnologia an­ tiquata. Le ferrovie e le miniere di carbone ci dànno un buon esempio del secondo effetto. Si possono riportare due casi. Nel 1893, Sir George Elliott, spaventato dalla serrata dei proprietari di miniere di carbone, suggerì la formazione di un trust per razionalizzare l’industria, dato che la conduzione indipendente di ognuna delle circa tre­ mila miniere causava notevoli inefficienze nello sfrutta­ mento di ciascun giacimento, per non parlare dell’insensa­ ta concorrenza. La risposta dei proprietari fu negativa, so­ prattutto perché quelli con miniere inefficienti non vole­ vano che la loro parte del trust fosse valutata e — come capivano bene — deprezzata, in base a criteri razionali. Non fu fatto niente del tutto. Il secondo caso fu quello delle ferrovie. Uno dei molti arcaismi delle ferrovie britanniche, come dell’intera eco­ nomia britannica, era che i carri adibiti al trasporto del carbone non soltanto erano troppo piccoli per essere effi­ cienti, ma appartenevano alle miniere e non alle compa­ gnie ferroviarie *. Da parecchio tempo tutti gli esperti sa­ pevano che le dimensioni più efficienti di un carro per tra­ sporto erano doppie di quelle dei carri allora in uso, e sa­ pevano quanto sarebbero state grandi le economie per­ messe da un cambiamento. Tanto le ferrovie quanto le mi­ niere, in ogni modo prima del 1914, avrebbero potuto re­ perire i capitali necessari. Tuttavia, siccome il cambiamen­ to avrebbe comportato una decisione di investire denaro da parte sia delle ferrovie sia delle miniere, niente fu fatto lino a quando tutte e due le industrie furono nazionaliz­ * Entrambe le cose erano reliquie del presupposto originario in base al quale furono costruite le ferrovie, e cioè che queste fossero semplicemente un altro tipo di strada.

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zate nel 1947. Le miniere non vedevano perché dovesse­ ro spendere denaro per avvantaggiare, fra le altre cose, la generale conduzione delle ferrovie; le ferrovie non vede­ vano perché dovessero accollarsi tutti i rischi di un inve­ stimento di cui anche le miniere si sarebbero avvantag­ giate. Esistono per una impresa privata certi modi in cui si­ mili problemi possono nondimeno essere risolti, anche se operano, per cosi dire, tangenzialmente e certamente non sempre. Abbiamo visto (pp. 117-23) come il problema della creazione di un’industria britannica produttrice di beni primari sia stato risolto nella prima epoca delle fer­ rovie, ma naturalmente quella di allora era una situazio­ ne eccezionalissima. La catastrofe totale può talvolta ve­ nire a rimettere sul suo piedistallo il capitalismo come successe in Germania dopo due guerre che distrussero un cosi gran numero di vecchi impianti, che fu semplicemente necessario costruirne di nuovi e moderni. La mi­ naccia di una catastrofe economica può anche provocare un fortissimo stimolo a spendere, per il rammodernamento, del denaro che altrimenti non sarebbe stato speso. E in effetti, durante la «grande depressione» (specialmente negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso) la evidente minac­ cia che incombeva sull’industria britannica e la situazio­ ne generalmente triste di quest’ultima fece parlare parec­ chio di rammodernamento, portò a forti pressioni da par­ te di una determinata industria che chiedeva che si mo­ dernizzassero le altre da cui dipendevano i suoi profitti, e infine portò a qualche iniziativa di rammodernamento. Abbiamo già parlato dell’ambizioso piano di Sir Geor­ ge Elliott per la razionalizzazione delle miniere di carbone, dovuto all’apparire di trade unions militanti, un fenome­ no caratteristico di questo periodo di depressione (cfr. p. 187). Un’altra industria, quella produttrice di gas, fu in effetti, spinta dalla pressione delle trade unions a di­ venire quella in via di piu rapida meccanizzazione in Eu­ ropa. Le ferrovie subirono, specialmente fra il 1885 e il 1894, la pressione dei loro clienti industriali e degli uo­ mini politici, che esigevano una riduzione dei costi di tra­ sporto, sicché furono apportati dei cambiamenti, impor­

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tanti ma sempre inadeguati; per esempio, la Great West­ ern installò finalmente un nuovo binario nel 1892. L’e­ voluzione tecnica nel campo dell’ingegneria procedette con velocità notevolmente accelerata, anche se in parte sotto la pressione non della concorrenza economica, ma di quella militare; era cioè pungolata dalla rapida espan­ sione e dal rammodernamento dell’industria degli arma­ menti navali. Questo fu anche il periodo in cui si discus­ se molto di unioni industriali - cartelli, trust, e simili e in cui si ebbero effettivamente delle concentrazioni del genere ". Comunque, rispetto ai livelli americani e tede­ schi, tali cambiamenti furono relativamente modesti, e la spinta a intraprenderli venne ben presto meno. La gran­ de depressione non fu purtroppo tanto grande da spaven­ tare l’industria britannica fino a spingerla a un mutamen­ to sostanziale. La ragione fu che i metodi tradizionali di conseguire profitti non erano ancora esauriti, e continuarono a for­ nire una conveniente e meno costosa alternativa alla mo­ dernizzazione, almeno per qualche tempo. Alla Gran Bre­ tagna, ritiratasi nel mondo satellite delle colonie ufficiali e non ufficiali, l’affidarsi alla sua crescente forza di serba­ toio dei prestiti, del commercio e delle transazioni inter­ nazionali, sembrò una soluzione tanto più ovvia in quan­ to essa si presentava, per cosi dire, da sola. Le nubi degli anni ’80 e dei primi anni ’90 del secolo scorso si dirada­ rono, e quello che si offriva agli occhi erano i meravigliosi pascoli delle esportazioni di cotone in Asia, delle esporta­ zioni di carbone per le navi di tutto il mondo, delle mi­ niere d’oro di Johannesburg, delle tranvie argentine, e dei profitti delle banche mercantili della City. In sostan­ za, quello che accadde fu quindi che la Gran Bretagna esportò nel mondo sottosviluppato gli immensi vantaggi * La Salt Union nell’industria chimica, il monopolio dei cucirini da parte della J. & P. Coats e quello della Bradford Dyers Association nei tes­ sili, il monopolio dell’International Rail Syndicate (la Gran Bretagna pos­ sedeva i due terzi delle sue azioni) sono fra gli esempi meglio conosciuti di posizioni monopolistiche a cui si era giunti in questo periodo, ma il sor­ gere di grosse unità integrate nel campo degli armamenti e delle costru­ zioni navali (per esempio Armstrong, Whitworth e Vickers) e in altri set­ tori fu forse di importanza maggiore.

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storici, accumulati, trovandosi ad essere la piu grande po­ tenza commerciale e la più grande fonte di prestiti inter­ nazionali; inoltre disponeva della riserva data dallo sfrut­ tamento della «protezione naturale» del mercato interno e, in caso di bisogno, poteva godere della « protezione ar­ tificiale» consentitale dal controllo politico su un vasto impero. Quando si trovava di fronte dei rivali, era per essa più facile e meno costoso ritirarsi in una di quelle parti non ancora sfruttate di queste zone favorite, piut­ tosto che affrontare la concorrenza su un piano di parità. Cosi l’industria cotoniera si limitò, quando era in difficol­ tà, a continuare nella sua politica di abbandonare l’Euro­ pa e il Nordamerica per l’Asia e l’Africa, lasciando i suoi mercati agli esportatori di macchinari tessili britannici, che contribuivano per un quarto alle esportazioni di mac­ chinario del paese, in continuo aumento. Grazie a queste esportazioni, il carbone britannico fluiva rapidamente sul­ la via delle navi a vapore e della grande flotta mercantile britannica. Il ferro e l’acciaio poggiarono sull’impero e sul mondo sottosviluppato, come il cotone: nel 1913, Ar­ gentina e India da sole erano arrivate a importare ferro e acciaio in misura più che doppia rispetto a quella degli Stati Uniti. In aggiunta, l’industria dell’acciaio tese, co­ me il carbone, a fare sempre maggiore affidamento sulla protezione accordata al mercato nazionale. L’economia britannica nel suo insieme fu portata a ri­ tirarsi dall’industria verso il commercio e la finanza, dove i servizi resi ai concorrenti attuali e futuri rinforzarono questi ultimi di parecchio, ma consentivano profitti mol­ to soddisfacenti. Gli investimenti annuali della Gran Bretagna all’este­ ro cominciarono a superare effettivamente la sua forma­ zione di capitali netti in patria intorno al 1870. Quel che più importa, le due cose diventarono sempre più alterna­ tive, fino a che nell’epoca edoardiana accadde che gli in­ vestimenti domestici diminuirono quasi senza interruzio­ ne e salirono invece corrispondentemente quelli all’este­ ro. Nel grande «boom» (1911-13) che precedette la pri­ ma guerra mondiale, gli investimenti all’estero furono doppi o anche di più rispetto a quelli in patria; ed è stato

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sostenuto, non senza fondamento, che l’ammontare del­ l’accumulazione di capitali interni nei venticinque anni precedenti al 1914, lungi dal poter consentire la moder­ nizzazione dell’apparato produttivo britannico, non era nemmeno sufficiente ad impedire che diventasse lenta­ mente meno efficiente. Quella britannica, possiamo dire, stava diventando un’economia parassitaria piu che competitiva, vivendo al­ la meno peggio fra quanto le rimaneva del monopolio mondiale, dei mercati del mondo sottosviluppato, delle sue accumulazioni di ricchezza e del vantaggio che aveva sui suoi rivali. Questa, in ogni caso, era l’opinione degli osservatori intelligenti, fin troppo consapevoli di come il paese stesse relativamente declinando e perdendo d’im­ portanza, anche se le loro analisi erano spesso insufficien­ ti. Inoltre, specialmente nell’estate di san Martino del­ l’Inghilterra edoardiana, il contrasto fra l’esigenza di mo­ dernizzazione e il prospero compiacimento dei ricchi di­ venne sempre più visibile. La Gran Bretagna, cessando di essere l’officina del mondo divenne, come rilevava il de­ luso democratico ed ex fabiano William Clark, il miglior paese in cui esser ricchi e vivere una vita comoda: un po­ sto adattissimo per milionari stranieri che volessero com­ prarsi delle proprietà: Situata com’è vicino alle terre storiche d’Europa... con le navi di tutto il mondo che attraccano ai suoi porti, con una società antica e bene organizzata, un governo sicuro, con ab­ bondanza dei servizi personali desiderati dai ricchi, con una terra dal clima costante, un paesaggio piacevole se non gran­ dioso, una vita di vasto respiro organizzata per il diporto, i divertimenti'e quel tipo di piaceri che sono graditi dalle classi benestanti, come può l’Inghilterra non esercitare un’attrattiva sulla gente ricca che parla la sua lingua? 5.

Chatsworth e Stratford-on-Avon, egli predisse, non Sheffield e Manchester, avrebbero attratto lo straniero in Gran Bretagna. Essa aveva cessato di competere con i te­ deschi e gli americani. Ma sarebbe durata? I profeti già predicevano, e non avevano torto, il declino e la caduta di un’economia che era ormai simbolizzata dalla casa di cam-

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pagna nella fascia controllata dalle agenzie immobiliari nel Surrey e nel Sussex e non più da uomini dal viso duro in città provinciali piene di fumo. «Roma è caduta, - di­ ceva un personaggio di Misalliance (1909) di Bernard Shaw, - Cartagine è caduta; verrà il turno di Hindheard». Come quasi sempre quando scherzava, Shaw parlava sul serio. Si avvertiva poi, specie negli ultimi anni precedenti la prima guerra mondiale, un’atmosfera di disagio, di di­ sorientamento, di tensione, che è in contrasto con l’im­ pressione giornalistica di una stabile belle epoque fatta di signore con piume di struzzo, case di campagna e stel­ le del music-hall. Quelli furono non soltanto gli anni che videro il sorgere improvviso del partito laburista come forza elettorale *, la radicalizzazione della sinistra sociali­ sta, e i cespugli bruciati in occasione delle «agitazioni» delle classi lavoratrici, ma furono anche anni di collasso politico. In effetti, furono i soli anni in cui lo stabile e flessibile meccanismo nella struttura politica britannica cessò di funzionare, e in cui le ossa nude della forza emer­ sero dalla massa di tessuti che normalmente le tenevano nascoste. Furono gli anni in cui i Lord sfidarono i Comu­ ni, in cui un’estrema destra non semplicemente ultracon­ servatrice ma nazionalista, arrabbiata, demagogica e an­ tisemita sembrò lavorare a viso aperto. Furono infine gli anni in cui gli scandali e la corruzione finanziaria misero in crisi i governi, e in cui - cosa più grave di tutte - gli ufficiali dell’esercito, spalleggiati dal partito conservatore, si ribellarono a leggi approvate dal parlamento. Fu­ rono gli anni in cui scoppi di violenza turbarono l’atmo­ sfera inglese, sintomi di una crisi nell’economia e nella so­ cietà che l’opulenza di hotel come il Ritz, dei palazzi pro­ consolari, dei teatri del West End, dei grandi magazzini e dei grandi fabbricati adibiti a uffici non riuscivano a na­ scondere. Quando la guerra arrivò nel 1914, non si trai* Questo fu dovuto, come sappiamo, soprattutto alla decisione del par­ tito liberale di non contrastare i candidati laburisti in certi luoghi, ma, co­ me la rapida concessione dell’indipendenza ai paesi coloniali, non si trattò di una graziosa concessione, bensì di un riconoscimento della realtà, o, quanto meno, di una sua intelligente anticipazione.

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tò di una catastrofe che minava lo stabile mondo borghe­ se cosi come la morte improvvisa del capofamiglia di­ struggeva la vita di rispettabili famiglie nei romanzi vitto­ riani. Arrivò come una tregua nella crisi, una diversione, forse addirittura una specie di soluzione. In ogni caso, vi fu una parte di isterismo nel benvenuto con cui l’ac­ colsero i poeti.

1 Clapham, Checkland, Landes, Ashworth (Letture ulteriori, n. 3), *c. kindleberger, Economie Growth in France and England 1870-19^0, 1964; h. j. abbakuk, American and British Techno­ logy in the 19th Century, 1962, possono servire da introduzioni a una complessa discussione. Per una trattazione a sfondo marxi­ sta, cfr. M. h. dobb, Studies in the Development of Capitalism, 1946. The Strange Death of Liberal England, di George dangerfield, rimane un eccellente esame del malessere nel periodo pre­ cedente il 1914. d. h. aldcroft, The Enterpreneur and the Brit­ ish Economy 1870-1914 («Economie History Review», 1964) contiene riferimenti alla letteratura specializzata. Cfr. G. c. allen, Industrial Development of Birmingham and the Black Country, 1929, a proposito di una dinamica regione. Cfr. anche i diagrammi, 1,14,18,19,23, 29, 31, 35-37,40, 54-55. 2 a. ure, Dictionary of Arts, Manufacturers and Mines, 1853, vol. I, p. 626. 3 Ibid., vol. II, p. 86. ' a. h. j. habbakuk, American and British Technology cit., p. 220. 5 William Clarke, a cura di H. Burrows e J. A. Hobson, 1899, PP- 53-54-

IO. La terra (1850-1960)1

Dopo la metà del secolo xix, l’agricoltura britannica cessò di costituire l’intelaiatura generale dell’intera eco­ nomia, e divenne semplicemente uno dei settori della pro­ duzione, qualcosa come un’industria, anche se natural­ mente si trattava dell’industria più vasta in termini di manodopera impiegata. Nel 1851 essa dava lavoro a una manodopera superiore di tre volte a quella delle industrie tessili; in effetti impiegava circa un quarto dell’intera po­ polazione attiva, e ancora nel 1891 contava una forza di la­ voro superiore a quella di qualsiasi altro gruppo industria­ le, anche se nel 1901 fu superata dal complesso della in­ dustria dei trasporti e di quella metallurgica. Negli anni ’30 del nostro secolo era ormai diventata un fattore d’im­ portanza senz’altro minore. L’agricoltura dava lavoro a circa il 5 per cento della popolazione attiva, e produceva meno del 4 per cento del reddito nazionale. Essa merita comunque una speciale attenzione per due motivi (a parte il fatto che ha sempre ricevuto una spe­ ciale attenzione nei libri di storia economica). Primo, per­ ché agli occhi di chiunque, eccetto che degli economisti accademici, non si trattava puramente e semplicemente di uno dei vari tipi di industria. In termini di area occu­ pata, e dal punto dell’assetto esterno, la maggior parte della Gran Bretagna rimase di gran lunga, e in effetti ri­ mane ancora, un luogo dove crescono le piante e si nu­ trono gli animali. In termini sociali, l’agricoltura costi­ tuì il fondamento e la struttura di un’intera società, risa­ lente all’antichità più remota, che poggiava sull’uomo che lavorava la terra ed era governata dall’uomo che posse­

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deva la terra. Mentre il primo non aveva una grande im­ portanza politica, il secondo l’acquisi una volta che l’agri­ coltura cessò di essere l’occupazione della gran massa del­ la popolazione. La struttura politica e sociale della Gran Bretagna era controllata dai proprietari terrieri, e ciò che più conta, da uno sparuto gruppo di circa quattromila per­ sone che si dividevano qualcosa come i quattro settimi della terra coltivata, e che affittavano a 250 000 agricol­ tori i quali a loro volta impiegavano — prendo il 1851 co­ me data indicativa - circa 1 250 000 braccianti, pastori e cosi via. Un tale grado di concentrazione della proprietà terriera non aveva esempi in altri paesi industriali. Inol­ tre, le persone più ricche della Gran Bretagna continua­ rono ad essere per buona parte del secolo xix i grandi pro­ prietari terrieri *. Essi naturalmente erano tutti impegna­ ti a conservare sia la loro posizione economica sia la loro posizione sociale e politica. La loro tradizionale influenza e la preminenza che avevano in campo politico nazionale faceva del loro interesse il più formidabile fra gli interessi acquisiti. Fino al 1914 le «contee» poterono facilmente avere in parlamento la maggioranza rispetto ai «borghi»: ossia, sebbene con eccezioni che andavano via via facendo­ si più numerose, la Gran Bretagna non industriale aveva un numero di rappresentanti maggiore di quello della Gran Bretagna industriale. I proprietari terrieri continua­ rono ad avere la maggioranza assoluta in parlamento fino al 1885. Il secondo motivo che induce a rivolgere un’attenzio­ ne speciale all’agricoltura è che le sue fortune riflettono, sia pure in una forma esagerata e distorta, quella dell’e­ conomia nel suo complesso o, meglio, i mutamenti che si verificano nella politica economica nazionale. Questo, in parte, perché l’agricoltura è più sensibile di altri settori all’intervento o al non intervento del governo, e in parte perché, per questo motivo e per quelli menzionati in pre­ cedenza, essa ha addentellati che la legano costantemente alla politica. L’agricoltura, con la politica del libero scam­ * Anche se alcuni, come i Baring, i Jones Lloyd e i Guest erano dei ca­ pitalisti diventati proprietari acquistando le terre.

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bio, rifletté il trionfo dell’economia britannica nel mondo e ne anticipò il declino. L’agricoltura, nell’economia del medio secolo xix in cui si è avuto l’intervento dello stato, dimostrò in modo più convincente di altre industrie le possibilità della modernizzazione economica. L’agricoltura britannica era fiorita con la rivoluzione industriale, o più precisamente con la illimitata espansio­ ne della domanda di generi alimentari da parte dei settori urbani e industriali. Essa godeva in pratica di un mono­ polio naturale di questo mercato, perché i costi dei tra­ sporti resero impossibile fino al terzo venticinquennio del secolo xix importazioni di generi alimentari che non fos­ sero soltanto marginali. Inoltre, se l’agricoltura britanni­ ca non era in grado di nutrire la popolazione in circostan­ ze normali, niente altro poteva farlo, e i prezzi dei pro­ dotti agricoli erano quindi alti, sicché gli incentivi che in­ ducevano a investire nell’agricoltura, e i mezzi necessari, non mancavano. Le leggi sui cereali che l’interesse agra­ rio impose al paese nel 1815, non erano volte a salvare un settore in crisi dell’economia, ma piuttosto a preservare i profitti eccezionalmente alti degli anni delle guerre napo­ leoniche, e a salvaguardare gli agricoltori dalle conseguen­ ze della loro temporanea euforia del tempo di guerra, quando i terreni erano passati da una mano all’altra a prez­ zi elevatissimi ed erano stati accettati prestiti e ipoteche a condizioni impossibili. Di conseguenza, come abbiamo visto, l’abolizione delle leggi sui cereali nel 1846 non por­ tò in effetti ad alcuna riduzione nei prezzi del frumento per tutta un’altra generazione *. La recessione postnapoleonica, quindi, nascose quella * Prezzi medi annuali dei prodotti agricoli e industriali per decade (in­ dice di Rousseaux). Agricoltura Industria 1810-19 1820-29 1830-39 1840-49 1830-39 1860-69

173 128 124 120 113 118

173 117 103 100 in 117

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che era la forza reale dell’agricoltura britannica, tanto piu in quanto scoraggiò gli investimenti agrari e il progresso tecnico. Nei favorevoli decenni di mezzo del secolo xix il progresso fu per converso e in modo corrispondente ra­ pido e impressionante. Per una intera generazione tutto andò a vantaggio dell’agricoltura britannica (ma non del contadino irlandese). I capitali non mancavano, i nuovi mezzi di trasporti ampliarono i mercati dell’agricoltura anche se non quelli dei concorrenti d’oltremare, nuove no­ zioni scientifiche (come quelle dovute alle ricerche di Lie­ big nel campo della chimica agricola) si resero disponi­ bili, e l’insaziabile domanda di manodopera non qualifica­ ta da parte dell’industria restrinse i quadri della popola­ zione agricola e spinse l’agricoltura, forse per la prima volta in molte parti di Inghilterra, sia a pagare salari piu alti sia a cercare metodi che permettessero di risparmiare manodopera *. Per la prima volta l’agricoltura arrivò a di­ pendere non da mezzi capaci di infrangere la struttura ri­ gida dell’agricoltura contadina tradizionale, e nemmeno dall’applicazione di quel buon senso che gli agricoltori mi­ gliori avevano acquisito a spese dei peggiori, ma dall’im­ piego delle tecniche industriali, del macchinario, di ferti­ lizzanti e di generi alimentari artificiali. Tuttavia, quell’epoca d’oro non poteva durare. Essa era minacciata da due potenti fattori: la necessità che aveva l’economia industriale britannica di importare massiccia­ mente in modo che i suoi clienti potessero acquistarne le esportazioni, e la capacità dei nuovi territori di vendere a prezzi minori dell’agricoltura britannica persino sul mer­ cato interno britannico. Occorse una generazione di stra­ de ferrate e di navi a vapore per creare un’agricoltura suf­ ficientemente ampia nelle praterie vergini del mondo tem­ perato: il Middle West americano e canadese, le pampas delle terre del Rio de la Piata, e le steppe russe. Quando queste aree furono in grado di sfruttare pienamente il lo­ * Fra il 1851 e il 1861, sette contee inglesi registrarono perdite di po­ polazione in termini assoluti: Wiltshire, Cambridge, Huntingdonshire, Norfolk, Rutland, Somerset e Suffolk; lo stesso capitò fra il 1871 e il 1891 ad altre cinque (Cornwall, Dorset, Hereford, Shropshire, West­ morland).

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ro potenziale produttivo, niente potè proteggere da esse gli agricoltori britannici, che producevano a costi alti, se non alte tariffe doganali; e mentre altri paesi europei fu­ rono inclini ad applicarle, la Gran Bretagna tenne un com­ portamento opposto. Gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso furono un’epoca di crisi generale per l’agricoltura: in Eu­ ropa a causa dell’inondazione di generi alimentari impor­ tati a buon mercato *, e nelle nuove regioni produttrici d’oltremare a causa dell’eccessiva produzione e della ra­ pida caduta dei prezzi. L’agricoltura britannica era tan­ to piu vulnerabile in quanto aveva aumentato la coltiva­ zione dei suoi prodotti tradizionali e meno competitivi, come i cereali per il pane, e specialmente il frumento. La grande depressione causò quindi una crisi acuta sia nell’agricoltura britannica sia negli interessi agrari. Po­ teva sopravvivere soltanto chiudendo le porte al mondo esterno rivale o adeguandosi alle condizioni in cui si sareb­ be trovata dopo aver perso il monopolio industriale. La prima scelta non era piu possibile, ed è significativo che sia stato un governo conservatore, quello di Disraeli, che era giunto a capeggiare il partito opponendosi al libero scam­ bio, a prendere la rivoluzionaria decisione di non proteg­ gere l’agricoltura britannica in quel periodo di turbolen­ to scontento che investi tutto il continente negli anni 1878-80. Le fortune dell’economia dipendevano chiaramente dal­ la sua industria, dal suo commercio e dalla sua finanza che, cosi si pensò, avevano bisogno del libero scambio. Se l’a­ gricoltura crollava, tanto peggio per essa. I grandi pro­ prietari terrieri non erano disposti a far altro che avanza­ re una formale protesta, perché il loro reddito, anche se non proveniva ancora da fonti diverse come le proprietà urbane, le miniere, l’industria e la finanza, poteva però * Importazioni di frumento nel Regno Unito (in migliaia di tonnel­ late). 1840-44 1985 1865-69 7405 1870-74 9 890 2470 1845-49 4110 13 010 1850-54 1875-79 r88o-84 14 400 3990 1855-59 1860-64 1885-89 14 030 7205

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essere salvaguardato ricorrendo a quelle fonti. Il conte di Verulam, per esempio, aveva negli anni ’70 del secolo scorso un reddito di circa 17000 sterline (che di solito non gli bastavano) delle quali 14 500 provenivano da ca­ noni d’affitto e vendite di legname. Suo figlio, il terzo con­ te, estese il .suo piccolo patrimonio azionario a qualcosa come quindici società, soprattutto nelle colonie e in altri territori d’oltremare, e divenne un pluridirettore di socie­ tà, anche queste società minerarie africane e americane. Nel 1897 quasi un terzo del suo reddito proveniva da que­ ste fonti niente affatto bucoliche. Inoltre, per quanto po­ tesse sembrare strano e in contrasto col tono lamentoso dei contemporanei, non tutta l’agricoltura britannica crol­ lò. I cereali e la lana soffrirono, ma non cosi l’allevamen­ to del bestiame e l’industria del latte e derivati; e in ge­ nere quel tipo di agricoltura mista che gli scozzesi si era­ no dati per loro fortuna a causa del loro clima, non si tro­ vò in difficoltà. Nel campo agricolo e in quello industriale, la grande depressione fu un momento di verità per la Gran Breta­ gna e in entrambi i casi la verità, che era stata lasciata brillare per un attimo, fu di nuovo scacciata. Invece di far fronte alla propria situazione che ne faceva un paese come un altro in un mondo dominato dalla concorrenza, la Gran Bretagna si ritirò dietro i bastioni che le offrivano ancora una certa protezione naturale, abbandonando la coltiva­ zione dei cereali per l’allevamento del bestiame, special­ mente da latte, e la produzione di carne di qualità scaden­ te (in cui la refrigerazione violò l’immunità del produtto­ re interno dopo gli anni ’80 del secolo), per la produzio­ ne di alta qualità. Nello stesso modo, alla fattoria suben­ trarono il frutteto e l’orto. Nell’epoca edoardiana l’agri­ coltura sembrava essere ridiventata relativamente stabile, anche se alcuni dei suoi profitti erano dovuti a una dimi­ nuzione delle spese di manutenzione e di investimento. La discesa dei prezzi nel periodo fra le due guerre dimostrò che quel recupero era illusorio. Esso era stato in ogni caso raggiunto a costo di una forte contrazione dell’agricoltu­ ra, e specialmente delle zone coltivate. Nel 1872, nel pe­ riodo migliore dell’epoca d’oro, 9,6 milioni di acri erano

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coltivati a cereali, e 17,1 milioni erano destinati a pastu­ ra. Nel 1913 i cereali occupavano 6,5 milioni di acri con­ tro i 25,5 milioni delle terre a pastura; nel 1932 (quando la depressione del periodo delle due guerre toccò il fon­ do), le cifre furono rispettivamente di 4,7 e 20,3 milioni. In altre parole, la superficie coltivata a cereali s’era dimez­ zata in sessant’anni, e dopo il 1913 diminuì l’area com­ plessiva destinata alla coltivazione e ai pascoli. Questi tristi dati contrastano con le fortune di altri paesi europei che furono ugualmente colpiti dalla depres­ sione degli anni ’70 e ’80 del secolo, ma riuscirono a com­ batterla con mezzi diversi dall’evasione. Un esempio ov­ vio è quello della Danimarca, che cominciò a rifornire le tavole britanniche con pancetta e uova verso la fine del secolo xix. La forza di queste comunità agricole moder­ namente orientate consiste non tanto in grandi trasfor­ mazioni tecnologiche della produzione, quanto nei mu­ tamenti apportati alla lavorazione, alla conservazione, al­ la vendita e al credito, e specialmente nel diffondersi della cooperazione. Sotto la pressione della crisi i metodi coope­ rativistici si svilupparono rapidamente dappertutto, eccet­ to che in Gran Bretagna *. La verità era che, come in tanti altri campi dell’attività britannica, la struttura economica pionieristica, ammirevolmente adatta ai suoi scopi nelle fasi iniziali, era diventata un ostacolo a ulteriori progressi. La forza dell’agricoltura britannica nei secoli xvm e xix stava nella concentrazione della proprietà terriera nelle mani di pochi ricchissimi padroni, disposti a inco­ raggiare gli affittuari con la durata dei contratti, capaci di affrontare forti investimenti, e di accollarsi nei tempi cat­ tivi almeno una parte delle perdite riducendo i canoni o lasciando che gli arretrati si accumulassero ** . Questo cer­ tamente allentò la pressione sugli agricoltori durante gli * Un osservatore contemporaneo descrive lo stato della cooperazione agricola in Gran Bretagna esclusa l’Irlanda intorno al 1900 come «un sem­ plice foglio bianco», punteggiato da nuovi fallimenti2. ** Essi frequentemente non avevano altra scelta, dato che qualunque tipo di affittuario era meglio che niente. A differenza dei paesi rurali, la Gran Bretagna non aveva una grande riserva di piccoli coltivatori affamati di terre che lavorassero piccoli appezzamenti con l’aiuto dei familiari. I la­ voratori agricoli volevano buoni salari, non terre.

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anni della grande depressione, e mantenne bassa la tempe­ ratura politica, eccetto, cosa abbastanza caratteristica, nel­ le poche regioni con piccoli coltivatori affittuari come le montagne della Scozia e del Galles, e naturalmente dell’Irlanda, dove gli anni ’80 del secolo furono un periodo di acuto malcontento, talvolta a carattere rivoluzionario. Nello stesso tempo, il malcontento rese rivoluzionari nuo­ vi settori meno essenziali per la sopravvivenza collettiva. D’altro canto, la struttura essenzialmente individualistica delle relazioni fra il proprietario e l’affittuario, il coltiva­ tore e il commerciante, non incoraggiava l’azione colletti­ va. Riassumendo, il grande proprietario capitalista, che era stato un tempo un elemento favorevole al progresso, si limitava adesso ad assorbire i colpi; il grosso coltivato­ re orientato in senso commerciale, che come unità nell’ambito di un’agricoltura efficiente era stato un tempo netta­ mente superiore al contadino (pioniere o no che fosse) il quale si valeva del lavoro dei familiari, si trovava ad es­ sere ormai troppo piccolo per toccare il massimo dell’efiicienza, ma era troppo grosso e ben sistemato per subor­ dinarsi a un’organizzazione cooperativistica capace di ope­ rare su scala piu ampia. Nessuna alternativa poteva porsi fra la fattoria individuale e l’intervento e la pianificazione statali. Infine lo stato si fece avanti. Ma prima che si fosse de­ ciso, il fallimento dell’agricoltura britannica aveva causa­ to nella società tecnica britannica un cambiamento fonda­ mentale le cui ripercussioni si fecero sentire ben oltre le aree rurali. La vecchia aristocrazia e la vecchia classe diri­ gente locale abdicarono. Vendettero le loro terre, e per ef­ fetto del temporaneo boom seguito al 1914, trovarono ab­ bondanza di acquirenti fra gli affittuari-coltivatori che comprarono per sé quelle case di campagna che erano il distintivo del loro successo sociale. Nei primi anni ’70 del secolo, circa il io per cento dei fondi rustici inglesi erano proprietà di coltivatori diretti; nel 1914 la percentuale non era aumentata di molto, ma nel 1927 era salita al 36 per cento (dopo di allora la crisi agricola arrestò per qual­ che tempo ulteriori trasferimenti di terre). «Esattamente un quarto dell’Inghilterra e del Galles, — scrive F. M. L.

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Thompson, — è quindi passata dalla condizione di terra in affitto a terra posseduta dai coltivatori nei tredici anni do­ po il 1914... Un cosi enorme e rapido trasferimento non si era visto da quando erano state distribuite le proprietà dei monasteri nel secolo xvi », e forse dai tempi della con­ quista normanna3. È curioso tuttavia che questa reale ri­ voluzione nella proprietà terriera sia passata quasi inos­ servata quando si verificò, eccetto che da parte di quella piccola percentuale della popolazione impegnata nell’agri­ coltura e nel mercato fondiario. Questo accadde malgra­ do la lotta svolta dai radicali (con maggior successo nella città che nelle campagne), contro i danni di un monopolio terriero aristocratico perdurante da generazioni, e mal­ grado che ancora nel periodo 1904-14 il governo liberale, e in particolare il suo gallese cancelliere dello Scacchie­ re, Lloyd George, avesse fatto della sua campagna contro i nobili la pietra angolare della sua demagogia. Senza dubbio, il fatto che l’effettiva ritirata dell’aristo­ crazia terriera non abbia causato scalpore, fu in gran par­ te dovuto alla scarsa importanza che le rivendicazioni agra­ rie avevano per la gran massa della classe operaia britan­ nica, assillata da preoccupazioni piu urgenti, specialmen­ te durante e dopo la prima guerra mondiale. Erano d’al­ tronde rivendicazioni su cui era notoriamente facile deci­ dere, e che erano notoriamente lente a provocare l’azio­ *. ne L’errore di calcolo di Lloyd George consiste nella convinzione che una questione capace di sollevare genui­ ne passioni nella società contadina del Galles del Nord potesse per lungo tempo deviare dal suo corso un movi­ mento di operai industriali. Tuttavia c’era altro oltre alla mancanza d’interesse per la ‘trasformazione rurale della Gran Bretagna. Si verificava il fatto che le classi terriere stavano cessando di avere un’importanza nazionale. Il no­ bile dei tempi andati stava diventando una specie di abi­ * La nazionalizzazione della terra è la prima delle rivendicazioni di questo genere, ma nessun governo, compresi quelli laburisti, ha mai fatto una mossa in quella direzione, né la solita discussione annuale dei congres­ si delle trade unions è mai arrivata a condannare l’usanza dei cottages vin­ colati. La richiesta che gli affittuari avessero il diritto di riscattare il con­ tratto comperando le terre è emersa periodicamente in politica dopo gli anni ’80 del secolo scorso. Rimase insoddisfatta fino agli ultimi anni ’60.

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tante delle foreste, senza un potere politico, proprio co­ me era da lungo tempo il gentiluomo di campagna. Colo­ ro che non avevano capitali azionari e non si videro offer­ te quelle sinecure amministrative care ai malleabili ari­ stocratici, scomparvero di vista; talvolta andarono a na­ scondersi nel Kenya o nella Rhodesia, dove il colore delle facce delle classi più basse garanti oltre due generazioni di indisturbata vita da gentiluomo. Trovarono qualche no­ stalgico, per esempio nella brillante e donchisciottesca ro­ manziera Evelyn Waugh, ma nel complesso il loro fu un funerale privato. La verità è che le fondamenta della società britannica dominata dalle classi terriere crollarono tutte in una vol­ ta con la grande depressione. La proprietà terriera cessò, con qualche eccezione di essere la base della grande ric­ chezza, e divenne semplicemente il simbolo di una condi­ zione sociale. La sua facciata fu conservata dal commercio e dalla finanza. In una delle sue roccaforti, l’Irlanda, fu seriamente minacciata da un movimento contadino rivolu­ zionario negli anni ’80 del secolo scorso, organizzato dalla Lega per la terra di Michael Davitt. Il trionfo politico del movimento potè essere rinviato a prezzo della silenziosa liquidazione, subito dopo, della potenza economica dei grandi proprietari terrieri *. Simultaneamente, la proprie­ tà terriera perse la sua attribuzione di forza politica loca­ le in Gran Bretagna, in parte grazie alla democratizzazio­ ne del voto elettorale negli anni 1884-85 e dell’ammini­ strazione delle contee nel 1889, e in parte perché l’attivi­ tà di governo divenne troppo complicata per essere lascia­ ta a gentiluomini di campagna incompetenti che vi si de­ dicavano a tempo perso. La democratizzazione non inde­ bolì la posizione dei conservatori nelle campagne, perché la spinta dissenziente radical-liberale che aveva indotto tanti braccianti agricoli a votare contro il gentiluomo di campagna e il parroco nelle loro prime elezioni libere * Grazie alle leggi per l’acquisto delle terre fatte approvare dai governi conservatori, negli anni 1885, 1887, 1891, 1896, e 1903, quasi 13 milioni di acri di terra irlandese, divisi in 390 000 appezzamenti, erano già cam­ biati di proprietà nel 1909. Il totale degli appezzamenti in Irlanda era di circa 370 000 nel 1917. 9

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(1885) era sul punto di esaurirsi, e perché il partito labu­ rista ereditò poche roccaforti rurali, a parte il vecchio ba­ stione radicale e puritano dell’East Anglia. Ma le caratte­ ristiche del partito conservatore avevano subito un sotti­ le cambiamento. Il partito conservatore, che era stato mantenuto vivo per una generazione dopo l’instaurazione del libero scam­ bio come un rimasuglio di nobili e gentiluomini di cam­ pagna, tornò a rivivere dopo gli anni ’70 del secolo. Ma risuscitando cessò di essere il partito agrario. Fu il mani­ fatturiere e imperialista delle Midlands Joseph Chamberlain a riconvertirlo al protezionismo nei primi anni del nostro secolo, sebbene la passione con cui si aggrappò da allora alle tariffe doganali dovesse qualcosa al cieco risen­ timento dei nobili ritiratisi nelle foreste, pronti a morire nell’ultima trincea della Camera dei Lord combattendo i dannati radicali. La stessa origine aveva l’ugualmente ap­ passionato imperialismo del partito, perché l’impero of­ friva la possibilità di investimenti, buoni posti di lavoro e talvolta ricche tenute; e la difesa della proprietà terriera contro la rivoluzione costituì un problema ancor piu dram­ matico e certamente più reale in parti dell’impero, per esempio in India, che in Gran Bretagna. Ma sebbene la questione irlandese portasse virtualmente negli anni ’80 del secolo tutti gli importanti aristocratici terrieri nel cam­ po conservatore, lasciando i liberali privi dei loro tradi­ zionali nobili Whig, anche il partito Tory era ormai un partito di uomini d’affari. Non era più guidato da un Bentinck, da un Derby, da un Cecil o da un Balfour, ma, do­ po il 1911, da un mercante di ferro canadese che aveva compiuto gli studi a Glasgow (Bonar Law) e da due indu­ striali delle Midlands (Baldwin e Neville Chamberlain) *. Nel frattempo, l’acuta e questa volta quasi universale crisi dell’agricoltura costrinse i governi a passare all’a­ zione dopo il 1930 per salvare l’agricoltura britannica. Le * L’evidente reviviscenza dell’atmosfera aristocratica dopo la seconda guerra mondiale fu dovuta in parte al sorgere di nuovi capi, scarsamente rappresentativi dopo il fallimento di Chamberlain nel 1940, e in parte alla nostalgia per la belle epoque dell’antica grandezza della Gran Bretagna; essa durò soltanto negli anni ’50.

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misure adottate consisterono essenzialmente nella prote­ zione e nella garanzia dei prezzi agricoli (patate, latte e, con un successo inferiore, maiali e pancetta) con il con­ trollo sempre più attento delle commissioni di market­ ing istituite per iniziativa statale. Si trattò di misure prese con scarsa convinzione, dato che gli stessi governi conser­ vatori continuavano ad accettare l’opinione liberale del secolo xix per cui le grosse importazioni di generi alimen­ tari erano essenziali per la prosperità britannica e l’agri­ coltura, come ogni altra industria languente, doveva con­ trarsi fino a trovare il suo modesto livello di profitto, o al­ trimenti perire. Dato che nei tardi anni ’30 del nostro se­ colo circa il 70 per cento del cibo consumato nel paese era *, importato il tradizionale argomento per cui l’agricoltu­ ra meritava un trattamento speciale perché nutriva il po­ polo cascava poco a proposito. Tuttavia, quando scoppiò la guerra, l’argomento riac­ quistò il suo vigore. Il blocco della Gran Bretagna e la mancanza di navi resero essenziale l’aumento della pro­ duzione di generi alimentari. Fortunatamente, gli anni ’30 del nostro secolo avevano già posto delle fondamenta su cui poteva basarsi una pianificazione statale sistematica volta in primo luogo all’espansione della terra arabile. Nel corso della guerra, la superficie arabile aumentò del 50 per cento, da 12 a 18 milioni di acri ** , e il numero del­ le pecore, dei maiali e dei polli diminuì di parecchio, anche se i bovini, apprezzabili per il latte, salirono di cir­ ca il io per cento. La produzione di questa superficie al­ largata di terra spesso marginale aumentò in modo sostan­ ziale grazie a quella che arrivò ad essere una importante ri­ voluzione tecnologica. Le quantità di fertilizzanti adope­ rati (fosfati e nitrogeni) aumentarono di due o tre volte ma, soprattutto, fra il 1939 e il 1946 i macchinari delle fattorie britanniche si moltiplicarono passando da due a cinque milioni di cavalli-vapore. Il numero dei trattori au­ mentò di almeno quattro volte, cosi come le mietitrici * L’8o per cento del suo zucchero, dei suoi oli e dei suoi grassi, 1’88 per cento del suo frumento e della sua farina, e il 91 per cento del suo burro. ** Queste cifre non sono raffrontabili con quelle date alle pp. 225-26.

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

multiple. Nel giro di cinque anni, l’agricoltura britanni­ ca, da una delle meno meccanizzate, divenne una delle più meccanizzate del mondo. Questo risultato £u raggiunto unendo gli incentivi finanziari alla direzione pianificata. I « comitati agricoli di guerra » delle varie contee potevano decidere, e decidevano, che cosa dovesse essere coltivato e dove, potevano collocare la manodopera e il macchinario (spesso proveniente da depositi di macchinari collettivi analoghi alle «stazioni di macchine e trattori» sovietiche), e sostituire i coltivatori non efficienti. I risultati immediati furono notevolissimi. Il popolo britannico fu nutrito adeguatamente mentre le sue impor­ tazioni di generi alimentari erano dimezzate. La produzio­ ne interna si raddoppiò quasi (misurata in calorie) fra il 1938-39 e il 1943-44, con un aumento di manodopera del io per cento soltanto, e si consideri che la manodopera in più era formata da donne inesperte o lavoratori saltuari. I risultati a lunga scadenza non furono meno impressio­ nanti *. Nel i960 il reddito prò capite della popolazione agri­ cola fu più alto in Gran Bretagna che in tutti i paesi del­ l’Europa occidentale eccetto l’Olanda. La popolazione agricola britannica rendeva all’incirca la sua proporzione del prodotto nazionale lordo, come faceva quella olandese. In tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale, eccettuati

Prodotto interno lordo dell ’agricoltura, dei boschi, della pesca (milioni di sterline, i960)

85,3

3,8

33,1

6,7

o,4

3i,i 7,8

4,4 4,8 0,8

0,4

7,3

1,1

os

m

(1961)

Milioni di acri

£

4 3,7

H

Gran Bretagna Francia Germania occidentale Italia Danimarca Olanda

-fh,

Manodopera agricola (milioni di unità)

L’agricoltura nelle economie europee.

LA TERRA ( 1’850-1960)

233

alcuni che erano arretrati ed erano privi di industria, pro­ duceva di meno. In altre parole, l’agricoltura britannica non era piu un modo di vita, e si era trasformata, tenuto conto dei livelli internazionali, in un’industria efficiente.

