La rivoluzione nel labirinto. Sinistra e sinistrismo dal 1956 agli anni ottanta [Vol. 1] 8872841429, 9788872841426


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Italian Pages 365 Year 1993

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La rivoluzione nel labirinto. Sinistra e sinistrismo dal 1956 agli anni ottanta [Vol. 1]
 8872841429, 9788872841426

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Franco Ottaviano

LA RIVOLUZIONE NEL LABIRINTO

RUBBETTINO

Introduzione Volume Primo Capitolo I - Critica la revisionismo e riformismo Capitolo II - Dal controllo al potere operaio Capitolo III - I marxisti-leninisti Capitolo IV - La cultura militante Capitolo V - Il Sessantotto: la rivolta degli studenti Capitolo VI - Le strategie della tensione Capitolo VII - Il Maoismo e il Neostalinismo dell'Unione dei comunisti Capitolo VIII - Potere operaio: il partito dell'insurrezione Volume Secondo Capitolo IX - Lotta Continua: spontaneità e organizzazione Capitolo X - Dal Manifesto al PDUP Capitolo XI - Avanguardia operaia Capitolo XII - La lotta armata Capitolo XIII - Sulle ceneri dei gruppi: l'autonomia

INTRODUZIONE «La parola "rivoluzionario" si può applicare solo alle rivoluzioni il cui fine è la libertà» A.N. Condorcet

Oggi, dopo i terremoti politici del 1989 e nella diffìcile ridefìnizione di una possibile sinistra, il termine «rivoluzione» appare sospetto, in disuso, quasi esorcizzato da ogni riscrittura di teoria e cultura politica. Eppure, negli anni della modernizzazione italiana, questa idea-mito con la sua forza simbolica è stata costitutiva della politicizzazione di più generazioni, ragione del loro collocarsi a sinistra e sentirsi parte di movimenti che volevano cambiare il mondo. Utopia e speranza attorno alla quale si è divisa ma anche estesa la cultura della sinistra in Italia. Gli stessi fallimenti della rivoluzione socialista, lo stalinismo come le tirannie del cosiddetto socialismo reale, erano parte del mito e quasi come riscatto ad essi si rispondeva con l'ansiosa ricerca di restituire valore a una rivoluzione che poteva subire sconfitte, battute d'arresto e persino tradimenti ma restava il fine dell'agire politico. Dopo la ricostruzione che segue il dopoguerra e agli albori di una industrializzazione enfatizzata quanto irrazionalmente gestita, entrano in crisi di logoramento le condizioni che avevano consentito la temporanea vittoria del togliattismo sull'eterogeneo e frastagliato universo della sinistra e del sinistrismo italiano. Gli sconvolgimenti sovietici, dalla denuncia dei crimini di Stalin alla svolta del XX congresso del Pcus, depotenziano il rapporto dinamico fra prospettive della rivoluzione socialista e democrazia progressiva che era la scommessa storica di quella cultura politica. Un equilibrio precario che tuttavia era interno ad un progetto rivoluzionario e si legittimava in quanto era parte di un orizzonte più ampio: i destini del paese che per primo aveva realizzato il «socialismo» e del suo antagonista la democrazia occidentale. Il meno sta nel più, e quindi la democrazia poteva situarsi nell'orizzonte più generale del socialismo ma, resa dubbia questa prospettiva, il meno perdeva senso e diventava, nella migliore delle ipotesi, il meglio dell'esistente. Uno smarrimento a cui non sapranno rispondere né le prudenze del «revisionismo» del Pci né il pragmatismo del riformismo socialista degli anni sessanta. Le lotte, per quanto aspre, non fuoriescono da una dialettica governo-opposizione, rispettosa dei ruoli assegnati

ma incapace di tradurre in forme della rivoluzione moderna il diffìcile rapporto democrazia e socialismo in una società che scopre la sua complessità e rivendica nuove libertà e nuove eguaglianze. Sullo sfondo delle divisioni del movimento operaio internazionale, tornano le antiche schizofrenie della sinistra italiana, si origina la diversa collocazione dei suoi partiti e — simmetricamente — al crescere della loro rissosità e dei loro limiti interpretativi emerge un bisogno di rifondazione ancora troppo ipotecato dal dilemma tradizione-innovazione. Al mutarsi degli scenari internazionali si combina il mutarsi dei conflitti di classe e la natura dei soggetti in campo. Se il capitalismo si modernizza, la rivoluzione non trova la sua modernità. Il capitalismo e la sua forma politica più compiuta, la democrazia, sembrano divenire gli unici motori di un progresso effimero, consumistico, fatto di nuove e più sofisticate tecniche di manipolazione e dominio. In questa transizione la sinistra, con i suoi partiti, non supera la sfida della sua rifondazione. I suoi rinnovamenti, le sue svolte, appaiono unicamente il riconoscimento del valore del nemico e delle sue categorie politiche, istituzionali e culturali. I tempi della politica e i tempi sociali entrano in rotta di collisione, un vuoto che solo la radicalità e la volontà sembrano poter colmare. Da ciò l'esigenza, prima ancora che politica esistenziale, di una rivoluzione senza aggettivi, sinonimo di cambiamento, mutazione, trasformazione, rivolgimento...; sinonimo di criticità al mondo industriale, al consumismo, al progresso senza qualità e valore ... immaginario collettivo che sarà dentro e oltre le dimensioni note della politica, ne sarà un fattore dinamico ma al tempo stesso ne sarà soffocato, incapace di mutarne i codici pur avendoli messi in discussione. Anche la violenza è parte di questi codici: «la rivoluzione non è un pranzo di gala», recitava una abusata citazione di Mao e, da Cuba, Castro e il Che ricordavano — contro ogni intellettualistica esitazione — «il dovere di un rivoluzionario è fare la rivoluzione». Il rischio dell'errore e la violenza, da «mucchio selvaggio» o da «quella sporca dozzina», erano parte del fascino di un ignoto che si sperava comunque e, a ogni costo, migliore. Alla convinzione che senza distruzione nulla si poteva costruire corrispondeva una distruzione vissuta con gioiosità e immaginazione, ma pur sempre tale, anche se le sue conseguenze e i suoi costi non si mettevano nel conto dell'immediato. Prima della scienza e della razionalità politica, ammesso che esista, veniva il desiderio di un mondo diverso. Aggrapparsi ai modelli, fossero essi la Russia, la Cina, Cuba, l'America Latina, era paura di non farsi capire, era pensare che in qualche parte del mondo il sogno non era sogno ma una realtà in costruzione e ciò lo rendeva concreto, comunicabile e traducibile. Contestazione della tradizione rivoluzionaria, rispetto acritico e divulgazione di modelli ed esperienze assunte a emblema di rivoluzioni possibili, si sovrappongono in una ricerca e una pratica politica il cui tema implicito diventa: quale trasformazione, per quale modernità. Come in uno specchio deformante la «sinistra da farsi» combatte con la sua storia, con la vetustà delle categorie che vuole riformulare, con l'obsolescenza delle sue

forme organizzative. Uno scontro in cui perde se stessa, divisa fra una lotta a un revisionismo inesistente e una rivoluzione evocata ma confusamente dispersa nel labirinto che essa stessa costruisce. Questo lavoro (storia, resoconto, cronaca, comunque lo si voglia giudicare) è la descrizione di questo ipotetico labirinto e delle generazioni che vi si sono avventurate. Da ciò la struttura del testo: la narrazione ellittica e il rifiuto di una sintesi compiuta. La prima parte, dal 1956 al 1976, affronta la critica al revisionismo e la nascita del sinistrismo. Nell'Italia del miracolo economico il sorgere di una cultura critica al sistema e ai tradizionali partiti del movimento operaio. La preistoria del Sessantotto, l'esplosione della contestazione studentesca e operaia, la controffensiva di una «democrazia» impaurila e incapace di rispondere alle speranze e al sommovimento sociale di quegli anni fino a farsi essa stessa sovversione. La seconda parte è la storia dei partiti del sinistrismo dopo il Sessantotto. Tra movimento e organizzazione la ricerca di forme antagoniste dell'agire politico. Dalla critica delle parole alla critica delle armi, tra paura del golpe e mito dell'insurrezione, i vari volti del partito armato e le tragiche premesse dei nostri anni di piombo. La terza parte ricostruisce il drammatico svolgimento dei governi di solidarietà democratica, l'esplodere del conflitto fra quadro istituzionale e antagonismo sociale, infine la «follia» armata del terrorismo e la sua sconfitta. Pur nell'organicità complessiva i singoli capitoli hanno una loro autonomia, ciò ha comportato inevitabili ridondanze: ai capitoli sulle diverse esperienze, al succederei delle vicende politiche, si intreccia la rivisitazione dei pensieri e delle pratiche della rivoluzione. Ho preferito che l'oggettività della cronaca, il linguaggio spesso astruso dei documenti, il lessico d'epoca, si confondessero con la soggettività che ha guidato l'assemblaggio dei fatti, cercando di significare un clima in cui oltre, e forse più, degli eventi hanno contato suggestione, miti, forza di comunicazione. Più volte mi sono chiesto se, piuttosto che attardarmi nella ricostruzione, oscillando fra fatti e idee, non fosse più giusto procedere per sintesi concettuali, magari arrischiarmi nel territorio già molto frequentato delle supposizioni e delle piste giudiziarie. La narrazione assunta alla stregua di un tempo vissuto, riproposta come un presente-passato, priva di quella presunzione dell'oggi che cerca sempre vincitori e vinti mi è sembrata più efficace a rappresentare la complessità del «labirinto», un intrigo formato dai molti e segmentati percorsi del conflitto rivoluzione-modernità. All'incolmabile divario fra aspettative e esiti delle rivoluzioni comuniste si accompagna il crescere della contraddizione fra domanda di liberazione e sfruttamento dei sistemi democratici. Ma l'utopia del nuovo non recide i legami con il suo passato, non sa proclamare fino in fondo le sue necessarie discontinuità. Mentre altre culture, basti pensare al grande significato del femminismo,

suggeriscono e reclamano un'altra idea di rivoluzione sconvolgendo ragioni, categorie, nomenclature politiche di una sinistra prigioniera della sua tradizione e, per le sue stesse ragioni d'origine, condannata al ritardo. Ribellismo e violenza, ideologismo e politicismo, contrapposizione fra mitica ora X e quotidianità, fra individuo e collettività sono interni a questa tradizione. Troppo preoccupata a difendere le sue ragioni, piuttosto che rinnovarle, la sinistra non inventa la sua «nuova» rivoluzione. L'esito attuale di quei processi che, a torto o a ragione, le culture marxiste hanno definito rivoluzionari come altro possono leggersi nei loro fallimenti, se non come temporanea sconfitta di fronte al moderno? Categoria non astratta ma prodotto concreto della dialettica fra due antinomie, ognuna con le proprie strutture, idee, culture politiche e opzioni sociali, fra loro concorrenti pur tuttavia interagenti: capitalismo — non so usare un altro termine, per quanto arcaico esso possa apparire — e tutte quelle forme, lotte, soggetti storici che sono stati altro da ciò che il «capitalismo» e la sua storia richiamano. Paradossalmente estremismo, sovversivismo e persino la barbarie del terrorismo altro non sono stati che aspetti di questo groviglio non sciolto. Non la semplice deviazione di una cultura politica, bensì espressioni parziali, limitate, di un'utopia; forme ambigue e drammatiche di una ricerca la cui soluzione, ulteriore paradosso, sembra coincidere col suo compiersi. Dalla crisi del comunismo conosciuto e al tempo stesso dai valori e dalle idealità che lo hanno originato, nasce il precipitato di soggettività, azioni e teorie che forma il labirinto, un labirinto che si costruisce in progress, quasi per superfetazioni; dall'incapacità di uscirne si generano inconsapevolmente, più intricate figurazioni, percorsi, smarrimenti. Anche il rapporto comunismo-democrazia, costitutivo dell'esperienza del movimento operaio italiano, è parte dello scenario. Non potrebbe essere altrimenti di fronte alle «promesse mancate» di una democrazia che priva di qualità, vanifica i suoi, presupposti e resta incapace di misurarsi con l'utopia comunista che a sua volta si imbarbarisce nel suo farsi Stato, regime, potenza. Il labirinto si infittisce di immagini distorte, false prospettive, speranze di rapide vie d'uscita. La paura di rimanere imprigionati porta con sé la fretta delle facile, quanto illusorie scorciatoie. Tradizione e vetustà dei marxismi si fanno ostacolo al loro rinnovamento. Esistono due storie del sinistrismo, espressione che preferisco a quella di estremismo. La sinistra tradizionale ha scritto una storia al negativo, tutta finalizzata a dare conto della propria giustezza di linea; al contrario il gruppismo ha scritto resoconti da marcia trionfale. Ma assumendo l'idea della trasformazione come ragione interpretativa, c'è da chiedersi — con maggior rigore e senza nessun continuismo — se queste letture non siano, in qualche forma, da ricongiungersi per affrontare in radice il limite che esprimono: l'incertezza, lo sbandamento, di cui è circondata la prospettiva della rivoluzione dalla fine della guerra fredda. Ho esitato nello scegliere il titolo e, come spesso accade, ho cercato opinioni e consensi fra amici e compagni. In questa ricerca mi ha sorpreso il giudizio di un

amico di giovinezza, ora dissociato. Alla mia proposta, «la rivoluzione nel labirinto», ha controproposto: «la rivoluzione compiuta». Sono rimasto perplesso, l'ipotesi però mi ha intricato. Non ho seguito il suggerimento, sebbene mi sia interrogato sul significato ambiguo e provocatorio del controtitolo. Per la sua storia personale, non ho voluto chiedere spiegazioni, ho lasciato il discorso nel vago, forse preoccupato di scorgere in quella indicazione la retorica del reduce di una battaglia oltre che il naturale darsi ragione di una scelta di vita pagata in prima persona, sulla propria pelle come tanti giovani in quegli anni. È rimasto il titolo originale. Ho continuato a pensare fosse più proprio al senso che anima questo lavoro; cioè il disperdersi di un desiderio rivoluzionario che — irrealizzato — nel suo svolgersi si è fatto persino follia desiderante e atroce. Eppure, riflettendo ancora sulla proposta non accolta, credo anch'io che in virtù di quella dispersione qualcosa si sia compiuto, non solo nella coscienza di una società ma nell'idea stessa di rivoluzione. E, forse, in questo mutamento sta il suo compimento: oggi chiunque agisca e speri in un assetto «altro» dalla società presente dovrà pensare in termini radicalmente inediti alla «rivoluzione», consapevole che in primo luogo essa deve essere «altro» da ciò che quel termine nelle storie e nelle pratiche recenti e passate ha significato e prodotto.

I CRITICA AL REVISIONISMO E AL RIFORMISMO

1. Un nuovo estremismo

Operaisti e maoisti: in questi due filoni fondamentali si è soliti incasellare la genealogia dell'estremismo a partire dai primi anni sessanta. La schematizzazione, pur utile e indicativa, non basta: l'area del dissenso è assai più vasta. La lingua francese permette una maggior chiarezza di quella italiana nella definizione del fenomeno. Il termine «estremismo», infatti, si collega direttamente al marxismo, ne rappresenta un'ipotetica devianza, mentre gauchismeindica qualcosa di più eterogeneo, che tradotto in italiano sarebbe più o meno «sinistrismo». Nel linguaggio politico e nella pubblicistica si è usato di tutto: gruppettistica, extraparlamentarismo, nuova sinistra, nuove avanguardie, sinistra radicale. A questa terminologia si è aggiunta la selva dei vecchi «ismi» mutuati dalla storia del movimento operaio: spontaneismo, anarchismo, operaismo. Una congerie di termini e una babele di definizioni politiche che testimoniano la difficoltà di ricondurre a unità un fenomeno complesso e contraddittorio. Lo stesso inquietante e drammatico sviluppo del terrorismo rosso finisce con 1 essere demonizzato ed estraniato dal corso reale della storia politica italiana se non si riconduce a una sostanziale rottura operata con la tradizione del movimento operaio e a una separazione conflittuale fra le prospettive politiche della sinistra e le ragioni dell'espansione e dei fallimenti del nuovo estremismo. Non si tratta di costruire forzose continuità, una sorta di accidentato percorso che, partendo dai gruppi e passando per il nodo politico del Sessantotto, porti ineluttabilmente al terrorismo, quanto invece di comprendere le relazioni e le specificità delle diverse fasi di trapasso, i nessi che si vengono a stabilire per contiguità, rottura, fallimento, prolungamento teorico. Situare, dunque, questa eclettica cultura e pratica politica all'interno del più generale conflitto sinistramodernità. Problematicamente assumerla come testimonianza, anche tragica, di una crisi di interpretazione e di risposta al binomio trasformazione-rivoluzione. La critica al «revisionismo», nelle caratteristiche che assume nella seconda metà degli anni cinquanta, rappresenta il punto d'origine di una profonda cesura nella

pratica e nella teoria del movimento operaio. L'avvio della formula di centrosinistra ratifica, a livello di quadro politici, l'evolversi di grandi trasformazioni, rappresenta e concorre ad alimentare speranze che saranno disattese. Le illusioni riformiste si infrangono di fronte alla natura del capitalismo italiano e il tanto decantato miracolo economico ben presto svela le sue asfissie e le sue strettoie. La società italiana si trasforma radicalmente e insieme cambiano le coscienze e i comportamenti di massa. Il tutto mentre muta l'insieme delle relazioni internazionali. Novità sociali, economiche e politiche sono decisive per .comprendere e inquadrare il sorgere e l'articolarsi dell'estremismo nel nostro paese. Non si tratta di una riproduzione allargata - della tradizionale nomenclatura estremistica, ma piuttosto, con l'apporto di nuove suggestioni teoriche e culturali, di una dilatazione dei richiami originali. Essi diventano mera citazione fino a perdere ogni referente storico. Si forma un eclettico corpo teorico che si innesta su una nuova dimensione dei conflitti sociali. Trasformazioni qualitative e quantitative cambiano il segno ai tradizionali «ismi», determinano una «questione dell'estremismo» in cui si combinano il travaglio delle forze di sinistra e l'emergere di nuovi soggetti impegnati nelle battaglie di rinnovamento, spinti da una nuova domanda politica. La «fine» dello stalinismo, il tipo di sviluppo capitalistico, l'assunzione acritica di nuovi modelli rivoluzionari, la scesa in campo di una giovane classe operaia, sono nelle loro interdipendenze e intersecazioni il terreno di analisi e nello stesso tempo lo scenario di un fenomeno non solo italiano bensì immediatamente rapportabile a un orizzonte europeo e mondiale 1 . È questa la base necessaria per comprendere gli orientamenti e le tensioni sociali da cui si origina e si sviluppa l'espansione organizzativa dell'estremismo nelle sue varie articolazioni. Non è possibile ridurre a una semplice geografia di posizioni l'ampiezza e l'estensione di un fenomeno le cui eterogenee componenti sono dentro la qualità del sommovimento politico e sociale di quegli anni. I forti sconvolgimenti strutturali che investono la società italiana hanno la loro proiezione nella vita culturale: crisi del pensiero storicista, frettolose riletture del marxismo, segni di nuovo radicalismo coinvolgono ambienti intellettuali di diversa matrice e ispirazione, mentre dubbi e interrogativi di grande portata travagliano i militanti dei partiti operai 2. Il mostro moderno è il neocapitalismo: sostenitori e detrattori, in realtà, convergono nel sopravalutarne la forza. Il faticoso processo che porta al centro-sinistra, le risultanze del XX congresso del Partito comunista sovietico e le sue ripercussioni sul piano internazionale, diventano nodi politico-temporali da cui — come effetto e conseguenza — prendono le mosse la formazione dei primi gruppi estremistici e le prime sperimentazioni in contrapposizione ai partiti della sinistra. L'estremismo nasce nel travaglio di un movimento operaio alla ricerca del suo rinnovamento, progressivamente se ne distacca e sceglie proprie strade: «operaismo» e

«maoismo», i poli di una dialettica, gli opposti, che nel loro progredire sfumano le proprie differenze fino a confondere le reciproche identità. Riconducibili al primo, quelle esperienze che passando per i «Quaderni rossi», attraverso il dibattito di «Classe operaia», alimentano per gemmazione i vari gruppi del Potere operaio e le sue derivazioni, dirette o indirette, sorte per travaso di quadri, per successive fusioni. Per i «marxisti-leninisti» punto di partenza sono le posizioni cinesi e il pensiero di Mao Tse-tung. Dopo la rottura fra Cina e Urss, due linee si scontrano nel movimento operaio internazionale. Da «Viva il leninismo», giornale del gruppo di Padova, si passa alle varie fasi di aggregazione: la Federazione marxista-leninista, il Partito comunista d'Italia (marxista-leninista). Un pullulare di sigle, un'altalena di scissioni e lotte interne, un proliferare di gruppi e gruppetti, un perenne oscillare fra autoesaltazione da nuovo partito rivoluzionario e desolata proclamazione del suo fallimento. Nella diversità unifica le sigle e il composito sperimentalismo la critica al revisionismo. Una critica che si alimenta dell'illusione di un capitalismo maturo capace di gestire e condizionare ogni forma di sviluppo e\da cui fa derivare la radicale inconciliabilità fra socialismo e capitalismo. La paura del neocapitalismo e l'utopia rivoluzionaria sono le convergenti risposte al rischio di integrazione: una fuga dalla quotidianità per esaltare quella soggettività che porterà all'esplosione sessantottesca, emblema di questa carica liberatoria. Nelle giornate del movimento, il «gruppo» in quanto tale avverte i limiti della propria esperienza ristretta, non tollera il suo stato minoritario e cerca nuovi moduli organizzativi. Vuole uscire dalla morsa del «revisionismo», accreditarsi fra le «larghe masse» operaie e popolari, superare la contraddizione avanguardiamovimento. Una lotta al revisionismo che va oltre la conosciuta dimensione della politica, un combinato di ideologia e moralismo, cementato da nuove curiosità intellettuali e insieme dal bisogno di semplificazioni. Ai tempi della politica si sostituisce la fretta dell'utopia rivoluzionaria, alla politica si chiedono nuovi valori. Nel corso di un aspro dibattito condizionato dai rapidi mutamenti della società italiana, crescono le tappe di una sperimentazione politica che produce una netta e insanabile divaricazione fra area estremistica e partiti storici della sinistra. In meno di un decennio si accelerano i tempi di una fuoriuscita di esperienze e metodi politici che si pongono sempre più in modo antagonistico alla teoria e alla pratica della sinistra italiana. L'inconciliabilità è col «revisionismo». Dal gruppo di pressione si passa a un nuovo estremismo non più assimilabile a desuete tipologie del dibattito in seno al marxismo e al movimento operaio organizzato; piuttosto un trasversalismo di culture politiche che tra, continuità e discontinuità con le loro stesse origini, disperderanno i loro desideri di «rivoluzione» in un labirinto di esperienze. Negli anni compresi tra il '56 e il '68 si consumerà il primo passaggio. Il tumulto sessantottesco originerà i minipartiti dell'estremismo e all'interno di questi, a volte

per consunzione, darà vita a quegli spezzoni organizzativi che più tardi, dopo fugaci illusioni, precipiteranno nella paura del golpe e passando per il mito della clandestinità finiranno col transitare verso la scelta terroristica. Nella seconda metà degli anni cinquanta la sinistra italiana è attraversata da una radicale crisi d'identità. In discussione è tutta la sua storia e l'ampiezza delle questioni supera gli schieramenti ideologici per congiungersi alle tensioni che scuotono il cattolicesimo progressista. Attorno alla complessità teorica della via italiana al socialismo, il Pci inizia la sua opera di rinnovamento e di adeguamento alle novità politiche e sociali. Nel Psi, non senza contrasti, prende corpo e si afferma una completa revisione di linea che porterà alla rottura dell'unità d'azione con i comunisti, condizione questa indispensabile per la riunificazione con la socialdemocrazia e per l'ingresso nell'area di governo. Di fronte al crollo del mito di Stalin e alla divisione del campo socialista, ci si interroga sulla natura e sui valori del socialismo: una riflessione dolorosa che chiama in causa la totalità dell'esperienza condotta dall'Urss e dai partiti operai. Espressione di questo clima, denso di ansie di ricerca e di bisogni di nuove libertà, l'ipotesi di una «rifondazione della sinistra» avanzata da Raniero Panzieri sulle pagine di «Mondo operaio» e successivamente nei «Quaderni rossi». Si avvertono inedite esigenze culturali, la necessità di comprendere la qualità del tipo di sviluppo economico, di decifrare gli orientamenti e i comportamenti di una nuova classe operaia, di guardare ai mutamenti delle varie forze politiche. Si presentano del tutto inesplorati gli ambiti dei prossimi conflitti sociali. 1 Cfr. M. Teodori, Storia delle nuove sinistre in Europa, 1956-76, II Mulino, 1976. 2 Cfr. N. Badaloni, II marxismo italiano negli anni '60, Editori Riuniti 1971; G. vacca, Politica e teoria del marxismo italiano 1959-1969, De Donato, 1972.

2. Cambiano gli scenari

Gli anni compresi tra il 1953 e il 1963 sono anni di sconvolgimento per l'economia nazionale. Si esce dalla fase della ricostruzione e, superata l'opera di risanamento delle strutture produttive e del consolidamento del sistema finanziario, dal '53 inizia il decollo economico, in concomitanza con l'apertura di un nuovo ciclo dell'economia europea. In meno di un decennio l'Italia muta le sue caratteristiche strutturali, si trasforma da paese prevalentemente agricolo in paese industriale. I lavoratori impiegati in agricoltura passano dal 36,6% al 27,0%, mentre quelli dell'industria e delle attività terziarie aumentano rispettivamente dal 29,6% al 38,6% e dal 24,2% al 30,8% 1 . Vaste masse di lavoratori agricoli si trasferiscono al lavoro industriale. Dalle campagne è un vero e proprio esodo, una grande migrazione interna, «biblica» fu definita, che rivoluziona l'assetto territoriale, provocando lo spopolamento di ampie zone insieme all'esplosione delle città. Sono gli anni della Roma delle borgate e della Milano delle «coree». Al gonfiamento delle aree urbane si accompagnano le manovre speculative: è l'epoca dello scandalo urbanistico. Sul finire degli anni cinquanta si parla di «miracolo economico», un miracolo economico che già nel '61 e in modo più evidente nel '63-'64 manifesta i suoi limiti. Lo sviluppo disordinato e l'indiscriminato aumento dei consumi provoca ulteriori profonde contraddizioni. Componente decisiva del salto di qualità compiuto dall'economia nazionale è la grande massa dei disoccupati (attorno ai due milioni fino al '56) che, accresciuta da quella dei lavoratori agricoli e da quella femminile, si sposta nella fabbrica: uno sterminato esercito che, pur di essere strappato dalla propria condizione, è pronto anche a ricevere una retribuzione inadeguata. Presto sarà una nuova classe, quella della «riscossa operaia». Scoprirà, insieme alla condizione di fabbrica, nuove forme di lotta, diverrà la protagonista del rinnovamento sindacale. Con l'assorbimento di mano d'opera nell'industria e nell'edilizia si ha un rallentamento delle correnti di emigrazione verso l'estero e addirittura un aumento dei rientri di lavoratori emigrati. Sembra che uno dei problemi endemici del paese, quello dell'occupazione si avvii a soluzione. È una speranza di breve durata. Negli anni successivi al '63, come conseguenza della recessione economica, il numero dei disoccupati aumenterà nuovamente e sarà solo parzialmente assorbito dalla successiva ripresa produttiva. Nel triangolo industriale e nelle grandi aree urbane interessate dall'immigrazione delle masse contadine e meridionali si concentrano esplosive tensioni sociali. Le

contraddizioni legate ai problemi di inserimento sono rese più acute dalla completa inadeguatezza di tutte le strutture civili. La radicalità delle trasformazioni che investono la società italiana, le abitudini di vita, le stratificazioni sociali, i costumi, la natura dello stesso scontro di classe, trova impreparate le forze della sinistra che registrano difficoltà, resistenze e timidezze. I tradizionali strumenti interpretativi sono insufficienti e inadeguati: si cercano nuove forme di indagine del «sociale», cresce l'interesse per gli studi sociologici. Il superamento del centrismo e la formazione di un diverso quadro politico risulteranno lunghi ed estenuanti. Il progetto di centro-sinistra si concretizzerà quando gli effetti del miracolo economico saranno già spenti. La «grande mutazione» scuote tutto il sistema politico: per i partiti italiani è la stagione del rinnovamento. Nel faticoso procedere verso il centro-sinistra è decisivo lo spostamento della Dc. Mentre matura una diversa consapevolezza nel mondo cattolico, sembrano cadere vecchi steccati, e avanzano nuove forme dell'impegno sociale a premessa di originali milizie politiche. Dopo la sconfitta della strategia centrista, anche se in modo contraddittorio, si delinea nella De la necessità di una nuova prospettiva politica: l'«apertura a sinistra», una prospettiva che troverà la sua applicazione solo dopo la caduta del governo Tambroni nel luglio '60. Ma ci vorranno ancora quattro anni per il primo centro-sinistra organico. L' improponibilità numerica di una formula centrista, accompagnata dall'urgenza di far fronte alla spinta di rinnovamento che si esprime nel paese, impongono alla De la ricerca di «nuovi equilibri». Il rapporto col Psi, che De Gasperi sin dal congresso di Napoli del '54 aveva definito «fondamentale per lo sviluppo democratico in Italia», diventa tema dominante. L'obiettivo è la rottura dell'unità a sinistra. Favoriscono il progetto democristiano i mutamenti interni del Psi. La battaglia della sinistra socialista per contrastare il definitivo spostamento a destra del partito avviene negli anni compresi tra il '55 e il '62, tra il congresso di Napoli e quello di Venezia. Ma linee troppo diverse convivono nella sinistra socialista: l'elaborazione di Raniero Panzieri che approderà allo sperimentalismo sociologico dei «Quaderni rossi»; la linea portata avanti da Dario Valori e, dopo il breve incontro con Panzieri, da Lucio Libertini, che usciranno dal Psi per costituire nel 1964 il Psiup; la linea di Riccardo Lombardi, che rimarrà isolata minoranza. Il dirompente XX congresso del Pcus, unitamente alle novità della fase capitalistica, riattualizzano un problema mai risolto nella pratica e nel pensiero socialista: il valore dell' esperienza leninista e la sua applicazione nei paesi a capitalismo avanzato. Con l'offuscarsi del ruolo dell'Unione Sovietica quale paese guida riaffiorano le antiche polemiche ideologiche fra sinistra socialista e Pci. Nello stesso tempo entra in crisi l'operazione, impostata da Rodolfo Morandi, che tendeva a superare le divergenze con il Pci e a comporre massimalismo e riformismo socialista assumendo come quadro di riferimento unitario l'esperienza sovietica e lo stesso stalinismo. Saltato lo scenario di unificazione riemerge il riformismo e, sul versante opposto, la peculiarità della sinistra socialista su temi

quali la democrazia diretta, la costruzione di un potere operaio dentro il sistema produttivo. In un mutato quadro economico-politico si ripropongono differenziazioni molto profonde con la teoria togliattiana dello stato «democratico costituzionale»2 . Gli eventi sovietici accelerano nel Psi il processo di ripensamento sulla strategia seguita dopo la liberazione e la risposta ai mutamenti economici sono le tentazioni da «riformismo dirigista». Le novità strategiche del XX congresso e poi le clamorose rivelazioni contenute nel rapporto Krusciov sulla questione Stalin, aprono un serrato dibattito e un'ampia riflessione nel movimento operaio internazionale. Dopo la conferenza di Mosca degli 81 Partiti comunisti l'approdo sarà la divisione. Il XX congresso prendendo atto delle modificazioni intervenute nei rappòrti di forza sul piano internazionale: l'affermazione della rivoluzione cinese, la partecipazione del Partito comunista indonesiano al governo; i risultati della conferenza di Bandung (1955); riconosce che l'Urss non è più il solo paese socialista, ma dal 1947 — anno della prima riunione dell'Ufficio Informazione — esiste e si è andato consolidando un variegato «campo socialista». Afferma Krusciov, nel suo rapporto al congresso: «La caratteristica della nostra epoca sta nel fatto che il socialismo ha varcato i confini di un solo paese ed è divenuto mondiale» 3 . Dunque il quadro mondiale è caratterizzato non solo dal sistema economico dell'imperialismo ma anche da quello socialista. Ne deriva un modo nuovo di porre la questione della pace e delle relazioni fra i due «sistemi». I nuovi rapporti di forza, l'ampiezza dello schieramento che si batte per la pace, le atroci conseguenze di un conflitto atomico, «una guerra senza ne vinti ne vincitori», sono altrettante condizioni per modificare la politica degli stati imperialisti. Risulta quindi superata la tesi del marxismo-leninismo sulla «inevitabilità della guerra», una teoria elaborata in un periodo in cui l'imperialismoera un sistema generale che comprendeva tutto il mondo e nel quale le forze sociali e politiche contrarie alla guerra erano deboli e scarsamente organizzate per costringerlo alla pace. È possibile tradurre in pratica una politica, peraltro già ipotizzata da Lenin, di «coesistenza pacifica» fra stati a regime sociale e politico diverso. Partendo dalle conclusioni della conferenza di Bandung, e dai cinque principi enunciati in quell'occasione (rispetto dell'integrità e delle sovranità; non aggressione; non ingerenza negli affari interni; parità e vantaggio reciproco; coesistenza e collaborazione economica) l'Urss lancia una proposta di «coesistenza pacifica» alla più grande potenza imperialista. Si apre l'epoca della grande sfida. La lotta per la pace, contro la minaccia nucleare, diventa il fronte più avanzato dello scontro, un terreno nuovo per la lotta di classe; spetta al movimento operaio porsi ali' avanguardia di un ampio schieramento capace di incidere sulla natura stessa dell' imperialismo e modificarne i rapporti di forza su scala mondiale. Inizia la fase del negoziato, dell'impegno a risolvere i conflitti fra opposti sistemi attraverso la trattativa diplomatica.

Raggiunta ormai la consapevolezza della specificità dei diversi processi rivoluzionari, realizzatisi e in atto, si traggono tutte le implicazioni della proposta leninista secondo cui: «Tutte le nazioni giungeranno al socialismo. Ma vi giungeranno in modo non del tutto identico; ciascuna darà il suo contributo originale con questa o quella forma di democrazia, con questa o quella varietà della dittatura del proletariato» 4 . Dunque il pieno riconoscimento delle «vie nazionali», una pluralità di esperienze nella costruzione del socialismo, non solo possibile ma necessaria a interpretare e cogliere la ricchezza della nuova epoca. Sulla base di questo presupposto, nel mutato quadro internazionale, la classe operaia, in alcuni paesi capitalistici, può conquistare il potere avvalendosi di tutti gli spazi offerti dalla stessa «democrazia borghese» senza giungere alla «guerra civile». Il congresso non ha timore a usare l'espressione «via parlamentare al socialismo» espressione respinta con energia dal Partito comunista italiano, che — per evitare ogni fraintendimento — ribadisce la necessità di un intreccio indissolubile fra mobilitazione di massa e lotta nelle istituzioni. 1 Cfr. G. Mammarella, L'Italia dopo il fascismo 1943-1973, II Mulino, 1974, p. 379 e sgg; G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, Fetrinelli, 1971. 2 Cfr. Introduzione di L. Libertini a La sinistra e il controllo operaio, Libreria Feltrinelli, 1969. Indicativa del dibattito fra le varie anime della sinistra socialista la polemica Morandi-Lombardi all'indomani del XX congresso del Pcus. I testi sono riprodotti in Revisionismo socialista Antologia di testi 1955-1962, «Quaderni di Mondooperaio», 1975, a cura di G. Mughini pp. 3-18. 3 XX congresso del Pcus, Editori Riuniti, 1956, p. 12. 4 Ibidem, p. 40

3. L'indimenticabile '56

La relazione di Krusciov al XX congresso, pur contenendo molti riferimenti critici all'azione e alla linea di Stalin, non esplicita la condanna. Solo nella storica riunione riservata ai delegati è presentato il famoso «Rapporto segreto». A metà marzo sulla stampa internazionale appaiono le prime indiscrezioni; nel giugno il «New York Times» pubblicherà integralmente il rapporto. In Italia la notizia è prudentemente filtrata. Togliatti non ne parla nel comitato centrale del 13 marzo 1956. Su «l'Unità» del 18 marzo se ne dà comunicazione in modo scarno e con palese imbarazzo. Il consiglio nazionale del partito del 3 aprile concentra la sua attenzione sulle imminenti elezioni amministrative. Solo l'ultima parte della relazione di Togliatti affronta gli avvenimenti del XX congresso. Un silenzio che provoca numerose insoddisfazioni. Nella replica, Togliatti corregge la sua impostazione iniziale, ma si limita a inquadrare gli errori di Stalin nel clima fra le due guerre, definito «fosco e cupo segnato da lotte aspre per la vita e la morte» 7. Liniera sinistra è sconvolta. Novità di linea e crollo di un mito si intrecciano in un dibattito denso, fatto di momenti di sconcerto, crisi soggettive e incredulità. Entra in crisi un legame profondo, un combinato di illimitata fiducia e speranza con la storia dell'Urss e con il suo massimo dirigente. Il significato della democrazia socialista e i problemi connessi con l'edificazione dello stato socialista sono il nucleo centrale di una riflessione tesa a interpretare il senso profondo degli errori compiuti senza negare i successi, impegnata ad aprire una nuova pagina di lotta politica e di ricerca teorica. In questa ottica si spiega l'iniziale cautela di Togliatti nell'affrontare la questione di Stalin e la tendenza a privilegiare, invece, i temi strategici dell' assise di Mosca e nello stesso tempo a porre l'accento sui rischi della manovra che attorno alle rivelazioni di Krusciov ordivano i paesi imperialisti. Sulla natura di questo attacco, Pietro Ingrao scrive: «...puntò in primo luogo a colpire le ragioni stesse della rivoluzione d'ottobre, a cancellare il grande patrimonio accumulato dalla III Internazionale, a rivalutare la peggiore socialdemocrazia e a scavare nuovi fossati fra le forze di sinistra, tornando a spezzarle e a metterne l'una parte contro l'altra» 8.

Solo nel giugno, con l'intervista a «Nuovi argomenti» si squarciano definitivamente il velo di silenzio e le reticenze, si supera l'impostazione unicamente difensiva. Il documento togliattiano, esplicito nella critica al modo in cui il XX congresso ha affrontato la questione Stalin, rifiuta ogni visione riduttiva tendente ad attribuire tutto il male ai difetti personali di Stalin, per ricondurre l'attenzione del movimento operaio sui processi sociali e politici che sono stati alla base degli errori compiuti: «Sino a che ci si limita, in sostanza, a denunciare come causa di tutto i difetti personali di Stalin, si rimane nell'ambito del "culto della personalità". Prima tutto il bene era dovuto alle sovrumane possibilità di un uomo, ora tutto il male viene attribuito agli altrettanto gravi e, persino sbalorditivi, suoi difetti. Tanto in un caso quanto nell'altro siamo fuori dal criterio di giudizio che è proprio del marxismo» 9. Togliatti, insomma, cerca le ragioni di fondo delle degenerazioni. Il dibattito avviato su «Nuovi argomenti» trova una sua sistemazione conclusiva con l'VIII congresso del Pci (8-14 dicembre 1956), il congresso della via italiana al socialismo. I suoi contenuti strategici: le vie nazionali, il pluralismo, il nesso democrazia-socialismo, il rifiuto di ogni modello di stato socialista, la concezione delle alleanze sociali e politiche e della lotta di classe, saranno al centro della contestazione mossa da destra e da sinistra, dai nuovi riformisti e dai nuovi rivoluzionari. Nella critica si incontrano i nostalgici della dittatura del proletariato e coloro che accusano il Pci della sua storia, cioè di essere stato ed essere ancora ali'ombra dello Stato sovietico e di avere per questo sacrificato una coerente strategia e pratica rivoluzionaria. L' antirevisionismo unifica anime diverse del dibattito della sinistra, offre comuni referenti a un'area eterogenea. Diverse sono le ragioni della critica, diverse le motivazioni che guidano le polemiche, ma esse finiranno per convergere in una comune avversione al partito comunista. Agiranno come ulteriori detonatori: la Cina, prima con la rottura con l'Urss, poi con la Rivoluzione culturale; le varie sperimentazioni politiche e il significato catalizzatore del Sessantotto. Quella che dal Pci è considerata la piena espansione dei propri presupposti teorici e il solido ancoraggio alla specificità del caso italiano, per una generazione in cerca di certezze e influenzata da molteplici suggestioni culturali che spingono per una rottura drastica degli assetti esistenti, diventa una scelta interna alle regole del gioco, diventa connivenza col sistema. Con l'VIII congresso il Pci cerca di riaffermare la propria funzione storica e la sua identità, al tempo stesso di realizzare il necessario salto di qualità nella sua iniziativa. Trova conferma l'affermazione di Amendola, un partito «liberato» si proietta in un'analisi originale della specificità italiana. Ma lungo questa strada non mancheranno ritardi e incertezze, ne saranno una testimonianza il IX e il X congresso: l'asse portante del lavoro e dell'iniziativa diventano l'indagine e la ricognizione sulla situazione nazionale, le specificità dell' avanzata al socialismo nel paese. La parola d'ordine è: non rimanere «chiusi in se stessi». Non sarà facile,

sono passati pochi mesi dall'approvazione delle Dichiarazioni programmatiche dell'VIII congresso quando esplode il dramma ungherese. Un'altra sconfitta del socialismo. Non rituale l'ancorarsi di Togliatti, nella sua relazione al congresso, al ruolo nazionale della classe operaia: preme infatti ribadire i principi ispiratori che hanno guidato le scelte fondamentali del partito dalla svolta di Salerno in poi, ma anche compierne una rilettura per cercarvi gli elementi peculiari; indagare sulle ragioni dei ritardi e sconfìggere ogni presunta doppiezza, l'accusa, più volte mossa, di oscillazione fra volto legalitario e volto sovietista-rivoluzionario. Si riprendono, quindi, i temi del V congresso, le dichiarazioni, espresse già in sede di Assemblea costituente, sul valore che i comunisti hanno attribuito alla formazione della Repubblica e alla Costituzione repubblicana. La Dichiarazione programmatica approvata dalI'VIII congresso si pronuncia in modo inequivoco: «II partito comunista ha sin dal primo momento dichiarato che esso concepisce la Costituzione repubblicana non come un espediente per utilizzare gli strumenti della democrazia borghese fino al momento della insurrezione armata per la conquista dello Stato, e per la sua trasformazione in uno stato socialista, ma come un patto unitario, liberamente scelto dalla grande maggioranza del popolo italiano e posto a base dello sviluppo della vita nazionale per tutto un periodo storico» 10. Ma proprio questa aderenza alla storia repubblicana e all'approdo costituzionale, contro ogni doppiezza o reticenza interna, sarà, per i critici del revisionismo, legalitarismo democratico. In sintonia con la linea della «coesistenza pacifica» avanzata dall'Unione Sovietica, il congresso fa propria e arricchisce la formulazione «delle vie nazionali». «Accettato senza riserve e sottintesi» il metodo democratico, in Italia «l'obiettivo è quello di battersi per la prospettiva di una nuova democrazia progressiva». Un nesso indissolubile lega fra loro democrazia e socialismo e solo garantendo la piena funzionalità del sistema democratico è possibile la costruzione del socialismo. Nel suo rapporto, Togliatti precisa che non si tratta di nessuna revisione di principi: «... alla classe operaia e al popolo si apre il compito storico di procedere alla costruzione del socialismo seguendo una via nuova rispetto al modo come si è realizzata la dittatura del proletariato in altri paesi, attuando la dirczione indispensabile della classe operaia attraverso alleanze e nuove collaborazioni, col rispetto del metodo democratico, spezzando le resistenze e le insidie dei nemici della libertà e del progresso sociale con la forza irresistibile di un popolo intero di lavoratori in marcia verso la loro emancipazione e redenzione completa. In queste affermazioni non è contenuta nessuna revisione dei nostri principi. La dittatura del proletariato, cioè la dirczione politica da parte della

classe operaia della società socialista, è una necessità storica. Ma già Lenin dopo aver affermato che è inevitabile che tutte le nazioni vengano al socialismo, aveva aggiunto che "non tutte vi verranno allo stesso modo". Ciascuna di esse avrà le sue particolari forme nella democrazia, come nella varietà delle forme della dittatura del proletariato, e nella maggiore e minore rapidità con cui riorganizzerà socialisticamente i diversi aspetti della vita sociale» 11. Dunque per il Pci si tratta di valorizzare, sulla base delle scelte operate già nel corso della Resistenza, il ruolo di protagonista della classe operaia nella battaglia per la democrazia, e su questa strada dare una risposta politica ai molteplici interrogativi, che si sono aperti sul carattere della democrazia socialista. Gli avvenimenti politici che si susseguono nel 1956 sono di sconvolgente portata: i drammatici fatti di Polonia e di Ungheria, la crisi di Suez con l'aggressione anglofrancese ali' Egitto. In Italia: le contrastate elezioni amministrative, la crisi sempre più manifesta del centrismo, rincontro di Pralognan tra Nenni e Saragat e la fine del patto di unità d'azione fra socialisti e comunisti, l'avvio del processo di unificazione del Psi col Psdi. È un anno cruciale: Ingrao lo definirà «l'indimenticabile 1956».

4. Le occasioni mancate

Nonostante i richiami alla propria tradizione, la «continuità» del Pci è messa a dura prova. La «svolta» dell'VIII congresso porta con sé una forte battaglia politica interna, la sua affermazione è impensabile senza la sconfitta di vecchie concezioni, un'azione che si scontra con resistenze inconscie, con emozioni e residui di dogmatismo. Inizia un nuovo ciclo della storia del Pci. Alla pressante richiesta di accelerare il rinnovamento e la revisione fa da contrappunto l'eccessiva prudenza. Forti le tensioni fra gli intellettuali, un rapporto già difficile negli anni passati, che gli eventi sovietici e ancor più quelli ungheresi rendono aspro. Occorre portare tutto il partito verso il «rinnovamento». Scrive Mauro Scoccimarro, allora presidente della commissione centrale di controllo: «Si tratta, in sostanza, di rielaborare e precisare l'orientamento ideologico e le posizioni programmatiche del partito, le sue direttive politiche ed i suoi criteri organizzativi e conscguentemente di adeguarvi i metodi di lavoro e gli strumenti di azione, l'attività esterna e la vita interna: vi sono vecchie posizioni da abbandonare, errori da correggere, scorie da eliminare, incertezze e confusioni da chiarire e superare. Sarà così possibile dare a tutto il partito la coscienza degli elementi nuovi della situazione, dei processi di rinnovamento in corso e delle loro tendenze di sviluppo e quindi una maggiore capacità di inserirvi l'azione consapevole delle più larghe masse popolari, e di dare una spinta ad un orientamento in direzione degli obiettivi che si pongono sulla strada di una trasformazione democratica e socialista della società italiana»1 . Giorgio Amendola nella sua Intervista sul rinnovamento descriverà, con la passione che gli è propria, la lotta contro il settarismo e lo stalinismo che permeavano l'organizzazione comunista 2. Spetta a lui sostituire alla guida dell'organizzazione, un punto chiave nel vertice del partito, Pietro Secchia, «L'uomo che sognava la lotta armata» per usare il titolo di un noto libro di Miriam Mafai. Nel Pci avanza una nuova leva di quadri dirigenti. Il mito di Stalin non è facile da sradicare. Dietro quel mito la logica della resa dei conti, della risoluzione finale, della «presa del potere» contro 1 odiato e potente capitalismo. Dietro quel mito una realtà: il paese dove il socialismo si era realizzato. Condannando Stalin e scegliendo la coesistenza pacifica l'Urss sembrava perdere il suo ruolo di grande retrovia della rivoluzione. Al revisionismo sovietico si oppone la Cina di Mao, il paese che rimane attestato ai principi della dittatura del proletariato.