1 Oltre alle opere citate nel cap. 5, nota 1, p. 115, cfr. c. orwin e e. whetham, History of British Agricolture 1846-1914, 1963; e. whetham, British Farming 1939-1949, 1964; E. M. ojala, Agricolture and Economie Progress, 1952. Sui cambiamenti poli­ tici, cfr. w. l. guttsmann, The British Political Elite, 1963; cfr. anche i diagrammi 4,14. 2 c. r. fay, Co-operation at Home and Abroad, 1908. 3 f. m. l. Thompson, English Landed Society, 1963, p. 322.

II.

Fra le due guerre 1

L’economia vittoriana della Gran Bretagna si dissolse definitivamente nel periodo fra le due guerre mondiali. Il sole che, come sapeva ogni scolaretto, non tramontava mai sui territori e il commercio della Gran Bretagna, si abbas­ sò sotto la linea dell’orizzonte. Il crollo di tutto ciò che gli inglesi avevano dato per scontato fin dai tempi di Robert Peel fu cosi improvviso, catastrofico e irreversibile, che sbalordì gli increduli con temporanei. Proprio nel momen­ to in cui la Gran Bretagna emergeva fra le potenze vinci­ trici dopo la prima delle grandi guerre combattute contro Napoleone, proprio quando la sua più forte rivale conti­ nentale, la Germania, era in ginocchio, e quando l’impero britannico, talvolta velatamente e poco convincentemen­ te dissimulato sotto i vari «mandati», «protettorati» e la pseudoindipendenza degli stati medioorientali, ricopriva una parte più che mai grande del globo, l’economia tra­ dizionale della Gran Bretagna non soltanto cessò di svi­ lupparsi, ma si contrasse. Dati statistici che erano saliti quasi senza interruzione per centocinquant’anni — non sempre con un ritmo uguale o soddisfacente, ma erano pur sempre saliti — ora invece calavano. « Il declino econo­ mico», qualcosa di cui gli economisti avevano discusso prima del 1914, era diventato un fatto reale. Fra il 1912 e il 1938, il panno di cotone fabbricato in Gran Bretagna scese da 8000 milioni ad appena 3000 mi­ lioni di yard quadrati, e le esportazioni, da 7000 milioni di yard a meno di 1500. Mai, dal 1851, il Lancashire aveva esportato cosi poco. Fra il 1854 e il 1913, la produzione di carbone britannica era salita da 65 a 287 milioni di tonnel­

FRA LE DUE GUERRE

235

late. Nel 1938 era scesa a 227 milioni e continuava a cala­ re. Nel 1913, 12 milioni di tonnellate di naviglio britan­ nico avevano solcato i mari, nel 1938 il tonnellaggio era inferiore ari milioni. I cantieri britannici avevano co­ struito 343 000 tonnellate di naviglio per armatori ingle­ si nel 1870, e quasi un milione nel 1913: nel 1938, ne costruirono poco più di mezzo milione. In termini umani, la crisi delle industrie tradizionali della Gran Bretagna significò la rovina di milioni di uomi­ ni e donne a causa di una massiccia disoccupazione, e fu questo a segnare indelebilmente gli anni fra le due guer­ re con il marchio della disperazione e della povertà. Le zo­ ne industriali in cui le occupazioni erano varie, non furo­ no completamente devastate. La manodopera impiegata nell’industria cotoniera diminuì di più della metà fra il 1912 e il 1938 (da 621 000 a 288 000 unità) ma il Lancashire aveva comunque altre industrie capaci di assorbire parte dei disoccupati, e cosi il suo tasso di disoccupazione non fu certo il peggiore. La vera tragedia fu quella delle aree e delle città che si basavano su una singola industria, prospera nel 1913 e rovinata fra le due guerre. Nel bien­ nio 1913-14 era rimasto disoccupato circa il 3 per cento degli operai del Galles, una media senz’altro inferiore a quella nazionale. Nel 1934, dopo l’inizio della ripresa, il 36 per cento delle forze di lavoro a Glamorgan, e il 37 per cento a Monmouth, era senza un’occupazione. Due terzi degli uomini di Ferndale, tre quarti di quelli di Brynmawr, Dowlais e Blaina, e il 70 per cento di quelli di Merthyr, non avevano niente altro da fare se non starsene agli angoli delle strade a maledire il sistema che li aveva ridotti in quelle condizioni. La gente di Jarrow, nel Durham, vive­ va del cantiere di Palmers. Quando fu chiuso nel 1933, Jarrow rimase derelitta, con otto operai disoccupati su dieci, gente che spesso aveva perso tutti i propri risparmi nel fallimento del cantiere. Fu il crearsi di una disoccupa­ zione permanente e senza speranza in alcune aree abban­ donate, soavemente ribattezzate «aree speciali», a dare alla depressione il suo particolare carattere. Il Galles del Sud, la Scozia centrale, il Nord-Est, parti del Lancashire, dell’Irlanda settentrionale e del Cumberland, per non

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

menzionare piccole sacche altrove, non beneficiarono nemmeno della modesta ripresa dei tardi anni ’30. Nel­ l’Inghilterra settentrionale, nella Scozia e nel Galles, le fuligginose, rumorose, squallide aree industriali del se­ colo xix non erano mai state belle o comode da viverci, ma erano pur sempre state attive e prospere. Ora tutto quello che rimaneva era lo sporco, lo squallore, e il terri­ bile silenzio delle fabbriche e delle miniere inattive e dei cantieri chiusi. Sempre, dal 1921 al 1938, almeno un cittadino in età lavorativa su dieci si trovò senza lavoro. Durante sette di questi diciotto anni almeno tre su venti furono disoccu­ pati, e negli anni peggiori uno su cinque. In cifre assolu­ te, i disoccupati andarono da un minimo di piu di un mi­ lione di unità a un massimo (1932) di poco meno di tre milioni. In certe industrie e regioni, la situazione fu anche peggiore. Al culmine della crisi (1931-37), il 34,5 per cento dei lavoratori nelle miniere di carbone, il 36 per cento neH’industria della ceramica, il 43,2 per cento in quella del cotone, il 43,8 per cento nell’industria della ghisa, e il 47,9 per cento in quella dell’acciaio, e il 62 per cento — o quasi due su tre - in quella dei cantieri na­ vali, si trovarono senza lavoro. Il problema fu risolto sol­ tanto nel 1941. Gli anni di depressione seguirono a quelli della guerra mondiale, e tutti vivevano nell’ombra di questi cataclismi che, pur con effetti che variavano considerevolmente da una regione, un’industria o un gruppo sociale ad altri, ebbero conseguenze generali. La prima fu la paura: della morte o della mutilazione in tempo di guerra, del rimane­ re senza aiuto e della povertà in tempo di pace. Sono ti­ mori che non corrispondono necessariamente alla realtà del pericolo. Nella seconda guerra mondiale, le probabili­ tà medie di morte non furono in effetti molto alte, e la maggioranza dei lavoratori fra le due guerre non avevano la probabilità di rimanere disoccupati molto a lungo. Tut­ tavia, quelli che lo sapevano, sapevano anche che essi stessi e i loro familiari si trovavano a un passo dall’abisso. Anche in tempo di pace, un posto perso significava piti di un periodo di incertezza o di povertà. Poteva significare

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una intera famiglia distrutta. L’ansietà fu il clima che uo­ mini e donne respirarono nel corso di una generazione. Il suo effetto non può essere misurato statisticamente, ma neanche può essere trascurato quando ci si occupa di que­ gli anni. Esso si riflette visibilmente sul modello della politica interna della Gran Bretagna, che dominò sempre più la vita del cittadino attraverso le crescenti attività statali. La guerra, e gli anni di fermento che seguirono, moltipli­ carono di più di otto volte le forze elettorali del partito laburista, che era essenzialmente il partito di classe degli operai. I suoi voti salirono da mezzo milione nel 1910 a quattro milioni e mezzo nel 1922. Per la prima volta nella storia, un partito operaio divenne e rimase il più grosso partito alternativo di governo, e la paura della forza della classe operaia e dell’espropriazione ossessionava ora le classi medie non tanto perché l’espropriazione era quanto i capi laburisti promettevano o effettuavano, ma perché la stessa esistenza di quel partito di massa gettava una cer­ ta ombra rossa di potenziale rivoluzione sovietica sul pae­ se. I capi delle trade unions e del partito laburista erano tutt’altro che dei rivoluzionari. Pochi di loro si considera­ vano in grado di svolgere l’attività di governo, che ritene­ vano una funzione essenzialmente, o comunque normal­ mente, propria dei datori di lavoro e delle classi superiori, la loro essendo quella di chiedere miglioramenti e conces­ sioni. Tuttavia erano alla testa di un vasto movimento uni­ to dalla consapevolezza della separazione tra le classi e del­ lo sfruttamento a cui erano sottoposti i lavoratori, e ca­ pace di mostrare la propria forza con atti di solidarietà senza precedenti, come lo sciopero generale del 1926. Il loro era un movimento che aveva perduto la fiducia nella capacità e forse nella disposizione del capitalismo a rico­ noscere alla classe lavoratrice i suoi modesti diritti, e al­ lo stesso tempo osservava, forse con una punta di idealiz­ zazione, il primo e a quel tempo unico stato proletario, e l’unica economia socialista, l’Unione Sovietica. La depressione causò un ulteriore spostamento verso il partito laburista, sebbene l’ultima fase di questa tendenza venisse ritardata da un temporaneo afflusso di cittadini

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

spaventati e disorientati verso il cosiddetto governo «na­ zionale» sotto l’influsso della crisi del 1931 (cfr. p. 170). La seconda guerra mondiale terminò col primo vero go­ verno laburista di Gran Bretagna, che nel 1951 raccolse il maggior numero di voti della sua storia. La sua avanza­ ta cessò nei prosperi anni ’50. Soltanto una parte dell’economia vittoriana sembrò per breve tempo resistere al collasso: la City di Londra, fon­ te del capitale mondiale, centro nervoso del commercio e delle transazioni finanziarie internazionali. La Gran Bre­ tagna aveva cessato di essere il più grande centro interna­ zionale di prestiti, ed era diventata in complesso un pae­ se debitore degli Stati Uniti, che erano arrivati a occu­ pare il suo posto. Comunque, verso la metà degli anni ’20 del nostro secolo, gli investimenti della Gran Bretagna ol­ tremare fruttarono come mai in passato e lo stesso, ancor più sorprendentemente, accadde alle altre sue fonti di red­ dito invisibile, cioè i servizi finanziari e assicurativi e cosi via. Ma la crisi nel periodo fra le due guerre non fu sol­ tanto un fenomeno britannico, non si trattò semplicemente del declino di un ex campione industriale del mon­ do, di un declino tanto più improvviso e netto in quanto era stato posticipato di decenni. Fu quella la crisi dell’in­ tero mondo liberale del secolo xix, e quindi il commer­ cio e la finanza inglesi non poterono recuperare quello che l’industria britannica aveva perduto. Per la prima volta dopo l’industrializzazione, l’aumento di produzione di­ minuì in tutti i paesi industriali. La prima guerra mon­ diale lo ridusse del 20 per cento (1913-21), ed era appe­ na riuscito a raggiungere nuove punte, quando la depres­ sione degli anni 1929-32 lo ridusse temporaneamente di circa un terzo (questo fu in gran parte dovuto al simulta­ neo collasso di tutte le più grosse potenze industriali, con l’eccezione del Giappone e dell’Unione Sovietica). Peggio ancora, i tre grandi flussi di capitale, manodopera, merci, su cui si basava l’economia mondiale liberale, si esauriro­ no. Il commercio mondiale di manufatti ritornò ai livel­ li del 1913 soltanto nel 1929, e poi si ridusse repentina­ mente della terza parte. Non si era ancora riavuto del tut­ to nel 1939; il suo valore si dimezzò nella depressione

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del 1929. Il commercio mondiale di materie prime, vita­ le per la Gran Bretagna che vendeva abbondantemente a chi le produceva, diminuì di ben piu della metà dopo il 1929. Anche se i produttori vendettero disperatamente a prezzi fallimentari, negli anni 1936-38 non poterono com­ perare piu di due terzi di quanto avevano importato nel 1913, cioè non poterono comperare molto più di un ter­ zo di quello cui erano arrivati negli anni 1926-29. Un mu­ ro fu elevato lungo le frontiere del mondo per impedire la libera entrata degli uomini e delle merci, e l’uscita dell’o­ ro. La Gran Bretagna, punto di smistamento internazio­ nale di un fiorente sistema di traffici, vide scomparire i traffici da cui dipendeva, mentre i redditi che le venivano dai produttori di materie prime economicamente depressi e ancor più direttamente colpiti, diminuivano. Fra il 1929 e il 1932, i suoi dividendi dall’estero scesero da 250 a 150 milioni di sterline, e i profitti invisibili da 233 a 86 milioni, né si era ancora riavuta, quando scoppiò la se­ conda guerra mondiale, che ridusse il valore dei suoi in­ vestimenti all’estero di più di un terzo. Quando nel 1922 il libero scambio fu finalmente seppellito (cfr. p. 277), l’economia vittoriana svanì con esso. Era logico che il partito liberale, il quale era stato per principio il partito dell’economia mondiale liberista, vedesse svanire le sue prospettive politiche e la sua ragion d’essere tradizionale nel 1931. I responsabili dell’economia restarono colpiti, frastor­ nati e terribilmente perplessi dopo il collasso di tutto quel­ lo che avevano considerato fino allora intoccabile. L’inca­ pacità degli uomini d’affari, dei politici e degli economisti a rendersi conto dei fatti, e tanto meno a farsi un’idea delle misure da prendere, fu completa. Adesso sappiamo che esisteva una minoranza non ortodossa che anticipò il pensiero della nostra generazione, cioè i marxisti, i quali in effetti avevano previsto la grande depressione e trasse­ ro prestigio sia dalla loro predizione sia dal fatto che l’Unione Sovietica rimase immune dal cataclisma, e studiosi come J. M. Keynes, la cui critica dell’ortodossia economi­ ca dominante doveva a sua volta diventare l’ortodossia di un’epoca posteriore. Noi tendiamo a dimenticare quanto

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quella minoranza fosse piccola e poco influente prima che la catastrofe economica negli anni 1932-33 diventasse cosi terribile da minacciare quasi la stessa esistenza del si­ stema capitalistico britannico e mondiale. Gli uomini d’af­ fari degli anni ’20 si limitarono a sostenere che se i salari e le spese pubbliche fossero stati drasticamente ridotti, l’in­ dustria britannica si sarebbe rimessa in piedi, e continua­ rono a implorare protezioni d’ogni genere contro l’uraga­ no economico. I politici, sia conservatori sia liberali, ri­ corsero agli slogan quasi altrettanto inutili di Richard Cobden e di Joseph Chamberlain. I banchieri e i funziona­ ri, che erano i guardiani dell’« ortodossia della finanza pubblica», sognarono un ritorno al mondo liberale del 1913, riponendo tutta la loro fiducia nei bilanci in pareg­ gio * e nel tasso di sconto bancario, e puntarono tutto sul­ l’impossibile speranza di conservare alla City di Londra la sua posizione di centro finanziario mondiale. Gli economi­ sti, con eroismo degno di Don Chisciotte, inchiodarono la loro bandiera sul pennone della legge di Say, che dimo­ strava come nessuna depressione fosse possibile. Mai una nave affondò con un capitano e una ciurma più ignoranti dei motivi della disgrazia e piu impotenti a fronteggiarla. Tuttavia, quando raffrontiamo la depressione fra le due guerre col periodo anteriore al 1914, siamo inclini a giu­ dicarla un po’ meno severamente. È diffìcile dire qualcosa di positivo sull’estate di san Martino degli edoardiani, una stagione di occasioni perse deliberatamente che di­ mostrò senza dubbio alcuno che il declino dell’economia britannica sarebbe stata una catastrofe. Essa non aveva raggiunto nemmeno il più modesto dei suoi obiettivi, la stabilità dei livelli di vita dei poveri, anche se aveva per­ messo ai ricchi di diventare sempre più ricchi (cfr. pp. 187-89). D’altro canto, proprio perché la catastrofe eco­ nomica aveva lasciato scarsissimi motivi di compiacimen­ to, gli anni fra le due guerre non andarono compiei amen­ * Quasi certamente la recessione fu aggravata diminuendo le spese sta­ tali quando ve ne sarebbe stato piu bisogno.

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te perduti. Nel 1939 la Gran Bretagna aveva, rispetto ad altri stati, l’aspetto di un’economia del secolo xx assai piu che nel 1913. In base ai quattro criteri elencati nel capi­ tolo 9, la Gran Bretagna non era piu un’economia vitto­ riana. L’importanza della tecnologia, dei metodi di pro­ duzione di massa, dell’industria che produceva per mer­ cati di massa, ma soprattutto della concentrazione econo­ mica, del «capitalismo monopolistico» e dell’intervento statale, era molto maggiore. Gli anni fra le due guerre non modernizzarono né resero competitiva in campo in­ ternazionale l’economia britannica, che rimase antiquata e priva di dinamismo. Se non altro, però, furono creati alcuni presupposti per la modernizzazione o, piuttosto, furono eliminati alcuni degli ostacoli che vi si oppone­ vano. La crisi del periodo fra le due guerre non portò a con­ seguenze peggiori per tre motivi: la pressione sull’econo­ mia non era abbastanza grave; ogni tanto ci si valse, sia pure per motivi politici, di quell’efficientissimo, anzi in­ dispensabile metodo di modernizzazione che era la piani­ ficazione statale; e infine, i cambiamenti economici inizia­ ti in quel periodo furono praticamente tutti difensivi e negativi. La pressione sull’economia fu inadeguata in parte per­ ché la particolare posizione internazionale della Gran Bre­ tagna attuti in certo grado l’impatto della spinta maggiore che avrebbe potuto portare all’azione, la grande depres­ sione del periodo 1929-33. Dato che le tradizionali indu­ strie di base della Gran Bretagna erano già in crisi dopo il 1921, l’effetto della depressione fu meno drammatico: quelle che erano ormai depresse, non potevano peggiora­ re troppo *. Inoltre, mentre le industrie esportatrici veni­ vano colpite duramente, il resto dell’economia beneficiò in misura eccezionale della sproporzionata caduta del co­ sto dei beni primari - generi alimentari e materie prime provenienti dal mondo coloniale e semicoloniale. Senza * Per esempio, la produzione di manufatti (1913 - 100) diminuì negli Stati Uniti da 112,7 a >8,4 nel 1932; in Germania, da 108 a 64,6; ma in Gran Bretagna soltanto da 109,9 a 90.

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

contare che, poiché l’economia vittoriana aveva scarsa­ mente puntato sulla produzione per il mercato di massa interno, la possibilità di uno spostamento verso le vendite interne era considerevolmente maggiore. La Gran Breta­ gna era in crisi, ma non al punto di trovarsi nell’alternati­ va ineluttabile di competere o perire. Secondo, lo stato si astenne da un intervento adegua­ to. La sua capacità di intervenire in modo efficiente appar­ ve evidente in entrambe le guerre mondiali, ma specialmente nella seconda. Quando intervenne, i risultati furo­ no talvolta poco meno che sensazionali, come nel caso del­ l’agricoltura, che l’intervento statale trasformò negli an­ ni 1940-45. La necessità dell’intervento statale era evi­ dente, perché varie industrie di base, specialmente le fer­ rovie e le miniere di carbone, si trovavano in tali difficol­ tà da non poter essere salvate dall’azione privata, mentre altre erano manifestamente incapaci di darsi una struttu­ ra razionale. Eppure dopo entrambe le guerre l’apparato del controllo statale fu smantellato con rapidità, e profon­ da rimase la riluttanza dello stato a interferire nell’inizia­ tiva privata. I suoi interventi, e le stesse misure dell’indu­ stria verso la modernizzazione, furono essenzialmente a carattere protettivo, in senso negativo. Ciò risulta particolarmente evidente nella sfera della concentrazione economica, giacché mentre nel 1914 la Gran Bretagna era forse la meno concentrata fra le grandi economie industriali, nel 1939, al contrario, risultava una delle più concentrate. Il fenomeno della concentrazione economica non costituiva, naturalmente, una novità. L’au­ mento delle unità produttive e delle unità di proprietà, la concentrazione di una crescente aliquota della produzio­ ne, della manodopera, e cosi via, nelle mani di un numero sempre più ristretto di giganteschi complessi industriali, le limitazioni, ufficiali o non ufficiali, imposte alla concor­ renza che possono portare a una situazione di monopolio o di oligopolio *: sono queste alcune delle più note ten­ denze del capitalismo. La concentrazione cominciò a ma­ nifestarsi durante la «grande depressione», negli anni ’80 * Cfr. p. 199.

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e ’90 del secolo scorso, ma fino al 1914 fu assai minore in Gran Bretagna che in Germania e negli Stati Uniti. Alla base della struttura industriale britannica stava l’azienda di piccole o medie dimensioni, altamente specializzata, a conduzione familiare e finanziata da una stessa famiglia, mentre alla base della sua politica economica vi era il li­ bero scambio. Vi erano delle eccezioni, soprattutto nei campi dei servizi pubblici e delle industrie pesanti (side­ rurgia, metalmeccanica, costruzioni navali) che già da mol­ to tempo richiedevano investimenti maggiori di quelli che potevano permettersi individui e gruppi, e dove la con­ centrazione era favorita dalle necessità belliche. Ma in ge­ nerale il mercato era ancora caratterizzato dalla piccola in­ dustria individuale, e finché essa continuava ad essere pro­ spera, anche senza la protezione e l’aiuto statale, non po­ teva parlarsi di declino. L’ampiezza media degli impianti aumentò. La società per azioni pubblica, pressoché inesi­ stente al di fuori dell’attività bancaria e dei trasporti pri­ ma dell’ultimo quarto del secolo, penetrò nell’industria e si sviluppò dopo il 1880, e questo fece ulteriormente au­ mentare l’ampiezza delle aziende. Già nel 1914 si aveva­ no notevoli esempi di concentrazioni capitalistiche, alcu­ ne delle quali avevano raggiunto uno stato di monopolio. La tendenza alla concentrazione indubbiamente esisteva, ma non aveva ancora trasformato l’economia. Il fenomeno si verificò invece fra il 1914 e il ’39, acce­ lerato in parte dalla prima guerra mondiale e in parte dal­ la depressione (e specialmente, dopo il ’30, dalla grande recessione), e quasi sempre favorito dal governo. Sfortu­ natamente esso non è facilmente misurabile perché gli stu­ diosi di statistica, come gli economisti accademici, non analizzarono seriamente la sua importanza quantitativa e le sue implicazioni teoriche fin dopo il 1930 *. Non pos­ sono però esserci dubbi sui fatti nel loro insieme. Prima del 1914 cerano già alcuni prodotti monopoli­ stici: i cucirini di cotone, il cemento di Portland, la car­ ta da parati, il vetro in lastre e altri ancora; ma nel 1935 almeno 170 prodotti erano fabbricati da uno, due o tre Questo è di per sé un sintomo della sua crescente importanza.

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complessi. Nel 1914 esistevano 130 compagnie ferrovia­ rie; dopo il 1921 si erano ridotte a quattro giganteschi mo­ nopoli che non si facevano concorrenza. Nel 1914 vi era­ no trentotto banche sotto forma di società per azioni; nel 1924 erano diventate dodici, cinque delle quali (Midland, National Provincial, Lloyds, Barclays, Westminster) do­ minavano completamente il settore. Nel 1914 si contava­ no cinquanta associazioni affaristiche, per lo piu apparte­ nenti al settore siderurgico. Nel 1925, la sola Federation of British Industries (fondata, come la National Association of Manufacturers, negli ultimi anni della guerra) con­ tava 250 associazioni affiliate *; dopo la seconda guerra mondiale erano circa mille. Nel 1907, un ricercatore po­ teva ancora scrivere: «Per quanto ampi settori dell’indu­ stria siano passati nelle mani di grosse concentrazioni, la figura dell’imprenditore individuale resta ancora predo­ minante» 2. Nel 1939, un osservatore dovette invece con­ statare che «come elemento caratteristico dell’organizza­ zione industriale e commerciale, la libera concorrenza è quasi scomparsa dalla scena britannica »3. In termini di occupazione, gli anni ’30 del nostro seco­ lo influirono in modo sensibile sulla concentrazione eco­ nomica. C’erano a quel tempo più di 140 000 «fabbriche» in Gran Bretagna. E c’erano soltanto 519 impianti con più di mille dipendenti su un totale di poco più di 140 000 «fabbriche», 30 000 delle quali, o poco meno, erano pic­ colissime aziende con meno di venticinque dipendenti. Tuttavia quei pochi impianti occupavano allora un opera­ io su cinque di tutti i lavoratori rilevati dal censimento della produzione, e in varie industrie (fabbricazione di macchinari elettrici, di automobili e motociclette, lamina­ zione e fusione del ferro e dell’acciaio, seta e seta artificia­ le, giornalismo, costruzioni navali, zucchero e dolciumi), più del 40 per cento. In altre parole, un terzo dell’r per cento di tutte le fabbriche impiegava il 21,5 per cento di * Da un campione di cento associazioni affaristiche esistenti durante la seconda guerra mondiale risultò che ventisei erano state formate prima del 1914, trentatre negli anni 1915-20, e trentasette fra le due guerre.

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tutti i dipendenti. Ma siccome accadeva sempre piu di fre­ quente che una singola azienda possedesse vari impianti nella stessa industria, e talvolta in altre, l’effettiva concen­ trazione dell’occupazione era ancora maggiore. C’erano trentatre attività industriali in Gran Bretagna, in cui le tre aziende piu grosse impiegavano oltre il 70 per cento di tutti i dipendenti del settore. Non è possibile raffrontare esattamente questa situazio­ ne con quella del periodo anteriore al 1914, tuttavia qual­ che elemento orientativo ci è offerto dalla struttura di al­ cune tipiche industrie tradizionali che, come ci si poteva attendere, furono meno influenzate di quelle tecnologica­ mente piu recenti. Nel 1914, la miniera di carbone media, che costituiva un’azienda eccezionalmente ampia per i li­ velli contemporanei, impiegava circa trecento uomini; e ancora nel 1930, il cotonificio tipico impiegava da cento a trecento dipendenti; mentre circa il 40 per cento lavo­ rava in fabbriche con meno di duecento persone. Nella in­ dustria «media» britannica del 1935, le tre aziende prin­ cipali impiegavano un po’ piu di un quarto dei dipendenti del settore. Nelle industrie piti altamente concentrate (prodotti chimici, metalmeccanica e veicoli, ferro e accia­ io), le tre aziende principali impiegavano oltre il 40 per cento dei lavoratori del settore; nelle meno concentrate (miniere, edilizia, legname), il io per cento o meno. Si può essere quasi sicuri che, prima del 1914, la maggior parte dell’industria britannica assomigliava piu a quelle dell’ultima categoria che a quelle delle altre due. Il mutamento più sensazionale non consiste però nella trasformazione della Gran Bretagna in un paese di com­ plessi, oligopoli, gruppi affaristici, ecc. di proporzioni gi­ gantesche, ma nella accettazione, da parte del mondo de­ gli affari e del governo, di un mutamento che avrebbe fat­ to inorridire J. S. Mill. È vero che l’opposizione alla con­ centrazione economica era stata sempre più debole nella pratica che nella teoria. La Gran Bretagna non contava al­ cun potente movimento di «ometti» radicai democratici come quello che, a più riprese, impose negli Stati Uniti la legislazione antitrust; e i socialisti, anche se erano in teo­

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ria ostili alla concentrazione, vi si opponevano perché ser­ viva fini privati, e non perché intendessero evitarla a tutti i costi. (In pratica, il movimento dei lavoratori non la combattè mai). Nondimeno, la fede nel capitalismo com­ petitivo era pressoché dogmatica quanto quella nel libero scambio. Ma quello cui abbiamo assistito fra le due guer­ re è stato un gigantesco sforzo dei governi per ridurre la concorrenza, per favorire la formazione di cartelli, mono­ poli complessi, ecc. L’industria siderurgica aveva subito parecchi interventi per la fissazione dei prezzi ancor pri­ ma del 1914; ma non era ancora, come divenne nel 1932, un gigantesco cartello restrizionista in compartecipazio­ ne (attraverso il comitato consultivo per i dazi sulle im­ portazioni) col governo. La fede nella libera concorrenza mori rapidamente e senza spasimi prima della fede nel li­ bero scambio. Ora, la concentrazione economica non è di per sé in­ desiderabile. Spesso è essenziale, specialmente nella for­ ma della nazionalizzazione, per assicurare un adeguato progresso industriale. Il principio per cui il «capitalismo monopolistico» sia ipso facto meno dinamico o tecnolo­ gicamente meno progressista di un’economia basata su una concorrenza senza restrizioni, è un mito. Tuttavia, la concentrazione economica che ebbe luogo fra le due guer­ re non può essere giustificata dal punto di vista dell’effi­ cienza e del progresso. Era massicciamente restrittiva, di­ fensiva e protettiva. Era una cieca risposta alla depressio­ ne, tendente a conservare alti profitti eliminando la con­ correnza, o ad accumulare una grande quantità di capita­ li miscellanei che in nessun senso erano produttivamente piu razionali che i loro componenti indipendenti origina­ ri, ma che permettevano ai finanzieri degli investimenti per i capitali eccedenti o per i profitti derivanti dalla spin­ ta data alle società. La Gran Bretagna diventò un paese non competitivo in patria non meno che all’estero. In un certo senso, il forte orientamento verso l’interno mostrato in questo periodo dalle attività affaristiche bri­ tanniche, fu una risposta difensiva alla crisi dell’econo­ mia. Industrie come quelle del ferro e dell’acciaio si riti­ rarono dalla triste scena internazionale all’interno del prò-

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tetto mercato domestico *, anche se queste fughe non riu­ scirono a salvare le vecchie industrie orientate verso l’e­ sportazione come quella del cotone. Il governo dopo il 1931 protesse sistematicamente il mercato interno, e al­ cune industrie, specialmente quella automobilistica, si ba­ sarono completamente su questa protezione, che nel caso specifico era esistita fin dalla prima guerra mondiale. Co­ munque, non fu soltanto per mero bisogno di rifugio che l'attività affaristica inglese si rivolse verso l’interno: si era scoperto anche che il consumo di massa della classe operaia britannica offriva insospettate possibilità di ven­ dita. Il contrasto fra i settori dell’economia che avevano sempre guardato all’esterno e quelli che si erano svilup­ pati perché si erano mossi nel modo contrario, non poteva non colpire anche l’osservatore più superficiale. L’esempio più clamoroso di espansione durante questo periodo di depressione, fu dato dalla distribuzione al det­ taglio (cfr. pp. 182-83). Il numero delle tabaccherie sali di quasi due terzi fra il 1911 e il 1939, quello dei rivendi­ tori di dolciumi aumentò di quasi due volte e mezzo (1913-38), il numero delle botteghe che vendevano pre­ parati medici di più di tre volte, e quelle poi che vendeva­ no mobilio, articoli elettrici, ferramenta, aumentarono an­ cor più rapidamente. Mentre il piccolo bottegaio perdeva terreno, le aziende maggiori - la cooperativa, il grande magazzino, ma soprattutto la bottega con più merci - gua­ dagnavano rapidamente terreno. La scoperta del mercato domestico non fu interamente una novità. Talune indu­ strie e talune zone industriali, specialmente le Midlands, s erano sempre concentrate sul consumatore domestico, e si erano arricchite seguendo quella politica. Il nuovo era rappresentato dal visibile contrasto tra le fiorenti indu­ strie che producevano per il mercato interno e i malconci * Produzione e consumo interno di acciaio (media annuale, milioni di tonnellate). Consumo Produzione interno 1910-14 1927-31 1935-38

7 7,9 n,3

5 7,6 10,6

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esportatori, simbolizzati nel contrasto esistente tra le Midlands e il Sud-Est in espansione e il Nord e l’Occidente, depressi. In un’ampia striscia estendentesi fra le regioni di Londra e di Birmingham, l’industria prosperò: la nuo­ va industria automobilistica era virtualmente confinata a questa zona. Le nuove fabbriche di beni di consumo si moltiplicarono lungo la grande strada occidentale fuori di Londra, mentre emigranti del Galles e del Nord muove­ vano verso Coventry e Slough. Industrialmente, in Gran Bretagna stavano sorgendo due nazioni. Lo spostamento verso il mercato interno ha qualche rapporto con la impressionante espansione delle industrie tecnologicamente nuove, organizzate in un modo nuovo (produzione di massa). Sebbene alcune delle «nuove» in­ dustrie del periodo fra le due guerre si dedicassero con successo all’esportazione, esse si basavano fondamental­ mente, a differenza di quanto era accaduto per i prodotti di piu largo consumo nel secolo xix, sulla domanda inter­ na, e spesso naturalmente su una protezione naturale o statale, nei confronti della concorrenza straniera. Talune industrie poi, e si trattava in genere di quelle che si basa­ vano su una tecnologia piu complessa e scientifica, si affi­ davano ancora più direttamente all’aiuto o all’appoggio dello stato. L’industria aeronautica non avrebbe altrimen­ ti potuto esistere, e l’intero fiorente complesso delle indu­ strie elettriche beneficiò in larghissima misura del mono­ polio statale della vendita di energia e della istituzione del «Grid» nazionale, un sistema di distribuzione di energia di cui ancor oggi non si hanno esempi altrove. L’altro aspetto della situazione era dato, naturalmente, da un netto e, nonostante qualche zona d’ombra, molto diffuso miglioramento del tenore di vita delle classi ope­ raie, che beneficiarono sia di un rimborso delle merci e della loro più ampia varietà, sia del fatto che la vendita veniva effettuata con maggiore efficienza. A tutto il 1914, soltanto il mercato dei generi alimentari era stato seria­ mente trasformato in questo senso. L’avvento del merca­ to di massa fu ritardato per qualche tempo, dopo il 1914 dagli effetti delle due guerre (specialmente della prima, giacché nella seconda si ebbero un’efficienza e un senso

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di equità maggiori) *, e dall’insistenza del governo e dei datori di lavoro nel voler superare la depressione abbas­ sando i salari e i contributi per la sicurezza sociale. Mal­ grado ciò, anche tenendo conto della disoccupazione di massa, è provabile che si ebbero dei miglioramenti com­ plessivi. Le valutazioni meno ottimistiche che riparti­ scono le perdite dovute alla disoccupazione (con una cer­ ta mancanza di realismo) tra l’intera popolazione, regi­ strano ancora un modesto aumento del 5 per cento dei sa­ lari reali, e quelle piu ottimistiche (che non tengono con­ to della disoccupazione), di qualcosa che sfiora il 40 per cento, benché si tratti di una percentuale assai poco plau­ sibile. E non v’è dubbio che fra le due guerre la nuova eco­ nomia basata sulla produzione di massa abbia realmente trionfato. È vero però che i beni di massa che apparivano sul mercato o erano fortemente ribassati o non erano ancora quei costosi «beni di consumo durevoli» che pochi pote­ vano permettersi, eccetto forse la bicicletta. Mentre nel 1939 gli Stati Uniti producevano già 150 frigoriferi l’an­ no ogni diecimila abitanti e il Canada 50, la Gran Breta­ gna nel 1935 ne produceva soltanto 8. Anche la classe media aveva cominciato a comperare automobili col mo­ desto ritmo di quattro unità ogni mille consumatori ( 1938). Gli aspirapolvere e i ferri elettrici per stirare era­ no forse gli unici apparecchi domestici (con l’eccezione delle radio, presenti dovunque) che venissero comperati in quantità alla fine degli anni ’30. I nuovi prodotti che piu si imposero furono quelli a buon mercato di uso do­ mestico e personale, del tipo venduto negli empori tipo Woolworth, che andavano moltiplicandosi rapidamente, nelle «farmacie» che andavano espandendosi (il numero dei grandi magazzini Boots sali da 200 nel 1900 a 1180 nel 1938) e in altri empori del genere. I cosmetici a buon mercato, per esempio, si diffusero in questo periodo, e co­ si le penne stilografiche. Entrambi i prodotti, notiamo per * Per esempio, il consumo di generi alimentari diminuì di circa il io per cento fra il 1939 e il 1941. Da allora grazie a un’efficiente pianificazio­ ne, aumentò effettivamente di un po’. Durante la prima guerra mondiale, le spese per il cibo diminuirono continuamente.

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inciso, facevano parte della breve lista delle merci piu ab­ bondantemente reclamizzate, assieme alle sigarette, le be­ vande e i cibi manufatti. Anche la pubblicità usci dalla mi­ nore età fra le due guerre, e con la pubblicità la stampa con molti milioni di copie di tiratura, che da essa dipendeva. Ci fu un campo, comunque, in cui la rivoluzione tecno­ logica arrivò già a creare una nuova dimensione di vita nel periodo fra le due guerre. Oltre al tradizionale e de­ clinante music-hall e al palais-de-danse, antiquato ma sem­ pre in espansione, due forme di divertimento tecnologi­ camente originali trionfarono dopo il 1918: la radio e il cinema. La prima fu più rivoluzionaria della seconda, per­ ché portò un divertimento senza interruzioni e prefabbri­ cato nelle case stesse della gente per la prima volta nella storia, anche se questo non era lo scopo principale della società pubblica che lo controllava senza fini commerciali, la bbc. Il cinema prese il posto sia dello spaccio di alco­ lici sia del music-hall come sogno dei poveri sostitutivo del lusso. I giganteschi e barocchi Granada, Trocadero e Odeon, dai nomi evocanti esotici languori e alberghi di lusso, con i sedili imbottiti da cui si godevano spettacoli del costo di milioni di dollari sorsero nei quartieri ope­ rai con un ritmo non inferiore a quello della disoccupa­ zione. Erano probabilmente i più efficienti produttori di sogni mai escogitati, perché visitarli non soltanto costa­ va meno e durava di più che una bevanda o uno spetta­ colo di varietà, ma potevano essere ed erano accoppiati al meno costoso di tutti i piaceri, il sesso. Il miglioramento del tenore di vita rimase modesto e limitato. Buona parte fu dovuta (almeno per quanti ave­ vano un lavoro) alla circostanza fortunata che gli anni di depressione mirarono anche a una diminuzione del costo della vita. La sterlina del 1933 aveva un potere di acqui­ sto superiore di quattro scellini a quella del 1924, e un operaio che guadagnava tre sterline la settimana (media dei lavoratori maschi nel 1924) si trovò con cinque scel­ lini in più nel 1938 *. I miglioramenti che si ebbero col * In altre parole, parte del peso della depressione che gravava sulla Gran Bretagna fu trasferito sui paesi sottosviluppati esportatori di materie prime.

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pieno impiego negli anni ’40 e con la prosperità degli an­ ni ’50 non sarebbero apparsi cosi notevoli se quelli degli anni fra le due guerre non fossero stati cosi trascurabili. Nondimeno, il paradosso che la depressione, la disoccu­ pazione di massa e — almeno per moltissimi membri della classe operaia — un tenore di vita in via di miglioramento si manifestassero insieme, riflette i mutamenti nell’eco­ nomia britannica fra le due guerre. Per un paese con la posizione internazionale della Gran Bretagna lo spostamento verso il mercato interno non po­ teva essere accolto senza riserve. Dopo la seconda guer­ ra mondiale, allorché il governo cominciò a sollecitare le industrie a esportare, la loro ormai definitiva preferenza per il mercato interno, molto piu comodo, risultò subito evidente. Ancor piu grave fu il fatto che anche le nuove industrie britanniche risultassero tecnologicamente me­ no dinamiche delle straniere, e anche quando le innova­ zioni, come accadde spesso, erano inglesi, l’industria bri­ tannica si dimostrò spesso incapace di sfruttarle commer­ cialmente, o per niente disposta a farlo. Nel campo, della scienza pura, la posizione della Gran Bretagna era premi­ nente, e lo divenne ancor di più dopo il 1933 con l’esodo dei migliori cervelli della scienza tedesca, sebbene tale posizione dipendesse pericolosamente da un ristrettissi­ mo numero di uomini in una o due università. Il posto della Gran Bretagna nel processo di evoluzione della fisica nucleare, della teoria dei computer e in branche della scienza fino allora meno importanti come la biochimica e la fisiologia, fu assicurato. Ma è anche da dire che pochi, fra le due guerre, guardavano alla Gran Bretagna ai fini dello sviluppo di nuove tecniche (eccetto che nel campo degli armamenti, in cui interveniva lo stato: si pensi al radar e all’aereo a reazione) e ancora di meno era­ no quelli che si ispiravano alla Gran Bretagna per il mo­ dello di quello che l’industria avrebbe dovuto essere. Fra i pochissimi prodotti tipici del nostro secolo che realmen­ te in pratica siano sorti e si siano affermati in Gran Bre­ tagna, ci fu la televisione, che iniziò le trasmissioni nel 1936; ma anch’essa, caratteristicamente, dovette la sua fortuna non semplicemente a un’azienda privata d’avan­

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guardia (Electrical and Musical Industries) ma al dina­ mismo della bbc, di proprietà statale. È significativo che la Gran Bretagna si trovasse molto innanzi a tutti gli al­ tri paesi, eccetto gli Stati Uniti, nell’impiego della tele­ visione: una situazione eccezionale *. In parte questa inerzia era dovuta al fatto che l’indu­ stria britannica non intraprese quelle ricerche e quelle iniziative sistematiche e costose che diventavano sempre più essenziali per il progresso di attività basate sulla tec­ nologia scientifica. La commissione Balfour per l’indu­ stria e il commercio, raffrontò malinconicamente nel 1927 i lenti progressi fatti nel campo della ricerca in generale con quanto avveniva nell’industria tedesca e in quella americana4. Comunque, non si trattò tanto di carenze nel campo della ricerca - dato che negli stessi Stati Uniti, come in Gran Bretagna, un vero grande sviluppo in que­ sto campo si ebbe soltanto durante e dopo la seconda guerra mondiale sotto l’impulso dei governi, soprattutto per scopi militari - quanto nel campo dello « sfruttamen­ to», cioè il costoso adattamento della scoperta e dell’in­ venzione a fini commerciali. Le invenzioni potevano esse­ re sfruttate solo da alcuni giganti dell’industria: i ricerca­ tori dell’Associazione degli stampatori di calicò, a cui ca­ pitò di scoprire un’importantissima fibra artificiale (il terylene), si limitarono a passarla all’Imperial Chemicals in Gran Bretagna, e alla Dupont negli Stati Uniti. Ma i grandi complessi inglesi erano in generale meno interessa­ ti alle innovazioni delle industrie straniere. Tuttavia, fatte le necessarie riserve, si può dire che l’at­ tività dell’industria britannica fra le due guerre non fu cosa secondaria. La produzione di tutta l’industria mani­ fatturiera britannica (inclusi, cioè, anche i settori in de­ clino) aumentò assai più rapidamente fra il 1924 e il ’35 che fra il 1907 e il ’24; e questo in un periodo di depres­ sione e disoccupazione di massa. La produzione industria­ le pro capite raddoppiò fra il 1850 e il 1913, e andò for­ * Nel 1950, c’erano in Gran Bretagna 600 000 apparecchi televisivi. Ancora nel i960, una metà abbondante degli apparecchi televisivi d’Euro­ pa funzionavano in Gran Bretagna.

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se anche oltre. Quasi non mutò fra il 1913 e il 1924. Ma dal 1924 al 1937 crebbe di circa un terzo, con un ritmo molto superiore a quello dei bei giorni vittoriani. Natu­ ralmente, a ciò si giunse soprattutto grazie alle nuove in­ dustrie. La produzione di articoli elettrici raddoppiò qua­ si fra il 1924 e il ’35, e raddoppiò abbondantemente an­ che quella automobilistica, come pure la fornitura di elet­ tricità. La produzione di aerei, di seta e di rayón (soprat­ tutto di rayón) aumentò di oltre cinque volte nello stes­ so breve periodo. Nel 1907 le «nuove industrie» aveva­ no contribuito appena nella misura del 6,5 per cento alla produzione totale; nel 1935 erano arrivate quasi a un quinto.

Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna era quindi economicamente un paese molto di­ verso da quello del 1914. Era diventato un paese con me­ no agricoltori e con molti impiegati statali in più; con meno operai industriali, ma con un maggior numero di commessi e di gente impiegata negli uffici; con meno do­ mestici ma con più cantanti di canzonette; e nel campo dell’industria manifatturiera, con meno operai tessili e più operai metallurgici ed elettrici. (Cfr. diagrammi 8-10). Era diventata un paese con una nuova geografia industriale. Ancora nel 1924, le regioni industriali tradizionali (Lancashire e Cheshire, Yorkshire occidentale) contribuivano per la metà alla produzione totale dell’industria. Nel 1935 la loro quota era scesa al 37,6 per cento, ed era appena su­ periore a quella delle nuove regioni industriali che erano andate rapidamente sviluppandosi: la Grande Londra e le Midlands. E questo era naturale; il Galles del Sud aveva, ancora nel 1937, il 41 per cento dei suoi operai nelle indu­ strie declinanti, contro il solo 7 per cento delle Midlands; e il Nord-Est, il 35 per cento contro il solo 1 per cento di Londra. La Gran Bretagna era diventata un paese con due set­ tori dell’economia divergenti, quello in ascesa e quello in declino, collegati soltanto da tre elementi: le grandi accu­ mulazioni di capitali, che tenevano entrambi i settori stret­

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tamente uniti, il crescente intervento dello stato che si diffondeva su entrambi, e l’arcaismo, nato dall’eccezio­ nale successo che toccò alla Gran Bretagna per il modo perfetto in cui aveva adattato le sue strutture al capitali­ smo liberale mondiale del secolo xix. L’economia mon­ diale liberale era ormai defunta nel 1939. Mori, se pos­ siamo assegnare al suo decesso una data precisa, nel pe­ riodo 1929-33, e non è piu risuscitata da allora. Ma il suo fantasma percorreva ogni paese: era il fantasma di quella Gran Bretagna che aveva imparato il mestiere di essere l’officina del mondo, il suo commerciante e trasportatore marittimo e il suo centro finanziario, ma non sapeva che cosa fare ora che questa occupazione era diventata inuti­ le. Gli inglesi non sanno tuttora che cosa fare. Ma qua­ lunque cosa quell’occupazione sia stata, implicò un cam­ biamento nelle funzioni statali che nel secolo xix sareb­ be stato inconcepibile. È di questo che ci occuperemo adesso.

1 Cfr. le opere di Mowat, Ashworth, Pollard in Letture ulteriori, j. c. allen, The Structure of Industry in Britain, 1961, e d. l. burn, The Economie History of Steelmaking, 1940. Per la situa­ zione internazionale cfr. 1. svenilsson, Growth and Stagnation in the European Economy, 1954, e Arthur lewis, Economie Survey 1918-1939, 1949. Cfr. anche i diagrammi 1, 3, 8, 11, 12, 14,16,18-19, 23> 29> 31,4°, 44,49> 52‘552 H. w. macrosty, The Trust Movement in British Industry, 1907. P- 33°3 Citato in pollard, Development, 1962, p. 168. 4 committee on industry and trade, Factors in Industrial and Commercial Efficiency, 1927, pp. 38-39.

12. Il governo e l’economia1

Prima della rivoluzione industriale, l’atteggiamento ca­ ratteristico del governo britannico e di quelli di altre na­ zioni nei confronti dell’economia, era che essi avessero il dovere di occuparsene. Questo è anche, quasi dapper­ tutto, l’atteggiamento dei governi riguardo all’economia dei nostri giorni. Ma fra queste due epoche, che rappre­ sentano quella che potrebbe essere chiamata la norma del­ la storia, e invero della ragione, ce ne fu una in cui l’at­ teggiamento fondamentale del governo e degli economi­ sti fu quello opposto: più il governo riusciva ad astener­ si dall’intervenire nell’economia, e meglio era. General­ mente parlando, quest’epoca di astensione coincise con la nascita, il trionfo e il dominio della Gran Bretagna in­ dustriale, e fu senza dubbio adatta in modo singolarissi­ mo alla situazione del paese e forse a quella di uno o a due altri che gli assomigliavano. La storia della politica eco­ nomica statale e della sua teoria a partire dalla rivoluzio­ ne industriale è essenzialmente la storia dello sviluppo e della decadenza del laissez-faire. La politica è naturalmente basata sulla teoria, anche se non sempre sulla teoria migliore. Potrebbe quindi appa­ rire logico iniziare questo capitolo considerando breve­ mente la teoria economica, tanto più che questo campo di studi fu, per gran parte del periodo di cui questo libro si occupa, dominato dagli inglesi, anche se non nella mi­ sura sostenuta dai patrioti. Comunque vi sono due moti­ vi per non dedicare eccessivo spazio all’evoluzione della teoria economica britannica, trattata adeguatamente da un’ampia letteratura specializzata. In primo luogo l’eco-

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nomia, una materia essenzialmente pratica, è inevitabil­ mente e largamente influenzata dal clima della discussio­ ne pratica, prevalente in un determinato momento, e riflet­ te quella che è nello stesso tempo la situazione concreta dell’economia. Era cosi quasi inevitabile che, nel primo trentennio del secolo xix, allorché le sue prospettive ap­ parivano oscure, l’economia dovesse apparire la «scienza cupa». Quando i problemi relativi ai salari cominciarono a preoccupare gli industriali, anche gli economisti, che mai se ne erano preoccupati, si dedicarono ad essi. Quan­ do, durante la depressione fra le due guerre, la disoccu­ pazione di massa dominò l’orizzonte, la teoria più carat­ teristicamente innovatrice in campo economico, il keinesismo, si presentò facendo perno sulla necessità del pie­ no impiego. Per di più, la funzione della scienza economi­ ca consiste in larga parte non tanto nel dire al governo e agli uomini d’affari quel che dovrebbero fare, quanto nel dir loro che è buona cosa quello che stanno facendo (o non facendo). In secondo luogo, la politica dei governi tende a riflettere più che la migliore scienza economica contemporanea (pur tenendo conto del periodo di tem­ po che intercorre fra il raggiungimento del controllo po­ litico da parte di uomini di mezza età che hanno impara­ to la loro teoria in gioventù, e l’ascesa a posizioni di in­ fluenza da parte di uomini più giovani), la scienza econo­ mica più accettabile politicamente, e spesso la versione semplificata e volgarizzata della scienza, cioè quella che tende a filtrare fuori delle fila degli esperti. In un paese come la Gran Bretagna, in cui pochi economisti professio­ nisti sono diventati ministri di gabinetto e nessuno è mai stato ministro del tesoro in via permanente, questo pro­ cesso di filtrazione è stato sempre, eccetto che durante le due guerre mondiali e in certo grado dopo la seconda, molto evidente. La politica è normalmente «ortodossa», vale a dire che essa è teoria irrigiditasi in parte in dogmi acritici. Naturalmente, dopo un certo tempo anche le or­ todossie cambiano. Una politica statale di laissez-faire assoluto è natural­ mente una contraddizione in termini. Non c’è governo moderno che non influenzi la vita economica, giacché la

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stessa esistenza del governo porta a questo: il «settore pubblico», per quanto modesto, è quasi sempre una gran­ dissima industria dal punto di vista delle persone impie­ gate, e le entrate e le spese pubbliche contribuiscono con un’alta proporzione al totale nazionale. Anche quando il laissez-faire britannico incontrò il maggior favore, intorno al i860, le spese statali ammontavano a una buona percen­ tuale del reddito nazionale. Naturalmente, poi, ogni atti­ vità di governo - ogni sistema di leggi e regolamenti pub­ blici — non può non influire sulla vita economica, senza contare che neanche il meno interferente dei governi po­ trebbe astenersi da controllare certi aspetti di rilevanza economica come la valuta in circolazione. La presenza del governo in campo economico e anche (entro certi limiti) l’importanza del suo peso, sono quindi cose fuori discus­ sione. Si tratta piuttosto di individuare quale sia il carat­ tere del governo. In un’economia liberale classica il suo obiettivo è di creare e conservare le condizioni che meglio convengono al capitalismo, il quale è visto come un siste­ ma autonomo, capace di un’espansione autonoma, tenden­ te ad accrescere al massimo la «ricchezza delle nazioni». Quando ebbe inizio la rivoluzione industriale britanni­ ca, il problema principale fu quello di creare queste con­ dizioni; a partire dal 1846 (abolizione delle leggi sui ce­ reali), fu invece di conservarle. Dall’ultimo quarto del secolo apparve sempre più evidente che tali condizioni non potevano essere conservate senza un crescente inter­ vento statale in settori che, secondo la teoria pura, era meglio lasciare intatti; ma fino al 1931 (abolizione del li­ bero scambio), il tentativo di conservare l’economia libe­ rale non fu abbandonato. Lo fu invece dopo il 1931. Que­ sta, in breve (e tutti i sunti devono subire un restringi­ mento del contenuto) è la storia della politica statale nel­ l’era della gloria industriale britannica. Creare le migliori condizioni per un agevole funziona­ mento della libera iniziativa significava, in primo luogo, eliminare quelle numerose forme di intervento statale esi­ stenti che non potevano essere giustificate dall’ortodos­ sia economica prevalente. Queste, nei primi decenni del secolo xix, erano di quattro specie. In primo luogo v’era­

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no i resti della politica economica tradizionale, cui fu da­ to il nome di mercantilismo, che aveva un obiettivo esat­ tamente opposto a quello del liberalismo economico, mi­ rava cioè ad aumentare la ricchezza nazionale per il trami­ te del potere statale (o il potere dello stato per il tramite della ricchezza nazionale, che era spesso la stessa cosa). In secondo luogo, vi erano i resti della politica sociale tra­ dizionale, che attribuiva al governo il dovere di conserva­ re una società stabile in cui ogni individuo aveva il dirit­ to di vivere nel posto (generalmente basso) cui l’Onnipotente l’aveva chiamato. Era un concetto che, anche dopo aver perso terreno ai livelli più alti della politica, fu persi­ stentemente difeso non soltanto dai lavoratori poveri, ma anche dai più tradizionalisti dei loro superiori. Per esem­ pio, ancora nel 1830 i membri delle classi dirigenti di va­ rie contee afflitte dalle grandi agitazioni del bracciantato agricolo insistevano, contro le raccomandazioni prove­ nienti dall’alto, nel chiedere l’imposizione di minimi sa­ lariali e l’abolizione delle macchine che provocavano la disoccupazione. Ma si presero una bacchettata sulle dita dalle autorità religiose di Westminster. In terzo luogo, vi erano gli interessi acquisiti di quei gruppi sociali che osta­ colavano il rapido progresso industriale, soprattutto le classi terriere. Infine, vi era l’accumulato ingombro della tradizione, quella enorme, eterogenea, inefficiente e co­ stosa congerie di istituzioni e carenze istituzionali che in­ tasava la via verso il progresso. Di queste categorie di intervento statale, la prima po­ neva il problema più serio dal punto di vista teorico, la terza (e in quanto gli interessi acquisiti la proteggevano, la quarta) nella pratica. La seconda aveva dal suo lato, virtualmente, soltanto i poveri. Eccetto che per la legisla­ zione sui poveri, il codice sociale stabilito nell’epoca Tudor era stato da lungo tempo superato, sebbene in qual­ che posto, nel secolo xvm, forti - cioè, normalmente, turbolenti - gruppi di lavoratori, fossero riusciti talvolta ad assicurarsi che i prezzi e i salari venissero legalmente fissati o che venissero legalmente controllate altre condi­ zioni di lavoro. Alla fine del secolo xvm si era ormai arri­ vati a considerare il lavoro come una merce da compera-

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re e vendere al prezzo imposto da un libero mercato, e quando nei duri anni delle guerre napoleoniche il nascen­ te movimento della classe lavoratrice tentò di far rivive­ re la protezione legale del vecchio codice, le sue reliquie furono seppellite dal parlamento, senza causare emozioni, nel 1813. Da allora, fino ai primi anni del secolo xx, la determinazione legale dei salari, anche se non il controllo legale dell’orario e di altre condizioni di lavoro, fu ufficial­ mente considerata come un preludio certo alla rovina. Ancora nel 1912 accadde che Asquith, uomo certamente poco emotivo, piangesse proponendo la Legge per il sala­ rio minimo dei minatori (inefficace), che uno sciopero na­ zionale delle miniere di carbone aveva fatto ingoiare al governo. La legislazione sui poveri non poteva essere abolita per motivi politici, perché era appoggiata sia dalla naturale e profonda convinzione dei poveri che un uomo ha dirit­ to alla vita, se non in effetti alla libertà e alla ricerca del­ la felicità, sia dalla potente pregiudiziale della comunità agricola favorevole a uno stabile ordine sociale, vale a di­ re avversa alla spietata conversione degli uomini, oltre che delle terre, in semplici merci. Soltanto in Scozia la lo­ gica calvinistica abolì il diritto dei poveri a essere man­ tenuti, affidandoli completamente alla carità dei loro su­ periori sociali nell’organizzazione ecclesiastica, anche se in un certo senso quello di mantenerli restava un dove­ re sociale. Inoltre, è stato recentemente sostenuto che una legislazione sui poveri in certo grado indiscriminata possa essere stata utile nelle prime fasi dell’industriali­ smo per assorbire il gran numero di disoccupati occulti, presenti specialmente nelle campagne, in un’epoca in cui il ritmo dell’espansione industriale era ancora incapace di fornire occupazioni sufficienti per la popolazione in au­ mento. Non mancano elementi per ritenere che la legislazione sui poveri del secolo xvm, malgrado la teoria borghese, diventasse piu generosa, e quando la povertà divenne calastrofica, durante i duri anni ’90 del secolo xvm, le clas­ si dirigenti delle campagne si buttarono a capofitto con­ no i principi della teoria economica liberale, con il «si-

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stema Speenhamland». Nelle sue versioni più ambizio­ se, quel sistema iniziò con lo stabilire dei salari minimi basati sul costo del pane e in caso di necessità integrati con sussidi. Lo «Speenhamland» non arrestò il processo di riduzione all’indigenza che i lavoratori agricoli stavano subendo, e in ogni caso non fu applicato ampiamente e durevolmente nella sua forma piena, ma fece inorridire gli economisti, perché allontanava ancor più la legisla­ zione sui poveri dal loro ideale economico. Esso consi­ steva: a) nel rendere la legislazione sui poveri il meno one­ rosa possibile; b) nel valersene non per alleviare la disoc­ cupazione occulta o scoperta, ma per indirizzare le forze di lavoro disoccupate verso il mercato libero della mano­ dopera, e c) nello scoraggiare l’aumento della popolazio­ ne, che secondo un convincimento allora ormai diffuso, avrebbe portato a una indigenza crescente. Sfortunata­ mente era possibile non dare proprio nessun aiuto agli in­ digenti, ma doveva comunque trattarsi di un aiuto con effetto scoraggiante, e in ogni caso «meno appetibile» della paga più bassa e dei lavori meno graditi offerti dal mercato. Una «nuova» legge sui poveri con queste ca­ ratteristiche inumane fu fatta approvare dal parlamento nel 1834, grazie a un insieme di pressioni politiche e di bugie camuffate da dati statistici. Essa provocò il più aspro malcontento dovuto a una legge nella storia britan­ nica moderna, anche se la rivolta dei lavoratori, non del tutto indifesi, ne impedì la piena applicazione (nessun aiuto fuori della casa di lavoro, separazione delle famiglie e cosi via) nel Nord industriale. È strano che nessuno ab­ bia seriamente esaminato se quella legge abbia reso più flessibile ¡’approvvigionamento di manodopera. La cosa è improbabile. Le argomentazioni che consigliavano di eliminare la congerie di vecchi istituti erano invece più convincenti, non foss’altro perché ciò avrebbe permesso di risparmia­ re parecchio denaro. La forza dei vecchi interessi acqui­ siti - specialmente della corona, della chiesa e dell’aristo­ crazia, ma anche dell’impenetrabile barriera dei giuristi limitò la portata di questo processo di razionalizzazione. Le riforme più generose, e anche alcune di quelle più eie-

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mentati, come, per esempio, l’applicazione della ragione all’ortografia, ai pesi e alle misure, abbisognano general­ mente di una rivoluzione sociale per essere attuate, e non c’era nessuna rivoluzione in corso. Nondimeno, anche se la monarchia, la chiesa ufficiale, le vecchie università, il ministero della guerra, il ministero degli esteri e alcuni al­ tri antichi monumenti sopravvissero all’epoca delle rifor­ me radicali senza troppi danni, parecchi risultati furono raggiunti, soprattutto nel corso di tre grandi operazioni di pulizia politica e amministrativa negli anni ’80 del seco­ lo xviii, negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, e ancora dal 1867 al 1874.1 vuoti di attività riformatrice negli an­ ni intercorsi fra queste operazioni furono dovuti al timo­ re di una rivoluzione sociale nei periodi giacobino e car­ tista. La «riforma economica», cioè l’attacco alla pratica di adoperare l’apparato centrale dello stato come un de­ posito di favori finanziari dispensati ai privati dai grandi patroni politici, iniziò negli anni ’80 del secolo xviii, an­ che se non giunse molto lontano. Fu finalmente enuncia­ to il principio di un servizio pubblico remunerato con sti­ pendi (anziché con onorari e profitti provenienti dalle ca­ riche), della separazione tra fondi privati e pubblici, e di una contabilità sistematica per quei fondi. Il concetto di «budget» - la parola entrò nell’uso nel tardo secolo xviii - fu probabilmente debitore soprattutto alle esi­ genze delle finanze del tempo di guerra dopo il 1793, ma rifletteva queste preoccupazioni. Un buon lavoro di puli­ zia nei campi del diritto penale e del sistema fiscale fu compiuto sotto ministri appartenenti alla classe media negli anni ’20 del secolo scorso, e il parlamento nuova­ mente riformato attaccò pesantemente, dopo il 1832, i vecchi abusi. Furono attacchi che ebbero successo là do­ ve i vecchi interessi acquisiti non si sentivano minacciati, soprattutto nella legislazione sui poveri e nell’amministra­ zione urbana (Legge per la riforma municipale, 1835), ma che altrove si insabbiarono. Comunque, dopo il 1860 alcune delle proposte precedenti furono almeno in parte realizzate con la sostanziale trasformazione del servizio ci­ vile, la riforma parziale delle vecchie scuole e università, l’istituzione di un sistema pubblico di istruzione obbliIO

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gatoria, e persino una modesta potatura delle foreste di leggi. La ragione di questo rifiuto di essere razionali più che a metà non fu il mitico gusto degli inglesi per la continuità e la loro ugualmente mitica avversione per la logica. Po­ chi paesi sono stati totalmente dominati da una dottrina aprioristica come la Gran Bretagna nel caso della teoria economica del laissez-faire, durante il periodo in cui le ri­ forme istituzionali furono lasciate incomplete, e alle isti­ tuzioni di ben pochi paesi toccò in sorte di essere più ra­ dicalmente distrutte e più spietatamente ricostruite di quanto successe a quelle dell’india in quello stesso perio­ do, e ciò proprio da quel tipo di britanni che quei miti tendono a idealizzare. La continuità delle istituzioni bri­ tanniche in questo periodo fu il risultato di un compro­ messo politico fra i vecchi interessi acquisiti, che non po­ tevano essere eliminati senza correre il rischio di una ri­ voluzione, e i nuovi industriali, che non erano disposti a correre questo rischio eccetto che in settori che conside­ ravano assolutamente vitali, cioè nel campo della politi­ ca economica. Sulla questione del protezionismo e del li­ bero scambio, essi erano pronti a combattere fino alla morte, e se necessario fino a un’insurrezione dovuta alla fame, che erano disposti a provocare. Gli «interessi ter­ rieri», resisi conto di ciò, acconsentirono pacificamente nel 1846 all’abolizione delle leggi sui cereali, incoraggia­ ti dalla assai minore vulnerabilità dei loro introiti in quel periodo. Ma per nessun’altra cosa si potevano correre si­ mili rischi. Il costo della inefficienza istituzionale, per quanto alto, era poco più che una sommerta trascurabi­ le per l’economia industriale più dinamica del mondo. Un’economia che, per citare un esempio dei più ovvi, po­ teva avere tutti gli investimenti di cui abbisognava e an­ che di più grazie a una legislazione antiquata che virtual­ mente vietava le società con capitale sociale, non era di­ sposta a cavillare per delle piccole spese extra. Certo, l’inefficienza istituzionale - per esempio la necessità anti­ economica che per ogni linea ferroviaria occorressero spe­ ciali leggi — contribuiva a far si che un miglio di ferrovie britanniche fosse molto più costoso che un miglio di tut-

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te le altre. Niente però prova che la costruzione di ferro­ vie britanniche fosse minimamente ostacolata da questo fatto. La rimozione di tutti questi ostacoli che si opponeva­ no al laissez-faire dipendeva completamente dal grado di pressione che gli industriali potevano o volevano eserci­ tare contro determinati gruppi sociali che si trovavano sulla loro strada. Fu soltanto lo smantellamento della po­ litica «mercantilista» che sollevò anche questioni com­ portanti principi teorici. È vero che fino a un certo grado questa era semplicemente una questione di interessi ac­ quisiti. Ma era facile dimostrare che 1’« interesse India oc­ cidentale», eufemismo per proprietà di schiavi e vendita monopolistica di zucchero coloniale, o il vecchio interes­ se dei tessuti di lana, che significava supervisione e prote­ zione sistematiche di quella che era stata l’industria base della Gran Bretagna, erano, anche sotto il profilo fiscale, meno importanti del cotone, soprattutto perché non ave­ vano l’appoggio politico di cui godevano gli «interessi terrieri». Non era facile dimostrare che gli interessi del capitalismo britannico sarebbero stati meglio serviti con un totale ritiro di ogni appoggio e protezione che il go­ verno offriva alle manifatture e al commercio. E questo, tanto più in quanto il trionfo dell’economia britannica era stato raggiunto nel passato in larghissima misura gra­ zie all’immancabile prontezza con cui i governi britannici avevano sostenuto i loro uomini d’affari, mediante una spietata e aggressiva discriminazione economica e la guer­ ra aperta contro tutti i possibili rivali. Ma fu quello stesso trionfo a rendere possibile, anzi desiderabile, il laissez-faire. Alla fine delle guerre napo­ leoniche, la posizione della Gran Bretagna era diventata inattaccabile. Come unica potenza industriale, poteva vendere a prezzi inferiori a quelli di ogni altro paese, e tanto meno seguiva una politica di discriminazione eco­ nomica, tanto più poteva tenere i prezzi bassi. Come uni­ ca potenza navale mondiale controllava gli accessi al mondo non europeo, su cui si basava la sua prosperità. Con l’unica grande eccezione dell’india non aveva nem­ meno bisogno, generalmente parlando, di avere colonie,

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perché l’intero mondo sottosviluppato era una sua colo­ nia, e colonia sarebbe rimasto se, sotto la politica del li­ bero scambio, essa continuava a comperare nel mercato meno caro e a vendere nel più caro, ossia se continua­ va a comperare e a vendere nell’unico grande mercato esistente, la Gran Bretagna. Cosi, almeno, apparivano le cose a uomini che ben presto invece di vedere nel pionie­ ristico decollo industriale britannico un accidente stori­ co, lo considerarono una fortunata elargizione della prov­ videnza che aveva, evidentemente, plasmato gli inglesi in modo che diventassero l’officina del mondo, e aveva fat­ to gli altri popoli capaci soltanto di produrre cotone, le­ gname o tè. Tutto quello di cui l’industria britannica ab­ bisognava era la pace: e c’era la pace. Erano quindi crollati i due pilastri principali del mer­ cantilismo. Essi consistevano nell’opportunità di proteg­ gere il commercio britannico con mezzi economici (inclu­ sa la conservazione di una riserva commerciale privata nel­ le colonie) e nel bisogno di difenderlo con la forza delle armi. Al primo Adam Smith aveva già rinunciato; il se­ condo, invece, lo preoccupava, ed era una preoccupazio­ ne molto ragionevole. Dopo il 1815, però, cessò anch’esso di avere un’importanza determinante. E cosi, soprat­ tutto negli anni ’20 del secolo, le parti rimanenti del co­ dice mercantilistico persero la loro forza. Le leggi sulla navigazione furono applicate meno severamente, anche se non furono abrogate fino al 1849; il sistema delle pre­ ferenze coloniali fu abbandonato negli anni ’50, e fu tol­ ta la proibizione di esportare macchinari e tecnici britan­ nici (ma già da lungo tempo si trattava solo di una farsa). Il resto del sistema scomparve assieme alle leggi sui ce­ reali, dopo il 1846 (cfr. il capitolo 5). Nella metà del se­ colo xix la politica governativa si accostò in Gran Bre­ tagna al laissez-faire più di quanto sia mai accaduto in un paese moderno. Il governo era poca cosa e costava rela­ tivamente poco, e col passare degli anni diventò ancor meno costoso in confronto ad altri stati. Fra il 1830 e gli anni ’80 del secolo la spesa annuale pubblica per abitante si triplicò in Europa, e aumentò ancora di più (era però partita da una base ridicolmente bassa) nei paesi d’oltre­

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oceano abitati da europei, ma in Gran Bretagna rimase sostanzialmente stabile. Eccetto che per la zecca, alcuni impianti per la produzione di armamenti e, inevitabilmenic, per alcune costruzioni, lo stato si astenne dalla produ­ zione diretta. Riuscì perfino a evitare una responsabilità diretta per certe cose che sono normalmente considerate ovvie funzioni statali, come avvenne (fino al 1870) per l'istruzione. Quando intervenne (e la complessità degli af­ fari nazionali era destinata a moltiplicare le incursioni am­ ministrative per questioni specifiche) fu per comportarsi come il vigile che regola il traffico, e non per incoraggiare o scoraggiare. Non era opinione accettata che la prima at­ tività dovesse implicare le altre due. Due esempi potran­ no illustrare il grado di astensione cui arrivò lo stato. La Gran Bretagna era il solo paese che rifiutasse sistematicamente ogni protezione fiscale per le sue industrie, e il so­ lo in cui lo stato né costruisse né contribuisse a finanzia­ re (direttamente o indirettamente) o sia pure pianificasse, una qualsiasi parte del sistema ferroviario. Tuttavia c’erano due settori nei quali lo stato doveva intervenire: la tassazione e l’emissione di valuta. Le fonti tradizionali di gettiti fiscali erano state, nel secolo xvin, tre: imposizioni sui consumi (di prodotti importati, con i dazi doganali, di quelli interni, con i da­ zi di consumo), sulla proprietà (vale a dire soprattutto ter­ re e fabbricati) e su varie transazioni legali (carta bollata). Nel 1750, e di fatto durante la maggior parte del secolo xvin, qualcosa come i due terzi delle entrate fiscali pro­ venivano dalla prima voce, con i dazi di consumo che nor­ malmente fruttavano il doppio di quelli doganali, mentre la maggior parte delle altre entrate provenivano da impo­ ste dirette, sebbene il gettito della carta da bollo tendes­ se ad aumentare. Vi erano altresì i prestiti, contratti so­ prattutto per scopi specifici. Il sistema fiscale moderno ha conservato il primo di questi pilastri e ha sostituito gli altri con le imposte di successione, che sono una tassazio­ ne della proprietà, ma soprattutto ne ha aggiunto un ter­ zo: l’imposta progressiva sui redditi. Nel 1939 i dazi do­ ganali e quelli di consumo davano soltanto un terzo del gettito fiscale e le imposte dirette sul reddito o i profitti

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circa il 40 per cento. Le imposte di successione, circa 1’8 per cento. Quant’altro occorreva proveniva principalmen­ te da un’attività statale che era diventata di grande im­ portanza, cioè la posta, e dalla nuova tassa sulle automo­ bili e da altre minori. Le imposte sul reddito furono dap­ prima introdotte come misura temporanea durante le guerre rivoluzionarie e quelle napoleoniche (1799-1816), ma, nonostante l’ovvia avversione dei cittadini e degli economisti furono riadottate, in via definitiva, nel 1842, anche se per parecchio tempo furono ancora considerate come un espediente temporaneo. Ancora nel 1874 Gladstone propose di abolire l’imposta sul reddito che incide­ va allora con la proporzione rovinosa di due scellini per sterlina *, e se avesse vinto le elezioni forse lo avrebbe fat­ to. L’imposta sul reddito cominciò a salire vertiginosa­ mente dopo il 1900, e in particolare dopo il 1909. Le tas­ se di successione, che gravavano principalmente sulle ric­ chezze accumulate dall’aristocrazia terriera, non furono mai troppo impopolari negli ambienti degli uomini d’af­ fari, ma sino alla fine del secolo (quando cioè si trovarono di fronte a nuove richieste di spese sociali e insieme di ar­ mamenti) gli interessi terrieri riuscirono ad allontanare la minaccia. Le tasse di successione divennero un’importan­ te fonte di gettito fiscale poco prima della seconda guerra mondiale, ma sempre di minor conto rispetto all’imposta sul reddito. Fino al secolo xx, questo modello fiscale andò svilup­ pandosi non già seguendo un concetto sistematico o razio­ nale circa quelli che potevano essere i metodi più efficien­ ti o socialmente più equi per avere degli introiti, e nem­ meno in base a una qualche considerazione degli effetti economici di differenti tipi di tassazione. La politica fi­ scale era dominata da tre considerazioni: come interferi­ re il meno possibile fra gli uomini d’affari, come caricare i ricchi il meno possibile, e come, nondimeno, arrivare a quel minimo necessario per affrontare le spese pubbliche senza andare incontro a un maggior indebitamento. L’an* Durante la guerra di Crimea raggiunse una punta massima di i scel-, lino e 6 denari per sterlina.

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tica economia politica era a favore delle imposte indirette (come i dazi doganali e quelli di consumo) per il fatto che queste erano socialmente inique: i poveri pagavano una più ampia quota dei loro redditi, lasciando ai ricchi mag­ giori capitali da accumulare a beneficio dell’intera econo­ mia. La teoria fiscale del laissez-faire, anche se più ela­ borata era anche più superficiale. Essa non gradiva le im­ poste indirette perché interferivano nel libero svolgimen­ to del commercio e in parte anche perché, facendo au­ mentare il costo della vita per i poveri, potevano porta­ re a un aumento dei salari minimi necessari per non far­ li morire di fame. Fra il 1825 e il 1856 un falò di vecchi dazi doganali ridusse le imposte indirette al minimo neces­ sario per avere un gettito fiscale, e il peso con cui grava­ vano sulla popolazione diminuì notevolmente. La dottri­ na del libero scambio impedì che fossero completamente abolite. Dato che la Gran Bretagna mancava anche, con l’eccezione delle poste, di imprese statali che dessero un reddito (a differenza del nuovo impero tedesco, che da imprese del genere * ricavava più della metà dei suoi red­ diti) alla lunga si dovettero rendere più pesanti le imposte dirette sul reddito e la proprietà. L’obiettivo fondamentale della finanza pubblica era di tenere basse le spese, e il bilancio in pareggio. Questa po­ litica, che non ha ragion d’essere in una economia guidata o trattata con criteri moderni, non era così irrazionale sotto il laissez-faire, e lo stesso può dirsi della fermissima convinzione che il debito pubblico dovesse essere ridotto. Esso era aumentato costantemente durante tutto il seco­ lo xviii, e vertiginosamente durante l’ultima più impegnativa guerra contro la Francia (1793-1815): le guerre era­ no naturalmente la causa principale dell’indebitamento pubblico, anche se dopo il 1900 fu raccolto parecchio de­ naro da investire nel settore statale dell’economia, che andava espandendosi. I cento anni di pace dopo il 1815 ridussero gradualmente il debito pubblico a circa tre quar­ ti della punta massima raggiunta nel 1819, ma dopo il 1914 ci si avviò rapidamente a un debito superiore di più * Per esempio le ferrovie.

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di dieci volte. Come era successo per l’imposta sul red­ dito, la speranza che questa fonte di fondi sarebbe stata temporanea, scomparve. La seconda inevitabile attività economica, il control­ lo della valuta, immise lo stato piu direttamente sulla via degli affari. Il problema iniziale fu di come mantenere stabile la sterlina, soprattutto nell’interesse del commer­ cio e della finanza internazionale della Gran Bretagna. La necessità di quella che sembrava spesso una permanente tendenza deflazionistica non è affatto evidente come pre­ sumevano gli economisti ortodossi del secolo xix, i quali zittirono gli occasionali fautori di un’inflazione controlla­ ta, come il banchiere Attwood, di Birmingham; ma per un paese che era il fulcro del sistema commerciale e finanzia­ rio internazionale, la tendenza antinflazionistica non era irragionevole. A partire dai primi anni del secolo xvm, la base della stabilità valutaria era stata la «parità aurea», consistente in una fissa e rigida relazione fra l’unità valu­ taria e una determinata quantità d’oro. Prima del 1931 la parità aurea fu abbandonata solo due volte, nel corso delle due grandi guerre, dal 1797 al 1821 e dal 1914 al 1925; la depressione la tolse di mezzo per sempre. La parità aurea sollevò due problemi. Primo, come controllare l’emissione di monete e banconote evitando l’invilimento o l’inflazione. Secondo, ed era piu diffìcile, come influire sull’afflusso e il deflusso dell’oro, e sui suoi movimenti all’interno del paese, senza ricorrere a control­ li delle borse o alla sospensione della convertibilità, cose considerate entrambe assolutamente indesiderabili, eccet­ to che dalla minoranza inflazionistica. L’alternativa logica, proporzionare l’emissione alla disponibilità di lingotti, poteva andare bene quando l’oro affluiva, ma poteva crea­ re una gravissima penuria quando l’oro defluiva troppo rapidamente; fu in effetti in situazioni come quest’ultima che la parità aurea dovette talvolta essere sospesa (come nelle crisi del 1847, 1857 e 1866) o abolita (come nel 1797, I9I4 e I931)- La soluzione del primo problema poteva trovarsi accentrando l’emissione di banconote nel­ la Banca d’Inghilterra (la coniazione di monete era stata già da tempo monopolizzata dalla Zecca). A questo si giun­

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se per motivi pratici dopo decenni di appassionate discus­ sioni, con la Legge bancaria del 1844, e da allora non si ritornò piti sull’argomento, perché i mezzi di pagamento non monetari (cambiali, assegni bancari e cosi via) furo­ no sempre più adoperati, eccetto che per le piccole tran­ sazioni in contanti. Il secondo problema fu risolto, o cosi si credette, con la manipolazione del tasso di sconto bancario, il tasso cioè a cui la Banca d’Inghilterra era disposta a scontare le cambiali e quindi ad anticipare denaro su di esse. La Banca d’Inghilterra doveva essere quella che in definiti­ va effettuava i prestiti. Il tasso di sconto doveva indica­ re quale assistenza essa era disposta a dare alle altre ban­ che, preoccupandosi nello stesso tempo (cosi si sostene­ va) di proteggere la sua riserva essenziale di lingotti atti­ rando oro a Londra con un sufficiente motivo di attratti­ va, appunto il tasso di sconto. Dato che la City di Londra era il centro finanziario del paese, anzi, in misura crescen­ te, del mondo intero, il tasso di sconto della Banca d’In­ ghilterra veniva cosi a stabilire il tasso generale di sconto per i prestiti a breve scadenza in tutto il mondo. Cosi fa­ cendo, questa era la teoria, avrebbe fatto diminuire le fluttuazioni del credito, incoraggiando o scoraggiando se­ condo quello che la situazione economica suggeriva. Que­ sto tipo di manipolazione cominciò ad essere applicato se­ riamente verso la metà degli anni ’40 del secolo scorso. Tutto ciò presupponeva due cose. Primo, che la Ban­ ca d’Inghilterra agisse da banca centrale e nient’altro, e, secondo, che non si dessero fluttuazioni economiche im­ possibili da eliminare grazie a questi interventi a breve scadenza. La prima condizione fu gradualmente realizza­ ta nella metà del secolo dopo l’emanazione della Legge bancaria, quando la Banca d’Inghilterra, lentamente e con riluttanza, abbandonò la sua ordinaria attività bancaria e quelle volte al profitto e imparò quali fossero i suoi ob­ blighi come banca statale. Dopo la «crisi Baring» del 1890 aveva già fatto probabilmente entrambe le cose. La se­ conda condizione rimase un pio mito. La stabilità della valuta britannica poggiava sull’egemonia internazionale dell’economia britannica, e quando questa fini, nessuna

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manipolazione del tasso di sconto servi a molto. Niente poi dimostra che il tasso di sconto della Banca d’Inghil­ terra, o qualsiasi altro metodo d’intervento dello stato nel mercato in qualità di prestatore o di contraente di presti­ ti, abbia diminuito l’ampiezza dei boom e delle depres­ sioni che punteggiavano i movimenti dell’economia a in­ tervalli di pochi anni. Le fondamenta del laissez-faire crollarono negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Man mano che altri paesi si industrializzarono, risultò evidente che il libero scambio non era sufficiente a mantenere la Gran Bretagna come unica, o anche come principale, officina del mondo; e se la Gran Bretagna non lo era piu, la base stessa della sua politica economica internazionale doveva essere riveduta. Quando la «grande depressione» la colpi, divenne meno evidente di quanto era apparso prima che la sola cosa di cui l’economia britannica necessitava da parte dello stato, a parte una bassa pressione fiscale e una valuta stabile, era di essere lasciata a operare da sola. Allorché, nel 1867 ma specialmente nel periodo 1884-85, le classi lavoratri­ ci ottennero il voto, divenne fin troppo chiaro che esse avrebbero chiesto, e ottenuto, un sostanziale intervento dello stato perché venisse migliorato il loro tenore di vi­ ta. Allorquando, con la Germania, sorse in Europa un’al­ tra grande potenza, e altre due oltre oceano con gli Stati Uniti e il Giappone, la pace mondiale (col suo corollario di bilanci ristretti) non potè più essere data per scontata. Inoltre, anche se questo non era ancora evidente, si po­ teva già cominciare a sospettare che la logica conseguen­ za di un’iniziativa privata lasciata completamente libera non sarebbe stata quella di un modesto apparato statale relegato in un angolo inosservato in un’economia compe­ titiva di piccoli imprenditori. La conseguenza avrebbe in­ vece ben potuto essere un apparato statale sempre più esteso e burocratico, operante in mezzo a compagnie sem­ pre più grosse e burocratiche, e molto poco in concorren­ za fra loro. Non c’era da aspettarsi che l’opinione del mondo degli

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affari e la politica del governo si adeguassero a questa nuova situazione. Durante la grande depressione emersero piccoli gruppi di ideologi che chiedevano una completa rottura con 1’«individualismo» del laissez-faire, il quale si identificava talmente col capitalismo britannico, che i due termini venivano spesso confusi, proprio come il termine opposto, quello dell’interferenza statale, era largamente identificato con «socialismo». I socialisti genuini, che ri­ comparvero in Gran Bretagna negli anni ’80 del secolo scorso, vedevano le cose soprattutto dal punto di vista della classe operaia, e i proponenti di varie politiche di «efficienza» nazionale e di «imperialismo» contrario al laissez-faire, vedevano le cose soprattutto dal punto di vi­ sta della posizione competitiva internazionale della Gran Bretagna, o più generalmente (e pericolosamente) con lo sguardo fisso a un qualche grande destino nazionale o raz­ ziale che aveva chiamato la Britannia a dominare sia le onde sia i lidi lontani. Ma i socialisti rimasero dei piccoli gruppi di minoranza all’interno stesso del movimento ope­ raio, anche se dalle loro file uscirono parecchi dei capi del movimento. Non fu prima del 1918 che il partito laburi­ sta si dedicò anche nella teoria a un programma di socia­ lizzazione dei mezzi di produzione, di distribuzione e di scambio. Gli imperialisti sistematici — per dare una deno­ minazione a una tendenza difficile da definire chiaramen­ te — occupavano una posizione analoga all’interno delle classi dominanti e quindi esercitavano un influsso molto più diretto sulla politica. Ma essi erano, come è mostra­ to dalla carriera di Lord Milner, meno tipici dell’opinione prevalente fra le classi dominanti, fortunatamente le loro teorie li spingevano, volenti o nolenti, verso quello che in seguito fu conosciuto come fascismo. Il grosso delle classi lavoratrici e naturalmente, in misura assai maggio­ re, il grosso del mondo degli affari si spostarono da quel­ lo che gli ideologi chiamavano «individualismo» verso il «collettivismo» con piccoli movimenti irregolari, spinti dalla pressione degli eventi. Gli eventi, naturalmente, spingevano in continuazione, ma in cinque occasioni lo fecero in modo più deciso e irre­ sistibile che in altre: durante la «grande depressione»

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(specialmente nei tardi anni ’80 e ’90 del secolo), dopo il 1906, durante e immediatamente dopo la prima guerra mondiale, sotto l’influsso della depressione del 1929, e durante la seconda guerra mondiale. Il primo periodo non causò alcun vero cambiamento nella politica economica perché (per perdurante sfortuna della Gran Bretagna) la depressione passò prima che il mondo degli affari e quello della politica fossero stati spa­ ventati a sufficienza. Esso si limitò a far sorgere la que­ stione se l’ortodossia tradizionale, e specialmente il suo simbolo quasi religioso, il libero scambio, dovesse essere abbandonato. Né, e questo per motivi analoghi, esso cau­ sò alcun serio cambiamento nella politica sociale. D’altro canto 1’« imperialismo » e la guerra - considerati dai loro campioni come soluzione sia per il problema economico sia per quello sociale, rivoluzionarono la politica estera britannica. Se lo stato dovette modificare il suo comporta­ mento, ciò fu in gran parte dovuto agli oneri amministra­ tivi e soprattutto fiscali dovuti allo sventolio della bandie­ ra e al tintinnio della sciabola. Le spese per la marina au­ mentarono da una media annuale di circa io milioni di sterline nel periodo 1875-84, a piu di 20 milioni l’anno nella seconda metà degli anni ’90 del secolo e a più di 40 milioni negli ultimi anni prebellici. I prestiti contratti dallo stato per imprese dirette largamente connesse con gli armamenti e le comunicazioni salirono da zero prima del 1870 a circa 50 milioni di sterline poco prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Fu questo, più che le trascurabili spese per il benessere sociale (che non fos­ sero per l’istruzione), a rendere impossibile la vecchia po­ litica di volere un governo poco costoso e inattivo. Il sorgere di un partito laburista, e dietro di esso dei movimenti di scioperi radicali, non influì molto sulla po­ litica prima che il partito arrivasse ad avere quaranta de­ putati della classe operaia nel 1906, ma portò infine nel 1912 a una ambiziosa struttura di legislazione sociale. I suoi costi furono ancora di poco conto, ma questa strut­ tura contrassegnò due grandi deviazioni dai principi del vecchio stato che si ispirava al laissez-faire. La legislazio­ ne sui poveri, anche se resistè ai tentativi di abolizione fi­

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no al 1929, non fu più considerata come capace di esauri­ re la responsabilità pubblica nei confronti degli indigenti e, cosa ancor più importante, fu riconosciuta la necessità di un intervento diretto del governo sul mercato del lavo­ ro, arrivando anche a fissare, se del caso, la misura dei sa­ lari. L’altra grande svolta, che può essere fatta risalire al­ la serrata nazionale delle miniere di carbone del 1893, fu data dalla necessità che il governo intervenisse in quelle dispute sindacali che avrebbero potuto danneggiare l’in­ tera economia: una contingenza che nessuno aveva preso in considerazione nei giorni felici in cui la Gran Bretagna non aveva veri concorrenti stranieri. Questi cambiamen­ ti ne implicarono altri due: il riconoscimento ufficiale che le trade unions non erano semplicemente degli organismi appena tollerabili in base alla legge, ma organismi connes­ si con l’azione di governo; e l’impiego della tassazione, al­ meno potenzialmente, come metodo capace di diminuire i malcontenti sociali riducendo l’eccessivo scompenso dei redditi. La radicalizzazione politica causata dalla prima guerra mondiale trasportò alcuni di questi cambiamenti dalla teo­ ria in una costosa pratica, e mise i governi di fronte alla prospettiva ancor più temibile di un movimento delle classi lavoratrici effettivamente impegnato a conseguire la nazionalizzazione delle industrie. Nel 1919 la nazionaliz­ zazione delle miniere dovette davvero essere promessa, in malafede, ai minatori pronti a battersi. Ma l’effetto maggiore della guerra fu quello di distruggere tempora­ neamente,,ma pressoché completamente, l’intero sistema vittoriano. Una guerra mondiale non poteva certo essere combinata con lo slogan «affari come al solito». Nel 1918 il governo aveva ormai assunto la conduzione di varie in­ dustrie, ne controllava altre riservandosene la produzione o col diritto di concedere licenze, curava l’acquisto all’e­ stero della gran massa dei materiali di cui abbisognava, po­ neva restrizioni all’esborso di capitali e al commercio estero, fissava prezzi e controllava la distribuzione dei be­ ni di consumo. Della politica fiscale ci si serviva - goffa­ mente — per indirizzare verso lo sforzo bellico una quan­ tità di risorse maggiore di quella che la popolazione avreb­

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be gradito, soprattutto con un’inflazione provocata indi­ rettamente. Una parte di questo sforzo bellico fiscale, le cosiddette tasse doganali McKenna del 1915 (sull’impor­ tazione di automobili, biciclette, orologi, strumenti musi­ cali e film), provocò la prima effettiva breccia nel muro del libero scambio; queste imposizioni furono in seguito man­ tenute, a duraturo vantaggio dell’industria automobilisti­ ca britannica, come dazi protettivi. In effetti, fra il 1916 e il 1918 la Gran Bretagna fu costretta a tratteggiare un primo incompleto e riluttante abbozzo di quella potente economia di stato che fu attuata nella seconda guerra mondiale. Quella incompleta struttura fu smantellata con una fretta indecente dopo il 1918. Poco ne rimaneva nel 1922, e nel 1926 un ultimo nostalgico sforzo ripristinò la pari­ tà aurea e con essa, almeno cosi si sperava, tutta la felice libertà autoregolantesi del 1913. Ma niente poteva ridi­ ventare come prima. L’apparato statale rimase piu ampio e assorbente che mai. La protezione delle industrie «chia­ ve» non fu piti una questione teorica. La razionalizzazio­ ne e la fusione delle industrie, imposte dal governo, e an­ che la loro eventuale nazionalizzazione, erano diventate una questione di politica pratica. Soprattutto erano state verificate le possibilità di intervento statale. Da allora sa­ rebbe magari stato possibile detestare l’interferenza sta­ tale, ma non più ragionevolmente affermare che non fun­ zionava. Curiosamente, la depressione fra le due guerre incorag­ giò l’intervento dello stato nel campo degli affari assai più di quanto avevano fatto le sue attività volte al benes­ sere sociale. La pressione politica del movimento delle classi lavoratrici si allentò dopo i primi anni ’20. L’imme­ diata reazione dell’indirizzo governativo nei confronti del forte accrescimento delle spese sociali in base agli schemi anteriori al 1914 (non ce n’erano di nuovi) fu uno sforzo febbrile, per ridurle a «una sana base attuariale», vale a dire di ridurle all’osso. L’ortodossia finanziaria reagì au­ tomaticamente alla depressione del 1929 con una ridu­ zione generale delle spese. Le diminuzioni apportate agli stipendi dei dipendenti statali nel 1931 causarono il pri-

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mo ammutinamento nella marina britannica dopo il 1797. La diminuzione dei sussidi di disoccupazione e il taglio da­ to al numero dei beneficiari, e soprattutto l’imposizione della «dimostrazione di indigenza», causarono marce del­ la fame e tumulti. Il risentimento accumulatosi in conse­ guenza di queste misure disperate con cui si cercava di te­ nere sotto controllo le spese sociali fu uno dei motivi che portarono al ritardato trionfo elettorale dei laburisti nel 1945. Ma nel corso di quel breve periodo la depressione non aveva spinto i governi verso lo stato del benessere; li aveva indotti invece a sforzi disperati per impedirne l’am­ pliamento. D’altro canto, le necessità delle industrie colpite dalla crisi facevano invocare l’intervento statale, e il breve pe­ riodo di eliminazione del controllo statale fu poi seguito da un’epoca in cui l’intervento dello stato nel campo de­ gli affari fu più vasto che mai, cosa che rimase gradita sol­ tanto perché l’azione dello stato andava nel modo più ov­ vio a favore di quel settore. Il settore dell’economia pro­ prio dello stato non fu invece rivoluzionato anche se l’ini­ ziativa più vasta fu integrata o sostituita in alcune indu­ strie, nuove o, caso più frequente, di importanza militare, o aventi entrambe queste caratteristiche. Già prima del 1914 la marina aveva aperto una breccia nel laissez-faire facendo dello stato britannico un comproprietario o finan­ ziatore del canale di Suez, dell’Anglo-Persian Oil Com­ pany (1914), della compagnia di navigazione Cunard (1904) e - al costo di un furioso scandalo in cui furono coinvolti alti personaggi del governo accusati di corru­ zione - della Marconi Radio Telegraph Company (1913), mentre le poste avevano rilevato la principale società te­ lefonica, virtualmente nazionalizzando il servizio, anche se la parola nazionalizzazione era ancora proibita. Dopo la guerra fu esteso l’aiuto pubblico a queste industrie, spe­ cialmente ai trasporti aerei e alle radio-comunicazioni, e le trasmissioni radio divennero un monopolio pubblico, so­ prattutto per motivi politici. Comunque, i principali in­ terventi del governo, le cui inibizioni erano state elimina­ te dal periodo bellico, miravano ancora a rendere l’indu­ stria privata più efficiente piuttosto che a sostituirla. In

lyf)

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pratica, questo significava infrangerne la tradizionale struttura competitiva e dispersa. Fra le due guerre, in par­ ticolare durante gli anni ’30, la Gran Bretagna, come ab­ biamo visto, si mutò da una delle meno in una delle più controllate economie, e questo in gran parte per il trami­ te dell’azione statale diretta. Arrivò alla fusione delle fer­ rovie (1921), alla concentrazione, anzi alla parziale na­ zionalizzazione, delle forniture di energia elettrica (1926), alla creazione di un monopolio appoggiato dallo stato nel campo dell’industria siderurgica (1932), e a un controllo nazionale del carbone (1936), anche se il successo fu mi­ nore nell’industria cotoniera. Cosa ugualmente impensa­ bile in termini di capitalismo vittoriano, il governo si mi­ se a regolare i prezzi e la produzione specialmente nell’a­ gricoltura, circa un terzo del cui prodotto fu fatto rientra­ re negli schemi di mercato approntati dal governo (maia­ li, pancetta, latte, patate, luppolo). Alla fine degli anni ’30 alcuni di questi schemi avevano raggiunto il margine della nazionalizzazione, come accadde ad esempio per le royalties del carbone (1938), e le linee aeree britanniche (1939), mentre il collasso dell’industria nelle aree depres­ se aveva quanto meno dato vita al principio di una politi­ ca volta ad appoggiare direttamente e a finanziare l’indu­ stria in base a una pianificazione governativa. Politicamente, l’espansione dell’attività statale durante e dopo la seconda guerra mondiale fu ancora sbalorditiva. Econo­ micamente e amministrativamente, non fece che conti­ nuare la sua marcia lungo sentieri ben conosciuti. Ma la conseguenza più drammatica della recessione fu la morte del libero scambio. E siccome il libero scambio era il simbolo quasi religioso della vecchia società capita­ listica competitiva, la sua fine non soltanto dimostrò pub­ blicamente che era incominciata una nuova era, ma inco­ raggiò la forte espansione della responsabilità statale. Fin­ ché durò il libero scambio, l’intervento del governo fu un’eccezione, un singolo e increscioso scostamento dal­ l’ideale, che doveva essere attentamente vagliato e stret­ tamente limitato. Ma una volta morto il libero scambio, a che cosa serviva attenersi alle dosi omeopatiche del pas­ sato?