Interpreti del neostalinismo saranno i gruppi «filocinesi», i garanti delle «verità irrefutabili», del marxismo «trattino» leninismo. Il loro richiamarsi a Stalin è acritico, strumentale e propagandistico. Fa leva sui sentimenti che quel nome evoca e suscita per conquistare il consenso di quelli che vengono definiti i «sinceri militanti del Pci». La riedizione dello stalinismo trova nuovi adepti; all'insegna della sua autorevolezza si semplifica la prospettiva rivoluzionaria e si legittima la polemica contro il «revisionismo», un tradimento perpetrato per un'indefinita «via italiana al socialismo», una variante della collaborazione di classe. Ad essa si contrappongono il partito avanguardia di bordighiana memoria, la purezza degli ideali rivoluzionari contro la politica ridotta a tattica delle alleanze, la lotta armata contro il pacifismo piccolo-borghese. Ai critici del rovesciamento teorico del Pci solo apparentemente si oppongono gli anti stalinisti che lo accusano di eccessiva timidezza nel suo processo di autonomia e di mantenere sotto diverse forme la sostanza del passato. Per entrambi la sinistra storica sembra essere inesorabilmente condannata alla scelta fra revisionismo comunista e riformismo socialista, due versioni dello stesso rifiuto strategico della rivoluzione. I fatti d'Ungheria e di Polonia, nell'inverno '56, sono un'ulteriore prova dei guasti del regime dell'Urss, un paese del socialismo che soffoca col sangue dei patrioti le giuste esigenze di libertà. Ormai le «ombre» del XX congresso prevalgono sulle «luci». Il Psi accelera il suo mutamento di campo. Nenni utilizza fino in fondo gli elementi di sbandamento e di sdegno emotivo. Nella posizione del leader socialista si accentuano i toni liberaleggianti per sminuire il confronto con la crudezza del dato storico, il necessario rinnovamento dell'Urss si limita ai temi della libertà mettendo in secondo piano il valore e il destino della rivoluzione d'ottobre. La sinistra socialista trova nella destalinizzazione e nella crisi del modello sovietico l'occasione per riprendere il dibattito sulla qualità della democrazia socialista. Non vuole rimanere schiacciata fra riformismo e revisionismo e al tempo stesso non può riprecipitare nell'orbita del Pci, il partito che ha condiviso e ha la sua parte di responsabilità negli errori di tutto il movimento operaio internazionale. Andare alla radice di quegli errori significa riconsiderare tutta l'esperienza del passato, tornare su nodi teorici che solo l'autorità del «faro» sovietico aveva fatto accantonare. Ciò vale sia sul piano internazionale che sul piano interno. Tornano, con bruciante attualità, le polemiche sulla Resistenza e sui suoi sviluppi. Da sponde diverse la stessa domanda: era possibile tramutare quell'occasione della storia in una rivoluzione socialista? Le risposte sono solo apparentemente in contraddizione. Per i nostalgici della dittatura del proletariato era stato quello il segnale di un primo tradimento, un deporre le armi per la democrazia parlamentare; poi erano seguite altre capitolazioni: un esempio clamoroso la condotta dopo l'attentato a Togliatti. Convergente nella critica ma di segno

opposto l'analisi della sinistra socialista: la politica di potenza dell'Urss aveva frenato e condizionato questa possibilità. In difesa di uno stato socialista si poteva giustificare l'adesione del Pci e del movimento operaio a quella divisione dell'Europa in sfere di influenza, sancita dalle grandi potenze a Yalta alla fine della seconda guerra mondiale ma, saltato il giudizio sull'Urss, venivano meno le cosidette «condizioni oggettive» degli scenari post-bellici. Per quel quadro di riferimento quante occasioni rivoluzionarie si erano perse? Per entrambi dal riconoscimento del ruolo dell' Urss derivava il tatticismo togliattiano che vi sacrificava ogni soggettività e potenzialità delle masse. La difesa del primo paese socialista e la sua ragion di stato avevano dato valore anche alla rinuncia temporanea della mitica scadenza rivoluzionaria. Eppure erano state queste le coordinate che avevano consentito il superamento delle divisioni fra comunisti e socialisti sul rapporto fra unità nazionale e prospettiva del socialismo. Nello stesso Pci, Togliatti aveva unificato linee, sconfitto gli estremisti di «Bandiera rossa», gli operaisti, gli anarchici, ricondotto a unità i vari centri di dirczione con l'autorevolezza e il carisma che gli derivava dall'essere stato un capo del movimento operaio internazionale e un uomo della III Internazionale. Sono evocazioni di un passato non lontano in quegli anni. Non era metodologica la polemica sul «sostituire gli ordini dall' alto alle esperienze dal basso», ma implicava una concezione che, alla luce delle novità, sembrava antesignana di un'autentica via nazionale al socialismo direttamente legata alla democrazia popolare. Non è casuale che le Tesi sul controllo operaio di Raniero Panzieri affronteranno in primo luogo il problema del passaggio dal capitalismo al socialismo. Nel mutarsi delle condizioni la questione si riproponeva. Le divergenze non erano tattiche ma andavano al cuore del giudizio sul capitalismo e sulle sorti del socialismo. La «democrazia progressiva» di Togliatti e la «democrazia socialista» erano due diversi modi di affrontare il quesito e di avviare il nuovo progetto di società. La natura dei rapporti internazionali e delle forze politiche post-resistenziali aveva portato i comunisti a scegliere l'unità nazionale da cui era nata la Repubblica costituzionale, ma questa ipotesi sembrava subire una sconfitta di fronte ali' involuzione della De e al sopravvento delle forze reazionarie. La linea seguita dal Pci perdeva la sua credibilità; lo stretto legame con l'Urss, una delle sue principali ragioni di autorevolezza veniva meno, anzi, proprio quell'identificazione rendeva legittimo l'interrogarsi su altre strategie. La rottura dell'unità nazionale, il centrismo, infine la divisione della sinistra, lo «stato democratico» della reazione e del padronato aveva prevalso con le sue insidie parlamentari e legalitarie. Scriverà Lelio Basso in un suo articolo del '65: «Le parole d'ordine del Pci riguardarono soltanto l'unità dei paesi con tutti gli antifascisti e da non turbare per nessun motivo e la necessità di concentrare ogni sforzo nel vincere la guerra, lasciando da parte qualsiasi altro obiettivo, tanto che non si poteva neppure parlare della lotta di classe perché ciò avrebbe turbato l'unità antifascista»3 .

Nel riemergere di temi come la funzione dei Comitati di liberazione nazionale, dei Consigli di gestione, il significato della mobilitazione dal «basso», la lotta armata, si insiste sul ruolo della classe operaia e della sua politica d'unità: portare a compimento la seconda tappa della rivoluzione antifascista, quindi completare la rivoluzione democratico-borghese, o tagliare corto e realizzare la rivoluzione socialista. Tornare a quel crocevia della storia, mettendolo radicalmente in discussione è anche un modo per contrastare il riformismo senza perdere di vista il bisogno di nuove libertà, un modo per non dichiarare ormai inevitabile la supremazia della II Internazionale e della socialdemocrazia. L'incontro NenniSaragat a Pralognan appare come la sanzione di questa capitolazione; questa è la china dello slittamento del Psi, un rischio da cui lo stesso Pci non è immune. La tradizionale sinistra è tutta in rimescolamento, contraddizioni, divergenze, polemiche e rotture la attraversano obliquamente. Alla luce di ciò l'ipotesi di Raniero Panzieri di una generale «rifondazione» della sinistra. Un filo diretto lega la sua elaborazione a Rodolfo Morandi, riprende spunti e temi che l'appiattimento sull' Urss ha compresso. Esasperare i termini di questa comunanza sarebbe fuorviante, tuttavia continuità e attenzione al nuovo si combinano in una ricerca ricca di sollecitazioni, tutta proiettata a indagare il moderno ciclo economico e gli effetti delle dinamiche capitalistiche nella grande fabbrica e nella società.

1 M. Scoccimarro,Ideologia e politica. Editori Riuniti, 1960. 2 G. Amendola, II rinnovamento del Pci, intervista di R. Nicolai, Editori Riuniti, 1978. 3 L. Basso, II rapporto tra rivoluzione democratica e rivoluzione socialista nella Resistenza, «Critica marxista» n. 4, aprile 1965.

5. Tra centro-sinistra e rifondazione della sinistra

Occorre dare un volto nuovo al socialismo senza perdere la prospettiva rivoluzionaria. La strada scelta dall'Urss, nel periodo staliniano, non ha garantito la supremazia del comunismo sul capitalismo, la statualità e il terrore hanno soffocato l'accesso delle masse al potere, fatto tacere le minoranze e annullato ogni dissenso. Nuovi autoritarismi si sono sostituiti ai vecchi domini. Tutto il patrimonio del leninismo, senza scomuniche e senza fìdeismi, si deve riesplorare. A chi si ancora al mito, alle certezze dello stato guida, la sinistra socialista contrappone la sperimentazione di vie totalmente nuove, l'appello alla spontaneità delle masse per liberarle in un progetto più umano di rivoluzione. La sfida è inventare, esplorare nuove condizioni per una rivoluzione moderna, capace di coniugare la partecipazione al potere della classe operaia ad una nuova concezione della democrazia e della libertà, di essere all'altezza della sfida capitalistica e delle sue più sofisticate tecniche di consenso e sfruttamento 1. Se per i militanti operai il distacco dai rispettivi partiti è più difficile, (anche nei momenti più drammatici infatti rimane la fiducia nell'organizzazione e nei suoi uomini), ciò varrà in particolare per il Pci; diverso sarà l'atteggiamento di intellettuali e nuovi quadri. Per altro la stessa struttura dei partiti, e molti episodi lo confermeranno, sarà un ostacolo al pieno e libero confronto e al pluralismo delle posizioni . In questa ricerca, tra il ritorno alle origini del marxismo e la tensione verso una moderna concezione rivoluzionaria, riaffiorano suggestioni di quell'estremismo smantellato e parzialmente cooptato dal Pci nei primi anni della guerra di liberazione. Proprio quella «svolta» di Salerno che tornava a fare discutere, era stata l'apice della lotta politica a sinistra: «contro i gruppi troskisti, contro il massimalismo parolaio, l'anarchismo e il settarismo e contro i residui della loro influenza nel movimento operaio» e con la loro sconfìtta «furono gettate le basi del partito nuovo e fu affermata la ricerca di una via italiana al socialismo» ". Nell'interrogarsi sul passato e sul presente, il dubbio dell' errore fa tornare alla ribalta spunti minoritari allora sconfitti, rivitalizza lo stesso troskismo, non tanto come corrente organizzata, quanto come forma e cultura del dissenso a sinistra. Il crollo del mito di Stalin concorre a far crescere questa attenzione. Troskismo, nella semplificazione che si opera, assume il significato di opposizione alla linea ufficiale e tale rimarrà nella metamorfosi del nuovo estremismo, uno zibaldone in cui si ritrovano in modo spurio nuovi stalinismi e coerenti derivazioni del pensiero del grande antagonista di Stalin.

La polemica fra Pci e Psi diviene molto aspra. Il patto d'unità di azione, su proposta dei socialisti, si trasforma in patto di consultazione nel 1956 e sarà rotto definitivamente dopo i fatti d'Ungheria. Già nel congresso socialista del 1955 si era parlato di «svolta a sinistra», cioè di una convergenza con la Dc che, pur non includendo nell'area governativa il Pci, non fosse tale da provocare una rottura. Nel notissimo Luci ed ombre del congresso di Mosca, articolo apparso su «Mondo operaio» a commento del rinnovamento sovietico, Nenni esplicita ulteriormente l'apertura di credito alla Dc e la necessità dell' entrata al governo del Psi 2. Un disegno politico che troverà la sua definitiva sanzione, diventando linea di maggioranza, con il XXXII congresso (Venezia, 6-10 febbraio 1957). Togliatti dalla tribuna dell' VIII congresso polemizza con il nuovo corso socialista e in particolare critica 1'enfatizzazione di uno sviluppo della democrazia tale da annullare la lotta al capitalismo. Ormai nel Psi avanzano concezioni di tipo socialdemocratico, in particolare quella della «neutralità dello stato». Il problema centrale diviene la graduale conquista delle riforme sociali. L'erronea valutazione della fase capitalistica porta a sopravalutare le possibilità di superare gli antichi squilibri, a illudersi sulla disponibilità del sistema a realizzare nuove e migliori condizioni di vita per le classi lavoratrici italiane. I vari segnali non sfuggono alla Dc. Fanfani al consiglio nazionale (Vallombrosa, 13-14 luglio 1957) sottolinea in termini positivi il ruolo della socialdemocrazia europea; oltre alla prospettiva politica sono evidenti gli obiettivi elettorali della Dc: battere i comunisti, contenere i socialisti, ottenere la maggioranza assoluta. Il risultato elettorale non va in questa dirczione, l'aumento della De si accompagna ad un forte incremento del Psi e alla sostanziale tenuta del Pci. La situazione politica è in movimento: inizia l'altalena delle formule. Dalla prima proposta, una coalizione Dc-Psdi-Pri avanzata da Fanfani, si approda a un governo Dc-Psdi con 1' «astensione critica» dei repubblicani, sostenitori dell'«apertura ai socialisti». È la fase della «delimitazione della maggioranza». I socialisti, perseguendo il disegno di entrare nell'area di governo, non escludono l'assenso a singoli provvedimenti di legge. Vivaci polemiche attraversano la Dc, si arriva alle dimissioni di Fanfani da presidente del Consiglio e da segretario del partito. Spaccato dalla crisi interna, si svolge il VII congresso della Dc (Firenze, 23-28 ottobre 1959): sui lavori congressuali pesa il crescente movimento di lotta. Stanno maturando le condizioni per il centro-sinistra; per renderlo attualità politica mancano ancora alcuni tasselli. Per la maggioranza del Psi il congresso democristiano di Firenze, un «congresso nuovo» come viene definito, rappresenta un passo avanti nel dialogo fra i due partiti e per avviare più solidi presupposti per la loro collaborazione governativa. In questo quadro la pubblicazione delle Sette tesi sul controllo operaio, un documento anticipatore di molti temi che ritroveremo nella gruppettistica, in special modo in tutto il filone operaistico; esso nasce come strumento precongressuale della sinistra prima del congresso socialista di Napoli, e ha come

obiettivo politico immediato quello di impedire lo spostamento del Psi nel? area governativa, con tutte le implicazioni che ciò avrebbe comportato. Nello scritto di Panzieri e Libertini prevale il senso di una «ricerca critica», la cui ambizione è una generale «rifondazione della strategia del movimento operaio». Un processo di rinnovamento del movimento operaio che muove da una duplice esigenza «come restituzione del metodo marxista ai suoi termini originari e come riconferma di alcuni principi fondamentali del socialismo»; e quindi capace di tradurre il «dissolvimento della cristallizzazione dogmatica della strategia» in un «arricchimento qualitativo del metodo stesso e dei suoi risultati». Nasce da questa necessità una lettura originale, densa di un nuovo ideologismo, tesa alla ricerca di un nuovo modello di potere socialista, insofferente verso la partitocrazia e più attento al dato soggettivo e sociologico. È l'ambizioso auspicio di una rifondazione teorica, possibile solo facendo compiere una profonda autocritica alle organizzazioni tradizionali della classe operaia, allo scopo di liquidare «le conseguenze delle doppiezze e reticenze di cui la crisi dello stalinismo doveva mettere in luce spieiatamente l'ampiezza delle dimensioni e la gravita delle implicazioni». È una rifondazione che vorrebbe rispondere alla crisi apertasi dopo il XX congresso del Pcus avventurandosi in una rilettura globale sia dell'esperienza socialista che delle scelte operate dal Pci. Una problematicità resa inevitabile dalla tragica vicenda dell'Urss e imposta dalla mutazione capitalistica. La cultura della sinistra tradizionale, sia pure nelle sue storiche differenze, non appare adeguata, priva di un'idea di trasformazione alternativa, oscilla fra la ricerca di nuovi equilibri politici del Psi e la gradualista democrazia progressiva togliattiana, due tesi entrambe arretrate rispetto all'ammodernamento in atto nel paese e troppo influenzate dalla presunta aumentata capacità riformistica del capitalismo. Siamo ancora nell'ambito di un dibattito interno ai partiti operai, tuttavia il documento ha già una sua organicità alternativa. Criticata la concezione secondo cui al proletariato spetta il compimento della democrazia borghese, si approda a una prospettiva di «democrazia operaia» contrapposta alla «via democratica al socialismo». Al fondo e'è una lettura dei caratteri della società italiana, del suo capitalismo e della funzione attribuita alla classe operaia nella battaglia per la trasformazione diametralmente opposta a quelle del Pci e del Psi. Le condizioni della formazione dello stato costituzionale, sostengono le Tesi, vanno riconsiderate. Le posizioni morandiane sulla democrazia diretta, sullo Stato, sulla concezione del partito, appaiono premonitrici. La critica alle degenerazioni burocrati-che si estende al partito stesso, visto come pericoloso veicolo di totalitarismo e di accentramento a fronte dell' enorme potenzialità rivoluzionaria delle masse, ostacolo al dispiegarsi di una democrazia diffusa e del nuovo protagonismo sociale che avanza. Al centro della nuova strategia rivoluzionaria, il documento di Panzieri e Libertini pone il «controllo operaio». E l'alternativa al partito burocratizzato e istituzionalizzato, ormai incapace di liberare tutte le energie della classe, di esprimerne le esigenze. In una società in cui il modello

della fabbrica tende a organizzare tutto il sociale, la sfera del «controllo» è quella produttiva. Il Pci non si oppone alla nascita di autonomi strumenti della classe operaia nella sfera della produzione, ma contesta la loro contrapposizione al partito, una separazione che avrebbe come conseguenza l'inevitabile scissione tra politica ed economia. Non si tratta, replicano ancora i comunisti, solo di «organizzare in modo razionale le forze produttive», ma di compiere un processo politico che entri nel vivo della società civile. In una società in cui i rapporti di produzione divengono politici e giuridici e non si limitano alla fabbrica, il partito rimane lo strumento fondamentale dell'azione politica, il mezzo attraverso il quale la classe operaia diventa soggetto di un generale rinnovamento (economico, politico, morale). Nella peculiarità della situazione italiana il «rifiuto di ogni concezione partitica» in «omaggio» a una generica «nuova concezione della lotta politica» porterebbe — sostiene il Pci — solo al decadimento dei caratteri della storia del movimento operaio nel nostro paese. La questione partito è ormai aperta, l'altra faccia della crisi della sinistra storica, la formazione politica di una nuova generazione avverrà in molte forme, le caratterizza la stessa ambizione: reinventare l'intera sinistra. Il partito «verità» è lasciato ai neostalinisti del Pcd'I, per gli altri il gruppo, la rivista, l'entrismo, il movimento saranno altrettanti banchi di prova di una nuova milizia politica. La dialettica partito-movimento svilupperà un alternarsi di scelte, un contraddirsi di posizioni; formerà nel suo procedere la trama della storia organizzativa del nuovo estremismo. Il dibattito si concluderà bruscamente dopo il congresso di Napoli: Raniero Panzieri uscirà dal Psi e darà vita ai «Quaderni rossi», Lucio Libertini sarà tra i fondatori del Psiup, e «dopo il suo scioglimento confluirà nel Pci. Il tentativo di spostare il Psi è fallito, il coinvolgimento delle forze di sinistra non si è realizzato, continuare la discussione sarebbe un'esercitazione accademica. La sinistra è più divisa di prima, ma la fine del dibattito non chiude il problema della sua rifondazione.

1 P. Ingrao, La democrazìa interna, l'unità e la politica dei comunisti, «Rinascita», n. 5/6, maggio-giugno 1956. 2 «Mondo operaio», n. 3, marzo 1956.

6. Dalla riscossa operaia al luglio sessanta

Le Tesi e il dibattito sul controllo operaio sono già interni alla ripresa delle lotte di fabbrica. La sconfìtta della Cgil alla Fiat nel '55 ha pesato come un macigno sul movimento operaio. Per qualcuno la stasi che ne è seguita e il prevalere di una nuova fase tecnologica e manageriale, sono altrettanti indicatori del bisogno e della possibilità del riformismo. Nenni si spinge ad affermare che ormai le masse sono «stanche» di lottare. E invece inizia una ripresa delle lotte lenta e difficile fino al 1960, quando alla II conferenza operaia del Pci Amendola può affermare che: «II contrasto tra la spinta progressista della classe operaia e del popolo italiano e i tentativi di controffensiva dei ceti padronali ubriacati dai successi del miracolo economico, si è fatto più acuto ed ha assunto, in alcuni momenti, aspetti drammatici» 1. Una ripresa della conflittualità sociale che sembra smentire nei fatti il gradualismo socialista. Molte le ragioni del difficile avvio, in primo luogo i mutamenti intervenuti nella composizione della classe operaia. Si è in presenza di una nuova generazione operaia, per lo più di provenienza contadina, con scarsa esperienza di lotta, con nessuna tradizione sindacale, con una presenza crescente delle masse femminili. Si avvia, non senza problemi, un confronto fra esperienze, generazioni, livelli di consapevolezza politica diversi; un processo di avanzamento generale che si maturerà e si arricchirà nelle lotte e che impegnerà in modo nuovo i partiti della sinistra e il movimento sindacale. L'inadeguatezza del tradizionale quadro sindacale e politico di fabbrica, la rottura dell' unità della sinistra, le vicende del XX congresso del Pcus, le questioni internazionali sono gli ostacoli da superare per un pieno rilancio della lotta di fabbrica 2. Progressivamente una qualità nuova si esprime nelle lotte: una maggiore combattività, nuove forme di lotta (scioperi a oltranza, picchettaggio, assemblea di fabbrica) un carattere più avanzato delle rivendicazioni. Nel settembre 1960 inizia a Milano un'agitazione operaia che vedrà gli elettromeccanici in lotta ed in sciopero per circa 6 mesi. Scioperi e lotte dure. Picchetti con sassaiole contro i crumiri. Occupazione degli snodi tramviari di piazza del Duomo, con ovvio blocco della circolazione per quasi tutti i giovedì di questi sei mesi. Piccole, medie e grandi fabbriche unite dalle quasi botteghe artigianali alla Geloso e alla Face-Standard. Giovani operaie e operai provenienti dall'hinterland e dalla campagna, non politicizzati ne sindacalizzati non chiedevano più salario ne più lavoro. In un'Italia ancora povera, quella delle gabbie salariali, della disoccupazione e dell'emigrazione, una nuova composizione

di classe chiedeva di poter vivere senza essere obbligata a fare gli straordinari, in sostanza chiedeva di lavorare meno. Non ci si limita più a rivendicare partecipazione ai profitti di congiuntura, attraverso l'aumento delle retribuzioni: al centro delle vertenze c'è la vita stessa della fabbrica, l'organizzazione e la qualità del lavoro (tempi, organici, qualifiche, ambiente). Le giovani generazioni operaie pongono con forza le questioni dell' orario, della qualificazione del lavoro, del tempo libero e del loro ruolo nella società. Anche se i rapporti fra Pci e Psi restano difficili, una grande volontà unitaria anima i lavoratori; comunisti, socialisti e cattolici si trovano insieme nel costruire le condizioni di quest'esaltante stagione di lotta. Difficoltà e ritardi caratterizzano tuttavia questa fase: essi appartengono alla storia del movimento operaio, dei suoi partiti, del sindacato. Dagli «ambigui anni '50» si passa ai rinnovi contrattuali del '62, si apre la stagione di lotta che porterà all'autunno caldo, quando avverrà una radicale trasformazione dell' organizzazione sindacale. Le giornate del luglio '60 sono un punto alto della consapevolezza operaia, l'occasione in cui, con un'espressione togliattiana, la nuova classe operaia diventa classe dirigente, punto di riferimento nazionale in una nuova stagione di lotta antifascista. Fallisce il disegno di «addormentare» la classe operaia e di integrarla nel sistema. Nel corso di questo processo, tuttavia si manifestano critiche ali' iniziativa del sindacato, alle sue analisi, alle sue scelte e forme di lotta, si producono scollamenti fra comportamenti sociali e dialettica politico-sindacale. Al rinnovamento del capitalismo italiano si accompagna una diffusa apologia dell'industrializzazione, del valore del neo-capitalismo. Consumismo, miti, falsi bisogni sono propagandati con un fitto bombardamento dei mass-media, la nascente società dell'informazione esalta la società del «miracolo economico». Nascono all'interno delle forze di sinistra due interpretazioni. Da un lato e'è la convinzione che il capitalismo italiano, superate le sue angustie, sia ormai in grado di portare a soluzione i nodi centrali della società italiana, operando quel complesso d'interventi definito come «riforme». È in questo quadro che si considera risolutiva l'entrata dei socialisti nel governo di centro-sinistra. Per altro verso, si giunge a conclusioni opposte: si attribuisce al capitalismo la capacità di operare le riforme, ma si vede questa capacità come un disegno delle classi dominanti per ingabbiare la classe operaia nel sistema borghese. E in sostanza la visione di un capitalismo capace di sanare le sue contraddizioni interne, e di assorbire la stessa lotta di classe. Da parte sua il Pci combatte entrambe queste impostazioni aggiornando la linea scaturita dall' Vili congresso e approdando, con il IX congresso, a una maggiore puntualizzazione della tesi del capitalismo monopolistico di stato, a cui oppone la lotta per le riforme di struttura. Emblematicamente nel Pci esplode in quel momento il caso Giolitti. I dubbi e le riserve che aveva suscitato il suo intervento all'VIII congresso si accresceranno in seguito alla pubblicazione del suo libro Riforme e rivoluzione. Sulle pagine di

«Rinascita» è lo stesso Togliatti a polemizzare con Antonio Giolitti, che uscirà dal partito nel luglio del '57, mentre il Psi prepara il suo XXXIII congresso3. Il dibattito sul «riformismo» riflette le dinamiche del paese, un confronto fra i nuovi processi di ammodernamento tecnologico e il sorgere di nuove tensioni sociali che esprime il disagio di un movimento operaio incerto sulla prospettiva, di una sinistra in cerca di identità. La lotta contro la «legge truffa» del '53 era stato un episodio esaltante, aveva segnato la sconfitta della Dc e delle forze reazionarie, eppure la sinistra non era riuscita a volgerla in una sua consolidata vittoria. Al contrario erano seguiti: la stagnazione del movimento, momenti di sconfitta, l'accelerarsi di divisioni strategiche, l'incombere di drammatiche vicende internazionali. L'analisi della situazione economica è al centro di un intenso dibattito; le questioni sono la natura dello sviluppo, le sue prospettive, la necessità di una programmazione democratica, il valore della «politica di riforme». Un momento importante di questa riflessione sarà il convegno sulle «Tendenze del capitalismo italiano», promosso dall'Istituto Gramsci nel 1962. Se il «riformismo» socialista sopravaluta la possibilità di risolvere in modo indolore le contraddizioni strutturali del paese, per costruire sulle «cose» un nuovo schieramento politico senza ' rompere con i comunisti e collaborando con la Dc. Per i comunisti solo con un'ampia lotta di massa si può costringere il monopolismo di Stato a nuovi indirizzi economici, solo le lotte possono strappare un adeguato programma di riforme e determinare le concrete condizioni di una nuova maggioranza governativa. In questa prospettiva la lotta per le riforme deve investire le radici della struttura capitalistica e del regime monopolistico, e può assumere un valore rivoluzionario nel suo intreccio con la più generale battaglia per un mutamento complessivo della dirczione politica del paese. Nel suo rapporto al IX congresso (30 gennaio-4 febbraio 1960), Togliatti esplicita la necessità di una lotta rigorosa contro posizioni di cedimento ideologico che si manifestano all'interno del partito, contesta duramente l'illusione socialista di considerare ormai acquisiti al rispetto della democrazia i gruppi dirigenti della borghesia. Siamo nel gennaio 1960 pochi mesi ci separano dal tentativo autoritario di Tambroni. I propositi fanfaniani di una Dc maggioranza assoluta sono falliti con le elezioni del maggio '58. Risultati vani i tentativi di costruire formazioni di governo apertamente rivolte a destra, aumentano le difficoltà della democrazia cristiana, al cui interno avanzano le spinte per una inversione di rotta. Togliatti lancia un energico appello per una lotta di massa unitaria contro ogni tentativo reazionario e conservatore, per sbloccare l'inerzia della situazione politica, uscire dallo stallo e dare al governo del paese una soluzione avanzata. C'era stato De Gasperi, c'era stato Scelba, c'era stato Fanfani, poi Tambroni, ma, aggiunge Togliatti: «...quest'opera di contraffazione e compressione reazionaria della vita politica e civile non è riuscita a sopprimere il potenziale democratico e di progresso della democrazia, che parte dalla coscienza, dalle aspirazioni, dalle

rivendicazioni attuali, economiche, politiche, culturali e sociali della maggioranza della popolazione»4 20. Tutto questo mentre l'anticomunismo tradizionale è in crisi e avanza il processo internazionale di distensione; sul piano interno cresce in modo irreversibile il divario fra i problemi della società e la risposta delle classi dirigenti evidenzia la crisi del logoro anticomunismo. Di fronte ai pericoli di una soluzione reazionaria, il Pci propone una «nuova maggioranza» rivolta a tutte le forze democratiche, sollecitando le stesse forze cattoliche insofferenti per l'antico integralismo a superare la «discriminazione anticomunista». Una prospettiva che va costruita sviluppando il massimo di rapporti unitari fra le forze politiche; un'unità all'insegna dei grandi temi della pace, della lotta anticolonialista, della democrazia, della salvaguardia della Costituzione, delle questioni strutturali come: la scuola, la riforma agraria, la riforma industriale e l'emancipazione femminile. Il governo presieduto da Antonio Segni si dimette il 20 febbraio 1960; lo fanno cadere i liberali: loro scopo politico è ottenere dalla Dc una definizione netta del suo orientamento, riportandola nell'area di centro. Il Pli cerca di sfruttare — così — le contraddizioni di una Dc divisa fra una sinistra che avverte l'urgenza dell'apertura del dialogo con il Psi, e una destra alleata con la parte più retriva delle gerarchle ecclesiastiche. Per risolvere la crisi, l'ipotesi di Moro è un governo monocolore appoggiato dal Pri, dal Psdi e con l'astensione socialista. Aspra la controffensiva delle forze reazionarie e conservatrici presenti nel mondo laico e nel mondo cattolico. Scende in campo la Confindustria, sollecitata dalla industria elettrica privata che teme la nazionalizzazione voluta dal Psi; forti pressioni vengono dalla Coldiretti. Energica è l'opposizione dei circoli ecclesiastici, l'Azione cattolica rifiuta drasticamente ogni eventuale appoggio socialista 5. Le varie pressioni ottengono la rinuncia di Segni a ogni proposito di formare un nuovo governo. La proposta di Moro — che giudica inopportuno l'appoggio della destra — è un governo d'affari democristiano disposto ad accettare il contributo di tutti i partiti tranne quello comunista. Gronchi incarica Fernando Tambroni. Nel voto alla Camera dell'8 aprile del 1960, il governo riceve la fiducia: 300 voti a favore 293 contrari. Per la prima volta dalla costituzione della Repubblica, i fascisti esercitano un ruolo determinante. La sinistra democristiana si ribella a questa convergenza, inizia la catena di dimissioni dei ministri (Pastore, Sullo, Bo). L'11 aprile Tambroni presenta le dimissioni del governo. Pesanti ingerenze della Chiesa inducono Gronchi a respingere le dimissioni. È di quei giorni l'articolo non firmato, attribuito a Siri o ad Ottaviani, apparso sull'«Osservatore romano» con il titolo Principi basilari. Sostiene il diritto della Chiesa a emanare direttive politiche: «Il cattolico non può mai trascurare l'insegnamento e le istruzioni della Chiesa. In ogni occasione della sua condotta privata e pubblica sulle direttive e le istruzioni della gerarchia». Nel breve periodo della sua durata, il governo Tambroni porta avanti un tentativo autoritario a cui si oppone un largo schieramento di popolo, scendono in piazza

numerosi giovani, quelli delle «magliette a strisce», un grande movimento democratico e antifascista che si riunisce attorno a quegli strumenti di lotta che furono i Consigli della Resistenza. Nel maggio 1960, anche per effetto delle correzioni operate col V congresso Cgil, aumentano le agitazioni sindacali. Forte la repressione poliziesca: incidenti a Bologna, la polizia spara a Palermo. Il Msi annuncia la decisione di svolgere il congresso nazionale a Genova, una decisione che offende e sdegna la città medaglia d'oro alla Resistenza. Il 25 giugno la forte protesta dei portuali genovesi: violenti scontri seguono al duro intervento della polizia. La Camera del lavoro proclama lo sciopero generale della città; la Cisl non dà indicazioni e lascia liberi di aderire i suoi iscritti mentre 1' Uil invita apertamente a sabotare la manifestazione. La polizia aggredisce il corteo di oltre centomila lavoratori, provocando una vera battaglia a piazza De Ferrari, Aumentano lo sdegno e la rabbia, le manifestazioni si estendono a tutto il paese. A Milano, Torino e in molte altre città è indetto lo sciopero per il giorno del congresso del Msi. La protesta crescente, ampia, unitaria, induce il prefetto di Genova a spostare la sede del congresso missino, ma permane l'orientamento reazionario del governo Tambroni e aumenta la violenza poliziesca. A Licata, in Sicilia, il 5 luglio, durante una manifestazione di popolo contro la miseria e la fame, la polizia uccide un giovane di 25 anni, molti i feriti. A Roma, la protesta antifascista è selvaggiamente travolta a Porta San Paolo dalle cariche dei carabinieri a cavallo. A Reggio Emilia, il 7 luglio, la polizia tira al bersaglio, nel corso di una manifestazione uccide 5 militanti comunisti. La Cgil proclama lo sciopero generale, la Cisl non aderisce, mentre l'Uil aderisce in qualche provincia. Ancora morti a Palermo e Catania. Il 19 luglio Tambroni è costretto alle dimissioni 6 . Inizia il dialogo tra socialisti e democristiani. Il «governo delle convergenze» presieduto da Fanfani, ottiene il voto del Psdi, del Pri, del Pli e l'astensione di socialisti e monarchici. Segue nel 1961, la formazione di una serie di giunte locali di centro-sinistra. Al congresso socialista di Milano (marzo 1961) le varie correnti di sinistra del Psi non riescono a unirsi nella contrapposizione alla linea di Nenni. Sandro Pertini esprime una forte preoccupazione sull'unità interna e su una malintesa autonomia dal Pci. La relazione di minoranza, svolta da Tullio Vecchietti, è un duro attacco a Nenni. Il contrasto è sul ruolo del Psi, sulla sua autonomia, sulla prospettiva unitaria della classe operaia. La lotta politica in Italia, non può ridursi — sostiene Vecchietti — allo schema che vede solo rivoluzione o collaborazione e in mezzo il nulla. In un dibattito tormentato prevale la conversione di linea prospettata da Nenni.

1 Cfr. G. Amendola, La Seconda assemblea dei comunisti delle fabbriche, rapporto al comitato centrale e alla commissione centrale di controllo (1-3 dicembre 1960), SETI, 1969. 2 Cfr. G. Amendola, La classe operaia nel ventennio repubblicano, «Critica marxista», n. 5/6, 1966; La classe operaia dal 1961 al 1971, «Critica marxista» n. 6, 1973. 3 Cfr. A. Giolitti, Riformee rivoluzione, Einaudi, 1957. 4 P. Togliatti, Rapporto al IX congresso, in «Opere», cit., p. 431. Dietro ai vari pronunciamenti, eminenti personalità ecclesiastiche, in particolare Siri, presidente della commissione dei vescovi preposti allAzione cattolica; Ruffini; Ottaviani, prosegretario del Sant'Uffizio. 6 Per la cronologia degli avvenimenti che portano alla caduta del governo Tambroni: N. Kogan, L'Italia del dopoguerra. Storia politica dal 1945 al 1966, Laterza, 1970, pp. 205-209; «Rinascita», supplemento al n. 7/8, luglio-agosto 1960; G. Parodi, Le giornate di Genova: 30 giugno-30 luglio, dieci giorni che hanno sconvolto il paese, Editori Riuniti, 1960; «Rassegna Sindacale», n. 31/32, luglio-agosto 1960; A. Accornero, Le lotte operaie degli. anni '60, «Quaderni di Rassegna sindacale» n. 31/32, luglio-ottobre 1971.

7. Sulle tendenze del capitalismo

In questo periodo si compie quello che rimarrà il capolavoro della pazienza politica di Aldo Moro. Il convegno di San Pellegrino (1961) ne rappresenta il supporto teorico-programmatico, l'VIII congresso della Dc (Napoli, 1962) quello politico. Nella sua relazione al convegno. Pasquale Saraceno pone come obiettivo fondamentale «l'unificazione economica del paese»: superare l'antico dualismo dell' economia italiana, gli squilibri fra Nord e Sud, tra agricoltura e industria; risolvere il nodo della disoccupazione, la carenza di infrastrutture civili per il pieno sviluppo del paese. Prospetta «una politica di piano» che, pur conservando l'economia di mercato, sia in grado di orientarla. Le condizioni per la sua realizzazione sono indicate nell' aumento della quota del reddito nazionale destinata al risparmio e agli investimenti; nella necessità di un controllo dei consumi; nella politica dei redditi, cioè la programmazione dello sviluppo dei salari e della struttura delle retribuzioni. In questa prospettiva, un ruolo decisivo spetta alle partecipazioni statali, come strumenti di contenimento antimonopolistico e di riequilibrio. E la teoria dello «stato imprenditore» esposta all'VIII congresso della Dc. Criticato 1'esperimento Tambroni e il centrismo, Moro porta avanti un disegno di trasformazione del partito e ne sollecita un diverso confronto con l'intera società nazionale: abolire ogni frattura fra democrazia laica e democrazia di ispirazione cattolica, quindi una Dc né classista né di sinistra, né statalista né dalla parte della conservazione. Sul piano economico-sociale riconosce che, nonostante il «miracolo economico» e l'aumentata capacità competitiva sul mercato internazionale, permangono profondi squilibri, il cui superamento è ritenuto possibile solo portando avanti una politica di programmazione, strumento indispensabile per uno sviluppo armonico dell' intero paese, come già indicato dal convegno di San Pellegrino. Moro coglie e utilizza al massimo le differenziazioni tra la linea del Psi e quella del Pci. Consente quest'operazione la svolta politica operata da Nenni: diverso è il modo di intendere il «potere», diversa la concezione della «libertà». Ormai i socialisti giudicano impossibile «una generale alleanza politica o una comune lotta per il potere» fra i due partiti operai. Tuttavia la critica al centrismo non è coraggiosamente approfondita; 1'«allargamento dell' area democratica» proposto da Moro non scaturisce dal fallimento storico della politica portata avanti dalla Dc, piuttosto sembra essere la conseguenza di uno stato di necessità in cui si

combinano 1'inutilizzabilità della destra, la mutata situazione sociale, l'ineguale distribuzione delle forze politiche e l'urgenza di un nuovo quadro democratico. È la fase dell'appoggio esterno del Psi. Commentando il congresso di Napoli della Dc, Togliatti afferma che esso si era svolto in «un grande quadro di trasformazioni e di sviluppo, ma insieme di turbamento della vita nazionale, di contraddizioni nuove ed antiche rivendicazioni delle masse, di fallimenti della politica democristiana, tutti elementi che pesavano sui ripensamenti del gruppo dirigente della Dc»1 . Inoltre, denuncia i limiti del disegno economico moroteo. Lo stesso riconoscimento del ruolo dell'industria di stato e la funzione di alcune nazionalizzazioni in assenza di un'organica prospettiva di riforme risultano depotenziate e dimostrano ancora una volta che l'interclassismo della Dc non consente scelte precise e coerenti e preferisce la cauta mediazione con gli interessi dei grandi gruppi finanziari. Il superamento del centrismo ha un suo valore, occorre però aver chiari gli elementi di ambiguità di una formula di governo nata con l'intento di spostare il Psi dalle sue posizioni unitarie e isolare il Pci. Togliatti non sottovaluta gli elementi di novità, invita il partito a una valutazione attenta del centro-sinistra, critica ogni atteggiamento massimalistico che neghi valore a qualsiasi mutamento del quadro politico, ma anche ogni chimera su un' era nuova nella quale i problemi delle masse si risolvano come per incanto. Il cosiddetto governo di apertura a sinistra, con l'appoggio estemo del Psi dura dal 10 marzo 1962 al febbraio 1963, prima delle elezioni politiche. Il programma presenta molti segni innovativi: impegno al rafforzamento della democrazia; nazionalizzazione delle imprese produttive di energia elettrica; formazione di un comitato per l'elaborazione del piano di programmazione economica; attuazione dell' ordinamento regionale; sviluppo dell'agricoltura mediante l'attuazione del «Piano verde», sviluppo e democratizzazione della scuola. È il «piano capitalistico» considerato dai «Quaderni rossi», un sofisticato disegno che vuole ingabbiare il movimento operaio. Il fallimento delle roboanti proclamazioni riformiste del centro-sinistra dimostrerà l'infondatezza di un capitalismo efficiente e risolutore di tutti i problemi sociali. L'opposizione di «tipo particolare» al centro-sinistra, per dirla con Togliatti, suscita polemiche e critiche in alcuni settori della Fgci, in una «sinistra» ai confini dei partiti ufficiali; per molti sembra rappresentare il riconoscimento comunista della programmazione e di quell'ideologia dell'efficienza di cui si fanno portatori i settori più avanzati del neocapitalismo 2. Questi temi sono al centro del convegno sulle «Tendenze del capitalismo italiano» promosso dall'Istituto Gramsci. Nella sua relazione, Amendola caratterizza il tipo di sviluppo come «espansione monopolistica» e pone come obiettivo del Pci la lotta per una democrazia di tipo nuovo e per le riforme di struttura 3 . L intreccio fra questi due momenti è garanzia di un ampliamento della democrazia, garanzia per far fronte alle diverse esigenze sociali del paese, condizione per l'avanzata al socialismo. Amendola insiste sulla peculiarità della situazione italiana, un paese

che non ha ancora risolto i guasti creati da uno sviluppo ritardato e distorto; uno scontro su cui si innestano i modelli neocapitalistici. Un' analisi che parte da un presupposto ormai caduco per la «nuova sinistra»: la peculiarità del capitalismo italiano e la sua impossibilità a rispondere alla crisi strutturale del paese. Il dibattito non manca di voci critiche, fra le altre quella di Lucio Magri. Molti interventi insistono nell' attribuire al capitalismo italiano un carattere avanzato, capace di risolvere gli annosi squilibri regionali, le disarmonie tra settori economici e le disuguaglianze tra classi di reddito. Partendo da questi presupposti teorizzano l'interesse dello stesso capitalismo a raggiungere tali finalità per realizzare un suo ulteriore sviluppo, e in assonanza con le elaborazioni dei «Quaderni rossi», finiscono per negare l'importanza della lotta per la programmazione democratica. Il nemico occulto e temuto è la razionalità del capitalismo; contro di essa occorre lottare facendo saltare i suoi piani, inceppandone i meccanismi. Scriverà Lelio Basso nel suo La partecipazione antagonista pubblicato in Neocapitalismo e sinistra europea del 1969: «Gli interessi generali del sistema, in quanto presuppongono l'integrazione della classe operaia nel sistema stesso, richiedono che si tenga conto anche delle sue esigenze. Perciò nella sua funzione mediatrice lo stato non può ridursi al ruolo di esecutore della volontà immediata di gruppi capitalistici dominanti, ma deve tener conto di tutte le spinte e di tutte le forze sprigionate dai vari centri di potere, anche di quelli della classe operaia e degli altri ceti non capitalistici, discriminati nel paese, per contenere le opposizioni e le frizioni ali'interno del sistema. Ciò porta la macchina statale ad assolvere a una funzione di "stanza di compensazione" di energie variamente contraddirtene ...». La rete dell'integrazione si avvolge dunque attorno alla classe operaia e alle lotte sociali, uscire dalla morsa significa, — scrive ancora Leiio Basso — «distruggere la logica interna al sistema capitalistico, colpendolo sia nelle sovrastrutture ideologiche e istituzionali, sia nel suo meccanismo motore che è il profitto». Il dibattito avviato dalle Sette tesi continua lungo il corso degli anni sessanta, le elaborazioni sui caratteri del capitalismo moderno si arricchiscono delle teorie economiche di Sweezy e Baran, a cui si aggiungono la sociologia della scuola di Francoforte e il pensiero di Marcuse. Le parole chiave sono semplici: neocapitalismo-integrazione come morte della lotta di classe, anzi una lotta di classe già prevista dalla regia del capitalismo, messa nel conto e programmata; proprio per questo la fantasia deve superare la razionalità economica, il prevedibile, il piano, il possibile, il realizzabile. In questo contesto il revisionismo del Pci è visto come l'altra faccia del riformismo. Un Pci che vuole legittimarsi come forza di governo senza tuttavia mutare le regole del gioco democratico che si serve delle lotte di massa, per sfruttarle in chiave istituzionale. Un Pci che non può consentire un dissenso alla sua sinistra perché ciò significherebbe una perdita del suo ruolo di rappresentante

delle masse e al tempo stesso non può spingere i conflitti sociali oltre certi limiti, pena la messa in discussione della sua immagine legalitaria. I rinnovi contrattuali dei metalmeccanici saranno visti come conferma di questa contraddizione. «Lotta politica» commenterà «Quaderni rossi» e accuserà i sindacati di sinistra di non sfruttare la loro intrinseca conflittualità, troppo preoccupati di incanalare le lotte nel!' alveo della programmazione democratica, troppo preoccupati di una fraintesa unità, fatta di mediazioni fra i vertici e di compromessi a scapito dell'unità di base, quella del nuovo «operaio sociale».

1 P. Togliatti, Passare dai programmi all'azione per una effettiva svolta a sinistra, in Opere, cit., p. 603. 2 Togliatti nel dibattito sulla fiducia al governo di apertura a sinistra dichiara: «L'opposizione di cui questo governo ha bisogno è di tipo particolare. Deve essere una opposizione che riconosca quanto possa essere di positivo nelle ricerche e affermazioni programmatiche ...». Seduta del 5 marzo 1962, da Togliatti, Discorsi parlamentari, voi. II, Ufficio stampa e pubblicazioni, Camera dei deputati, 1984, p. 1230. 3 Cfr. Tendenze del capitalismo italiano, Editori Riuniti, 1962. Atti del convegno svoltosi a Roma dal 23 al 25 marzo 1962.

8. Nelle peggiori condizioni, il peggior governo

La Dc, accentuatasi la crisi dell' interclassismo e del centrismo, è stata costretta ad affrontare in termini nuovi il suo rapporto con il movimento operaio, ma rimangono le ambiguità; per il gruppo dirigente democristiano si tratta di avviare la nuova politica senza rompere con i gruppi monopolistici più forti e con le gerarchle ecclesiastiche. Ne deriva l'ambivalenza del centrosinistra e la sua incerta definizione politico-sociale. Di fronte al grave deterioramento della situazione politica, nel paese crescono le lotte di massa per imporre una svolta a sinistra, per la pace, le riforme, la democrazia, la libertà. Nel dibattito sulla fiducia al governo del gennaio 1963, Moro dovrà definitivamente rinunciare alla cosiddetta «sfida democratica ai comunisti», una sfida che avrebbe dovuto dimostrare la capacità della Dc di portare avanti i punti più «ragionevoli» del programma proposto dai comunisti. Moro non ripropone il tradizionale anticomunismo, parla di un anticomunismo non conservatore, né sul terreno sociale né su quello politico, di un anticomunismo che non intende «trasformarsi in regime né combattere la battaglia per la libertà con mezzi che non siano quelli della libertà», nello stesso tempo però respinge ogni convergenza con i comunisti. In quest'anomalia italiana stanno la conflittualità, le contraddizioni, le gravi conseguenze dell'«amputazione democratica» del dopo Resistenza. Scrive Togliatti su «Rinascita»: «Sono vent'anni che si combatte in Italia; due forze avverse, l'una di progresso e rivoluzione, l'altra di conservazione e reazione si affrontano e si misurano in un conflitto che ha avuto le più diverse fasi, nessuna delle quali però si è conclusa in modo tale che potesse significare il sopravvento dell' uno o dell' altro dei contendenti. Quale l'origine della situazione? Essa è la conseguenza di un fatto che non può più essere cancellato. Le classi popolari sono diventate un momento decisivo della storia nazionale e della vita di questa storia. Sono le classi popolari che hanno fondato lo stato italiano odierno, e non il vecchio ceto dirigente e privilegiato, hanno organizzato e diretto la Resistenza, la guerra, la liberazione, la riconquista di un regime di democrazia e di progresso» 1. Il X congresso del Pci (Roma, 2-8 dicembre 1962) si svolge mentre è in carica il governo Fanfani che si avvale dell'appoggio esterno del Psi. Nella sua relazione Togliatti esprime un articolato giudizio sull’ esperienza di centro-sinistra che si va delineando: «Sorta come una cosa eterogenea, dove il positivo ed il negativo si intrecciano e confondono. Chiudere gli occhi davanti al positivo che si concretò in

alcuni punti del programma governativo, sarebbe stato un serio errore che non facemmo e non faremo mai. Quei punti programmatici erano il frutto di una elaborazione collettiva ed unitaria alla quale noi avevamo avuto una parte non indifferente [...] Priva di qualsiasi fondamento è quindi tutta la campagna sul nostro sedicente imbarazzo e tentato inserimento della ultima ora, così come assurda l'accusa che ci si muove di condurre contro il governo attuale una lotta frontale solo perché gli impegni programmatici vengono rispettati ed attuati» 2. Il Pci non si muove in modo pregiudiziale contro l'ingresso nella maggioranza governativa del Psi, anzi precisa che questo atto politico potrebbe rappresentare un fatto positivo se avesse la capacità di avvicinare le masse di orientamento socialista a quelle cattoliche; sarebbe invece un fatto da condannare se provocasse solo una rottura nel movimento operaio finendo col subordinare una parte della classe operaia alla politica democristiana, La nuova situazione politica è la risultante di diverse spinte e tendenze che agiscono sul Psi e sugli altri partiti della maggioranza, compresa la De, nel senso di un reale rinnovamento. Permane, come dato grave, l'incapacità della sinistra De di vincere il tradizionale anticomunismo; a ciò finisce per prestarsi il Psi che pensa di sconfìggere le resistenze conservatrici della destra economica e politica della Dc senza valersi dell'apporto del Pci, anzi discriminandolo: «Finendo — afferma ancora Togliatti — quindi col perdere la forza di contrattazione rappresentata dall'appoggio delle masse di orientamento comunista e del legame con la lotta e il movimento di massa del paese». Nella preparazione e nello svolgimento del X congresso del Pci ci si sofferma a lungo sui mutamenti economico-sociali intervenuti nell'ultimo decennio. Si individuano i tratti distintivi ma anche i limiti di quello che dagli economisti del centro-sinistra viene definito «il miracolo economico»; in particolare si insiste sul distacco fra incremento dei salari e incremento della produzione con le conseguenze che ciò comporta per nuove forme di accumulazione capitalistica. Contemporaneamente si evidenzia il valore delle lotte operaie che hanno costretto i gruppi dominanti ad assumere una linea di «ammodernamento» capitalistico e di espansione produttiva con la conseguenza di un allargamento del mercato interno in difesa del tenore di vita delle masse popolari. Si arricchisce la nozione di capitalismo monopolistico di stato, tematica già affrontata nel convegno dell' Istituto Gramsci, mettendo in guardia contro possibili illusioni, presenti nello stesso partito, circa le capacità del capitalismo monopolistico di stato di risolvere problemi storici della società nazionale. Contro le teorizzazioni dello «stato imprenditore», come erano state espresse nel convegno di San Pellegrino e riprese, poi, nelI'VIII congresso Dc, la riflessione si incentra sulle questioni dello stato, del rapporto fra stato ed economia, sulle caratteristiche del processo di concentrazione monopolistica. Partendo da queste premesse teoriche, il centro politico è la lotta contro i monopoli. Lo sviluppo economico ha posto in modi diversi il ruolo delle riforme nel capitalismo moderno, esse non rappresentano una semplice razionalizzazione del sistema ma un programma di lotta decisivo per modificare condizioni e monopoli. Alla

domanda se il potere dei monopoli possa essere spezzato prima della costruzione del socialismo, la risposta del X congresso è netta: le lotte per le riforme di struttura e le lotte per imporre una programmazione antimonopolistica si intrecciano e si compenetrano tra loro, nel nesso profondo che unisce democrazia e socialismo. Una dialettica permanente che impone una forte polemica contro ogni posizione tendente a sottovalutare e negare il valore delle conquiste democratiche. Nell'epoca dello sviluppo monopolistico, con il progressivo inasprimento delle diverse contraddizioni, con il concentrarsi nelle mani di pochi delle leve del potere, si ha un progressivo restringimento delle libertà individuali e la stessa società borghese non è in grado di mantenere in vita le sue conquiste. Diverse sono le forme di questa limitazione di libertà, fino a quelle apertamente fasciste e reazionarie, con un progressivo svuotamento dei principali fondamenti del regime democratico. Acquistano tutto il loro spessore strategico, quindi, la salvaguardia delle libertà democratiche, la difesa delle conquiste sancite dalla Costituzione e la lotta costante per la loro effettiva applicazione. Polemizzando coi critici dell'unità antifascista e dei caratteri che ha assunto la lotta di Liberazione in Italia, Togliatti insiste sulla funzione dell' unità democratica, non un espediente tattico di quella fase ma, la condizione essenziale per una «radicale opera di rinnovamento della vita nazionale». Nessuno è riuscito a cancellare le fondamentali conquiste della Resistenza e la prospettiva di fondazione di un nuovo stato è più che mai aperta: «Essa è la prospettiva di una lotta politica, di un movimento di massa democratico e pacifico per trasformare gli ordinamenti attuali, spingendo tutta la società nella dilezione del socialismo. Pacifico, ho detto, nel senso che vuole impedire la guerra, prima di tutto, ma anche nel senso che considera anche la guerra civile come una sciagura da evitare e ritiene che esistano oggi le condizioni che consentano di evitarla» 3. Ma ormai è entrata in crisi l'ideologia post-resistenziale; «la Resistenza non fa più paura» scrivono i «Quaderni piacentini» commemorando il 25 aprile del 1962. La carica innovatrice e protestataria dei giovani del luglio '60 è stata ricondotta nell' alveo democraticista di un' unità senza principi che mette insieme la sinistra con la Dc e i «vecchi inutili» e «gli antifascisti di professione» non si accorgono di andare a braccetto dei fascisti. «Coi fascisti non intendiamo i missini, bensì la solita classe dirigente» 4. E l'anno dei rinnovi contrattuali dei metalmeccanici: a Torino, in luglio i disordini di piazza Statuto. La stampa di sinistra e quella padronale sono d'accordo nell'interpretazione: «provocazione preordinata», «tentativi teppistici e provocatori», «giovani scalmanati», «anarchici», «internazionalisti»5. A ridosso del X congresso nascono ali'interno del Pci le prime forme di propaganda delle posizioni cinesi. Esse fanno capo al gruppo di Padova guidato da Wilson Duse ed al giornale «Viva il leninismo», nato come strumento di pressione per condizionare i risultati congressuali. Dopo l'esplusione dal partito, inizia

l'itinerario organizzativo che porterà, nel '66, alla fondazione del Pcd'I (marxistaleninista). Già nella conferenza degli 81 Partiti comunisti e operai tenutasi a Mosca, il Partito comunista italiano aveva espresso il suo dissenso sulle posizioni del partito comunista cinese. Nel dibattito congressuale riemergono i termini del contrasto. Contro la tesi cinese dell' inevitabilità della guerra, i comunisti italiani riaffermano come prioritario l'obiettivo della «pace». Togliatti precisa che non si tratta di un mutarsi della natura dell'imperialismo, bensì di mutati rapporti fra le forze internazionali, «questo impedisce ali'imperialismo di fare ciò che vorrebbe» e, inoltre, lo stesso carattere «qualitativamente nuovo della guerra nucleare» rafforza la politica della «coesistenza pacifica». Respinge l'accusa cinese di revisionismo e di opportunismo, al contrario esalta la coesistenza pacifica come momento essenziale nelle condizioni del mondo moderno, della stessa strategia per il socialismo. Un'avanzata verso il socialismo in cui le lotte di liberazione dei popoli oppressi dal colonialismo e le varie vie nazionali rappresentano un processo composito e ricco; per cui il Partito comunista italiano pur riconoscendo la necessità di un coordinamento, condanna ogni concezione da partito guida o, come sosteneva il Partito comunista cinese, una preminenza dei popoli del Terzo Mondo e delle zone sottosviluppate fra le forze mondiali della rivoluzione socialista. Alle critiche del Pci il rappresentante del Partito comunista cinese replica in pieno congresso anticipando la risposta più organica che verrà coi due opuscoli Sulle divergenze fra noi e il compagno Togliatti e Ancora sulle divergenze fra noi e Togliatti. L'accusa è netta: Togliatti ha abbandonato il marxismo-leninismo, la dittatura del proletariato, la lotta di classe; ha scelto la via della collaborazione col capitalismo. I due opuscoli offrono l'inventario completo degli argomenti che saranno usati dagli emmellisti, su quei temi ridotti a schema dai cinesi si formerà una generazione di militanti cresciuti fuori dai «partiti» ufficiali, quelli che discuteranno e si scontreranno coi servizi d'ordine del Pci e dei sindacati nelle manifestazioni antimperialistiche, quelli che saranno i protagonisti delle lotte sessantottesche. Inizia un'intensa campagna di propaganda da parte dei gruppetti filocinesi, sulle riviste si discute del fenomeno cinese, sui «Quaderni rossi» si parla di modello di società socialista. Divide ancora lo stalinismo; le ambivalenze interpretative attorno alla rivoluzione culturale scioglieranno i dubbi e le riserve; il maoismo, sia pure con molte differenziazioni, sarà uno dei principali terreni di unificazione dell'antirevi-sionismo e dell'anticomunismo. Nelle organizzazioni giovanili di sinistra e in quelle cattoliche si avvertono i segni di un forte disagio, si contesta nei contenuti e nei metodi il partito di appartenenza, si cerca un nuovo socialismo e una qualità nuova dell' impegno cattolico. Nella società dei consumi piena di un americanismo importato, che si estende a tutte le sfere comportamentali, crescono le lotte operaie e sociali, nasce una domanda di

società diversa, esigenza che diventa elemento dinamico della condizione giovanile. A Milano, il 27 ottobre 1962, nel corso di una manifestazione il ventunenne Giovanni Ardizzone, iscritto alla Fgci, è travolto e ucciso da una camionetta della polizia. Gli studenti stanno per concludere il tirocinio avviato davanti alle fabbriche, nei picchetti davanti alla Fiat, a sostegno di Cuba, contro il franchismo e l'imperialismo Usa. Diverso è il loro peso nelle manifestazioni in piazza; lo prova la stessa violenza dell'intervento della polizia. Non si tratta di «ragazzate», lo Stato ha capito e la polizia riserva un trattamento comune a studenti e operai; «li picchia senza misericordia per terrorizzarli, cerca di lasciargli i segni sulla faccia perché non si scordino più» 6. Ardizzone muore mentre manifesta per Cuba e per la pace, molti giovani capitano per caso alle manifestazioni, l'intervento della polizia li farà ritornare più coscienti e combattivi. Per i «Quaderni piacentini» questi giovani non sono uguali ai pacifisti inglesi, non hanno il senso del limite, sono «estremisti» e aggiungono: «C'è una ragione precisa per cui oggi coloro che manifestano per la pace sono estremisti. Si può manifestare "avendo il senso di certi limiti" quando si sa che in simili circostanze la polizia ha ucciso dal '45 ad oggi cento cittadini e ne ha feriti cinquemila?» 7. Difficoltà congiunturali si erano registrate già nell' autunno del 1961. Nel 1962 il tasso di incremento del reddito nazionale era stato inferiore al tasso medio dei tré anni precedenti e in particolare sensibilmente inferiore a quello del '61 8. Si rileva, inoltre, una forte contrazione degli investimenti e delle esportazioni. Particolarmente grave è l'aumento dei prezzi, ormai tutti gli indici mettono in evidenza una forte spinta inflazionistica, le conseguenze sono la riduzione della competitivita sul mercato internazionale e una caduta negli investimenti. La causa fondamentale dell'instabilità dei prezzi viene imputata agli aumenti salariali registrati tra il 1962 e l'inizio del 1963. Il governatore della Banca d'Italia Carli indica come necessaria, per il superamento della congiuntura, una linea decisamente antipopolare basata sul contenimento della dinamica salariale e della spesa pubblica; sulla riduzione dei programmi d'investimento delle imprese pubbliche e di quelle a partecipazione statale. Le elezioni politiche del 28 aprile 1963 segnano una grande avanzata del Pci che guadagna quasi un milione di voti; secca la sconfìtta della Dc che perde circa 750.000 voti. Moro, pur ammettendo che la Dc ha perso ovunque e riconoscendo l'avanzata del Pci, ritiene assolutamente inaccettabile l'opinione di Togliatti che è venuto il momento per i comunisti di entrare in un «campo di governo». Designato a formare il nuovo governo propone la formula di centro-sinistra, nella sua accezione più chiusa e discriminatoria, vera e propria variante del centrismo. In queste condizioni Nenni, è, per il momento, costretto a dire di no a Moro. Incapace di dare al paese un governo adeguato ai risultati elettorali la Dc chiede una sorta di «vacanza nazionale dei cervelli», così Pajetta definisce il governo d'affari presieduto da Giovanni Leone. Nel consiglio nazionale del luglio, Moro

accetta tutti i condizionamenti conservatori dentro e fuori della Dc, tenta il rilancio del centro-sinistra in chiave di delimitazione anticomunista. Spetta al presidente della Repubblica Antonio Segni dirimere la soluzione della crisi. Alle dimissioni di Leone, segue l'incarico ad Aldo Moro che prospetta un programma basato su alcuni principi nettamente conservatori: un nuovo atlantismo, l'anticomunismo, il rinvio della programmazione a favore della politica anticongiunturale proposta dal governatore della Banca d'Italia e dal ministro del Tesoro Colombo (difesa della lira, politica dei redditi con il conseguente blocco dei salari). «Si è formato nelle peggiori condizioni il peggior governo di centrosinistra»: commenta il Pci. Nel dibattito alla Camera sul governo Moro, 25 deputati socialisti rifiutano di votare per il governo. E la rottura del Psi e la nascita del Psiup. Il partito di Vecchietti raccoglie la tradizione della sinistra socialista e non chiude alle nuove formazioni con cui stabilisce un lavoro comune anche in virtù di molte assonanze culturali. Lo stesso entrismo nel Psiup sarà vissuto come pressione per spostare il Pci. Per altro il Psiup non riuscirà a trovare una composizione fra le diverse anime della sinistra socialista, rimanendo sempre diviso fra riavvicinamento e autonomia conflittuale col Pci, da ciò deriva la sua permeabilità alle spinte della gruppettistica in formazione. Contro la politica dei redditi di Colombo e del governatore della Banca d'Italia il Pci si batte per imporre la programmazione democratica. Scrive Togliatti in un suo editoriale del 1964: «Una programmazione democratica, quale rivendichiamo, è quindi cosa ben diversa da una politica dei redditi. E cosa opposta, ripetiamo. Essa tende infatti con misure di controllo e con misure di intervento nella sfera delle decisioni economiche, non già ad impedire l'azione con la quale le forze del lavoro si sforzano di contestare le leggi del profitto capitalistico, ma anzi a contestare e limitare essa stessa il dominio di queste leggi, a distruggere posizioni di sopraprofitto, di speculazioni e di rendita, a passare gradualmente alla collettività il potere di decisione relativo ai più grossi problemi che angustiano la vita del paese»9 34. Il programma del governo Moro è articolato nei «due tempi» divenuti poi tristemente famosi: il primo, di risanamento della congiuntura e il secondo, di avvio alla politica di piano. Il Pci pur affermando il suo impegno a far sì che la classe operaia, nella sua attività rivendicativa, adegui le proprie richieste agli orientamenti e agli obiettivi della politica economica — se questi saranno corrispondenti ai suoi interessi e a quelli dell' intera collettività nazionale — rifiuta in modo netto ogni proposta di tregua salariale. Nonostante e contro le condizioni diffìcili, il calo occupazionale, l'attacco padronale, i tentativi perseguiti dal governo e dai gruppi monopolistici di addossare la responsabilità della crisi economica ed imporre una tregua salariale alle classi lavoratrici, le lotte operaie e contadine avanzano. Si sperimentano nuove forme di agitazione, si precisano sempre più gli obiettivi, nella costruzione laboriosa di nuovi livelli unitari e di nuove alleanze sociali e politiche. Un

processo non lineare, con battute d'arresto e difficoltà, che si svolgerà ininterrottamente fino alla grande stagione delle lotte contrattuali del 1968-69. All'ombra di questa situazione complessa, sul piano politico e sul piano economico maturano tentativi apertamente reazionari che verranno alla luce qualche anno dopo. Nel luglio 1964 il generale De Lorenzo, capo del Sifar che otto anni dopo verrà eletto deputato del Msi, progetta un piano eversivo, un colpo di stato ai danni della democrazia italiana: si prevedono l'occupazione dei centri Rai-Tv, delle prefetture e di tutti i punti nevralgici dello stato. Il 13 agosto del 1964, Palmiro Togliatti è colpito da emorragia cerebrale mentre presenzia a una manifestazione della gioventù comunista sovietica nel campo pionieri di Artek. Rapidissima la notizia si diffonde in tutto il mondo; apprensione e sgomento di milioni di comunisti, di lavoratori democratici. La morte sopraggiunge il 21 agosto. Il viaggio di Togliatti in Urss doveva coincidere con una serie di incontri con i sovietici, in preparazione della Conferenza Internazionale dei partiti comunisti. Per tali incontri Togliatti aveva steso alcuni appunti, saranno il suo testamento politico: il Memoriale di Yalta. Uno scritto denso di problematicità, animato dall'esigenza di rigore e di riflessione e dalla necessità di maturare appieno il significato storico del XX congresso, superando ogni dogmatismo, ogni concezione acritica di fronte a ciò che avviene nel mondo socialista: «Avere molto coraggio politico, superare ogni forma di dogmatismo, affrontare e risolvere in modo nuovo problemi nuovi, usare metodi di lavoro adatti ad un ambiente politico e sociale nel quale si compiono continue e rapide trasformazioni» 10. È presente al leader comunista l'ampiezza della crisi del sistema capitalistico monopolistico di stato, l'incapacità delle tradizionali classi dirigenti a risolvere i nuovi problemi che hanno di fronte. La centralizzazione della dirczione economica è questione all'ordine del giorno in tutto l'occidente. Rispetto a questo tema il movimento operaio e democratico non può essere indifferente, è un terreno nuovo di lotta. Rivendicazioni immediate e proposte più generali di riforma di struttura debbono essere coordinate fra loro in un piano di sviluppo capace di contrapporsi alla programmazione capitalistica. Non sarà un «piano socialista» ma un nuovo inizio di lotta per «avanzare verso il socialismo». I funerali di Togliatti si svolgono a Roma: un grande fatto di popolo; sono presenti i massimi dirigenti del movimento operaio internazionale. Il corteo sfila per ore, lo seguono militanti venuti da tutte le città, da tutte le regioni. Insieme ai comunisti, democratici, antifascisti, la testimonianza commossa del prestigio, del valore, della stima, dell'affetto popolare per un grande dirigente del partito comunista e dell' intero movimento operaio.

1 P. Togliatti, Per una Italia nuova, «Rinascita», n. 5, maggio 1962. P. Togliatti, Rapporto alX congresso del Pci, in Opere, cit., p. 673. Ibidem. 3 Ibidem. 4 «Quaderni piacentini» n. I/bis, aprile 1962; 25 aprile 1962; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1962-1968», Edizioni Gulliver, 1977, p. 17. 5 G. Cerchi - A. Bellocchio, Appunti per un bilancio delle recenti manifestazioni di piazza, «Quaderni piacentini», n. 6, dicembre 1962; ora in «Quaderni piacentini, Antologia», 1962-1968, cit., pp. 35-37. 6 Ibidem. 7 Ibidem. 8 Cfr. E. Peggio, Aspetti della politica economica italiana dal 1961 ad oggi, «Critica marxista» n. 4/5, luglio-ottobre 1964. 9 P. Togliatti, Programmazione o politica dei redditi?, «Rinascita» n. 24, 1 giugno 1964. 10 P. Togliatti, Memoriale di Yalta, in «Opere», cit., pp. 823-833.

9. La generazione del Vietnam

Dopo la morte di Togliatti, estesi settori della Fgci, «entri-sti» di varia matrice accarezzano l'idea di una svolta: il ritorno a posizioni più dure, una linea più decisamente anti-democristiana, una diversa posizione rispetto alla Cina. Si cercano differenziazioni nel gruppo dirigente, la polemica Ingrao-Amendola viene amplificata, presentata come la lotta fra due linee. La scelta di Luigi Longo a segretario è considerata un temporaneo compromesso 1 . Colombo ha proclamato la necessità dell' arresto della dinamica salariale. Moro ha fissato un tetto agli aumenti salariali; intanto l'unità sindacale è lontana a venire; Cisl e Uil giudicano le lotte portate avanti dalla Cgil come lotte contro il centrosinistra. Il 1964 vede aumentare le ore di sciopero, nello stesso tempo si ha anche un pesante calo dell'occupazione: 60.000 occupati in meno fra i tessili; 100.000 fra i metallurgici; 150.000 nel settore edilizio. Numerose le lotte difensive per mantenere il posto di lavoro e per aumentare le retribuzione. Nella Cgil si discutono i modi e le forme della lotta contro la congiuntura e per imporre un diverso tipo di programmazione. Nelle librerie va a ruba Eros e Civiltà di Marcuse; si discute sul fatto che il testo prospetti un nuovo modo di essere marxisti o se si tratti solo delle divagazioni di un filosofo borghese; un progetto di società o l'annullamento nell'utopia di un'impossibile trasformazione? Marcuse, Mao, Marxismo, diventano tré fonti a cui attingere non solo per definire una nuova teoria della rivoluzione quanto per trame coerenti comportamenti sociali. La società moderna e i suoi miti imposti dal capitalismo sono messi sotto accusa mentre si guarda a un presunto regno della libertà: libertà dalla tradizione, dalla storia, dalle regole. Anno complesso il '64. Sulla rubrica il «Franco tiratore» dei «Quaderni piacentini» si legge: «II processo Ippolito, la crisi nel Vietnam, gli scontri Rockers-Mods, gli attentati in Alto Adige, l'agonia (rientrata) di Segni, la pop-art a Venezia, Goldwater, i funerali di Togliatti... un'estate calda. Ma il colpo migliore, l'avvenimento che ha più impressionato pensiamo sia stato il topless» 2. Proseguendo nella satira quello che preoccupa è la «gradualità» verso un processo di nudo integrale che può sempre, per cause oggettive, bloccarsi o retrocedere. Nell'ottobre dello stesso anno muore Raniero Panzieri, «l'Unità» in un trafiletto commenta una «singolare e tormentata figura del movimento operaio». I «Quaderni rossi» entrano in una fase nuova; sempre più intenso è il lavoro di

raccordo fra i vari gruppi locali; la questione della organizzazione, origine della scissione con «Classe operaia», rimane un nodo da sciogliere. Non soddisfano i «piccoli passi», un gradualismo tutto dentro il sistema; il mondo sta cambiando: nel Vietnam un piccolo popolo tiene sotto scacco il colosso imperialista; Cuba si è liberata dal giogo capitalista con la guerriglia; in America esplode la nuova sinistra, anticonformista, trasgressiva, portatrice di una radicale critica ali'intero assetto sociale 3. Il sindacato di fronte all'attacco padronale non trova altro che coniugare insieme «programmazione» e «obiettivi intermedi». Se qualche speranza rimaneva nella combattività del sindacato anche questa svanisce. Il capitalismo ha fatto il suo gioco; l'operaio della «seicento», delle vacanze e del sabato sera è ormai dentro il sistema: un integrato. Nella sua relazione introduttiva al VI congresso della Cgil, Agostino Novella, ribadita la responsabilità nazionale della classe operaia, pone con forza l'esigenza della programmazione democratica 4. Occorrono scelte prioritarie capaci di dar corso ad un diverso sviluppo economico, capaci di risolvere gli squilibri, di tagliare con il parassitismo, premessa per un diverso intervento dei poteri pubblici nella vita economica. La strategia della lotta per la programmazione democratica e per la contrattazione articolata consente l'intervento nelle diverse lotte di fabbrica. E l'apprendistato degli «operaisti». Davanti ai cancelli gli studenti dei gruppetti sono agitatori e propagandisti del «socialismo». Nascono le «avanguardie» di fabbrica, non è difficile criticare il sindacato e le logore commissioni interne. Sono proprio i limiti del localismo e di uno sperimentalismo fatto di fughe in avanti ad accrescere l'esigenza del «partito». Spetta ai marxisti-leninisti il ruolo di avanguardia nella costituzione del nuovo partito rivoluzionario. Le vicende cinesi e 1' apertura della Grande rivoluzione culturale cinese faranno il resto. Nell'ottobre '66 a Livorno nasce il Pcd'I (marxista-leninista). Più complesso è il passaggio all'organizzazione per le altre formazioni. Non vi è il mito del «partito». Un tema che non sarà mai definito con nettezza nell'universo dell' operaismo; piuttosto l'esigenza è la centralizzazione nazionale e l'unificazione delle varie esperienze a sinistra del Pci. Mentre crescono le lotte nel paese, la parola dordine dei comunisti diventa: «rovesciare il governo di centro-sinistra per una nuova maggioranza e per l'unificazione delle forze socialiste». Dunque sollecitare nuovi rapporti all'interno del movimento operaio e con il mondo cattolico. Questo è l'obiettivo politico dell'XI congresso. La polemica con i socialisti è serrata. Si tratta di battere la manovra di unificazione socialdemocratica tesa a una rottura insanabile nel movimento operaio italiano. La questione del partito unico dei lavoratori, posta prima del congresso, è riconfermata nelle tesi preparatorie: «La nostra iniziativa non si rivolge solo al Psiup e al Psi, ma si rivolge più in generale alla classe operaia ed ai lavoratori, agli intellettuali, a tutti gli uomini e a tutte le forze di orientamento democratico e socialista coerente. Noi non proponiamo una somma

aritmetica di forze, ne una somma algebrica di programmi ideologici e politici, ma proponiamo di dar vita ad un processo per giungere ad un partito unificato che raccolga la parte vitale di tutte le esperienze rivoluzionarie del passato e si adegui a quelli che sono i compiti rivoluzionari di oggi per l'avanzata verso il socialismo e per la sua edificazione» 540. L'unità della sinistra è il grande tema del momento, nelle lotte di fabbrica e nella società mal si sopporta la divisione dei partiti della classe operaia, si esigono nuovi livelli unitari capaci di superare schieramenti politici e preclusioni ideologiche. E la grande stagione delle lotte per la pace, per la libertà dei popoli, per la vittoria del popolo vietnamita contro l'aggressione americana. Nelle imponenti manifestazioni antimperialiste si incontreranno democratici, progressisti, lavoratori, generazioni diverse. Una nuova generazione di militanti è chiamata alla lotta da questi ideali, da questa forte tensione verso la libertà: è la «generazione del Vietnam». Tutto spinge a cambiare e in tutti i campi: la musica, i costumi, le mode e gli influssi culturali; lo zigzagare dei comportamenti arriva per tanti rivoli alla politica, non la quotidianità burocratica del partito terzointernazionalista ma quella delle grandi occasioni, del cambiamento come «rottura» col vecchio e fondazione del nuovo. La politicizzazione avviene per tante vie: andando ai concerti rock; nelle librerie Feltrinelli in cui c'è di tutto, dai libri cubani a quelli delle avanguardie letterarie, dai flip-per ai poster di Marilyn, Mao Tse-Tung, James Dean e Che Guevara; comprando la «cinquecento» e portando i blue jeans. All'inizio del '66 al liceo Parini di Milano scoppia lo scandalo della «Zanzara», il giornaletto d'istituto che per aver affrontato i temi dell'educazione sessuale sarà sottoposto a una dura repressione, con tanto di processo; il 26 aprile Paolo Rossi, studente di architettura iscritto al Psi, è ucciso durante un assalto fascista alla facoltà di lettere di Roma. Le occupazioni che seguono non discutono più dell'università ma di politica: basta col vecchio antifascismo, terreno di strumentalizzazione del Pci; occorre aria nuova, gli organismi studenteschi sono in crisi, il loro rapporto coi partiti si è profondamente logorato, le loro sigle non rappresentano più nulla. Si respira il primo vento della contestazione. L'Unuri (Unione nazionale rappresentativa italiana) in cui confluivano sia l'Intesa dei cattolici, sia 1'Ugi (Unione goliardica italiana) è dentro il sistema, strumento del potere accademico; i parlamentini degli organismi rappresentativi sono la brutta copia della partitocrazia democratico-parlamentare. Nelle formazioni studentesche si riflette il dibattito più generale. Nell'Ugi la rottura si realizzerà sul ruolo da assegnare all'Unuri: i militanti del Pci e del Psi sono per una funzione istituzionale, mentre il Psiup e la sinistra radicale sono per il suo svuotamento e un collegamento più diretto delle lotte studentesche con le lotte di fabbrica e antiimperialiste. La proposta di un sindacato degli studenti lanciata dalla Fgci, vista con diffidenza anche al suo interno, avrà fiato corto. I giovani comunisti non riescono a trovare una loro linea, divisi essi stessi fra le simpatie ingraiane e il dissenso aperto,

prigionieri al tempo stesso delle voglie istituzionali. Nelle loro proposte prevale la piatta adesione al «partito», lo stesso passaggio da «Città Futura» a «Sinistra Unita», liquidato dai sinistri come «bollettino parrocchiale», finisce con l'essere una brutta copia della più ambiziosa unificazione delle sinistre. Al congresso di Rimini dell' Ugi attorno alle Tesi della Sapienza avviene la scissione. Intanto l'Intesa, attraversata al suo interno dalle tensioni per una nuova qualità dell' impegno sociale dei cattolici, si dissolverà nelle occupazioni di Facoltà e molti dei suoi militanti passeranno al gruppismo portandovi una forte componente di integralismo. La Rivoluzione è possibile! è questa la convinzione diffusa di una generazione che vede e sente attorno a sé che il mondo sta cambiando. Non si sa che tipo di rivoluzione e di socialismo, si può attingere da tante parti: c'è la Cina con la sua totale rifondazione del rapporto politica-cultura, dove le masse guidate dal pensiero di Mao Tse-Tung scendono in campo contro ogni residuo di revisionismo; c'è Cuba con il castrismo e con la scelta guerrigliera del comandante Che Guevara. Il «revisionismo» con le sue condizioni oggettive, con la sua prudenza, con il suo gradualismo e le sue tradizioni democratico-borghesi, con la sua coesistenza pacifica è l'ostacolo principale da abbattere. L'utopia della rivoluzione è l'altra faccia della paura del capitalismo. L'operaio si è integrato nel sistema, il borghese difende la sua condizione, i potenti di destra e di sinistra i loro privilegi, i partiti organizzano il consenso per lasciare tutto come prima; gli studenti-proletari in formazione, i «capelloni» che vogliono la libertà, gli hippies coi loro fiori, chi non ha mai fatto politica ma vuole liberarsi da una vecchia società: questi possono essere i nuovi protagonisti di una rivoluzione il cui desiderio è già valore. L'imperativo semplice ma chiaro è quello del presidente Fidel: «dovere di ogni rivoluzionario è fare la rivoluzione» e il comandante Che Guevara ne ha dato la conferma; ha lasciato Cuba per esportare la rivoluzione. Il giornalista e scrittore francese Regis Debray offre delle scelte del Che una tipica lettura occidentale. Motivo conduttore del suo libroRivoluzione nella rivoluzione è la concezione della guerriglia non come una semplice forma di lotta, ma uno strumento-processo per acquistare una diversa coscienza individuale, un'occasione per trasformare sé stessi, abbandonare la propria condizione «borghese», e porsi in modo totalmente nuovo e dirompente rispetto ai tradizionali rapporti operai-contadini-intellettuali, in un'unità fra tattica e strategia non più garantita da una «teoria», patrimonio del partito «rivoluzionario», ma da una «pratica» rivoluzionaria di eccezione. Una suggestività che ben si collega al dibattito in corso nella cultura occidentale sul ruolo degli intellettuali e sulla loro funzione rispetto alla lotta di classe, un tema ricorrente nelle pagine delle riviste degli anni sessanta e premessa indispensabile per la nascita del movimento degli studenti che spiega l'influsso ideologico delle rivoluzioni cubana e cinese su strati intellettuali e studenteschi al loro primo approccio con la politica. La stessa esperienza personale di Che Guevara fino alla sua morte in Bolivia, l'abbandono di ogni carica politica, le

peregrinazioni nel mondo per portare a compimento un progetto rivoluzionario, animato prima ancora che da un disegno strategico da una grande carica di idealità, diviene mito e modello da seguire. Il suo slogan «creare due-tre-molti Vietnam», estendere tutti i focolai di lotta come strumento per uno scontro definitivo con l'imperialismo, assume il valore di un'indicazione tattica e strategica, valida dovunque ci sia da combattere contro l'imperialismo. Tra il '66 e il '67 le riviste politiche culturali nate ali' inizio degli anni sessanta subiscono una sorta di «rifondazione». Non basta più il tentativo di «ridefinizione» dell'intellettuale e dei termini del suo impegno sociale, si è parlato di proletarizzazione del tecnico, di mercificazione del letterato, di artista assoggettato alle leggi del consumo, vittima dell' ideologia dei mass-media, il tutto nella logica di una società capitalistica capace di assorbire e di sanare tutte le contraddizioni, un grande Moloc a cui è diffìcile sfuggire. Bisogna trame conseguenze politiche e di schieramento: «Giovane critica» e «Nuovo impegno» fiancheggeranno gli operaisti; «Quaderni piacentini» e «Quindici» il movimento. I vari marxismi critici, con le loro riletture, si combinano alle spinte egualitarie provenienti dal «cattolicesimo sociale». In bilico tra populismo e operaismo cresce la necessità di un rapporto fra strati intellettuali in formazione e classe operaia. Avanza una concezione avanguardistica del «lavoro esterno» alle fabbriche. Il rapporto che si cerca, per lo più in modo astratto, risulta viziato dall' attribuire alla classe operaia un tendenziale adeguamento al «sistema» e una perdita di «volontà rivoluzionaria», che invece viene assegnata, un riflesso della propria soggettività, a «gruppi intellettuali» e alla «categoria» degli studenti. Essere rivoluzionari significa essere fuori dai canoni, dalle norme, dalle regole codificate, significa essere «apocalittici» e rifiutare di essere «integrati», parafrasando il titolo di un noto libro di Umberto Eco di quegli anni. Lo stesso consenso che Pci e sindacato (leggi Cgil) mantengono fra i lavoratori è interpretato come rinuncia a quella lotta rivoluzionaria di cui al contrario si intravvedono i segni nelle manifestazioni spontanee e nella protesta, fino a teorizzare la lotta degli studenti come «detonatore» nei confronti della stessa classe operaia. Comuni alla «gruppettistica» divengono due procedimenti fra loro contraddittori; entrambi nascondono la consapevolezza della propria condizione minoritaria: da un lato lo sperimentalismo politico, dall' altro un processo di composizione teorica «dai libri ai libri». In entrambi i casi si parte da una purezza astratta di pensiero e su questa si cercano di modellare forme organizzative e indicazioni strategiche, per lo più sovrapposte e avulse dalla reale pratica politica del proletariato italiano. Spesso la critica al «revisionismo» rimane generica e ideologizzante, sospesa fra l'allontanamento dai testi classici del «marxismo-leninismo» e la messa in discussione del ruolo del «partito». In questa «operazione politica» si misconoscono, in omaggio a una bordighista «purezza rivoluzionaria», le tappe principali della stessa storia politica italiana — la Resistenza, la svolta di Salerno,

la ricostruzione — considerate in blocco come esempi dei cedimenti tattici del revisionismo togliattiano. Più ricca e articolata la critica che nasce all'interno delle federazioni giovanili, ai margini dei tradizionali partiti operai, nel nuovo associazionismo cattolico. In questi militanti, intellettualizzati e per lo più giovani, lo sperimentare, il sentirsi costruttori in proprio di una linea, rompere con l'autorità impersonata dal partito, è una grande quanto corrosiva esigenza. Un misto di crisi e di affermazione di valori, un rifiuto della storia, ma anche il suo presentarsi come un vasto repertorio tutto indistintamente praticabile; l'affannosa ricerca di altro dal «realismo» della politica tradizionale. Siamo quindi di fronte a un processo intellettuale e sociale che estende la politicizzazione da una cerchia ristretta di intellettuali formati nei partiti operai o vicini ad essi — è il caso dei «Quaderni rossi» o di «Classe operaia» — agli autodidatti della politica. Paradossalmente nella società dei consumi e dell effimero benessere accanto al desiderio si massificano i luoghi comuni della «rivoluzione». Con l'inchiesta promossa da «Nuovo impegno» sui vari «gruppi» (fine del '67 e gli inizi del '68) appare chiaro il tentativo di porre la «autorità» del pensiero di Mao Tse-tung ed il concetto di «pratica sociale» a base di un virtuale processo di unificazione. Spesso, senza un rigoroso approfondimento i temi della rivoluzione culturale acquistano la funzione di un «modello» a cui ricondurre le varie sperimentazioni in atto e la stessa prospettiva di una nuova era rivoluzionaria. Le sue caratteristiche antiburocratiche, gli elementi di populismo, la rottura con la tradizione, l'immagine di una lotta di massa al revisionismo sono alcuni dei molteplici motivi che conferiscono ali' esperienza cinese un «alone» e una forza attrattiva per numerosi giovani, intellettuali in cerca di una loro identità. Principi come «servire il popolo», «milizia politica», «pratica sociale» formano un nuovo sistema d'autorità ideale per semplificare e riportare a sintesi l'ampiezza del dibattito delle riviste, sulla costruzione di una nuova tattica e strategia alternativa al Pci ed al movimento operaio organizzato. L'accelerazione di questo affanno culturale e di una nuova organizzazione non è solo indotta dal crescere della ricerca teorico-politica, ma è un riflesso del fallimento dell' operazione centrosinistra, e di un dilatarsi della domanda di cambiamento che evidenzia così i limiti del quadro politico e spinge a una «fretta» trasformatrice. Per la «gruppettistica», il movimento degli studenti del 1968 segna una svolta: alla vigilia delle lotte universitarie la presenza delle formazioni minoritarie è ancora qualcosa di ristretto a poche «avanguardie politicizzate», quasi sempre militanti provenienti dai partiti operai tradizionali e dal sindacato; esiste il lavoro degli operaisti davanti ad alcune delle fabbriche più importanti; il Pcd'I (marxistaleninista) è il dogmatico evocatore di una tradizione «rivoluzionaria» ma con scarsi legami di massa. L'anno degli studenti segna il completamento di un itinerario e insieme l'apertura di una fase nuova nella società italiana, nel mondo giovanile e nella storia dell'

estremismo. Per oltre un decennio processi eterogenei hanno convissuto fra loro; i figli del '56 si sono incontrati con i giovani degli anni sessanta, esperienze e storie diverse si sono intrecciate fra loro. Il vitalismo sessantottesco, incerto nella prospettiva ma dinamico nella volontà, riuscirà a comporre l'ansia di un' intellettualità attratta e insieme respinta dall'ideologia consumistica, permeabile a tutte le mode avanguardistiche e le speranze di una gioventù che, scesa in campo per la libertà, si è avvicinata al socialismo ma non si ritrova nella tradizione operaia e contesta il cauto conformismo della sinistra «revisionista». Tutto ciò mentre, fallite le sue presunte illusioni riformiste, si sono definitivamente logorate le premesse del centro-sinistra; la divisione nel mondo socialista è una dura e insanabile realtà. E impossibile coabitare in una sinistra «revisionista» e al tempo stesso ancora «stalinista» nella sua organizzazione interna; la logica dei «poli esterni» si è dimostrata inefficace; parziale e limitata l'esperienza dei gruppi locali; ormai è tempo di percorrere altre strade. La scelta del «ritorno al partito» di «Classe e Stato», con cui si conclude una ricerca iniziata nel '63, è solo un entrismo ritardato, stare nel Psiup per spostare il Pci. Altro è l'obiettivo di «Nuovo impegno»: unificare la nuova sinistra, superando la frammentarietà dello sperimentalismo locale e avviare le condizioni per una unificazione fuori del «revisionismo». Il '67 è l'anno delle espulsioni dal Pci e dal Psiup; i pisani che sono passati per i «Quaderni rossi», fondano nel febbraio il «Potere operaio» e lanciano a Rimini le Tesi della Sapienza. Il Black Power anche se non convince dimostra, l'impossibilità della «non violenza» come modo della lotta di classe. A giugno a Praga appare il manifesto delle 2.000 parole e in tutto il mondo esplodono i movimenti studenteschi. Sono passati meno di tre anni dalla rivolta di Berkeley. Dagli Stati socialisti al Sud America, dal cuore dell'imperialismo alla lontana Cina è tutto un «fuoco» rivoluzionario. Nella primavera le occupazioni di facoltà: Pisa, Venezia, Trento, Torino sono le premesse del Sessantotto. Il movimento degli studenti diventa il laboratorio del futuro estremismo, i gruppi con una storia già sedimentata si cimentano con una platea pronta a essere coinvolta e a fornire nuovi militanti. Al tempo stesso una gran massa di studenti inventa un modo diverso di far politica e trasforma nel profondo una gruppettistica cresciuta su se stessa e con scarsi collegamenti esterni. Una generazione riflette sulla sua storia mentre una nuova acquista consapevolezza del proprio ruolo. Vuole essere soggetto di cambiamento, sente che nel passato troppo poco si è cambiato, e rivendica un'accelerazione. Salta ogni apprendistato, 1'antirevisionismo è sinonimo di lotta all'autoritarismo, l'occupazione e poi lo scontro con la polizia, altrettante occasioni per la formazione della coscienza di classe. È un complesso di linee-forza; non esiste una teoria unificante ma tanti segmenti teorici e comportamentali che confluiscono, si intrecciano contaminandosi reciprocamente. La crisi del marxista si incontra con la crisi del cattolico, la

spontaneità col nuovo stalinismo, il militante della Fgci deluso con lo studente che non ha mai fatto politica. Per moltissimi nelle lotte studentesche avverrà il primo impatto con la politica come scena, come azione, come un vissuto totalizzante. Una rivoluzione vissuta come desiderio che coinvolge non solo i diretti protagonisti, i più politicizzati, ma trascina una molteplicità di soggetti ricchi di suggestioni, di curiosità di vita, bisognosi di affermare nuovi valori su uno scenario e una cronaca politica considerata troppo piatta e incapace di interpretare il desiderio di rinnovamento. La rifondazione della sinistra auspicata da Panzieri non si è avverata, al contrario si è accentuata la separazione fra il movimento operaio tradizionale e un composito sinistrismo ricco di fermenti e tensioni ma pur tuttavia incerto nel suo sviluppo come dimostreranno i suoi successivi itinerari.

1 Luigi Longo è eletto segretario del Pci nella seduta del comitato centrale del 26 agosto 1964. 2 «Quaderni piacentini», n. 17/18, luglio-settembre 1964. 3 Cfr. R. Solmi, La nuova sinistra americana, «Quaderni piacentini», n. 25, dicembre 1965; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1962-1968», cit., pp. 191207. 4 II VII congresso nazionale della Cgil si svolge dal 31 marzo al 5 aprile 1965. 5 «Progetto di tesi XI congresso Pci», opuscolo della sezione Stampa e propaganda della dirczione del Pci, 1965, p. 59.

II DAL CONTROLLO AL POTERE OPERAIO

1. Le sette tesi sul controllo operaio

Alla vigilia del congresso di Napoli del Psi, «Mondo operaio» (febbraio 1958) pubblica le Sette tesi sul controllo operaio, di Raniero Panzieri e Lucio Libertini. L'obiettivo immediato è contrastare la linea di Nenni e lo spostamento a destra del partito, tuttavia lo scritto va oltre la definizione di una piattaforma unitaria della sinistra socialista, per sollecitare un dibattito più ampio fra tutte le forze del movimento operaio e avviare quel generale rinnovamento già ipotizzato da Panzieri, sulle pagine della rivista tra la fine del 1957 e l'inizio del 1958 1. Il documento vuole «offrire armi teoriche» alla sinistra socialista per incrinare il fittizio equilibrio stabilitesi fra le correnti al congresso di Venezia, provocando una più vasta convergenza contro il neoriformismo. Al fondo c'è la preoccupata constatazione di una «socialdemocratizzazione» strisciante dei partiti operai, da fronteggiare attrezzando tutta la sinistra con una nuova teoria, sostenuta da un aggiornamento sulla fase dello sviluppo capitalistico. In sostanza si cerca di impostare una strategia rivoluzionaria in grado di contrastare il disegno neocapitalistico e al tempo stesso fare i conti «alla radice con lo stalinismo e con la crisi che intorno ad esso si era aperta nel movimento operaio internazionale» 2. Un'ambiziosa proposta di rifondazione, che muovendo da una forte spinta antiburocratica e dall'esigenza di una riflessione sulle novità del capitalismo italiano, rivendica la necessità di un dibattito sulla totalità della strategia portata avanti dal movimento operaio. Dopo il XX congresso del Pcus si impone una rilettura critica sia dell'esperienza socialista, che delle scelte operate dai comunisti italiani. Le antiche divergenze fra togliattismo e sinistra socialista, smarrito l'orizzonte che aveva concorso al loro superamento, riassumono una forte attualità. Saltato e messo in discussione lo stalinismo le condizioni della formazione dello stato costituzionale esigono una riconsiderazione, mentre appaiono premonitrici le

posizioni morandiane sulla «democrazia diretta», sullo stato, sulla concezione del partito politico 3 . La critica alle degenerazioni burocratiche si estende al «partito» che appare come un pericoloso veicolo di totalitarismo e di accentramento contro il dispiegarsi di una democrazia diffusa, immediatamente realizzabile dalla classe operaia nella società. L'esigenza di una nuova e più diretta democrazia, contro visioni centralistiche e rischi di involuzioni, è un'importante premessa per comprendere il tipo di adesioni che susciteranno l'esperienza cubana e la rivoluzione culturale cinese. Quest'ultima sarà considerata da molti come una lotta delle masse contro il partito politico, un' occasione per liberare un grande potenziale di lotta contro concezioni burocratiche e retrive del gruppo dirigente di un partito comunista. La stessa proposta del «controllo operaio» non è solo riconducibile a una diversa interpretazione del capitalismo, ma è permeata da una profonda critica al partito terzinternazionalista e più in generale alla nozione di «partito politico». Le novità sociali ed economiche si offrono come il campo d'analisi e di intervento da cui prendere le mosse per questa «liberazione» dal partito e per fondare una strategia del «controllo operaio» come premessa di una nuova ipotesi rivoluzionaria. Sul finire degli anni cinquanta si avvia la «riscossa operaia», in fabbrica si esprime una nuova combattività, nascono i fermenti di una nuova generazione, su questo sfondo il percorso che va dal «controllo» ali'originale esperienza dei «Quaderni rossi». Senza cercare genealogie di sorta, le Sette tesi sul controllo operaio rappresentano il primo esempio organico di una sollecitazione che, pur partendo dall'interno dei partiti tradizionali della sinistra, già si muove in direzione alternativa. L'elenco dei temi proposti dalle Tesi offre un inventario compiuto di questioni e interrogativi che troveremo come costanti dell' estremismo e della gruppettistica: il passaggio dal capitalismo al socialismo; la via democratica al socialismo e la via della democrazia operaia; il proletariato educa se stesso costruendo i suoi istituti; le condizioni attuali del controllo operaio; il movimento di classe e lo sviluppo economico; le forme del controllo dei lavoratori 4 . Esse rappresentano una base teorica fondamentale di quelle tendenze «operaistiche» che si ritrovano nelle riviste degli anni sessanta e, anche se il Sessantotto e i processi successivi mescoleranno tutto e l'intreccio fra varie culture spezzerà ogni presunta continuità e unità di linea, nei molti «partiti» del sinistrismo. Riconosciuta questa caratteristica, però, sarebbe erroneo sottovalutare l'influsso che le Sette tesi, per il loro carattere interlocutorio, avranno sui partiti operai e ancor più profondamente nelle vicende sindacali. Il dibattito e la pratica sindacale si dimostreranno permeabili alle nuove teorizzazioni, assorbendole in gran parte e nello stesso tempo ricomponendo una nuova strategia che troverà nell' autunno caldo il suo massimo punto d'espansione. L'analisi delle novità economiche della società italiana sono l'aspetto fondamentale da cui si origina il documento di Panzieri e Libertini, e di quello che

sarà il contributo di Panzieri alla rivista «Quaderni rossi». Una riflessione pervasa da un forte antistalinismo: sfiducia nel tipo di esperienza condotta in Unione Sovietica, critica al burocratismo, pessimismo sul «partito», elementi tutti che concorrono alla ricerca di nuovi spazi politici. Confluiscono nell' indagine, non solo i residui di libertarismo tipici di certa intellettualità italiana e che si riscontrano nell' origine stessa del movimento operaio del nostro paese, ma anche le drammatiche conseguenze della vicenda Stalin, i fatti di Ungheria e di Polonia. Il pensiero di Rodolfo Morandi e la tradizione culturale della sinistra socialista, così presente nel lavoro di Raniero Panzieri su «Mondo operaio», sono ampiamente ripresi nelle enunciazioni delle Tesi sul controllo. Alcune delle questioni chiave che avevano differenziato e fornito occasione di polemica politica fra Partito comunista e sinistra socialista, richiamate ali' attenzione del dibattito, acquistano uno spessore e un obiettivo nuovo. Già nella Lettera aperta ai compagni comunisti Rodolfo Morandi, in dissenso con la scelta del Pci sulla questione istituzionale, aveva posto il problema, che si ritrova nelle analisi e nelle proposte contenute nelle Sette Tesi, dei tempi e del significato del passaggio dal capitalismo al socialismo 5 . Un interrogativo sul quale dovremo più volte tornare affrontando le posizioni dei singoli «gruppi» estremisti, a confronto non è solo la scelta della «via italiana al socialismo», bensì il giudizio sullo «stato democratico», sulla natura di classe del sistema statuale costruito con la Resistenza. Uno stato democratico in cui progressivamente non ci si riconoscerà, svilendo/così il concorso della classe operaia alla sua edificazione e considerando il totale antagonismo al «sistema» come unica leva per non rimanere prigionieri di un capitalismo sempre più sofisticato ed efficiente. L'adesione del Pci alla svolta del XX congresso e il suo impegno per un adeguamento strategico non viene colto nel suo carattere innovativo. Permangono diffidenze sulla sua critica allo stalinismo, viene accusato di doppiezze e reticenze, e il suo centralismo democratico continua a essere visto come una gabbia autoritaria. Si esprime nelle Tesi e nel pensiero di Panzieri, la volontà di una «rifondazione di una nuova sinistra» capace di superare sia l'esperienza socialista che quella comunista cercando una nuova strada. La critica alla forma partito e alla strategia sono due piani che si intersecano determinando una promiscuità di letture che finiranno coll'annullare le finalità e l'ambito del documento per dar vita a interpretazioni polisenso a cui si attingerà da parti diverse. Di fronte alla caduta del mito dell'Unione sovietica tutta la storia del movimento operaio sembra doversi e potersi riaprire, saltato il pilastro dell'autorità indiscussa tutto il campo di ricognizione si allarga senza confini. Al dibattito apertosi con la pubblicazione delle Tesi partecipano numerosi rappresentanti della politica e della cultura; fra i più noti: Francesco De Martino, Alberto Caracciolo, Luciano Della Mea, Lucio Colletti, Roberto Guiducci, Livio Maitan, Valdo Magnani, Antonio Pesenti, Luciano Barca. Nelle Tesi si contesta la concezione secondo cui spetterebbe al proletariato il compito di realizzare la rivoluzione democratico-borghese, l'obiettivo polemico