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Che il libero scambio venisse spazzato via con la pari­ tà aurea del 1931, era naturale. È molto più sorprendente che non abbia incontrato la stessa sorte prima. Era Stato preso di mira fin dagli anni ’8o del secolo scorso, quando i fautori del «commercio leale» proposero la rappresaglia come un’arma da far balenare davanti agli occhi degli al­ tri paesi che stavano largamente applicando tariffe doga­ nali. Ci fu un momento (1886) in cui perfino il vaticano dell’ortodossia cobdenita, la camera di commercio di Man­ chester, si trovò divisa sulla questione. Dopo il 1902, la campagna per la riforma delle tariffe condotta da Joseph Chamberlain fece della proposta di introdurre dazi doga­ nali uno dei principi basilari da applicare nel campo della politica interna, e converti a questo principio il partito conservatore. Il presupposto, piuttosto difensivo, che sta­ va dietro a questo atteggiamento, era che siccome l’indu­ stria britannica non poteva più dominare il mondo intero, tanto valeva che si concentrasse su quel quarto del globo racchiuso in un impero britannico sbarrato agli aggressi­ vi stranieri. Gli elementi sfavorevoli al libero scambio erano senza dubbio poderosi, specie dato che l’industria britannica non era più la più grande o la più efficiente del mondo, e dato che il paese era notevolmente arretra­ to nelle industrie tecnologicamente nuove del secolo xx. Il concetto classico della scuola di Manchester, per cui un’industria non più in grado di produrre più a buon mer­ cato di qualunque altra nel mercato mondiale avrebbe do­ vuto cessare l’attività, poteva portare al sacrificio di alcu­ ni piccoli settori o anche dell’agricoltura britannica, ma non di una grossa fetta delle industrie base e delle prospet­ tive britanniche. Inoltre, mentre era ragionevole nel 1860 trascurare l’eventualità di una guerra importante, questo non fu più possibile a partire dagli anni ’90 del secolo. E, come Adam Smith aveva capito, le necessità della di­ fesa nazionale dovevano aver la meglio anche sulla liber­ tà di commercio. Ci furono tre motivi però che conservarono in vita il libero scambio a dispetto di tutti i suoi critici. In primo luogo la grande depressione degli anni 1873-96 cessò pri­ ma di aver spaventato a sufficienza il governo e gli uomi-

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ni d’affari (cfr. p. 214). Secondo e più importante mo­ tivo, il vasto settore dell’economia britannica che dipen­ deva dal commercio internazionale non aveva niente da guadagnare da un intervento protezionistico (a meno che la semplice minaccia di attuarlo non fosse sufficiente a far abolire le tariffe straniere, il che era improbabile). I dazi doganali servivano a proteggere il mercato interno. Poco potevano fare per proteggere il mercato delle espor­ tazioni, e nella misura in cui avessero fatto diminuire le esportazioni di altri paesi verso la Gran Bretagna, espor­ tazioni che servivano a quei paesi per i loro acquisti di merci britanniche, non potevano che peggiorare la situa­ zione. La porta fu aperta al protezionismo solo quando le industrie base del tardo secolo xix, orientate verso le esportazioni, crollarono dopo la prima guerra mondiale, e quelle volte al mercato interno acquistarono un’impor­ tanza decisiva. Ultimo e più importante motivo, la finanza britannica trionfava anche nel momento in cui le industrie britanniche languivano. Il predominio mondiale della Ci­ ty di Londra divenne anzi, nel periodo 1870-1913, an­ cor più netto di quanto era stato in passato, e lo stesso va­ le per il suo ruolo nella bilancia dei pagamenti. La City poteva funzionare soltanto in una singola economia mon­ diale senza pastoie, e comunque in una economia in cui non fosse impedito il libero flusso di capitali. I governi, essi stessi più collegati con la City che con l’industria, lo sapevano bene. Persino durante la prima guerra mondia­ le furono fatti sforzi eroici per salvaguardare la City da ogni disturbo. Dovendosi scegliere fra industria e finan­ za, era all’industria che toccava soffrire. Fu soltanto quan­ do la depressione del 1931 distrusse infine la rete singola del commercio e delle transazioni finanziarie mondiali, il cui centro erano Londra e la sterlina, che il libero scam­ bio spirò. E anche allora non fu la Gran Bretagna ad ab­ bandonarlo. Fu il mondo ad abbandonare Londra.

Verso la metà degli anni ’30 il laissez-faire era quindi ormai morto anche come ideale, eccetto che per i soliti giornalisti finanziari, gli esponenti di attività economiche.

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di poco conto, e gli economisti; e anche gli economisti combattevano soltanto un’azione di retroguardia. J. M. Keynes, il tipico scrittore «cervellotico» degli anni ’20, divenne la chiave di volta di una nuova ortodossia eco­ nomica grazie alla General Tbeory (1936) che non diceva molto che non fosse stato anticipato prima, ma lo disse quando i suoi lettori vivevano nell’ombra della crisi del 1931. Due politiche economiche si trovavano quindi a faccia a faccia, entrambe ugualmente remote da John Stuart Mill. Da una parte c’era il socialismo, basato essen­ zialmente sulle aspirazioni della classe operaia, ora gran­ demente rafforzata dall’esperienza dell’Urss, che impres­ sionava anche gli osservatori non socialisti con la sua evi­ dente immunità dalla grande depressione. Il socialismo non prevedeva iniziative politiche precise con l’eccezione della vecchia richiesta di nazionalizzazione dei mezzi di produzione, distribuzione e scambio, e dello slogan «pia­ nificazione» che i piani quinquennali sovietici avevano fatto diventare di grandissima attualità. D’altro canto non mancavano quelli - soprattutto economisti provenienti dal liberalismo (come J. A. Hobson) o che rimanevano ancora liberali (come Keynes e Beveridge) — che deside­ ravano salvare gli elementi essenziali di un sistema capi­ talistico, ma si rendevano conto che questo poteva farsi soltanto nell’ambito della struttura di uno stato forte e sistematicamente interventista o anche per il tramite di un’«economia mista». In pratica, la differenza fra queste due tendenze era talvolta diffìcile da individuare, tanto più che alcuni keynesiani abbandonarono il liberalismo del loro fondatore per il socialismo, e il partito laburista tese a far propria la politica keynesiana preferendola ai tradizionali slogan socialisti. Ancora, in linea generale i socialisti favorivano i propri scopi perché erano per l’u­ guaglianza totale e la giustizia, e i non socialisti i propri perché erano per l’efficienza dell’economia britannica e contro lo sfacelo sociale. Entrambe le correnti conveniva­ no che soltanto un’azione statale sistematica (quale che ne fosse la natura) poteva eliminare ed evitare le depres­ sioni e la disoccupazione di massa. La seconda guerra mondiale «dribblò» queste discus-

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sioni dopo il 1940, obbligando la Gran Bretagna, nell’in­ teresse della sopravvivenza, all’economia più pianificata e diretta dallo stato mai introdotta fuori degli stati deci­ samente socialisti. La sua organizzazione dovette qualco­ sa alle esperienze degli anni 1916-18, di cui sviluppò siste­ maticamente i principi, qualcosa alle esperienze degli an­ ni ’30, e qualcosa alle nuove teorie economiche keynesiane che andavano infiltrandosi rapidamente nel governo attraverso il reclutamento in massa di laureati e di altri «estranei» nel servizio civile. Ma dovette anche molto all’implicita pressione politica delle classi lavoratrici, che iniettavano deliberatamente un elemento di equità sociale nella politica statale, qualcosa che aveva brillato per la sua assenza durante la prima guerra mondiale. Non sol­ tanto accadde che il governo fu più vicino alle classi lavo­ ratrici (non foss’altro perché la seconda guerra mondiale, a differenza della prima, fu e rimase profondamente po­ polare). Non soltanto accadde che adottò una politica si­ stematica di «parti eque». Il fatto fu che anticipò una gran parte della legislazione volta al benessere (per esem­ pio, col rapporto Beveridge del 1942) e, con una deviazio­ ne rivoluzionaria, si dedicò al mantenimento di «un alto livello d’occupazione » come obiettivo principale della sua azione (1944). Alla fine della guerra appariva ormai chia­ ro che la strada che riportava indietro al 1913 era ormai sbarrata. L’apparato per la direzione e il controllo dell’eco­ nomia fu smantellato rapidamente dopo il 1945, come era successo dopo il 1918. Dopo la metà degli anni ’50 si no­ tò un evidente ritorno alla politica che favoriva l’iniziati­ va privata e il mercato libero. Tuttavia, il campo d’azio­ ne lasciato all’attività economica non sottoposta a restri­ zioni fu anche allora assai più piccolo di quello che era stato prima del 1941, e quelli che chiedevano un’« occu­ pazione flessibile», cioè un’aliquota di disoccupazione su­ periore all’i o al 2 per cento, non ebbero un peso politi­ co effettivo. I governi laburisti degli anni 1945-51, costituirono, in un certo senso, i risultati ritardati delle esperienze più amare fatte fra le due guerre. Tuttavia, in termini di poli­ tica governativa, gli obiettivi che raggiunsero non furono

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rivoluzionari. Nazionalizzarono alcune industrie, che era­ no de facto sotto il controllo pubblico già da molto tem­ po (la Banca d’Inghilterra, la Cable & Wireless, le linee aeree e servizi pubblici come il gas e l’elettricità), alcune altre che erano talmente a terra da non poter essere sal­ vate da nessun intervento privato (specialmente le minie­ re di carbone e le ferrovie), e due che non erano realmen­ te in fallimento, quella siderurgica e quella dei trasporti stradali. Furono poi denazionalizzate negli anni ’50. Il settore statale dell’economia che cosi emerse, era un po’, non molto, piu grande di quello che si affermò nello stes­ so periodo in vari paesi continentali. Non fu fatto alcun serio tentativo per mandarlo avanti in modo coerente. La forma normale di nazionalizzazione fu quella escogitata ad hoc fra le due guerre (per le trasmissioni radio, le for­ niture elettriche e i trasporti londinesi), vale a dire la « so­ cietà pubblica», operante come un’entità autonoma e in teoria volta al profitto, se necessario contro altre società pubbliche. Il concetto di «profittabilità sociale» (quello per cui un’impresa di per sé senza profitti può in effetti far risparmiare all’economia somme assai più grandi di quelle che perde), si incuneò nella politica pratica alla fine degli anni ’50, soprattutto in connessione con gli investimenti nei trasporti pubblici. Il governo, poi (dopo aver sman­ tellato la maggior parte del meccanismo allestito in tem­ po di guerra proprio per questo scopo), non fece alcun serio tentativo per «pianificare» l’economia, con l’ecce­ zione di alcuni interventi specifici e per lo più negativi. Meccanismi come quelli che furono escogitati sperimental­ mente e non prima degli anni ’50 (la nedc *) per coordi­ nare e controllare lo sviluppo congiunto dei settori pub­ blico e privato, dovettero poco all’ispirazione laburista, ma molto agli esperimenti di pianificazione in Francia, una nazione il cui rapido progresso economico impressio­ nava sempre più gli osservatori. D’altro canto, la pianificazione del benessere fu nel pe­ riodo laburista, grazie all’esteso sistema nazionale assicu­ rativo (1946), e soprattutto grazie al servizio nazionale [National Economie Development Council].

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per la salute pubblica (1948), molto più ambiziosa di tut­ to quanto la aveva preceduta, anche se il livello di spesa effettivo, non fu, sia per capita sia come proporzione del reddito nazionale, eccezionalmente alto, tanto più dopo un decennio circa di inflazione. Nel 1964 era assai più basso di quello di tutti i paesi del Mercato Comune come percentuale del reddito nazionale. Comunque, grazie al­ le riforme laburiste, il Regno unito acquisi una varietà di servizi sociali maggiore e di più ampia portata rispetto ad ogni altra nazione d’Europa. È divertente immaginarsi ciò che John Stuart Mill o Gladstone avrebbero pensato dell’economia britannica del i960 dominata dallo stato, con le spese statali che am­ montavano a quasi il 30 per cento del reddito nazionale lordo, o addirittura al 40 per cento includendo le spese degli organi amministrativi locali, con gli investimenti delle imprese pubbliche, che costituivano il 32 per cento degli investimenti lordi di capitale fìsso, e col settore pub­ blico nel suo insieme che contribuiva per il 42 per cento. Peraltro questi investimenti non costituivano in effetti una caratteristica della Gran Bretagna o di altri paesi con un particolare orientamento politico. Nel i960 in undi­ ci paesi dell’Europa occidentale (e negli Stati Uniti) le spese statali erano superiori del 25 per cento in propor­ zione al prodotto nazionale lordo, e cinque caratteristici settori dell’economia (ferrovie, linee aeree, energia elet­ trica, banche centrali e carbone) si trovavano sostanzial­ mente sotto il controllo statale, oltre che in Gran Breta­ gna, in Francia, Italia, Olanda e, con l’eccezione del car­ bone, nella Germania occidentale. L’Austria aveva un set­ tore pubblico più esteso di quello della Gran Bretagna, e le spese statali della Francia erano più alte in relazione al suo prodotto nazionale lordo. In effetti, sotto molti aspet­ ti, altri paesi avevano compiuto puntate molto più serie nel territorio tradizionale dell’iniziativa privata: la Fran­ cia e la Germania occidentale, con la proprietà pubblica di ampi settori dell’industria automobilistica, dell’indu­ stria petrolifera la Francia e l’Italia, dell’industria side­ rurgica l’Austria, dell’industria meccanica l’Italia e l’Au­ stria. Nessuno di questi paesi si dichiarava socialista. Tut­

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ti riflettevano la trasformazione dell’economia capitalisti­ ca tradizionale in un’economia mista, di stato, e facente capo a grosse società, con le operazioni di ciascun settore che diventavano sempre piu difficili da distinguere. Il pro­ blema politico maggiore non consisteva nello stabilire fi­ no a quale punto lo stato dovesse intervenire nell’econo­ mia. Si trattava di stabilire in che modo lo stato dovesse controllarla, fino a che punto dovesse astenersi dal presi­ diare «altezze dominanti» dell’economia ancora libera per il desiderio di fare un presente dei loro profitti all’ini­ ziativa privata, e quali avrebbero dovuto essere gli obiet­ tivi del suo controllo.

1 Cfr. Letture ulteriori, specialmente Mowat, Pollard, Clapham. Per alcune attività statali, cfr. v. k. hicks, British Public Finance 1880-1952, 1954; F. shekab, Progressive Taxation, 1953; M. K. bowley, Housing and the State 1910-1944, 1945; w. Hancock e M. cowing, British War Economy, 1949. Per la «City» e il go­ verno, cfr. w. bagehot, Lombard Street, la classica esposizione vittoriana; l. feaveryear, The Pound Sterling, 1934; e. v. Mor­ gan, The Theory and Practice of Central Banking, 1943. Per opi­ nioni circa le funzioni dello stato, cfr. e. halévy, The Growth of Philosophic Radicalism-, b. semmel, Imperialism and Social Re­ form, i960; r. f. harrod, The Life of John Maynard Keynes, 1951; e. eldon barry, Nationalisation in British Politics, 1965. Per le riforme e le sicurezze sociali, cfr. e. h. phelps brown, The Growth of British Industrial Relations, 1959. Per l’epoca laburi­ sta dopo il 1945, cfr. A. ROGOW, The Labour Government and British Industry, 1955. Per la storia del pensiero economico, cfr. E. roll, A History of Economie Thought, 19543. Cfr. anche i dia­ grammi 41-45.

i3Il lungo boom1

L’economia britannica degli anni ’60 del nostro secolo aveva assai poco d’importante che potesse essere fatto ri­ salire ai tempi della regina Vittoria; presentava alcuni ele­ menti che erano emersi nei tempi dell’imperialismo edoardiano, altri piu numerosi appartenenti all’epoca di Giorgio V (1910-35), e non molte cose che non esistesse­ ro già o non fossero prevedibili alla vigilia della seconda guerra mondiale. Se guardiamo ai venti grandi complessi industriali del 1965, ne troviamo soltanto uno che avrebbe detto molto ai contemporanei di Benjamin Disraeli: la P & O Steam Navigation Company. Altri, come la Shell, la British Ame­ rican Tabacco Company, la Imperiai Tabacco Company o la Courtalds, erano familiari agli edoardiani, sebbene non nelle loro dimensioni moderne o con le loro moderne diversificazioni. Altre ancora, sebbene familiari come as­ sociazioni in espansione allo studioso della concentrazio­ ne economica in quel periodo, assunsero la loro forma mo­ derna soltanto fra le due guerre: l’Imperial Chemical In­ dustries fu costituita nel 1926, l’Unilever (come impresa Shell e anglo-olandese) negli anni 1927-30, la Vickers si fuse con la Armstrong negli anni 1928-29, e la Guest, Deen & Nettlefold, sebbene costituisse già una fusione nel 1902, assunse anch’essa la sua forma moderna nei tardi anni ’20 del nostro secolo. Altre aziende (Ford, aei, Bowater, Hawker Siddeley) erano conosciute da tutti fra le due guerre, ma non prima. Nessuna costituisce uno svi­ luppo avvenuto essenzialmente negli ultimi trent’anni *. * Fra le cento maggiori società industriali periodicamente riportate da «The Times», le più grandi fra quelle che sono veramente delle nuove ar-

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Le grandi imprese bancarie e d’assicurazione risalgono agli anni fra le due guerre, quando le fusioni del 1921 crearono le «grandi cinque» (Barclays, Lloyds, Midland, National Provincial, Westminster), e le grandi società di assicurazione ed edilizie acquisirono la loro posizione pre­ dominante come investitori sul mercato aperto dei capi­ tali. (I «piccoli» risparmi, incanalati attraverso istituzio­ ni del genere, erano ammontati soltanto a 32 milioni di sterline, equivalenti al 13 per cento dell’accumulazione netta, nel periodo 1901-13, ma a no milioni, metà de­ gli investimenti totali, nel periodo 1924-35; questi capi­ tali erano quasi tutti controllati da società di assicurazio­ ne e edilizie). Sull’altro versante, il movimento delle trade unions è visibilmente quel gigante imperfettamente riformato e ra­ zionalizzato che si levò tra la grande « agitazione dei lavo­ ratori» nel 1911 e i postumi dello sciopero generale. Il congresso delle trade unions non era stato riformato dal 1920 (quattro anni dopo l’istituzione della Federazione delle industrie britanniche, che sotto una denominazione o un’altra è stata da allora l’organizzazione nazionale dei datori di lavoro). I suoi giganti sono l’Unione dei lavora­ tori dei trasporti, risultato di fusioni avvenute nel 1924 e nel 1929,l’Unione dei lavoratori municipali (finalmen­ te costituita nel 1928), l’Unione dei metalmeccanici (sor­ ta come tale nel 1921), la piu anziana Federazione dei mi­ natori (convertita nell’Unione nazionale dei minatori del carbone nel 1944), e l’Unione nazionale dei ferrovieri (1913). Eccetto che per la fusione delle unioni di lavora­ tori addetti alla distribuzione (1947), non si è avuta alcu­ na razionalizzazione della struttura sindacalista dopo la seconda guerra mondiale, sebbene nei primi anni ’60 si sia manifestata una tendenza di piccoli sindacati di mestiere (per esempio, nel campo della stampa e dell’edilizia) ver­ so la fusione, e vi siano stati segni di una ulteriore e mol­ to opportuna razionalizzazione nell’industria meccanica *. rivate sembrerebbero essere la Great Universal Stores (z6a) e la Rank Orga­ nisation (47a). * Adesso le cose sono cambiate. A partire dalla metà degli anni ’60, il

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Soltanto nel campo dell’azione governativa si è avuto un cambiamento importante, anche se forse non maggiore di quello che poteva essere previsto negli scorsi anni ’30. Come abbiamo visto, l’economia britannica reagì lun­ go quattro direttrici principali al collasso delle sue fondamenta tradizionali avvenuto fra le due guerre: 1. Le tradizionali industrie base, e tutto quanto era con­ nesso con le loro attività, declinarono con i loro mer­ cati di esportazione. 2. Il settore commerciale e finanziario, sebbene disorientrato dal collasso dell’economia liberale, conser­ vò, specialmente nell’impero, ufficiale e non ufficia­ le, una forza sufficiente a non farlo crollare nella stessa maniera. Disponeva di alcune possibilità al­ ternative che continuò a sfruttare, sostenuto dal co­ stante appoggio del governo, che considerava la Ci­ ty e la sterlina come beni economici vitali. 3. Le industrie, tecnologicamente nuove, dedite alla produzione di massa e basate essenzialmente sul mer­ cato interno, si ampliarono e fiorirono ancora di piu, perché la Gran Bretagna aveva un serio ritardo da colmare nello sviluppo di un’economia basata sui consumi di massa. D’altro canto, proprio perché l’e­ spansione era agevole, non diede vita a industrie ca­ paci di competere efficacemente sul mercato interna­ zionale, e siccome il mercato interno era la preoc­ cupazione principale del settore dinamico dell’indu­ stria, si manifestò una frizione non trascurabile, fra i suoi interessi e quelli delle transazioni internazionali del paese, che si rifletté sulla bilancia dei pagamenti. 4. Aumentarono enormemente sia la concentrazione nel settore privato sia l’intervento statale nell’economia; e, di fatto, i due processi erano strettamente colle­ gati. ritmo della fusione, sia fra le trade unions sia, e specialmente, fra le gran­ di aziende, è aumentato di parecchio, e nel secondo caso con l’attivo appog­ gio del governo. Invero, gli storici futuri potranno ben registrare che il so­ lo grande risultato che i governi laburisti dal 1964 in poi possono giusta­ mente attribuirsi, fu quello di aver iniziato e favorito il periodo della piu rapida e decisiva concentrazione economica che si sia avuta dagli anni ’20 del nostro secolo (dicembre 1968).

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In complesso, l’economia britannica ha continuato ad evolversi lungo queste linee, e i tentativi di influenzarne il movimento (soprattutto mediante l’azione statale) sono serviti a regolare queste tendenze più che a mutarne la di­ rezione. Le industrie base tradizionali hanno continuato a declinare, e lo stesso, malgrado i costanti e disperati sforzi contrari, è successo per l’orientamento di queste industrie verso l’esportazione. Il carbone si è contratto. Alla vigilia della seconda guerra mondiale la produzione era inferiore del 20 per cento rispetto alla vigilia della pri­ ma guerra mondiale. Dopo la crisi della seconda guerra mondiale la produzione si riebbe, ma anche con la punta massima dei primi anni ’50 non raggiunse mai il livello del 1939, e da allora è andata ancora declinando, fino a diventare inferiore di un terzo rispetto al 1913 *. Le esportazioni di carbone precipitarono da 98 milioni di tonnellate nel 1913 a 46 milioni nel 1939, e dopo lo scop­ pio della guerra non hanno più raggiunto i 20 milioni. Malgrado gli ottimistici progetti di raggiungere i 23-35 milioni nel periodo 1961-65, nei primi anni ’60 le espor­ tazioni si sono aggirate intorno al ridicolo livello di 5 mi­ lioni. I tessili hanno continuato a declinare. Nel 1937, la produzione di tessuti per donna fu inferiore della metà a quella del 1913, negli anni ’50 la punta massima di produ­ zione raggiunse appena i due terzi del livello del 1937, e la media del decennio (1951-60) fu di appena la metà di quella cifra . ** Le costruzioni navali sembrarono resistere * Produzione di carbone in milioni di tonnellate. 287 1913 231 1939 183 1945 224 1954 i960 194 1964-1965 193 ** Tessuti in milioni di yard. 8050 1913 4103 1937 1847 1945 1961 1951 2100 1951-1960 1962 2612

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molto meglio, soprattutto grazie alle aumentate dimensio­ ni delle navi (specialmente delle petroliere) *. Tuttavia l’anno migliore degli anni ’50 (misurando il tonnellaggio a cui si era posto mano in quell’anno), fu al di sotto del­ l’anno migliore degli anni ’20, prima che la depressione virtualmente distruggesse questa industria, cosi come i migliori degli anni ’20 erano stati un po’ meno soddisfa­ centi dell’anno 1913. A partire dagli anni ’30, o comunque dopo la seconda guerra mondiale, la maggior parte degli osservatori seri ha accettato questo declino. Quali che dovessero essere le nuove fondamenta della prosperità britannica, esse non sarebbero più state date dal carbone e dal cotone, dalla ghisa, dalle sbarre d’acciaio e dai cantieri navali ** . Appa­ riva sempre più evidente che il vero problema era come indirizzare la contrazione dei settori vecchi e antiquati dell’economia in modo da ridurre al minimo le profonde sofferenze umane che inevitabilmente ne derivavano. Il collasso spontaneo dell’economia britannica fra le due guerre mostrò a quali catastrofi umane esso potesse porta­ re: industrie e regioni che rimanevano abbandonate e sen­ za aiuto, abitazioni e servizi sociali che decadevano lenta­ mente per mancanza di manutenzione, e investimenti e uo­ mini che emigravano in regioni più prospere del paese o, in maggior numero, rimanevano inchiodati ai loro abituali angoli delle strade, demoralizzati e invecchiando mentre diventava sempre più difficile trovare un lavoro; intanto aspettavano l’improbabile ritorno dei vecchi tempi, quan­ do la vita era dura, ma se non altro un uomo poteva lavo­ rare a quell’unico mestiere che conosceva. L’industria del­ le costruzioni navali potè magari ridurre al minimo le sue perdite finanziarie chiudendo i cantieri «antieconomici», ma solo al costo dell’involontario assassinio di comunità * Costruzioni navali (navi iniziate, tonnellaggio lordo). 1913 1927-1929 1951-1960

1 866 000 1 570 000 1300000

** Si potrebbe sostenere che essi fossero troppo pessimistici circa que­ ste prospettive, almeno per quanto riguardava i cantieri navali.

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di artigiani e operai, come Jarraw. Negli anni ’30 si co­ minciarono ad adottare speciali misure per incoraggiare l’occupazione e la diversificazione industriale nelle zone colpite (specialmente nella Scozia, nel Galles del Sud e nel Nord-Est), per esempio dando in affitto fabbriche a con­ dizioni invoglianti in terreni di recente lottizzazione. La guerra diede un contributo ancora maggiore mobili­ tando con successo la popolazione civile ai fini dello sfor­ zo bellico, e offrendo quindi possibilità di lavoro dapper­ tutto. Dopo il 1945, e specialmente nei tardi anni ’50, fu incoraggiato lo sviluppo delle singole regioni, essendo di­ ventato evidente che la prosperità e l’espansione econo­ mica generali non riducevano automaticamente la spacca­ tura, la cui gravità andava forse aumentando, fra le pro­ spere zone del Sud e del Sud-Est, e le zone relativamente prospere, ma anche relativamente arretrate, del Nord e del Galles. Lo sviluppo regionale risale quindi agli anni ’30. Però, la razionalizzazione pianificata delle industrie con contrat­ ti statali cominciò, in quanto processo sociale, solo con la seconda guerra mondiale. Essa implicava considera­ zioni sistematiche circa l’effetto di questi contratti sugli operai dell’industria, e negli anni ’30 gli organismi il cui compito preciso era quello di difenderli, le trade unions, erano piuttosto deboli e politicamente in disgrazia. La se­ conda guerra mondiale le rafforzò a causa della mancanza di manodopera e del bisogno di mobilitare un attivo aiuto per lo sforzo bellico; inoltre la loro posizione fu resa piu salda dal governo laburista negli anni 1945-51. La guerra portò, poi, alla nazionalizzazione delle industrie più an­ tiquate e in declino (le miniere e le ferrovie) permettendo quindi alle trade unions una pressione maggiore di quella che avrebbero potuto esercitare su imprese private *. Il ri­ sultato fu che una situazione molto difficile, e potenzial­ mente tragica, fu trattata con successo e insieme con sen­ so di equità2. Nelle miniere di carbone, i posti di lavoro * I minatori ebbero in questo periodo anche il vantaggio di essere gui­ dati dal più brillante e capace sindacalista della Gran Bretagna del secolo xx, il comunista Arthur Horner.

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furono ridotti di circa un sesto fra il 1949 e il i960, con pochissimi licenziamenti veri e propri, e lasciando solo un minimo di manodopera in eccesso; il numero delle minie­ re di carbone fu ridotto di circa un terzo, e la meccanizza­ zione ricevette un forte impulso *. Un’occhiata ai relitti umani di zone come i monti Appalachi negli Stati Uniti può bastare per dare la misura dell’umanità e del succes­ so del comportamento britannico. Nelle ferrovie il suc­ cesso fu meno soddisfacente, in parte perché furono na­ zionalizzate a condizioni molto più onerose (costarono al­ la nazione circa sette volte il prezzo delle miniere), in par­ te perché i ferrovieri, a differenza dei minatori, non stabi­ lirono per se stessi salari adeguati quando avrebbero po­ tuto farlo, e in parte a causa delle incertezze circa quello che una razionalizzazione dei trasporti avrebbe effettiva­ mente dovuto comportare. Ma mentre declinava il vecchio, sorgeva il nuovo. L’in­ dustria manifatturiera si moltiplicò di circa due volte e mezzo (in valore) fra il 1924 e il 1957. Tuttavia, nell’am­ bito dell’industria, enormi erano le disparità tra i settori in declino (come le miniere) quelli che si sviluppavano a un ritmo inferiore alla media (come i tessili, i pellami, l’ab­ bigliamento), quelli che più o meno tenevano il ritmo della media (come gli alimentari, le bevande e il tabacco, la carta e la stampa), e quelli che balzavano in testa. Il grande complesso dei prodotti meccanici ed elettrici, an­ che se includeva il pigro campo delle costruzioni navali, aumentò del 343 per cento, la produzione chimica si qua­ druplicò, quella di «veicoli» — soprattutto automobili e aerei - e degli «altri manufatti» che rappresentano una cosi gran parte delle nuove industrie di beni di consumo, quasi si quintuplicò. Basate sulla scienza e la tecnologia moderne, indispensabili per le operazioni belliche, le due * Carbone, 1949-62. Forza lavorativa (uomini) Numero delle miniere a conduzio­ ne statale Produzione per turno individuale di lavoro sul filone (kg)

1949

1962

720 000

556 000

901(1951)

669

330

455

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guerre mondiali, e la seconda piu della prima, favoriro­ no lo sviluppo di queste industrie. Il numero dei minatori di carbone scese da circa 770 000 nel 1939 a circa 710 000 nel 1945. Ma il numero dei dipendenti delle nuove indu­ strie elettroniche virtualmente si raddoppiò (da 53 000, che furono la punta massima del boom prebellico, a 98 000 nel 1944). La guerra aiutò a smuovere l’industria britannica dal secolo xix in direzione del xx *. Gli anni ’30 fecero gli scavi per le fondamenta; la guerra le gettò. Dopo l’adeguamento dalla guerra alla pace, l’edilizia po­ tè svettare. Se prendiamo le industrie motoristiche ed elettroniche come tipiche del nuovo orientamento del secolo xx, pos­ siamo illustrare questo processo assumendole ad esem­ pio3. L’industria automobilistica fu salvata dalla distru­ zione dopo la prima guerra mondiale col tariffario McKen­ na, che la difese contro l’enormemente piu grossa indu­ stria americana, a quel tempo unica esportatrice nel mon­ do, e indubbiamente capace di travolgere ogni altra indu­ stria dedita alla produzione di massa di autoveicoli. (Nel 1929, le esportazioni degli Stati Uniti ammontarono a cir­ ca tre volte quelle britanniche, francesi, tedesche e italia­ ne messe insieme, e a quasi il doppio delle automobili co­ struite in Gran Bretagna). La produzione britannica sali a circa 180000 automobili e 60000 veicoli industriali prima della grande depressione, giunse a piu che raddop­ piarsi negli anni ’30, e tornò piu o meno al livello prebel­ lico — l’economia bellica aveva bisogno di poche automobi­ li private - negli anni 1948-49. (La produzione di veicoli * La produzione e la seconda guerra mondiale.

1938 Carbone, milioni di tonn. l’anno, milioni di yard Navi iniziate, tonn. lorde Acciaio greggio, milioni di tonn. Elettricità, Kw Chimici (1958 = 100) Trattori

227 4 103 (1937) 1 057 000 (1937) 10,4 24 600 35,8 io 000

1944

193 i 939 959 000 12,1 38 800 53,7 (1946) 28000 (1946)

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commerciali usci dalla guerra assai piu robusta di prima; quella di trattori si trovò raddoppiata rispetto agli anni prebellici). Nel 1955 la produzione di automobili si era raddoppiata ancora una volta, e alla fine degli anni ’50 aveva superato il milione di unità; nella metà degli anni ’60 era intorno ai due milioni, mentre la produzione di veicoli commerciali si raddoppiò rispetto al periodo pre­ bellico nel 1949, e si raddoppiò ancora nei tardi anni ’50. Nel campo A&W elettronica, come abbiamo visto, la guer­ ra quasi raddoppiò l’occupazione prebellica, anche se per il riadeguamento postbellico occorse un tempo maggiore, soprattutto perché il più grosso mercato interno degli anni ’30, quello degli apparecchi radio, aveva cessato di espan­ dersi (la maggior parte della gente aveva ormai delle ra­ dio), e il più grosso dei mercati interni degli anni ’50, quello degli apparecchi televisivi, non s’era ancora affer­ mato. Tuttavia, fra il 1950 e il 1955 l’occupazione in que­ sto campo raddoppiò di nuovo, raggiungendo le duecen­ tomila unità. Vale a dire che mentre nel 1939 c’erano cir­ ca quindici minatori di carbone per ogni uomo o donna impiegati nel campo elettronico, verso la metà degli anni ’50 ce n’erano soltanto circa tre. Una gradita conseguenza di questo spostamento dal vec­ chio al nuovo fu che esso sembrò poter risolvere in qual­ che modo il problema principale dell’economia britanni­ ca: le esportazioni. Prima delle guerre, le esportazioni avevano lottato come avevano potuto valendosi dei pro­ dotti con cui la Gran Bretagna aveva dominato i mercati mondiali prima del 1914 e che, in quell’epoca, compren­ devano una buona quantità di macchinario. Ancora nel 1938, quasi il 30 per cento delle esportazioni britanniche era dato da prodotti tessili e carbone, sebbene i macchina­ ri, i veicoli e gli articoli elettrici contribuissero già per il 20 per cento. Dato che i mercati delle vecchie merci prin­ cipali se ne erano andati per sempre, non c’era più molta speranza in quel campo. Ma nella metà degli anni ’50 la situazione era già mutata fondamentalmente. Le «vec­ chie» esportazioni erano scese a meno del io per cento del totale (il carbone era virtualmente scomparso), men­ tre il complesso dato dalla produzione meccanica, elet­

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trica, automobilistica e dall’edilizia, contribuiva da solo col 36 per cento alle vendite britanniche all’estero. Final­ mente, sembrò, la Gran Bretagna aveva qualcosa da ven­ dere al mondo del secolo xx, distinto da quello del seco­ lo xix. E non c’è dubbio che il declino fino allora ininter­ rotto delle esportazioni britanniche fu arrestato, e forse anche con qualche modesto recupero, negli anni ’50. Nel 1900 le esportazioni erano ammontate a circa il 36 per cento della spesa complessiva interna per i consumi, nel 1913 a piu del 40 per cento; ossia, per ogni sterlina spe­ sa in merci e servizi in Gran Bretagna, veniva esportato all’estero un valore di otto scellini. Nei migliori anni fra le due guerre (1935-39) esportazioni ammontarono al 27 per cento della spesa interna per i consumi, ma negli anni ’50, in media, a un po’ piu del 30 per cento. In altre parole, la produzione britannica che fra le due guerre ave­ va avuto un netto spostamento dai mercati di oltremare a quello interno, dopo la seconda guerra mondiale tornò a rivolgersi al mare e a quello che c’era dietro. Questo mutamento di rotta fu accolto con favore, e anzi disperatamente auspicato, da tutti i governi postbel­ lici, che hanno riempito l’aria, dopo il 1945, con un fra­ stuono permanente di esortazioni (probabilmente ineffica­ ci) del tipo «esportare o perire», e gli archivi dei loro di­ partimenti con una serie di piani e trovate per incoraggia­ re le esportazioni e di quando in quando per scoraggiare il consumo interno. Quello che poi l’economia britannica è stata capace di fare in fatto di esportazioni è stato davvero notevole. Il volume delle esportazioni è salito di circa due volte e mezzo dopo il 1938, quello delle importazioni di meno della metà. Mentre negli anni ’30 le esportazioni servivano a pagare meno dei due terzi delle importazioni britanniche, alla fine degli anni ’50 la proporzione era sa­ lita al 90 per cento. Fra tanti e continui gridi d’allarme circa la capacità britannica di esportare, questo risultato merita un’attenzione maggiore di quella che ha ricevuto fuori delle file degli specialisti. Tuttavia, si tratta di un risultato che va ridimensio­ nato in base a due considerazioni. Anzitutto, per motivi che discuteremo brevemente, non ha risolto il problema

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della bilancia britannica dei pagamenti, e infatti rappor­ tato agli standard internazionali questo nuovo stimolo alle esportazioni è stato in certo modo non troppo impe­ rioso e impressionante4. In base ai livelli isolani, le indu­ strie «moderne» hanno fatto inaspettatamente bene, ma non cosi se si considerano quelli mondiali. Ancora una volta l’industria automobilistica può servire a illustrare questo stato di cose. Cominciò a esportare - soprattutto nell’impero - negli anni ’30, ma l’opportunità migliore le si presentò dopo la seconda guerra mondiale, quando per alcuni anni ebbe il mercato tutto per sé, in parte grazie al declino delle esportazioni americane del settore, in parte a causa dello sfacelo delle industrie automobilistiche con­ tinentali dovuto alla guerra, e in parte perché la politica di tenere bassa la domanda interna di beni di consumo, perseguita dal governo laburista, privò l’industria della facile alternativa di vendere sul mercato interno. (Nello stesso tempo, naturalmente, l’industria automobilistica ricevette una considerevole assistenza nella sua spinta al­ l’esportazione). Nei tre anni postbellici eccezionalmente favorevoli, dal 1949 al 1951, l’industria britannica espor­ tò piu di un milione di automobili, piu del doppio degli Stati Uniti e pili del doppio di Francia, Italia e Germania messe insieme. In quegli anni (1948-52), qualcosa come due terzi della produzione automobilistica britannica an­ darono all’estero. Tuttavia, con la fine dell’austerità inter­ na, l’industria automobilistica piegò naturalmente verso il mercato interno e il suo relativo sforzo volto all’espor­ tazione si affievolì. Nel frattempo le altre industrie auto­ mobilistiche europee, pur rifornendo mercati interni in cui la domanda era in continuo aumento, esportavano a tutto spiano. Nella metà degli anni ’50 la Germania era ar­ rivata a esportare più automobili che la Gran Bretagna, e i tre principali produttori continentali messi insieme esportavano il doppio della Gran Bretagna, pur non pro­ ducendo il doppio. Nel 1963 la produzione automobilisti­ ca tedesca era ormai notevolmente superiore a quella bri­ tannica, e sia la Francia sia l’Italia producevano quasi tan­ te automobili quanto la Gran Bretagna: nel 1955 la Gran Bretagna aveva ancora prodotto sensibilmente più della

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Germania, aveva superato di due volte la produzione fran­ cese, e di quattro volte quella italiana *. Mentre la Gran Bretagna acquisiva nuovi sbocchi di esportazioni visibili, quelle invisibili, che una volta aveva­ no più che equilibrato la sua bilancia dei pagamenti, lan­ guivano. Era successo che la Gran Bretagna non era più al centro del sistema commerciale e finanziario mondiale, e neanche il maggiore trasportatore marittimo ** . Gli inve­ stimenti britannici all’estero, però, sembravano rimanere su un livello elevato. Avevano subito una brusca diminu­ zione dopo il 1914. Le guerre ne imposero la liquidazione, la depressione li svalutò e scoraggiò, e a partire dagli anni ’30 una nuova nube oscurò l’orizzonte dell’investitore in­ ternazionale: la nazionalizzazione delle industrie, minac­ ciata non soltanto dai governi dichiaratamente comunisti, ma da tutti i regimi del mondo sottosviluppato che mira­ vano aH’indipendenza completa. Questo inevitabilmente colpi sbocchi tradizionali del capitale britannico come le ferrovie e le opere di utilità pubblica, e minacciò anche le miniere e i pozzi di petrolio. Il deflusso del capitale bri­ tannico ricominciò tuttavia dopo il 1945 su vasta scala. Qualcosa probabilmente come quattro miliardi di sterli­ ne furono esportati fra il 1946 e il 1959, con una propor­ zione fra un terzo e un quarto rispetto agli investimenti di capitale fisso interni. Era un livello assai inferiore a quel* Posizione relativa dell’industria automobilistica britannica. Produzione in migliaia di automobili. 1929 1963 1950 1955 1937 9100 3916 6666 7920 Stati Uniti 4587 2700 706 264 216 Germania 117 1700 560 211 Francia 177 257 1800 IOI 231 61 Italia 54 2000 898 182 Regno Unito 390 523 % del Regno Unito II 8 rispetto al totale 7 8,5 3,5 rispetto all’Europa 48 37,5 24 44 32 ** Ancora nel 1939 il Commonwealth possedeva più del 30 per cento del tonnellaggio mercantile mondiale, e la Gran Bretagna da sola, circa il 25 per cento. Nel 1964, la percentuale del Commonwealth era scesa a 18, e quella della Gran Bretagna da sola, a 14.