non è solo lo spostamento del partito socialista ma anche la linea scaturita dall'VIII congresso del Pci e conscguentemente il nesso fra battaglia per la democrazia e prospettiva socialista. «Una tendenza che si è presentata in varie forme, ha creduto di poter schematizzare i tempi di questo processo, come se la costruzione socialista dovesse essere preceduta, sempre ed in ogni caso, da una "fase" di costruzione borghese. Verrebbe così assegnato al proletariato, dove la borghesia non avesse compiuto ancora la sua rivoluzione, il compito di condurre la sua lotta in vista di un fine determinato: quello appunto di costruire e di favorire la costruzione dei modi di produzione e delle forme politiche di una società borghese compiuta» 6 . Interpretando in modo restrittivo il significato della «via nazionale al socialismo», si contrappone a una «via democratica al socialismo» una «via della democrazia operaia» 7 . Ma il nodo è più lontano, è il valore della Resistenza e il ruolo che la classe operaia ha assolto nella costruzione dello stato democratico. Contestata questa peculiarità della lotta di classe nel nostro paese, ne consegue l'offuscamento del quadro istituzionale e degli stessi rapporti politici che divengono elementi indifferenti o comunque inessenziali al progetto di trasformazione della classe operaia. Le Tesi rifiutano ogni gradualismo nel processo di transizione. Solo un radicale antagonismo può consentire la fuoriuscita dalla morsa del capitalismo. In questo senso la critica investe l'insieme del sistema politico-istituzionale esistente. Ridotto a mero tatticismo o a vocazione riformistica il rapporto tra democrazia e socialismo, l'enfasi è posta sul ruolo del «controllo operaio» come doppio potere: una classe operaia antagonista al sistema istituzionale che in quanto classe dei produttori costruisce la sua democrazia nel cuore stesso dell'organizzazione capitalistica: la fabbrica. Siamo oltre la sottovalutazione del ruolo del partito: il «controllo operaio» rappresenta già il suo superamento. Il partito è una macchina burocratica che non consente la democrazia interna, che frena ogni spontaneità delle masse e ostacola l'unità della classe. La lotta per il «controllo», per Panzieri, implica una nuova concezione della politica e un netto «rifiuto di ogni rigida concezione partitica». E una conseguenza della sfiducia nell'esperienza storica del movimento operaio e della delusione sull'edificazione del socialismo nella Russia di Stalin. Contro le degenerazioni verticistiche e i «culti della personalità», l'unica garanzia è la costruzione di una democrazia realmente partecipata, dal «basso», come si dirà. Per fronteggiare il neoriformismo che si fa strada all'interno del Psi, e da cui non sono immuni alcuni settori del Pci, occorre una consapevolezza operaia capace di liberarsi da ogni piano di integrazione capitalistica. Il pericolo della «cogestione» è temuto come il rischio più forte dell'operazione di centrosinistra, reso ancora più acuto dalla divisione intervenuta fra partito comunista e partito socialista. Per gli estensori delle Tesi, né il progetto nenniano, che assegna alla classe operaia un ruolo di collaborazione al capitalismo nella costruzione di un regime di democrazia compiuta, né la linea del Pci, che ipotizza una classe che assume in

proprio la funzione di costruire un regime di democrazia borghese, sono adeguati a contrastare le scelte neocapitalistiche e a opporsi alle sue tecniche di dominio sulla società. La mitica quanto infondata fiducia nelle possibilità del nuovo capitalismo italiano di sanare le contraddizioni del paese diventa una copertura alle sue logiche di «ingabbiamento» della lotta di classe e legittima una sostanziale tregua operaia. Fidando nel processo tecnologico e nel recupero capitalistico si finisce per attribuire ai ceti dominanti una elevata capacità riformistica dalla quale potrebbe derivare una sorta di tregua operaia dentro il sistema. In quegli anni si opera nell'ideologia del capitalismo italiano una vera e propria rottura fra la vecchia mentalità padronale rappresentata dalla Confindustria e una nuova visione manageriale, che trova nella politica degli alti salari, nel rapporto sempre più stretto fra capitale privato e capitale straniero i suoi punti di forza. Da un lato, quindi, abbiamo la Confindustria, nel cui seno non mancano polemiche, che è ostile nei confronti di tutti i partiti politici, critica le rivendicazioni in fabbrica polemizza e attacca i sindacati, si schiera contro le Partecipazioni statali e la politica economica di Enrico Mattei. Su un altro fronte si trovano i settori capitalistici che rappresentano il nuovo: essi sono la Fiat che uscirà dalla Confindustria, il settore del capitalismo pubblico, l'Eni (Mattei), l'Iri (Petrilli). Sarà questo lo schieramento industriale favorevole a soluzioni di centro-sinistra. Nel mutato quadro economico si avanza la prospettiva del «controllo operaio», concepito come progressiva assunzione di coscienza da parte della classe operaia del ruolo determinante e decisivo che va acquistando nelle trasformazioni produttive. «La classe operaia — si legge nella sesta tesi — mano a mano che, attraverso la lotta per il controllo, diviene soggetto attivo di una nuova politica economica, assume su di sé la responsabilità di un equilibrato sviluppo economico, tale da spezzare il potere dei monopoli e le sue conseguenze: squilibri tra regione e regione, tra ceto e ceto, settore e settore. Perciò, allo stesso modo, rovesciando l'attuale funzione dell' azienda pubblica, la trasforma in elemento di sostegno e di protezione dei monopoli, in diretto strumento dell' industrializzazione del Mezzogiorno e delle sue aree depresse. In pratica ciò fa della politica di sviluppo economico un elemento di aspro contrasto con i monopoli; contrasto che si presenterà anzitutto come conflitto tra settore pubblico (alleato con le piccole e medie imprese) e il settore della grande impresa. Va inoltre sottolineato che il movimento di classe portando avanti un equilibrato e adeguato processo d'industrializzazione non si "sostituisce" al capitalismo, non ne "compie l'opera", ma unisce lo sviluppo economico a una parallela trasformazione dei rapporti di produzione perché sono proprio oggi in Italia, questi vecchi, capitalistici rapporti di produzione 1'ostacolo inconciliabile con la politica di sviluppo economico» 8 . Gli strumenti dell'autonomia operaia trovano nella sfera della produzione il loro punto d'origine: è la premessa per l'attenzione che i «Quaderni rossi» rivolgeranno

alle nuove tecniche del capitalismo, all'organizzazione del lavoro nella fabbrica moderna, luogo essenziale per costruire una consapevolezza della classe. Ne deriva una forte vocazione «operaista» che, sopravalutando il grado di sviluppo capitalistico e la coincidenza fra modello sociale e modello neoindustriale, tende a ridurre la complessità dei rapporti politici e istituzionali. Da ciò la sfiducia nel «partito» come strumento di una classe che si fa soggetto di un generale rinnovamento economico, politico, morale, giuridico. La qualità specifica dello stato italiano post-resistenziale non è intesa nella sua potenzialità: lo stato di cui si parla nelle Tesi è quello della borghesia e il proletariato è fuori dalla sua costruzione. Si afferma perentoriamente che «il proletariato educa se stesso costruendo i suoi istituti». Secondo questa visione la «via parlamentare al socialismo» comporta una concezione dello stato al di sopra delle classi, con un parlamento ridotto a «sede dove si ratificano e si registrano i rapporti di forza tra le classi, che si sviluppano e si determinano al di fuori di esso e l'economia resta la sfera nella quale si producono i rapporti reali e ha sede la reale fonte del potere» 9 . Al contrario, nella volontà di restituire pienezza alla democrazia diretta, i movimenti di classe debbono esercitare mediante i nuovi istituti una costante pressione dal basso nei confronti degli istituti parlamentari. Solo nella realizzazione di Una fitta trama di organismi, di controllo operaio e di nuovi strumenti partecipativi si può sviluppare un' adeguata consapevolezza di classe: «la costruzione da parte del proletariato di nuovi organismi di potere attraverso cui esercitare una democrazia diretta è il processo con cui la classe operaia prende coscienza e assume consapevolezza della propria lotta politica». Influenza gli estensori delle Tesi il «nuovo» che avanza nei comportamenti operai, l'emergere di soggetti politici che scoprono la politica e il «protagonismo» sociale al di fuori dei tradizionali partiti operai. La critica a Stalin, i fatti d'Ungheria e di Polonia, avevano evidenziato in tutta la loro drammaticità la questione dello stato sovietico; tuttavia nel dibattito sulle Tesi non si afferma ancora la ricerca di un «modello» di socialismo, piuttosto si torna alle origini e nelle prime elaborazioni leniniste e nella teoria dei Soviet si cerca una specificità della democrazia socialista. Nell'indagine sui suoi possibili contenuti si afferma la necessità di un diverso rapporto fra classe operaia e Stato; quindi una concezione dei Soviet proiettati in una visione della democrazia socialista fatta di istituti partecipativi, forme politiche capaci di esercitare e di sviluppare la democrazia e il controllo già nella fase che precede la rivoluzione. Si acquista così, nel corso di questo processo, una consapevolezza del proprio ruolo che diventa la principale garanzia contro eventuali degenerazioni burocratiche del partito politico e dello Stato. Luciano Barca, intervenendo nel dibattito sulle Tesi, pur accogliendo in senso positivo la funzione degli organi di controllo come ampliamento della democrazia socialista, ne sottolinea i limiti riaffermando il momento del partito come massimo punto di unità. Leggendo l'articolo di Barca vi si ritrova un limite che caratterizzerà il Pci nella sua critica all'estremismo, si conduce la polemica

all'ombra di punti di autorità consolidati mentre debole è lo sforzo per comprendere la novità del fenomeno. «Tutta la battaglia di Lenin contro 1'anarcosindacalismo, contro tutte le interpretazioni piccolo-borghesi della democrazia diretta, contro lo "stato operaio" di Trotzki e contro la "democrazia produttiva" di Bucharin, tutta la battaglia condotta prima a proposito dei Comitati di fabbrica e poi sulla funzione dei sindacati; tutta questa battaglia, dicevo, è appunto una battaglia che parte dalla chiara coscienza dei limiti di controllo operaio nello stesso momento in cui ne afferma il valore» 10 . Per Panzieri, come verrà ulteriormente precisando, la crisi del partito politico come tradizionale strumento della classe operaia è conseguenza diretta della fase nazionale e internazionale del movimento operaio, rivela la contraddizione fra perdita di strategia e una situazione di forte spinta rivoluzionaria. Nell'esaltazione della «democrazia diretta» salta la tradizionale concezione del «partito» e nello stesso tempo si salva e si ricostruire una prospettiva rivoluzionaria del proletariato. «La difesa in questa situazione dell'autonomia rivoluzionaria del proletariato si concreta nella costruzione dal basso, prima e dopo la conquista del potere, degli istituti della democrazia socialista, e nella restituzione del partito alla sua funzione di strumento della formazione politica del movimento di classe (strumento, cioè, non di guida paternallstica, dall'alto), ma di sollecitazione e di sostegno delle organizzazioni nelle quali si articola l'unità di classe»11. In quegli anni nei tradizionali partiti operai italiani la questione del rinnovamento è acuta e lacerante. Si insiste molto sulla democrazia interna, sulla partecipazione al dibattito e alle decisioni. Di fronte ai processi di «revisione» in atto, dalle correzioni alle torsioni di linea che investono la sinistra, non meraviglia il senso generale di critica verso il «partito». Spesso la discussione pecca di astrattezza, non sono la storia e la linea politica a determinare i limiti del «partito», bensì è la nozione, la categoria, 1'istituzione stessa del «partito». Garanzia contro le nuove forme di riformismo e contro ogni burocratizzazione del potere è «l'autonomia operaia», il processo dal basso per realizzare il «controllo operaio», l'intervento sulla sfera dei rapporti produttivi ed economici: «La forza reale del movimento di classe si misura dalla quota di potere e dalla capacità di esercitare una funzione dirigente ali'interno delle strutture della produzione» 12 . Partendo dallo sviluppo della fabbrica moderna, spetta al lavoratore spezzare ogni tentativo di totale asservimento, contrapporre alla «democrazia aziendale» di marca padronale e alla mistificazione delle relazioni umane la rivendicazione della democrazia operaia. La compenetrazione in atto tra Stato e monopoli impone che «il movimento operaio, imparando la lezione dell' avversario deve spostare sempre di più il centro della propria lotta sul terreno del potere reale e delegante». In questo senso: «La lotta del movimento di classe per il controllo non può esaurirsi neppure nell'ambito delle singole aziende, ma deve essere collegata ad essa su tutto il settore, su tutto il fronte produttivo» 13. La stessa categoria del «potere», perso il riferimento del dato politico, misurandosi al di fuori dei reali rapporti fra forze

politiche, fra istituzioni e movimento delle masse, cade nella genericità di un riferimento morale e sociale, in una concezione riduttiva delle stesse possibilità di intervento e di trasformazione. Le Tesi vanno al di là del mero documento precongressuale tuttavia l'obiettivo politico dello scritto non deve essere smarrito. Il rischio della divisione del movimento operaio è forte, la rottura del patto d'unità d'azione fra Psi e Pci, la manovra democristiana e socialdemocratica sono tappe di un pericoloso processo di lacerazione fra i partiti della sinistra e quindi nella classe operaia. In questo quadro si inserisce il discorso sull'«unità di classe» contenuto nella quinta Tesi: «La rivendicazione del controllo dei lavoratori, i problemi che solleva, l'impostazione teorica ad essa connessa, implicano necessariamente l'unità delle masse, e il rifiuto di ogni rigida concezione partitica la quale ridurrebbe la tesi stessa del controllo ad una meschina parodia» 14 . La togliattiana democrazia parlamentare altro non è che la statica rappresentazione dei conflitti sociali, il suo formalismo da forza di legittimità al potere capitalistico e ne occulta la reale natura. E una sclerosi superabile solo col ricorso a una forte dialettica fra i nuovi istituti del controllo e gli istituti parlamentari, a una pressione dal basso esercitata dai movimenti di classe e dal? esercizio più esteso di un' ampia democrazia. Come si vede, anche se ancora prudentemente, si è già ali'ipotesi di un'altro approccio con la politica, sottratta ai partiti e al sistema parlamentare della rappresentanza, per restituirla a nuove forme e metodi della partecipazione: «La costruzione da parte del proletariato di nuovi organismi di potere attraverso cui esercitare una “democrazia diretta” è il processo con cui la classe operaia prende coscienza e assume consapevolezza della propria lotta politica». Il partito politico ha le sue leggi, è regolato da un diffìcile equilibrio fra gruppo dirigente e base, la manovra verticistica e la tattica spesso si sovrappongono al rapporto con le masse e ne ostacolano l'espandersi, la sua ideologia è un freno allo sviluppo dell' unità di massa. Occorre quindi superare le strettoie del partito per fondare questa nuova unità. E in atto una ripresa delle lotte sindacali, nelle fabbriche si vanno affermando processi unitari, mutamenti profondi stanno intervenendo nel sindacalismo cattolico. Sono tanti i segnali che offrono una legittimazione a questa impostazione portata avanti da una minoranza che cerca di fermare il processo involutivo del Psi e nello stesso tempo non si riconosce nella linea del Pci. Negli scritti che seguiranno tornerà spesso il concetto di unità delle masse. La divisione ideologica e culturale prodotta dai partiti non è ricomponibile senza una nuova unità di base della classe operaia, della categoria dei produttori che, in quanto produttori, sono potenzialmente uguali nei loro interessi e problemi, tutti ugualmente oppressi dalle leggi del capitalismo. Al «politico» si privilegia il sociale: «Non c'è controllo dei lavoratori senza l'unità nell'azione di tutti i lavoratori della stessa azienda, dello stesso settore, dell'intero fronte produttivo; un'unità non mitologica, o pure a donamento della propaganda di un partito, ma

che sia realtà che si attui dal basso, presa di coscienza da parte dei lavoratori della loro funzione nel processo produttivo, creazione concorde degli istituti unitari di un potere nuovo» 15 . Ma non basta la costruzione dall'interno, nella grande fabbrica moderna, di un nuovo livello di unità per recidere le basi del potere monopolistico. Gli obiettivi posti da Libertini e Panzieri appaiono perdenti se si misurano con l'ampiezza dello scontro in atto, le forze che rappresentano gli interessi monopolistici si muovono in due direzioni solo apparentemente divergenti: per un verso portano avanti un disegno di tipo autoritario teso a colpire il sistema democratico, le autonomie locali, nello stesso tempo introducono la teoria e la pratica della collaborazione di classe per togliere alle forze colpite dalla «razionalizzazione monopolistica» ogni punto di guida e di unità. Da ciò la difesa da parte del Pci, in polemica con il documento, del ruolo del partito operaio capace di unificare in una visione organica tutti gli aspetti della vita nazionale. Per il Pci la classe operaia, facendosi portatrice di uno sviluppo «organico e democratico», contrapposto allo «sviluppo distorto proposto e attuato dai monopoli», deve condurre una battaglia capace di costruire un vasto schieramento di alleanze sociali e politiche, tale da far fronte a ogni disegno apertamente reazionario (come avverrà con Tambroni), e a ogni ipotesi di tipo riformistico. Il dibattito che si sviluppa sulle pagine di «Mondo operaio», dell'«Avanti!», de «l'Unità», il suo protrarsi fino a dopo le conclusioni del congresso di Napoli, le problematiche affrontate dimostrano come le questioni poste aderiscono al clima politico e alla qualità della discussione che è in corso nei partiti operai in quegli anni; si tratta infatti di nodi teorici e pratici di fondo, resi acuti e attualizzati dagli eventi. Una riflessione che pur guardando al nuovo ha ben presente l'esperienza politica concretamente prodotta. Un tentativo tuttavia non esente da rigidità ideologiche, slittamenti verso l'astrazione e vizi intellettualistici tipici di quella fase politica e culturale. Troviamo nelle Tesi le tracce di antiche dispute ali'interno del movimento operaio, delle polemiche e divisioni fra partito comunista italiano e partito socialista, soprattutto sulle caratteristiche del socialismo e sulla sua concretizzazione. Ma proprio l'intreccio fra queste complesse memorie storiche e il nuovo del quadro mondiale e della situazione economico-politica determina una sorta di continuità non lineare fra le Tesi sul controllo operaio, il lavoro di ricerca dei «Quaderni rossi» e le sue varie diramazioni. Non sempre si tratta di arricchimenti ma anche semplificazioni, che tuttavia si possono estensivamente considerare come premesse imprescindibili per il futuro dell'estremismo e della gruppettistica italiana. Saranno le conclusioni del congresso di Napoli del Psi a chiudere il confronto apertosi su «Mondo operaio». L'esito negativo del dibattito che si è voluto provocare porta con sé disillusioni e sfiducia nella possibilità di incidere sulla linea dei partiti della sinistra tradizionale senza il supporto di una reale esperienza di massa. «Anche se discutere è sempre necessario, — scrivono Panzieri e

Libertini — un ulteriore dibattito in astratto sul controllo operaio sarebbe a nostro avviso dannoso: rischierebbe di diventare una esercitazione per intellettuali, o addirittura il falso scopo per altre polemiche e per anticomunismo accademico. La parola è ormai alle organizzazioni operaie in quanto tali, allo stesso sindacato nella misura in cui esso affronta i temi del suo rinnovamento, che sono i temi delle forze autonome di espressione dei lavoratori. Le Tesi del controllo trovano il loro naturale sviluppo non in un'accademia libresca, ma in un'azione politica, nella lotta in corso per un giusto indirizzo. Vi è una contraddizione sempre più evidente oggi, tra il grande e importante sviluppo delle lotte di massa del nostro paese e ciò che accade nei partiti e, in particolare, per quello che ci riguarda, direttamente nel Partito socialista. Va detto con chiarezza che le decisioni del congresso di Napoli sono una negazione della sostanza politica delle Tesi sul controllo operaio, proprio perché esaltano un curioso paternalismo politico, sopravvalutano l'azione parlamentare, negano lo sbocco politico dell'azione di massa. Siamo sempre più convinti che il tema centrale del movimento operaio rimane il rinnovamento. Ma i vincitori di Napoli hanno dimostrato di cercare il nuovo solo nella esasperazione del vecchio. Moltiplicando le illusioni si rende sempre più difficile la costruzione vera della sinistra italiana» 1616. Tema centrale quindi per il movimento operaio resta il «rinnovamento». Non basta il realismo della storia, la dura concretezza dei rapporti politici occorre avventurarsi nella sperimentazione, non limitarsi all'enunciazione ma confrontarsi con la pratica, leggere nelle vicende politiche la conferma delle proprie analisi, forzare i partiti della sinistra e in particolare il Pci a darsi una linea diversa, costringerlo a tagliare col proprio passato nel momento stesso in cui tenta un'interpretazione nuova e originale ma ancora troppo incerta di fronte alla modernizzazione incombente. Tra il congresso di Napoli e il congresso di Venezia si matura e si compie il definitivo spostamento politico del Psi.

1 La riflessione di Raniero Panzieri si precisa dopo il XX congresso del Pcus. Cfr. Appunti per un esame della situazione del movimento operaio, «Mondo operaio», gennaio 1957; II controllo operaio al centro dell'azione socialista, «Mondo operaio», gennaio 1958. 2 L. Libertini, Introduzione a «La sinistra e il controllo operaio», Libreria Feltrinelli, 1969, p. 5.

3 Cfr. Il discorso pronunciato da R. Morandi alla Consulta nazionale il 28 settembre 1945, II popolo anela a nuovo ordine, in «Democrazia diretta e riforme di struttura», a cura di S. Merli, Einaudi, 1975. 4 Cfr. L. Libertini, Introduzione a «La sinistra e il controllo operaio», cit. 5 Lettera aperta ai compagni comunisti, firmata «Polo» nome di battaglia di R. Morandi appare in «Politica di classe», settembre 1944, pubblicata in R. Morandi, «Lotta di popolo 1937-1945», Einaudi, 1958, pp. 61-64. Per l'opera di R. Morandi rimandiamo oltre all'opera completa, ai tre volumi antologici a cura di S. Merli, «Politica unitaria»; «Democrazia diretta»; «Riforme di struttura», Einaudi, 1975. Sui dissensi fra comunisti e socialisti nel periodo della Resistenza e sulle questioni della democrazia diretta, cfr. «Storia documentaria dal Risorgimento della Repubblica» a cura di S. Manacorda, Laterza, 1970, volume II, p. 739 e sgg. 6 Prima tesi: Sulla questione del passaggio dal capitalismo al socialismo, in «La sinistra e il controllo operaio», cit., p. 37. 7 Ibidem, p. 42 , Seconda tesi: La via democratica al socialismo è la via della democrazia operaia . 8 Ibidem , p. 48 , Sesta tesi: II movimento di classe e lo sviluppo economico . 9 Ibidem, p. 43, Seconda tesi. 10 Ibidem, p. 199, L. Barca, II controllo e la lotta contro il regime, la sinistra e il controllo operaio. 11 Ibidem, p. 46. Quarta tesi: Sulle condizioni attuali del controllo operaio. 12 Ibidem, pp. 43-44. Terza tesi: II proletariato educa se stessocostruendoi suoi istituti. 13 Ibidem, p. 45. Quarta tesi. 14 Ibidem, pp. 46-47. Quinta tesi: II senso dell'unità di classe e la questione del collegamento fra lotte parziali e fini generali. 15 Ibidem, p. 47. 16 Ibidem, p. 215.

2. I Quaderni rossi

Dopo il XXXIII congresso del Psi, Raniero Panzieri lascia la direzione di «Mondo operaio», nel '61 sarà escluso dal comitato centrale, ormai la sua militanza si realizzerà al di fuori dell' organizzazione di partito. La sede del suo impegno diventa Torino, dove si è trasferito già nel '59 come direttore di una collana presso l'editore Einaudi. Iniziano i contatti col Psi torinese, con giovani militanti del Pci, con rappresentanti della Fiom; gli incontri si estendono ad altre città e intanto matura l'idea di una nuova sinistra più libera dalle regole e dalle influenze dei partiti. Nel '59, in una lettera ad Alberto Asor Rosa, Panzieri sintetizza le linee programmatiche di una nuova rivista: «1) necessità di esprimere ed articolare una posizione unitaria al di fuori delle beghe delle lotte delle correnti e dei gruppi nei partiti e nel sindacato; 2) questa posizione unitaria esige la prospettiva di politiche e strumenti unitari della classe operaia, constatate senza reticenze le involuzioni e deformazioni delle attuali politiche e modi d'azione e nello stesso tempo intende influenzare esplicitamente gli organismi esistenti, considerandoli disponibili per una politica rivoluzionaria; 3) il rifiuto della falsa alternativa riformismocatastrofismo (nelle versioni recenti) si sostanzia nella rivendicazione e linea della democrazia diretta (controllo operaio); 4) i temi della democrazia diretta debbono emergere da una analisi determinata delle condizioni della lotta di classe sul piano interno e sul piano internazionale (in questo senso è da considerarsi superata l'esperienza del nostro “Mondo operaio”); 5) al centro delle ricerche deve essere quindi l'esame positivo delle condizioni materiali e di coscienza della classe operaia in Italia e la distruzione precisa e documentata dei miti correnti del neoriformismo (ideologie del “consumo”, ideologie “sociologiche”. etc.)» 1 . Caduta l'illusione di condizionare ideologicamente i partiti e i sindacati, l'intervento si sposta ali'interno del movimento, per sperimentare concretamente le forme di un nuovo modo di fare politica, per dialogare con la sinistra tradizionale partendo dai fatti che si è saputo costruire. Il confronto è ormai tutto proiettato in una logica esterna al partito: «Se la crisi delle organizzazioni-partiti e sindacato, è nel divario crescente tra essi e il movimento reale di classe, quindi nel divario tra condizioni oggettive della lotta e ideologia e politica dei partiti, il problema può essere affrontato soltanto partendo dalle condizioni, strutture e movimento di base, dove l'analisi si compie soltanto nella partecipazione delle lotte. Naturalmente tutto questo non è nulla di nuovo, di nuovo c'è la constatazione delle contraddizioni in cui molti di noi sono caduti cercando di operare sul piano tattico

degli organismi ufficiali o accettando per questo compromessi fallimentari, o rivendicando, in quanto intellettuali, un' autonomia che può realizzarsi solo nella forma di azione piena e diretta» 2. Panzieri promuove incontri e riunioni in varie città con militanti dei partiti operai e del sindacato (per lo più si tratta di giovani quadri intellettuali). Tuttavia in Panzieri l'ancoraggio al partito è presente come contraddizione, infatti oscilla fra l'idea di una potenzialità rivoluzionaria frenata dai partiti e il riconoscere a essi il carattere di strumento di cui servirsi. Così scrive a Tronfi nel dicembre '60: «Emergono sempre gli elementi comuni fondamentali che ormai conosciamo e non ci sorprendono: una spinta “spontanea” che precede e sopravanza il sindacato, l'esprimersi — naturalmente confuso e disordinato — dei giovani operai come avanguardia, l'aspirazione ad una prospettiva politica che non si individua mai nelle politiche proposte dai partiti e quindi la grande difficoltà di dare consistenza e valore di continuità sicura a queste lotte e di precisare una vera avanguardia. Si potrebbe dire che il tipo di lotte che oggi si registra contiene immediatamente e come essenziale un elemento politico, una richiesta di potere e che nello stesso tempo questo elemento non viene alla luce o addirittura si smarrisce a causa del discorso politico fatto ufficialmente dal Psi e dal Pci. Si intuisce benissimo che tutto potrebbe acquistare una chiarezza e una forza ben diverse in una prospettiva rivoluzionaria. Invece allo stato attuale gli operai si “servono” anche dei partiti e del sindacato contro l'alienazione capitalistica, ma sentono insieme, come alienazione, il loro rapporto con partiti e sindacati» 3. Nella stessa biografia del militante una conflittualità non risolta: siamo ancora alle contraddizioni interne alla cultura organizzativa del partito. Nella «riscossa operaia» che caratterizza gli anni sessanta si esprime, sia pure contraddittoriamente, una fuoriuscita dagli alvei tradizionali della lotta operaia. Si tratta, come è stato più volte sottolineato, di una fase complessa di sindacalizzazione di una classe operaia nuova per esperienza e per tradizione. La rabbia degli immigrati, ex contadini proiettati nella dimensione della grande fabbrica, diventa coscienza di classe nell'approccio con forme nuove di lotta e di rivendicazione. La lotta operaia supera i suoi ambiti, non sopporta la mediazione delle vecchie commissioni interne, esige una radicale socializzazione. Se questo è il dato nuovo della situazione italiana occorre partire da questa nuova soggettività, per rompere il piano di asservimento al neocapitalismo. Mentre i partiti della sinistra rimangono trincerati nelle loro rispettive posizioni e prigionieri della loro struttura burocratica, il sindacato sembra più aperto, più disponibile a confrontarsi con le novità e a sperimentare forme diverse di azione politica per una prospettiva autenticamente rivoluzionaria. Intanto Panzieri consolida i rapporti con la Fiom di Torino, e coinvolge nel suo progetto vari nuclei locali interni ed esterni ai partiti. In questo contesto nascono i «Quaderni rossi», definiti «organo di coordinamento di tutti i gruppi orientali nella stessa dirczione, qualunque sia la loro collocazione politica o extra-partitica».

Il primo numero della rivista esce nell'ottobre 1961, se ne stampano duemila copie. E la sintesi del lavoro di un anno: il convegno all'Olivetti del dicembre '60, il convegno Fiat del gennaio '61, l'intervento nella lotta dei Cotonifìci Valle di Susa. La direzione della rivista è affidata a Raniero Panzieri. Il comitato di redazione è composto da Emilio Agazzi, Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Giuliano Boaretto, Luciano Della Mea, Dino De Palma, Liliana Lanzardo, Mario Miegge, Giovanni Mottura, Giuseppe Muraro, Vittorio Rieser, Emilio Soave, Mario Tronti. L'editoriale è di Vittorio Foa. Fino al dicembre 1965 la rivista pubblicherà sei numeri. Ad essi si aggiungono come strumenti di lavoro le «Cronache dei Quaderni rossi» (un contributo all'analisi dello sciopero alla Fiat del 1962) e, dal novembre 1963, «Le lettere dei Quaderni rossi», l'ultimo numero delle quali sarà pubblicato nel gennaio 1967. Per l'eterogenea composizione del gruppo redazionale e per la variegata esperienza teorica e pratica sarebbe improprio ricostruire una sintesi organica dell'elaborazione dei «Quaderni rossi», sembra più corretto inquadrarla in una zona di confine fra impasse della sinistra ufficiale e prospettiva di quella che sarà la gruppettistica. Con i «Quaderni rossi» ha inizio la rete organizzativa che in modo policentrico porterà alla formazione delle varie sigle dell' operaismo. Nascono gruppi e collettivi locali che si riconoscono nella rivista e portano le sue indicazioni nel lavoro davanti alle fabbriche. È la fase dell'apprendistato di un nuovo militante che cerca il contatto diretto con la classe operaia, fa l'inchiesta, il volantinaggio, da vita ai bollettini e ai fogli di fabbrica: non gli basta l'esperienza locale e settoriale, vuole sentirsi dentro un flusso generale. La sua provenienza è studentesca e intellettuale, qualcuno ha fatto il luglio '60 e di fronte alle violenze di piazza Statuto a Torino si è schierato dalla parte di quelli che «l'Unità» ha definito «teppisti». Alcuni non hanno mai fatto politica, altri sono ancora iscritti al partito: non si riconoscono nella sua linea, ma credono sia ancora possibile cambiarla. Proprio la questione del rapporto con le organizzazioni ufficiali della sinistra sarà un nodo irrisolto dell’ esperienza dei «Quaderni rossi»: attorno ad esso si verificheranno la rottura di «Classe operaia», le osmosi e le aperture verso il Psiup e gli altri gruppi. Alla fine del '67 si imporrà una scelta, poiché ormai si saranno determinate tutte le condizioni per una diversa centralizzazione. Si avvierà così la fase che porterà a «Potere operaio» e successivamente, per ulteriore scissione sempre attorno al nodo dell'organizzazione, a «Lotta continua». Nella scelta della rivista si esprime un salto di qualità rispetto alla precedente riflessione di Panzieri: dalla fase di «Mondo operaio» e delle Tesi sul controllo, si passa alla fondazione di uno strumento autonomo, un laboratorio-ricerca finalizzato al progetto di rifondazione di una strategia alternativa. Concludendo il dibattito sulle Tesi era stata definita ingannevole la logica di un' identificazione nel partito dell' «elemento politico generale», quasi che tutto il resto fosse solo «disintegrazione anarchica». In polemica con gli esponenti comunisti intervenuti

nel dibattito si era contestato lo schema «tutto nel partito, nulla fuori del partito», espressione, secondo Panzieri, «del più schietto stalinismo, dove fiorisce la teoria e la pratica del partito-guida, depositario del dogma rivoluzionario» 4 . Pur senza prospettare una soluzione alternativa si cercano modi organizzativi nuovi, capaci di superare sia il centralismo dei partiti comunisti, che lo sfaldamento provocato dalle correnti nel Partito socialista. Per raggiungere questo obiettivo, contro la concezione del partito come garante ideologico, si deve puntare al dato soggettivo immediato: la «condizione operaia» come leva fondamentale per una nuova unità di classe. Centro teorico del primo numero della rivista è l'analisi delle Lotte operaie nello sviluppo economico, come titola l'editoriale di Vittorio Foa, lotte che sono rimaste nell' ambito sindacale non trovando «una loro compiuta espressione politica» 5 . Affiancano il saggio di Foa e quello di Panzieri su L'uso capitalistico delle macchine, resoconti e studi sull' organizzazione del lavoro e sulla natura delle rivendicazioni operaie: Cronaca delle lotte ai cotonifici Valle Susa;Esperienza e resoconti sindacali; Dati sulle lotte a Torino; Documenti sulla lotta di classe alla Fiat. Il campo d'indagine è la fabbrica moderna con il suo ciclo produttivo, come luogo di formazione ed esperienza della nuova figura sociale dell'operaio degli anni '60; una ricognizione finalizzata alla conoscenza delle possibilità di un'azione di massa antagonista ali'ordine capitalistico, da contrapporre ali'arretratezza e ai limiti dell'azione sindacale e politica della sinistra. Dall'«uso capitalistico delle macchine» Panzieri fa discendere la proposta del controllo operaio, una prospettiva rivoluzionaria per evitare lo «scadimento» sindacale dell' azione operaia e il suo riassorbimento nello sviluppo capitalistico. L'ipotesi di fondo da cui muove è la capacità del capitalismo di realizzarsi nella sua totalità inglobando definitivamente le lotte operaie: è un capitalismo capace ormai di risolvere le sue contraddizioni. Se il rischio è 1'ingabbiamento, ne consegue il rifiuto di ogni logica di piano. È infatti proprio nella pianificazione che si realizzano i meccanismi di integrazione della classe operaia da parte di un capitalismo ammodernato nelle tecniche e nell'ideologia. Alle lotte spetta il compito di rottura dell' ordine capitalistico: «Dacché, con l'organizzazione moderna della produzione aumentano teoricamente per la classe operaia le possibilità di controllare e dirigere la produzione, ma praticamente attraverso il sempre più rigido accentramento delle decisioni di potere si esaspera la alienazione, la lotta operaia, ogni lotta operaia, tende a proporre una rottura politica del sistema» 6 . La normalizzazione e i meccanismi di stabilizzazione del capitalismo vanno rovesciati, ponendo la classe operaia fuori dalla logica di piano e determinando le condizioni per un'«azione operaia» proiettata verso il «rovesciamento totale dell' ordine capitalistico». Solo in questo modo saltano le possibilità di razionalizzazione, gli «indefinibili margini di concessione» che servono a imporre il «dominio» capitalistico.

Non solo le macchine, ma anche i metodi e le tecniche organizzative sono tutti aspetti di un medesimo disegno. Scrive Panzieri: «Per ostacolare il piano capitalistico si deve dunque padroneggiare lo specifico tecnologico e produttivo», in questo riconoscimento non vi è nessuna esaltazione modernista, al contrario si vuole far esprimere nelle lotte un «uso socialista delle macchine» tale da scardinare ogni «razionalità tecnologica». Ridotti a una funzione stabilizzante, i partiti e il sindacato di classe vanno superati dalla forma del «controllo», intesa come «preparazione di situazioni di dualismo di potere in rapporto alla conquista politica totale». La combattività che si esprime nelle lotte sembra avvalorare questa ipotesi strategica. La polemica di Panzieri è contro ogni interpretazione riduttiva della nozione di controllo. Non si tratta — a suo avviso — di una riedizione della consumata esperienza dei Consigli di gestione di morandiana memoria, il cui limite era stato proprio la subordinazione delle spinte al «controllo» alla logica della collaborazione per la ricostruzione nazionale e al rispetto del quadro istituzionale, al contrario ne rivendica la totale autonomia dalla «tradizionale linea nazionaleparlamentare democratica». Inoltre considera mistificatoria una visione del «controllo» come punto di tolleranza fra «correzione ali' estremismo» e «prospettiva di autogestione». Nel suo obiettivo di «rottura rivoluzionaria» e di «prospettiva di autogestione socialista» si esprime la volontà di superare il quadro di collaborazione che ha originato il patto costituzionale e l'interclassismo strisciante dei partiti della sinistra. Nell'assetto democratico postresistenziale si è introdotta un'insanabile frattura fra la soggettività rivoluzionaria e le organizzazioni tradizionali: spetta alla linea alternativa del «controllo» il compito di colmare questo distacco, interpretando la natura di classe delle rivendicazioni operaie. In questo modo essa diventa «fattore di accelerazione dei tempi della lotta di classe, strumento politico per realizzare tempi ravvicinati per rotture rivoluzionarie» non un surrogato della conquista del potere, ma una «minaccia portata alle radici del sistema»7. Ricomponendo ogni presunta separazione fra rivendicazione di fabbrica e lotta politica, il «controllo» deve contrapporsi alle nuove tecniche di assoggettamento, di organizzazione del lavoro e più in generale, scardinare le regole della pianificazione capitalistica. Ma la manifestata volontà di non rimanere stretti nell'ambito aziendale non troverà soluzione e sempre più si avvertiranno i limiti e le contraddizioni fra l'ampiezza degli obiettivi proposti e la pratica realizzata in concreto. Da ciò lo scontro di posizioni e le scelte divergenti che seguiranno il dibattito sull'organizzazione avviato nel comitato di redazione di «Quaderni rossi» da Mario Tronti. I processi di ammodernamento, con l'introduzione di più avanzate tecniche produttive, i mutamenti politico-ideologici del padronato sembrano essere i pericolosi veicoli e le forme di una manovra capitalistica tesa a spezzare l'emergere di una più ampia e rivoluzionaria consapevolezza operaia. In questo senso l'eccessivo privilegio sociologistico rimproverato ai «Quaderni rossi», vuole

essere un'indagine sulla soggettività della classe operaia come condizione decisiva per non farla cadere nella trappola tesa, è la ricerca di una diversa fenomenologia dell'intervento e della strategia politica. Ne risulta però una costante oscillazione fra la sopravalutazione del livello di consapevolezza operaia e un' endemica sfiducia nel suo reale procedere e nel suo incidere nei processi di trasformazione. Pur attribuendo ai partiti (in particolare al Pci) e alle organizzazioni sindacali la responsabilità di frenare il potenziale rivoluzionario, Panzieri non vuole fratture con la sinistra tradizionale. Non ne condivide l'impostazione e lavora per avviare il suo superamento, ma avverte come il confronto critico sia indispensabile per la fondazione di una nuova strategia per tutto il movimento operaio. Per questo rifiuterà ogni opportunistico entrismo e privilegerà un processo in cui lo schema interno o esterno ali'organizzazione resta secondario rispetto all'esigenza di una totale ridefìnizione della politica e dell'unità della classe. Giudicandoli non inseriti in un progetto di cambiamento politico generale, Panzieri e l'insieme della redazione dei «Quaderni rossi» considerano gli obiettivi sindacali delle lotte '61-'62, il «salario a rendimento» e la «politica rivendicativa fondata su una struttura delle mansioni e delle qualifiche», un successo del neocapitalismo, una «nuova forma di partecipazione al profitto tecnologico» e un avanzato tentativo di «integrazione aziendale», in sostanza una mera operazione di normalizzazione 8 . Mentre il modello capitalistico unifica i meccanismi produttivi dilatandoli nel sociale, l'autonomia e la separazione dei ruoli caratterizzano sempre di più l'esperienza del sindacato e del partito, si indebolisce così ogni capacità di resistenza e di contrasto al progetto di pieno dominio del capitale. Si determina un vuoto strategico e le singole lotte smarriscono l'orizzonte della battaglia politica generale. Panzieri respinge le indiscriminate accuse di anarco-sindacalismo rivolte ai «Quaderni rossi» e a coloro che cercano una verifica della prospettiva politica nelle lotte operaie: a suo giudizio sono proprio queste ultime a costituire l'unica strada possibile, perché «esprimono la replica operaia alla fabbrica nella sua realtà, cioè a quello che oggi è il momento che caratterizza l'intero sviluppo sociale». Punto di partenza di ogni ricerca critica è il «rifiuto di qualsiasi oggettivismo economico», in quanto «la schematica separazione di lotta economica e lotta politica, di lotta di fabbrica e azione parlamentare, il relegare il sindacato a compiti rivendicativi (o all'agitazione tout court, che spetterebbe poi ai partiti di utilizzare a fini politici), porta all'esaurimento della stessa lotta rivendicativa, comunque alla sua chiusura corporativa, che la priva di comunicativa di classe, la isola e ne prepara la subordinazione al potere borghese capitalistico nella fabbrica e nella società»9. Per Panzieri, «operaisti» sono coloro che, come vorrebbe la sinistra ufficiale, considerano la fabbrica solo come sede di lotte rivendicative. Nella pratica si evidenziano invece una forte tensione verso la politica e il bisogno di superare i vecchi tradizionali metodi di lotta, si manifesta, uno scollamento fra apparati e

base, un atteggiamento operaio nuovo e non transitorio. Le lotte si sviluppano in settori non tradizionali, dove l'organizzazione è debole o inconsistente. I giovani, i nuovi assunti, con la loro «autonomia operaia», danno l'unica risposta possibile allo sfruttamento capitalistico: 1'«organizzazione permanente dell'insubordinazione operaia»10 26. Occorre partire da tutto ciò per cogliere la forma e la consapevolezza della soggettività operaia e il nuovo che si manifesta con caratteri totalmente mutati e contraddittori. Emblematica l'interpretazione dei fatti di piazza Statuto a Torino: si respinge ogni preoccupazione sulla «rispettabilità democratica delle forme di lotta», si esaltano le motivazioni sociali che sono alla base delle manifestazioni di protesta e infine si apre la discussione sulla violenza, criticandone il rifiuto in sé e contrapponendo «violenza rivoluzionaria» al riformismo del Pci e dei sindacati 11 . Si parte dal dato sociale, i nuovi immigrati, le difficoltà del loro inserimento e si passa al difficile rapporto con i partiti ufficiali della sinistra per arrivare alla loro critica radicale e violenta e alla legittimazione della «rabbia», anche se non si nega la presenza nell'episodio di provocatori elementi di destra. È dalle esperienze di lavoro e di vita che nasce la carica di rabbia antistituzionale, un vissuto che porta i giovani che hanno partecipato ai fatti di piazza Statuto a «sentirsi partecipi di una più vasta coscienza di classe» da cui si origina il loro antistatualismo, il loro ribellismo prepolitico. Senza una prospettiva sindacale e politica autenticamente rivoluzionaria non ci potrà essere che «scadimento di tipo anarchico della lotta operaia»: è questa la «contropartita di una linea e di una prassi riformista che non riconoscono l'alto livello di tensione di classe oggi esistente». La risposta critica viene dagli sviluppi successivi, da quanto del patrimonio di quella elaborazione e quella pratica è divenuto parte integrante della storia del movimento operaio e della sinistra e di quanto si è ulteriormente separato, fino a fuoriuscirne totalmente.

1 In R. Panzieri, «La ripresa del marxismo-leninismo in Italia», a cura di D. Lanzardo, Edizioni Sapere, 1972, pp. 14-15. 2 Lettera di Panzieri a Adelaide Salvaco, dopo una riunione con un gruppo di compagni romani; ibidem, p. 16. 3 Lettera di Panzieri a Tronti, del dicembre '60, ibidem, p. 17. 4 L. Libertini - R. Panzieri, Conclusioni al dibattito sul controllo operaio, «Mondo operaio», marzo 1959. 5 R. Foa, , Lotte operaie nello sviluppo economico , «Quaderni rossi» n. 1,1961.

6 R. Panzieri, L'uso capitalistico delle macchine «Quaderni rossi» n. 1,1961. 7 Ibidem. 8 Cfr. Osservazioni sulla piattaforma contrattuale dei metalmeccanici del 1962, in R. Panzieri, «La ripresa del marxismo-leninismo in Italia», cit., pp. 237-239. 9 R. Panzieri, L'uso capitalistico delle macchine, cit. 10 Un giornale all'Alfa Romeo, «Cronache dei Quaderni rossi», settembre 1962. 11 Sulle vicende di piazza Statuto cfr. A. Asor Rosa, Tre giorni a Torino, in «Cronache» cit. e ancora, nello stesso fascicolo, Lettera ai compagni socialisti sull'intervento dei Quaderni rossi nel corso dello sciopero alla Fiat; Volantino agli operi della Fiat; Lettera al Comitato centrale della Fiom.

3. Piazza dello Statuto

All'inizio del 1962 si forma il primo governo aperto ai socialisti, è il quarto governo Fanfani, che segna il superamento della fase delle «convergenze» verso il centro-sinistra organico. I tratti anticomunisti del discorso programmatico del presidente del Consiglio si accompagnano a vaghe enunciazioni riformatrici, e l'astensione socialista è presentata come una autonoma scelta. La costituzione del nuovo governo è una sconfitta delle forze più retrive della Confindustria, quelle che non più accanimento avevano contrastato lo spostamento politico in atto. Nel nuovo clima il padronato sceglie la linea morbida, principale interprete di questa conversione lo stesso direttore della Fiat Vittorio Valletta. In una sua intervista a «II Messaggero» arriverà ad affermare: «il governo di centro-sinistra è un frutto dello sviluppo dei tempi. Non si può e non si deve tornare indietro» 1 . Sono aperture e disponibilità contingenti; di lì a poco di fronte alla ripresa della combattività operaia alla Fiat, Valletta tornerà ad applicare la mano forte e il ricorso alla repressione padronale. Proprio in quei mesi, dopo il lungo periodo di stagnazione seguito alla sconfitta operaia del '54, la classe operaia torna a farsi sentire in tutto il paese. Nenni, al momento del voto d'astensione al governo Fanfani, respinge le pressioni per una rottura coi comunisti del sindacato. Tuttavia le spinte in tal senso rimangono forti, una concessione al nuovo quadro politico sarà «l'intesa sindacale» firmata nell'agosto fra i responsabili sindacali del Psi, Psdi, e Pri. Anche se nei fatti non avrà conseguenze, testimonia le vocazioni scissioniste presenti nelle forze del centro-sinistra, nonché le contraddizioni di un sindacalismo ancora troppo partitizzato e su cui si riflettono vecchie e nuove divisioni politiche. L'operazione di centro-sinistra ha bisogno di presentarsi diversa agli occhi dei lavoratori e di imprimere un connotato più moderno all'insieme delle relazioni industriali. In questo contesto anche la repressione muta qualità. Le lotte, intanto, riprendono con vigore: le ore di sciopero, che nel 1961 sono state 79 milioni, nel 1962 salgono a 181 milioni. Non mancano momenti di asprezza. A Ceccano, in provincia di Frosinone, la polizia uccide un lavoratore nel corso di un duro intervento repressivo. La richiesta di disarmo della polizia nei conflitti da lavoro è unitaria. Numerose categorie entrano in agitazione. Si susseguono gli scioperi dei braccianti, dei chimici, dei lavoratori del settore della gomma, dei tessili, dei navalmeccanici, dei conservieri, dei cartai, degli edili, e dei poligrafici. Fra tutte

emerge, per il suo ruolo trainante, la vertenza dei metalmeccanici. Ben presto dalle singole realtà aziendali la lotta si sposta ad una dimensione nazionale e si intreccia profondamente con le vicende politiche del paese. Sarà proprio questa duplicità di piani di lettura a determinare la differenza di giudizio sulla conduzione e sulle conclusioni contrattuali. Per i gruppi che si riconoscono in Quaderni rossi, una «politicità» non sfruttata. Già all'indomani della formazione del governo Fanfani, il Pci lanciava la parola d'ordine di un'effettiva svolta a sinistra nel paese. Prudente, la Fim-Cisl dichiarava che la vertenza sindacale non aveva alcun rapporto col quadro governativo. Inaspettatamente, pratica che si ripeterà nella storia delle lotte operaie italiane, la Uilm il 17 marzo 1962 chiede alla Confindustria di anticipare le trattative per il rinnovo contrattuale, scadenza fissata per 1 ottobre. La scelta dell'Uilm è un regalo alle organizzazioni padronali. Infatti in tutte le aziende metalmeccaniche sono aperte vertenze per l'integrativo e quindi la centralizzazione della trattativa tende a frenare la forza del movimento e ridurre le potenzialità di una sua estensione. Contro la mossa dell'Uilm si accende la protesta della Fim-Cisl e della Fiom-Cgil che dichiarano lo sciopero generale. A maggio la mediazione sindacale. Unitariamente le tre organizzazioni dei metalmeccanici accettano l'anticipazione del contratto nazionale anche se non considerano esclusiva la contrattazione nazionale e lasciano in vita le singole vertenze aziendali (cottimo, premi di produzione, ritmi di lavoro, organici). Da parte padronale inizia una guerra di logoramento: rinvii, frantumazione del fronte di lotta operaia. A giugno una prima battuta d'arresto. I sindacati dei metalmeccanici contro le resistenze e i rinvii proclamano lo sciopero generale. In tutto il paese la mobilitazione è un successo, ma ali'interno di questo risultato il fallimento alla Fiat di Torino. Nel più grande complesso industriale italiano la scesa in campo dei lavoratori procede per fasi alterne, un indice dei problemi interni, del rapporto fra sindacato e classe operaia, della eterogenea composizione operaia. Nello stesso mese seguiranno altri due scioperi a Torino, al primo seguirà una lenta ripresa, il secondo vedrà una ripresa della partecipazione. Nel luglio proprio in uri forte momento della tensione operaia si arriva alla firma tra sindacati e Intersind dell'accordo preliminare per il contratto. Ripercorrendo la storia di quegli anni lo stesso Luciano Lama afferma: «abbiamo fatto concessioni che, viste adesso sono drammatiche» 2 . Il protocollo Intersind, infatti, riconosceva accanto alla contrattazione nazionale quella articolato, assegnando a essa non un carattere «integrativo» ma «applicativo», cioè nelle singole aziende del settore pubblico si potevano discutere i modi di applicazione del contratto nazionale senza tuttavia inserirvi elementi aggiuntivi. L'Uilm coglie l'occasione: si dichiara pronta a firmare un accordo separato con la Fiat purché l'azienda torinese accetti lo spirito dell'intesa con l'Intersind. Per il 7 luglio 1962 è fissato uno sciopero di 72 ore; nella notte che lo precede, con un grave atto scissionista, l'Uilm insieme alla Sida, il sindacato aziendale dell'automobile firma un accordo separato con la Fiat. Le due organizzazioni rappresentano la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati alla Fiat, infatti nelle

elezioni per le commissioni interne avevano ottenuto il 62% dei voti. La loro indicazione di disertare lo sciopero del 7 luglio cade nel vuoto, la mobilitazione investe tutta la grande azienda, si calcola che vi partecipano il 92% dei lavoratori. Nel pomeriggio centinaia di operai, contro la firma dell' accordo separato, si raccolgono a piazza Statuto di fronte alla sede provinciale dell'Uilm. Il clima si fa pesante: inizia il lancio di pietre, segue il primo carosello della polizia. La situazione si aggrava in serata. Questo il resoconto de «II Giorno»: «Mentre defluiscono gli operai subentrano al loro posto dei ragazzi giovanissimi, alcuni, affermano oggi i sindacalisti, "scesi nelle strade vicine da lussuose auto targate Cuneo, Torino e Ferrara". Sono proprio questi 200 e 300 ragazzi a buttarsi verso le 22,30, all'assalto della polizia con la cieca furia di kamikaze». E ancora: «Adesso (e poi fino all'alba) l'obiettivo non è più la sede dell'Uilm ma la polizia. Viene disselciata la piazza, grandinano i cubi di porfido, vengono divelti pali segnaletici»3. La segreteria torinese della Cisl attribuisce la responsabilità «a gruppi di teppisti, prevalentemente formati da gruppi estranei alle formazioni sindacali, assoldati da chi ha interessi a determinare nell'opinione pubblica il discredito sui sindacati». La Cgil invita i lavoratori a respingere ogni tentativo teppistico e provocatorio. Altri scontri il 9 luglio. La polizia interviene ripetutamente. Sono colpiti cittadini inermi, operai, sindacalisti. «l'Unità» scrive: «Abbiamo assistito a selvagge cariche dei carabinieri che col calcio dei moschetti si sono avventati contro persone, donne, bambini che stavano aspettando il tram. Si sono verificate scene che non possono trovare giustificazione alcuna, e che si verificano evidentemente perché si vuole creare un clima di esasperazione e distorcere completamente l'atmosfera di lotta democratica determinata dagli scioperi alla Fiat e nelle altre aziende metallurgiche» 4 . Ricostruendo le varie posizioni della stampa, del sindacato e dei partiti si ricava un modello interpretativo che sarà paradigmatico nel giudizio sui conflitti sociali degli anni successivi. Un riduzionismo interpretativo che al di là dei limiti di analisi, delle strumentalizzazioni, ben rappresenta la difficoltà a dare voce politica alla nuova conflittualità sociale, allo scontro che si esprime nel crocevia fra vecchi e nuovi comportamenti sociali e politici, in sostanza al conflitto prodotto dalle contraddizioni della modernità. La stampa moderata e padronale attribuisce la responsabilità dei disordini ai comunisti e al sindacato. La sinistra, il Pci e la Cgil inseguono, con una ossessiva volontà giustificativa, lo schema della provocazione esterna, provocazione voluta e assoldata dal padronato. La nuova sinistra si dimostra più attenta a indagare l'origine reale della rabbia e della protesta, quella nuova sinistra che, nonostante errori e precipitazioni, costruirà la sua storia e le sue ragioni attorno al difficile dilemma di un nuovo agire sociale e politico. Una sfida difficile, i cui esiti polidirezionali vanno rintracciati nella mutazione dei comportamenti individuali e collettivi, nella mutazione della società italiana quale si realizzerà alla fine degli anni sessanta e per tutto il decennio successivo.

La provocazione non è esclusa, vi fanno riferimento tutti i commenti della stampa, tuttavia il processo a carico dei dimostranti arrestati non ne darà conferma. Scrive Sergio Turone: «Evidentemente i provocatori motorizzati avevano saputo sfuggire agli agenti e in ogni caso non devono essere stati riconosciuti. Due terzi degli imputati erano meridionali, giovani ma non giovanissimi; non mancavano gli operai iscritti ai sindacati; alcuni avevano la tessera della Uil, l'organizzazione contestata» 5 . L'analisi dei fatti di piazza Statuto sviluppata dai «Quaderni rossi» come da altre riviste della sinistra, polemizza con il giudizio dato da comunisti e dal sindacato. Non basta liquidare, come risulta dai loro comunicati, l'accaduto come prodotto da «elementi incontrollati ed esasperati», «provocazione preordinata», «provocazione del battaglione mobile di Padova», «piccoli gruppi di irresponsabili e di provocatori professionisti», «giovani scalmanati», «anarchici», «internazionalisti». Questa sequela di accuse non basta, non spiega il tutto. «Se infatti — si legge sui «Quaderni rossi» — è da escludersi senza alcun dubbio un'organizza-zione comunista dei fatti, comoda spiegazione del governo e della polizia sulla scia delle accuse padronali, non bastano a spiegare i gravi disordini di piazza, squallida degenerazione di una manifestazione che era iniziata come protesta operaia verso il tradimento sindacale della Uil, la presenza dei soliti gruppetti de “L'Ordine nuovo” e di “Pace e libertà” e di qualche delinquente pagato da loro o isolato» ma questi — prosegue la rivista — non rappresentano che in piccola parte i giovani di piazza Statuto». Il problema è comprendere, e questo sarà un terreno mai compiutamente esplorato dalla sinistra ufficiale, perché «la provocazione», pure possibile, trascini con sé una rabbia reale che non si identifica più con tempi, linguaggio, normalità della politica tradizionale. Ecco quindi emergere i limiti dell'azione sindacale, i limiti dell'azione sociale, le caratteristiche di un immigrazione tumultuosa, di un impatto contraddittorio fra generazioni, esperienze e culture operaie. La necessità di un diverso modo di pensare la contrattazione sarà riconosciuta dalla stessa Fiom all’ indomani di piazza Statuto: «Con coraggiosa autocritica il Cc della Fiom ha individuato le responsabilità della presente situazione nell'insufficiente posto che la rivendicazione sul potere di contrattazione ha avuto fra le altre richieste dei metallurgici». E ancora «uno scarso legame con i lavoratori durante la trattativa, ha nociuto alla possibilità di mobilitare le categorie e quindi di riferire sugli altri sindacati», per concludere che «le future fasi della vertenza dovranno portare infine ad una più costante presenza delle categorie, attraverso consultazioni di massa, con l'obiettivo di non firmare più nessun contratto senza il pronunciamento dei lavoratori» 6 . Nella cultura politica del sinistrismo piazza dello Statuto diventa il paradigma di una nuova soggettività rivoluzionaria e di una protesta inedita quanto imprevedibile. I giovani di piazza Statuto non sono liquidabili come «teppa». Un discorso su loro non può prescindere dalle condizioni di lavoro, dalle condizioni di vita dal precario rapporto con la sinistra tradizionale e col sindacato. Uno status di precarietà non interpretato dalla politica ufficiale; una condizione prepolitica, se si

vuole, ma proseguono i «Quaderni rossi»: «La carica di rabbia e di aggressività che questi giovani hanno dimostrato è causata da esperienze di lavoro e di vita che li isolano e non li aiutano e sentirsi partecipi di una più vasta coscienza di classe, questa carica non ha trovato altro modo di esplicazione che nella rabbia contro gli elementi più appariscenti, più ovvi e generici del potere: la distruzione degli oggetti del “bene pubblico” e la rivolta contro quello che è ancora per loro il primo simbolo dello stato e del potere: la polizia» 7 . Rabbia e aggressività che mettono in crisi ogni identificazione tradizionale con partiti e sindacato, anch'essi considerati parte del «potere», creano sospetto e diffidenza con le loro aspirazioni a entrare nelle cosiddette «stanze dei bottoni». Identificazione e legittimazioni sono da reinventare, in altre condizioni, senza alcuna delega ad una presunta sfera politica e sindacale capace di rappresentare la natura del loro disagio. Si ripresenta alla cultura della sinistra, tradizionale e non, l'antico dilemma fra gestione o rottura violenta del sistema, un dilemma nel quale si logorerà senza trovare rapidamente una coniugazione più moderna: solo alla fine degli anni sessanta sembrerà profilarsi una parziale sintesi. «Non a caso — scrivono i «Quaderni rossi» — la valutazione negativa della stampa socialista e comunista dei fatti di piazza dello Statuto è sembrata coinvolgere un generale rifiuto della violenza in sé (dunque anche della violenza rivoluzionaria); e quei fatti sono stati anzi occasione per riesumare una rappresentazione caricaturale di posizioni di sinistra nel movimento operaio. Questa sinistra “inventata” è precisamente la posizione simmetrica del riformismo attuale con la sua pretesa di interpretare l'azione politica della classe operaia contro gli schemi della “via democratica”: la sinistra è rappresentata come rozza negazione della politica, blanquismo, e così via». E proseguono «la deformazione della sinistra esiste nella prassi di un partito operaio la cui linea dominante sia riformista, la sinistra che vi si produce tende ad assumere effettivamente quei tratti di “rozzo blanquismo” che il gruppo egemone le attribuisce» . Una deformazione che porta a giudicare come affermazione «dell'insurrezione istantanea» qualsiasi rifiuto degli schemi «democratici» 8. Considerazioni premonitrici di una doppia polarità in cui viene a svilupparsi la dialettica fra ribellismo e politica, fra tradizionalismo e modernità dei conflitti sociali. Emblematico il telegramma di Togliatti a Ugo Pecchioli, allora segretario della federazione comunista di Torino. Il leader comunista esordisce con il suo plauso per la compattezza, la combattività dello sciopero dei metalmeccanici torinesi e per la ricostruita unità degli operai della Fiat. Dopo aver invitato i lavoratori a prendere «il posto che loro spetta nelle prime file della battaglia per il progresso politico e sociale», il monito: «siate fermi nel respingere atti di inutile e dannosa esasperazione, uniti nell' azione disciplinata, sindacale e politica, per realizzare le rivendicazioni operaie e dare impulso nuovo alla lotta di tutto il popolo, per una svolta a sinistra, per la democrazia e per il socialismo» 9 . Ma il virtuale circuito lotta, rappresentanza politico-sindacale, prospettiva politica, è entrato in crisi; fra

lavoratori, sindacati e partiti occorre reinventare il rapporto soggettività, legittimità e rappresentanza. Dopo i fatti di piazza Statuto la Fiat licenzia per «punizione» 84 operai che sono definiti «agitatori facinorosi e violenti»: sono attivisti della Fiom, della Fim, della stessa Uilm. Lo sciopero unitario per protesta non riesce. A livello nazionale, alla fermata simbolica di 10 minuti, non aderisce l'Uilm. In autunno riprendono le agitazioni. Ancora un accordo con l'Intersind, il 2 ottobre. Si fa un altro passo in avanti: è riconosciuta la contrattazione aziendale per cottimi, lavorazioni a catena, premi di produzione. Nel settore privato la Fiat e 1'Olivetti tentano la carta dell' accordo sul futuro rinnovo. Una mossa tesa al recupero dell'immagine politica della grande azienda torinese, e un implicito sostegno al governo di centrosinistra. La reazione delle altre organizzazioni imprenditoriali è notevole. L'Assolombarda invita le aziende associate alla più ferma intransigenza: «Amici industriali, attenzione! Trattare un accordo qualsiasi col sindacato significa riconoscergli nei fatti il potere di entrare nella nostra azienda. Con ciò viene ad essere compromesso definitivamente il più elementare e fondamentale diritto dell'industriale; quello di essere il solo a dirigere la vostra azienda» 10. La «marcia silenziosa» dei metalmeccanici del 5 ottobre a Milano, le lotte nel paese, piegheranno l'intransigenza padronale e la Confindustria arriverà a concedere l'acconto del 10%. La qualità della vertenza, della mobilitazione hanno ormai spostato il valore della lotta dalle questioni rivendicative ai temi normativi generali. Alle lotte dei metalmeccanici si aggiungono le lotte degli edili; altri scontri si sono avuti a Roma e a Bari. A Milano lo studente comunista, Giovanni Ardizzone, è ucciso dalla polizia durante una manifestazione antiamericana per Cuba. Solo alla fine dell'anno si chiude con 1'Intersind. Resta incerta la conclusione col settore privato. Piegherà definitivamente la Confindustria l'imponente sciopero nazionale di tutto il settore dell'industria, 1'8 febbraio '63. Sono passati nove anni dall'analogo sciopero del '54. Il contratto metalmeccanico si chiude con consistenti miglioramenti: riconoscimento della contrattazione aziendale, aumenti economici valutati nell'ordine del 32% rispetto ai precedenti trattamenti.

1 «II Messaggero», 26 giugno 1962. 2 Dieci anni di processo unitario, intervista di L. lama a «Rassegna sindacale», «Quaderno» n. 29, marzo-aprile 1971. 3 Cfr. «Cronache e appunti dei Quaderni rossi», settembre 1962.

4 «l'Unità», 10 luglio 1962. 5 S. Turone , «Storia del movimento sindacale in Italia», 1943-1969, Laterza, 1977, p. 359. 6 «l'Unità», 13 luglio, 1962. 7 Alcune osservazioni sui fatti dipiazza Statuto, «Cronache e appunti dei Quaderni rossi», settembre 1962. 8 Ibidem. 9 «l'Unità», 12 luglio 1962. 10 «Ragguaglio metallurgico», febbraio 1963; Cfr. S. Turone, «Storia del movimento sindacale in Italia, 1943-1969», cit., p. 362.

4. Contro il piano del capitale

Dopo i fatti di piazza Statuto la polemica con i partiti e con il sindacato diventa acutissima. Il gruppo dei «Quaderni rossi» è indicato come provocatore e da alcune parti viene accomunato a Pace e Libertà, un gruppo di estrema destra finanziato e sostenuto dai settori più retrivi della direzione Fiat. A pochi giorni di distanza dagli incidenti si impedisce a Panzieri di partecipare all’assemblea cittadina dei lavoratori della Fiat. Intanto attorno alla rivista in varie città si formano collettivi e comitati di intervento. Alla presenza davanti alle fabbriche si accompagna una fitta attività di studio e di analisi, nascono i fogli di fabbrica: all'Alfa Romeo, nel corso della lotta contrattuale, appare «Potere operaio» 1. Per Panzieri è difficile rompere col sindacato, lo considera inadeguato, ma continua a ritenerlo essenziale più dei partiti nel poter coniugare insieme lotta politica e lotta economica. Prosegue dunque l'attenzione critica alle vicende sindacali, ma preme sempre più sul gruppo redazionale la questione dell'organizzazione: come si verifica l'esigenza di una ricerca autonoma con l'insieme della classe? come si unificano le diverse situazioni e le pratiche di lotta? occorre o no costruire un nuovo partito della classe operaia? che atteggiamenti vanno assunti nei confronti dei tradizionali partiti operai? Da una logica di pressione si passa a quella dell'alternativa. Interrogativi che saranno la premessa della differenziazione Panzieri-Tronti. Le lotte dei metalmeccanici del 1961-62, mettendo in evidenza i limiti del sindacato, vengono assunte dal comitato di redazione dei «Quaderni rossi» come conferma delle proprie ipotesi. Si apre però un sostanziale conflitto fra Panzieri e il resto del gruppo sul giudizio da dare sull'insieme del movimento operaio tradizionale. È presente in Panzieri, sia pure in modo alterno, la paura del vuoto, la forte preoccupazione che, a fronte della complessità della fase e senza un adeguamento corrispondente, estremo limite dell' esperienza del gruppo possa diventare la perdita di ogni referente unitario. In una lettera ad Asor Rosa della fine del '62, esplicita questi temi di riflessione: dalla crisi delle organizzazioni devono emergere fattori di unificazione, non la disgregazione degli elementi di classe che dalla crisi emergono 2. Di qui la sua critica al «disordinato attivismo» e il suo concentrarsi sull' inchiesta operaia quasi che la sua realizzazione possa divenire un tassello della ricomposizione unitaria del movimento operaio. Il giudizio sulla conclusione della lotta contrattuale del '62 accelera la frattura del comitato di redazione: nel gruppo che si raccoglie attorno a Tronti si afferma con forza la necessità del partito.

Il secondo numero dei «Quaderni rossi» non si presenta più come frutto della collaborazione con la Camera del lavoro di Torino, ma nella sua piena autonomia, vuole essere «espressione di un lavoro teorico e pratico di militanti impegnati nelle lotte sindacali e politiche del movimento operaio. Il programma dei Quaderni si svolge sul terreno della formazione di una strategia politica di classe» 3. Il saggio editoriale di Mario Tronti La fabbrica e la società, è un momento importante nell'elaborazione del gruppo. Come già aveva fatto Panzieri in L'uso capitalistico delle macchine, Tronti rivisita Marx con l'obiettivo di una sua attualizzazione finalizzata a una ipotesi politica. L'autore parte dai due diversi punti di vista da cui si può considerare la forma capitalistica di produzione delle merci: il processo lavorativo e il processo di valorizzazione. Lo sviluppo capitalistico e le sue forze produttive tenderanno sempre più a integrare questi due aspetti. Tale processo tanto più si realizzerà quanto più la forma capitalistica della produzione si impadronirà delle varie sfere della società, quanto più riuscirà a riassorbire il processo lavorativo-sociale dentro il processo di valorizzazione del capitale, quanto più si compirà l'integrazione della forza lavoro. Se per le classi dominanti l'obiettivo è annullare ogni originaria distinzione, per le forze rivoluzionarie si tratta di esaltare le distinzioni fino a una netta contrapposizione come processi contraddittori che si escludono a vicenda e quindi come «leva materiale di dissoluzione del capitale piantata nel punto decisivo del sistema». Di fronte al progressivo sviluppo delle forze produttive del capitalismo, le tradizionali categorie (lavoro, salario, fabbrica) risultano arcaiche e richiedono una sostanziale rilettura se si vuole costruire una strategia rivoluzionaria ali'altezza dei compiti. Progressivamente il capitale estende il suo dominio. L'ammodernamento tecnologico e la razionalizzazione di tutte le fasi della produzione sono funzionali e, al tempo stesso, condizioni per realizzare lo sfruttamento capitalistico della forza lavoro. Il mero ambito della sfera produttiva falsa la visione unitaria del processo lavorativo e del processo di valorizzazione, presentando all'operaio solo il processo lavorativo semplice: «L'operaio riesce a cogliere la globalità del processo di produzione solo attraverso la mediazione del capitale: forza lavoro non più soltanto sfruttata dal capitalista, ma integrata dentro il capitale». La combattività operaia costringe il capitalismo a modificare le forme del suo tradizionale dominio. La pressione della classe operaia interviene e trasforma la produzione capitalistica. Per contrastare questa possibilità nascono nuove sofisticate tecniche e si verifica un trasferimento verso un totale «dominio sociale». Richiamandosi al concetto scientifico di fabbrica introdotto da Lenin, Tronti considera il rapporto fabbrica-società come un prolungamento dei rapporti di produzione: «Al livello più alto dello sviluppo capitalistico il rapporto sociale diventa un momento del rapporto di produzione, la società intera diventa una articolazione della produzione cioè tutta la società vive in funzione della fabbrica e la fabbrica estende il suo dominio esclusivo su tutta la società». Dunque lo Stato,

nei suoi meccanismi politico-istituzionali, si identifica sempre più come stato del capitalista collettivo. Risulta dunque impraticabile ogni strategia che veda lo stato come terreno neutro nel conflitto capitale-lavoro. Il piano, la programmazione democratica altro non sono che raffinate varianti di una nuova fase del dominio capitalistico, momenti dell' integrazione operaia. Se convergenti con Panzieri sono le analisi e le elaborazioni sulla fase cui è giunto il capitalismo moderno, divergenti sono le conclusioni sull'organizzazione e sugli strumenti politici della classe. Come si è visto, si tratta di un nodo irrisolto in Panzieri, mediato nella formulazione del «controllo» ma stretto fra due poli inconciliabili: la ricomposizione con i tradizionali strumenti del movimento operaio e l'individuazione di un momento alternativo di organizzazione. Panzieri si colloca con cautela rispetto al dibattito interno, oppone un rifiuto a chi sostiene la necessità di costruire subito un nuovo partito, a chi vuole forzare i tempi passando dalla pressione alla realizzazione di un'organica alternativa ai partiti operai, ma nello stesso tempo cerca la mediazione. La pubblicazione delle «Cronache dei Quaderni rossi» va in questa direzione. Ma i tentativi di trovare una sintesi fra le diverse posizioni, come egli stesso ammetterà autocriticamente, si dimostreranno impraticabili: nell'agosto del 1963 l'inevitabile rottura. Testimoniano la natura dello scontro gli articoli di Panzieri e di Trenti, rispettivamente intitolati, Piano capitalistico e lotte operaie e II piano del capitale, che appaiono sul terzo numero dei «Quaderni rossi». Tronti sulla questione dell'organizzazione è drastico: «L'analisi marxista del capitalismo non andrà più avanti se non troverà una teoria operaia della rivoluzione. E questa non servirà a niente se non avrà da incarnarsi in reali forze materiali. E queste non esisteranno per la società se non quando verranno politicamente organizzate in classe contro di essa». Il ragionamento di Panzieri si snoda attraverso alcuni passaggi essenziali: il giudizio sulla lotta dei metalmeccanici, sulla formula di centro-sinistra e sui limiti delle organizzazioni tradizionali e una proposta di lavoro e di ricerca. La lotta dei metalmeccanici è espressione della svolta politica del capitalismo italiano. Nel corso del suo svolgimento il fronte padronale, si è unificato in un medesimo disegno, spostando in avanti la sua strategia. Sono prevalse le forze illuminate del capitalismo maturo che hanno perseguito con coerenza il loro obiettivo di integrazione della classe operaia. Il riconoscimento del ruolo del sindacato è interno a questa logica, in quanto esso è stato scelto come l'interlocutore fondamentale di ogni programmazione democratica. I risultati conseguiti dai sindacati nella lotta contrattuale sono già stati messi nel conto dal capitalismo e dimostrano il «vuoto teorico e politico delle organizzazioni». Si è preferito avere come contropartita una maggiore partecipazione alla pianificazione democratica, piuttosto che rendere quanto più possibile difficile il passaggio del capitalismo alla nuova fase, ritrovare e consolidare l'unità di classe, porre le basi, attraverso lo sviluppo coerente di una lotta sindacale che rivelava importanti implicazioni politiche, della costruzione di una valida strategia di classe. Il capitalismo ha

sperimentato le possibilità di un nuovo disegno politico, ma ha dovuto verificare l'esistenza di una «forza terribile di spinte di classe, che in momenti decisivi tendono a comporsi in una dinamica anticapitalistica». In questo contesto risulta aggravarsi la crisi dei rapporti fra classe operaia e organizzazioni tradizionali, quest'ultime ormai portatrici di una linea tutta interna alla strategia dello sviluppo capitalistico. Ma Panzieri distingue fra partito e sindacato: «Mentre il rovesciamento della linea riformistica, a livello dei partiti appare assai difficile, almeno a breve scadenza (quanto più si cristallizza la linea "democratica" tanto più si accentua l'e-stremità burocratica delle organizzazioni rispetto alla classe), un problema ricco di importanti implicazioni nell' immediato futuro, potrà probabilmente essere riaperto: quello dei rapporti della Cgil con la programmazione». Né si può scambiare la «feroce» critica alle organizzazioni esistenti, che si esprime nei comportamenti operai, per un' «immediata possibilità di sviluppo di una strategia rivoluzionaria». Così facendo si prescinderebbe totalmente dai contenuti, col grave rischio dell'«accumularsi di una serie di rifiuti frammentari, non collegati tra loro in un disegno politico unitario, ma soltanto idealmente unificati in uno schema interpretativo del capitalismo contemporaneo». Per evitare «settarismi anarchici» o pericolose accelerazioni, Panzieri ribadisce la necessità di proseguire nella ricerca e nella verifica della teoria nella pratica politica, non coltivando illusioni nello schema ormai logoro secondo il quale sarebbe sufficiente fornire una teoria alla classe per costruire una nuova fase organizzativa. Vengono meno le possibilità di una ricomposizione del gruppo redazionale. La rottura nel campo socialista (è dell' estate '63 lo scambio delle lettere-accusa fra i Comitati centrali dei partiti comunisti sovietico e cinese), le condizioni in cui, alla fine del 1963, nasce il centro-sinistra organico e l'impronta moderata con cui si presenta il primo governo a partecipazione socialista, spingono alla scelta. Intervenendo a commentare l'esito negativo di «Cronache dei Quaderni rossi», Panzieri precisa ulteriormente le sue posizioni. Considera hegeliana l'impostazione di Tronti, definita «una filosofia della classe operaia»; giudica impraticabile la fondazione di un giornale nazionale e ribadisce il carattere di sperimentazione dei «Quaderni rossi», un lavoro finalizzato alla costruzione di un'avanguardia rivoluzionaria; vede il problema del partito in una prospettiva di lunga durata. Contro ogni ipotesi frettolosa, insiste sul carattere graduale del processo: «Ma bisogna tener conto che questo non può a breve scadenza coordinarsi in un movimento unitario, politicamente determinato. Ci sono una serie di tappe, e se non le si vede si finisce per mistificare le sconfitte in successi e, al limite, si finisce per scambiare come forma di lotta politica di avanguardia il sabotaggio che da decine di anni la classe operaia conduce in diverse situazioni, in diversi momenti, e che è l'espressione permanente della sua sconfìtta politica» 4 . Attorno al gruppo di Tronti prende corpo l'esperienza di «Classe operaia». Il primo numero della rivista è del gennaio '64, nel comitato di redazione: Toni

Negri, Alberto Asor Rosa, Romano Alquati. Le strade divergono, tuttavia la comune analisi del capitalismo e la comune metodologia d'intervento saranno la base per molteplici incontri nelle situazioni locali. Dopo il '67, l'anno delle espulsioni ma anche dell' ambiguo «ritorno al partito» di «Classe operaia», tutto si ridiscuterà nel crogiolo di Potere operaio e del movimento. Ma ormai il tema «partito» è punto d'incontro e di divaricazione, di mediazione e di conflitto di una dialettica mai definitivamente risolta fra avanguardia e movimento, una dialettica tanto più esasperata quanto più si fa netta la rottura col «revisionismo» del movimento operaio tradizionale. L'attenzione di Panzieri si concentra sull'«inchiesta operaia»; non sarà mai realizzata, tuttavia i numerosi materiali preparatori offrono l'interessante inventario di un'ipotesi ricognitiva sulla classe operaia italiana ed europea. Contemporaneamente si infittiscono i rapporti fra i collettivi e i gruppi che in vario modo si riconoscono nella impostazione della rivista. Le «Lettere dei Quaderni rossi» e il «Notiziario politico» offrono lo spaccato di una sperimentazione che si ramifica su tutto il territorio nazionale, si incontra con il dissenso, aperto o endemico, al «revisionismo», si arricchisce nella presenza nelle lotte e nel dibattito politico-sindacale. Si tratta di strumenti collaterali ai «Quadèrni rossi», finalizzati a una maggiore integrazione fra ricerca e lavoro politico, condizione necessaria per accelerare i tempi della «costruzione ex novo», conseguenza necessaria della crisi ideologica e teorica del movimento operaio che ha reso impraticabili «soluzioni che rispettino una continuità e si inseriscano in una tradizione» 5 . Le «Lettere», il cui primo numero è del gennaio-febbraio 1964, con pubblicazione a cadenza quindicinale hanno il carattere delle schede per argomento, il «Notiziario politico» svolge invece una funzione di coordinamento operativo, anticipando in qualche misura il ruolo dei giornali nazionali del dopo Sessantotto. Il «Notiziario politico» diventa dunque un bollettino delle attività dei gruppi facenti capo ai «Quaderni rossi» di tutte le esperienze di lavoro politico che possono essere utili per la ricerca e l'elaborazione di una strategia socialista. Non importa da quale ambito nascano, dentro o fuori dalle organizzazioni ufficiali «purché il metodo che guida tali esperienze e i risultati raggiunti presentino elementi di critica e di diversità rispetto alla linea politica riformistica che ha dominato il movimento operaio italiano in questi anni» 643. Scorrendo il primo numero del «Notiziario politico» troviamo informazioni sulle situazioni di Biella, Catania, Ivrea, Pisa, Roma, Sassari e Torino. Lo schema metodologico è comune alle varie realtà, e il modello si ricava facilmente dalla scheda dedicata a Torino: il corso politico con lettura di testi e relazioni sui classici e sulle caratteristiche del capitalismo moderno, il parallelo intervento politico in fabbrica. Dalla descrizione degli interventi si possono trarre delle vere e proprie tipologie di lavoro politico. Sulla base di quanto emerge dall'inchiesta-colloquio si assume come occasione di lotta un problema direttamente sentito e da questo si parte per una azione, anche se coinvolge un numero ristretto di operai. Non importa l'esito parziale o se la

partecipazione risulta limitata «a causa della mancanza di una organizzazione operaia in fabbrica», la lotta è comunque vista dagli operai «come occasione per manifestare una protesta più generale», il suo valore consiste nel «tener viva» una tensione, serve per individuare «gli operai con cui svolgere un lavoro di elaborazione politica più approfondita». Sono le premesse della microconflittualità della fase matura dei gruppi. Nel singolo intervento si vorrà ritrovare la totalità degli obiettivi strategici, ma proprio in questa dilatazione è l'origine del costante scarto fra i risultati conseguiti e il disegno generale. A questa irrisolta contraddizione si risponderà, per tappe alterne, con le forzature organizzative o con 1'esplosione disgregatoria dei vari momenti parziali. Nell'elencazione del «Notiziario», la gamma delle occasioni di lotta: il cottimo, l'organizzazione del lavoro, l'elevata trattenuta sulla busta paga, la linea e le scelte del sindacato. Si presta molta attenzione alla nascita del Psiup, si cercano contatti e in molte situazioni l'intervento è comune. Esperienze integrate, importanti per i loro sviluppi, si realizzano a Torino, a Biella, a Roma, nel Veneto e in Toscana. Le aperture del Psiup sembrano essere un ponte verso lo spostamento del Pci: la linea del nuovo partito ancora non è precisata ma è caratterizzata da una piena disponibilità e nello stesso tempo da una forte critica al riformismo e allo stalinismo burocratico. Contemporaneamente si affronta la questione cinese, ormai esplosa in tutta la sua carica dirompente. Un ruolo decisivo spetta a Edoarda Masi, la cui ricerca rappresenta un serio contributo alla comprensione dei tratti caratteristici e originali dell'esperienza cinese. Nel giugno del 1964 appare il «piano di lavoro» e lo schema di un questionario per un'inchiesta operaia in Europa. E l'ambizioso progetto lasciato incompiuto da Panzieri. Per il fondatore dei «Quaderni rossi» obiettivo principale dell' inchiesta è «la conoscenza degli atteggiamenti della classe operaia». Non si nega il carattere di «fermento politico» interno alla dinamica dell' inchiesta, nel reciproco coinvolgimento fra intervistato e intervistatore, ma in primo luogo interessa a Panzieri 1'oggettività del sondaggio. L'inchiesta deve rimanere nell'ambito rigorosamente sociologico, essere strumento di conoscenza, non trasformarsi in propaganda politica, poiché solo dall'oggettività dei dati acquisiti può nascere la proposta politica. Alla riflessione sullo strumento si accompagnano le schede illustrative, le caratteristiche tecniche dell'inchiesta: lo schema di colloquio, la scelta della situazione e il tipo di elaborazione, i criteri della scelta del campione da intervistare. Nell'ambito dell'indagine, la condizione oggettiva e soggettiva della classe operaia, si parte dalle condizioni di lavoro e dall' organizzazione aziendale, affrontando temi come le mansioni, l'intensità del lavoro, il salario, le qualifiche, per passare poi al giudizio sulla politica aziendale e infine alle lotte. Interessa capire come si vivono le esperienze di lotta, come si è partecipato alle decisioni e quali giudizi si sono formulati sulla conduzione e sulle conclusioni delle azioni sindacali, quale giudizio si da del sindacato. L'ultima scheda riguarda i problemi

politici generali: il centro-sinistra, la politica economica europea, e il socialismo. Il «Notiziario» di luglio esce con un ricco palinsesto di materiali preparatori del numero 5-6 dei «Quaderni rossi», dedicato a «la disponibilità della forza lavoro». L'articolo di Panzieri dovrebbe trattare: accumulazione, tecnologia, organizzazione produttiva e classe operaia (problemi teorici di una prospettiva socialista). In ottobre, la morte di Panzieri: il comitato redazionale è destinato a entrare in una fase delicata. L'orizzonte teorico tracciato da Panzieri si prolungherà nella preparazione del convegno ideologico di Torino, ma ormai le vicende politiche spingono in altra dirczione. Gli stessi caratteri dell' inchiesta mutano, si punta di più al lavoro politico. Nell'ottobre 1964, su «Notizie e documenti di lavoro», illustrando il programma di lavoro dei «Quaderni rossi» per il 1964-'65 si fa il bilancio dell'attività svolta e si individuano i caratteri del necessario «salto» di qualità. In sostanza si deve spostare l'asse teorico: se in una prima fase il centro del lavoro era stato «la definizione di un modello di capitalismo (e del suo sviluppo), da cui si ricavano le indicazioni dei problemi», ormai «occorre rendere esplicita la base positiva su cui la nostra posizione si fondava: cioè la concezione del socialismo che era finora implicita in quel discorso». Questa premessa ha le sue conseguenze immediate nella trasformazione del lavoro di gruppo, nel rapporto «tra l'elaborazione teorica e la rivelazione empirica, tra elaborazione teorica e lavoro pratico di formazione e organizzazione dei quadri». Non si tratta più di formulare ipotesi rigorose e di descriverle, ma di costruire attorno al «modello di socialismo» una «presa di posizione di valore». E un processo che richiede non solo un maggior coinvolgimento di forze e di militanti, ma anche un profondo aggiornamento nella metodologia di ricerca e di intervento, che deve «vertere direttamente sulla classe operaia, sulle prese di posizione di valore che si verificano tra gli operai, sui problemi centrali della fabbrica e della società; e la elaborazione deve essere compiuta collettivamente con i quadri operai (non l'intera classe, né sue avanguardie di massa) con cui intendiamo formare dei nuclei permanenti». L'attività teorica si concentra sulla preparazione del convegno ideologico, mentre cresce il lavoro di coordinamento e di espansione dei vari gruppi orbitanti attorno ai «Quaderni rossi». L'ipotesi di lavoro del convegno ideologico, arrichita da seminari e riunioni preparatorie, si articola in quattro punti fondamentali: elaborazione di un modello di società socialista, problema del processo di transizione, analisi critica delle società socialiste esistenti, analisi critica delle linee del movimento operaio occidentale. A questo schema teorico si aggiunge, finalizzata al lavoro quotidiano e alla iniziativa politica, l'inchiesta operaia. Sulle caratteristiche di quest'ultima già il seminario a Torino nel settembre 1964 rappresenta un superamento del modulo originario tracciato da Panzieri. Le modifiche riguardano due passaggi essenziali: l'oggetto della inchiesta e il suo rapporto con il lavoro politico. Non è decisiva la ricognizione sulla condizione operaia in fabbrica ne quella sui comportamenti sindacali in sé: ma importa

piuttosto quali giudizi si esprimono sulla fabbrica e sulla società capitalistica. Solo in questo modo il rapporto fra inchiesta e lavoro politico non risulta statico, e l'inchiesta non è semplice osservazione di valori operai, conoscenza da utilizzare per un successivo intervento politico. L'inchiesta operaia, già nella fase dell'intervista-colloquio, diventa intervento politico intenzionale e finalizzato. Obiettivo del colloquio non è la registrazione delle contraddizioni, ma la loro evidenziazio-ne. La ricerca delle contraddizioni serve, nella reciproca interferenza fra operaio contattato e intervistatore militante, ad acquisire e tradurre in termini di propaganda socialista «valori ed esigenze che devono diventare la base di una azione politica». Con il documento redatto nella riunione a Massa Carrara nel gennaio 1965, si compie un ulteriore passo in avanti nella definizione dei temi del convegno, aggiungendo ai temi già indicati e come punto da chiarire «la costruzione di un partito e di una strategia». Si avverte la difficoltà di dare risposta alla crescente domanda organizzativa, mentre la ricerca teorica rischia una progressiva frammentazione. La relazione di Vittorio Rieser, al seminario di Torino dell'aprile 1965, che in pratica sostituisce il convegno ideologico, è indicativa del cumulo di suggestioni e di problemi che sono di fronte al gruppo dei «Quaderni rossi». Secondo Rieser il capitalismo italiano ha maturato al suo attivo, oltre al sostanziale controllo sul costo del lavoro e sui comportamenti della forza lavoro, una generale iniziativa di razionalizzazione. Le organizzazioni del movimento operaio, se formalmente hanno rifiutato la proposta riformistica di fatto l'hanno legittimata concorrendo, con la tregua sociale, al mantenimento in chiave moderata del centro-sinistra. Un mascheramento che si dimostra addirittura meno efficace di un'aperta accettazione, che almeno avrebbe portato a un sistema di contropartite. La relazione non offre molte novità per quello che riguarda l'analisi del capitalismo italiano. Vi si ripetono le linee teoriche già sviluppate nei «Quaderni rossi». Più interessanti per comprendere la fase che attraversa il gruppo risultano le indicazioni di bilancio e di lavoro. Davanti alle fabbriche, nella pratica politica, si sono dovuti fare i conti con le proposte, anche se velleitarie, di «Classe operaia» e con la capacità organizzativa dei marxisti-leninisti. La ricerca teorica non procede con il sufficiente rigore e nelle situazioni concrete si manifesta lo scarto fra le sperimentazioni teoriche e la reale incidenza delle proposte politiche. Nel bilancio d'attività e proponendo le linee del programma futuro, Rieser elenca una serie di obiettivi pansidacali: eguaglianza salariale, lotta contro l'intensificazione dei ritmi, democrazia nella formazione delle decisioni. Sul partito il discorso è appena sfiorato, si rimanda a ulteriori momenti di precisazione e approfondimento, si insiste però sull'urgenza di una definizione della questione, tema non eludibile nel confronto con le varie esperienze che stanno nascendo fuori dalla sinistra tradizionale. La ricognizione operata su queste ultime testimonia la preoccupazione di una perdita di ruolo del gruppo, così come la riproposizione di una funzione di polo esterno nei confronti del Pci e del sindacato appare stanca e

rituale. Non si può rispondere alla linea amendoliana dell'unificazione delle sinistre tradizionali con un'accelerazione di segno contrario, rivolta alle varie esperienze dei gruppi. Tuttavia le tappe del processo devono delinearsi, pena la frammentazione. Nella relazione esse si muovono in varie direzioni: verso il Pci, lavorando sul dissenso interno, verso il Psiup, arrivando a un chiarimento di fondo, verso tutte le formazioni estremistiche manifestando attenzione e disponibilità. Sono indicazioni che rimangono generiche e rimandano a un ambizioso «programma comunista» come massimo punto di unificazione. Prosegue il lavoro d'analisi, ma i progetti di Panzieri di rifondazione della sinistra si frantumano nei rivoli dello sperimentalismo locale e nelle frenesie delle rotture storiche. La scissione di «Classe operaia» conclusasi, con l'entrismo di parte del comitato di redazione nel Pci e nello Psiup, porta quasi a un riflusso della vocazione scientifico-analitica nella fretta organizzativistica e nell'astratto propagandismo. Per molti dei militanti dei «Quaderni» il «casino» rimproverato a «Classe operaia» da Rieser sembra dinamismo a fronte di un utopico e non definito modello di socialismo. Dopo la morte di Panzieri la direzione della rivista viene affidata a Salvatore Sechi. Usciranno altri due numeri: nel marzo «Intervento socialista nella lotta operaia»; nel dicembre 1965 «Movimento operaio e autonomia della lotta di classe». Si conclude così, estinguendosi ma al tempo stèsso alimentando tanti e diversi percorsi intellettuali e politici, una delle esperienze più interessanti e innovative della nuova sinistra. Il carattere originale dei «Quaderni rossi», il loro porsi come nuova frontiera verso una modernizzazione delle teorie della lotta di classe, costituisce un patrimonio a cui le diverse formazioni dell' estremismo si ricondurranno come a una nuova tradizione. Non sarà una forzata operazione di appropriazione, ma la ricerca di una continuità che accumunerà, nelle reciproche differenze, Potere operaio, Lotta continua, il Manifesto, Avanguardia operaia e tutta la geografia dei gruppi di più o meno dichiarata provenienza operaista fino alle conseguenze estreme dell' autonomismo operaio.

1 Cfr. Un giornale operaio all'Alfa Romeo, in «Cronache e appunti dei Quaderni rossi», cit. 2 Cfr. R. Panzieri, «La ripresa del marxismo-leninismo», cit. 3 Collaborano al secondo numero: Emilio Agazzi, Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Bianca Beccalli, Giuliano Boaretto, Luciano Della Mea, Dino De Palma,

Rita Di Leo, Pierluigi Gasparotto, Claudio Greppi, Dario Lanzardo, Liliana Lanzardo, Gabriele Lolli, Mario Miegge, Giovanni Mottura, Giuseppe Muraro, Antonio Negri, Massimo Paci, Raniero Panzieri, Vittorio Rieser, Edda Saccomani, Michele Salvati, Emilio Soave, Mario Tronti. 4 R. Panzieri, Intervento alla riunione della redazione, “Quaderni rossi - Cronache operaie”, in «La ripresa del marxismo-leninismo», cit., p. 301. 5 II comitato di redazione del quarto fascicolo è composto da: Emilio Agazzi, Bianca Beccalli, Vittorio Campione, Dario Lanzardo, Liliana Lanzardo, Edoarda Masi, Mario Miegge, Giovanni Mottura, Raniero Panzieri, Vittorio Rieser, Edda Saccomani, Michele Salvati, Renato Solmi. 6 Cfr. «Notiziario politico», n. 1, gennaio-febbraio 1964.

III I MARXISTI-LENINISTI

1. Le verità irrefutabili

Le tesi del XX congresso rappresentano il punto d'attacco della polemica cinese contro il Pcus. Il dissenso, solo parzialmente mediato nella conferenza di Mosca del novembre 1960, si tramuterà, tre anni dopo, in un'insanabile frattura con lo scambio di lettere fra i due comitati centrali. E’ in discussione la tattica e la strategia del movimento operaio internazionale: fra i due grandi Stati socialisti si è aperta una profonda divaricazione su come combattere l'imperialismo e portare avanti la rivoluzione nel mondo. Uno scontro che impone scelte drastiche. Progressivamente la Cina di Mao diventerà il punto di unificazione ideale della critica al revisionismo, ma l'approccio non sarà lineare, occorrerà rimuovere l'ombra cupa dello stalinismo e di questo sembrerà far giustizia la «Grande rivoluzione culturale». Contro il «tradimento revisionista» la Cina diventa la bandiera della rivoluzione socialista, sotto la quale si ritrovano gli orfani della dittatura del proletariato e la nuova generazione in cerca di miti capaci di dare concretezza ali'utopia rivoluzionaria. In una prima fase attorno alle posizioni cinesi si forma un' area di confine tra vecchio e nuovo stalinismo, riconducibile ai gruppi marxisti-leninisti. Ma questa parzialissima versione ideologico-organizzativa non rappresenta la totalità della forza di attrazione esercitata dall'esperienza cinese e dal pensiero di Mao. Se gli spontaneisti si incontreranno con le tesi movimentiste della rivoluzione culturale, gli operaisti in cerca del partito vedranno nei marxisti-leninisti i costruttori dell'organizzazione alternativa. Questi ultimi, a loro volta, rifiutato il dogmatismo, cercheranno nei testi dell' operaismo l'analisi e la teoria del capitalismo. L' esplosione della rivoluzione culturale rompe ogni presunta linearità teorica e il maoismo sembra presentarsi come un magico repertorio di principi e di praticheteoriche capaci di per sé di dar vita a un potenziale processo di unificazione antirevisionista. Nell' aprile del 1960 con il documento Viva il leninismo , il Partito comunista cinese, anche se in modo indiretto, inizia la sua offensiva contro il Partito

comunista dell'Unione sovietica1. L'articolo, scritto per commemorare la nascita di Lenin, è l'occasione per riconfermare i «principi» del marxismo-leninismo. La chiave interpretativa della storia rivoluzionaria dalla Comune di Parigi in poi, sostengono i cinesi, è il principio affermato da Marx e attuato da Lenin secondo cui la classe operaia non può semplicemente impadronirsi della «macchina dello Stato» così come si è sviluppata nella società capitalistica. Il proletariato deve usare metodi rivoluzionari per la conquista dello Stato, per abbattere le sue strutture e per affermare la dittatura del proletariato. Questa è la discriminante nei confronti dei revisionisti e degli opportunisti. Dall'analisi di Marx sull'insuccesso della Comune derivano le premesse della lotta teorica condotta da Lenin nell’ edificazione del primo stato socialista, contro le deviazioni e le «false in-terpretazioni». Proprio nelle condizioni difficili di costruzione dell'Urss contro i tentativi di strangolamento e di isolamento nacque la teoria leninista dell'imperialismo: questa è il centro della polemica dei cinesi nei confronti dei risultati del XX congresso. Nel documento l'ancoraggio a Lenin è operato in modo manicheo, secondo un rituale che sarà costante nella fraseologia e nel comportamento politico delle formazioni marxiste-leniniste: le «verità irrefutabili» si applicano, non si discutono. Il dottrinarismo e la guerra delle citazioni sostituiranno l'analisi e la riflessione storica. Basta prolungare gli schemi alla situazione politica interna e alla formazione del centro-sinistra per costruire un sistema di assiomi fatto di accuse di deviazionismo rispetto ai «principi» della rivoluzione. Il principio di autorità semplifica la realtà, offre una legittimazione a priori nel dibattito politico e permette di non curarsi della ricerca del consenso: quando si è in possesso delle «verità» si può anche rimanere «pura» minoranza. Le «verità irrefutabili» sono i principi della rivoluzione socialista e di conseguenza, l'arma teorica fondamentale del partito della classe operaia: «Lenin ha giudicato di primaria importanza che il proletariato costituisca il proprio partito politico genuinamente rivoluzionario, che rompa completamente con l'opportunismo — cioè un partito comunista — perché la rivoluzione del proletariato sia realizzata e consolidata. Questo partito politico è armato della teoria del materialismo storico marxista. Il suo programma si propone di organizzare il proletariato e tutto il popolo lavoratore oppresso per la lotta di classe, di costruire un governo del proletariato e di passare attraverso il socialismo alla meta finale del comunismo» 2. Da questo assunto muove la pervicace ostinazione dei gruppi marxisti-leninisti nella formazione del partito, quale strumento indispensabile per una teoria e una pratica rivoluzionaria. Ne deriva quella concezione del partito «genuinamente rivoluzionario» che spiega l'esasperata lotta interna fra linee divergenti, il progressivo consumarsi in scontri intestini, l'alternanza di scissioni e nuove fondazioni. Il tutto con un risultato assai modesto rispetto alla reale incidenza di massa. Ma se neostalinismo e dogmatismo suscitano molte diffidenze e anche fastidio intellettuale, l'ossessione organizzativa influenzerà largamente i gruppi.