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lo dei migliori anni edoardiani (1909-13), ma paragona­ bile a quello del tardo secolo xix. Comunque, gli investi­ menti furono bilanciati da una importazione cospicua di capitale straniero (soprattutto americano) specie dopo gli anni ’50. Nel 1950 forse gli stranieri ricavavano da inve­ stimenti in Gran Bretagna due terzi di quanto la Gran Bretagna ricavava dai suoi investimenti all’estero. Sotto alcuni aspetti, questa nuova mandata di investi­ menti all’estero fu simile alla vecchia esportazione di ca­ pitali. Andò sempre più indirizzandosi verso le zone svi­ luppate piuttosto che verso quelle veramente sottosvilup­ pate, e conservò una viva simpatia per il vecchio impero (ancora economicamente in vita come «area della sterli­ *. na») Cambiò però sotto altri aspetti. Una parte assai inferiore delle esportazioni di capitali proveniva da inve­ stimenti privati o si indirizzava verso obbligazioni stata­ li. Una parte assai maggiore proveniva direttamente da grosse società che impiantavano filiali all’estero e acqui­ stavano compartecipazioni in società straniere. Il sole del benestante di vecchio tipo stava tramontando, mentre quello della grossa società internazionale era al suo ze­ nit. Le società petrolifere erano l’esempio più comune di organizzazioni del genere, e in effetti se non fosse stato per gli investimenti nel campo del petrolio, le esportazio­ ni di capitale britannico sarebbero arrivate a poco più del­ la metà di quello che sono state. Non erano più, in ogni caso, molto impressionanti, come non lo erano più gli aiu­ ti ufficiali britannici ai paesi sottosviluppati. In cifre as­ solute (1962), corrispondevano a meno della metà di quelli francesi e inferiori a quelli tedeschi, erano inferiori, come percentuale di spesa del governo centrale, a quelli degli Stati Uniti, della Francia, della Germania, del Bel­ gio e del Giappone, e anche come percentuale del reddi­ to nazionale gli aiuti britannici erano inferiori a quelli di tutti questi paesi, eccetto il Giappone. Si poteva notare subito che buona parte degli investi­ menti nei paesi sottosviluppati proveniva dai profitti del* Nel 1962, un terzo degli investimenti diretti britannici all’estero, sen­ za contare gli investimenti nel petrolio e nelle assicurazioni, andò verso quelli che erano eufemisticamente chiamati « paesi in sviluppo ».

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le attività inglesi in territori d’oltremare. Ma un deflusso netto di capitali è diffìcile da mantenere senza un attivo nella bilancia dei pagamenti, e la bilancia della Gran Bre­ tagna era notoriamente in costanti difficoltà. Certo non fu dovuta ad essa l’ampiezza delle esportazioni britanniche di capitale. Sembrerebbe che buona parte di queste espor­ tazioni siano state rese possibili da varie forme di presti­ ti a breve e a lunga scadenza: dai prestiti e dalle assegna­ zioni di dollari del primo decennio postbellico, dagli ac­ creditamenti coloniali in sterline accumulatisi a Londra fi­ no alla metà degli anni ’50, dai capitali di sceicchi petro­ lieri, che continuavano ad affluire, oltreché dalla produ­ zione d’oro dell’area della sterlina (vale a dire il Sudafri­ ca), e dai profitti sul commercio del dollaro nell’area del­ la sterlina. C’erano poi gli investimenti stranieri in Gran Bretagna, specialmente le fortissime somme di «denaro caldo» attratte a Londra per brevi periodi da alti tassi d’interesse. La City di Londra, infatti, si sforzava sempre più di compensare il declino delle sue vecchie funzioni rendendo la sterlina attraente agli speculatori stranieri (il che implicava, fra le altre cose, che la sterlina fosse man­ tenuta a un livello stabile e di sopravvalutazione). Era una situazione pericolosa, non solo per il rischio inerente nei debiti contratti a breve termine per investire a lungo ter­ mine e per l’onere comportato dai pagamenti ai creditori e agli investitori stranieri, ma anche a causa del rischio di massicci e rapidi ritiri di capitale dalla Gran Bretagna. Ciò che più conta, era sempre più vera l’obiezione che tutto questo imponeva un peso intollerabile all’industria e allo stato. Pericolose svendite di sterline si ebbero di quando in quando a partire dal 1931, e le stesse divennero tristemente familiari durante i governi laburisti dopo il 1964. Dato l’impegno del governo a mantenere la sterli­ na a un tasso di scambio arbitrariamente alto e stabile, scoppiavano cosi nel giro di settimane, e anche di giorni, dei tifoni politico-economici che risucchiavano l’oro e la valuta estera dello stato britannico, buttati sul mercato per mantenere il prezzo della sterlina contro la corsa alle vendite. Dato che lo stato britannico possedeva ormai oro e valute pregiate in misura minore degli altri governi,

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ognuna di queste crisi era potenzialmente disastrosa *. In varie occasioni, nel 1931 e nel 1964-66, crisi simili colse­ ro i governi di sorpresa e li obbligarono a cercare appoggi per la sterlina all’estero, anche a costo di adeguare la poli­ tica interna ai desideri dei creditori stranieri. Il motivo che consigliava di conservare alla sterlina il ruolo di valuta internazionale era che la bilancia dei pa­ gamenti britannica traeva dall’attirare gli stranieri verso la sterlina vantaggi maggiori di quanti se ne potessero ot­ tenere in altri modi, data la declinante importanza del tra­ dizionale reddito «invisibile». Il rovescio della medaglia era dato dal fatto che gli stranieri non trovavano più che la sterlina era attraente perché dietro di essa stava un’e­ conomia grande e fiorente, ma soltanto perché erano allet­ tati a possederla, e anche cosi erano abbastanza nervosi da sbarazzarsene al minimo segno di pericolo, reale o im­ maginario. Peggio ancora, quegli speciali allettamenti (al­ ti tassi di interesse, una sterlina sopravvalutata, la defla­ zione interna che doveva servire a conservare la fiducia degli stranieri) avevano la possibilità di danneggiare lo sviluppo dell’economia britannica nel suo insieme. Anco­ ra una volta poteva succedere che le fabbriche fossero sa­ crificate alle banche, ma non più, come prima del 1913, per incoraggiare gli ampi e immancabili profitti della City, da cui la bilancia dei pagamenti dipendeva in buona parte, bensì per puntare sempre più rischiosamente sulla possi­ bilità che gli occasionali alti profitti di Londra fossero maggiori delle forti perdite che si subivano nelle ricorren­ ti e inevitabili crisi. Crisi del genere si verificarono negli anni 1947, 1949, 1951, 1955-57, 1960-61, 1964-66, e 1967, quando la sterlina dovette essere svalutata per la seconda volta dopo la guerra e divenne chiaro che i giorni della sterlina come valuta mondiale erano contati. C’era comunque il fatto che l’intero sistema monetario interna­ zionale, di cui la sterlina era una parte, si trovava in un tale stato di scompiglio, che le crisi eran diventate endemi­ che, influendo poi su altri paesi, compresi gli stessi Stati * Nel 1937 lo stato possedeva circa 6 sterline in oro e valuta straniera ogni 3 sterline accreditate che gli stranieri potessero desiderare di vendere. Ma nel dicembre 1962, per esempio, il rapporto era di 1 a 4.

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Uniti, e perpetuando cosi la vulnerabilità della sterlina5. Gli osservatori notavano incidentalmente il fatto ironi­ co che gli effettivi deficit nei pagamenti che rendevano la Gran Bretagna cosi vulnerabile, erano normalmente tra­ scurabili. La maggior parte delle volte esse ammontavano a poco più di una frazione delle fortissime spese militari cui la Gran Bretagna si sobbarcava per conservare un ruo­ lo mondiale nella politica. Una riduzione di queste spese dal 7 per cento del reddito nazionale a quello che, per esempio, spendevano i francesi e i tedeschi per scopi ana­ loghi, avrebbe eliminato per la maggior parte degli anni i deficit britannici *. Il deficit della bilancia dei pagamenti era comunque un sintomo più che dell’esistenza di questo problema, del­ l’esistenza di un problema più complesso. Si trattava di una difficoltà che poteva essere superata. Ma poteva que­ sto esser fatto senza mettere a repentaglio lo sviluppo del­ l’economia, già pigra rispetto ai livelli mondiali? ** . L’e­ sperienza stava a dimostrare che questo non poteva darsi, perché ogni tanto le crisi della valuta venivano risolte sof­ focando la domanda interna, e tornavano a verificarsi non * La Gran Bretagna spendeva per la difesa, rispetto al suo reddito, una percentuale di reddito piu alta di quella di qualsiasi altro stato, eccettuati gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e alcuni altri che, come l’Egitto e Israe­ le, si consideravano sempre sul punto di dover intraprendere guerre locali. ** Tassi percentuali annuali di accrescimento medio del prodotto reale. Fonte: UN Statistical Yearbook. % % pro capite sul totale 1954-62 1,2 Stati Uniti 2,9 Belgio 2,5 3,5 Francia 4,9 3,7 Germania occidentale 6,4 5,1 Italia 6,1 5,5 Olanda 2,9 4,3 2,8 Norvegia 3,7 Svezia 3,7 3,i 1953-61 Regno Unito Unione Sovietica 1954-62

2,7 9,4

2,1 7,5

Cecoslovacchia

6,2

5,3

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appena l’economia si sviluppava facendo aumentare le importazioni più rapidamente delle esportazioni, il che provocava di nuovo un deficit. L’alternativa sembrava essere fra i) un’economia basata sulla libera iniziativa, solvibile perché stagnante, e oscillante fra accelerazioni e brusche frenate; 2) un’economia pianificata in cui le im­ portazioni e le esportazioni di capitali erano controllate dal governo per impedire che l’espansione economica creasse un deficit nella bilancia dei pagamenti. Il governo laburista del 1945 scelse sostanzialmente il secondo corso, rendendosi impopolare con la conseguente austerity al­ l’interno. Dopo il 1951, i governi laburisti e conservatori scelsero entrambi il primo. Questi problemi non preoccupavano molto la gran mas­ sa degli inglesi, che beneficiavano del più lungo e conti­ nuo boom della loro storia moderna. La disoccupazione praticamente scomparve durante la seconda guerra mon­ diale, e rimase da allora su un livello trascurabile eccetto che in alcune zone. Esso si aggirò su una media dell’1,7 per cento nel Regno Unito durante gli anni ’50. Il valore dei titoli azionari triplicò virtualmente durante questo decennio, e le spese per i beni di consumo raddoppiarono, aumentando più rapidamente dei prezzi. I profitti delle società ogni tanto diminuirono, come accadde nel 1957, e nei primi anni ’60, ma in generale salirono costantemente, raddoppiandosi fra il 1946 e il 1955, e aumentan­ do ancora di un terzo nei cinque anni successivi. Gli echi del ciclo commerciale fatto di boom e depressioni erano deboli. Negli anni postbellici, sotto il governo laburista, il campo degli affari si senti ostacolato dai controlli sta­ tali, ma quando i governi conservatori deliberatamente li allentarono, non capitò spesso che si sentissero serie la­ mentele. Il sole del conservatorismo splendeva sull’ini­ ziativa privata e le spese private per beni di consumo. «Era come procurarsi una licenza per stampare cartamo­ neta», diceva un milionario canadese a proposito di una delle più fantastiche novità di quest’epoca, l’introduzio­ ne della televisione commerciale. Altri ancora avrebbero potuto dire la stessa cosa, se fossero stati altrettanto sin­ ceri; e fra questi c’era gente probabilmente inadatta ad

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arricchirsi in una situazione che non fosse stata favorevo­ le anche per il grosso uomo di affari poco efficiente. La persistente preoccupazione degli economisti e dei funzionari statali per la condizione critica dell’economia non faceva quindi presa sul popolo britannico, con l’ecce­ zione dei viaggiatori che osservavano i livelli di vita nor­ damericani, tanto piu alti, e i progressi economici molto maggiori di alcuni paesi continentali. A una generazione per cui «crisi» aveva significato disoccupazione e pover­ tà, difficoltà finanziarie, diminuzione della produzione e niente profitti, sembrava inconcepibile che si potesse usa­ re quel termine in un periodo in cui il 91 per cento delle famiglie britanniche avevano acquistato ferri da stiro elet­ trici, 1’82 per cento apparecchi televisivi, il 72 per cento aspirapolvere, il 45 per cento macchine lavatrici e il 30 per cento frigoriferi, senza contare che la bicicletta del­ l’operaio veniva rapidamente sostituita dall’automobile dell’adulto e dal moto-scooter o dalla motocicletta del gio­ vane. (Quasi la metà delle macchine lavatrici, piu della metà dei frigoriferi, e piu di un terzo degli apparecchi te­ levisivi erano stati comperati per la prima volta fra il 1958 e il 1963). Non c’erano dubbi che «la gente non era mai stata cosi bene » in termini materiali, e anche se que­ sto era dovuto non soltanto alla rivoluzione tecnologica e a redditi piu alti ma alla crescente diffusione degli acqui­ sti a rate, il fatto tuttavia rimaneva. Gli acquisti a rate erano diventati una prassi generale fra le due guerre, e stavano già dando vita alle loro istituzioni finanziarie. Essi infransero i vincoli della cautela tradizionale e della ri­ provazione morale per i debiti dopo la seconda guerra mondiale, malgrado vecchie abitudini continuassero a mo­ strare la loro forza nella avversione, parzialmente irrazio­ nale, per le società finanziatrici degli acquisti a rate. Nel 1957, il popolo britannico era arrivato ad avere un debito collettivo, per acquisti a rate, di 369 milioni di sterline, e nel 1964 di circa 900 milioni, per non parlare dello «sco­ perto» collettivo di più di 4500 milioni. Il livello di vita britannico poggiava ormai in gran parte sui debiti, ed era quindi particolarmente vulnerabile a opera di restrizioni

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di credito oltreché di diminuzioni di reddito, come l’indu­ stria automobilistica britannica scopri nell’estate del 1966. In queste circostanze, l’impeto spontaneo a moderniz­ zare l’economia britannica era fiacco. A questo era forse dovuta la sorprendente debolezza in fatto di cambiamen­ ti strutturali nel suo settore privato. La stessa concentra­ zione economica non sembra aver progredito molto fra gli anni ’30 e i primi anni ’60, anche se i raffronti sono diffi­ cili e anche se in alcuni settori si ebbero importanti fusio­ ni fra aziende negli anni ’30. Quello che rendeva ancora più deboli le forze innovatrici era la protezione che il go­ verno adesso accordava a tutti. Non c’era nessuna ragione di principio per cui le cose dovessero stare cosi. In altri paesi, socialisti o no, il governo dimostrò che poteva sia dare il ritmo delle innovazioni sia agire come forza di spin­ ta verso il progresso economico. Ma in Gran Bretagna non avvenne la stessa cosa. Il ruolo del governo e di altre autorità pubbliche s’era ampliato notevolmente, come abbiamo visto, dopo gli an­ ni ’30, soprattutto in conseguenza della seconda guerra mondiale. Questo processo, per quanto riguardava il cit­ tadino ordinario, prese due forme principali: regolamen­ tazioni e obbligatorietà imposte dalla legge, e esborsi e sussidi sociali diretti e indiretti (che andavano collettiva­ mente sotto la denominazione di «stato del benessere»). La sorte del lavoratore comune non cambiò molto per le due altre estensioni dell’intervento pubblico, che influiro­ no invece assai di più sul campo degli affari, vale a dire l’ampliamento del settore pubblico che negli anni ’50 im­ piegava ormai il 25 per cento di tutte le forze di lavoro britanniche (contro il 3 per cento nel 1914), e l’estensione della prassi di dirigere l’economia. Quest’ultima normal­ mente impegnava il governo a qualcosa come il pieno im­ piego; ma non è chiaro fino a qual punto la piena occupa­ zione dopo la guerra fosse dovuta a questo lodevole im­ pegno del governo *. Le condizioni dei dipendenti statali * Comunque, la politica governativa di rigida restrizione dell’immigra­ zione, ereditata dal periodo fra le due guerre, probabilmente diede anch’essa il suo contributo per la parte in cui non fu controbilanciata dal fatto che le connessioni col Commonwealth permisero a un gran numero di persone

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differivano da quelle degli altri lavoratori soprattutto per una maggiore inflessibilità, talvolta favorevole e talvolta no; e nelle branche più vecchie del servizio civile, per una maggiore sicurezza e pensioni migliori. Le forme principali di esborsi per la sicurezza sociale, cioè le pensioni, le assicurazioni contro le malattie e la di­ soccupazione, introdotte su scala modesta prima del 1914, si erano inaspettatamente moltiplicate dopo la prima guer­ ra mondiale ”. La seconda guerra mondiale e il susseguen­ te governo laburista consentirono di attuare una gran par­ te di questo sistema di sicurezza sociale, unificando i vari benefici sociali, creando un ampio servizio di salute pub­ blica e aggiungendo nuovi capitoli di spesa, come gli as­ segni familiari per il secondo figlio e i seguenti. In un solo anno (1956), per fare un esempio, furono avanzate quin­ dici milioni di domande di benefici pecuniari vari in In­ ghilterra e nel Galles, con una proporzione di una ogni tre abitanti ** . Ci furono 3 250 000 famiglie che ricevette­ ro sussidi per 8 400 000 bambini, e furono ancor più nu­ merose quelle che ricevettero il sussidio indiretto della re­ missione delle tasse per via dei loro figli, per non menzio­ nare doni vari come i pasti a scuola e il latte. Un milione e mezzo di famiglie beneficiarono dell’assistenza nazionadelle colonie e dei territori dipendenti di un tempo di entrare liberamente in Gran Bretagna; fino a che, ancora una volta senza che nessuno conside­ rasse le conseguenze economiche della decisione, l’immigrazione della gen­ te di colore fu drasticamente limitata nel 1963. * Beneficiari di pagamenti sociali (in milioni di sterline). Pensioni di vecchiaia Sussidi di disoccupazione Sussidi di malattia

1914

1918

0,8 2,25 13

2,5 15 20

** Questa fu la suddistinzione approssimativa: Disoccupazione Malattia Pensioni Vedove Sussidi per decessi Sussidi di maternità

Milioni di domande

2,2 6,9 0,4 0,2 1,1

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le da parte del successore, piuttosto umanizzato, della le­ gislazione sui poveri. Virtualmente tutti beneficiarono del Servizio nazionale di assistenza sanitaria, e i bambini fre­ quentarono con una percentuale dal 90 al 95 per cento scuole mantenute in tutto o in parte con fondi pubblici. Non era mai successo prima che cosi pochi cittadini sfug­ gissero interamente alla rete del benessere pubblico. Quanto questo sistema contribuisse al reddito del cit­ tadino medio, è un’altra e più complessa questione. Le elargizioni al popolo vere e proprie furono virtualmente trascurabili prima del 1914, se si eccettua quanto stabili­ va la legislazione sui poveri e i 5 scellini di pensione di vecchiaia per gli ultrasettantenni. Nel 1938 i benefici so­ ciali erano forse arrivati a costituire circa il 6 per cento dei redditi personali totali (non detratte le tasse). Da allora, sorprendentemente, non sono saliti di molto: nel 1956 la stessa aliquota era valutata nel 7 per cento. Questo perché l’aumento dei prezzi aveva reso gli effettivi benefici di si­ curezza sociale meno alti di quanto fossero prima della guerra, e anche perché la disoccupazione era diminuita. Il campo in cui operava l’apparato della sicurezza sociale era diventato molto più ampio, ma i vantaggi che ne traevano i cittadini indigenti erano tuttora marginali. Inoltre, nel i960 i benefici sociali non erano più paragonabili favore­ volmente con quelli ottenibili in molti altri paesi dell’Eu­ ropa occidentale (eccettuati il servizio di assistenza sani­ taria e quello di assistenza nazionale). Questa inadeguatez­ za è specialmente rilevabile nei pagamenti in contanti fat­ ti ai cittadini che non si trovano nella possibilità di guada­ gnare salari. Oggi, come prima del 1914c fra le due guer­ re, l’uomo o la donna che dipendano esclusivamente dal sussidio di disoccupazione, dalla pensione, dall’assistenza nazionale e cosi via, vivono veramente in miseria. D’altro canto, l’intervento statale ha svolto un ruolo importantissimo per quanto riguarda le abitazioni, le istruzioni e, dal 1948, l’assistenza sanitaria. Oltre che il controllo degli affitti, ebbe inizio con la prima guerra mon­ diale e il periodo postbellico una sistematica attività di co­ struzione di abitazioni, soprattutto ad opera delle am­ ministrazioni locali. Fra le due guerre furono costruite

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direttamente dagli enti pubblici o con pubblici sussidi 1 900 000 abitazioni contro 2 700 000 costruite da impre­ sari privati non sussidiati. Dopo la seconda guerra mon­ diale, la grande maggioranza di tutte le abitazioni furono costruite dalle amministrazioni locali, anche se negli anni ’50 ci fu un considerevole aumento della parte dovuta a costruttori privati, incoraggiati dal ritorno ufficiale a una modificata economia di libero mercato. Prima di questa svolta, su tredici milioni e mezzo di abitazioni in Inghil­ terra e nel Galles, tre milioni erano di proprietà pubblica, e altri quattro milioni avevano i fitti sottoposti a control­ lo, cosicché l’importanza dell’intervento pubblico è ovvia. Naturalmente, esso aveva anche effetti contrari, ad esem­ pio facendo aumentare i fitti non sottoposti a controllo. È curioso, comunque, che l’espansione dell’azione sta­ tale abbia influito molto poco sulle fonti sostanziali di red­ dito della maggioranza, cioè i salari o gli stipendi, a parte alcuni interventi, avvenuti soprattutto dopo il 1945, vol­ ti a provvedere un minimo salariale obbligatorio nelle in­ dustrie con trade unions deboli, o a incoraggiare condi­ zioni di lavoro come le ferie pagate. (Prima della Legge per il pagamento delle ferie del 1938, fra quattro milioni e mezzo e sette milioni e mezzo di persone godevano, a quanto pare, di ferie pagate; nel giro di cinque anni quin­ dici milioni, e dalla guerra questa diventò la condizione di pressoché tutti i cittadini con un lavoro). Ma quello che determinava i salari era essenzialmente la libera contrat­ tazione fra i datori di lavoro e le trade unions-, e gli inter­ venti dello stato, eccetto che in tempi di crisi, erano volti principalmente a favorire l’accordo. A partire dal periodo 1890-1914, queste contrattazioni avevano mirato princi­ palmente a prendere tutto sommato la forma di accordi nazionali fra unions nazionali e (in misura crescente) orga­ nismi associati di datori di lavoro nell’ambito di una stes­ sa industria, anche se essendo comuni le condizioni econo­ miche, i movimenti del costo della vita e la tendenza di ogni categoria di lavoratori a cercare di non restare indie­ tro alle categorie corrispondenti di altre industrie, l’inte­ ra struttura salariale denotava lo stesso andamento poco brillante. In pratica questi accordi divennero più impre-

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cisi man mano che aumentava la loro portata nazionale. Per di più, le trade unions, e le organizzazioni dei datori di lavoro che operavano a livello nazionale (queste ultime furono di gran lunga gli organismi più conservatori fra la prima guerra mondiale e i primi anni ’60) favorivano, cia­ scuna categoria a modo suo, la conservazione di sistemi formali, ad esempio di pagamenti dei salari, sempre più remoti dalla realtà, dimodoché il divario fra il tasso mini­ mo negoziato dei salari e la paga effettivamente ricevuta aumentò considerevolmente. Di conseguenza, i negozia­ ti reali che determinavano quanto i datori di lavoro erano realmente disposti a concedere ai loro dipendenti presero sempre più la forma di una rete di mercanteggiamenti non ufficiale e non sistematica fra i rappresentanti delle azien­ de individuali (che generalmente si trovavano su un livel­ lo più elevato) e un numero sempre maggiore di membri delle commissioni interne o analoghi negoziatori che si tro­ vavano a un livello inferiore. Fu tipico delle relazioni in­ dustriali cosi improntate al laissez-faire il fatto che di quei negoziati ben poco si sapeva (secondo valutazioni il lo­ ro numero totale nel biennio 1959-60 fu fra 90000 e 200 000), eccetto che il loro numero aumentò rapidamen­ te. Nell’Unione dei metalmeccanici, aumentarono di forse il 60 per cento fra il 1947 e il 1961, e metà di questo au­ mento si ebbe fra il 1957 e il 1961 *. Ciò che ottenne l’intervento statale fu cosi di rendere stabile lo status quo. Esso contribuì al reddito dei lavora­ tori senza determinarlo, eccetto che per i più poveri. Forni una base di cui ogni uomo o gruppo poteva servirsi per ne­ goziare e diede un riconoscimento ufficiale, consentendone quindi la permanenza operativa, a quelle unions o a quelle associazioni di datori di lavoro che già esistevano, ma sen­ za influenzare seriamente i risultati dei negoziati, eccetto che in brevi occasioni in periodi di crisi. Lasciò insomma che rimanesse un margine per il libero gioco delle negozia­ zioni perché la tradizione continuasse a far sentire il suo peso. Il risultato fu un complesso processo, che portò fati­ cosamente e gradualmente a far si che il livello effettivo dei salari e il modo effettivo in cui questo era determinato, divergessero sempre più dalla teoria e dalla realtà della

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struttura industriale. Il pieno impiego, l’aumento generale dei livelli di vita, e la capacità delle industrie in forte espansione di far gravare sul consumatore l’aumento dei salari (al costo di legittimare ulteriori aumenti per ovvia­ re all’aumento del costo della vita) oscurò gli svantaggi di questo stato di cose, eccetto che agli occhi degli economi­ sti e di quei gruppi di lavoratori sfruttati, i cui bassi salari e la cui condizione insoddisfacente quello stato di cose tendeva a perpetuare. Nei primi anni ’60, le critiche che venivano appuntate alle condizioni prevalenti andarono aumentando, perdendo però in gran parte la forma negati­ va di opposizione ai negoziati svolti dalle trade unions in quanto tali *, il che a sua volta rifletteva l’opinione tradi­ zionale ed erronea per cui la condizione insoddisfacente dell’economia era dovuta ai lavoratori. Le cose in effetti non stavano cosi. Le irrazionalità economiche dei lavora­ tori e dei gruppi dirigenti non erano che i due lati di una stessa moneta. In effetti si poteva anche sostenere che il tentativo di limitare la pressione delle trade unions priva­ va l’economia di almeno uno dei potenti incentivi capaci di portare alla modernizzazione industriale. Il governo esercitava un’influenza altrettanto poco pia­ nificata sulla struttura degli affari. Dopo il 1945, la Gran Bretagna si trovò ad avere un settore pubblico di grande importanza, e la capacità di determinare i movimenti ge­ nerali dell’economia. Comunque, con lo smantellamento di quel meccanismo di pianificazione del periodo bellico e di ricostruzione degli anni postbellici che si era dimo­ strato cosi efficiente, perse l’interesse a quanto avrebbe potuto fare con la sua forza fino a circa il i960, allorché lo spettacolo del successo economico francese fece risuscitare quell’interesse. Le industrie nazionalizzate (carbone, fer­ rovie e altre forme di trasporto e comunicazione e l’acciaio, nazionalizzato, denazionalizzato e di nuovo nazionalizza­ to) furono il risultato di un complesso di circostanze ** , * Come al solito in casi del genere, i giuristi attaccarono lo stato legale delle trade unions, e nel 1966 un governo preso dalla paura li appoggiò abrogando temporaneamente gli accordi collettivi negoziati liberamente. ** Per esempio, fra le industrie che fornivano energia, l’elettricità e il gas erano da lungo tempo parzialmente pubbliche, quella carbonifera fu na­ zionalizzata perché operava in forte deficit con l’iniziativa privata e per-

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ciascuna però operante separatamente, incerta se il suo obiettivo consistesse nel fornire un servizio al resto dell’e­ conomia (e in tal caso, a quale costo), oppure nel persegui­ re il profitto al pari di ogni altra attività economica, oppu­ re nell’ordinare merci ad altre industrie britanniche come quella aeronautica, oppure ancora semplicemente nel man­ tenere il proprio deficit basso in modo di evitare spiacevo­ li dibattiti in parlamento e ad opera della stampa. Le rela­ zioni di ciascuna impresa con le attività private operanti in regime di concorrenza e condotte in base al normale principio della ricerca di un profitto, furono lasciate nel­ l’ombra. La politica delle imprese in fatto di acquisto dei prodotti - e l’ampiezza delle ordinazioni del settore pub­ blico facevano si che esso dominasse svariate industrie fu lasciata indeterminata. Naturalmente esse svolsero nel­ l’economia un ruolo molto minore di quello che avrebbero potuto rivestire *. Questo vale non soltanto per le indu­ strie nazionalizzate, ma per l’ancor piu importante com­ plesso d’investimento controllato dalle pubbliche autorità. Quanto accadde fu che, eccetto in tempo di guerra, la prevalente teoria riguardante l’impresa pubblica non con­ siderava quest’ultima come un mezzo per assicurare il progresso economico. La Gran Bretagna, prima fra tutte le economie «sviluppate», trovava duro pensare nei ter­ mini che riuscivano cosi naturali alle nazioni arretrate che cercavano di raggiungere quelle progredite, a quelle po­ vere che cercavano di diventare ricche, a quelle in sfacelo che cercavano di rimettersi in piedi, o anche a quelle con una ininterrotta tradizione di pionierismo tecnologico. I socialisti britannici pensavano al settore pubblico come a un meccanismo capace di permettere una ridistribuzione che sia i minatori sia l’opinione pubblica insistevano perché si arrivasse al­ la proprietà pubblica, e quella petrolifera non fu nazionalizzata affatto, presumibilmente perché la Gran Bretagna non voleva indurre altri paesi a nazionalizzare i pozzi di petrolio da cui, attraverso le gigantesche società con cui il governo manteneva relazioni eccellenti, le finanze britanniche ri­ cavavano valuta straniera pregiata. * Con l’eccezione forse della bbc, non si hanno esempi di imprese gui­ da, in campo tecnologico o economico, che possano paragonarsi con quelle pubbliche del Continente - per esempio la Renault e la Volkswagen nel­ l’industria automobilistica, le ferrovie francesi e di qualche altro stato, o l’industria italiana del petrolio e del gas naturale.

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3°9

dei redditi e un certo grado di giustizia sociale, o piu va­ gamente - e in contrasto col capitalismo, volto al profit­ to - come a un «servizio pubblico». (In effetti questo si­ gnificava produrre per « il pubblico » beni e servizi ai prez­ zi più convenienti; ma dato che i principali clienti delle industrie nazionalizzate sono le imprese private, questo significava in effetti sussidiare le imprese private, e ciò fa­ cendo il settore pubblico infiacchiva il proprio stimolo a modernizzarsi). Gli uomini d’affari pensavano al settore pubblico allo stesso modo, ammesso che ci pensassero, sebbene adottassero una terminologia differente. Per lo­ ro, l’iniziativa pubblica ideale era quella che a) non inter­ veniva nelle attività private; b) non comportava tasse per il contribuente; c) forniva merci e servizi al disotto dei prezzi di mercato; d) ordinava merci e servizi prodotti a prezzi di monopolio, e e) contribuiva alle spese per la ricerca e lo sviluppo o le sopportava interamente *. Questi obiettivi erano incompatibili fra loro. Il governo, infine, per tradizione considerava il settore pubblico e la spesa pubblica, in primo luogo come un fattore stabilizzatore dell’economia, capace di ridurre le fluttuazioni a breve termine. Una volta trovatosi in possesso di una gran parte dell’economia, lo stato non potè limitarsi a incoraggiare o scoraggiare l’iniziativa privata con misure fiscali e finan­ ziarie, ma si trovò a far gravare il suo enorme peso in que­ sta o in quella direzione (il che equivaleva, in pratica, a de­ curtare di tanto in tanto gli investimenti pubblici in cam­ po civile). Ma esso non si considerava ancora, almeno cosi fu per la maggior parte del periodo seguito alla seconda guerra mondiale, come il più poderoso motore dell’econo­ mia, anche se, molto lentamente, si convinse che avrebbe dovuto fare qualcosa per assicurarsi un più rapido ritmo di sviluppo. Uno dei motivi di questa mancanza fu che lo stato non si considerava come qualcosa di veramente distinto dall’in­ dustria privata, dal piccolo gruppo delle gigantesche so­ cietà aventi un’importanza economica decisiva, spesso or* Fra il 1949 e il 1958, le industrie private acquistarono dal settore pri­ vato merci e servizi per circa 12 000 milioni di sterline, e circa dello stesso ammontare furono gli acquisti statali.

3io

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ganizzate come enti burocratici pubblici, e i cui capi pas­ savano con facilità al servizio statale allo stesso modo in cui i funzionari statali in pensione passavano ai giganti che controllavano l’economia*. Sembrava di nessuna im­ portanza che un settore operasse in base a normali prin­ cipi affaristici e l’altro no, o che un settore fosse nominal­ mente privato o pubblico, fin quando gli uomini che diri­ gevano entrambi pensavano allo stesso modo e seguivano le indicazioni generali degli economisti del governo (che a loro volta non differivano molto dagli altri economisti). Eccetto che da parte dell’ala sinistra del partito laburista e di altri socialisti, la nazionalizzazione era in gran parte considerata come irrilevante, e le industrie nazionalizzate esistenti erano viste come accidenti storici. A un certo punto, la direzione del partito laburista arrivò a prospet­ tare che il miglior modo per far si che il pubblico control­ lasse il settore non nazionalizzato, era che esso comperas­ se i titoli azionari statali delle principali società private. Gli osservatori esterni poterono trovare paradossale che, durante le crisi finanziarie degli anni 1964-66, il governa­ tore della nazionalizzata Banca d’Inghilterra, il quale era teoricamente il portavoce del governo, agisse in pratica da portavoce dell’opinione della City contro il governo, ma questo era un paradosso che derivava naturalmente dalla fusione di due settori, e dal convincimento che l’eco­ nomia era diretta in realtà dall’accordo fra quella sorta di gente che dirigeva le grandi società private. L’economia britannica, quindi, ancora nei primi anni ’60 si affidava in larga misura alle forze dell’espansione «naturale» e spontanea, anche se queste erano in parte indirizzate dalla politica statale. Questo tanto piti in quan­ to, dopo il 1951, il governo si astenne deliberatamente dai controlli amministrativi, con l’eccezione (teorica) di misu­ re da adottare per le crisi a breve termine. In quel perio­ do, questo stato di cose cominciò a subire critiche sempre piti pesanti, e divenne chiaro che sarebbero subito occorse * Il responsabile dell’Imperial Chemical Industries nel 1966, era un ex funzionario statale, mentre un esperto che fu incaricato di dare una struttu­ ra razionale alle ferrovie nazionalizzate era un funzionario dellTmperial Chemical.

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misure molto più sistematiche volte alla pianificazione, al­ la nazionalizzazione, all’abolizione di irrazionalità e inef­ ficienze. Rapportato coi livelli internazionali, quello che la Gran Bretagna fece fu poca cosa. Il problema fonda­ mentale della posizione della Gran Bretagna nel mercato internazionale era rimasto evidentemente insoluto. Non risultava affatto che un’economia dell’ampiezza di quella britannica poteva affrontare la sfida e la rivalità delle supereconomie, molto più grosse, come quelle degli Stati Uniti, dell’Unione Sovietica e della Comunità economica europea. Ma sembra abbastanza sicuro che l’economia bri­ tannica non avesse, in effetti, ancora trovato la sua via.

1

peter donaldson, Guide to thè British Economy, Pelican 1965, e g. c. allen, The Strutture of Industry in Britain, 1961, sono utili introduzioni. The UK Economy, A Manual of Applied Eco­ nomia, a cura di A. R. Presi, 1966, è meno elementare. Per la si­ tuazione generale, cfr. m. m. postan, An Economie History of Western Europe (1945-1964), 1967. Cfr. anche i diagrammi 1, 7-8,11-12,14,16,19-20,23,26-33, 35-40, 42> 53'552 Comunque, il declino sempre più rapido dell’industria carbonife­ ra pose tutti i paesi dell’Europa occidentale, compresa la Gran Bretagna, di fronte a problemi più acuti nella metà degli anni ’60. 3 Cfr. G. maxcey e A. siLBERSTON, The Motor Industry, 1959. 4 Le esportazioni come percentuale del prodotto nazionale lordo e indice delle esportazioni di vari paesi nel 1965.

Fonte: «Guardian», 22 novembre 1967.

Esportazioni come % del prodotto nazionale lordo

Stati Uniti Giappone Francia Italia Regno Unito Germania occidentale Svezia Belgio e Lussemburgo

3,9 10,1 10,8

12,7 13,7 15,9 20,2 36,4

Indice 1958 - 100

153 294 196 278 148

203 190 210

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5 La sterlina dovette infine essere svalutata nel novembre 1967, con conseguenze che non potevano essere ancora previste quan­ do scrivevo. 6 Research commission on trade unions, Research Paper 1: The Role of thè Shop Stewards in British Industriai Relations, 1966, p. 5. Per ulteriori notizie circa il ruolo e la natura dei mem­ bri delle commissioni interne, cfr. il Research Paper io, dello stesso comitato (1968) sullo stesso argomento.