Nella difficile scelta verso il partito che assillerà l'estremismo, l'esperienza dei marxisti-leninisti diventerà emblematica, accompagnata dal richiamo a memorie resistenziali (il gruppo si vanterà di avere nelle proprie file numerosi ex partigiani) e dal valore che assume il riferimento al pensiero di Mao. Le continue fluttuazioni di militanti produrranno non poche commistioni ideologiche, e il particolare incontro col troztkismo innesterà una forte suggestione movimentista e policentrica rispetto al nucleo originario. Delle cosiddette «verità irrefutabili» fanno parte i principali argomenti sostenuti contro il Partito comunista italiano e le scelte operate dalI'VIII congresso; una critica di «revisionismo» che sarà rinvigorita dai due opuscoli cinesi Le divergenze fra noi e il compagno Togliatti. In aperto contrasto con le novità strategiche del XX congresso del Pcus, i cinesi confermano come principale verità rivoluzionaria la concezione leninista dell'imperialismo e del suo ruolo di aggressore: «Lenin mise in rilievo come gli imperialisti, gli oligarchi del capitale finanziario in un piccolo numero di potenze capitalistiche, non solo sfruttano le masse popolari dei loro stessi paesi, ma opprimono e saccheggiano il mondo intero, rendendo la maggior parte dei paesi loro colonie e dipendenze. La guerra mondiale è scaturita dall'insaziabile avidità degli imperialisti di contendersi mercati mondiali, le fonti di materie prime e le zone di investimento e di spartirsi di nuovo il mondo. Fin-tanto che l'imperialismo capitalistico esisterà nel mondo, le origini e le possibilità di guerra continueranno ad esistere. Il proletariato dovrà condurre le masse popolari alla comprensione dell'origine della guerra ed alla lotta per la pace e contro l'imperialismo» 3. In Viva il leninismo, il Partito comunista cinese in polemica con l'esperienza jugoslava — ma puntando molto oltre, come risulterà evidente nella conferenza degli 81 Partiti comunisti operai di Mosca — pur non contestando tatticamente l'obiettivo della coesistenza pacifica, ribadisce il carattere ineluttabile della guerra con l'imperialismo. In questo modo si sottovalutano le novità politiche intervenute sul piano internazionale negli anni '58-'59: il fallimento della guerra fredda, la crisi della politica di Foster Dulles, il logoramento della stessa Alleanza atlantica, il valore dell' incontro di Camp David (primo tentativo diplomatico fra le grandi potenze), così come le nuove condizioni che si aprono con l'elezione di Kennedy a presidente degli Stati Uniti 4 . Né si considerano, nelle posizioni cinesi, le pericolose caratteristiche di un nuovo conflitto, i rischi e le catastrofiche conseguenze di un eventuale scontro mondiale che avrebbe necessariamente assunto la forma della guerra nucleare con imprevedibili ripercussioni sul destino di tutta l'umanità: «... se gli imperialisti si rifiutano ad un accordo sulla interdizione delle armi atomiche e nucleari, ed osano sfidare la volontà di tutta l'umanità, scatenando una guerra condotta con le armi atomiche e nucleari, il risultato non potrà che essere la distruzione rapidissima del mondo [...]. Sulle rovine dell'imperialismo defunto i popoli creeranno, con estrema rapidità, una civiltà mille volte superiore al sistema capitalistico e per se stessi un avvenire veramente radioso»5 .

In questa logica la coesistenza pacifica diventa un semplice mezzo per smascherare la natura aggressiva dell'imperialismo: una tattica per riuscire a sconfiggerlo. Riaffermata la proposizione leninista dell'«epoca dell'imperialismo e della rivoluzione proletaria», per i marxisti-leninisti, non e' è alcun dubbio, è «l'epoca della vittoria del socialismo e del comunismo». Chi si allontana da questa formulazione in realtà si allontana dal considerare il leninismo come continuazione del marxismo rivoluzionario, dal considerarlo teoria e politica della rivoluzione e della dittatura del proletariato 6 . Al contrario, era proprio dal riconoscimento del «sistema socialista mondiale» e dall'ampiezza «delle forze che si battono contro l'imperialismo, per la trasformazione socialista della società» che nasceva la svolta del XX congresso del Pcus e il significato delle sue indicazioni 7. Dopo la conferenza di Mosca, al di là della mediazione diplomatica, rimangono i contrasti. Non si è raggiunta un'unità sul «giudizio da dare sull'epoca presente», ormai due linee si confrontano nel movimento operaio internazionale. Le differenze sono sostanziali, esse riguardano la natura del socialismo e la sua edificazione, l'insieme del campo socialista e il suo rapporto con l'imperialismo, la natura di un possibile conflitto e il valore che si assegna alla coesistenza pacifica. Fra i due grandi stati socialisti ormai si è aperto uno scontro per la conquista della leadership nel mondo socialista. «Coesistenza pacifica» e «via italiana al socialismo» sembrano diventare i due cardini della conversione revisionista, la strada per abbandonare la teoria della rivoluzione acconciandosi alla tregua e al parlamentarismo democratico-borghese. È proprio partendo dalla convinzione intensamente vissuta della complessità teorica e strategica contenuta nella svolta del '56 che Togliatti avverte la necessità di approfondire il dibattito fra i partiti comunisti per evitare una lacerante rottura. Un atteggiamento politico e una volontà riconfermati nell'ultimo scritto del leader comunista, II memoriale di Yalta; un appello a proseguire la riflessione all'interno del movimento operaio, esigenza imposta dagli eccezionali mutamenti politici e dal «nuovo» che avanza nel mondo intero. Il documento Viva il leninismo si chiede retoricamente: se è vero, come approvato nella risoluzione della conferenza di Mosca del '57 che «l'influenza borghese è una fonte interna di revisionismo mentre la capitolazione di fronte all'imperialismo ne è la fonte esterna»; se è vero che «il revisionismo moderno cerca di annacquare la grande dottrina del marxismo-leninismo, dichiara che essa è superata, asserisce che ha perduto la sua importanza per il progresso sociale»; se è vero che «i revisionisti tentano di incidere sullo spirito rivoluzionario del marxismo, di minare la fede nel socialismo tra la classe operaia ed il popolo lavoratore in genere». Gli insegnamenti del marxismo-leninismo sono dunque superati? Le «verità irrefutabili» sono principi ancora validi?

1 «Hong-qui» (Bandiera rossa), Pechino, 19 aprile, 1960. 2 Viva il leninismo, in «Dossier dei comunisti cinesi», a cura di R. Gabriele, N. Gallerano e G. Savelli, prefazione di L. Libertini, Edizioni Avanti!, 1963, p. 26. 3 Ibidem, p. 25. 4 Per alcuni aspetti della politica estera cinese in quegli anni confronta «L'ipotesi del tripolarismo»,. Dedalo libri, 1975. 5 Viva il leninismo, in «Dossier dei comunisti cinesi», cit., p. 37. 6 Ibidem. 7 Si veda il dibattito alla Conferenza di Mosca del 1960.

2. La rottura Cina-Urss

Inseriti nelle vicende di quegli anni sono interrogativi inquietanti, che entrano nel vivo del dibattito apertosi dopo le rivelazioni su Stalin e corrispondono alla crisi ideale che investe la prospettiva stessa del socialismo. L'«indimenticabile» '56 aveva lasciato segni indelebili, il destino del socialismo sembrava imprigionato tra l'autoritarismo staliniano e il riformismo socialdemocratico. Mentre i carri armati sovietici invadevano l'Ungheria «l'Unità», allora diretta da Pietro Ingrao, titolava «le truppe sovietiche intervengono in Ungheria per porre fine all'anarchia e al terrore bianco». La «svolta» non è ancora sufficiente a rendere autonomo il giudizio del Pci sull'Urss. Promotori Natalino Sapegno e Carlo Muscetta, oltre cento intellettuali firmano un manifesto critico verso il partito, fra i firmatari Alberto Asor Rosa, Luciano Cafagna, Carlo Cicerchia, Lucio Colletti, RenzoDe Felice, Alberto Samonà, Enzo Siciliano, Mario Tronti. Seguono i molti abbandoni1. Al centro dei contrasti sull'epoca presente sono i punti teorici cruciali del rinnovamento-svolta dell'VIII congresso, nodi-concetto che si prolungheranno nella disputa e nel conflitto fra l'estremismo e i partiti della sinistra. Si tratta di temi come: la violenza, il nesso democrazia-socialismo, la lotta di classe, il parlamentarismo, la concezione del partito, il giudizio sulle alleanze; è sotto inchiesta e sottoposto a verifica critica tutto il complesso teorico che ha guidato l'esperienza del movimento operaio italiano. La spiegazione non è solo politicoideologica ma si accompagna alle mutazioni sociali, alla rottura del tradizionale rapporto politica-cultura, ai processi di politicizzazione della nuova generazione. L'appassionato dibattito interno ai partiti è solo un aspetto della più generale tensione critica che è la premessa dell'avanzare di una nuova coscienza politica e concorrerà a un consistente spostamento negli orientamenti ideali di vasti settori sociali. Si può dire, forzando i concetti, che contemporaneamente entrano in crisi gli antichi referenti: la caduta di credibilità dell'esperienza sovietica incrina l'identità e l'unità nel movimento operaio; salta il tradizionalismo cattolico, che sente il bisogno di una nuova etica della militanza sociale, mentre settori di orientamento liberal-moderato avvertono una forte spinta al cambiamento. Nella ricerca di un nuovo sistema di valori lo schematismo deduttivo cinese, finisce col prevalere sulla tipicità dell' approccio politico esso costituisce un telaio su cui situare le varie citazioni-repertorio, mentre il «maoismo» diventa un complesso di principi per la spiegazione della realtà. Per questa via entra in crisi la

politica come scienza per diventare esclusivamente scelta morale e ideologica e i «principi» la gabbia interpretativa delle vicende politico-sociali. Fideismo cattolico e dogmatismo staliniano entrano in risonanza ognuno trascinandosi spezzoni della propria specificità, accomunandosi in una sorta di teleologia della rivoluzione. Mentre si fa un gran parlare di centro-sinistra e del suo portato riformatore, ha vita il tentativo reazionario del governo Tambroni; l'anno successivo, il presidente della «distensione», Kennedy, finanzia la fallita spedizione a Cuba del '61 e prepara gli «esperti» per il Vietnam. Sono queste le risposte alla «coesistenza pacifica», o invece non è valida la teoria cinese dell' imperialismo come «tigre di carta»? All'aggressività dell'imperialismo non si può accordare nessuna tregua, non si può cadere nella trappola diplomatica della «coesistenza pacifica». Nel Pci, «filocinese» diventa sinonimo di contestazione e di dissenso. I «filocinesi» appaiono già nelle giornate del luglio '60, si ritrovano nel corso delle manifestazioni per la crisi di Cuba, saranno insieme ai «teppisti» di piazza Statuto a Torino. Paradossalmente convergono sulla Cina le speranze di una generazione e insieme stalinismo e antistalinismo. Per molti rappresenta la «Rivoluzione», per i giovani è una conferma della sua attualità, per gli stalinisti un prolungamento della teoria della dittatura del proletariato, per gli antistalinisti la prova che sono possibili altre strade nella costruzione del socialismo. Il metodo diventa tautologico: se l'obiettivo è un obiettivo rivoluzionario, quali sono i canoni, gli archetipi di un comportamento rivoluzionario? La risposta è affidata alle verità irrefutabili: alle quali si può attingere come a un patrimonio indiscutibile. Nel documento «Viva il Leninismo» sono contenuti i tre argomenti principali dei dirigenti cinesi: la necessità della violenza rivoluzionaria, la negazione della coesistenza pacifica, il rifiuto delle «vie nazionali». I cinesi nella loro polemica contro la svolta del XX congresso negano la necessità di un intreccio democrazia-socialismo; in realtà si tratta di una forzatura polemica, e tuttavia l'esasperazione critica finisce con l'intaccare obiettivamente la sostanza della linea portata avanti dal Partito comunista italiano. Allo stato democraticorepubblicano si contrappone un possibile sbocco rivoluzionario; una tesi sviluppata dal Del Carria nel suo Proletari senza rivoluzione, che si ritrova in alcuni aspetti dell'elaborazione dello stesso Secchia e più in generale in una sorta di rilettura al negativo della storia del Pci come occasione rivoluzionaria mancata. Rifiutato il nesso democrazia-socialismo, lo Stato diventa, senza alcuna articolazione di giudizio, o quello della borghesia, o quello del proletariato. In questo schema sia lo «Stato borghese» che 1'«imperialismo» sono di per sé suscitatori di violenza. Una violenza, per dirla con la gruppettistica a cui si deve rispondere con un'altra violenza: quella rivoluzionaria; uno Stato su cui non si può intervenire, ma che deve essere radicalmente distrutto. Nella definizione della violenza, per i cinesi (come sarà per i filocinesi nostrani) non ci sono dubbi e discussioni, basta ricondursi alle considerazioni svolte da

Lenin in Stato e rivoluzione: «la formazione e l'esistenza dello Stato è in se stessa una forma di violenza». E ancora Lenin che traccia una distinzione fra i due tipi di stato: «Lo stato della dittatura borghese e lo stato della dittatura del proletariato, è tra due tipi di violenza di differente natura, la violenza controrivoluzionaria e la violenza rivoluzionaria. Lo stato in cui le classi sfruttatrici sono al potere è una violenza controrivoluzionaria, una forza speciale che rappresenta le classi sfruttatrici nell'oppressione delle classi sfruttate» 2 . Estrapolate dal loro contesto originario, queste affermazioni sono la premessa di un antistituzionalismo movimentistico in cui, accanto alle tradizionali teorie della rottura dello stato, confluiranno il terzo-mondismo alla Fanon e le tesi della «violenza repressiva delle istituzioni» del sociologismo tedesco-americano. La lotta eroica del popolo vietnamita sarà non solo l'occasione delle grandi mobilitazioni, ma il terreno della divisione politica, degli scontri col servizio d'ordine del Pci, origine di dissensi fra partito e Fgci. All'insegna dello slogan «Vietnam vince perché spara» dalle manifestazioni pacifiste si passerà agli assalti ali' ambasciata americana. Da Cuba al Vietnam, nella guerriglia del Che o nella lotta di popolo del generale Giap si vede confermata la citazione maoista: «il potere è sulla canna del fucile». Nello scontro Cina-Urss si apre un'insanabile divaricazione tra due linee: la lotta armata come qualità propria del processo rivoluzionario si oppone alla ricerca dell' accordo, alla coesistenza fra due sistemi considerati inconciliabili. Per i cinesi, solo i «revisionisti» possono considerare superata l'enunciazione leninista della guerra come continuazione della politica; Lenin chiarì nella lotta contro gli «opportunisti» che «la guerra è l'inevitabile sbocco dei sistemi di sfruttamento e l'origine delle guerre è il sistema impcrialistico». Senza la fine del sistema imperialistico e fino a quando le classi sfruttatrici non cesseranno di esistere vi saranno sempre guerre anche se può cambiare la loro fisionomia; «Vi possono essere guerre tra gli imperialisti per la ripartizione del mondo, o guerre di aggressione e contro-aggressione tra gli imperialisti e le nazioni oppresse; o guerre civili di rivoluzione e controrivoluzioni tra le classi sfruttate e quelle sfruttatrici nei paesi capitalistici o, naturalmente, guerre nelle quali gli imperialisti attaccano i paesi socialisti e i paesi socialisti sono obbligati a difendersi» 3 . Il marxismo-leninismo non può cadere nel «pantano» del pacifismo borghese, deve valutare le varie forme che può assumere la «guerra» e trame le giuste conseguenze. Lenin ha insegnato che gli imperialisti — proseguono ancora i cinesi — hanno due tattiche: la guerra e la pace; quindi anche il proletariato mondiale deve usare due tattiche per fronteggiare l'imperialismo: «Smascherare in pieno l'inganno della pace imperialistica e lottare energicamente per una pace genuina nel mondo e la tattica di prepararsi per una guerra giusta per por fine ad una guerra ingiusta quando e se gli imperialisti la scatenassero» 4. La critica ai caratteri dell' epoca presente implica una decisa contestazione di un altro punto cardine delle novità strategiche del XX congresso: il riconoscimento delle «vie nazionali». E evidente, dunque, che si colpisce alla radice quanto di

autonomo sta maturando in questa direzione nel Pci; in sostanza il valore dell' VIII congresso che diventerà, nella critica al «revisionismo», il punto di allentamento del Pci dalla prospettiva rivoluzionaria e dalla tradizione marxista-leninista. Quella del Pci, non è una difesa d'ufficio ma la profonda convinzione della portata innovatrice sia del XX congresso, sia della destalinizzazione, a cui si unisce la volontà di cimentarsi rinnovandosi, con l'originalità della situazione italiana. Tuttavia non mancheranno prudenze e timidezze nell'autonomia dalla politica sovietica e anche il giudizio sulla Cina, al di là delle intenzioni, rimarrà troppo prigioniero di una logica di schieramento a scapito della chiarezza e di una piena conoscenza del fenomeno. Se con la svolta sovietica era entrata in crisi ogni nozione di «stato guida» e di «modello» valido per tutte le situazioni, i cinesi, rompendo ogni subalternità all'Urss, ripropongono l'esigenza del «modello rivoluzionario» candidandosi a una loro leadership nei confronti del movimento operaio, dei movimenti di liberazione del Terzo mondo e delle situazioni più arretrate. Ne consegue la forza del mito, il richiamo attrattivo esercitato verso la gruppettistica marxista-leninista. Nella conferenza degli 81 partiti comunisti del novembre 1960 la mediazione si presenta in termini difficili. Nel suo intervento alla conferenza, Teng Siao-Ping chiede di sopprimere, nel testo della dichiarazione conclusiva, ogni riferimento al valore positivo del XX e del XXI congresso del Pcus. Per il Partito comunista italiano spetta a Luigi Longo opporsi a questa volontà: «I compagni cinesi propongono di sopprimere questo passaggio. La delegazione italiana non può assolutamente accettare simile proposta. Privare la dichiarazione di un esplicito riconoscimento dell' importanza internazionale delle decisioni del XX e del XXI congresso del Pcus, sarebbe venir meno alla verità storica e sminuire il valore delle posizioni di principio fissate in quelle occasioni. Tutta la linea politica del nostro partito riconosce la validità di quelle posizioni di principio» 5 . Nel suo intervento Longo definisce «ingiusta e calunniosa», l'accusa della delegazione cinese al comitato centrale dell'Urss: essersi allontanato «nel modo più manifesto, dalla giusta via del maxismo-leninismo e dalla dichiarazione di Mosca». Il dibattito si chiuderà con una mediazione diplomatica. «La lettera della delegazione del partito comunista italiano, al compagno N.S. Krusciov ed alla delegazione del Pcus alla conferenza degli 81 partiti comunisti e operai» esprime l'opinione e le preoccupazioni dei delegati italiani sui lavori della conferenza e sul suo documento conclusivo: «Però a nostro avviso, su alcuni punti esso costituisce un passo indietro in rapporto alla precisione e alla chiarezza della dichiarazione della conferenza di Mosca del 1957 e al progetto da voi presentato alla riunione di settembre. Esso, senza dubbio, risente delle difficoltà incontrate per arrivare a formulazioni accettabili da tutti. Comprendiamo che forse questo era inevitabile, data la situazione creatasi, però non possiamo nascondervi che in particolare il nostro partito si troverebbe in gravi difficoltà nello sviluppo di tutta la sua azione se almeno ad alcuni dei problemi trattati nella dichiarazione non si pervenisse a dare una giusta soluzione» 6.

Sono due le questioni che vengono sottolineate: la necessità di un esplicito quanto netto riferimento al significato e al valore del XX congresso; la definizione in termini meno aspri dei rapporti col «revisionismo iugoslavo». È evidente la ragione di questa sottolineatura: il Pci è impegnato in un grande lavoro di rinnovamento organizzativo e teorico e uno dei presupposti fondamentali sono state proprio le conclusioni del XX congresso del Pcus che hanno consentito di liberare reticenze, incertezze e vecchie scorie. Anche se la polemica nei confronti delle posizioni cinesi e del Partito del lavoro d'Albania è dura e serrata, l'atteggiamento del partito comunista e in particolare dello stesso Togliatti cerca, di evitare ogni rottura e di ricondurre la discussione nell'ambito di un chiarimento più generale del movimento operaio. Però questa volontà di rifuggire dallo stereotipo del dogmatismo non fu prontamente e coerentemente sviluppata e l'acuirsi rapido del contrasto Cina-Urss portò il Pci a schierarsi senza compiere prima una rigorosa e puntuale interpretazione di quanto stava accadendo in Cina. Sullo stesso pensiero maoista (gli Editori Riuniti per primi avevano pubblicato l'opera completa di Mao Tsetung) e sulla rivoluzione culturale non fu speso molto in analisi teorica. L'assenza di un'adeguata riflessione sulle contraddizioni interne al socialismo e al suo sviluppo lascerà uno spazio scoperto e disponibile ad essere colmato da ambigue interpretazioni. Le stesse conclusioni poco limpide della conferenza di Mosca non risolsero i problemi aperti fra i due grandi partiti comunisti. Le argomentazioni del documento Viva il leninismo, ribadite negli interventi dei rappresentanti del partito comunista cinese alla conferenza, nei saluti ai vari congressi dei partiti comunisti 7 , sono riprese nei loro materiali di propaganda. Inizia un'ampia opera di denigrazione delle posizioni del Partito comunista dell'Unione sovietica. In Italia, i primi gruppi che si ispirano alle posizioni cinesi, appaiono intorno al '62, ma già da prima la discussione era molto accesa; le questioni di fondo che dividono i due più grandi partiti comunisti, rimodellate sulla situazione italiana, servono a contrastare la svolta del Pci. Tutto concorre a destare interesse sulla discussione e sulla vicenda cinese: la ricerca di un nuovo modello di socialismo e di una prospettiva rivoluzionaria, le preoccupazioni «antiriformistiche». Tematiche che servono da spunto per una battaglia contro «la linea morbida» dell'Vili congresso, sono uno strumento di pressione per sconfìggere il revisionismo nel partito, per riagganciarsi al vecchio stalinismo e alla linea dura battuta negli ultimi anni. L'atteggiamento della delegazione cinese al X congresso del Pci e poi l'opuscolo Delle divergenze fra noi e il compagno Togliatti, rappresenteranno un punto di svolta 8. Lo scambio di lettere, fra i comitati centrali del Pcus e del Pcc del '63, sigla definitivamente l'inconciliabilità delle rispettive posizioni 9. Il fronte del movimento operaio risulta spezzato: la vicenda cinese perde la sua reale connotazione, sfumano i contorni della contraddittoria lotta fra due linee economiche ipostatizzandosi agli occhi di molti quadri intellettualizzati e di

giovani come un modello di rivoluzione a cui si può attingere come ad un referente ideologico buono a tutti gli usi. Confluiscono ad un tempo nelle varie letture, forzature a dimostrazione di questa o quest'altra tesi. Il rifiuto del modello tecnologico sembra definire un ambito totalmente nuovo rispetto alla scelta dell'Urss ed alle conseguenze che aveva determinato; richiama inoltre una «lotta al capitalismo» fondata su una diversa concezione dello sviluppo produttivo e tesa alla valorizzazione dell' uomo come fondamentale soggetto della trasformazione socialista. Non si tratta più della sfida sovietica agli Stati Uniti — quasi un'emulazione sul terreno del capitalismo avanzato — ma di una nuova idea di società socialista che fa leva sulle comuni agricole, sul collettivismo di fabbrica, sull'egualitarismo. La Cina e la sua scelta «del contare sulle proprie forze» si identifica col rifiuto del progresso come estraneazione, della tecnica come dominio sull'uomo. Nel mito cinese, ricco di suggestioni e carico di negazioni, si incontrano l'utopia della rivoluzione e la paura del neocapitalismo. La stessa interpretazione cinese del caso Stalin si presenta ambivalente. La versione che ne daranno i gruppi marxisti-leninisti sarà unilaterale e deformante. Per i cinesi le cose sono più complesse, ricorrendo al loro linguaggio immaginifico, scriveranno: «un'aquila può volare bassa come una gallina ma non viceversa». Nei fatti si critica l'operato di Stalin nella costruzione dello stato, nella concezione del partito e del suo rapporto con le masse; nello stesso tempo, incuranti degli errori, ci si richiama al dirigente del movimento operaio come simbolo della lotta contro l'imperialismo, per la vittoria della rivoluzione e l'edificazione della dittatura del proletariato. Rimane, con l'unica eccezione dei marxisti-leninisti di stretta osservanza, il fastidio per il culto della personalità, per i riti e le liturgie, ma esso diverrà secondario di fronte al carattere dirompente della rivoluzione culturale. Cadono le ultime diffidenze, si libera il campo dalle paure di nuovi stalinismi e alla Cina si guarda come modello di un processo rivoluzionario in cui la lotta al «revisionismo» esterno e interno è la componente dinamica e il deterrente contro l'autoritarismo e le degenerazioni del socialismo. Non sono la storia della Cina e la sua vicenda politica a fare testo, ma la lotta delle guardie rosse, esaltata in un mitico orizzonte liberatorio fatto di nuovo illuminismo aristocratico, di populismo e di dedizione rivoluzionaria. Quello che conta è il «pensiero» di Mao Tse-tung, esempio di un ideologismo «diffuso» che crea le condizioni per una concezione diversa della «metodologia» politica. Nell'assunzione del mito cinese il «partito» rimarrà una incognita irrisolta, la versione del Pcd'I (m-1) risulterà dogmatica e arretrata, sembrerà più uno spezzone residuale del terzinternazionalismo che l'interprete del dinamismo critico della rivoluzione culturale. Alla Cina, contraddittoriamente, si rivolgono sia i sostenitori del «partito» sia gli anti-partito e ognuno vi cerca la conferma delle proprie tesi. Dell'esigenza del partito, si fanno portatori i gruppi marxisti-leninisti che prendono le mosse dal dissidio e dalla successiva rottura Cina-Urss. Anche se la loro esperienza risulterà meccanica e dogmatica, essi rappresenteranno un

imprescindibile punto di riferimento e di confronto per l'insieme del nuovo estremismo.

1 Cfr. N. Aiello, «Intellettuali e Pci», 1944-1958, Laterza, pp. 403-406. 2 Cfr. «Viva il leninismo», cit., p. 45. 3 La coesistenza attiva e il socialismo, «Narodna Armija», 28 novembre 1958; ora in «Dossier dei comunisti cinesi», cit., p. 63. 4 ibidem. 5 Cfr. «Interventi della delegazione del Pci alla conferenza degli 81 partiti comunisti e operai, Mosca, novembre 1960», materiale di documentazione riservato ai membri del Pci a cura della sezione centrale di stampa e propaganda della direzione del Pci. 6 ibidem,nota 16. 7 Cfr. Gli interventi dei rappresentanti del Partito comunista cinese ai congressi del Partito comunista bulgaro; del Partito socialista operaio ungherese; al XII congresso del Partito comunista cecoslovacco; al X congresso del Pci; tutti pubblicati in «Dossier dei comunisti cinesi», cit. 8 Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi, «Renmin Ribao», 31 dicembre 1962. 9 Cfr. Documenti della discussione tra Partito comunista dell'Urss e Partito comunista cinese, supplemento a «Rinascita», n. 29, 20 luglio 1963.

3. Le divergenze con il compagno Togliatti

Nel settembre 1962, stampato da un gruppo di dirigenti della federazione comunista di Padova, appare il primo dei tre numeri di «Viva il leninismo» 1. Lo scopo del giornale, che già nella testata si richiama al documento che ha avviato la polemica da parte cinese, è quello di portare avanti un mutamento in senso antirevisionista della linea del Pci. Già sono in corso i contatti fra i diversi gruppi interni al partito vicini alle posizioni cinesi (fra i principali il Centro Lenin di Milano), sono numerosi i rapporti con i trotzkisti e con la loro rete organizzativa: con Livio Maitan, loro principale esponente, ci si accorda per condurre una lotta di opposizione interna. Precedono la pubblicazione di «Viva il leninismo»: l'elaborazione di un documento in contrapposizione alle tesi del X congresso comunista e la sua approvazione da parte del comitato federale di Padova (20 voti a favore, 10 contrari, 2 astenuti). Il documento, presentato da Vincenzo Calò contesta alla radice il processo di edificazione dello stato repubblicano: «La Costituzione della Repubblica Italiana approvata nel 1947 esprime un sostanziale compromesso tra le forze popolari, guidate dal Pci, uscite dalla resistenza, e le forze del grande capitale finanziario che, andato in frantumi il blocco storico realizzato dal fascismo, cercava altre alleanze e nuovi strumenti di mediazione politica di massa, trovandoli nella De. La contraddizione si risolse sul piano dei rapporti delle forze politiche e gli strumenti pratici per attuarli sono come sempre, al di là delle vicende elettorali, i provvedimenti di polizia, le vecchie leggi fasciste, la burocrazia, insomma, la macchina statale borghese. Con tutto ciò la sostanza dello stato borghese, la sua natura di classe, non solo restano intatti, ma ne risultano rafforzati»2 . L'obiettivo di aggregare altre forze sulla linea del documento, non limitando la discussione alla sola città di Padova, porta alla decisione di pubblicare «Viva il leninismo». Segue l'espulsione dal Pci dei quattro firmatari del giornale. La polemica si inasprisce. Il X congresso del Pci precisa ulteriormente quella «via italiana» affermatasi nell' VIII congresso e in particolare intensifica la ricognizione sul tessuto sociale e sulle novità politiche intervenute in quegli anni, articolando su di esse la tattica e la strategia per l'avanzata democratica e socialista nel paese. Sul piano interno l'attenzione è concentrata sui temi economici e sulla necessità di costruire momenti concreti di lotta e di unità di massa attorno a quelle che vengono definite le «riforme di struttura».

Una lunga parte del rapporto di Togliatti al congresso è dedicata alle questioni internazionali, vi si riprende la polemica, sostenuta alcuni mesi prima, nei confronti del partito comunista albanese. Il mantenimento della pace, i rischi insiti in un nuovo conflitto mondiale, visto, il nuovo quadro di rapporti internazionali sono l'ossatura portante di un ragionamento teorico che esalta la stretta connessione fra lo sviluppo del socialismo e la politica della «coesistenza pacifica». Togliatti (ma ancor più esplicito sarà Pajetta nel suo intervento) critica il sostegno dato dal Partito comunista cinese al Partito comunista albanese e definisce «assurda ogni accusa di tradimento della dottrina marxista-leninista e della causa rivoluzionaria» avanzata nei confronti della coesistenza pacifica. Il rappresentante del Partito comunista cinese al congresso non è da meno: «Dal momento che voi avete criticato il partito comunista cinese pubblicamente, siamo obbligati a dichiarare francamente in questa sede che noi, comunisti cinesi, abbiamo dei punti di vista differenti da quelli sostenuti da alcuni compagni del partito comunista italiano su un certo numero di questioni importanti in particolare sulla teoria delle "riforme di struttura", l'opinione sul revisionismo jugoslavo, l'attacco diretto contro il Partito del lavoro albanese, che si attiene ai principi marxisti-leninisti ed anche il punto di vista su certi problemi internazionali importanti. Riteniamo che questi punti di vista non sono né in accordo con le dichiarazioni di Mosca, né con gli interessi del Movimento comunista internazionale né favorevoli all'unità internazionale del proletariato, alla lotta contro l'imperialismo e alla lotta per la difesa della pace mondiale e che essi non corrispondono agli interessi vitali del popolo italiano stesso. Non ci è possibile entrare nei dettagli in questa sede»3. L'approfondimento annunciato verrà con l'articolo Le divergenze fra noi e il compagno Togliatti, nel dicembre del 1962 sul «Renmin Ribao». Le divergenze sono profondissime e riguardano l'origine della guerra moderna, il significato del negoziato politico con l'imperialismo, la coesistenza pacifica, questioni di principio sulla lotta di classe e della rivoluzione. Viene sferrato un duro attacco contro la teoria delle riforme di struttura e contro quello che è definito ilflirt col revisionismo di Tito. Per i cinesi non c'è alcun dubbio: il congresso del Pci è parte fondamentale della «corrente che va contro il marxismo-leninismo e che sta distruggendo l'unità del movimento comunista internazionale». L'analisi togliattiana dell'imperialismo, dei monopoli e della lotta per le riforme di struttura è definita illusoria e idealistica, la via italiana al socialismo è bollata come «abbandono della rivoluzione», una linea rinunciataria e collaborazionista. Secondo il Pci, sostengono i cinesi, «i popoli dei paesi capitalisti non dovrebbero fare la rivoluzione, le nazioni oppresse non dovrebbero condurre lotte di liberazione e i popoli del mondo non dovrebbero combattere contro l'imperialismo. In effetti tutto ciò è pienamente conforme alle esigenze degli imperialisti e dei reazionari». Motivi che torneranno ossessivamente nella pubblicistica marxista-leninista.

Un secondo documento Ancora sulle divergenze fra noi e il compagno Togliatti, dell'inizio del 1965, insiste e rincara la polemica. Nel febbraio 1963 appare l'ultimo numero del giornale di Padova, la testata è divenuta «Viva sempre il leninismo», il Pci viene attaccato duramente mentre si sostengono le posizioni del Partito comunista cinese contro l'Unione sovietica e la svolta del XX congresso. Espulso dal partito, il gruppo di Padova manterrà rapporti con militanti di base e organizzazioni periferiche, sviluppando quella pratica entrista che sarà largamente seguita dai gruppi marxisti-leninisti fino alla fondazione del Partito comunista d'Italia. Contro la linea del Pcus, e del Pci, si parafrasano le critiche mosse dai cinesi: ormai il gruppo dirigente raccolto attorno a Togliatti ha abbandonato ogni prospettiva rivoluzionaria e leninista facendo propri i contenuti revisionisti della coesistenza pacifica, credendo di poter realizzare il passaggio dal capitalismo al socialismo senza la rottura dello stato borghese, rifiutando la dottrina della dittatura del proletariato in omaggio a una prospettiva democratica da raggiungersi con l'utilizzazione del parlamentarismo borghese. Gli attacchi, però, non coinvolgono in eguai misura tutto il partito. Esso è considerato un «corpo sano con una testa malata»: da un lato il vertice burocratizzato, dall'altro la base, formata, di «sinceri rivoluzionari». Ripetendo formule e slogan si utilizza lo stalinismo per lavorare dentro il Pci, per «conquistare la maggioranza contro una minoranza di dirigenti imborghesiti», per evitare che il Partito comunista diventi «un partito concorrente alla Dc nell'amministrare gli interessi dei capitalisti». Consapevoli che l'attacco all'Unione sovietica ha bisogno, per essere sostenuto, di un forte richiamo ideale, i filocinesi ripropongono in forma di mito la questione di Stalin, strumentalizzando la sua figura e la suggestione che esercita su certe aree del partito. Nel giugno 1963, Regis fonda, a Milano le Edizioni Oriente: un vero e proprio gruppo politico oltre che una casa editrice cui spetta il compito di diffondere e propagandare i materiali del Partito comunista cinese. Fra le prime pubblicazioni: l'antologia in cinque volumi delle opere di Mao; Proletari senza rivoluzione, di Renzo Del Carria, una storia delle classi subalterne del nostro paese. La tesi di fondo è di grande suggestione per quegli anni: il proletariato è stato costantemente tradito, i vari fuochi rivoluzionari, di volta in volta, sono stati spenti dal riformismo socialista e dal revisionismo comunista. La conclusione è altrettanto suggestiva: l'Italia non ha avuto la sua «rivoluzione» perché non e' è mai stato il partito rivoluzionario. Conseguenza e imperativo per i «veri rivoluzionari», colmare questo vuoto, dotarsi e dotare gli sfruttati di un autentico strumento di lotta rivoluzionaria. All'interno del Pci inizia una campagna di propaganda clandestina: le corrispondenze della Cina firmate con lo pseudonimo Anna Luise Strong (la giornalista americana che aveva intervistato Mao), materiali e documenti del Partito comunista cinese. Contemporaneamente si intensificano i rapporti fra i gruppi filocinesi interni ed esterni al Pci, tra loro e i trotzkisti. Nella ramificazione propagandistico-organizzativa si incontrano i residui di Azione comunista, i resti

di un bordighismo riconvertito, gli sconfitti dal rinnovamento e i dissenzienti della Fgci 4.

1 I firmatari del primo numero del giornale sono: Vincenzo Morbillo (medico, del direttivo della Federazione), Severino Gambate (operaio, segretario di sezione a Riviera del Brenta), Alberto Bucco (impiegato, membro del comitato federale, consigliere comunale e presidente delle cooperative), WilsonDuse (medico, della commissione di controllo della Federazione). Gli altri due numeri di «Viva il leninismo» sono rispettivamente dell'ottobre 1962 e del febbraio 1963. Cfr.: M. Quaranta, Storia dei tre numeri di «Viva il leninismo», in «Che fare», n. 6-7, primavera 1970; R. Del carria, «Proletari senza rivoluzione», vol. V, Savelli, 1977, p. 68. 2 II documento è integralmente pubblicato nel primo numero di «Viva il leninismo». 3 «Dossier dei comunisti cinesi», cit., p. 291 e sgg. 4 Sulla storia dei marxisti-leninisti italiani, cfr. G. Vettori, «La sinistra extraparlamentare in Italia», Newton Compton Italiana, Roma 1973, p. 30 e sgg. Utile, come lettura critica dall'interno: Marxisti-leninisti: quale unità, «Lavoro politico», n. 5/6, 1968; G. Mai, Storia dell'organizzazione marxista-leninista in Italia (1963-1969), «Che fare», n. 5, estate 1969.

4. I poli esterni al Pci

I più attivi «centri marxisti-leninisti» sono a Milano, Padova, Pisa e Roma. Ad essi si aggiunge una serie di sedi minori: Bologna, Brescia, Cagliari, Castel Fiorentino, Catania, Crema, Cremona, Ferrara, Foggia, Forlì, Genova, Lecce, Pavia, Reggio Calabria, Sassari, Savona, Siena, Udine, Vicenza. Si determinano le condizioni per dare vita al mensile «Nuova Unità». Il titolo chiarisce l'obiettivo: rifondare il giornale del partito revisionista. Nel primo numero (marzo 1964) il mensile (direttore Ugo Duse, vicedirettore Ludovico Geymonat) pubblica Proposte per una piattaforma dei marxisti-leninisti d'Italia. L'ostacolo principale da superare per raggiungere l'unità e la fusione fra i vari gruppi marxisti-leninisti esistenti in Italia, è il giudizio sul partito comunista e quali rapporti stabilire con esso; su questi punti permarranno le divisioni e le diverse interpretazioni, non sanate dalla scelta unilaterale e soggettiva di fondare nel 1966 il Pcd'I. La derivazione comunista concorre ad accentuare in questo filone della gruppettistica il riferimento alla nozione di «partito» e al «centralismo» organizzato; anzi, questa peculiarità diventerà sempre più un surrogato alla scarsezza di analisi. Nei loro, non pochi, processi migratori sarà un tratto distintivo dei marxisti-leninisti. Così come non saranno alieni dallo sperimentare nel-l'ambito della «gruppettistica» i moduli della «clandestinità». Non si tratta certamente della rete organizzativa del terrorismo, ma già nelle prime formazioni, e, più compiutamente nel Pcd'I, l'attività è soffusa di segreti e alla struttura ufficiale se ne affianca un'altra clandestina o semiclandestina che ripropone i modelli della «catena» e dell' anonimato entrista di alcuni militanti. È pertanto dal seno del marxismo-leninismo che nasce anche questa particolare vocazione all'organizzazione clandestina come preludio per la preparazione alla lotta armata, unico sbocco possibile del processo rivoluzionario. Esso si concretizzerà, oltre che nell'equivoca posizione assunta sul terrorismo altoatesino, nella sostanziale disponibilità a tutte le forme di lotta che sfociano nella violenza. Non si tratta di spontaneismo rabbioso o luddistico, quanto di costruire le condizioni per il passaggio alla violenza, a cui si guarda, sia pure in modo primitivo, fin dall'inizio del momento organizzativo. L'esplosione e il successivo declino post-sessantottesco faranno il resto. Al rischio del golpe di destra si risponderà riattivando i canali già parzialmente sperimentati, si passerà a una più raffinata clandestinità fino al sorgere del brigatismo rosso, che troverà in militanti usciti dalle organizzazioni emmelliste — è il caso di Renato

Curcio e di Margherita Cagol — uno dei nuclei portanti della prima generazione di terroristi. Attorno alle Proposte per una piattaforma dei marxisti-leninisti d'Italia si realizza una parziale convergenza organizzativa. Nei confronti del Pci si oscilla fra due orientamenti contrapposti. Per alcuni, come già detto, il Pci ha un «corpo sano e una testa malata»: ne consegue il lavoro ai fianchi della base comunista, per sollecitare la protesta contro il vertice burocratizzato che ha tradito i principi della rivoluzione. Per altri, più radicalmente, il Partito comunista è «concorrente alla Dc per amministrare gli interessi dei capitalisti». Ai «veri rivoluzionari» non spetta altro che «agire come forza indipendente in ogni campo dell' attività politica, cioè tendere al proprio rafforzamento e ali' eliminazione di tutte le organizzazioni politiche antimarxiste-leniniste» . Queste due linee si confrontano e convivono all'interno del gruppo di «Nuova Unità», ma fino alla fondazione del partito prevarrà la scelta entrista. Un convegno a Napoli, nel giugno 1966, teorizzerà questa particolare forma di militanza e assegnerà ai marxisti-leninisti la funzione di «polo esterno», con il compito di premere sul Pci per modificarne la linea e per contribuire al rovesciamento dei suoi dirigenti. Il gruppo napoletano, in una lettera che viene pubblicata nel numero di settembre di «Nuova Unità», precisa ulteriormente la sua scelta entrista e considera «illusoria» ogni ipotesi di fondare un nuovo partito, mentre sottolinea la necessità di guardare con attenzione alla «dialettica in corso nel Pci» e alla sua lotta interna, prefigurando una «frattura verticale» che correggerà le deviazioni presenti. La morte di Palmiro Togliatti induce a sperare in un mutamento di linea del Partito comunista, mentre la stessa sostituzione di Krusciov viene interpretata come il segno di un possibile cambiamento di rotta nel giudizio dell'Unione sovietica nei confronti della Cina. Sono queste speranze a determinare la scelta di «Nuova Unità», nelle elezioni amministrative del novembre 1964, di appoggiare i «candidati rossi» presenti nelle liste del Pci. Si fanno distinzioni fra gli uomini del partito, si ipotizzano linee diverse, si concepisce un partito egemonizzato da gruppi di potere burocratici contro una base di fede stalinista, tradita dal suo gruppo dirigente. Si semplifica così, in modo assai rozzo e schematico, tutto il complesso travaglio del Partito comunista in quegli anni. Le previsioni di facili divisioni e rotture nel gruppo dirigente del Pci si dimostrano presto infondate e la fit-tizia unità raggiunta attorno al mensile si sfalda. Nel gennaio 1965 «Nuova Unità», dopo un solo anno di vita, cessa le sue pubblicazioni. Contemporaneamente Regis prosegue l'attività di propaganda con le Edizioni Oriente, mentre Ugo Duse, in modo autonomo, organizza militanti contrari all'entrismo. Fra questi ultimi sono numerosi i giovani: l'ultimo numero di «Nuova Unità» aveva pubblicato come inserto un foglio della costituenda Lega della gioventù comunista marxista-leninista. Duse farà parlare di sé per il tentativo di reclutare volontari per il Vietnam (un'iniziativa velleitaria e non richiesta dai

vietnamiti) e per il sostegno politico dato ai terroristi altoatesini, considerati per una fase come rivoluzionari Al di là dei contrasti personali, pure acutissimi, il motivo fondamentale della rottura che mette fine alla prima serie di «Nuova Unità», è la differente concezione del partito e del modo di organizzarlo. Le questioni principali investono il rapporto teoria-pratica e il rapporto avanguardie-masse: non si tratta semplicemente di una disputa teorico-ideologica, ma di un contrasto politico di fondo che attraverserà tutta l'esperienza marxista-leninista. Senza una teoria, quale partito? La teoria della rivoluzione in Italia può risolversi nel richiamo maoista e nel? analisi del capitalismo, o deve essere qualcosa di più? E ancora: al partito si approda dopo un lungo processo di sperimentazione, costruito per tappe successive, o basta la scelta soggettiva di un gruppo dirigente? Dalla rottura emergono due tendenze che saranno permanenti nella storia dell'emmellismo. La prima dà vita al Movimento marxista-leninista che fonda il Partito comunista d'Italia. La seconda, movimentista, non condividendo la scelta forzata del partito si polverizzerà in numerose formazioni. Nell'aprile 1965, Balestri, Dinucci, Geymonat, Misefari, e Pesce riprendono le pubblicazioni di «Nuova Unità» e attorno a loro si organizza il Movimento marxista-leninista italiano. La sua piattaforma politica è rappresentata dai venticinque punti proposti dal Partito comunista cinese 1. Il primo maggio esce «II comunista» diretto da Duse. La polemica è su due fronti: contro il Pci, ma anche contro il gruppo di «Nuova Unità» seconda serie. L'attacco è violento, un esempio di quella che sarà una costante del movimento marxistaleninista. Nel suo primo numero «Il comunista» così scrive in polemica con «Nuova Unità» «Hanno alzato la bandiera della fedeltà ai principi solo perché la loro innata vocazione di servi li portava a pensare di sfruttare a breve scadenza, a loro vantaggio, la posizione ufficiale del Partito comunista cinese, del Partito del lavoro di Albania e di molti altri partiti fratelli contro i propri nemici personali ali'interno del Pci». «Quanto ai vecchi gloriosi compagni» (il riferimento è ai militanti rimasti nel partito) «non fanno che aspettare l'osso del padrone, lamentandosi poi della loro vita da cani» 2. Duse rifiuta l'entrismo e al tempo stesso la logica di costruire una nuova organizzazione rivoluzionaria, porta avanti velleitarie operazioni, considera la classe operaia italiana ormai integrata e auspica 1'esplosione della rivoluzione nel Terzo mondo. Ma i contrasti all’ interno del suo gruppo non sono sanati e mentre «Nuova Unità» accelera i tempi della costruzione del partito, i militanti che si raccolgono attorno a «II comunista» lavorano, con modesti risultati su realtà diverse senza riuscire a unificarle in un comune progetto politico-organizzativo «Nuova Unità» non è da meno nella polemica con gli ex compagni: la rottura è stata: «una battaglia vittoriosa contro le infiltrazioni provocatorie di falsi individui trotzkisti e revisionisti contro posizioni politiche sbagliate, contro le chiusure settarie, pavide e inconcludenti che sono emerse in tutta evidenza rivelandosi per quello che sempre sono state nella storia del movimento operaio internazionale,

rivoluzionarismo a parole ma chiusura sul piano politico operativo, inconcludenza sul piano della costruzione della organizzazione politica rivoluzionaria, spirito di setta e discriminazione verso il contributo che sinceri ed onesti compagni rivoluzionari possono portare allo sviluppo della lotta» 3. Pur proseguendo nella logica dell' entrismo nel comitato nazionale provvisorio del Movimento sono presenti, fra gli altri, sedici membri i cui nomi non sono resi pubblici perché ancora militanti del Pci, si avvertono i limiti della teoria dei «poli» esterni e interni mentre lo sviluppo della situazione cinese innesca nel gruppo ripensamenti sulla linea organizzativa seguita. È difficile dire quanto i militanti marxisti-leninisti italiani conoscessero le novità che stavano prendendo corpo in Cina, va segnalato, però, che in quei mesi si avvia il processo che porterà alla rivoluzione culturale cinese. Contrariamente alle aspettative la destituzione di Krusciov, sincronica con lo scoppio della prima atomica cinese (ottobre '64), non aveva aperto una fase nuova fra i due partiti. Né il mutamento dei caratteri del conflitto vietnamita, in conseguenza dell'incidente del Golfo del Tonchino e dei primi bombardamenti americani su Hanoi, avevano spinto a modificare le reciproche posizioni per costruire un fronte unico contro l'imperialismo. In questo quadro non era certo possibile sperare in un mutamento del Pci e in una composizione col «revisionismo»; ormai al revisionismo andava portata una lotta a fondo, senza tregua. Nel settembre '65, Mao lancia la «rivoluzione culturale». Nel febbraio 1966 il Comitato centrale cinese, sembra su indicazione dello stesso Mao Tse-tung, respinge il documento elaborato dal «gruppo dei cinque, incaricato della rivoluzione culturale» come espressione di quella che verrà definita la «linea nera» di Liu Shao-Chi. Le accuse sono violente, si parla di revisionismo. Il testo è definito «contrario ali' idea di portare fino in fondo la rivoluzione socialista» e una sostanziale copertura «alla destra borghese e prepara l'opinione pubblica alla restaurazione borghese» 4 . La circolare del comitato centrale, bollando inesorabilmente il revisionismo di Liu Shao-Chi, che riceverà l'appellativo di «Krusciov cinese», poneva la lotta interna al partito come condizione indispensabile per l'affermazione di una linea autenticamente rivoluzionaria. Il 25 maggio '66, sui muri dell'Università di Pechino appare il primo dazebao «il primo manifesto a grandi caratteri marxista-leninista della Cina» 5 . Il rettore dell'Università di Pechino viene rimosso e dopo poche settimane il comitato centrale lancia i «sedici punti» della rivoluzione culturale e nel paese si sviluppa il movimento delle guardie rosse. Sincronica a questi sommovimenti l'accelerazione della riflessione del gruppo «Nuova Unità»: nel marzo 1966 la pubblicazione delle Linee organizzative del movimento marxista-leninista italiano e nel giugno Avanti con la costruzione del partito. Mentre nel gruppo di «Nuova Unità» si delinea la scelta di chiudere con ogni ambiguità nei confronti del Pci, il variegato panorama della gruppettistica marxista-leninista si muove in altre direzioni.

1 Fanno parte del comitato nazionale: Balestri, Bargagna, Bucco, Di-nucci, Frangioni, Gambate, Lanza, Misefari, Montemezzali, Nadalin, Sartori, Parolini, Pesce, Pisani, Risaliti, Robustelli, Santorelli, Savi, Scavo, Tosi, Zampieri e altri undici membri di cui non vengono resi noti i nomi perché iscritti al Pci, cfr. R. Del Carria, cit., p. 70. 2 «II comunista», n. 1, maggio 1965. 3 «Nuova Unità» (seconda serie), n. 1, aprile 1965. 4 Cfr. L. Foa, A. Natoli, «La linea di Mao, spontaneità e direzione nella rivoluzione culturale cinese», De Donato, 1971. 5 La rivoluzione culturale alI'Università di Pechino, «Monthly Review», n. 8/9, 1969.

5. Linea nera e linea rossa

All'inizio del 1966 «II comunista» dà vita alla Lega dei comunisti marxistileninisti d'Italia a cui affianca la Lega della gioventù comunista m-1 con un proprio giornale, «Gioventù rivoluzionaria». L'incontro con Azione comunista, di provenienza trotzkysta, non si dimostra fruttuoso e inizia la catena delle espulsioni. L'accusa è sempre la stessa, «trotzkysmo», un anatema che significa un po' tutto: revisionista, antipartito, operaista, piccolo borghese. Le espulsioni coinvolgono numerosi dirigenti della Lega della gioventù: si ricostituiscono in gruppo e fondano il giornale «Gioventù marxista-leninista». Gli espulsi e i fuoriusciti da «Il comunista», con l'appoggio delle Edizioni Oriente, avviano una serie di contatti con i vari gruppi marxisti-leninisti e le redazioni dei giornali. Approderanno, in un convegno in estate, ad un momento di sintesi attorno ad alcuni documenti programmatici e su questa base, a Milano nel luglio 1966, fondano la Federazione marxista-leninista d'Italia 1. La Lega dei comunisti, sia pure con un ruolo marginale, prosegue la sua esperienza incontrandosi con la rivista «Nuovo Impegno», per separarsi poi in due tronconi: uno confluirà prima nel Manifesto e infine, accusando l'insieme della sinistra extraparlamentare, entrerà nel Pci; l'altro si unificherà con Unità operaia 2. Le Edizioni Oriente hanno una funzione decisiva nella diffusione delle posizioni cinesi, conquistano prestigio e autorità tra i militanti marxisti-leninisti e tra i filocinesi interni ed esterni alle organizzazioni tradizionali. Per tutta una fase mantengono una posizione autonoma nello scontro fra «Nuova Unità» e «II comunista». Progressivamente anche le Edizioni Oriente passano a una diversa fase organizzativa danno vita al Centro Lenin che, con un suo documento, prende posizione sul problema del partito, convergendo teoricamente con l'impostazione de «Il comunista». Il centro sostiene la costruzione della Federazione, mentre diserta il congresso costitutivo del Partito comunista d'Italia. Nel complesso però la dislocazione delle Edizioni Oriente continua a essere incerta e solo all'inizio del 1968 sembra profilarsi una più compiuta sistemazione teorica. Nell'editoriale di gennaio-marzo, la rivista «Vento dell' Est», partendo dalla constatazione che esistono «vari gruppi che si richiamano al marxismo leninismo e si dichiarano antirevisionisti», propone una «grande alleanza» fra tutte le organizzazioni marxiste-leniniste per avviare un'unità politica e organizzativa di tutte le parti del movimento. La nascita della Federazione marxista-leninista compromette il progetto del gruppo di «Nuova Unità», indebolendo l'ipotesi della fondazione del partito

rivoluzionario e incrinando la sua possibilità d'attrazione. Fra Federazione e «Nuova Unità» l'altalena di accuse diviene presto ossessione polemica. Rileggendo la pubblicistica marxista-leninista appare assai complesso ricostruire le ragioni reali dello scontro: sono analoghe le critiche che vengono mosse dall'una e dall'altra parte, è difficile orientarsi in una terminologia in cui tutto è astrattezza, tutto è «revisionismo» e «antirevisionismo», tutto si etichetta e si riduce a schema. Ma al di là del linguaggio usato, lo scontro si concentra fondamentalmente attorno al giudizio sul revisionismo e sul processo di costruzione del partito rivoluzionario. In assenza di una precisa analisi politica e nel dogmatico ricorso alle posizioni cinesi, tutto si riduce alla lotta di frazione e di piccolo gruppo, in una gara a chi è il più fedele interprete delle verità del marxismo-leninismo, verità di cui tutti sono convinti di essere gli unici possessori. «Nuova Unità» si presenta come «organo del movimento marxista-leninista italiano» e presume di orientare il processo per la costruzione di un «autentico» partito comunista (marxista-leninista) dando per scontata l'esistenza di un movimento marxista-leninista. Di opinione contraria «II comunista», per il quale si è ancora nella fase del lavoro «per la vittoria del marxismo-leninismo», sottotitolo che usa in analogia con la prima serie di «Nuova Unità», non essendo ancora precisati i tempi e le condizioni per la fondazione di un partito antirevisionista. Si tratta dunque di scelte e di concezioni organizzative diverse: la necessità di realizzare «un forte collegamento fra i gruppi marxisti-leninisti» diventa per «II comunista» rigidità, settarismo, chiusura ideologica, dogmatismo e sfiducia nei processi reali; per «Nuova Unità» è questione prioritaria il salto organizzativo, cioè il partito, prima ancora di aver verificato il suo rapporto con le masse; infine per la Federazione marxista-leninista, incurante dei rischi eclettici, il problema è il movimento. La rivista «Lavoro politico» (organo marxista-leninista), in un articolo apparso nel 1968, così spiega i contrasti fra «Nuova Unità» e «II comunista»: «Accettare la tesi de "II comunista" significava accettare che dovesse continuare ancora un dibattito teorico per realizzare l'unità dei marxisti-leninisti, discriminare gli antirevisionisti generici, prima di dar vita al movimento. Accettare la tesi dei dirigenti di "Nuova Unità" significava impegnarsi nella costruzione del movimento e significava anche rompere con coloro che non riconoscevano in esso un movimento marxista-leninista. Si chiarisce così anche il carattere antagonistico del dissidio: da una parte "Nuova Unità" dando vita al movimento marxistaleninista italiano, non poteva che porre come condizione ai marxisti-leninisti italiani, di essere tali nel movimento; d'altra parte "II comunista", negando a tale movimento un carattere marxista-leninista, non poteva che portare come condizione ai suoi militanti di raccogliersi intorno al giornale per preparare il movimento in futuro. Queste scelte rappresentano una "contraddizione fra noi e il nemico", perché mettono uno dei due schieramenti nella condizione di agire come elemento di confusione e di disturbo nei confronti del vero movimento marxistaleninista, a tutto vantaggio dei revisionisti».

«Nuova Unità» definisce «frazionistica» l'attività de «Il comunista»; mentre le Edizioni Oriente decidono di rimanere autonome e di non schierarsi nel dibattito in corso. Intanto si intensificano le tappe per la fondazione del nuovo partito. Dopo il convegno nazionale del movimento marxista-leninista del gennaio 1966, un susseguirsi di appuntamenti, elaborazioni programmatiche e infine la pubblicazione documento Avanti con la costruzione del Partito. A settembre «Nuova Unità» lancia il congresso di fondazione, esalta la decisione del comitato centrale del Pcc sulla Rivoluzione culturale proletaria, attacca violentemente il Pci, ridotto ali'impotenza da un «mucchio di capi traditori» che lavorano per «disfare lo spirito rivoluzionario delle masse» e acconciarle al «pacifismo idiota» e al «democraticismo piccolo borghese». Scrive con sicurezza: «Con la rottura del Pci da parte dei marxisti-leninisti, si salverà l'onore dei combattenti e — pur tra dolori e sacrifici — la classe operaia da una lunga stretta dell'imperialismo con braccia socialdemocratiche e il volto del Pci» 3. Il 14 ottobre è la «data storica». Il teatro Goldoni di Livorno, lo stesso della scissione del 1921, è il luogo simbolico scelto per la fondazione del nuovo partito rivoluzionario: il Partito comunista d'Italia (marxista-leninista). È sancita la svolta definitiva nel rapporto col Pci: ormai esiste un'organizzazione alternativa al «revisionismo». La sua esperienza sarà largamente inferiore alle roboanti affermazioni, tuttavia l'atto soggettivo e volontaristico della fondazione di un partito, definito come tale, diventa un termine di confronto e di discussione per tutta l'area minoritaria. Sul tema «partito e organizzazione» le polemiche saranno dure, anche se è proprio su questo argomento che si registreranno vari tentativi di riaccorpamento. In tutti i giudizi formulati nel!' ambito dei gruppi sull'esperienza marxista-leninista troveremo sempre critiche di ideologismo, di velleitarismo e di scarsa analisi, ma l'attenzione ai temi del partito sarà unanimemente sottolineata come la caratteristica fondamentale del magmatico insieme che si riconduce agli «emmellisti». La dichiarazione di principio del congresso è una sequela di accuse al revisionismo e da queste si fa discendere, in tono trionfalistico, il valore della fondazione del vero partito rivoluzionario. Di fronte al tradimento e alla degenerazione del Partito comunista, si pone il «compito storico» di ricostruire «!'avanguardia cosciente e organizzata del proletariato e delle masse popolari». Anche se le forme organizzative si diversificheranno, questo schema di ragionamento sarà ricorrente, lo ritroveremo — infatti — nella teoria del «nucleo d'acciaio che costruisce il partito», dell'Unione dei marxisti-leninisti e nella scelta di «Lavoro politico» di confluire nel Pcd'I 4. È una scelta in mancanza della quale le «masse» rimarrebbero senza «guida», ed è l'affermazione della volontà di marcare un'egemonia sull'insieme di una sinistra «rivoluzionaria» ipotecata dal rischio della dispersione movimentista. Il nuovo partito elegge segretario Fosco Dinucci. Fra i suoi dirigenti ci sono Osvaldo Pesce, Livio Risaliti, Vittorio Misefari. Il mitizzato rapporto con le masse sarà scarso: lavoro di propaganda e di diffusione del materiale cinese, iniziative di

formazione sui principi del marxismo-leninismo, alcune manifestazioni antimperialiste. L'esperienza è caratterizzata più come critica al Pci e reclutamento di qualche suo militante che come iniziativa politica autonoma. Lo stalinismo è il tratto di congiunzione con una base comunista scarsamente politicizzata e facile alla critica ma che tuttavia non si distacca dal suo partito. Qualche risultato si ottiene nei confronti dei militanti più giovani, gli stessi che, di fronte alle successive novità movimentiste, saranno i principali protagonisti della sua stessa crisi. La Federazione marxista-leninista, bollata da «Nuova Unità» come «Federazione antipartito», vede la costruzione del partito come un «atto arbitrario» compiuto «senza aver aspettato di raccogliere e rappresentare tutti i marxisti-leninisti». Il movimento studentesco da parte sua nutrirà una profonda diffidenza, sarà attratto dalla Cina e dalla Rivoluzione culturale, ma non dalle parodie del Pcd'I, considerato un residuo di terzinternazionalismo. I gruppi saranno particolarmente duri; la critica sarà comune: dogmatismo, ideologismo. Il Pcd'I «nell'autoproclamarsi partito non rappresenta nulla per la classe operaia italiana. Non ha una strategia, non ha una analisi delle classi: insomma, non possiede quella teoria rivoluzionaria senza la quale per Lenin non si può parlare di partito» 5. Ma proprio in questo autoproclamarsi partito sta la ragione del sia pur minimo aumento dei suoi militanti: tra il 1966 e il 1968 il Pcd'I rafforza la sua organizzazione mentre entra progressivamente in crisi la Federazione marxistaleninista che si divide in piccoli raggruppamenti. L'aver posto il tema del partito e lo schematico ricondursi a Lenin, Mao, Stalin, e Gramsci esercita una suggestione per giovani studenti e nuovi militanti con scarsa esperienza politica. Con il crescere del movimento studentesco il Pcd'I perderà questa funzione, altre esperienze sembrano più dinamiche nell'interpretare la dialettica direzionespontaneità della Rivoluzione culturale. Peraltro la sua tesi dello studente «piccolo-borghese» lo estranea dal flusso settantottesco, mentre le lotte interne, condotte a colpi di slogan e di incomprensibili accuse reciproche, lo dilanieranno. Il Pcd'I all'atto della sua costituzione in partito, secondo la logica emulativa della scissione del '21, ripropone la struttura organizzativa del Pci per cellule e federazioni. Nella prima fase il nucleo portante è formato da ex militanti del Pci e non mancano alcuni ex partigiani attratti dal mito di Stalin e da nostalgie per la lotta armata risolutiva. Il reclutamento è selettivo, con la «candidatura» e la successiva iscrizione al partito. In alcune istanze si indulge a pratiche clandestine o semiclandestine. L'intervento è essenzialmente burocratico e propagandistico: si tratta per lo più di ampliare l'organizzazione, diffondere testi e documenti cinesi, fare la campagna di abbonamenti a «Nuova Unità». Le presenze esterne sono limitate e circondate di mistero, mentre tutto è ridotto a semplice schema e a slogan. Scuotono questa ripetitività e la piattezza della vicenda del Pcd'I alcune iniziative realizzate davanti alle fabbriche e i modesti risultati che si ottengono nella costruzione di alcuni comitati di lotta. Nei pochi volantini distribuiti agli

operai dai gruppi d'intervento di «Nuova Unità» si condanna la prospettiva unitaria del sindacato per esaltare il sindacato «di classe», secondo lo stereotipo del sindacato ideologico cinghia di trasmissione del partito. Non manca mai il richiamo alla organizzazione: tutti i testi, qualunque sia la situazione, chiudono con l'appello alla costruzione delle cellule del «vero partito comunista rivoluzionario, il Pcd'I». Sull'altro fronte, quello della Federazione, non si fanno consistenti passi in avanti nella definizione di una linea. Si oscilla fra il rigorismo settario della purezza marxista-leninista e una pratica di movimento che tende ali' incontro con aree eterogenee, ne deriva un sostanziale eclettismo ideologico-teorico. Nei confronti del Pcd'I, pur contestando la sua scelta, non si è assunto un discrimine preciso: il mutare di segno del dibattito sull'organizzazione rende inevitabile un travaso di militanti. Le commistioni con il trotzkismo e con il guevarismo sono frammenti teorici e spunti per una sperimentazione che la struttura confederale adottata non riesce ne a orientare ne a coordinare. Sarà un esempio tipico la nascita del Centro antimperialista Che Guevara, un nucleo che avrà una notevole incidenza nella storia del movimento studentesco e dell'estremismo romano. All'inizio del 1967, sono ormai presenti tutte le condizioni della svolta sessantottesca e della nuova fase dell' estremismo. E cresciuta l'esigenza di realizzare un fronte unico delle nuove avanguardie, di quella che viene definita la «nuova sinistra antirevisionista»: una necessità avvertita non solo dai gruppi del vario operaismo e del frastagliato emmellismo ma anche da militanti del Psiup, da giovani delle cellule universitarie del Pci, dai comitati redazionali delle riviste, dai gruppi dello spontaneismo cattolico. Si manifesta così una fase di quell'alternanza, caratteristica e fisiologica del nuovo estremismo, fra la tendenza ali' unificazione delle varie esperienze e la rigida e settaria difesa del «gruppo». Per gli operaisti, provenienti dai «Quaderni rossi» lo scivolamento verso il partito tradizionale di parte di «Classe operaia» è la conferma dell' urgenza di un'adeguata svolta organizzativa in alternativa al revisionismo. I marxisti-leninisti, pur rappresentando l'area che con più forza ha posto il problema, finiscono per dare una risposta parziale e arretrata, che produce ulteriori divisioni. Per il militante antirevisionista in cerca di organizzazione è difficile orientarsi nel ginepraio del gruppismo e nelle varie, sottili distinzioni. Pensiero di Mao e pratica sociale sembrano i due punti di riferimento fondamentali per unificare una «nuova sinistra» troppo frammentata e incapace di contrapporsi al revisionismo del Pci. In questo contesto, nel corso del 1967, si collocano l'incontro promosso a Bologna dalle riviste dei vari gruppi, le inchieste sul minoritarismo e gli stessi gruppi di pressione all'interno dell'area marxista-leninista. Emblematica l'esperienza della rivista «Lavoro Politico», nata dal Centro di informazione di Verona con militanti usciti dal Pci e dal Psiup, si lega alle vicende dell'occupazione dell'università di Trento del 1967, ramificandosi poi in varie realtà con l'ampliamento progressivo del comitato redazionale. Nel corso del 1968

la sua tiratura passerà dalle 2.000 copie iniziali alle 5.000 6 . La rivista si muove nell'ambito ideologico del marxismo-leninismo; pur giudicando insufficiente e non sostenuta da un'adeguata pratica di massa la scelta del partito compiuta dal Pcd'I, finirà per condividerla. In una prima fase la rivista non compie un'«aprioristica scelta d'organizzazione»: solo nella primavera del 1968, rettifica tale posizione assumendo il documento del gruppo scissionista delle Edizioni Oriente come possibile base di lavoro per un'unificazione dei marxisti-leninisti. In questo modo rifiuta la proposta avanzata dalla casa editrice di una «grande alleanza», e la pratica eclettica della Federazione per riconoscere al Pcd'I il ruolo di «autentica organizzazione marxista-leninista». Ma la convergenza del gruppo di Walter Peruzzi nel «partito» non risolve le contraddizioni, anzi concorre ad accelerare i tempi della rottura. Nel dicembre 1968, quando il movimento studentesco è già entrato nella sua fase di riflusso, si ha la scissione del Pcd'I. Il congresso straordinario mette sotto accusa la segreteria, Dinucci, Pesce, Risaliti. Gli accusatori sono Dini, Misefari (direttore di «Nuova Unità»), Gracci, Sartori, Balestri, Peruzzi. La segreteria è giudicata espressione della «linea nera» ed è accusata di sabotare «la costruzione del partito sulla linea di massa». E il punto critico sottolineato da «Lavoro Politico» all'atto della confluenza, quando, in polemica con ogni concezione attivistica della costruzione di massa, rimarcava l'esigenza di procedere contemporaneamente al radicamento fra le masse dei militanti e ali'aumento della loro capacità di «tradurre le esigenze oggettive delle masse nella linea e nella pratica politica del partito» 7. Gracci, Dini e Sartori, compongono la nuova segreteria. Primo atto: l'espulsione di Dinucci, Pesce e Risaliti «cricca di rinnegati infiltrati in posizione di potere». Il 10 dicembre escono due numeri di «Nuova Unità»: e tutti e due si presentano come organi del Pcd'I. Per l'estremismo uno sarà quello della «linea nera» (Dinucci), l'altro quello della «linea rossa» (Gracci) che sarà poi sostituito da «Il Partito». La sostanza politica dello scontro è il rapporto che intercorre fra organizzazione e lavoro di massa. Si accusa la linea nera di non sviluppare un'analisi adeguata della realtà italiana di imporre ai militanti una sterile e ripetitiva propaganda di principi e di essere un partito estraneo alle masse, guidato da una logica bordighiana tutta esterna allo scontro di classe e alla sua dinamica. Sono critiche ricorrenti nelle molte scissioni dei «comunisti marxisti-leninisti» e che rappresentano il nodo irrisolto dell'emmellismo: il passaggio dai principi alla loro concretizzazione pratica. Per «Il Partito» di Gracci l'obiettivo invece è la linea di massa, essere «avanguardia della classe» e non un «organo esterno». Sono solo intenzioni che non troveranno altro sviluppo che una progressiva frantumazione organizzativa. Peruzzi sarà espulso nell'agosto del 1969, accusato di «avventurismo e frazionismo organizzato». Altri militanti entreranno nell'Unione dei comunisti italiani (m-1), un'esperienza che riprodurrà tutte le vecchie contraddizioni e da

esse sarà ulteriormente frantumata. La linea nera, che continuerà a essere riconosciuta da Pechino, subisce analogo processo di decomposizione. All'inizio del 1969 nasce l'Organizzazione dei comunisti italiani, con il giornale «La voce rivoluzionaria». A Napoli Hermann fonda il Pcd'I (m-1) — Lotta di lunga durata. Osvaldo Pesce, espulso, da vita all'Organizzazione dei comunisti (m1) d'Italia, con il giornale «Linea Proletaria». Giovanni Scudieri fonda l'Organizzazione bolscevica, e pubblica «II Bolscevico». Anche i due tronconi in cui si era divisa nell'estate 1968 la Federazione, il Partito comunista rivoluzionario (m-1) con il suo «Rivoluzione proletaria» diretto da Giuseppe Mai e Avanguardia proletaria maoista (Semeraro, Spazzali, Thiella), subiscono ulteriori scissioni. Il Partito comunista rivoluzionario confluirà nell'Unione, mentre dalla rottura di Avanguardia nasce il Partito comunista marxista-leninista maoista italiano, che ha come organo «II Compagno» diretto da Semeraro. E un groviglio di sigle destinate all'estinzione per esaurimento e a fornire militanza ai gruppi nonché ai primi nuclei terroristici. Ad ogni rottura segue la fluidificazione: il sapore amaro della sconfitta annebbia la capacità di analisi e fa occultare dietro ideologismi di maniera le ragioni dei fallimenti. Velleitarismi e insuccessi diventano la pericolosa miscela di ogni avventura che faccia balenare la possibilità di uscire dalla sfasatura fra le ambizioni del progetto e il risultato conseguito.

1 Cfr. G. Mai, Storia dell'organizzazione marxista-leninista in Italia (1963-1969), cit. 2 Cfr. Documento di unificazione. 3 V. Misefari, Livorno anno '21, «Nuova Unità» (seconda serie), 1 ottobre 1966. 4 Nell'inverno 1968, una parte del gruppo redazionale di «Lavoro politico» confluirà nel Pcd'I alla vigilia della sua scissione in «linea nera» e «linea rossa». 5 II dogmatismo del Pcd'I (m-l), «Avanguardia operaia», n. 3, 1969. 6 II comitato di redazione è composto da: Maura Antonini, Duccio Berio, Marisa Bertolini, Francesco Brunelli, Mario Luigi Bruschini, Tommaso Carcelli, Amanda Cheneri, Renato Curcio, Corrado Diamantini, Edda Foggini, Sandro Forcato, Giovanni Mari, Paolo Mosna, Walter Peruzzi, Cesare Pitto, Luciano Viti.

7 II marxismo-leninismo oggi in Italia, «Lavoro politico», n. 7, 1968.

IV LA CULTURA MILITANTE

1. Intellettuali e sinistra

Nell'individuazione dell'area culturale da cui si origina e si alimenta il «sinistrismo» degli anni sessanta gioca un ruolo decisivo la ricomposizione del sistema politico ideologico che si realizza dopo la fine del centrismo e, sul piano internazionale, della guerra fredda. Un processo composito che, scompaginando i vecchi schieramenti, ridisegna gli equilibri politici, mentre eterogenee culture si attraversano fra loro. Espressione di questa crisi, ma anche tentativo di una incompiuta risistemazione, è la fucina-laboratorio delle riviste politico culturali; in esse si congiungono, con vari gradi di avvicinamento, l'itinerario del dissenso cattolico e quello di provenienza marxista. In un quadro contrassegnato da profondi mutamenti, per entrambi saltano quei punti di autorità che avevano contraddistinto, per carisma o intima convinzione, la convivenza delle loro stesse interne diversità. I caratteri bruschi di una modernizzazione, accompagnata da nuove esplosive contraddizioni, si riflettono su un tessuto culturale su cui gravano ancora forti ipoteche tradizionalistiche, determinando un complesso di spinte centrifughe. Per la cultura di sinistra, la caduta dello stalinismo legittima e rende necessaria un'autonomia di ricerca e di sperimentazione; contemporaneamente settori della cultura cattolica rompono con il collateralismo alla Dc ed esplorano nuove dimensioni dell'impegno militante. Tendenze che entrano in risonanza con vari «terzaforzismi» di ispirazione liberal-socialista. In questa tensione alla riconquista di una identità, si logora la funzione del partito come unico garante e interprete della politica. Del resto già il caso de «II Politecnico», la rivista di Elio Vittorini, aveva emblematizzato la difficoltà di rapporto tra il Pci e gli intellettuali aprendo così una ferita non rimarginata per le sue implicazioni e il suo valore di lezione negativa. Sono i primi anni della ricostruzione: Mario Alleata e ancor più autorevolmente Togliatti ne contestano le velleità nella ricerca di un «nuovo intellettuale». La lettera di Togliatti a Vittorini, pubblicata su «II Politecnico» alla

fine del '46, polemizza col carattere enciclopedico della rivista e con la sua vocazione ad una «ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente»1 . Alcuni anni dopo, commentando le critiche del Pci al «Politecnico», Franco Fortini scriverà: «Gli scritti di Luporini, Alicata, Togliatti, hanno insomma un falso scopo — la critica al confusionarismo de "II Politecnico" settimanale — ed uno scopo reale: mettere in guardia i lettori comunisti contro i pericoli deviazionistici dell' "approfondimento" della rivista mensile; e al tempo stesso vogliono provocare una decisa autocritica del direttore della rivista. Il risultato sarà, naturalmente che le critiche alla rivista passeranno in second'ordine e il centro della discussione diverrà quello dei rapporti fra attività (o autorità) culturale e attività (o autorità) politica...» 2 . Alla lettera di Togliatti segue la lunga replica di Vittorini che autodefinendosi un «compagno di strada» rivendica la funzione di una ricerca «oltre e fuori il marxismo». Il diritto di parlare a suo avviso, non deriva agli uomini dal fatto di «possedere la verità», ma deriva piuttosto dal fatto che «si cerca la verità». Si rivendica dunque per l'intellettuale un ruolo attivo di conoscenza e di invenzione fuori da preclusioni ideologiche prestabilite e al tempo stesso un impegno civile che coincide con la ricerca della verità. Sarà questa la tensione e l'ansietà che ritroveremo nelle riviste culturali della nuova sinistra anni sessanta: «Forzando un po' la mano, si potrebbe addirittura arrivare a dire che certi caratteri di intervento, di settarismo ideologico, di immagine utopica della cultura nata dopo il sessantotto, hanno più di una matrice proprio nello spirito de “II Politecnico”» 3. Già Vittorini aveva posto il problema della non identificazione fra la ricerca degli intellettuali italiani e gli stereotipi culturali dell'Unione sovietica. Per lo scrittore siciliano essere «comunisti» non significa fare libri «comunisti», essere impegnati politicamente non significa scrivere opere politicamente impegnate. Nella sua replica a Togliatti scrive: «Lo scrittore rivoluzionario che milita nel nostro partito dovrà rifiutare le tendenze estetiche dell'Urss non solo perché sono il prodotto di un paese già in fase di costruzione socialista; [...] egli dovrà rifiutarle anche perché contengono il pericolo che contengono [...] Il marxismo contiene parole per le quali ci è dato di pensare che la nostra rivoluzione può essere divisa dalle altre e straordinarie. Può essere tale che la cultura non si fermi e che la poesia non decada ad arcadia e noi dobbiamo almeno sforzarci di fare in modo che sia tale» 4 . La chiusura de «II Politecnico» coincide con una fase cupa della vita nazionale, è la vigilia del '48, l'anno che sancisce la rottura del quadro politico postresistenziale, l'anno del fronte popolare e della sua sconfitta. Nella sinistra si apre con accanimento la lotta ideologica contro le degenerazioni borghesi. Rivolgendosi agli intellettuali, Togliatti dalla tribuna del VI congresso è durissimo: «Difetti dei nostri compagni intellettuali sono la tendenza ad isolarsi, il loro modo di impostare spesso alcuni problemi in modo incomprensibile per le masse, sotto l'influenza di forme degenerate della cultura borghese». Gli fanno eco nel tempo e con varia accentuazione: Alleata, Sereni, Secchia. Più prudenti e

anche sconcertati, Concetto Marchesi e il filosofo Antonio Banfi, correggeranno Togliatti in pieno congresso, cercando di attenuare i toni del duro attacco. Fino al «disgelo» che segue la morte di Stalin, la linea culturale del Pci si muove fra il richiamo ai principi dello zdanovismo e l'attivismo propagandistico dell' Alleanza per la difesa della cultura. Franco Fortini, in modo caustico, ma cogliendo la sostanza della contraddizione, la definirà una linea fra Croce e Stalin. Il Pci non vuole rompere con gli intellettuali, li corteggia e li valorizza, si presenta come loro difensore contro gli autoritarismi del centrismo e le persecuzioni del clima da guerra fredda, ma è pronto a colpirli quando mettono in discussione il primato della politica. Tornando dopo molti anni sulla sostanza dell' esperienza de «II Politecnico», Vittorini scriverà autocriticamente: «Abbiamo detto i politici non ci capiscono, non possiamo andare d'accordo. Cera, cioè, in noi l'inclinazione a ritirarci. Anziché svolgere a fondo la battaglia si è preferito rompere il contatto. È prevalsa la vecchia distinzione fra cultura e politica che veniva ancora dal crocianesimo, dall'influenza delle strutture tradizionali italiane [...]. E mancato l'impegno di dire ai politici "siamo politici anche noi". Abbiamo qualcosa di politico da dire anche noi e questo qualcosa può avere importanza per quello che di politico potete dire voi» 5 . All’indomani della polemica Vittorini-Togliatti, ma non solo per effetto di essa, si concluderà la storia de «Il Politecnico», si interrompe sul nascere una sperimentazione culturale e il suo tentativo di indipendenza nel circuito culturapolitica. L'impegno autonomo dell' operazione culturale così bruscamente compromesso dai vertici del Pci, rimane un territorio da esplorare. Ma la cultura della sinistra italiana, sfiorita la generosa tensione del postresistenza e dei primi anni della Repubblica, corre più rapidamente della politica, intuisce e vive la crisi del marxismo, sente cadere le speranze della Liberazione, cerca la sua identità e la sua libertà oltre gli equivoci appelli crociani sull'autonomia dalla cultura. Una ricerca difficile negli anni della guerra fredda, quando si deve scegliere se stare da una parte o dall'altra, in un clima in cui il solo dubbio appare tradimento. Anni di travaglio per una cultura che deve ancora liberarsi delle ipoteche del crocianesimo, ma non ha ancora avuto tempo di assimilare il marxismo, che oscilla fra idealismo e storicismo se ne sente soffocata e guarda incuriosita ad altri orizzonti di conoscenza. Per chi cerca il suo spazio, spesso in modo del tutto ingiustificato, l'accusa è di «terzaforzismo». Alla critica così replica Norberto Bobbio nel suo Politica e cultura del '54: «per l'intellettuale non si tratta di costituire una terza forza, ma di sapersi valere con la serietà e destrezza dell'unica forza che è sua, l'intelligenza. All'uomo di cultura non spetta altro compito che quello di capire, di aiutare a capire. E, se nell'esercizio del suo compito favorisce lo spirito di compromesso, anziché quello di rissa sarà tanto di guadagnato per lo spirito della pace». Il clima muterà nella seconda metà degli anni cinquanta. Con la distensione internazionale e la destalinizzazione tutto si problematizza: il cercare strade

difformi da quelle tracciate diventa un obbligo; un impegno civile il rivendicare la propria autonomia e la libertà del dissentire, l'approdare con i propri strumenti intellettuali alle forme della politica. Di fronte alla crisi del sistema socialista il distacco degli intellettuali si fa ipercriticismo e orgogliosa rivendicazione del proprio ruolo contro e oltre le ragioni di partito. Mutuando il titolo del racconto di Italo Calvino, vogliono uscire rapidamente dalla «Grande bonaccia». Scritto sulla rivista «Città aperta» è una satira pungente contro le prudenze togliattiane e il navigare del leader comunista nelle traversie del mondo socialista fra troppe reticenze e doppiezze 6 . Negli ambienti intellettuali le «ombre» del congresso di Mosca sembrano prevalere sulle «luci». Panzieri, allora responsabile culturale del Psi, introducendo il convegno promosso a Roma su «Politica e cultura» insiste sul valore della ricerca intellettuale. Per Panzieri la crisi, apertasi nel movimento operaio, si riflette nella crisi degli «intellettuali democratici» e tuttavia solo un loro ruolo attivo può contribuire alla riscoperta delle caratteristiche moderne della lotta di classe. L'esponente socialista coglie il manifestarsi di una nuova domanda di politicità e comprende che è destinata a confliggere con la politica seguita dalle sinistre, avverte al tempo stesso il pericolo di un divorzio fra trasformazione socialista della società e valori di una democrazia astratta dalla lotta di classe. Rispondendo alle nove domande sullo stalinismo della rivista «Nuovi argomenti», sullo stesso numero in cui appare la famosa intervista a Togliatti, lo scrittore Carlo Cassola scrive: «gli avvenimenti sovietici confermano in modo luminoso che la democrazia è legata alla pluralità delle formazioni politiche» 7 . Ma l'accusa va più nel profondo, spiegando perché non si era iscritto al Pci, sulle pagine del «Contemporaneo» argomenta: «gli intellettuali della mia generazione che sono diventati comunisti nel corso della Resistenza (e cioè appunto Lucio Lombardo Radice, gli Alicata, gli Ingrao, i Salinari, i Trombadori, etc.) provenivano tutti da una esperienza crociana. Ora a mio modo di vedere nel comunismo essi hanno portato con l'esperienza liberale (Croce è un cattivo maestro di liberalismo, come dice Bobbio) piuttosto lo storicismo assoluto, e conseguentemente una forma di totalitarismo mentale». E prosegue «la vera barriera la poneva l'intellettuale con il suo appello a ciò che unisce e a ciò che divide che in definitiva suonava appello al confusionismo (e il totalitarismo consiste precisamente in questo, nel voler coprire tutte le posizioni, quelle dell'alleato e anche di quelle dell' avversario stringendole in un abbraccio soffocatore» 8. Carlo Salinari, allora direttore del «Contemporaneo» titola l'articolo di Cassola, Reazioni sentimentali. È un implicito commento. L'altra faccia del XX congresso erano i fatti di Poznan del giugno '56 e di lì a poco l'invasione dell'Ungheria. Istavan Meszaros, allievo di György Lukács, scrive La rivolta degli intellettuali in Ungheria. Nel Manifesto dei cento, dopo i drammatici avvenimenti, gli intellettuali di sinistra chiedono chiarezza e verità alPci. Nello

stesso anno Roberto Guiducci scrive il suo Socialismo e verità: i due termini sono conciliabili oppure «la ragion di stato e di partito finisce per offuscarli entrambi?». Caratterizzata dalla direzione di Raniero Panzieri, la rivista culturale del Psi, «Mondo operaio» assolve un ruolo decisivo come centro di un dibattito teso a ridefinire la prospettiva strategica del socialismo alla luce della nuova fase politica e sullo sfondo dell'esigenza di un'originale rilettura del marxismo. Il dilemma fra l'essere antistalinisti e antiriformisti sembra insolubile. Un dilemma che attanaglia gli intellettuali, anche se per alcuni, in concomitanza con il nuovo ciclo economico-politico interno, significherà un acritico riconoscimento del sistema capitalistico, a cui si contrappongono le reazioni avanguardistiche di chi non vuole appiattirsi nei conformismi partitici e non vuole accettare le regole di un gioco che non ha deciso. La cultura vuole essere in modo autonomo lo specchio e la coscienza di una società che cambia, non condizionata per dirla con Luciano Bianciardi, dai «vademecum per il responsabile del lavoro culturale» dei partiti 9. Intanto nuove forze si organizzano, discutono e fanno opinione, creano occasioni di impegno. Centro di questa tensione, secondo una tradizione della cultura italiana, le riviste. Non orbitano nell'universo dei partiti, nascono come voci dissenzienti, sono la sede in cui si incontrano gli eretici del Pci e del Psi, personalità diverse animate da un medesimo bisogno di criticità al moderno e al tradizionalismo. Nel '55 nasce a Milano «Ragionamenti», che vede fra i suoi promotori Franco Fortini. Di lì a poco uscirà «Officina» di Roversi, vi collaborano fra gli altri Pasolini, Sciascia, Calvino e lo stesso Fortini. Se «Officina» è una rivista prevalentemente letteraria e di costume, «Città aperta» nata sotto la direzione di Tommaso Chiaretti, è già espressione di un dissenso politico. Ha vita dopo i fatti di Ungheria e i fondatori sono un gruppo di intellettuali comunisti. Ben presto Chiaretti sarà radiato dal Pci. A Bologna esce «Opinione», la sua storia si conclude in solo quattro numeri, alcuni dei suoi protagonisti, Agazzi e Adelaide Salvaco li ritroveremo poi con Panzieri nella redazione dei «Quaderni rossi». Attorno a Giolitti, promossa dalla casa editrice Einaudi nasce «Passato e presente», direttore Carlo Ripa di Meana. Il suo primo editoriale è firmato da Vittorio Foa 10. Un gran fermento che tutto rimette in discussione: le verità sono da riscoprire e i classici da rileggere nella consapevolezza che qualcosa in cui si è creduto va reinventato.

1 Lettera di Togliatti a Vittorini, «II Politecnico», n. 33/34, settembre-dicembre 1946; Cfr. N. Aiello, «Intellettuali e Pci, 1944-1958», Laterza, 1979. 2 «Nuovi argomenti», n. 1, aprile 1953; raccolto in «Dieci inverni», Feltrinelli, 1957 3 Introduzione a «II Politecnico», antologia a cura di M. Forti e S. Pautasso, Rizzoli, 1975, p. 20. 4 Politica e cultura, replica di Vittorini a Togliatti, «II Politecnico», n. 35, gennaio-marzo 1947. «Menabò», n. 10, Einaudi, 1967. 6 I. Calvino, La grande bonaccia delle Antille, «Città aperta», n. 4/5, 1957 7 «Nuovi argomenti», n. 20, maggio-giugno 1956. 8 C. Cassola, Avevo scelto non mi sarei iscritto al Pci, ibidem. 9 L. Banciardi, II lavoro culturale, Feltrinelli, 1957; Cfr. Revisionismo socialista. Antologia di testi 1955-1962,«Quaderni di Mondoperaio», 1975, a cura di G. Mughini, p. 166. 10 Per una bibliografia sulle riviste cfr.: «Che fare», n. 6/7, 1970; Gli anni delle riviste (1955-1969), fascicolo monografico di «Classe» n. 17, giugno 1980.

2. Il dissenso cattolico

Tra il 1953 ed il 1958 subiscono una radicale mutazione le correnti di pensiero riconducibili al «cristianesimo sociale» i cui tratti di origine risalgono alle encicliche di Leone XIII e avevano ispirato quegli elementi di «populismo» presenti sin dai primi atti costitutivi nel Partito popolare e poi confluiti in certi settori della Dc 1. La rivista di Dossetti «Cronache sociali» ne rappresenta il massimo punto di elaborazione, ma l'irrisolta contraddizione fra spinte progressiste e altre apertamente reazionarie porterà alla crisi e al fallimento di un'esperienza tesa ad affermare un'esigenza di giustizia sociale a metà fra l'individualismo liberale e il «collettivismo di tipo marxista». Le organizzazioni giovanili dell'Azione cattolica fra il 1953 e il 1954 pongono con forza la necessità di un «nuovo ordine sociale» corrispondente alle aspirazioni degli strati più popolari delle masse cattoliche. Non tarda a realizzarsi una rottura con i cardinali della Curia. Nella primavera del '54 il gruppo dirigente del movimento — Dorigo, Rossi, Carretto — davanti alle varie pressioni e alle diverse ingerenze, si vede costretto a rassegnare le dimissioni. Rimane a condurre questa battaglia il periodico di Don Primo Mazzolari — stampato a Cremona — «Adesso». Una battaglia dai contorni incerti che, pur mantenendo l'ispirazione originaria, è fortemente limitata da numerosi interventi repressivi e da ristrettezze di visione, come nel caso delle polemiche del giornale con Bertesaghi e Melloni espulsi dalla De per non aver condiviso la politica degasperiana. La necessità di superare il centrismo accelera la crisi dell'unanimismo sulla dottrina sociale della chiesa e implica una dislocazione più netta nella lotta interna della Democrazia cristiana. Nel 1953 si avviano le premesse per la costituzione di una vera corrente di sinistra. Il gruppo nato per iniziativa di Aristide Marchetti si nominò la Base e il suo periodico «Prospettive». Tra i collaboratori della rivista vi sono autorevoli personaggi che ritroveremo nelle vicende politiche italiane. Fra gli altri fanno parte del comitato di redazione: Luigi Granelli per le note sindacali e la politica interna; Giuseppe Chiarante per l'analisi del mondo socialista; Lucio Magri per la politica internazionale; Sergio Mariani per la storia del movimento operaio contadino e ancora Giovanni Galloni, Nicola Pistelli e Giorgio La Pira. Commentando la conclusione di questa esperienza e le diverse scelte maturate dai suoi protagonisti è stato scritto che essa «segnava la fine dell'unico gruppo che all’ interno dello schieramento cattolico ufficiale, era riuscito a comprendere la necessità di un rapporto e di un collegamento con tutta la sinistra italiana» 2 . La

storia della rivista è breve: ne escono dieci numeri; nell' estate del 1955 con l'intervento della direzione della Dc che condanna il modo di impostare il rapporto con i partiti di sinistra, si ha, una brusca sterzata. L'interpretazione della prospettiva del centro-sinistra e dell'incontro con i socialisti apporta sostanziali novità nella Dc e negli orientamenti delle correnti dentro e fuori il partito, che si richiamavano al cristianesimo sociale. La Base si riorganizza come corrente di sinistra ali' interno del partito, una riaggregazione che non riuscirà però a cementare l'insieme delle tendenze e che presto determinerà critiche nel suo seno e processi di fuoriuscita; il caso più clamoroso sarà quello di Wladimiro Dorigo, ex militante dell'Azione cattolica che lascerà nel '58 la Dc per fondare la rivista «Questitalia». Tuttavia sarà proprio la nuova collocazione della Base a rappresentare un fattore decisivo per il superamento del governo monocolore e dei suoi pesanti inquinamenti. L approdo al centro-sinistra è visto come il superamento dell' integralismo fanfaniano e post-dossettiniano, un'occasione per un rapporto originale con le masse socialiste e per impedire ogni collusione col neo-fascismo. In questa ottica che travalica il semplice discorso politico, quello che si taglia fuori è il dialogo col partito comunista, anzi, pur nella ricerca di una qualità diversa dell'intera società italiana, la Base fa sua la pregiudiziale nei confronti del Pci, quel «pericolo comunista che andava combattuto per rafforzare la democrazia e le istituzioni italiane». Attorno a questa ipotesi innovativa, ma non sufficiente ad interpretare i fenomeni che avanzano nel paese, la Democrazia cristiana guidata da Aldo Moro trova una sua unità, ma le tensioni sociali mettono rapidamente a nudo le ambiguità del progetto politico di centro-sinistra. Concorre a determinare questo iato fra esigenza di rinnovamento e soluzione politica adottata, il permanere di orientamenti retrivi e conservatori ali'interno della Chiesa. Numerosi gli esempi di intolleranza e di repressione. Tipico è il caso del volume di Don Lorenzo Milani «Esperienze Pastorali», che, pur avendo avuto consensi dalla stessa critica cattolica, viene ritirato dalle librerie cattoliche dopo un attacco congiunto de «II Borghese» e di «Civiltà cattolica». Interventi che testimoniano gli ostacoli incontrati dalle novità che si fanno strada, innovazioni di cui il messaggio di Giovanni XXIII sarà il punto più alto. In questa transizione si ridefinisce la natura dell' impegno sociale dei cattolici, si avverte con maggior certezza il bisogno intellettuale e pratico di avventurarsi per nuovi sentieri di riflessione, senza cadere sotto la repressione né delle gerarchle ecclesiastiche né degli organi dirigenti di partito. Espressione di queste tendenze sono le testate di varie riviste che nascono a sinistra della De e in contestazione alla Chiesa tradizionale: la già ricordata rivista «Questitalia», organi locali come «II Gallo» a Genova, «Testimonianze» a Firenze. Il sorgere di questa nuova pubblicistica nel mondo cattolico mette definitivamente in crisi ciò che rimane del «cristianesimo sociale». Parallelamente si conclude la vicenda di «Adesso», fondata da Don Primo Mazzolari e diretta allora da Mario Rossi. Commenta Wladimiro Dorigo: «ad “Adesso” la nostra

solidarietà per l'intollerabile pressione affrontata e il nostro fraterno rimprovero per averla accettata». Il procedere verso il nuovo si realizza nell' incertezza, oscillando fra la sfiducia nell'ipotesi di centro-sinistra e le speranze di una sua possibile capacità innovativa. Le suggestioni riformiste di «Passato e presente», e il cimentarsi di «Questitalia» sul tema della programmazione sono la testimonianza di quell'illuminismo tecnologico che ripiegherà su se stesso dopo l'esito negativo della formula di centro-sinistra. L'avvicinamento della Dc al Psi, pur non risolvendo sul piano -politico la questione del rapporto col comunismo, concorre al superamento dei vecchi steccati ideologici. Al di là degli aspetti più propriamente politici l'incontro delle grandi componenti ideologiche del paese diventa una esigenza. Esse stesse per altro sono in forte rimescolamento, sottoposte a critica e verifica dall'interno e dall'esterno. Temi come la pace, la distensione, la coesistenza pacifica, mettono in risalto come le antiche divisioni siano unicamente funzionali al sistema partitocratico. Nell' area cattolica questo clima di ricomposizione trova fertile terreno nelle vicende interne alla Dc, che accompagnano il processo di formazione del centro sinistra e nel particolare ruolo esercitato in tal senso dalla segreteria Moro. Numeroso e vasto diventa l'impegno di una nuova generazione di militanti cattolici nella scuola sindacale di Firenze fondata da Pastore; intellettuali e tecnici di estrazione cattolica lavorano dentro e fuori del partito per un suo spostamento e per una diversa funzione della milizia cattolica nella società. Un valore dirompente assume il messaggio Giovanneo, in esso il dissenso cattolico trova un ulteriore impulso alla sua sperimentazione. Si è respirata aria nuova nel Concilio, si è aperta e vinta la battaglia per il rinnovamento contro il vecchio, contro il conservatorismo, si è entrati nella fase del confronto con le chiese più avanzate del mondo per accogliere il nuovo e il positivo. Si è rotto con l'intolleranza a favore del dialogo con altre confessioni. Ecco quindi la rivista del gruppo del «Gallo» che lavora a un volume collettivo, elaborato da cattolici, ortodossi, protestanti e anglicani su quelle che erano le attese del Concilio. Le encicliche di papa Giovanni guardano senza pregiudizi al mondo del lavoro, ai problemi del mondo moderno, con un'originale spiritualità, contribuiscono alla rottura dei limiti fideistici e clericali, al superamento di ogni separazione fra credenti e non credenti in una ricerca pastorale di universalità. La politica di distensione a livello internazionale, il mutato rapporto della Chiesa nei confronti del mondo comunista spingono a nuove dimensioni dell'impegno sociale dei cattolici, ad estendere il dialogo e a battere ogni schematismo. Sono i presupposti per una battaglia laica del cattolicesimo d'avanguardia italiano. I temi dell'impegno civile, che come segno dei tempi animano una certa cultura laica radicale, diventano dominanti nei gruppi dei cattolici del dissenso: superamento della scuola confessionale, denuncia del Concordato, obiezione di coscienza, libertà politica dei cattolici. Sono questi gli argomenti che troviamo negli articoli e nei dibattiti di Wladimiro Dorigo, Don Milani, Giovanni Gozzer.

Singole intellettualità e gruppi tendono a superare ogni distinzione fra impegno del laico e impegno del credente, a liberarsi dai vincoli partitici per cogliere subito il dato umano esistenziale; a ricercare una dimensione «uomo» fuori dell'ideologia, per ancorarla alla giustizia sociale e ali' egualitarismo. Il Concilio Vaticano ha aperto nuovi orizzonti; sembrano cadere le vecchie barriere. La tensione ideale per una nuova condizione morale e sociale dell'uomo, nella sua universalità, è il possibile terreno d'incontro fra marxisti e cattolici, al di là delle diversità di fede e ideologia. Tramonta la cultura cattolico-liberale e si profila un nuovo tipo di intellettuale cattolico, più impegnato nel sociale e libero da ogni angusto limite fideistico e clericale. In questo clima nascono i «gruppi post-conciliari», le polemiche con le Acli e con il partito della democrazia cristiana, le contraddizioni della Fuci (Federazione unitaria cattolica italiana). Accanto alle vecchie organizzazioni se ne formano di nuove — è il caso della Gioventù studentesca (da cui originerà, dopo il '70, Comunione e liberazione), il Raggio, l'Intesa, quest'ultima particolarmente importante come sede di formazione di numerosi quadri dirigenti del movimento studentesco e poi dei gruppi extraparlamentari. Nell'Intesa (organizzazione studentesca dei cattolici) e in altre organizzazioni spontanee del variegato arcipelago del «dissenso cattolico» si fanno strada orientamenti anticapitalistici, una radicalità che investe il giudizio sull'insieme della società italiana. Tendenze che si coniugheranno al criticismo di settori giovanili provenienenti dalle file dei tradizionali partiti operai. Schematizzando al massimo la vicenda all'interno del mondo cattolico di «sinistra» abbiamo tre fondamentali direzioni: la prima che si realizza all'interno del partito, la seconda nel sindacato e nelle Acli, la terza nei gruppi del cosiddetto «dissenso» e nella milizia sociale. Queste ultime due rappresentano un'importanza decisiva per l'influsso che eserciteranno in settori diversi della gruppettistica; per esse gli anni compresi fino al '68 sono un costante mettersi in discussione per aprirsi a nuovi orientamenti; successivamente parte della loro storia politicoorganizzativa confluirà nella vicenda dell'estremismo. Non si tratta di incontri organizzativi, quanto invece di percorsi intellettuali di aree culturalmente eterogenee che si uniscono nella critica anticapitalistica e in comuni aspirazioni al cambiamento, che portano nella domanda di socialismo tratti egualitaristici e bisogni di più intransigenti giustizie sociali. Il parziale punto di equilibrio che sembra realizzarsi attorno al «moroteismo» non sarà sufficiente a garantire una ricomposizione politica unitaria attorno alla Dc.