14. La società dopo il 19141

In termini economici, questo è stato un secolo di enor­ mi miglioramenti netti nei livelli di vita. In termini socia­ li, i cambiamenti sono stati ugualmente enormi e sconcer­ tanti. Le guerre e le depressioni fra le due guerre distol­ sero largamente le menti degli inglesi, che avevano preoc­ cupazioni piu urgenti, dai cambiamenti che si erano veri­ ficati, ma nei primi anni ’60, dopo una serie di pacifici an­ ni in cui le condizioni materiali e le abitudini del popolo si erano mutate piu profondamente e rapidamente di quanto fosse mai accaduto, un atteggiamento di perples­ sa introspezione e autocritica divenne proprio delle parti colte della nazione. Che cosa era successo, che cosa stava succedendo al paese? A prima vista, il fenomeno piu ovvio era il suo declino internazionale. Dopo il 1931, la Gran Bretagna cessò di essere il perno dell’economia internazionale, dopo il 1945 cessò di essere anche ufficialmente un vero impero, e i raffronti con altri paesi industriali divennero sempre più sfavorevoli. In effetti, come abbiamo visto, il cambiamen­ to della posizione internazionale della Gran Bretagna non influì sulla vita del paese. La vita degli uomini d’affari di­ pendeva dai profitti, e quali che fossero le fonti di quei profitti, quella gente viveva una vita davvero magnifica. La vita dei lavoratori dipendeva dalla disponibilità di un posto di lavoro e dai salari, e in entrambe le cose la situa­ zione era molto migliore di un tempo. La vita degli appar­ tenenti alla classe professionale e quella degli intellettuali dipendeva dalle loro possibilità di essere impiegati e dalle loro attribuzioni, cose che aumentarono incommensura-

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bilmente rispetto al periodo anteriore alla seconda guerra mondiale. Il malessere che divenne cosi evidente dopo i tardi anni ’50, fu certamente dovuto non a uno scontento materiale, e tanto meno a difficoltà identificabili col de­ clino della Gran Bretagna. Fu dovuto invece al crollo evi­ dente degli ideali che la generazione passata aveva, senza troppa riflessione, ritenuti permanenti. Il paese che era proverbiale per il suo puritanesimo morale divenne, al­ meno per quanto riguardava larghe masse di cittadini, un paese di manica eccezionalmente larga in materia sessua­ le. La nazione che si vantava di rispettare un ordinamento giuridico integro diventò famosa per l’audacia dei suoi la­ dri impuniti, e cominciò a sospettare dell’integrità dei suoi poliziotti. La nazione i cui operai quasi mai avevano attra­ versato la Manica (eccetto che come soldati, mandati ogni anno verso le spiagge mediterranee e le piste alpine), do­ vette ospitare, con evidente riluttanza, un modesto ma fin troppo visibile afflusso di cittadini di colore, e prese a gustare scampi, carne tritata e riso condito con olio di sesamo e, in quantità fino allora sconosciute, persino vi­ no. Almeno, cosi sembrava. Il «malessere» più acuto era quello delle «classi me­ die», composte, come abbiamo visto, da gente pagata con stipendi. I ricchi avevano pochi motivi di lamentarsi seb­ bene si considerassero, come sempre, tassati e oppressi oltre ogni sopportazione. È indubbio che non ci fu alcun importante livellamento della proprietà fra le due guerre, e non c’è stata alcuna ridistribuzione da quel periodo. An­ teriormente alla prima guerra mondiale (1911-13), il 5 per cento dato dalla classe più elevata della popolazione possedeva F87 per cento della ricchezza privata, e il 90 per cento che stava sul gradino inferiore, 1’8 per cento. Appena prima della seconda guerra mondiale (1936-38), le proporzioni erano rispettivamente del 79 e del 12 per cento, e nel i960 del 75 e del 17 per cento1. In quanto ai redditi provenienti dagli investimenti, nel 1954 all’i per cento più elevato andava ancora il 58 per cento. La Gran Bretagna restava ancora lontana dall’essere una «demo­ crazia di proprietari». Sul gradino più alto della scala, la gente spaventosamente ricca divenne leggermente meno

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numerosa, leggermente più ricca individualmente, ma di­ ventò una percentuale un po’ meno numerosa del numero dei proprietari, ed ebbe a disposizione un’aliquota un po’ minore del valore totale della proprietà. Negli anni 19361938, qualcosa come quindicimila persone possedevano circa il 22 per cento delle proprietà; dopo la guerra, ne possedevano, in diciannovemila, quasi il 15 per cento, e dopo il 1948 cominciò di nuovo il processo di concentra­ zione. Quanto era accaduto, era stato una modificazione nelle basi dell’ineguaglianza nel contesto di un’economia in cambiamento e sempre più influenzata dallo stato. Quelli che non seppero adattarsi al nuovo corso delle cose soffri­ rono, quelli che approfittarono delle nuove opportunità prosperarono. Fra le due guerre, quando l’ideale di un ri­ torno al 1913 seguitava a illudere i ricchi e gli statisti, questo non era ancora ovvio come dopo la seconda guerra mondiale. Ciò è particolarmente evidente in campo fisca­ le. Ufficialmente, le imposte progressive dirette e le tasse sul patrimonio come quelle di successione aumentarono a livelli vertiginosi, cosicché la gente molto ricca fu teori­ camente privata della maggior parte dei suoi redditi ec­ cessivi. Successe però, e sotto lo sguardo benevolo dello stato, che fu perfezionata una gran varietà di accorgimen­ ti legali capaci di consentire un’ampia evasione fiscale a coloro i cui redditi non provenivano da salari e stipendi, ed erano tassati alla fonte. Il piu importante di questi bu­ chi nella rete fiscale fu probabilmente l’assenza di ogni tas­ sa sui redditi dei capitali fino al 1962, che consenti vasti guadagni esenti da imposte ai proprietari di obbligazioni e beni immobili negoziabili, nei lunghi anni postbellici di ininterrotta rivalutazione del capitale. Le fortune più fan­ tastiche di questo periodo (per esempio, quelle degli spe­ culatori sugli immobili) furono basate su questo fatto. Le «donazioni» ai parenti elusero le tasse di successione. E cosi via. La gente molto ricca, quindi, continuò ad essere non meno ricca di prima, anche se la sua composizione mutò un po’. La prima guerra mondiale, paradiso dei profittatori, rese quella gente ancora più ricca, pur se ridusse al mi­

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nimo (a causa anche della vendita di parie inaugurata da Lloyd George) la loro tradizionale ricompensa sociale, l’accoglimento nell’aristocrazia terriera. La depressione fra le due guerre angustiò un poco i ricchi, ma non ci fu niente che potesse creare una leggenda paragonabile al mito americano dei milionari che si gettavano dalle fine­ stre di Wall Street dopo la grande crisi del 1929. La se­ conda guerra mondiale e la susseguente epoca laburista scoraggiarono le spese pazze e spaventò i ricchi. Fu soltan­ to con l’epoca conservatrice della metà degli anni ’50 che ritornò quella sicurezza di sé capace di portare all’ostenta­ zione della propria ricchezza, e nel contempo fini la politi­ ca ufficiale di una relativa austerità. Come abbiamo visto, in quegli anni i ricchi diventarono indubbiamente più ric­ chi. Ad essi si aggiunse inoltre un gruppo relativamente nuovo, quello delle persone le cui spese (pagate in un mo­ do o in un altro dalle ditte come «spese d’affari») erano quelle dei ricchi, anche se non poteva dirsi lo stesso dei loro redditi e dei loro capitali. Era gente che cacciava in riserve comprate dalle società per via dei contatti d’affari che diceva, si potevano avere là, che faceva la fortuna dei locali notturni e dei fabbricanti di automobili di lusso e beveva «Chàteau Mouton Rothshild 1921» in locali ma­ scherati da mense aziendali per dirigenti. La maggior parte della «classe media» viveva al di sot­ to di questo livello ed era angustiata, come talvolta erano i ricchi stessi, da uno stato di cose in cui i più alti com­ pensi materiali non andavano a una nobiltà tradizionale o alle virtù dell’iniziativa o del lavoro duro, bensì dipende­ va da quello che in base ai livelli del secolo xix era soltan­ to menzogna e immoralità. La sua situazione, come la clas­ se media stessa capiva bene, era peggiorata di parecchio. Nel i960, forse un quarto della popolazione apparteneva a questo gruppo composto dalla classe impiegatizia e da quella dei professionisti, che si era ampliato continuamen­ te durante il secolo xx sostituendo sempre più le tipiche classi «media» e media inferiore vittoriane, le quali era­ no composte essenzialmente da bottegai, piccoli impren­ ditori e persone che vivevano di «onorari e di profitti» (per citare la classificazione ai fini l’imposta sul reddito),

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e non di salari o di stipendi. Era gente che sia finanziariamente sia socialmente viveva all’altezza della sua reputa­ zione. Un reddito relativamente modesto (anche se supe­ riore di una, due, tre volte a quello di un operaio) assicu­ rava già un grado di agiatezza inconcepibile fra il proleta­ riato *. Con mille sterline l’anno si andava molto lontano. Una modesta agiatezza era l’aspirazione massima della classe media. Nella gerarchica società della Gran Breta­ gna, l’aristocrazia terriera era in ogni caso fuori della por­ tata della classe media, e anche i milioni della plutocrazia raramente erano una tentazione per le persone rispettabi­ li. Nell’epoca edoardiana, qualche romantico come lo zio Ponderevo di H. G. Wells, o qualche figlio di prete, co­ me John Buchan, sognavano di raggiungere il traguardo della ricchezza e della buona posizione sociale per mezzo degli affari o delle attività professionali, soprattutto quel­ la giuridica, e parecchi giovani imprenditori provenienti dalle colonie speravano di fare il loro mucchio di denaro e conquistare Londra. Alcuni, come Lord Beaverbrook, ci riuscirono. Ma il sentiero che portava alle vette sociali era stretto: Oxford, la professione forense, il parlamento o le miniere di Johannesburgh e la borsa. Né Sir Thomas Lipton (generi di drogheria e yacht), né Lord Birkenhead (legge, politica e spese pazze) erano gli esempi che il cit­ tadino tipico della classe media sognava di emulare. Quel­ lo che egli voleva era una posizione sicuramente e, con un po’ piu di fortuna, sempre piu al di sopra degli «ordini inferiori», agi domestici in quantità, l’istruzione per i fi­ gli, la sensazione di essere «la spina dorsale della nazio­ ne», e magari la possibilità di dedicarsi ad attività reli­ giose e culturali. Ma tra le cose elencate, era la prima quel­ la che desiderava di più. In termini economici, parecchi membri della classe im­ piegatizia non ebbero mai questa sicura superiorità sul * Cosi, negli anni 1937-38 la famiglia di uno stipendiato, con un red­ dito di 400 sterline l’anno, spendeva il doppio della famiglia media di un operaio per il vestiario e le abitazioni (molto migliori), un terzo di più per il riscaldamento e la luce, un quinto di più per il cibo. Le restava ancora metà del suo reddito per altre spese, superiori di tre volte a quelle della famiglia di un operaio.

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proletariato, perché in molti casi non guadagnavano di più dell’aristocrazia del lavoro manuale. Erano il loro stile di vita, la loro condizione sociale a differire da quelle dell’o­ peraio, e quindi la gente degli uffici era estremamente sen­ sibile a ogni miglioramento in basso che potesse far dimi­ nuire queste distinzioni. Fra le due guerre, il pensiero che le case costruite dall’amministrazione locale potevano ma­ gari offrire agli operai dei gabinetti, causò un senso di tri­ stezza ai membri della classe impiegatizia, e la diffusa con­ vinzione che gli operai a cui andavano le nuove case avreb­ bero usato le stanze da bagno per metterci il carbone esprimeva una speranza più che la realtà. È possibile che questi strati marginali della classe media talvolta perdes­ sero terreno, per esempio durante i periodi di inflazione. Non avevano unions (con l’eccezione del campo dei servi­ zi pubblici) e, a dire il vero, non sapevano fare molto di più delle loro figlie, stenografe e dattilografe. Durante gli ultimi cinquant’anni questi uomini rimasero, tormentati e pieni di rancore, un esercito arcigno della periferia, soste­ nitori in massa della destra e dei giornali e degli uomini politici antilaburisti. In termini puramente finanziari, niente fa pensare che la situazione degli strati medi meno marginali sia mutata in peggio. Se prendiamo il maestro elementare, un esem­ plare della classe media inferiore tutt’altro che privilegia­ to, troviamo che il suo stipendio annuale medio probabil­ mente non tenne il passo col costo della vita durante la prima guerra mondiale, migliorò decisamente in termini reali nel periodo postbellico, e rimase abbastanza stabile fino alla seconda guerra mondiale, quando il suo valore reale aumentò ancora *. I periodi prebellico e postbellico possono essere facilmente raffrontati tenendo conto delle * Stipendio annuale medio, in sterline, degli insegnanti abilitati (uo­ mini). 1914 147 1918 180 1923 346 1928 334 1933 296 1938 33i

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statistiche dell’imposta sul reddito, come illustrato dalla tabella3. Le cifre del periodo postbellico vanno divise per 3,5 circa per tener conto del diminuito valore della valuta, ma è comunque chiaro che era aumentato il numero delle per­ sone con redditi di lavoro equivalenti a quelli prebellici della classe media, e che il reddito medio delle categorie di centro di questa classe era probabilmente salito. Que­ sto non fu dovuto tanto a miglioramenti effettivi dei tassi degli stipendi quanto al fatto che furono parecchi quelli che arrivarono a occupare i posti ben pagati, in forte espansione. Tuttavia, anche fra questi strati di centro della classe media le lamentele non cessarono mai, anzi si fecero parti­ colarmente sentire fino al 1914. I motivi erano svariati. L’aumentato tasso fiscale, cui una persona stipendiata non poteva sfuggire, era uno. Per una famiglia di due adulti e tre bambini, con un reddito di circa 1000 sterline, l’inci­ denza fiscale più o meno raddoppiò, in termini monetari, fra il 1913 e il 1938, e raddoppiò ancora fra il 1938 e il i960. Un altro motivo era dato dal tipo di spese che la classe media doveva affrontare. Esse comprendevano one­ ri relativamente pesanti per le assicurazioni, le tasse scola­ stiche, gli acquisti di alloggi e cosi via, che inevitabilmente obbligavano a evitare altre spese, eccetto che per i più ric­ chi; e questo, almeno per una gran parte della vita. Ma il motivo principale era certamente che diventava sempre più difficile o costoso mantenere quella visibile e qualitativa superiorità sugli «ordini inferiori», che era il

Numero degli accertamenti ai fini dell’imposta sul reddito. 1938-39: ampiezza dei redditi lordi (sterline) Accertamenti

200-400 400-600 600-1500 oltre 1500

3 030 000 570 000 459 000 158 000

1963: ampiezza dei redditi lordi (sterline) Accertamenti

700-1500 1500-2250 2250-5000 oltre 5000

11 500 000 1 000 000 510 000 100 000

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vero distintivo di appartenenza alla classe media. I servi­ tori domestici furono i primi a scomparire. Prima del 1914, il fatto di averne aveva virtualmente contrassegnati quanti come minimo aspiravano ad appartenere alla clas­ se media, ma nel 1931 soltanto il 5 per cento delle fami­ glie britanniche aveva servitori fissi, e nel 1951 soltanto l’i per cento’. Il personale domestico scomparve eccet­ to che sotto la forma del lavoro a ore, fino a che negli anni 1950 si rifece vivo, su scala limitata, sotto l’etichetta del­ le ragazze straniere «au pair». Il monopolio delle comodi­ tà domestiche tenuto dalla classe media, crollò. Nel i960 nemmeno il telefono e l’automobile, e tanto meno le va­ canze all’estero, erano più simboli sicuri di una condizio­ ne sociale. Questo non significava nemmeno che c’era più denaro per altre cose, perché l’obbligo di non sfigurare coi vicini, in una società in cui lo stato sociale veniva sem­ pre più misurato in base al denaro, manteneva alti gli sti­ moli a spese cospicue. Certe spese, ad esempio quelle per i divertimenti, diventarono ancor più rovinose. Inoltre, una società basata sui consumi di massa lasciò soltanto ai più ricchi la speranza di distinguersi dal resto con la ovvia buona qualità delle cose possedute. Il divario fra una donna che aveva un frigorifero e quella che non l’ave­ va era forte, ma quello fra chi possedeva un frigorifero più a buon mercato e quello più costoso era solo dell’ordi­ ne di alcune decine di sterline, e del resto gli acquisti a rate potevano mascherarlo facilmente. Peggio ancora, questo valeva anche per i vestiti, specialmente per quel grande uguagliatore sociale che è il vestiario indossato nel tempo libero. Le classi medie reagirono fino a un certo grado dopo la seconda guerra mondiale con l’ultima risorsa, lo snobismo, cercando la distinzione in una sciatteria raffinata (come i gentiluomini di campagna già parecchio tempo prima ave­ vano fatto distinguendosi dai parvenus del commercio con tweeds aggressivamente frusti), o effettivamente evitan­ do i prodotti di massa. Che la classe media comperasse ap­ parecchi televisivi in minor numero che la classe operaia era soltanto una leggenda, ma, caratteristicamente, una leggenda molto diffusa nei primi tempi in cui apparve que­

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sto nuovo svago. Per contro, molte delle spese tipiche del­ la classe media divennero sproporzionatamente alte, e una parte della sua vita, faticosa senza necessità. Sognan­ do cameriere, la casalinga della classe media fu più lenta della donna di famiglia operaia ad adottare, quando po­ teva permetterselo, macchine che realmente permetteva­ no di risparmiare tempo, come le lavatrici; e certamente fu più lenta ad accettare cibi in scatola già preparati che rendono più facile la vita delle masse *. Sognando la pri­ vacy, esitò ad avvantaggiarsi di quella rivoluzione che coi viaggi di gruppo trasformò i viaggi di massa, e tentò di aggrapparsi alla vecchia, individualistica forma di viaggio che era insieme più costosa e più scomoda. Un intero mo­ dello di vita era insomma diventato antiquato, e il solo modo sicuro di conservare un distinto stile di esistenza, vale a dire la ricerca di attività intellettuali e culturali, non andava troppo a genio alla maggioranza della classe media. Tuttavia, un gran parlare di «cultura» fu proba­ bilmente la più importante innovazione nei giornali che si rivolgevano alla classe media nel periodo postbellico, e che adesso offrivano ai lettori recensioni di libri, e pagine sul teatro e le arti in una misura sconosciuta prima della seconda guerra mondiale. Le vecchie, ben fondate classi medie trovarono il loro monopolio della posizione sociale minato anche dall’en­ trata dei figli degli «ordini inferiori» (inclusa in questo caso la classe media inferiore) nelle professioni, sempre più vaste e importanti. Prima della seconda guerra mon­ diale non succedeva spesso che la riuscita negli esami e la capacità professionale piuttosto che i legami di sangue e il «carattere», la conoscenza piuttosto che la «capacità generale» fossero la chiave del successo. Dopo la guerra, queste cose diventarono molto più importanti, e le vec­ chie «public schools» si trovarono a raccogliere denaro * Si ebbe una netta reazione, negli anni ’^o e ’60, contro i cibi sem­ plici tradizionali e a favore della «gastronomia» (specialmente quella con­ tinentale e quella esotica), e in seguito contro i cibi « manifatturati » e a favore di quelli «naturali». I cibi diventarono fra i più sicuri indicatori della classe media, fino a quando i proletari agiati cominciarono ad ade­ guarsi.

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non per costruire monumenti a ricordo della guerra e pa­ diglioni, ma strutture di laboratori, a loro tutt’altro che familiari, per poter competere con i licei nella formazio­ ne di scienziati e tecnologi. L’appartenenza alla classe me­ dia non attribuiva più automaticamente posizioni di po­ tenziale preminenza, e in ogni caso queste dovevano esse­ re spartite coi nuovi arrivati dal basso. Gli interessi ac­ quisiti della vecchia élite, cosi intrecciati fra di loro - la City, la direzione dell’industria, la giurisprudenza, la me­ dicina e altre professioni di persone collegate fra loro, e il partito conservatore resistettero meglio che poterono, e quindi in modo piuttosto efficiente. Nei tardi anni ’50 vi furono persino dei segni di reazione. Ma la minaccia c’era, e diventava sempre più grave. Il malessere delle classi medie non era dunque dovuto a impoverimento, e non era neanche dovuto a una qualche diminuzione di di­ stinzione fra le classi, eccetto nel senso superficiale che non era sempre facile fare una distinzione in pubblico, specie se si trattava di giovani. Era dovuto invece a un cambiamento nella struttura e nella funzione delle catego­ rie medie nella società britannica. Il malessere era dupli­ ce, perché soffrivano quelli che non si adeguavano pron­ tamente alla nuova situazione, e quelli che non trovavano posto per i loro talenti perché il cambiamento non era ab­ bastanza rapido: c’era il malessere dei vecchi «gentiluo­ mini» e dei nuovi «giocatori». Entrambe le categorie si unirono addossando ogni colpa alle classi operaie. Sebbene soltanto pochi appartenenti alle classi operaie nei primi anni ’60 fossero «agiati» nel pieno senso della parola e sebbene uno su dieci si trovasse realmente in sta­ to di bisogno, il malessere delle classi operaie non era cer­ to dovuto a difficoltà economiche. La maggior parte degli operai britannici stavano molto meglio di quanto era mai successo nella loro storia, e certamente molto meglio di quanto si sarebbero mai aspettati di stare nel 1939. Per la prima volta, la maggior parte di essi si trovavano, parlan­ do in termini generali, a non dover combattere la lotta per le necessità elementari di tutti i giorni e liberi dal terrore

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della disoccupazione. Rimaneva a spaventarli soltanto la paura della vecchiaia, una combinazione di povertà e di vuoto totale. Tuttavia due fattori stavano per cambiare la situazione sociale tanto profondamente quanto quella del­ la classe media, e anzi di più. Il primo e forse meno importante era l’economia della produzione di massa, che si basava sui salari ormai non più tanto magri degli operai. Il tipo di vita che conduce­ vano gli operai, la «cultura tradizionale della classe ope­ raia» che, come abbiamo visto, si era manifestata verso la fine del secolo xix, ne rifletteva l’isolamento sociale. Gli operai erano stati i paria dell’economia e della politi­ ca. La semplice presenza di un uomo che portava un ber­ retto da operaio e parlava con l’accento di un operaio in parlamento - è il caso di Keir Hardie nel 1892 - fu suffi­ ciente a creare uno shock di cui ancora si parla nei libri di storia. Anche se gli operai non erano completamente di­ menticati dal grosso giro d’affari, l’industria e il commer­ cio che si occupavano delle loro necessità erano intera­ mente distinti dall’industria e dal commercio che riforni­ vano le classi medie (per non parlare della nobiltà e delle classi dirigenti locali) a meno che, naturalmente, gli ope­ rai non comperassero deliberatamente merci destinate al­ la classe media. I contatti fra la vita della classe operaia e quella della classe superiore (non parliamo qui dei ser­ vitori) non erano più stretti di quelli che esistevano fra la vita dei bianchi e quella dei negri negli Stati Uniti fra le due guerre; e cosi il gusto degli aristocratici e degli in­ tellettuali per la compagnia dei pugili, dei fantini, delle prostitute e della gente del music-hall non era niente di più di quel che è la passione di alcuni bianchi per il jazz. Il «mondo proletario» non era interamente fatto di bassifondi. Aveva, nelle aree industriali, una propria strut­ tura sociale, culminante nell’élite mista di operai qualifi­ cati, piccoli bottegai, piccoli imprenditori, padroni di pubs, insegnanti elementari, alla quale i tardi vittoriani diedero il nome di classe media inferiore. (Questa non va confusa con la nuova classe media inferiore composta di impiegati, né con quella composta da piccoli bottegai, ecc., nelle aree non industriali, tutta gente che non si mi­

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schiava né si identificava con l’aristocrazia del lavoro). In ogni caso, per quel che il tipico appartenente alla classe media conosceva del mondo della classe operaia, o la clas­ se operaia del mondo della classe media, le due « nazioni » era come se vivessero in due distinti continenti *** . Virtualmente tutte le istituzioni del mondo della clas­ se operaia erano quindi separate, e create all’interno di quel mondo. Cosi, del resto, bisognava che fosse. Il mer­ cato e i negozi proletari (compresa l’agenzia di pegni), la parte dei pub, gerarchicamente stratificati, riservata agli operai, i loro giornali caratteristici, che univano indiscre­ zioni sulle corse al radicalismo e ai resoconti sui delitti ", i loro music-hall, le squadre di calcio e il movimento del­ la classe operaia, erano tutte cose che coesistevano col mondo della classe media ma non ne facevano parte, e quasi non si incontravano. Questa separazione si fece piu netta fra il 1880 e il 1914, man mano che le fabbriche si ampliavano e che i contatti coi datori di lavoro diminuiva­ no (o diventavano piu difficili con l’aumento del numero degli impiegati) e man mano che i non proletari si tra­ sferivano da quartieri a composizione mista in quartieri periferici abitati da una sola classe. Niente cambiò molto fra le due guerre. Woolworth, Boots e Fifty Shilling Tailor [= il sarto da cinquanta scel­ lini] non bastavano ancora a mettere sullo stesso piano i consumi della classe operaia e quelli della classe media o anche della classe media inferiore. Inoltre, gli sviluppi in campo edilizio (le abitazioni costruite dalle amministrazio­ ni locali) resero piu nette le divisioni residenziali di classe. In una gran parte della Gran Bretagna, la depressione saldò insieme in un arcigno blocco tutti quanti ne senti­ vano gli effetti immediati. Una nuova coscienza di classe e la percezione di essere sfruttati da un lato, la paura dal­ * Ricordo, ancora nel 1940, di essere passato tra i due mondi coprendo una distanza di appena un miglio a Cambridge: lasciai l’università perché richiamato alle armi e mi trovai acquartierato in una strada di gente operaia. ** Il vecchio « News of thè World » fu il giornale che ebbe maggior suc­ cesso; non cosi l’assai più giovane «Daily Mail» di Northcliffe (1896). Il primo moderno quotidiano a grande diffusione che si rivolgesse alle classi operaie perché costituivano il « mercato » più vasto è stato il « Daily Mirror», e non prima del 1940 circa.

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l’altro, ampliarono la spaccatura esistente tra le due «na­ zioni». Un rigido sistema di istruzione, un’economia bar­ collante, confinarono gli operai e i loro figli in un mondo che era tutto loro. Il giovane proletario intelligente tro­ vava ancora le migliori occasioni di far valere il proprio talento all’interno del movimento dei lavoratori - è il ca­ so di Aneurin Bevan - o nel campo dell’insegnamento. Il figlio del proletario non era piu completamente escluso dall’istruzione secondaria, sebbene la Legge Fisher per l’istruzione, del 1918, non avesse seriamente migliorato le sue possibilità d’istruirsi *. L’istruzione universitaria, comunque (c’erano, nel 1938, soltanto qualcosa come cin­ quantamila studenti universitari, dei quali il 20 per cento a Oxford e a Cambridge), restava per lui un sogno. Quindi, quando il cambiamento divenne evidente, al­ cuni anni dopo la seconda guerra mondiale, poco in effetti era stato fatto per prepararlo. Esso non fu semplicemente dovuto alla « abbondanza » dei nuovi beni di consumo du­ revoli. Infatti, in rapporto ad altre nazioni, questi non ve­ nivano comperati in grande quantità, con l’eccezione degli apparecchi televisivi. Cosi vediamo che nel 1964 c’erano in Gran Bretagna 37 automobili ogni 100 abitanti, con­ tro 50 in Germania e 47 in Francia. Non c’era poi sol­ tanto il fatto che più denaro, maggiori comodità domesti­ che, e in seguito un più alto numero di proletari proprie­ tari delle loro abitazioni tendevano a far spostare il cen­ tro della vita della classe operaia da caratteristiche forme pubbliche e collettive (il pub o la partita di calcio) verso altre private e individuali, e quindi verso un modello di vita un tempo proprio della classe media inferiore. Negli anni ’50 «Andy Capp», il tradizionale proletario mai in casa, sempre al pub e oppressore della moglie, eroe di un famoso fumetto, diventò un divertimento per tutti (ma anche motivo di nostalgia). La verità stava nel fatto che una società basata sui con­ sumi di massa è dominata dal suo mercato più grosso, che in Gran Bretagna era quello della classe operaia. Allor­ * Gli onorari nelle scuole secondarie di istruzione finanziate dallo stato furono aboliti solo nel 1945. 12

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ché la produzione e gli stili di vita furono cosi democra­ tizzati, per non dire proletarizzati, gran parte dell’isola­ mento delle classi operaie svanì, o, piuttosto, il modello di isolamento fu rovesciato. Gli appartenenti alle classi ope­ raie non dovettero piu accettare merci, o divertimenti, prodotti per altra gente: per il piccolo borghese idealizza­ to (era il caso del quotidiano a più ampia diffusione fra le due guerre, il «Daily Express»), per una versione degene­ rata della classe media, quella che andava alle matinées (era il caso della maggior parte della musica popolare) *. Né dovettero più accettare certi atteggiamenti da inse­ gnante moralizzatore (era il caso della bbc). Da allora, fu la loro domanda a dominare commercial­ mente, e accadde perfino che fosse il loro gusto e il loro stile a penetrare nella cultura delle classi non operaie: in modo trionfante nei toni di una musica pop interamente nuova che si rifaceva ai quartieri proletari di Liverpool, in modo indiretto nella voga di autentici temi e sfondi prole­ tari che invasero non soltanto la televisione, ma persino quella roccaforte borghese che era il teatro, e in modo co­ mico sotto forma di quegli accenti e di quel comporta­ mento plebei che diventò de riguer in strani circoli come quelli degli attori e dei fotografi alla moda ** ! Fu, d’altro canto, il «mercato A e B» *** a dar vita ai suoi mass me­ dia, alle sue istituzioni commerciali o culturali separati­ ste; e questo più visibilmente nei giornali e nei periodici riservati alla sua classe. Cosi il campo degli affari si assunse il compito di riem­ pire il mondo proletario. Lo fece in un periodo in cui la povertà allentava la sua presa, in cui diminuiva la neces­ sità di una costante battaglia collettiva contro la disoccu­ pazione e il bisogno, e in cui la politica assorbiva l’orga­ no più forte del separatismo operaio, il movimento del * Una gran quantità di canzoni popolari di successo era stata scritta, fi­ no alla metà degli anni ’50, per le commedie musicali, un genere assolutamente non proletario. ** Questo si accompagnò per un certo tempo a una netta recessione, in quegli ambienti, del fenomeno dell’omosessualità. *** Delle cinque classificazioni generali basate sul reddito, che diventa­ rono la bibbia dei pubblicitari, le prime due corrispondevano, piu o meno, alle classi superiore e media.

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inondo del lavoro, nella sua routine. La seconda guerra mondiale e il governo laburista degli anni 1945-51 dimo­ strarono che la «manodopera» non era più un estraneo, nemmeno in teoria. Il suo partito diventò il governo alter­ nativo permanente, mentre fra le due guerre i suoi perio­ di di carica erano stati capricciosi ed episodici. Le sue tra­ ile unions erano talmente collegate con la rete della gros­ sa industria e del governo, che una attività cosi tradizio­ nale come quella dello sciopero accompagnò quasi costan­ temente l’azione condotta fuori dalle linee ufficiali, o le rivolte degli strati bassi. Gli aumenti salariali diventarono la conseguenza quasi automatica degli aumenti dei prezzi e delle regolari revisioni periodiche determinate da mecca­ nismi che operavano ben sopra il livello dei capi delle unions, di cui era diventato cosa virtualmente automatica essere membri. Di conseguenza, e in contrasto con la mi­ tologia della classe media, la Gran Bretagna non soffri troppo per gli scioperi e comunque assai meno di altre economie industriali più dinamiche *. Né si può dire che gli scioperi tendessero ad aumentare. Al contrario, dopo le punte massime del periodo immediatamente preceden­ te la prima guerra mondiale e gli anni deH’immediato do­ poguerra, tesero a diminuire in modo nettissimo. Il risultato fu un indebolimento, in tutte le istituzioni, ilei tradizionale mondo separatista della classe lavoratrice. 11 progresso secolare del partito laburista nelle elezioni nazionali si fermò nel 1951 e non ricominciò. Il numero dei membri delle trade unions rimase stagnante. I vecchi militanti lamentavano, e giustamente, che i fuochi della passione, nel movimento, languivano. Declinò anche un fenomeno non politico come l’entusiasmo per il gioco del calcio. Come la frequenza nei cinema, esso raggiunse la * Nel 1959, andò perso per scioperi circa un decimo dell’i per cento delle giornate lavorative. Negli anni 1950-54, la perdita di giornate di la­ voro ogni mille lavoratori fu inferiore di circa il 15 per cento rispetto alla Germania occidentale, fu circa quattro volte maggiore in Belgio, e circa cinque volte maggiore in Canada e in Francia, circa sei volte in Giappone, in Australia e in Italia, e quasi dieci volte negli Stati Uniti. Soltanto i paesi scandinavi e l’Olanda furono piu pacifici della Gran Bretagna nel campo dell’industria («International Labour Review», voi. 72, 1955, p. 87).

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punta massima poco dopo la seconda guerra mondiale, e da allora diminuì costantemente. Il «tradizionale» giornale domenicale delle masse urbane, «News of thè World», perse la sua preminenza; il quotidiano di mas­ sa creato e mantenuto dal movimento dei lavoratori, mo­ ri. I giovani intellettuali, scoprendo la «cultura tradizio­ nale della classe operaia» durante il suo declino, negli an­ ni ’50, la idealizzarono, e a torto. Le loro elegie non la fecero comunque resuscitare. La cosa forse piu grave fu che il cambiamento econo­ mico erose le stesse fondamenta della classe operaia qua­ le era tradizionalmente intesa, composta cioè da uomini e donne che si sporcavano le mani lavorando, soprattutto nelle miniere, nelle fabbriche, o avendo a che fare con i motori. Tre tendenze continuarono a manifestarsi ineso­ rabilmente durante il secolo xx, arrestandosi tempora­ neamente solo tra le due guerre: 1 ) il relativo declino del1’«industria» nei confronti di impieghi terziari come la distribuzione, i trasporti e servizi di vario tipo; 2) il rela­ tivo declino del lavoro manuale nei confronti di quello impiegatizio all’interno di ciascuna industria; 3) il decli­ no delle industrie caratteristiche del secolo xix con la lo­ ro domanda eccezionalmente alta della vecchia manova­ *. lanza Si ammetteva che anche i lavoratori non manuali * Percentuale dei lavoratori amministrativi, tecnici ed impiegatizi ogni cento dipendenti in alcune industrie.

Fonte: J. Bonner in Manchester School, 1961, p. 175.

Prodotti tessili Lavorazioni di prodotti minerari non metalliferi Prodotti metallici Veicoli Metalmeccanica e costruzioni navali Legno e sughero Abbigliamento Pellami Carta, stampa Cibi, bevande, tabacco Prodotti chimici e affini

1907

1935

1951

3,5 6,4 5,9 7,6 8,1 10,8 n,5 12,7 13,4 15,8 16,2

6,7 9,9 10,8 13,8 20,1 12,7 10,7 13 21,7 26,1 32,4

10,6 14,7 19 22,1 27,3 15,6 11,2 17 27,8 24,1 41

LA SOCIETÀ DOPO IL 1914

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erano lavoratori. Nel 1931, soltanto il 5 per cento della popolazione occupata era composta da datori di lavoro e personale dirigente (nel 1951 soltanto il 2 per cento era­ no datori di lavoro veri e propri), e un altro 5 per cento circa lavorava per proprio conto. Il 90 per cento era com­ posto da lavoratori classificati come «operatives». Inol­ tre, e in particolare dopo la seconda guerra mondiale, i la­ voratori non manuali accettarono sempre più la loro con­ dizione e la loro comunione di interessi con quelli manuali aderendo a trade unions che alla fine degli anni ’50 mostra­ rono una netta tendenza a far parte di quella roccaforte dei lavoratori dalle mani callose che era il Trade Union Congress, o a cooperare con esso. Nondimeno, la differen­ za tra «ufficio» e «officina» rimase sostanziale. Nelle ore di lavoro, e spesso anche fuori, rimase la distinzione più visibile tra i cittadini. La tecnologia introdusse un’altra e sempre più depre­ cabile distinzione: a differenza del modello industriale del secolo xix, che comportava una domanda quasi illimi­ tata di uomini e donne senza altri requisiti che la forza fi­ sica e la voglia di lavorare, la tecnologia della metà del secolo xx ne ha bisogno sempre di meno. Per un certo tempo le attività terziarie divennero un rifugio per la ma­ nodopera non qualificata, ma negli anni ’50 l’organizza­ zione aveva cominciato a permettere di economizzarla (come nei magazzini self-service e nei supermercati) o di sostituirla con le macchine (come nell’automazione ap­ portata al lavoro di ufficio di routine) e forse più veloce­ mente che nell’industria. La domanda di manodopera qua­ lificata aumentò nettamente; non proprio la domanda di manodopera sia impiegatizia, sia operaia, avente quella flessibile capacità generica che costituiva l’ideale del se­ colo xix, ma certamente quella di una manodopera alta­ mente specializzata, cioè addestrata, intelligente, e soprat­ tutto con regolari gradi di istruzione. La destrezza manua­ le non bastava più, questo risultava chiarissimo nel com­ plesso di quelle occupazioni che, in contrasto con la ten­ denza stagnante mostrata dalle forze di lavoro nell’indu­ stria manifatturiera in generale, si ampliarono a ritmo ver­ tiginoso durante tutto il secolo; mi riferisco ai posti di la-

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voto nell’industria meccanica, in quella della lavorazione dei metalli, e nell’industria elettrica. Nel 1911 lavorava in questi campi il 5 per cento degli uomini; nel 1950, il 18,5 per cento; nel 1964, vi era impiegato quasi un inglese su cinque che lavoravano (uomini e donne) *. Queste indu­ strie richiedevano sia operai qualificati sia impiegati in nu­ mero maggiore che la maggior parte delle altre. Sfortunatamente, la classe operaia tradizionale, e spe­ cialmente la parte qualificata e semiqualificata che nel 1964 ne componeva un terzo, si trovava notevolmente svantaggiata in queste regioni intellettuali o semiintellet­ tuali. Ciò era in parte dovuto alla netta inclinazione antiugualitaria del sistema britannico dell’istruzione, non at­ tenuata in modo apprezzabile dalla Legge per l’istruzio­ ne del 1944, e in parte al circolo vizioso che automaticamente dava minori opportunità di istruzione ai figli di chi non aveva studiato e dei poveri, progressivamente ridu­ cendone la possibilità di valersi di quel po’ d’istruzione che era disponibile. Nel 1956, circa 134 000 ragazzi delle scuole secondarie, più circa 52 000 delle «public schools» (che rappresentavano il 7,5 per cento della popolazione scolastica) sostennero gli esami per il General Certifica­ te of Education, che apriva la via all’istruzione superiore. Ma soltanto 8571 furono quelli provenienti dalle scuole «moderne», che pure erano frequentate dal 65 per cen­ to dei «teenager» più giovani. Dato che gli esami e i cer­ tificati ufficiali di istruzione determinavano in misura cre­ scente l’accesso ai posti di lavoro meglio pagati e anche al­ la maggior parte delle posizioni di prestigio e altolocate, una gran parte degli inglesi, e la maggior parte degli ap­ partenenti alle classi operaie, si trovavano sempre più im­ pediti a nutrire ambizioni, e considerevole era la mino­ ranza che non poteva sperare di meglio neanche per i fi­ gli. Questi ultimi avevano il destino segnato prima anco­ ra di raggiungere la pubertà. Potevano aspettarsi salari * Per contro, nei primi anni del secolo xx quasi un lavoratore su cin­ que era un minatore o un contadino; nel 1964, tutte le persone impiegate nelle miniere formavano meno del 3 per cento delle forze di lavoro, e quelle impiegate nell’agricoltura (compresi anche i pescatori), il 4 per cento.

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migliori di quelli dei padri, e buone paghe con un basso costo della vita quasi appena lasciata la scuola, almeno fi­ no a quando il matrimonio e i figli ne avrebbero di nuo­ vo abbassato il livello di vita. Per un breve periodo di tempo potevano magari passarsela meglio di quelli che continuavano a studiare. Ma raggiungevano ben presto il loro traguardo massimo, che non era poi gran cosa. Non c’è da meravigliarsi se i «teenager» di questo periodo di­ vennero in proporzione i piu forti acquirenti di articoli di lusso rispetto a ogni altro settore della classe operaia. Un godimento immediato era quanto di meglio la società poteva offrire loro per consolarli del marchio di una infe­ riorità permanente. Due tendenze opposte si svilupparono quindi all’inter­ no della classe operaia. Da un canto una parte di essa - specialmente il settore dei qualificati - andava avvici­ nandosi per funzioni, stile di vita e possibilità di mobili­ tà sociale (queste ultime però valevano soprattutto per i figli) alla classe impiegatizia e alle categorie tecniche e stipendiate, mentre ampi settori di questi ultimi gruppi andavano avvicinandosi alla classe operaia, come dimo­ strava la loro sempre più intensa attività sindacale. Tut­ ti gli operai, eccetto i più miseri o isolati, andavano rapi­ damente adottando uno stile di vita basato sulla produ­ zione di massa, una produzione che era indirizzata secon­ do i loro desideri, ma rifletteva soltanto certi aspetti del­ le loro aspirazioni, e si trattava di aspetti che meno era­ no propri della classe operaia in quanto tale: il desiderio di un più alto livello materiale di vita, e di maggiori dispo­ nibilità materiali per gli individui e le famiglie. Quando i sociologi degli anni ’50 parlavano di embourgeoisement, erano questi i cambiamenti che avevano in mente, anche se i giornalisti mostravano la tendenza a interpretarne male il significato politico. Infatti, come nell’epoca «prospera» che segui al cartismo, il miglioramento dei livelli di vita e l’adozione di abitudini prima riservate alla classe media possono aver reso il movimento dei lavoratori meno ra­ dicale, ma non fecero degli operai dei modelli su scala ri­ dotta di membri della classe media. Al contrario, mentre nella Gran Bretagna vittoriana l’assimilazione culturale

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

aveva costituito una sola corrente socialmente indirizza­ ta verso il basso, nella Gran Bretagna di Elisabetta II le correnti furono due, una ascendente e una discendente. Ma nel contempo il divario esistente fra gli operai - specie quelli non qualificati - e il resto della società, tese ad aumentare. La differenza tra il lavoro manuale e quello non manuale in complesso non diminuì. Era anzi più rilevante perché gli impiegati non costituivano più una rarità, e nemmeno una semplice estensione della «dire­ zione», ma una larga parte delle forze di lavoro. Più gros­ so era 1’«ufficio», meno era facile trascurarne le sostan­ ziali differenze dall’«officina». La vecchia aristocrazia del lavoro trovava la nuova si­ tuazione particolarmente irritante, anche se resa più tol­ lerabile dai miglioramenti che aveva avuto la propria, e specialmente dalle prospettive che si aprivano ai figli. Aveva probabilmente raggiunto l’apice del prestigio e la sua condizione migliore alla fine del secolo xix, quando si trovava indiscutibilmente sul gradino più alto di tutto il «mondo operaio», con salari molto maggiori di quelli dei braccianti, e una posizione non ancora seriamente minac­ ciata dall’alta aristocrazia del lavoro composta dagli im­ piegati, né dalla degradazione comportata dalla condu­ zione semiqualificata di macchine specializzate, tanto più che molti erano i lavoratori reclutati fra i ranghi inferio­ ri non addestrati, e molte erano anche le donne. Queste posizioni di privilegio dovette ora rassegnarsi a perder­ le. Il dinamico e fiorente complesso delle industrie mecca­ nica ed elettrica rifletteva le difficoltà della vecchia aristo­ crazia del lavoro con una chiarezza particolare, perché in quei campi la domanda di manodopera e le strutture del secolo xx facevano a pugni con l’orgoglio e i privilegi pro­ fessionali cosi ben radicati nel secolo xix: la capacità ma­ nuale generale non si accordava con la semiqualificata con­ duzione delle macchine specializzate, né i tradizionali sa­ lari commisurati a orario si accordavano col lavoro a cot­ timo, l’indipendenza artigiana con la disciplina compor­ tata dalla produzione di massa o con la « direzione scien­ tifica», e la supremazia del «meccanico» con la marea cre­ scente degli impiegati e dei tecnici. Dall’inizio della nuo­

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va era tecnologica negli anni ’90 del secolo scorso, la ma­ nifattura dei metalli costituì una linea avanzata della lot­ ta di classe (come nella grande serrata nazionale dei me­ talmeccanici degli anni 1897-98), e in periodi di progres­ si tecnologici particolarmente rilevanti, come durante le due guerre mondiali con la loro grande evoluzione nel­ la produzione di massa degli armamenti, fu anzi la pun­ ta di diamante della lotta operaia *. La differenza salaria­ le fra gli operai qualificati e i non qualificati si restrinse ineluttabilmente dopo il 1914. L’operaio qualificato inca­ pace di adattarsi alla nuova struttura del lavoro e dei sa­ lari o riluttante a farlo, poteva trovarsi a guadagnare me­ no dell’operaio addetto a lavorazioni di serie, anche se quest’ultimo era meno esperto. Era logico quindi che an­ che gli organizzati aristocratici del lavoro si volgessero a sinistra. Ancora negli anni ’50, il caratteristico operaio comunista attivista era un metallurgico — almeno un quar­ to di tutti i delegati ai congressi del partito erano di soli­ to metalmeccanici - e il principale portavoce della sinistra al congresso delle trade unions rappresentava gruppi un tempo conservatori, come i calderai, gli elettrici, i fondi­ tori, quello dei metalmeccanici uniti ** . È possibile che al­ la fine del periodo di cui ci occupiamo la nuova struttura industriale sia stata accettata, ma durante la maggior par­ te del secolo xx questo radicalismo della minacciata ari­ stocrazia del lavoro fu un fattore di grande importanza nelle relazioni industriali. Gli operai non qualificati, invece, si avvantaggiarono di questi cambiamenti e le loro unions, costituite per la maggior parte verso la fine del secolo xix dai nuovi sociali­ sti e con un indirizzo estremamente radicale, si spostaro­ no rapidamente a destra man mano che venivano ricono­ sciute ufficialmente e si accorgevano che questo riconosci­ mento dava loro vantaggi maggiori di quelli che potevano * I movimenti antibellistici in tutti i paesi in guerra negli anni 19141918 ebbero la base sindacale nello scontento degli operai metallurgici qua­ lificati delle industrie degli armamenti, e i loro quadri industriali nei capi­ reparto delle officine meccaniche. ** Ma rappresentava anche gruppi tradizionalmente radicali appartenen­ ti alle industrie in declino. Una « nuova sinistra » interessante cominciò co­ munque a emergere fra le nuove unions di tecnici.

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

aspettarsi dalla loro debole forza contrattuale se fossero rimasti senza alleati *. Nelle industrie prospere potevano magari guadagnare bene, ma in quelle in declino o male organizzate le loro condizioni erano spesso molto misere. Erano in ogni caso più danneggiati degli altri dal circolo vizioso della moderna società industriale, in cui i meno favoriti vedevano peggiorare ancora le loro condizioni, e i non istruiti trovavano che la loro mancanza di istruzio­ ne costituiva una barriera insormontabile, gli stupidi tro­ vavano che la stupidità riusciva loro fatale, e i deboli ve­ devano raddoppiata la propria debolezza. Proprio perché la mobilità sociale era diventata più agevole, almeno per i giovani capaci di superare gli esami, quanti non erano in grado di ascendere la scala della «meritocrazia» si trovavano condannati in perpetuo a rimanere al fondo, a meno che non vincessero alle scommesse sulle partite di calcio, non si dessero al delitto o, secondo una prospetti­ va che si apriva soprattutto ai giovani, non guadagnassero l’equivalente delle scommesse nel campo dello spettacolo o della musica pop, attività che avevano cessato di esige­ re una qualsiasi qualificazione preliminare. Accadde tal­ volta, nei prosperi anni ’50, che si diffondesse fra una massa di operai il convincimento che la loro inferiorità venisse ufficialmente stabilita all’età di undici anni, con l’esclusione da un’ulteriore frequenza delle scuole; e for­ se anche il convincimento che questo fatto riflettesse una loro inferiorità ** . Questo sentimento di sentirsi esclusi pesava in certo modo sulla maggior parte dei lavoratori manuali, con l’eccezione dei superqualificati e dell’élite tecnica. In modo più drammatico si faceva sentire su una minoranza di persone che rimaneva al fondo della scala sociale. Il fatto poi di essere e apparire una minoranza le frustrava ancora di più. Il loro risentimento non trovò un’efficace espressione politica ed ebbe spesso un carat* Il ritorno verso un orientamento a sinistra del sindacato piu grosso, quello dei trasporti e degli operai non specializzati alla fine degli anni ’50, fu dovuto assai più agli addetti ai trasporti che agli altri iscritti. ** Il ruolo cruciale che la richiesta di scuole secondarie ugualitarie svol­ se nel movimento dei lavoratori, peraltro non molto attivo sotto altri aspet­ ti, riflette questa preoccupazione.

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tere subpolitico, sebbene si manifestasse talvolta tra i gio­ vani in vaghi e temporanei movimenti di protesta di mas­ sa contro lo status quo, come la campagna per il disarmo nucleare. Si ebbe, comunque, da parte di quella gente, un aumento della consapevolezza di stare al fondo della sca­ la sociale, che forse trovò la sua migliore espressione nel­ la musica pop, in cui i giovani proletari scoprirono se stes­ si durante quel decennio, e che divenne ben presto l’idio­ ma generale dei giovani. Le sue due fonti, i blues dei ne­ gri e la tradizione di protesta delle canzoni popolari, par­ lavano per gli esclusi e i ribelli. I suoi divi, ragazzi e, in seguito, ragazze della classe operaia, per lo piu provenien­ ti dagli ambienti meno assimilati entro la classe media (come le zone portuali di Bermondsey o di Liverpool), permisero al pubblico di identificarsi con quei non istrui­ ti, con quei ribelli, con quei non rispettabili, che tuttavia avevano conquistato la ricchezza e una fama evanescente.

Ampiamente accettato era il semplice modello della Gran Bretagna come divisa in due classi. Tuttavia, in ef­ fetti, l’agiatezza e l’evoluzione tecnologica diedero vita a nuovi gruppi e strati sociali il cui comportamento dimo­ strava che non potevano identificarsi né con l’una né con l’altra delle due classi tradizionali. Questi nuovi gruppi erano dati dagli «intellettuali» e dai giovani. Entrambi costituivano in questo senso dei fenomeni nuovi, sebbene gli intellettuali come gruppo sociale a se stante risalissero al periodo anteriore al 1914. Il netto aumento numerico dei lavoratori del cervello - in grandissima parte persone stipendiate o che erano l’equivalente non manuale degli operai avventizi - ne mise in luce i problemi collettivi. La loro relativamente scarsa partecipazione all’attività di­ rettiva e a quella di governo, la loro mancanza di una con­ dizione tradizionale, li rendeva meno conservatori di al­ tri entro i limiti dei loro redditi *. * È questo senza dubbio il motivo per cui facoltà come ingegneria, me­ dicina e giurisprudenza, contarono studenti politicamente dissidenti assai meno che le scienze naturali, e queste a loro volta in numero minore che le discipline umanistiche e le scienze sociali.

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Essi non potevano piu essere reclutati soltanto fra la classe superiore e quella media, e la massiccia presenza di intellettuali provenienti dalla classe media inferiore e ope­ raia causò negli anni ’50 delle tensioni che si rifletterono nel «sinistrismo» culturale talvolta piuttosto superficia­ le di quel decennio. Fu sulle università, in rapido svilup­ po, che si accentrò la loro dissidenza politica. Per la pri­ ma volta nella storia britannica, gli «studenti» divennero nello stesso tempo una forza politica e un gruppo con pro­ spettive facilmente prevedibili come di sinistra, anche se questo era stato anticipato su una scala piccola e localiz­ zata - piu piccola e localizzata di quanto vorrebbe la mi­ tologia storica - fin dagli anni ’30. La «gioventù» intesa come gruppo individuabile e non semplicemente come un periodo fra la fanciullezza e la maturità da attraversare nel piu breve tempo possibi­ le, emerse anch’essa negli anni ’50, sia commercialmente come «mercato dei teenagers» con le sue abitudini e il suo comportamento, sia politicamente sotto la forma del­ la campagna contro le armi nucleari. Comunque, le sue attività politiche piu evidenti rimasero confinate per lo piu ai giovani della classe media e a quelli intellettuali. Furono sia 1’«agiatezza» del lavoratore celibe sia l’espan­ sione del sistema di istruzione a fornire la base materia­ le di questo fenomeno, ma fu probabilmente il rapidissi­ mo e non previsto cambiamento nel modello sociale gene­ rale ad ampliare in modo cosi straordinario la spaccatura fra le generazioni in questo periodo. Alcuni scrittori, alcu­ ne organizzazioni ad hoc e spesso impegnate in campagne temporanee, e naturalmente alcuni uomini d’affari che s’arricchivano col mercato che avevano scoperto, si accor­ sero di questi cambiamenti e vi si adeguarono. La società e la politica ufficiale britanniche furono prese alla sprovvista dal sorgere degli intellettuali e dei giovani. La maggior parte delle attività di questi gruppi si svolsero quindi, al­ meno inizialmente, fuori dalle istituzioni sociali e politi­ che esistenti, specialmente di quelle politiche, a meno che l’avversione contro i partiti, i movimenti e gli uomini po­ litici tradizionali non possa essere considerata come un ti­ po di impegno politico. Quanto è emerso nella gioventù

LA SOCIETÀ DOPO IL1914

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come gruppo sociale cosciente ha portato nella vita della Gran Bretagna dei primi anni ’60 un fuoco e una gaiezza inaspettati, parecchia scipitaggine, e un’atmosfera di en­ tusiasmo intellettuale e culturale non sempre seguita da risultati.

' Cfr. Letture ulteriori, specialmente Mowat, Pollard, Taylor, Carr-Saunders, ecc., Abrams, G. D. H. Cole, Studies. Per l’inte­ ro periodo, cfr. a. marwick, The Explosion of British Society 1914-1962, 1963; per gli anni del periodo fra le due guerre, cfr. pilgrim trust, Men Without Work, 1939; G. ORWELL, The Road to Wigan Pier (influenza della depressione), e R. graves e a. hodge, The Long Weekend, 1940, per notizie miscellanee, ma non insignificanti; cfr. anche allen hutt, The Postwar History of the British Working Class, 1937. Sull’Iwpact of the War on Civilian Consuption, cfr. la pubblicazione del His Majesty’s Sta­ tionary Office recante questo titolo (1945). Su alcuni aspetti piu recenti della società britannica, cfr. n. wedderburn, Facts and Theories of the Welfare State, in The Socialist Register 1965, a cura di R. Miliband e J. Saville; j. westergard, The Withering Away of Class: a Contemporary Myth, in Towards Socialism, a cura di P. Anderson e R. Blackburn, e in generale il settimanale « New Society », che è una adeguata introduzione a parecchie ri­ cerche descrittive sulla Gran Bretagna moderna. Cfr. anche i dia­ grammi 2-3, 8-15,40,44,47-55. 1 Da un saggio non pubblicato di j. s. revell, Changes in the So­ cial Distribution of Property in Britain in 20th Century (Cam­ bridge, Department of Applied-Economics, 1965). 1 «Economist», 23 maggio 1965. 1 II numero delle domestiche per mille famiglie era stato di 218 nel 1881 e di 170 nel 1911. Comunque andrebbe notato che la di­ soccupazione nel periodo fra le due guerre ebbe l’effetto di ral­ lentare parecchio la diminuzione del personale domestico. Esso aumentò anzi, in cifre assolute, nei quindici anni dopo il 1921.

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L’altra Gran Bretagna1

Abbiamo finora trattato la storia della Gran Bretagna come un tutto unico, senza dedicare un’attenzione parti­ colare alla Scozia e al Galles, e non occupandoci affatto dell’Irlanda, che, naturalmente, non fa parte della Gran *. Bretagna Con l’eccezione di zone marginali e scarsa­ mente popolate come le montagne scozzesi, c’è stata una sola storia economica della Gran Bretagna a partire dalla rivoluzione industriale, pur con variazioni e particolarità regionali. D’altra parte, Scozia e Galles sono socialmen­ te, e per la loro storia, le loro tradizioni e istituzioni, completamente distinti dall’Inghilterra, e non possono quindi essere compresi nella storia inglese (e tanto meno, come accade spesso, essere dimenticati). Nel presente ca­ pitolo non si discuterà di queste regioni quanto basterà a soddisfare i lettori gallesi o scozzesi, ma quanto diremo potrà servire almeno a ricordare ai lettori inglesi che la Gran Bretagna è una società multinazionale, o una combi­ nazione di diverse società nazionali. Ci occuperemo anche delle migrazioni di massa verso e entro la Gran Bretagna, ma non dell’Irlanda, da dove provennero i piu intensi flussi migratori. Infatti, mentre dal punto di vista econo* La sua unione politica con la Gran Bretagna dal 1801 al 1922 non ne fa una parte dell’economia britannica piu di quanto l’unione dell’Algeria con la Francia abbia fatto di quel paese una parte della Francia. Comun­ que, l’omissione dell’Irlanda implica quella delle sei contee che dal 1922 hanno preferito conservare i legami con la Gran Bretagna. Questo è inevi­ tabile, ma c’è da rammaricarsene. La storia economica dell’Irlanda non può essere inclusa in questo libro, la storia economica dell’Irlanda del Nord non può trovarvi un’estesa trattazione. Diremo però qualcosa a proposito degli irlandesi in Gran Bretagna.

I. ALTRA GRAN BRETAGNA

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inico la Scozia e il Galles fanno da lungo tempo parte del­ la Gran Bretagna, lo stesso non può dirsi dell’Irlanda. I.'Irlanda era un’economia coloniale, e tale è rimasta. Il Galles era stato assimilato ufficialmente alla Gran Bretagna nel 1534, ma questo fatto ebbe scarsi effetti sul­ le relazioni fra i due paesi, che furono tenui, e sull’econoinia inglese, perché le conseguenze furono trascurabili. Sotto la crosta delle istituzioni inglesi e di una classe di proprietari terrieri inglesi (o anglicizzati), i gallesi con­ dussero una vita basata su un’agricoltura di sussistenza in un paese povero e in gran parte inaccessibile, confor­ mandosi ufficialmente a ogni religione o governo in cari­ ca, essendo queste cose ugualmente remote dalla loro lin­ gua e dal loro modo di vita. L’unione con la Gran Breta­ gna privò i gallesi di quel po’ di classe superiore che ave­ vano, e diede vita al caratteristico populismo della socie­ tà gallese, in cui i redditi andavano dai livelli bassi a quel­ li bassissimi, e le classi da quelle degli agricoltori e dei piccoli bottegai a quella dei braccianti. In un certo sen­ so questo rimase il modello dello sviluppo economico del Galles, e spiega l’insaziabile radicalismo della sua politi­ ca. L’industrializzazione, come ogni altro cambiamento economico, fu qualcosa fatto ai gallesi piuttosto che dai gallesi; e per quel poco che fu dovuta all’iniziativa galle­ se, il primo passo dell’uomo d’affari di quella regione ten­ deva a cercare l’assimilazione entro l’unico tipo di classe superiore esistente, quella inglese. I Powell, baroni del lerro e dell’acciaio, si anglicizzarono, come avevano fatto i Williams-Wynn nelle loro tenute. L’industrialismo significò semplicemente che i gallesi aggiunsero alcune città a quella che era stata interamente una società non urbana *, e un’ampia classe di proletari a una classe declinante di contadini e piccoli borghesi. Nel 1750, i legami che collegavano le colline gallesi col testo della Gran Bretagna si erano fatti più stretti e piu forti. Questo soprattutto per effetto dell’esportazione del bestiame destinato al commercio estero (i contadini ten­ * Prima della rivoluzione industriale, Swansea, la città piu grossa, con­ iava diecimila abitanti; Carditi, duemila.

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

devano a pagare gli affitti con quanto rendeva l’allevamen- 1 to del bestiame), ma anche a seguito del modesto sfrutta­ mento dei depositi di minerali che sono la maggior fonte di ricchezza della regione. Dal punto di vista britannico, queste nuove attività non erano ancora di grande impor­ tanza, eccettuata forse la produzione del rame e del piom­ bo, ma per il Galles il cambiamento fu rilevante. Ad esso fu dovuta la nascita di una nazione gallese cosciente di sé, che aveva superato l’ambito della tradizionale classe con­ tadina di lingua gallese. Il sintomo più evidente del nuovo stato di cose fu la conversione in massa dei gallesi a reli­ gioni non ufficiali (cioè a varie confessioni protestanti, non conformiste, alcune delle quali, come il metodismo calvinista del Galles del Nord, avevano un carattere essen­ zialmente nazionale), accompagnata da un consapevole in­ teresse per la cultura e le antichità gallesi. Quella religio­ ne non conformista, decentrata e democratica che divenne la religione della maggioranza dei gallesi dopo il 1800, portò a tre conseguenze di enorme importanza: un netto sviluppo dell’istruzione, della letteratura gallese, e la crea­ zione di un gruppo di capi politici e sociali originari del luogo, i predicatori e i ministri religiosi, che potè assor­ bire gli sparsi elementi della piccola borghesia gallese. La religione nazionale offri anche un’alternativa di ambi­ zioni sociali accanto a quelle economiche. Da allora, la spe­ ranza caratteristica del giovane gallese non sarebbe stata più quella di diventare ricco, ma di diventare istruito e eloquente. A differenza degli scozzesi, i gallesi diedero al­ l’economia industriale inglese solo pochi capitani dell’in­ dustria e della finanza - e il più eminente di loro, Robert Owen, di Newton (1771-1858) non assomigliò affatto al capitalista tipico - ma un gran numero di predicatori, giornalisti, e infine insegnanti e funzionari. Il movimento gallese delle classi lavoratrici diede un adeguato contri­ buto di dirigenti provenienti dalle classi operaie, e un al­ tro importante contributo umano alla società inglese, ma non fece sentire appieno il suo influsso fuori della regione prima del secolo xx. Nelle regioni povere, remote e arretrate, la rivoluzio­ ne industriale irruppe nella forma generale di una maggio­

I.'ALTRA GRAN BRETAGNA

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re partecipazione all’economia nazionale e a quella interna­ zionale, e nella forma specifica dell’industria pesante: fer­ ro, rame, e infine e soprattutto, carbone. Stranamente, la rivoluzione industriale impoverì ma non distrusse la so­ cietà agraria. Il Galles rimase in grandissima parte un paese di piccole fattorie familiari, anche se condotte da affittuari piu che da coltivatori diretti. Non emerse una vasta classe di braccianti agricoli: quelli esistenti non era­ no molto piu poveri degli agricoltori, e del resto gli agri­ coltori stessi abbastanza spesso si recavano a lavorare nelle nuove industrie come manodopera stagionale, o cer­ cavano qualche altro reddito supplementare. I movimen1 i agrari che si manifestarono, e soprattutto quelli che portarono ai grandi «tumulti di Rebecca» nel 1843, furono movimenti generali di tutti i gruppi rurali (sotto la gui­ da di piccoli coltivatori) contro una classe di proprietari terrieri straniera o estraniata e spesso residente altrove, che poco si ispirava all’economia capitalistica eccetto per la scoperta che gli affitti andavano riscossi periodica­ mente. D’altro canto, le sue sterili montagne risparmiaro­ no al Galles quelle gravi fluttuazioni cui era invece sotto­ posta l’agricoltura inglese. Il Galles non poteva aumenta­ re di parecchio la produzione di cereali in periodi di alti prezzi, né poteva diminuirla in tempi di recessione. La sua caratteristica agricoltura mista, con la preminenza che vi avevano il bestiame e i prodotti del latte, si dimostrò una base abbastanza stabile per l’economia rurale, e le «gran­ di depressioni» del secolo xix si fecero quindi sentire molto meno, e soprattutto sotto la forma di una pressione sui canoni d’affitto. I gallesi soffrirono comunque dell’e­ quivalente e piu costante pressione che s’accompagna a un’economia di piccoli agricoltori: povertà, eccesso di po­ polazione e fame di terre, che fu lenita ma non eliminata dall’emigrazione. La popolazione del Galles centrale co­ minciò a diminuire negli anni ’40 del secolo scorso, e quel­ la di tutto il Galles rurale negli anni ’80. L’agricoltura, comunque, stava cessando di essere l’oc­ cupazione caratteristica dei gallesi. Lo sviluppo della re­ gione fu dovuto soprattutto aH’emergere dell’industria nelle tre contee di Carmarthen, Glamorgan e Monmouth,

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

specialmente nelle ultime due. Dal 1801 al 1911 la po­ polazione del Galles aumentò da tre a quattro volte (da assai meno di seicentomila anime a piu di due milioni), ma quasi tutto questo aumento andò a beneficio delle contee industriali dove, all’epoca della prima guerra mondiale, abitavano assai piti di tre quarti della popolazione loca­ *. le Questo forte aumento della popolazione fu dovuto non soltanto alle migrazioni all’interno del Galles e al­ l’incremento demografico locale, ma anche e in buona par­ te all’immigrazione di operai inglesi e, in misura minore, irlandesi. Una delle conseguenze dell’industrializzazione fu il declino della lingua gallese. Il Galles di lingua galle­ se divenne poco più che una zona agricola montagnosa annessa al Sud industriale; un’area rurale e piccolo-bor­ ghese si trovò contrapposta a un gigantesco blocco prole­ tario (miniere di carbone). Neanche il sistematico appog­ gio dato dallo stato alla lingua gallese per mezzo dell’istru­ zione ne arrestò il declino. Fu un processo che poco si notò fino alla metà del secolo xix, e del resto nella contea di Carmarthen, in cui lo sviluppo industriale era lento, la lingua gallese conservò forti posizioni. Ma nella seconda metà del secolo xix, quando le miniere di carbone ebbero uno sviluppo impressionante, il Galles fu completamente trasformato; più precisamente, fu diviso in due settori ugualmente (non però linguisticamente) gallesi, che an­ darono sempre più differenziandosi fra loro, conservan­ do solo la caratteristica comune di non essere inglesi. Le difficoltà di comunicazione tra i due settori (il punto più facile da raggiungere da tutte le parti del Galles è la cit­ tà inglese di Shrewsbury), rese questa divisione ancor più evidente. Il Galles non ebbe parte nelle industrie caratteristiche della prima fase dell’industrializzazione, e specialmente in quella tessile. La sua importanza fu data interamente dall’industria pesante, che non si sviluppò pienamente fi* Incremento demografico nel Galles (in migliaia).

Galles e Monmouth Glamorgan e Monmouthshire

1801

1851

I9II

577 in

1163 389

2027 1517

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no alla seconda metà del secolo xix: prima fu la volta del ferro (e dei meno importanti piombo e rame) e infine e soprattutto, vi fu il carbone. Il ferro dominò la prima par­ te del secolo, e per la Gran Bretagna industriale e tutto il mondo industriale, il Galles significò soprattutto le fu­ cine e le fonderie di Dowlais e Cyfartha, e i loro proprie­ tari, i Crawshay e Guest (di origine inglese). Il carbone, e con l’ascesa della nave a vapore e l’affermarsi della supre­ mazia marittima britannica soprattutto l’esportabile «car­ bone da vapore», dominò completamente il grande boom gallese degli anni 1860-1914. Le industrie pesanti con le loro incandescenze, i loro mucchi di scorie, le torri col meccanismo per gli ascensori, le interminabili file di ca­ sette coi tetti d’ardesia ammucchiate in linee parallele lungo le valli denudate, crearono quel tipico paesaggio da incubo in cui la maggior parte dei gallesi vivevano, fra la miniera e la chiesa. Il ferro si affermò, cominciò a fluttua­ re, e poi divenne stazionario dopo la metà del secolo. An­ che il carbone ebbe le sue fluttuazioni, ma la sua ascesa fu cosi straordinaria da nascondere la fragilità di una regione che si basava su un singolo prodotto e una singola occu­ pazione. Fu soltanto dopo la prima guerra mondiale che questa fragilità si rivelò, e da allora il Galles rimase de­ relitto per la durata di una generazione, mentre quelli fra i suoi abitanti che non emigrarono - e la popolazione delle tre contee diminuì dopo il 1921 - rimanevano a ma­ cerarsi tra i mucchi di detriti. Gli anni successivi alla se­ conda guerra mondiale portarono a una diversificazione dell’economia locale e insieme la prosperità, ma certo nessun gallese dimenticherà mai gli anni tra le due guerre. Isolata dalla geografia, dalla sua cultura, e ristretta al­ le località valligiane che rimasero la dislocazione caratteri­ stica dell’industria nella regione, la vita gallese rimase poco influenzata dalle principali correnti che percorreva­ no la Gran Bretagna, fino al termine del secolo xix, anche se a queste correnti si trovava collegata tramite il libera­ lismo e il nonconformismo. Persino quell’aspetto nazio­ nale della vita della classe operaia che era il gioco del cal­ cio, si arrestava in prossimità delle valli, dove si preferi­ va l’altra forma, piu dura, del football, il rugby. La cui-

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tura gallese continuò per una propria strada, formalizzan­ dosi sempre più negli eisteddfodau locali e nazionali (fe­ stival di gare di canzoni, poesia e via dicendo) con i loro riti nazionali di pseudodruidismo, in gran parte inventati. Anche il movimento dei lavoratori gallesi, che era essen­ zialmente il movimento dei minatori, ebbe scarsi contatti col resto della nazione fino allo sciopero dei minatori del 1898. Il risveglio nazionale del movimento nel 1889 fe­ ce accostare il Galles all’Inghilterra, in parte grazie all’in­ fluenza dei socialisti che si faceva sentire in tutta la nazio­ ne, tanto più che furono i socialisti a dare al movimento i suoi capi. Da quel momento fino al 1914 i due paesi si fecero sempre più vicini sulla base degli obiettivi comuni dei loro schieramenti di sinistra e della crescente impor­ tanza delle anticonformistiche nazionalità di minoranza nel partito liberale britannico dopo la sua scissione nel 1886. L’ascesa politica e il trionfo dell’avvocato gallese Lloyd George simbolizzarono il primo aspetto di questa convergenza; l’elezione del capo socialista Keir Hardie in un collegio gallese simbolizzò il secondo. La catastrofe del periodo fra le due guerre fece conti­ nuare questo processo, poi accelerato dall’avvento di mez­ zi di comunicazione di massa come la stampa, la radio e il cinema, e, ancor più, dopo la seconda guerra mondiale, dalla prosperità, da beni di consumo standardizzati, e dalla televisione. Il collasso del liberalismo trasferì le sim­ patie della gran massa dei gallesi al laburismo, con un net­ to progresso dell’estrema sinistra, cioè dei sindacalisti ri­ voluzionari e dei comunisti, che erano i capi militanti dei minatori. La depressione e l’istruzione fecero trasferire gallesi in tutto il paese come mai era successo prima: l’in­ segnante, il dipendente statale, l’uomo politico e il sinda­ calista gallese sostituirono il formaggiaio o l’ecclesiastico gallese come rappresentanti caratteristici della loro nazio­ ne in Inghilterra. Per contro, il turismo e le vacanze por­ tarono un numero mai visto di inglesi nel cuore del Gal­ les gallese. Quel ch’è più, dopo la seconda guerra mon­ diale la differenza fra l’Inghilterra, che era un’economia variata, e il Galles, un annesso minerario di quell’econo­ mia, diminuirono. Questo processo di convergenza non fu

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annullato dalla sempre maggiore autonomia culturale e amministrativa del Galles, dovuta alla pressione politica gallese nel secolo xx.

Il caso della Scozia, anche se paragonabile sotto cer­ ti aspetti a quello del Galles, è molto più complesso. La Scozia fu unita all’Inghilterra nel 1707, avendo una socie­ tà organizzata con una struttura e un sistema di classe suoi propri; e come uno stato funzionante, con un’antica storia e con una struttura istituzionale interamente indi­ pendente (specie nei campi del diritto, defl’amministrazione locale, dell’istruzione e della religione) che conser­ vò anche dopo l’unione. A differenza del Galles, in cui fu l’industrializzazione a portare al dualismo di cui abbiamo parlato, la Scozia era sempre stata un paese dualistico, composto, in termini generali, da una parte dalle pianure feudali e dall’altra dalle montagne tribali, che occupava­ no la maggior parte della popolazione, pur con una pic­ cola parte (circa un settimo nel 1801) della popolazione. Inoltre, a differenza del Galles, le pianure scozzesi costi­ tuivano un’economia separata e dinamica, anche se cer­ cavano deliberatamente — e trovavano - il loro interesse in una stretta associazione coi vasti mercati inglesi e con­ vergevano rapidamente verso l’economia britannica, di cui dovevano diventare un settore particolarmente dina­ mico. Paragonata all’Inghilterra, la Scozia nel suo insieme era arretrata e, soprattutto, povera. Nel 1750, gli scoz­ zesi agiati mangiavano in modo più semplice, erano peg­ gio alloggiati, e possedevano meno articoli domestici (con l’eccezione forse dell’abbondante biancheria fatta in casa) degli inglesi di più modesta condizione sociale e, almeno in base ai livelli meridionali, non esistevano scozzesi ric­ chi fuori dello sparuto gruppo dell’aristocrazia terriera, anche se il commercio e l’industria dovevano presto crear­ ne. La «scarsità», quella periodica mancanza di cibo e quasi carestia che affliggeva i paesi sottosviluppati prima dell’era dell’industrializzazione, già da parecchio tempo era sconosciuta in Inghilterra. Nella metà del secolo xvm

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essa rimaneva una realtà, o un ricordo recente, anche nel­ le pianure della Scozia. In termini economici, la Scozia mancava di capitali, il che significò che dovette escogitare un sistema di raccolta e distribuzione di capitali molto più efficiente di quello inglese, per non parlare di quel fortissimo senso del risparmio che si riflette ancora nelle familiari e ingiuste barzellette sull’avarizia degli scozzesi. In effetti, il sistema bancario scozzese fu migliore di quel­ lo inglese, e fu in Scozia che nacquero le banche con capi­ tale azionario e gli investimenti popolari. Inoltre, questo paese scarsamente popolato mancava di manodopera e tendeva costantemente a perderne una parte che si trasfe­ riva fuori dalla regione, dove le paghe erano migliori. Pro­ prio la sua povertà e arretratezza facevano si che tale man­ canza di manodopera (a cui fu infine posto rimedio con una immigrazione, soprattutto dall’Irlanda, relativamen­ te molto maggiore di quella che si dirigeva verso l’Inghil­ terra), evitò che i salari diventassero troppo alti. La Sco­ zia conservò dunque i vantaggi di un paese che produce a bassi costi. In terzo luogo, la Scozia era troppo piccola e troppo povera per avere un mercato interno importan­ te. Il suo sviluppo economico dovette dipendere per for­ za di cose dallo sfruttamento del mercato inglese, molto più grande, e ancor di più dal mercato mondiale, a cui la Scozia aveva accesso grazie alla sua unione con l’Inghil­ terra. L’industria scozzese si sviluppò quindi essenzial­ mente come produttrice di merci d’esportazione a basso costo, e questo le diede una vitalità eccezionale nel seco­ lo xix e nei primi anni del xx. Per contro, lo stesso fatto­ re portò al suo collasso fra le due guerre. Ogni zona della Scozia del secolo xvm era dunque po­ vera, e nemmeno tutte progredivano economicamente. La zona montagnosa, e in grado minore la penisola agricola di Galloway, nell’estremo Sud-Ovest, tendevano a uno stato di crisi sociale e economica permanente, simile a quello dell’Irlanda, e con entrambe le parallele catastrofi della carestia e dell’emigrazione di massa. In effetti in Sco­ zia coesistevano nella vita sociale ed economica due ele­ menti opposti: una società che andava adottando e utiliz­ zando il capitalismo industriale con una celerità e un sue-

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i esso straordinari, e una a cui il capitalismo industriale nusciva non soltanto sgradevole, ma incomprensibile. La buse della società montanara scozzese era la tribù (clan) < omposta da contadini o pastori che vivevano a livello di sussistenza in una zona ancestrale sotto un capo del loro ■ angue, di cui il vecchio regno scozzese aveva cercato, sba­ gliando, di fare un nobile feudale, e la società inglese del secolo xvm, sbagliando ancor di più, un proprietario terlicro aristocratico. Questa assimilazione attribuì ai capi dei clan il diritto legale, immorale però secondo la tradi­ zione del clan, di fare quel che volevano con le loro «pro­ prietà», e li invischiò in quella costosa competizione di prestigio propria della vita aristocratica britannica, per cui non avevano le risorse e l’abilità finanziaria. Essi potero­ no aumentare i loro redditi soltanto distruggendo la loro società. Dal punto di vista degli appartenenti al clan, il loro capo non era un proprietario terriero, ma il capo del loro gruppo, cui dovevano fedeltà in pace e in guerra, e che a sua volta doveva loro liberalità e appoggio. La po­ sizione sociale del capo del clan era determinata non dal numero dei suoi acri di brughiera e bosco, ma da quello degli uomini armati che poteva raccogliere. I capi si tro­ varono quindi di fronte a un doppio dilemma. Come « vec .isserò su un territorio già congestionato; come «nuovi» nobili proprietari terrieri, avevano interesse a sfruttare le loro tenute con metodi moderni, il che inevitabilmente li portava a preferire la sostituzione degli affittuari col besi iame (che richiede poca manodopera) o a vendere le terre, o a entrambe le cose. In effetti essi adottarono tutti questi comportamenti in epoche successive, prima lascian­ do che si moltiplicasse una classe d’affittuari sempre più povera, e poi obbligandola all’emigrazione di massa. La lontananza, l’isolamento e, fino a dopo la ribellione del 1745, la virtuale autonomia della Scozia montagnosa e insulare, mantennero sotto un certo controllo questo processo. La rapida industrializzazione sia dell’Inghilterr.i sia delle pianure scozzesi obbligò quell’arcaica econo­ mia a scegliere fra la modernizzazione e la rovina. Essa

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scelse la rovina. Pochissimi dei suoi capi, come i Camp­ bell, i duchi di Argyll, che avevano sempre seguito una po­ litica di sistematica alleanza con le pianure progressiste, favorirono la modernizzazione preoccupandosi nel con­ tempo di conservare la società del clan. La maggior parte dei capi si limitarono ad aumentare i loro redditi più che poterono, preferendo alla barbara semplicità delle loro colline i sofisticati e costosi piaceri della vita aristocrati­ ca urbana. Nel 1774, Breadlbane riscuoteva canoni di af­ fitto per 4900 sterline, nel 1815 per 23 000. Come al so­ lito, gli anni di fioritura economica del tardo secolo xvm e le guerre napoleoniche rimandarono la catastrofe. Du­ rante questo periodo, le coste e le isole più remote trova­ rono anch’esse una risorsa economica di breve durata nel­ la produzione di ceneri d’alghe marine, richieste dall’in­ dustria. Dopo le guerre cominciarono i tempi dell’orrore. Proprietari terrieri avidi o andati in fallimento comincia­ rono a far sgomberare dalle terre i loro uomini incompren­ sibilmente fedeli, lasciandoli emigrare in tutto il mondo, dalle abitazioni popolari di Glasgow alle foreste del Ca­ nada. Le pecore spinsero gli uomini via dalle colline, co­ sicché una popolazione in aumento e in misura crescente costretta a vivere di patate, si trovò a vivere in condizio­ ni di sempre maggiore indigenza e affollamento. Il catti­ vo raccolto di patate verso la metà degli anni ’40 del se­ colo scorso causò una versione in miniatura della trage­ dia irlandese dello stesso periodo: carestia, e un’emigra­ zione di massa che portò a uno spopolamento progressi­ vo e tuttora in corso. Le montagne scozzesi diventarono quelle che sono state da allora: un meraviglioso deserto. Nel i960, un’area più grande dell’Olanda era abitata da una popolazione più o meno equivalente a quella di Port­ smouth. Le pianure scozzesi non soltanto si adattarono al de­ collo economico, ma lo accolsero con favore, assumendo una posizione d’avanguardia. Nel medio secolo xvm, i primi possidenti scozzesi «miglioratori» cominciarono a importare esperti agricoli, attrezzi e tecnologia inglesi per migliorare l’agricoltura scozzese. Agli inizi del secolo xix, l’agricoltura progressista era quasi una specialità scozze-

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se. Gli scrittori settentrionali (che monopolizzavano la letteratura del progresso agricolo) biasimavano gli ingle­ si per la loro lentezza nella meccanizzazione, e i propriet.tri terrieri meridionali di Jane Austen discutevano se non fosse saggio assumere uno dei ben noti e rudemente « apaci dirigenti di fattoria scozzesi. Sempre gli economi­ sti scozzesi, a cominciare dal grande Adam Smith (17231790), hanno dominato la scienza più caratteristica del­ l'era dell’industrializzazione. I filosofi scozzesi furono l'obiettivo su cui si appuntarono gli attacchi dei radicali populisti e l’ironia dei conservatori inglesi. Gli scozzesi svolsero un ruolo sproporzionatamente ampio nella sto­ ria delle invenzioni e delle innovazioni tecniche: James Watt con la macchina a vapore, Mushet e Neilson nella siderurgia, Telford e London Macadam nei trasporti, Nasinyth e Fairbairn nell’ingegneria. Le posizioni più alte nel campo degli affari e nel governo non dovevano essere occupate dagli scozzesi, proverbialmente abili nel rag­ giungere il successo, prima del tardo secolo xix e del xx, ma l’iniziativa materiale e spirituale nei territori d’oltre­ mare era già una questione tipicamente caledoniana già prima del 1850: Jardine Matheson svolse il ruolo di pio­ niere e di dominatore nel commercio con l’Estremo Orienle, a Moffatt e Livingstone si dovettero le prime missio­ ni nel continente africano meno esplorato. Stabilire quan1 a parte di questa straordinaria celerità degli scozzesi del­ le pianure sia stata dovuta al loro calvinismo, o forse più esattamente al sistema di istruzione democratico e quasi universale a cui il calvinismo diede vita, è una questione complessa. Essa è una parte del problema ancor più am­ pio, e sempre affascinante e importante, delle relazioni I ra protestantesimo e capitalismo, o più generalmente fra l'ideologia e l’economia, che sono state ampiamente di­ scusse a partire da Karl Marx e Max Weber. Non possia­ mo qui occuparcene a fondo, ma sarebbe difficile negare clic l’eccezionale buona riuscita degli scozzesi nel secolo xix, non confinata soltanto al successo nel campo degli af­ fitti e della tecnologia, avesse qualche connessione col si­ stema istituzionale acquisito dal paese con la rivoluzione del 1559, cui fecero da guida Calvino e John Knox. Essa

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chiaramente non era stata una «rivoluzione della classe media» in qualunque modo si voglia definirla, e quella che doveva diventare la classe media imprenditoriale scoz­ zese nei secoli xvm e xix, tese ad ammorbidire conside­ revolmente il suo zelo teologico, lasciando che il liquore di Ginevra venisse bevuto non diluito nelle regioni piu ar­ retrate e dagli strati più poveri. Per di più, il sorgere di una gerarchia sociale indipendente dai vecchi proprietari terrieri, ebbe indubbiamente qualcosa a che fare con lo sfacelo della chiesa scozzese nel 1843; pochissimi dei grandi proprietari terrieri passarono alla nuova chiesa li­ bera che si ispirava, almeno nelle pianure, a un liberali­ smo fortemente critico nei riguardi delle classi dirigenti locali proprietarie di terre. Inoltre, l’ideologia caratteri­ stica del capitalismo industriale (e anche di quelli dei suoi critici che accettarono il capitalismo) * era quel razionali­ smo deistico e agnostico che il mondo assorbì dai grandi professori di Edinburgo e di Glasgow del «rinascimento scozzese» del secolo xvm: David Hume, Adam Smith, Ferguson, Kames e Millar. In ogni caso, la Scozia certa­ mente ereditò dalla sua rivoluzione calvinistica tre cose che furono di indubbio valore nella società industriale. La prima fu il suo sistema di istruzione fortemente democra­ tico, che permise al paese di attingere a un’ampissima ri­ serva di uomini capaci, apri al talento una strada assai più larga che in Inghilterra e (aiutato forse dall’intellettuali­ smo della disputa calvinistica), favori il pensiero sistema­ tico. Il pastorello che diventava un grande ingegnere (Thomas Telford, 1757-1834), anche se non era un caso comune come vuole il mito, era meno raro che in Inghil­ terra. La seconda fu l’assenza di una legislazione sui pove­ ri come quella inglese; infatti fino al 1845 il soccorso ai poveri (tramite la chiesa scozzese) rimase affidato alla co­ munità locale organizzata, e si può sostenere che questo contribuisse a preservare la Scozia rurale e delle piccole città - F87 per cento della popolazione nel 1801 e l’8o * Il professor J. Harrison ha dimostrato che il pensiero di Owen do­ vette molto alla filosofia scozzese che egli assorbì nel periodo passato a New Lanark.

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per cento ancora negli anni ’30 del secolo * - dalla demomlizzazione che regnava in tante parti dell’Inghilterra. 1 1 lo sviluppo delle città e dell’industria questo sistema < rollò, e la classe operaia scozzese si trovò non soltanto 111'ine è sempre stata) molto piu povera di quella inglese, ni.i anche, nei palazzoni d’affitto delle sue cittadine, piu sudiciamente e terribilmente povera. Terza cosa, è possi­ bile che l’ideale calvinistico della perfezione attraverso il lavoro contribuisse a quella notevole competenza tecnica •Irgli scozzesi delle pianure, che doveva fare del Clydeside il grande centro delle costruzioni navali e riempire di lee­ na i scozzesi le navi a vapore di tutto il mondo. La Scozia In infatti certamente una delle rare economie arretrate che abbiano raggiunto quelle progredite non soltanto nell’in­ dustria, ma anche in fatto di tecniche industriali, e le sue ciano ampiamente diffuse, e di prima qualità. Quanto di questi effetti sia stato dovuto al calvinismo, quanto all’arretratezza della società scozzese, che la salvò dalle inuguaglianze e dalle insufficienze di altre società più progredite, quanto sia stato dovuto a entrambi i fattori, sono domande destinate a rimanere senza risposta. Poche legioni del mondo o nessun’altra hanno in proporzione contribuito all’industrialismo più della Scozia. Un paese povero ma in via di sviluppo, che acquisi un impeto economico grazie ai mercati stranieri apertigli dal­ l'unione con l’Inghilterra e sfruttò questi vantaggi: quesia, è in breve, la storia economica della Scozia moderna, (di scozzesi goderono cosi di un grande dinamismo econo111 ico, ma dovettero fare i conti con una grande instabili­ tà, eccetto che nell’agricoltura. In questo settore la pover­ tà del suolo e l’inclemenza del clima distolsero l’agricolto­ re scozzese da quegli eccessi di specializzazione nei cereali di cui cadeva periodicamente vittima l’agricoltore inglese, come accadde dopo le guerre napoleoniche e gli anni ’70 del secolo scorso. Quella dell’agricoltura mista, con * Vale a dire gli scozzesi che non vivevano a Glasgow, Edinburgo, Dundee e Aberdeen.

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una certa importanza attribuita all’allevamento del be­ stiame, fu quasi ovunque la migliore politica seguita dal­ l’agricoltore scozzese, che quindi beneficiò quasi senza in­ terruzione della domanda di generi alimentari, in rapidis­ simo aumento, delle città inglesi, tanto piu che le ferrovie offrivano il mezzo di spedizione piu adatto. Inoltre, du­ rante vari periodi di depressione dell’agricoltura inglese, come dopo il 1873 e fra le due guerre, gli scozzesi tesero a trasferirsi a sud rilevando, e facendo fruttare, fattorie inglesi che la gente del posto aveva abbandonato. L’industria e il commercio scozzesi, d’altro canto, se­ guirono un corso piu pericoloso. La loro è la storia di suc­ cessive concentrazioni su particolari prodotti o mercati, e di successivi turni di gloria seguiti da collasso, che il pae­ se superò soltanto perché, fino a dopo la prima guerra mondiale, alcuni nuovi e piu ampi campi si aprirono alla conquista scozzese. Il commercio del tabacco, che fece la fortuna di Glasgow nel secolo xviii fu la prima di queste attività rigogliose. Crollò con la guerra d’indipendenza americana e, sebbene avesse una ripresa qualche tempo dopo, non rivesti mai piu l’importanza di un tempo nell’e­ conomia scozzese. Il cotone, pioniere dell’industrializza­ zione come in Inghilterra, venne subito dopo. L’industria cotoniera si sviluppò attorno a Glasgow, il grande centro esportatore e riesportatore che collegava commercialmen­ te la Scozia col mondo, e sulla base della capacità e dell’e­ sperienza acquisite con l’industria delle telerie di lino, il prodotto tessile fondamentale del paese. Altamente con­ centrata su merci di buona qualità, l’industria tessile scoz­ zese non potè, dopo le guerre napoleoniche, sostenere la concorrenza degli articoli più a buon mercato nei mercati dell’America del Sud che la Gran Bretagna aveva fino al­ lora monopolizzati e, a differenza dell’industria tessile del Lancashire, non era in condizione di aumentare l’esporta­ zione di merci meno pregiate nei nuovi mercati dell’Orien­ te. L’industria stagnò e infine quasi scomparve del tutto. Fortunatamente, dagli anni ’30 agli anni ’40 del secolo scorso, il paese scopri, per le sue industrie, una base al­ ternativa: il ferro e l’acciaio (i due prodotti erano strettamente collegati, perché l’industria scozzese del carbone di-

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pendeva dal forte consumo di carbone dei produttori di ferro). Nel 1830 aveva contribuito per il 5 per cento alla produzione britannica di ferro, ma arrivò a costituirne un quarto nel 1855. Anche quest’industria si basava in gran­ dissima parte sulle esportazioni, con due terzi della sua produzione caricati su navi. Fra il 1848 e il 1854, il 90 per cento della ghisa esportata dalla Gran Bretagna provenne dalla Scozia (da allora l’Inghilterra del Nord cominciò a diventare un concorrente). È vero che quel che gli scozze­ si (e gli inglesi) andavano facendo in quegli anni aurei me­ dio-vittoriani era di costruire il futuro potenziale indu­ striale dei concorrenti stranieri, ma quando in conseguen­ za di ciò l’industria siderurgica scozzese conobbe un rela­ tivo declino, si apri ancora un altro campo d’espansione: le costruzioni navali, con le industrie collegate dell’accia­ io e dell’ingegneria navale. Dal 1870 fino al termine della prosperità dopo la prima guerra mondiale, furono queste industrie le fondamenta dell’economia scozzese. Nell’an­ no da primato, il 1913, quasi un milione di tonnellate di naviglio furono costruite nel Regno Unito: 756 976 ton­ nellate erano state varate sul Clyde. È stato sostenuto che mentre questi sviluppi offrirono ampie opportunità agli scozzesi (e talvolta a osservatori inglesi imbronciati sembrò che l’impero britannico fosse largamente un sistema organizzato per offrire lavoro e pro­ fitti ai loro vicini settentrionali), lo stesso non può dirsi per la Scozia. Questo è vero. I livelli dei salari scozzesi ri­ masero in complesso molto più bassi di quelli inglesi per tutto il secolo xix. Le industrie sviluppatesi nella media epoca vittoriana avevano una tradizione di durezza e re­ pressione (fino al 1799, i minatori scozzesi furono in real­ tà degli schiavi), e di conseguenza reclutavano la manodo­ pera fra i disorganizzati e gli indifesi, e specialmente fra gli immigrati irlandesi e scozzesi delle montagne, non abi­ tuati a un reddito decente o a una vita urbana e industria­ le. Le abitazioni scozzesi rimasero non soltanto scandalo­ samente cattive, ma molto peggiori delle inglesi. Per di più, lo squallore e la sporcizia che si accompagnavano al­ l'espansione industriale - semplicemente spaventosi nelle zone minerarie semirurali - arrivarono al punto di essere

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pericolosi nelle leggermente migliori ma sempre orribili celle dei grandi caseggiati che sorgevano nella nebbia fu­ mosa di Glasgow, e nei quali viveva nel 1914 più di uno scozzese su cinque. Le istituzioni tradizionali della Scozia preindustriale, come ad esempio il sistema di istruzione, persero ogni forza nella società industriale. Crollarono ne­ gli anni ’40 del secolo scorso che videro fra l’altro la fine del vecchio sistema scozzese per il soccorso ai poveri, e il disfacimento della chiesa scozzese. Come in Inghilterra, queste istituzioni furono infine sostituite da altre non uf­ ficiali, fatte in casa, e proprie della vita della classe operaia (una di queste fu dovuta alla passione degli scozzesi per il gioco del calcio in cui hanno raccolto tanti successi) *. Ma negli anni dai ’30 agli ’8o del secolo scorso poco c’era che potesse riempire la vita degli scozzesi oltre il lavoro e l’al­ cool. Anche l’organizzazione della classe operaia rimase più debole e meno stabile che in Inghilterra. Se gli anni dell’epoca medio-vittoriana furono grigi per la vita sociale degli inglesi poveri, furono veramente oscuri in Scozia. Con la fine del secolo gli scozzesi, stavolta favoriti da industrie base fondate essenzialmente sulla capacità tecni­ ca, recuperarono la loro identità. Per la prima volta il mo­ vimento operaio scozzese non soltanto si affermò ferma­ mente fra la classe operaia, ma stabili una specie di ege­ monia su quello inglese. Keir Hardie divenne il capo del socialismo britannico (il suo partito laburista indipenden­ te ebbe la sua roccaforte nel Clyde), James Ramsay MacDonald fu il primo capo di governo ** laburista di Gran Bretagna, e Clydeside divenne, durante la prima guerra mondiale, sinonimo di agitazione rivoluzionaria e contri­ * La funzione del gioco del calcio fu di organizzare la comunità operaia (maschile) di solito attorno a due poli permanentemente rivali: la maggior parte delle città industriali crearono due squadre principali rivali tra di loro. In Scozia (come a Liverpool) questo prese la speciale forma di squa­ dre specificamente associate rispettivamente con gli immigrati irlandesi (cattolici) e con gli scozzesi, originari del luogo (protestanti): Glasgow Celtic e Rangers, Edinburgh Hibernians e Hearts of Midlothian. ** Dagli anni ’90 del secolo scorso anche nobili e gentiluomini scozzesi infransero il monopolio dei primi ministri inglesi, e successe che un mer­ cante di ferro di Glasgow, Bonar Law, divenisse primo ministro di Gran Bretagna nel 1922, sostenuto dalle attività di uno scozzese un tempo espa­ triato, Max Aitken, Lord Beaverbrook.

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bui a dare al partito laburista, dopo il 1918, una inclina­ zione a sinistra, e al partito comunista un solido nucleo di dirigenti. Il collasso dell’industria scozzese nel periodo fra le due guerre arrestò tutto questo, e fece ripiegare su se stesso un paese derelitto. Ciò è forse più visibile nei fe­ nomeni marginali di una cultura nazionalistica scozzese, che cercò di creare una letteratura neH’artificialmente ar­ caico idioma «Lallands» (dialetto delle pianure), inacces­ sibile a molti forestieri e alla maggior parte degli stessi scozzesi. La depressione nel periodo fra le due guerre co­ stituì senza dubbio una esperienza traumatica per la Sco­ zia. Per la prima volta a partire dal secolo xvin, essa cessò di essere la punta di diamante di un’economia industriale mondiale. L’entusiasmo generato dall’espansione econo­ mica aveva dissimulato l’assenza dell’indipendenza e, co­ sa più importante, l’erosione e il collasso delle istituzioni originarie scozzesi, soprattutto del sistema d’istruzione e della religione del paese. Ancora una volta la Scozia si mi­ se alla ricerca di se stessa; e malgrado il risveglio seguito al 1945 (peraltro meno evidente che nel Galles) i dubbi e le incertezze continuarono. Come sarà ormai chiaro, né il Galles né la Scozia, seb­ bene si trattasse di nazioni con un forte anche se comples­ so sentimento nazionale, avevano dato vita negli ultimi anni ’60 a un nazionalismo politico del tipo familiare nel­ la maggior parte del mondo del secolo xx. I due paesi ave­ vano piuttosto teso a esprimere il loro senso di separazio­ ne e le loro aspirazioni nazionali per mezzo dei movimen­ ti e dei partiti radicali e operai del Regno Unito, influen­ zandoli e trasformandone in parte il carattere. I partiti na­ zionalisti indipendenti che sorsero in entrambi i paesi du­ rante la depressione del periodo fra le due guerre ebbero solo una importanza politica marginale. Comunque, a par­ tire dalla metà degli anni ’60 il disappunto causato dai go­ verni laburisti di questo decennio portò per la prima volta a un massiccio spostamento di voti dal laburismo al nazio­ nalismo scozzese e gallese. Che questo resti o no un fatto permanente, non ci sono molti dubbi sul significato stori­ co di tale svolta.

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Infine, gli irlandesi in Gran Bretagna. Costretti a la­ sciare la loro isola dalla povertà e la carestia, gli irlandesi entrarono a fiumane in quella Gran Bretagna da cui erano stati conquistati e a cui erano stati uniti nel 1801 contro il loro desiderio, non perché gradivano quel trasferimen­ to, ma perché la Gran Bretagna era la regione piu vicina che non fosse la stessa Irlanda. Arrivarono dapprima co­ me braccianti agricoli stagionali, come scaricatori nelle città portuali; erano dei poveri di tutti i tipi. Vennero in seguito per ogni posto che risultasse disponibile, e sicco­ me non avevano capacità di rilievo per la vita industriale urbana, eccetto forse nei lavori di scavo, che richiedevano forti schiene e voglia e capacità di lavorare fino allo stre­ mo con periodi di sforzi intermittenti, gente del genere ne arrivò parecchia, perché la società industriale abbisogna non soltanto di lavoro svolto con la regolarità della routi­ ne, ma anche di sforzi impetuosi. Divennero scaricatori di carbone, sterratori, operai siderurgici, minatori, e quando gli inglesi e gli scozzesi non gradivano i posti di lavoro o non potevano piu vivere dei salari, diventarono quelli che facevano il lavoro rifiutato, tessitori e manovali. Divenne­ ro, più d’ogni altro popolo, i soldati della regina (è una caratteristica degli imperi quella di fare delle loro vittime i loro difensori), le loro sorelle divennero le serve, le infer­ miere e le prostitute delle grandi città. I loro salari erano più bassi che quelli di chiunque altro, vivevano nelle abi­ tazioni popolari peggiori, e gli inglesi e gli scozzesi li di­ sprezzavano come semibarbari, ne diffidavano perché era­ no cattolici, e li odiavano perché facevano abbassare i loro salari. A parte la lingua (nel caso che non parlassero più irlan­ dese), niente portavano con sé che avrebbe consentito loro di trovarsi più a loro agio nell’Inghilterra o nella Scozia del secolo xix piuttosto che in Cina. Arrivavano come ap­ partenenti a una classe contadina ridotta all’indigenza e degradata, la cui società di origine era stata frantumata da secoli d’oppressione inglese. Erano tuttavia rimasti fram­ menti di vecchie usanze e solidarietà di sangue tenuti in­ sieme da un «modo di vita» genericamente irlandese (fe­

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ste, canzoni e cosi via), dall’odio per l’Inghilterra e da un clero cattolico composto da figli e fratelli di contadini. Nell’ultimo trentennio del secolo xix, gli irlandesi aveva­ no anche acquisito un maggior senso di coesione grazie al sorgere di un movimento d’indipendenza nazionale. La se­ zione scozzese di Liverpool, una città in cui nel 1851 il 25 per cento della popolazione era nata in Irlanda, elesse per molti anni un nazionalista irlandese a membro della Camera dei Comuni, nonostante che la maggior parte de­ gli immigrati votasse per i liberali come il partito dell’in­ dipendenza irlandese e, dopo che questo crollò, per i labu­ risti come il partito della classe cui quasi tutti gli immigra­ ti irlandesi appartenevano. In parte perché portavano con sé le abitudini di una classe contadina sempre in lotta con la fame ed erano sco­ raggiati dal sistema dei risparmi e degli investimenti del proprietario terriero irlandese, in parte perché occupava­ no posti di lavoro che comportavano in minor misura le routine industriali, gli irlandesi furono molto lenti nell’adattarsi alla società industriale, sebbene il loro aspetto, il fatto che conoscevano l’inglese e, dopo un periodo inizia­ le, la loro adozione dell’abbigliamento proprio della clas­ se operaia urbana, li rendessero assai meno riconoscibili come stranieri dei successivi gruppi di immigrati, ebrei, ciprioti, indiani occidentali o asiatici. Vissero dapprima nei fabbricati popolari di Liverpool come avevano vissuto nelle capanne del Munster, e per altre generazioni ancora continuarono a popolare gran parte di quei quartieri in sfacelo, socialmente disorganizzati, che cosi spesso sorgo­ no nelle periferie delle grandi città. Per gli inglesi e gli scozzesi, e specialmente per la loro classe media, gli immi­ grati irlandesi erano dei semistranieri sporchi e inetti, in­ desiderabili e quindi soggetti a discriminazioni. Tuttavia il loro contributo alla Gran Bretagna del secolo xix fu di importanza capitale. Diedero all’industria, specie a quella edilizia e a quella delle costruzioni, su cui si erano sempre riversati, la loro avanguardia mobile, e alle industrie pe­ santi, che abbisognavano dei loro muscoli, fornirono il loro dinamismo e la loro capacità di lavorare compiendo sforzi intensi e prolungati. Furono per la classe operaia T3

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britannica una punta di diamante di radicali e rivoluzio­ nari, con un gruppo di uomini e di donne non legati dalla tradizione o dal successo alla società che li circondava. Non è un caso che sia stato un irlandese, Feargus O’Con­ nor l’uomo che piu si avvicinò a essere un capo nazionale del cartismo e che un altro, Bronterre O’Brien, ne sia sta­ to il maggiore ideologo, che sia stato un irlandese a scri­ vere Bandiera Rossa, l’inno del movimento dei lavoratori britannici, e il miglior romanzo ambientato nella classe operaia britannica * [I filantropi dai calzoni stracciati]. L’immigrazione irlandese raggiunse la punta massima nei decenni seguiti alla grande carestia del 1847 e dopo di allora diminuì. L’ampiezza della minoranza irlandese può forse essere valutata con maggior precisione tenendo con­ to del numero dei cattolici romani di Gran Bretagna - in Scozia sono tuttora il 15 per cento — piuttosto che in base ai censimenti dei nati in Irlanda. Comunque, con la cessa­ zione dell’immigrazione di massa negli Stati Uniti, il flus­ so verso la Gran Bretagna riprese, e negli ultimi trent’an­ ni fu la Gran Bretagna il paese che attrasse di gran lunga il maggior numero di immigrati irlandesi. Nel 1961 vive­ vano probabilmente in Gran Bretagna un milione di per­ sone di origine irlandese, l’equivalente del 25 per cento della popolazione d’Irlanda o di un terzo della popolazio­ ne della repubblica irlandese ** . Il flusso s’è diretto meno verso i centri tradizionali dell’immigrazione irlandese, il Clydeside e il Merseyside, e sempre più verso le fiorenti zone dell’Inghilterra centrale e meridionale e verso Lon­ dra. L’edilizia continua a dar lavoro al gruppo più nume­ roso (quasi un quinto) degli immigrati, seguito dalle in­ dustrie dei metalli (13 per cento). I servizi domestici e si­ mili occupano la gran massa delle donne. La relativa arre­ tratezza dell’economia irlandese ha inoltre prodotto un’e­ migrazione in continuo aumento di professionisti attratti dalle migliori possibilità offerte dalla Gran Bretagna. Il 12 per cento dei medici britannici è d’origine irlandese. * The Ragged-Transered Philanthropists. ** I due settimi degli immigrati del 1951 provenivano dallTrlanda del Nord, che fa tuttora parte del Regno Unito.

L’ALTRA GRAN BRETAGNA

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Dire che quest’immigrazione è stata assimilata sarebbe inesatto. Comunque, è diventata sempre piu accettata per­ ché invisibile, almeno paragonata con quella degli assai piu riconoscibili immigranti degli anni ’50. La separazione politica dell’Irlanda dalla Gran Bretagna avvenuta nel 1921 ha anche eliminato uno dei maggiori motivi per cui gli inglesi e gli scozzesi potevano sentire pesanti l’Irlanda e gli irlandesi. A poco a poco le tensioni fra le varie comu­ nità sono diminuite. Quando nel 1964 il partito laburista registrò il suo più alto aumento di suffragi a Liverpool e nei dintorni, uno dei motivi fu che parecchi operai non irlandesi e non cattolici si convinsero a votare per un par­ tito che nel passato era stato largamente identificato con la comunità irlandese locale.

1 Cfr. le importanti opere citate in Letture ulteriori, nn. 3, 4, e JOHN JACKSON, The Irish in Britain, 1961; e sull’immigrazione di colore, R. glass, Newcomers, i960. Utili studi specifici sono A. H. dodd, The Industriai Revolution in North Wales, 1953, A. H. John, The Industrial Development of South Wales, 1950. The Great Hunger, di cecil woodham smith, 1962, è una essenziale opera d’ambiente sugli irlandesi in Gran Bretagna e altrove.

Conclusione

Un’opera storiografica che arrivi fino al presente o qua­ si, non può concludersi, perché la data cui arriva non può che equivalere alla data in cui lo scrittore completò il suo manoscritto. C’è il caso che rappresenti di piu, sebbene nella storia economica e in quella sociale alle svolte im­ portanti non possa essere facilmente attribuita una data come, ad esempio, nella storia della politica o in quella delle operazioni militari. Ma anche supponendo che i pri­ mi anni ’60 saranno considerati in futuro come la fine di una fase nell’evoluzione britannica, è forse troppo presto per farlo adesso o, anche facendolo, individuare la natura di questa svolta. È senz’altro possibile che stiamo avvici­ nandoci alla fine di un’epoca e che siamo agli inizi di un’al­ tra. Infatti da centocinquant’anni e, secondo alcuni, anche da piu tempo, la vita economica, nelle parti progredite del mondo, ha teso a seguire un curioso ritmo cinquantennale noto come le «onde lunghe di Kondratiev». Il loro signifi­ cato è oggetto di discussione e di approfondimento, anche se di recente le discussioni si sono fatte meno accese. Esse si manifestano chiaramente con un alternarsi di circa ven­ ticinque anni di inflazione in un’atmosfera di fiducia nel campo degli affari, seguiti da un periodo analogo di flut­ tuazione dei prezzi o di deflazione in un’atmosfera di ma­ lessere nel campo degli affari e di tensione sociale. I letto­ ri potranno aver notato tali alterazioni seguendo questo libro: l’ascesa degli anni ’80 del secolo xvm sino al ter­ mine delle guerre napoleoniche, seguita dalle difficoltà che si manifestarono da allora fino agli anni ’40 del secolo scorso; l’ascesa degli «anni d’oro» vittoriani seguiti dalla

CONCLUSIONE

361

«grande depressione» degli anni 1873-96*; l’ascesa del1’«estate di san Martino» edoardiana e della prima guerra mondiale, seguita dalla depressione fra le due guerre. A partire piu o meno dal 1940, siamo stati chiaramente in una fase ascendente. Se i periodi di Kondratiev esistono, quale che sia la loro natura, possiamo aspettarci che l’epo­ ca presente finirà ben presto, e che gli anni ’70 avranno differenti e probabilmente meno piacevoli caratteristiche. Ma non possiamo ancora dirlo. È naturalmente facile individuare i caratteri generali della storia economica britannica durante il periodo di cui si è occupato questo libro. La storia del mondo dal tardo secolo xv alla metà del secolo xx è quella dell’ascesa poli­ tica ed economica e del declino del dominio esercitato da uno o un altro gruppo di economie basate sull’Europa occidentale o su coloni europei. Attualmente, il declino di questo predominio politico e militare è più drammati­ camente evidente di quello economico, perché la gran massa della produzione industriale mondiale viene tutto­ ra dall’area unificata dell’Europa occidentale e degli Sta­ ti Uniti. Nondimeno, il sorgere di grandi potenze indu­ striali come il Giappone, l’Unione Sovietica e forse, fra poco, la Cina, dimostra che anche sotto questo aspetto il cambiamento è stato fondamentale. Nel corso di questa evoluzione generale, la storia della Gran Bretagna è quel­ la della prima fase dell’industrializzazione mondiale, com­ prendente la rivoluzione industriale, la fondazione di una singola economia mondiale liberale, e la penetrazione fi­ nale, seguita dalla conquista, nel mondo sottosviluppato o non capitalistico, ad opera del capitalismo. Il trionfo della Gran Bretagna fu quello del pioniere in questa fa­ se storica, e il suo declino fu quello di un intero sistema economico mondiale. Se tutto finisse qui, non dovremmo forse parlare di un declino britannico, perché parte di esso sarebbe sempli­ cemente il riflesso di un cambiamento generale e globale, e per una parte equivarrebbe all’affermazione quasi tau* Per vari motivi, questa fase delle «onde lunghe» ha suscitato fra gli storici economici discussioni maggiori di ogni altra.

3Ó2

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

tologica che in un mondo completamente industrializza­ to, quella che era un tempo l’unica economia industriale pionieristica deve per forza di cose declinare. Se nono­ stante ciò parliamo di un declino britannico è a causa del­ la relativa incapacità della Gran Bretagna ad adattarsi alla nuova situazione. Idealmente, quella britannica avrebbe potuto diventare una fiorente economia di seconda cate­ goria, inferiore alle superpotenze del secolo xx, ma nondi­ meno (insieme a paesi come la Germania occidentale, la Francia o il Giappone) di gran lunga piu potente degli stati di terza categoria (come quelli scandinavi o la Sviz­ zera). Adattamenti del genere non sono impossibili. La Francia, per esempio, che mostrò vari segni di una ina­ dattabilità analoga nel secolo xix, voltò pagina con note­ vole successo dopo la seconda guerra mondiale, e la Ger­ mania mostrò una stupefacente capacità non soltanto di sopravvivere, ma di tornare in attivo dopo le catastrofi politiche ed economiche del nostro secolo. Mentre scrivo, la Gran Bretagna non sembra ancora es­ sersi adattata con altrettanto successo. La nostalgia per il suo passato — per quel mondo in cui Londra era il cen­ tro commerciale e finanziario del mondo e il sole non tra­ montava mai sull’impero britannico, il mondo in cui la sterlina era sovrana ancor più di Edoardo o di Giorgio non è stata ancora vinta. Fino a che questo non succede­ rà, la Gran Bretagna dovrà ancora essere analizzata in termini di declino, e questo è evidente sotto almeno un aspetto del comportamento britannico: quello delle mi­ grazioni. Le correnti migratorie al giorno d’oggi tendono infatti a scorrere dalle zone arretrate a quelle sviluppate, da quelle statiche alle dinamiche, e fino ai primi anni ’60 l’emigrazione britannica - generalmente formata da gen­ te qualificata, da tecnici e da professionisti in cerca di pos­ sibilità migliori di quelle che pensavano di poter trovare in patria - superava ancora l’immigrazione della mano­ dopera specializzata e non specializzata e dei tecnici pro­ venienti dai paesi sottosviluppati e, soprattutto da quelli un tempo facenti parte dell’impero. Quest’emigrazione non accennava a diminuire, anche se l’immigrazione stava

CONCLUSIONE

363

rapidamente superandola fino a che non fu impedita da restrizioni politiche. È possibile che gli storici del futuro, col senno del poi, scopriranno che i passi decisivi verso un adattamento ve­ nivano già fatti o erano già stati fatti. Noi, che non godia­ mo degli stessi vantaggi, non possiamo esserne sicuri. Nelle circostanze, lo storico può soltanto concludere con qualche rapido paragone, astenendosi dalle previsioni. La Gran Bretagna era nei primi anni ’60 un paese con cir­ ca 53 milioni di abitanti, e quindi dello stesso ordine di grandezza della Francia (48 milioni), della Germania oc­ cidentale (55 milioni) e dell’Italia (circa 50 milioni). La sua popolazione ammontava alla metà di quella del Giap­ pone, a un quarto di quella degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, per menzionare soltanto le potenze industriali vere e proprie. La sua quota della produzione industriale mondiale era nel 1961 molto minore di quella degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, ma ancora all’incirca equi­ valente a quella della Germania occidentale e considere­ volmente piu ampia di quella della Francia, dell’Italia e del Giappone. La sua quota di partecipazione al commer­ cio mondiale (circa 1’8 per cento delle esportazioni, il 9 per cento delle importazioni nel i960) superava di più della metà quella del 1913, ma la Gran Bretagna non era più la maggiore economia esportatrice, nemmeno in Eu­ ropa. Nel 1963 era superata da sei paesi nella produzio­ ne di filati di cotone, da cinque nella produzione di ferro, da quattro in quella dell’acciaio, da sette in quella del ce­ mento, da quattro in quella di acido solforico. Produce­ va però più energia elettrica e carbone di qualsiasi altro stato puramente europeo. Nel i960 era in ordine di gran­ dezza il terzo paese produttore di autoveicoli, il quarto di apparecchi radio e televisivi e tuttora il secondo costrut­ tore navale, e possedeva la seconda flotta mercantile del mondo. In altre parole, la Gran Bretagna era ancora pro­ babilmente la terza economia mondiale, ma veniva molto dopo i due paesi principali, e non aveva una posizione di preminenza in alcuna branca della produzione. In termini di effettivo impiego umano della sua ricchez­ za e della sua forza produttiva, il popolo britannico go­

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

deva dei vantaggi delle economie piu sviluppate: un mi­ glior servizio sanitario, un piu alto livello di vita, e una migliore istruzione. Pochi popoli erano meglio nutriti o avevano migliori abitazioni *. Gli inglesi non soltanto ave­ vano beni di consumo durevoli per capita in misura mag­ giore degli altri paesi paragonabili d’Europa, ma appar­ tenevano certamente a quel piccolo e privilegiato numero di popoli che si trovavano ben al di sopra del livello della necessità e nella sfera della vita piacevole. La «povertà» esisteva, ma non significava quello che era invece ancora per la maggior parte del mondo, cioè fame e stracci. Gra­ zie al suo sistema di sicurezza (differente nei dettagli, ma analogo a quello ora adottato ampiamente in Europa), la Gran Bretagna non aveva più nemmeno quelle sacche di squallore e di quasi indigenza d’altri tempi che continua­ vano e sfigurare cosi visibilmente gli assai più ricchi Stati Uniti. D’altro canto il miglioramento del livello di vita britannico dopo la seconda guerra mondiale fu probabil­ mente meno rapido e stupefacente che in altri paesi eu­ ropei socialisti e non socialisti ** . Il numero delle automo­ bili aumentò di circa tre volte in Gran Bretagna fra il 1950 e il i960, ma di più di sei volte in Svezia, di circa cinque volte in Francia e in Olanda, di circa dieci volte nella Germania occidentale, in Italia e in Austria. In altre parole, il progresso della Gran Bretagna non fu impres­ sionante, neanche se paragonato a quello di altri paesi che terminarono anch’essi la seconda guerra mondiale con li­ velli di vita relativamente alti. Paragoni del genere mancano di mettere in evidenza le particolarità di un paese, e la Gran Bretagna ne aveva pa­ recchie. Essa rimase, per esempio, lo stato europeo più * Piu di tremila calorie per persona, un livello raggiunto, negli anni 1960-61, soltanto in Austria, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Olanda, Ca­ nada, negli Stati Uniti, in Australia, e nella Nuova Zelanda. L’abitazione media inglese aveva piu locali che ogni altra in Europa, con l’eccezione del­ la Svizzera e del Lussemburgo. ** Il tasso medio annuale con cui i salari reali aumentarono in venti paesi fra il 19^0 e il 1970 nell’industria manufatturiera fu del 2,7 per cen­ to. In Gran Bretagna il tasso d’aumento corrispose all’incirca a quello me­ dio, ma fu superiore al 4 per cento in Cecoslovacchia, nella Germania occi­ dentale, in Francia, in Giappone, Olanda, Polonia, Svezia, Bulgaria.

365

CONCLUSIONE

urbanizzato, industrializzato e proletarizzato *. L’assen­ za di una classe contadina e di un’ampia classe di piccoli bottegai o di artigiani fu forse il legato più duraturo della partenza pionieristica della Gran Bretagna e del suo au­ dace tuffo nel capitalismo industriale. Un altro legato fu il sistema biclassista, relativamente semplice, e il ruolo eccezionalmente importante della classe operaia industria­ le nella politica. Fra tutti i grandi stati industriali dell’Eu­ ropa non socialista, la Gran Bretagna degli anni ’50 fu l’unico in cui un partito socialista proletario alla vecchia maniera (il partito laburista) si trovò prossimo a vincere le elezioni generali da solo, come infatti accadde nel 1964. In ogni altro paese (eccettuato il caso speciale e atipico dei tre stati scandinavi) i partiti socialisti operai da soli o assieme a forti partiti comunisti dove questi esistevano, sembravano condannati a una quasi permanente opposi­ zione come minoranza, o a una coalizione ugualmente per­ manente. Una terza particolarità dovuta in certo grado ai precoci inizi industriali della Gran Bretagna fu l’importan­ za relativamente scarsa del regionalismo. Sul continente erano piuttosto diffusi il federalismo o una tendenza al fe­ deralismo; i partiti e i gruppi di pressione regionali ave­ vano un forte peso. Il viaggiatore inglese poteva andare da Ostenda alla Sicilia sempre incontrando paesi in cui esisteva questa situazione. In Gran Bretagna, invece, nem-

Dipende

pagati

Europa non socialista Francia Germania occidentale Italia Belgio Svezia Gran Bretagna

“ s.

Agricoli boschi,

]

* Forze di lavoro in base alle condizioni di occupazione e nell’agricol­ tura nel i960 (percentuale).

ac .3 8 8,3 8,5 IO 12,3 4,9 2,8 0,2

366

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

meno la presenza dei gallesi e degli scozzesi costituiva un importante problema del genere, perché, come abbiamo visto, le due popolazioni - con marginali eccezioni - era­ no state talmente impegnate economicamente in una sin­ gola economia tutta britannica, da togliere alle idee re­ gionalistiche ogni appoggio delle masse, anche se non sempre la loro simpatia. La Gran Bretagna era un paese in cui le classi medie avevano imparato a parlare un unico idioma facilmente riconoscibile, con esclusione, eccetto che in Scozia, di ogni dialetto; e questa non era certo una situazione molto comune. Era un paese in cui un’unica stampa nazionale circolava in tutto il territorio, un paese in cui, nonostante ogni sforzo contrario, la vita culturale si concentrava, e anche questo era un fatto eccezionale, in un’unica gigantesca capitale. Queste e altre differenze tradizionali tendevano però a diminuire. La fase del capitalismo industriale del medio secolo xx andava portando a uno stato di cose, che forse riguardava soprattutto le apparenze, per cui le differenze nazionali venivano assorbite. Dagli aeroporti in cui la gente scendeva e sarebbe rimasta incerta circa il continen­ te in cui si trovava se non fosse stato per gli avvisi e il cli­ ma, alle autostrade piene di automobili, i blocchi geome­ trici rapidamente moltiplicantisi delle abitazioni popolari e degli uffici, rilluminazione pubblica e la pubblicità (pac­ cottiglia visiva della civiltà moderna, come i tralicci della forza elettrica, le stazioni per il rifornimento di carburan­ te), le città e le linee di comunicazione che le univano, di­ ventavano sempre piu simili. Forse questo non era piu di quello che era successo nel secolo xix, perché niente era piu standardizzato del quartiere industrializzato del seco­ lo xix, se non il quartiere abitato dalla classe media nei tardi anni dello stesso secolo. Nel i960, però, le aree tut­ te uguali della Gran Bretagna e di altri paesi si estendeva­ no su una superficie, o comunque comprendevano una po­ polazione, sconosciute in passato. Questo rapido proces­ so d’assimilazione divenne particolarmente visibile in Gran Bretagna nei tardi anni ’50, quando un’ondata di costruzioni e ricostruzioni trasformò le città, talvolta qua­ si fino a renderle irriconoscibili. Le comunicazioni, e spe-

CONCLUSIONE

367

cialmente i viaggi di massa e, il che non era la stessa cosa, il desiderio delle masse di viaggiare, fecero ulteriormente diminuire le piccole differenze ancora esistenti tra paesi un tempo diversi tra loro. Uno dei fenomeni curiosi della Gran Bretagna dopo il 1945 fu che, quando essa cessò di essere a capo di un vasto impero multinazionale, diventò assai piti visibilmente ed effettivamente cosmopolita di un tempo, sia a causa dell’immigrazione ora proveniente da svariati paesi, soprattutto da quelli che un tempo com­ ponevano l’impero, sia perché per la prima volta si ebbe un turismo di massa. La Gran Bretagna andava assomigliando sempre più agli altri paesi industriali occidentali, ma nello stesso tem­ po la sua posizione in mezzo a questi, il suo prestigio nel mondo, perdevano terreno. Se ci chiediamo quale influen­ za l’economia e la società britanniche abbiano esercitato sul mondo indipendentemente dalla capacità politica del­ la Gran Bretagna di plasmare le istituzioni delle sue co­ lonie, osserviamo un curioso cambiamento. Come paese pioniere dell’industrializzazione, la Gran Bretagna diede al mondo le sue macchine, le sue navi, e forse soprattutto le sue ferrovie (i russi ancora chiamano una stazione una « Vauxhall»), i suoi imprenditori e i suoi abili tecnici. Co­ me agente commerciale e banchiere del mondo gli diede meccanismi e istituzioni, per esempio i Lloyds di Londra, che sono ben conosciuti da ogni uomo d’affari. Il più gran­ de esportatore del mondo diede alle proprie economie di­ pendenti, che non si identificavano soltanto con i territori coloniali veri e propri, tutta una varietà di istituzioni com­ merciale e manufatti, dimodoché l’osservatore può ren­ dersi conto, dalla forma delle cassette postali e dai nomi di Harrods o di Mappin & Webb a Oporto o Buenos Ai­ res, che l’influenza della Gran Bretagna un tempo arriva­ va fino a li anche senza la protezione della sua bandiera. L’industria britannica diede al mondo quella potentissi­ ma merce di esportazione culturale che fu il gioco del cal­ cio, i nomi delle cui società talvolta riecheggiano ancora quelli di squadre britanniche espatriate che diffusero il nuovo gioco ben lontano da Bolton o Leeds. E la potenza della Gran Bretagna industriale, rafforzando la potenza

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

precedente della Gran Bretagna commerciale e aristocra­ tica, diede al mondo quello che è stato finora il suo piu durevole modello di vita della nobiltà virile: lo sport (il cui vocabolario è tuttora largamente inglese), e in parti­ colare le corse dei cavalli e i « Jockey Clubs», oltre allo stile di base della moda maschile ufficiale e semiufficiale, con la reputazione dei costosi artigiani specialisti del West End che producevano famosi articoli di moda. Tutto questo appartiene però essenzialmente al perio­ do anteriore al 1914. Fu la Gran Bretagna quale si pote­ va osservare con gli occhi e nelle opere di Jules Verne a imprimere nel mondo la sua immagine sotto le sembianze di Phileas Fogg, intrepido ma adattabile turista. Anche il turismo e l’alpinismo coltivati dalla classe media, con Thomas Cook e l’Alpine Club, riflettevano e irradiavano l’influenza inglese. Poco di tutto questo è rimasto ai no­ stri giorni. La Gran Bretagna si trova oggi, semmai, nel­ l’interscambio culturale e commerciale, dal lato di chi ri­ ceve, quando si degna di accettare. Le macchine più carat­ teristiche adoperate dai non esperti non sono britanniche. Il modello di base della produzione automobilistica di serie fra le due guerre fu americano, e ad esso contribui­ rono a partire dal 1945 soltanto i paesi continentali (se si accettua la limitata produzione di automobili di lusso e quasi lusso della Rolls Royce e ancora alcuni modelli sportivi). La macchina per fare il caffè, il motor-scooter e la macchina per scrivere hanno ricevuto una nuova vita, come tanti altri attrezzi di uso quotidiano, dall’Italia po­ stbellica; e la radio e la macchina fotografica (un tempo specialità tedesche e statunitensi), dai giapponesi. Il ci­ nema, la televisione e le arti che mirano al divertimento popolare sono ancora dominate, come sempre dopo il trionfo del mercato di massa, dagli Stati Uniti *, e a par­ tire dal 1945, anche quel tardo, ma poderoso articolo di esportazione culturale che era il romanzo poliziesco bri­ tannico, ha perso il suo predominio, soppiantato dal «thriller», di gusto americano. In termini più stretta­ * I divertimenti della classe media erano dominati dall’operetta, di estrazione francese e austriaca.

CONCLUSIONE

369

mente industriali, l’industria britannica ha cessato di es­ sere superiore alle altre, non solo in generale, ma anche in ogni branca. Con le possibili - e temporanee - eccezio­ ni di alcuni prodotti elettronici e strumenti scientifici, non c’era negli anni ’50 una sola industria britannica che fosse chiaramente superiore ad altre analoghe negli Stati Uniti o nel continente europeo. Curiosamente, il carattere eccezionalmente proletario della Gran Bretagna ha resistito magnificamente al re­ stringimento dell’influenza del paese. Pochi altri paesi provarono mai a imitare il sistema politico britannico o i suoi partiti conservatore e liberale, ma col declino di una moderata socialdemocrazia nel mondo, il partito laburi­ sta britannico rimase uno dei rari bastioni, e talvolta l’uni­ co, di un movimento riformistico della classe operaia che potesse realmente aspirare al potere, e la sua influenza ideologica è rimasta quindi forte. Le ribelli opere cultu­ rali, specie quelle teatrali degli intellettuali anticonserva­ tori degli anni ’50, anticiparono la diffusione nel mondo della musica popolare e della moda, deliberatamente ple­ bee e ugualitarie, degli anni ’60. Ma fino allora ci fu ben poco, e quel poco fu soprattutto in campo intellettuale e culturale, che potesse essere contrapposto alla recessione generale deH’influenza britannica. La Gran Bretagna era nei primi anni ’60 un paese in cui mai era stato cosi confortevole vivere, un paese che mai era stato piu divertente, ma, dal punto di vista dello storico, un paese assai meno importante di un tempo. Contrariamente a ciò che ritenevano gli studiosi, talvol­ ta piuttosto nevrastenici, che esaminarono la natura e la crisi della Gran Bretagna in quegli anni, creando una mo­ da prima sconosciuta di introspezione e sfiducia in se stes­ si, il paese non fu mai un rottame paralizzato o in procin­ to di affondare. Le sue risorse, sia umane, sia tecniche, e insieme la sua potenzialità, erano grandi, solo che non si sapeva come mettere a frutto quelle risorse o realizzare quella potenzialità. Inoltre in un periodo in cui la mag­ gior parte degli abitanti non erano mai stati cosi bene, ci si poteva aspettare che fossero, magari deplorevolmente, contenti. Ma non lo erano. Si sentivano a disagio. Forse li

37°

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

faceva sentire a disagio la distanza fra la realtà e la spe­ ranza. L’uomo non vive soltanto di riscaldamento centra­ le, anche se cosi sembrano pensare i pubblicitari, i più effi­ cienti ideologi delle masse dopo il declino delle chiese. La speranza e l’orgoglio si erano affievoliti. «Pochi ormai, — scrive A. J. P. Taylor, - cantavano Terra di speranza e di gloria». Ancora di meno erano quelli che cantavano Inghilterra, sorgi. Eppure, se la prima di queste canzoni era ormai fuori questione, la seconda era di viva attua­ lità.

Diagrammi

Gli scrittori di storia economica e sociale si trovano a disagio fra le esigenze rivali della prosa e delle cifre. Non è facile includere una sufficiente selezione di dati quantitativi in un testo senza renderlo illeggibile. Ho quindi aggiunto dei diagrammi sotto forma di appen­ dice. Alcuni recano notizie che coprono l’intero periodo di questo libro, e che non potrebbero essere facilmente inseriti in alcuno dei capitoli, cronologicamente limitati, o che avrebbero mancato allo scopo se fossero stati divisi fra capitoli differenti. Altri illustrano punti particolari con dettagli maggiori di quanto è stato possibile nel testo. Altri ancora forniscono materiale che è indubbiamente ri­ levante per la storia economica e sociale della Gran Bretagna nel pe­ riodo a partire dal 1750, ma avrebbero deviato dalla linea d’espo­ sizione e dall’argomento scelto. Le note alla fine di ogni capitolo ri­ chiamano i diagrammi che possono essere utilmente consultati in connessione col capitolo stesso. Questi diagrammi sono intesi come aiuti visivi. Non possono sostituire le fonti statistiche su cui si ba­ sano, alcune delle quali sono menzionate nella nota sulle Letture ulteriori (p. 411).

i.

2.

La popolazione della Gran Bretagna, 1750-1951.

Composizione della popolazione britannica per gruppi di età.

1901

1951

374

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

(* = media di 5 anni)

4.

Declino della popolazione agricola.

DIAGRAMMI

375

5.

Inghilterra industriale, 1851.

□ Metalli V Tessuti

▲ Ceramiche e terrecotte • Pietra e ardesia O Manufatti

★ Carta O Pesca

■ Carbone

Il Lancashire e il « riding» occidentale dello Yorkshire

Wolverhampton

o Birmingham o Kidderminster Newcastle e dintorni

Glasgow e dintorni

6.

Inghilterra industriale, 1851.

Birmingham e dintorni

376

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

■j.

Gran Bretagna industriale, 1963.

DIAGRAMMI

377

Ì^| Trasporti

Edilizia

S

Manifatture di metalli, meccanica e industrie collaterali

■ Impiegati, pubblica amministrazione

378

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

DIAGRAMMI

379

Fonte: 1750, Joseph Massie; 1867, Dudley Baxter; 1931, 1961, D. C. Marsh.

380

13.

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

Trasformazione delle professioni della classe media, 1931-51.

Giuristi

Architetti

Contabili

Scrittori Redattori Giornalisti

Dipendenti non a tempo pieno

381

DIAGRAMMI

14.

Popolazione urbana e popolazione rurale, 1801-1961.

15.

Lo sviluppo di Londra.

Medio secolo xix

Medio secolo xx

Lo sviluppo di Manchester.

i6.

Middleton

Prestwich

Bl?»

Eccles

Altrincham

Hazel Grove

Bowdon

Il

Mobberley Knutsford

/feFAlderley Edge



Ferrovie

------------ Carrozze a cavalli

1905-30

------------ Tram

1930-50

------------ Autobus

1----1___ lì o 1 2

I

3 km

Ore

La rivoluzione della velocità: tempi di viaggio.

Ore

17-

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

384

19.

La rivoluzione dei trasporti: le automobili.

DIAGRAMMI 20.

La rivoluzione dei trasporti: il traffico stradale, i960.

385

386

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L'IMPERO 2i.

I contatti: analfabetismo in Inghilterra, 1840.

- ------------------ ■ Middlesex --■■■■■■---- ------------- Surrey " • Cumberland -------------------------------- Northumberland ----------------------------------- Yorks: E. Riding ------------------------------------- Westmoreland 1 Yorks: N. Riding ---------------------------------------------- Durham ■ 1 —....................... Kent . .............. ............ . ................... . Rutland ------------------------------------------------ Devon ------------------------------------------------- — Gloucester ------------------------------------------------- — Cornwall ----------------------------------------------------- - Hants -------1 ■ '■ . .............. Derby — .......... 1 1 ■ -------------Sussex -------------------------------------------------------- - Notts ---------------------------------------------------------- Lincoln ...................... ■ 1 ... Warwick -------------------------------------------------------— Leicester ---------------------------------------------------------- Dorset --------------------------------------------------------------- Oxon ---------------------------------------------------------------- Northants 1—— Somerset

• 1 —— —1 -------- Cheshire -------------------------------------------------------------------Hereford ........ ... ................ - Lancs — ... ■ .............. Berks ............ .................... .......... 1 Yorks: W. Riding — -----——----- ———————------ — ■— Staffs ........ . ... ......... "■ ■' "■■■■ Worcester -------- ----- —Shropshire ■ ---1 ... . —— Norfolk ----------------------------------------------------------------------------- Wilts --------------- --, , ,, ............. Bucks

— ' - 1 — -............. -■ — Huntingdon -------------------------------------------------------------------------------- N. Wales -------------------------------------------------------------------------------- S. Wales -...... ....... Suffolk ——--------------------------------------------------------------------------- Cambridge ......... Essex

---------—------------------- ------ ■■ — —.............. Herts — ----- --------------------------------------------------------------------------------- Monmou th ------- ------------------------------------------------------------------ 1 Bedford --------------- 1 1 1 1 1 I o 10------------- 20-------------- 30--------------40__________ 50___________60

Percentuale degli uomini apponenti una croce al registro di matrimonio

DIAGRAMMI

387

I contatti: i libri.

Titoli pubblicati, in migliaia

22.

Produzione industriale britannica, 1811-1960.

Produzione industriale

23.

Fonte: 1811-1937, W. Hoffmann; 1938-60, London and Cambridge Economie Service.

388 24.

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO Produzione industriale britannica come percentuale del totale mondiale, 1780-1958.

Fonte: Mulhall, Società delle Nazioni, Nazioni Unite.

389

DIAGRAMMI

Percentuale del totale della produzione mondiale

25.

La Gran Bretagna nell’industria mondiale nel secolo xix.

1900

1913

Acciaio

1850

1870

1913

Cotone

1891- 19111900 1913

1830

Stati Uniti

14

1900

1850

1870

1892- 19111900 1913

Altri paesi

392

29.

30.

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

Aliquota della Gran Bretagna nel commercio mondiale in vari periodi.

Commercio britannico per gruppi di articoli, 1814-1963.

Merci finite

DIAGRAMMI

31.

393

Il carattere del commercio britannico, 1750-1962.

Esportazioni 100

80 -

60 -

40 -

20 -

o L 17891790

1750

lllll 18271830

18451847

18871889

19091913

19271929

1962

Importazioni Paesi agricoli

Paesi industriali

Paesi in via di sviluppo

1847

1889

1913

i929

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

394

32.

I porti britannici nel i960. Wick

Esportazioni

Stornoway

Importazioni Fraserburgh X Peterhead

Banff

/\ Passeggeri /.... J in partenza

Aberdeen

Milioni di sterline di importazioni ■ e esportazioni

fO Montrose x J**Arbroath Dundee Greenock Burntisland Methil Kirkcaldy JST Leith s 1

25-50 100-200 500-1000

-Ardrossan $hi)lryij1e/\ness Granton Berwick upon Tweed Migliaia )wnWTroon^Ayr Grangemouth \ di passeggeri vCampbeltownlj' . ____ 10-50 ^C^Sleraine / Newcastle upon Tyne 100-200 732 Blyth Londonderry r^Stranraer "Dumfries Sunderland •WigtOWyx5 *tarlisll Hartlepool J ♦ WorkingtonJ^Maryport Wr^;ast Whitehaven^ Stockton $ Whitby Land Boundary Ramsey-, n’ Middlesborough .‘Newry Douglas/Barrow-in^ * Scarborough Castletown '"rnes< Lancaster Fleetwood Hull\ n Preston. ~ , Beaumaris M \Gwic Grimsby pool: Manchester Holyhead/ Great Chester y Caerriarvo Yarmouth Boston Kings Lynn Wisbech

Aberystwyth Port Talbot

Swansea.

Lowestof

Gloucester Bristol London Airport

Ipswich Harwich Colchester II London Ramsgate Rochester/

Favershami wer FolkstpneL Bridgewater Bideford Southampton Newhaven Exeter. „ Padstow « TeignmouthJ Cowes Shoreham-by-Sea Fowey. T WeiS%uthPorts™’ut,h Littlehampton q4ur>*PivEuhDartmoulh 1 Penzance XL, , 11>inoi-itn

Barnstaple,



\ ? i • 41mm i In

DIAGRAMMI 33.

395

Il carattere del commercio coi territori d’oltremare, i960.

396

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E L’IMPERO

34.

I porti britannici nel 1888.

397

DIAGRAMMI 35.

36.

Investimenti britannici all’estero.

Distribuzione geografica degli investimenti britannici all’estero.

la RIVOLUZIONE INDUSTRIALE e L’IMPERO

398

37.

Il portafoglio degli investimenti britannici.

DIAGRAMMI

39.

399

Come venivano pagate le importazioni britanniche.

□ ■

Redditi netti indivisibili Reddito netto dalle proprietà Redditi netti dai trasporti

Riesportazioni

Esportazioni

40.

Movimenti dei prezzi britannici, 1700-1959.

4i.

42.

Spese statali, 1792-1955.

Spese statali come percentuale del prodotto nazionale lordo.

43.

Percentuale delle spese per la difesa rispetto alle spese statali. Spese per la difesa

Spese statali in milioni di sterline

IO OOO

44. Percentuale del reddito nazionale speso per la sicurezza sociale. Anni ’50 del secolo xx.

Soccorso ai poveri

Pensioni

124

Poveri

Pensioni per la vecchiaia

1925

00"

00

c 0 1 s

0 o'

uisoccupaziune

94,8

0

10,9

H

Assicurazione malattie, e