1 Cfr. C.F. Casula, «Cattolici-comunisti-sinistra cattolica, 1938-1945», II Mulino, 1976; «La sinistra cattolica in Italia dal dopoguerra al referendum», a cura di R. Giura Longo, De Donato, 1975. Ibidem

3. Una sinistra tutta da farsi

II luglio sessanta rappresenta una drammatica anticipazione dei rischi presenti nel centro-sinistra; la sua realizzazione e le successive involuzioni riportano bruscamente alla realtà. Cadono le illusioni di chi aveva creduto in possibili cambiamenti indolori. Accanto a una generazione di nuovi militanti, quelli di Porta San Paolo e della riscossa operaia, si forma una nuova figura di operatore intellettuale e culturale che non vuole integrarsi nel sistema, non si riconosce nei partiti, non vuole una cultura staccata dalla realtà e domanda una nuova militanza politica: è quella che Giampiero Mughini direttore di «Giovane critica» chiamerà «una militanza tutto fare». L'approdo alla politica non sarà omogeneo: se per i «Quaderni rossi» l'itinerario sin dall'origine è ben definibile per la provenienza dei suoi principali protagonisti, per le altre riviste lo spostamento sul terreno politico avverrà per tappe successive, per crescita interna e nel confronto con i fatti. Le caratteristiche e le origini delle riviste degli anni '60 sono diverse: su un terreno specificatamente culturale nascono i «Quaderni piacentini», «Giovane critica», «Quindici»; altre sono espressione di una sofferta milizia cattolica; quelle del filone marxista-leninista, dai «Quaderni Oriente» a «Vento dell'Est», divulgano l'esperienza cinese e i principi del maoismo; altre sono già strumento teoricopolitico come «Classe operaia» e «Classe e Stato», sorte dalla scissione dei «Quaderni rossi». La distinzione fra le riviste nate come luogo di sperimentazione culturale e quelle più funzionali a un' ipotesi politica avrà una breve durata: comune è la tendenza alla politica come rifondazione della stessa operazione culturale. A pochi mesi di distanza dalla pubblicazione dei «Quaderni rossi», nel gennaio 1962, escono i «Quaderni piacentini». Il numero 1 e il numero 1/bis sono fogli ciclostilati, legati alle esperienze e alla condizione politico-culturale della città di Piacenza, vogliono essere una, sede di discussione e di dibattito per studiare «i problemi locali di fondo», ma la voglia è quella di uscire dall'ambito ristretto della provincia e aprirsi ali' esterno liberandosi da una cultura solenne e stereotipata: «Vogliamo che questo sia un foglio di battaglia, portata non solo ali' esterno ma anche all'interno. Ospiteremo testimonianze e opinioni anche contrastanti purché impegnate, vive, serie. E vorremmo infine provare che serietà non è necessariamente solennità e astrattezza. Si può essere seri senza essere noiosi. Con allegria»1. Lo spazio del confronto ricercato è quello di una sinistra «tutta in movimento, tutta da farsi». Nascono da questa convinzione, l'ampiezza dei temi affrontati dalla

rivista ma anche le carenze e i limiti che si registreranno sul piano dell' organicità della ricerca. Partendo dalle molteplici tensioni che si agitano nella cultura della nuova sinistra e dalle nuove dinamiche sociali, Franco Fortini, fra i principali collaboratori dei «Quaderni piacentini», avverte che «un discorso politico serio non riformista né attendista, non settario né compromissorio, e che faccia riferimento alla tradizione marxista-leninista comincia forse a nuovamente formularsi nel nostro paese». Nel corso del 1962, mentre si sta consumando la rottura tra Cina e Urss e sul piano interno tutto congiura per un insoddisfacente approdo al centro-sinistra, la rivista accentua i suoi tratti politici. «Impariamo il cinese», suggerisce ancora Franco Fortini, e Giovanni Giudici attraverso l'analisi di Fanon dilata gli orizzonti culturali ai temi del Terzo mondo e a forme e soggetti inediti della rivoluzione. Diventano sempre più frequenti i commenti alle lotte sociali, le cronache politiche, le testimonianze di dissenso antirevisionista. Viene lanciato un ponte verso altre esperienze: appare una nota su «Classe operaia» e si annuncia, anche se non vedrà mai la luce, un'inchiesta sui «Quaderni rossi». Nel gennaio del 1964, la rivista supererà definitivamente l'ambito locale per affermarsi come strumento a cui collaborano «quasi tutti i rappresentanti della cosiddetta “sinistra critica”». La necessità di una nuova indagine culturale si intreccia alla volontà di riflessione teorico-politica. La vastità degli interessi e degli orizzonti esplorati è notevole, ma la rivista non riesce a superare il limite del collage antologico. Nella prima fase sono i problemi più specificamente culturali a formare la struttura portante dei «Quaderni piacentini». Apposite rubriche sono dedicate a questi temi, come «Cronaca italiana», «Libri da leggere e non leggere», «II franco tiratore», numerosi gli articoli di letteratura e le poesie pubblicate. Il rapporto politicacultura anima le pagine della rivista. Impegno o disimpegno sono i poli della discussione e ancora: quale impegno, quale disimpegno? Il saggio di Asor Rosa Alcune osservazioni sulla nuova avanguardia nel numero di luglio-settembre 1964, e la pubblicazione dell'inedito Programma del Politecnico di Vittorini danno la misura del tipo di problematica a cui ci si intende collegare. Lo scritto di Asor Rosa, che costituirà l'introduzione al suo Scrittori e popolo, riflette criticamente sulla condizione di un'intellettualità alla ricerca di un diverso progetto sociale in cui reinventare il suo stesso ruolo. Senza un accordo preliminare, o «un dibattito, o una spaccatura seria su natura e funzione del fenomeno letterario ed artistico dentro la società capitalistica», si chiede l'autore, come è possibile formulare un giudizio sulle nuove avanguardie? E prosegue: «Potremmo arrivare a concludere che la natura del fenomeno letterario è tale da impedirgli una funzione diversa da quella che gli viene ormai assegnata. Sarebbe una conclusione scandalosa, ma non certo, spero, per gli scandalosi avanguardisti. In tal caso, il rifiuto di fare letteratura diventerebbe preliminare ad ogni altra forma di rifiuto — almeno per chi si occupa di queste cose. Ritornano a questo punto in gioco concetti come quelli di classe operaia, di neocapitalismo, di

industria culturale, di rifiuto o di accettazione del sistema, di strategia della lotta anticapitalistica. Ma per ora possiamo limitarci alla domanda: serve ancora una letteratura nelle condizioni offerte dal sistema? Può esserci una cultura che non sia una cultura borghese? C'è modo d'opporsi al sistema senza rifiutare le sue regole del gioco? La neoavanguardia non da risposta ali'interrogativo. Noi crediamo che il discorso farà complessivamente un passo avanti se apocalittici ed integrati decideranno di fermarsi insieme su queste ragioni, che sono poi quelle stesse della loro personalità e del loro lavoro»2 . I «Quaderni piacentini», hanno scelto di muoversi su un terreno dove una sinistra tutta da reinventare «possa studiare e dibattere» e a chi li critica di scarsa coerenza rispondono che, in una situazione in movimento, nessuna apodittica presa di posizione può essere considerata esauriente ma solo «una proposta di verifica, un invito al dibattito, uno stimolo alla ricerca» 3. Per loro la sinistra non è quella che si accontenta di entrare nella stanza dei bottoni del centro-sinistra, che si accontenta di andare alle manifestazioni liturgico-celebrative della Resistenza, che liquida come «teppisti» i giovani di piazza Statuto. Chiudendo l'editoriale del numero 1 bis, dedicato alla critica del tradizionalismo antifascista, la rivista scrive «Raccomandava un ferroviere cecoslovacco, poco prima di essere ucciso nel 1944 dai nazisti: “Quando da voi si farà 'pulizia' fatela bene, così che duri per sempre”. Ahimè la “pulizia” l'hanno fatta gli “altri”, ed è “quest'altra pulizia che promette di durare per sempre”». In questa Italia costruita dagli «altri» i «Quaderni piacentini» si rivolgono a un militante di tipo nuovo ancora in cerca di identità, all'intellettuale di avanguardia, allo studente sceso in campo nelle manifestazioni di piazza, ai protagonisti del luglio '60, agli operai che a piazza Statuto si sono scagliati contro i sindacati e contro le istituzioni, e hanno espresso la loro rabbia contro ogni ordine e contro il pompierismo delle organizzazioni tradizionali. Nel loro manifestare non c'è solo la pace e la lotta all'imperialismo, c'è la «propria insofferenza nei confronti delle istituzioni da cui sono intrappolati e la coscienza di essere esclusi dal gioco» della politica dei partiti 4 . Gli studenti non sono più quelli della «goliardia» fondata nell'immediato dopoguerra al ricco caffè Florian di Venezia. Sta cambiando velocemente l'orientamento politico delle giovani generazioni, e le organizzazioni studentesche e quelle giovanili dei partiti non riescono a rispondere ai caratteri di massa che tende ad assumere la nuova domanda politica. La vecchia nomenclatura non corrisponde più alla realtà: destra, centro, sinistra, sono categorie politico-ideologiche in consumo e reinventare le forme dell'antagonismo sociale significa fare i conti e liquidare ogni schematismo tutto a uso e consumo della «partitocrazia».

1 Prova per una rivista da farsi, «Quaderni piacentini», numero unico, marzo 1962; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1962-1968», Edizioni Gulliver, 1977, p. 15. 2 «Quaderni piacentini» n. 17/18, 1964; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1962-1968», cit., p. 117 e sgg. 3 «Quaderni piacentini», n. 2/3, 1962; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1962-1968», cit., p. 21. 4 G. Cerchi, Cronaca dei fatti di piazza dello Statuto attraverso la stampa, «Quaderni piacentini», n. 4/5,1962; G. Cerchi - A. Bellocchio, Appunti per un bilancio delle recenti manifestazioni di piazza, «Quaderni piacentini», n. 6, 1962; ora in «Quaderni piacentini. Antologia, 1962-1968», cit., pp. 27 e 35.

4. La scienza operaia

Nel panorama dei primi anni '60, l'esperienza dei «Quaderni rossi», sembra testimoniare la praticabilità di nuovi e autonomi spazi di intervento politico. L'analisi del neocapitalismo è condotta dalla rivista a ridosso di concrete lotte operaie, (dalle lotte sul cottimo ai rinnovi contrattuali dei metalmeccanici), si intreccia con l'indagine sui nuovi sistemi produttivi, si cimenta col sorgere di inediti comportamenti operai. Il gruppo raccolto attorno a Panzieri, pur avendo avviato una ricerca e delineato una metodologia, non risolve la questione dello specifico politico. La stessa «inchiesta», nella sua concezione iniziale, si caratterizzava più come strumento conoscitivo che come intervento di natura politica. Rimangono aperti i problemi delle forme organizzative alternative rispetto ai tradizionali partiti della sinistra" e, più in generale, la riflessione attorno alla nozione di partito e ali'organizzazione politica. La partecipazione del gruppo alle lotte di fabbrica non supera l'ambito della conoscenza sociologica e non riesce ad affermarsi come presenza autonoma. La teoria non si è ancora incontrata con la pratica ed è proprio in questo scarto una delle ragioni dell' assunzione del maoismo da parte dell' estremismo. Con la comparsa del «libretto rosso» l'inchiesta assumerà caratteristiche molto diverse da quelle ipotizzate da Panzieri: la finalità politica sostituirà quella conoscitiva, la soggettività e il bisogno di azione prevarrà sulla oggettività della conoscenza. Sui temi del partito e dell' organizzazione, alla fine del '63, avviene la rottura del gruppo dei «Quaderni rossi». In assenza di scelte chiare sul terreno organizzativo, le divergenze sul giudizio e sulla posizione da assumere nei confronti dei partiti della sinistra e delle organizzazioni sindacali hanno il sopravvento, fino a determinare la scissione. Ne nascono due esperienze distinte: «La classe» e «Classe operaia», mentre i «Quaderni rossi» proseguono la pubblicazione fino al 1967. Attorno a «La classe» si raccolgono militanti del Pci e del Psi, di provenienza troskista, con l'obiettivo di recuperare le organizzazioni tradizionali della sinistra a una coscienza rivoluzionaria: il giornale e il gruppo servono come strumento di coinvol-gimento e di pressione. Una strategia e un'organizzazione alternativa al revisionismo è invece la discriminante posta da «Classe operaia». Dalla redazione dei «Quaderni rossi» confluiscono in quella di «Classe operaia»: Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Rita Di Leo, Pierluigi Gasparotto, Claudio Greppi, Toni Negri, Massimo Paci e Mario Tronti che assume la direzione della nuova rivista 1.

L'editoriale del primo numero ha un titolo programmatico: Lenin in Inghilterra. Il problema centrale, dunque, è la rivoluzione nel cuore dell'occidente industrializzato, in una fase di radicale trasformazione tecnologico-produttiva. La rivista uscirà fino al marzo 1967, quando avverrà il cosidetto «ritorno al partito». Per alcuni si tratterà di un ritorno che passa attraverso la militanza ali' interno del Psiup, considerata come un'occasione per determinare uno spostamento dello stesso Pci. Se l'ottica per valutare la breve storia di «Classe operaia» si dovesse limitare alla sua premessa originaria, il bilancio ne risulterebbe fallimentare, un'evidente dimostrazione del divario fra il livello di analisi, e la sua concretizzazione. «Classe operaia», in particolare l'elaborazione di Mario Tronti, porta alle estreme conseguenze alcuni aspetti teorici sul ruolo del capitalismo già in luce nei «Quaderni rossi». Il suo «Operai e capitale», che uscirà nel 1966 e in cui sono raccolti numerosi dei saggi apparsi sulla rivista, sarà una pietra miliare nella teoria della nuova sinistra e, con tutti i successivi rimaneggiamenti, dell'operaismo. Scrivendo a proposito del libro, su «Giovane critica», Asor Rosa sottolinea che non si tratta, per Tronti, di una rilettura di Marx, bensì della fondazione di un «nuovo atteggiamento conoscitivo» esso consiste nel determinare un processo dialettico fra ricerca e pratica di lotta: una «scienza operaia» 2. Si tratta dunque di conoscere la realtà capitalistica per distruggerla, entrando cosi in rapporto diretto con la prassi rivoluzionaria del movimento operaio. Tendenzioso quindi non è il metodo proposto, ma l'intento di un approccio alla realtà di classe che tende a trasformarla in senso rivoluzionario. Di qui la critica di idealismo e di soggettivismo che da più parti sarà mossa a «Operai e capitale». Per Tronti la nozione di «scienza operaia» è inscindibile dalla particolare funzione attribuita alla classe operaia. A quest'ultima spetta il ruolo storico di «motore dinamico del capitale», da cui discende una visione dello sviluppo capitalistico come «funzione della classe operaia». Un rovesciamento che formerà la nervatura teorica dell'operaismo, nella sua riconversione nei gruppi di Potere operaio: la modifica del comportamento operaio al fine di azionare una dinamica di ritorno sul capitalismo. Riprendendo le analisi avviate nei saggi sui «Quaderni rossi», La fabbrica e la società e II piano del capitale, l'essenza del capitalismo moderno viene sintetizzata come una «macchina che la forza della classe operaia mette in moto e spinge in avanti continuamente». Per ostacolare questo processo il capitalismo tenta con ogni mezzo di ricondurre la spinta operaia in argini prestabiliti. Il capitalismo nella sua fase matura non può fare a meno dell'antagonismo operaio; e solo mediandolo in una costante controffensiva di riassorbimento riesce a evitare l'ineluttabile crisi politica e uno sbocco rivoluzionario per la classe operaia. Da questa logica, esemplifica Tronti, si arriva al paradosso di uno «stato operaio» che si fa carico dello sviluppo capitalistico. La dinamica della lotta di classe si muove tra due opposti disegni: la necessità del capitalismo di integrare la spinta operaia e il bisogno della classe di rinvigorire il

suo antagonismo, facendo saltare le regole nelle quali si vorrebbe irreggimentarla. Il «rifiuto del lavoro» è il cuneo con cui agire per spezzare il tentativo di sintesi operato dal capitalismo. Con il rifiuto del lavoro come rifiuto del dominio del capitale, la classe operaia apre il processo rivoluzionario per la conquista del potere. La «classe» si libera della mercificazione cui l'ha sottoposta il capitalismo subordinandola al suo stesso sviluppo. Vi è in Tronti una grande fiducia nel grado di consapevolezza raggiunta dalla classe e nella sua autonoma capacità di porsi fuori dall'ordine capitalistico. Da questo assunto, ricava la realizzabilità del processo rivoluzionario dove la classe operaia è più forte e quindi maggiore è la sua coscienza critica. Da un'analisi tanto dirompente come si può passare, al riconoscimento della funzione di una sinistra storica ormai imbevuta della logica di mediazione del capitalismo? L'autocritica di Tronti non va nel profondo e la sua indicazione politica sconta in modo ineluttabile uno scarto perenne fra organizzazione e coscienza operaia da cui, ideologizzando l'entrismo, fa derivare un acconciarsi tattico al partito. Né convince la separazione operata fra strategia e tattica, scissione teorizzata al punto da vedere nel momento tattico-empirico la peculiarità del partito: «Quella che viene chiamata in genere la coscienza di classe è per noi nient'altro che il momento dell' organizzazione, la funzione del partito, il momento della tattica»3 . Ne segue un ulteriore frastagliamento di esperienze: Classe e partito a Roma, Riscossa operaia a Ravenna, Potere operaio in Toscana in Emilia e a Porto Marghera. Se la banalizzazione del partito rispetto alla classe operaia e alla sua prospettiva strategica porterà Tronti al Pci, altri saranno gli itinerari dei principali collaboratori della rivista: Asor Rosa entrerà nel Psiup per confluire dopo il 1972 nel Pci, Adriano Sofri fonderà sul finire del 1968 Lotta continua, Toni Negri diventerà il leader di Potere operaio veneto-emiliano e il principale protagonista della sua precipitazione nell'Autonomia. 1 L'ultimo numero di «Classe operaia» del marzo 1967, quando avverrà il «ritorno al partito». Il n. 1 (gennaio 1964) è redatto da Romano Alquati, Massimo Cacciar!, Gaspare De Caro, Paolo Donati, Luciano Ferrari Bravo, Pierluigi Gasparotto, Claudio Greppi, Mario Isneghi, Manfredo Massironi, Toni Negri, Mario Tronti. Il n. 2 (febbraio 1964) da Alberto Asor Rosa, Monica Brunatto, Ken Coates, Paolo Cristofolini, Riccardo D'Este, Gianfranco Faina, Mauro Gobbini, Claudio Greppi, Silvio Lanaro, Mario Mariotti, Manfredo Massironi, M. Montagna, Paola Negri, Massimo Paci, Luciano Romagnani, Heinz Salomon, Sergio Triste, Mario Tronti. Altri collaboratori, fra cui Adriano Sofri, si aggiungeranno. Sulla storia di «Classe operaia» cfr. gli atti del convegno promosso dal Pci a Padova (26-27 novembre 1977), «Operaismo e centralità operaia». Editori Riuniti, 1978.

2 «Giovane critica», n. 15/16, 1967. 3 M. Tronti, «Operai e capitale», Einaudi, 1966, p. 251.

5. Il congedo degli intellettuali.

Intorno al 1966 le riviste politico-culturali — fra le più note: il bimestrale «Quaderni piacentini», i trimestrali «Giovane critica» e «Nuovo impegno», il semestrale «Classe e Stato» — si trasformano in organi politico-teorici. «Giovane critica», è lo specchio del difficile rapporto tra politica e cultura, nata ali' inizio del 1964 come rivista legata al Centro universitario cinematografico di Catania e destinata a superare l'ambito della critica cinematografica militante attorno alla metà 1965, manifesta fin dai primi numeri un'accentuata critica alla tradizionale cultura di sinistra. Valgano a titolo di esempio lo scritto di Franco Fortini Mandato degli scrittori e limiti dell'antifascismo (n. 4, 1964) in cui vengono ripresi spunti e considerazioni sul ruolo della letteratura già sviluppati dai «Quaderni piacentini» e il saggio di Roberto Roversi, Una nota a proposito di due problemi: morale e moralismo, religione e marxismo (n. 7, 1965), che afferma il valore di un'ideologia della contestazione contrapposta ali' ideologia dominante «di giustificazione delle norme tradizionali». Progressivamente la scelta politica si fa più netta. In una nota redazionale Giampiero Mughini, direttore della rivista, constatato che «non e'è lavoro intellettuale oggi [...] che possa astenersi dalla messa in discussione della nozione di socialismo», afferma il privilegio della «tendenziosità politica» nella scienza e nell'arte. Nello stesso numero una lettera di Mario Cannella dal significativo titolo Di che scrivere? Per chi? riflette sull'impossibilità di una neutralità dell' arte e della scienza. Mettendo in guardia da mitici rinnovamenti culturali e dai rischi di un imprigionamento metodologico. Cannella sollecita una scelta antirevisionista, affrontando alla radice, «presi d'urto, con tutta 1' amarezza che la situazione richiede», i nodi strategici che si propongono al movimento operaio. In questa radicalità si colloca la ricerca di «Giovane critica», intenzionalmente finalizzata a «ricostruire un discorso sul movimento operaio italiano, la politica del fronte antifascista, quella culturale e no del Pci dal '45; e poi su tutto il resto, fino al contrasto russo-cinese». Non si è ancora nella fase dello schierarsi, quanto in quella dello smontaggio teorico-analitico della tradizionale cultura d'opposizione, il luogo prescelto per questa operazione di distacco è la rubrica «Epistolario». Articoli e saggi esaminano criticamente i contenuti della politica culturale della sinistra ufficiale in campo cinematografico e teatrale, ambito originario della rivista. Fra i contributi più importanti: II cinema del fronte popolare in Francia di Goffredo Fofì, Ideologia e ipotesi nella critica del realismo di Mario Cannella (n.

11), Politica culturale e cultura di sinistra (n. 9), Teatro, politica culturale pubblica, (n. 10 e 11) Mass media e -politica culturale (n. 12) di Pio Baldelli. Sarà l'inchiesta sui gruppi minoritari promossa da «Nuovo impegno» a sollecitare un ulteriore e definitivo spostamento di «Giovane critica»: con il saggio di Federico Stame La. pratica sociale e attraverso la rubrica «Classe, partito, teoria», la rivista appoggia l'iniziativa ed entra nel vivo del dibattito sulle organizzazioni della nuova sinistra1. Anche per «Nuovo impegno» il primo campo esplorativo è quello culturale. La rivista nasce a Pisa nel dicembre 1965 come «periodico bimestrale di letteratura» promotori Romano Luperini, Gianfranco Ciabatti, Franco Petroni. Dall' analisi sulla politica culturale del Pci e dalla ricerca sulle nuove avanguardie letterarie si passa rapidamente a un orizzonte tutto politico. Le motivazioni all'origine della fondazione delle varie riviste sono diverse, comune è l'influenza che esse esercitano sui nuovi strati intellettuali. Sarebbe erroneo, considerarle la culla dei gruppi, tuttavia è innegabile che esse sono uno strumento essenziale della formazione dei quadri dirigenti del futuro estremismo: nel corso delle lotte studentesche le riviste saranno lette e riscoperte, in esse si cercheranno verifiche, suggerimenti, richiami per fondare una nuova teoria dell'agire politico. Alcune, nel corso di quelle lotte, muteranno funzione e collocazione, fiancheggeranno il movimento — è il caso dei «Quaderni piacentini» — o saranno parte integrante dei nascenti gruppi come «Nuovo impegno». Esaminando i materiali delle riviste si ha netta la sensazione dell' assemblaggio ideologico. Un labirinto di suggestioni, una ricerca che anela a nuovi orizzonti politici, tanto densa di curiosità quanto faziosa nel suo avanguardismo. Già Panzieri, nei suoi scritti sui «Quaderni rossi», aveva posto la questione di una rilettura di Marx. Non un semplice interesse teorico, ma reinterpretare Marx per ritrovare i fondamenti di un'analisi della società moderna e di un nuovo progetto di socialismo. Uno studio intenzionale del marxismo, dunque, nel tentativo di legittimare sperimentazioni e approcci metodologici capaci di superare ogni sua identificazione con la vicenda sovietica e con lo stalinismo. Non sistema di verità, ma conoscenza e trasformazione della realtà nella quale possano confluire altre discipline e spunti teorici liberando da vecchi integralismi il pensiero del movimento operaio; un procedimento che sarà contraddetto dalla progressiva assunzione a verità della stessa scelta metodologica, viziato in origine da presupposti che, nel fanatismo della polemica, riproporranno nuovi integralismi. Intanto nel panorama culturale italiano si innestano nuove curiosità e interessi basti pensare al ruolo dello strutturalismo e della sociologia, mentre la stessa operazione culturale oscilla fra due opposte mitologie: l'enfatizzazione tecnocratica e il primitivismo. L'operatore culturale si dimena fra le due sponde dell' impegno e del disimpegno, interrogandosi sulla sua collocazione dentro o fuori del sistema. Progresso e antiprogresso diventano i poli di una dialettica sulla natura dell'impegno civile, chiamando a radicali scelte di campo. E possibile, ci si chiede, lo sviluppo della società senza aver spezzato l'ordine-dominio del

capitalismo? E, parafrasando Mao, è possibile costruire senza prima distruggere il passato? Il moralismo attribuito alla recensioni dei «Quaderni piacentini» è lo specchio di una ricerca critica che vuole affermare «una cultura militante» lasciandosi alle spalle i ritualismi dell' accademia e quelli della cultura d'opposizione ormai inoffensiva per il potere dominante. Il dissenso alla «cultura» ufficiale dei partiti, e al modo di far politica muove da più direzioni. Sulle pagine del «Mondo», Pannunzio lancia la sua serrata critica al partito politico, uno strumento d'occupazione, di tutta la società civile, senza averne gli adeguati titoli. Sulle pagine di «Questitalia», Wladimiro Dorigo affronta temi inesplorati dalla tradizione culturale sociale cattolica. In modi diversi e da punti diametralmente opposti la cultura si interroga sulla sua collocazione e sulla qualità del suo impegno. L'illuminismo tecnocratico del centro-sinistra, trova il suo apice nella costituzione della facoltà di sociologia di Trento, ma presto entra in crisi ogni sopravvalutazione della razionalità della scienza. Si estende la critica al sistema, alle sue gerarchie, alla sua autorità costituita, alla cultura paludata e ufficialmente riconosciuta. Nel suo progetto di dominio sulla società, il capitalismo non tralascia di assoggettare la cultura cercando di renderla inoffensiva la gratifica per metterla al suo servizio. I cosiddetti intellettuali progressisti sembrano piegarsi alle regole del gioco; Italo Calvino inizia la sua collaborazione al «Corriere della sera», in concomitanza con la dichiarazione di voto al Pci. I tecnocrati del centro-sinistra sono funzionali al suo disegno; l'università è nelle mani dei baroni del mondo accademico. All'intellettuale organico di gramsciana memoria, rimasto prigioniero della «ragione di partito», occorre sostituire un altro tipo di intellettuale capace di rapportarsi autonomamente alla classe operaia e alle sollecitazioni della società. Il 1963 è l'anno della rottura Cina-Urss, del centro-sinistra, Panno della scissione «Quaderni rossi», «Classe operaia», della morte di Giovanni XXIII. Equilibri più avanzati, maggioranze delimitate, convergenze parallele, la fantasia fraseologica del mo-roteismo ha partorito, dopo quasi un decennio, un «centrosinistra organico» che ha spento nella sua lunga incubazione tutte le speranze e il passaggio dalle buone intenzioni alla realtà risulta logoro e trasformistico. Non c'è tempo da perdere con gli «appelli» agli e degli intellettuali di sinistra; per il «Franco tiratore» dei «Quaderni piacentini» è tempo di «congedo degli intellettuali».

1 All'inchiesta sui gruppi minoritari della sinistra «Nuovo impegno» dedica i numeri 4/5, luglio-ottobre 1966; 6/7, novembre 1966-aprile 1967; le conclusioni appariranno sul n. 8, luglio 1967.

6. Le rivoluzioni della libertà e del rifiuto

La diffusione italiana delle opere di Marcuse segue e si intreccia a una troppo frettolosa lettura di Adorno e di Horkheimer. Se la critica adorniana dell'illuminismo, come smontaggio e accusa della tradizione occidentale, rimaneva nell'ambito declaratorio-contemplativo, nell' opera marcusiana diventa emergente la condanna della società industriale, punto terminale del dominio dell' uomo sull'uomo. La scienza come settorialità della conoscenza, la sua finalizzazione al potere dell' uomo sulla natura, la divisione del lavoro come sfruttamento dell' uomo sull' uomo, sono altrettante forme repressive e strumentali del dominio realizzatesi ali' insegna di un mitico progresso. E un atto d'accusa contro la società moderna e i contenuti produttivistici e tecnologici del capitalismo avanzato. In Marcuse la critica alla società della «ragione» si proietta nella dimensione dell'utopia, un'utopia della libertà contro la repressione della realtà sociale con le sue leggi di dominio. Creatività e progetto fantastico contro la piattezza delle regole e delle leggi diventano i grimaldelli con cui scardinare i meccanismi consolidati. Non è difficile comprendere quanto la prospettiva di un regno della libertà contro gli appiattimenti e le gabbie degli stati di necessità attragga e susciti un immediato interesse. Recensendo Eros e civiltà sui «Quaderni piacentini» Augusto Vegezzi scrive: «Naturalmente nessuno pretende che le forze che hanno la possibilità e il compito storico di rovesciare il sistema della necessità siano mosse da speranze, miraggi, da utopie, da figure della redenzione, come le teorie di Marcuse. Nessuno per ora è a favore di una nuova escatologia. La dialettica delle mediazioni tra “società diveniente” e “società divenuta” attualmente costituisce il nostro problema più aperto tanto sul piano teorico che su quello pratico. Tuttavia il realismo, con gli infiniti opportunismi che ha avvalorato e i pesanti errori che ha provocato, sembra giustificare le proposte di una prospettiva più ampia, che con tutte le precauzioni si sottragga alle immediate pretese della lotta quotidiana per non naufragarvi e medi realtà e possibilità, necessità e libertà, alienazione e utopia, nella piena coscienza sì della pazienza della storia ma anche dell'impazienza della vita» 1. Se immediata è l'attenzione rivolta al pensiero marcusiano, la sua collocazione nell'area marxista si ha solo dopo la pubblicazione della Prefazione politica a Eros e civiltà nel 1966. Giovanni Jervis, infatti, nella presentazione alla prima edizione, considera il libro non marxista e sottolinea come, al contrario di Marx, per Marcuse la liberazione dell'uomo non avviene impadronendosi degli strumenti di

produzione come liberazione del lavoro, ma come liberazione dallavoro 2. La Prefazione politica introdurrà una sostanziale novità nel pensiero marcusiano: l'essenzialità della rivoluzione. Non più l'ottimismo della visione di una mitica società tecnocratica in cui l'automazione della produzione dei beni e l'abolizione del bisogno consentono un rapporto di non dominio con la natura e in cui ogni lavoro è gioco ed è possibile una totale libertà dell'uomo. La critica è al capitalismo nella forma della «società opulenta». Gli ottimismi utopici sono imprigionati dalle molteplici reti di un sistema in cui la «manipolazione dei bisogni» è elevata a «fattore vitale» della sua stessa riproduzione. La democrazia di massa consente agli oppressi di scegliere i loro oppressori e a questi ultimi di «nascondersi dietro il velo tecnologico dell'apparato produttivo che controllano». Dietro questa maschera di falsa democrazia, la società opulenta e tecnocratica congiunge libertà e servitù, sopprimendo il fattore rivoluzionario, integra gli oppressi non «abbastanza forti per liberarsi». Se nell'occidente la rivoluzione è stata negata, riassorbita da vari e sofisticati controlli sociali, nei paesi sottosviluppati del Terzo Mondo la rivolta esplode proprio in virtù dei suoi tratti di totale estraneità al sistema. Analogamente le lotte giovanili e i movimenti di protesta dei paesi avanzati si alimentano e crescono quanto più sanno esprimere una totale ribellione alle istituzioni, alla repressione, alla guerra imperialista. Se la classe operaia è entrata nelle maglie del sistema, integrata e soggiogata dai meccanismi di controllo capitalistici, spetta agli strati marginali, ai neri dei ghetti americani, ai giovani disoccupati, agli studenti ancora non inseriti farsi protagonisti della riappropriazione della rivoluzione negata. Si tratta di far esplodere tutta l'aggressività delle libertà negate contro il nemico fondamentale, il capitalismo, contro la società dell'ordine e della repressione. Proprio «coloro che nella società repressiva hanno una esperienza mutilata, una falsa coscienza e dei falsi bisogni» possono assolvere a un ruolo rivoluzionario, estrinsecando la loro carica ribellistica come forma del «bisogno vitale di liberazione» 3. E la tesi delle «forze sovversive in transizione»: la loro volontà di mutare il proprio stato soggettivo è il volano principale di un radicale processo di cambiamento dell'esistenza sociale. L'idea di rivoluzione subisce una trasformazione: «Oggi la lotta per la vita, la lotta per l'Eros, è la lotta politica» 4, una rivoluzione non levatrice di un nuovo ordine statuale, non progettuale, ma capace di liberare l'uomo e di restituire bisogni emarginati e desiderati che il sistema nega, volendo ricondurli nell'alveo dell'ordine e delle gerarchie capitalistiche. Con la sua denuncia della società repressiva e con il suo sollecitare, dal seno stesso della società opulenta, il vitalismo liberatorio, il pensiero marcusiano si incontra con le tesi dei movimenti studenteschi: la critica al sistema e alle istituzioni democratico-borghesi, la lotta contro l'autoritarismo e la repressione, il ruolo di detonatore attribuito alla lotta studentesca contrapposta all'integrazione operaia.

Approdato alla rivoluzione il marcusismo entra a pieno titolo nel dibattito in corso sulla Cina, sulla lotta armata in Sud America, sui vari movimenti di liberazione, concorre a rideterminare il giudizio sulla classe operaia e sulle forze motrici della rivoluzione. In parte origina e spiega l'estensione della protesta e della ribellione studentesco-generazionale come risultante di impulsi diversi, dentro e fuori dalle matrici ideologiche e comportamentali del capitalismo stesso che, in quanto repressi o negati, reclamano il loro riconoscimento. Si unificano nella protesta l'adesione ideale ai grandi temi internazionalisti e la volontà di lotte più incisive contro una società rifiutata non solo nei suoi meccanismi produttivi, ma come assetto morale e istituzionale. Dall'esplosione delle stesse artificiose costruzioni del capitalismo, col suo consumismo, con le sue massificazioni, con i suoi miti, nasce il bisogno di lotte capaci di scardinare l’ordine tradizionale come strumento di integrazione e di razionalizzazione di ogni conflittualità. Da ciò l'originalità e le contraddizioni interne del futuro movimento studentesco il cui approdo a una dimensione politica e di classe sarà tutto da ricomporre e ricostruire nel confronto-scontro con l'esperienza concreta di un movimento operaio ormai considerato parte del sistema. Marcusismo, teoria del partito, cronache delle lotte del Terzo Mondo, Cina e rivoluzione culturale, documenti dei movimenti studenteschi acquistano sempre più peso nel dibattito delle riviste. La «Tricontinentale» pubblica i documenti delle lotte del Sud America, e la casa editrice Feltrinelli divulga su vasta scala i discorsi e gli scritti di Castro, di Che Guevara e degli altri leader rivoluzionari dell'America Latina. Nel maggio 1967, edito dalla Libreria Editrice Fiorentina, esce «Lettera a una professoressa», frutto del lavoro collettivo promosso da Don Milani alla scuola di Barbiana. Elvio Fachinelli, nella sua recensione su «Quaderni piacentini» lo definisce «il primo testo cinese nel nostro paese» 5 . Lettera a una professoressa descrive e condanna i meccanismi selettivi e di classe che operano nella scuola: le differenze culturali originate dallo strato sociale di provenienza, il carattere discriminatorio dell'esame, la selezione automatica dei «nati diversi». È una denuncia molto forte e la critica non risparmia il conformismo delle forze di sinistra, anche esse prigioniere dei pregiudizi di una società divisa in classi. Nei tre interventi che appaiono sui «Quaderni piacentini» (Elvio Fachinelli, Franco Fortini, Giovanni Giudici) il libro di Don Milani è collocato nel flusso generale della contestazione alla scuola e alla cultura in un orizzonte comune, che, sia pure in modo confuso, avvicina «Berkeley a Barbiana, San Francisco e Chicago a Canton» 6. «Nuovo impegno» sottolinea i limiti di Lettera a una professoressa ma ne afferma l'«autentica violenza rivoluzionaria». Evitando ogni lettura isolata del caso Don Milani, vi vede la testimonianza di quel fermento presente in ampi settori del mondo cattolico che «partendo da una critica radicale alla Democrazia cristiana, si sta sempre più orientando, sia pure con molte incertezze e non poca confusione ideologica, verso posizioni politiche dichiaratamente anticapitalistiche e antimperialistiche, in qualche caso anche

duramente critiche nei riguardi della involuzione riformistica dei partiti ufficiali della sinistra tradizionale» 7 . Sarà proprio «Nuovo impegno», ad avviare subito dopo l'inchiesta sui gruppi minoritari l'indagine sulle formazioni del dissenso cattolico. Conclusasi con l'espulsione l'esperienza nel Psiup, la maggioranza del comitato di redazione di «Classe e Stato», insieme a Federico Stame, riterrà volontaristica ogni scelta organizzativa e lo studio sarà considerato l'alternativa alla «milizia all'interno dell'arco minoritario». Fin dalla sua formazione, «Classe e Stato» si muove lungo alcune direttrici di fondo: critica al revisionismo sovietico e al modello tradizionale di rivoluzione marxista, ricerca di nuovi soggetti rivoluzionari e riconoscimento del valore dell'esperienza cinese e delle lotte del Terzo Mondo. La rivoluzione culturale, con la sua dinamica interna e con il suo valore strategico, rappresenta «l'unica alternativa teorica e possibilità storica della rivoluzione mondiale» in contrapposizione al revisionismo e allo stalinismo dell'Urss e dei paesi dell'Est 8 . «Classe e Stato», senza cadere nello schematismo dei marxisti-leninisti, esprime in modo originale l'adesione ai temi del maoismo, coniugandoli con una lettura terzomondista dello sviluppo capitalistico e della fase cui è giunto l'imperialismo. La sconvolgente esperienza della Cina è assunta come superamento del modello leninista di rivoluzione e il maoismo come «contributo» e «rinnovamento del pensiero marxista». In particolare Federico Stame, in contiguità con elementi del pensiero di Panzieri e di Tronti, riafferma la «totalità» del capitale come sistema di dominio assorbente di uno stato «capace di assolvere e risolvere in se stesso gli elementi di novità nella fenomenologia del conflitto di classe» 9. Fra marcusismo e spezzoni teorici mutuati dalle analisi economiche di Sweezy e Baran, si approda alle tesi dell'integrazione della classe operaia e all'individuazione di nuovi agenti del processo rivoluzionario capaci di scardinare e di sfuggire a ogni logica di riassorbimento delle dinamiche conflittuali. Con una forte accentuazione terzomondista si attribuisce unicamente ai gruppi sociali esclusi dalle regole capitalistiche, il carattere di vero soggetto rivoluzionario, disgregatore dei meccanismi più sofisticati di un sistema che manipola e integra i tradizionali gruppi di opposizione. La società neocapitalistica, assegnando alla conflittualità sociale una funzione coesiva, in quanto non pone in discussione il consenso di base e non coinvolge la struttura da cui è prodotto, rende necessario il superamento del modello rivoluzionario marxista. Scriverà Michele Salvati nella sua recensione a Monopoly Capital di Baran e Sweezy: «Il marxismo teorico è oggi in uno stato di profonda crisi come strumento di interpretazione della realtà contemporanea e quindi come guida all'azione rivoluzionaria». Preso atto che «l'ortodossia teorica» non è più adeguata alle novità del capitalismo e coincide con una prassi oggettivamente riformista, registrati i limiti di «alcuni strumenti concettuali ed alcune analisi marxiane», la conclusione è ovvia: non deve preoccupare il doverli abbandonare. Il punto più

critico, sottolinea Salvati, è la ridefinizione dello studio delle classi e del loro ruolo nel processo rivoluzionario. Una tematica a cui «Classe e Stato» dedica molta attenzione, vanno in questo senso indagini come quelle di Federico Stame in Sociologia del conflitto e integrazione (n. 1, 1965) e Contraddizione e rivoluzione (n. 4, 1967), i saggi di Nicoletta Stame Divisione del lavoro o partecipazione? (n. 3, 1967) e di Saverio Caruso Utopia tecnologica e prassi rivoluzionaria (n. 4, 1967). La sfiducia sulla combattività di una classe operaia ormai integrata nel sistema neocapitalista e sulle regole della democrazia formale spingono a ricercare un modello rivoluzionario adeguato allo sviluppo dell'imperialismo e i «comportamenti pratici eversivi» fuori dalla cultura politica dell'Occidente, in aree geografiche diverse da quelle dove il processo capitalistico si è prodotto e formato. In Contraddizione e rivoluzione Federico Stame scrive: «II modello di rivoluzione da Marx delineato e l'impostazione sociologica di tale modello sono troppo direttamente fondati su una generalizzazione di processi storici eminentemente europei: la rivoluzione industriale in Inghilterra sul piano economico, la rivoluzione francese come paradigma a livello politico, istituzionale [...]. Ma sono proprio tali affermazioni e convincimenti ad essere oggi sottoposti a critica e sono due tra i maggiori economisti marxisti contemporanei, Baran e Sweezy, a contestare la validità di tali affermazioni di fronte allo sviluppo del sistema imperialistico e capitalistico, sia come tendenza del modo di produzione capitalistico ad estendersi con caratteri di omogeneità a tutto il mondo, sia come tendenza del capitalismo a produrre lo sviluppo delle forze produttive ogni volta che viene a contatto con situazioni socio-economiche dominate dall'arretratezza». Il progresso come prospettiva sociale è contestato: in esso c'è la premessa per l'inglobamento, la condizione originaria di tutte le successive integrazioni. Si rifiuta la «concezione deterministica, sostanzialmente illuministica, di un mondo in costante cammino verso un ordine sociale più progressivo che germina automaticamente dallo stesso sviluppo delle contraddizioni della società presente». Nascono così miti regressivi, primitivismi che si accompagnano all'attenzione crescente per le analisi adorniane e marcusiane. In questo quadro si spiegano le semplificazioni del processo rivoluzionario possibile, il ruolo catartico che assumono le «forme» della rivoluzione: il partito, il mito della guerriglia e della violenza, che diventano di per sé progetti della liberazione contro le regole della società capitalistica. E spiega il valore attribuito alla rivoluzione culturale cinese: non solo una demistificazione dell'ideologia dominante dei paesi dell'Est e dell'Urss, che considerano la rivoluzione socialista ormai compiuta e la lotta di classe come un dato risolto, ma una sostanziale critica alla cultura politica e alla tradizione rivoluzionaria occidentale.

1 A. Vegezzi, Eros e Utopia. Lettura di Marcuse, «Quaderni piacentini», n. 17/18, 1964; ora in «Quaderni piacentini. Antologia, 1962-1968», cit., pp. 143-144. 2 G. Jervis, Introduzione a «Eros e Civiltà», Einaudi, 1964, p. XXVI. 3 H. Marcuse, «Critica della società repressiva», Feltrinelli, 1968, p. 108. 4 H. Marcuse, «Saggio sulla liberazione. Dall'uomo a una dimensione all'utopia», Einaudi, 1969. 5 «Quaderni piacentini», n. 31, 1967. 6 ibidem. 7 «Nuovo impegno», n. 9/10, agosto 1967-gennaio 1968. 8 Cfr. La Cina: dialettica della rivoluzione, «Classe e Stato», n. 3, 1967; Praga: la dialettica della restaurazione,«Classe e Stato», n. 5, 1968. 9 F. Stame, Sociologia del conflitto e integrazione, «Classe e Stato», n. 1, 1965.

7. Inchiesta e pratica sociale

Una nuova generazione di militanti si sta formando, si avvicina alla politica e all'impegno nelle grandi manifestazioni antimperialistiche, nelle veglie con le canzoni di protesta di Ivan Della Mea, Giovanna Marini e Paolo Pietrangeli, nelle polemiche e negli scontri col servizio d'ordine dei sindacati e del Pci. Molti aspetti del dibattito interno alle riviste e delle divergenze fra i vari gruppi non sono chiaramente decifrabili, passano sulla loro testa, tuttavia non si riconoscono nelle organizzazioni tradizionali, vogliono qualcosa di più per sentirsi nel flusso generale di un processo rivoluzionario di cui non si avvertono appieno i contorni e gli esiti, ma che li attrae come grande speranza di libertà e di trasformazione. Non basta più la babele di una ricerca che, in assenza di una sintesi unitaria, rischia costantemente l'astrattezza o l'antagonismo. Scorrendo le pagine delle riviste si avverte la pressante volontà di dare ordine alle diverse tematiche e suggestioni, di organizzarle in un'unica prospettiva. Il successivo passaggio politico si realizza attorno al concetto di «pratica sociale» e al pensiero di Mao, il tutto enfatizzato dall'esplosione del movimento studentesco, che con la sua eccezionaiità scompagina gli ambiti e le premesse da cui è nato il primo estremismo. Un'ulteriore radicalizzazione nell orientamento delle riviste si determina con l'iniziativa, promossa da «Nuovo impegno» nel luglio 1966, dell'inchiesta sui gruppi minoritari della sinistra marxista. Accompagnano l'inchiesta numerosi incontri che si svolgono negli ultimi mesi del 1966 a Perugia, Pisa e Bologna fra le redazioni di «Giovane critica», «Classe e Stato», «Quaderni piacentini», «Bollettino di contro informazione» e «Rendiconti». Federico Stame nell'articolo La pratica sociale, che appare su «Giovane critica» (n. 14, 1967), tracciando un bilancio degli incontri esprime la consapevolezza di essere ormai a una fase di trapasso, un'implicita critica al lavoro, di cui egli stesso è stato il principale protagonista, di «Classe e Stato». Ricerca e teoria non sono più sufficienti, lo spostamento deve realizzarsi tutto verso l'agire politico. Tuttavia il gruppo di «orientamento marxista», come si definisce «Classe e Stato», dopo la parziale convergenza con il Psiup nel 1967, non confluirà organicamente nell'impegno militante dei gruppi. Anche al suo interno ci sarà la spaccatura. Federico Stame, dopo l'ondata sessantottesca, continuerà la pubblicazione della rivista, mentre Luca Meldolesi e Nicoletta Stame, passati per la prova del Centro antimperialista Che Guevara di Roma, saranno fra i fondatori dell'Unione dei comunisti italiani.

Particolarmente attiva nel sostenere l'inchiesta sui gruppi minoritari è «Giovane critica» che, con la rubrica «Classe-partito-teoria», apre il dibattito «a tutte le voci del dissenso marxista», per approfondire i problemi che «la crisi attuale del movimento operaio pone ad ogni militante». Il confronto proseguirà fino all'inverno 1968, spostandosi sempre più sul tema dell'orga-nizzazione, fino alla discussione-scontro fra Luciano Della Mea e Adriano Sofri che porterà «Giovane critica» a convergere con le posizioni raggiunte da «Nuovo impegno» 1. L'inchiesta di «Nuovo impegno» è un inventario delle varie posizioni, e non riesce a favorire alcun avvicinamento unitario, scontrandosi con l'accanimento di piccoli gruppi ognuno convinto della propria verità. Rispondono al questionario della rivista Alberto Asor Rosa per «Classe operaia», Massimo Cacciari per «Angelus novus», Giampiero Mughini per «Giovane Critica», Walter Peruzzi per il «Bollettino del centro di contro informazione», L. Leon per il Centro Franz Fanon, Federico Stame per «Classe e Stato», L. Amedio per il «Corpo», Vittorio Rieser per «Quaderni rossi», l'organo del Partito comunista internazionalista «Battaglia comunista», Cesare Bermani per le Edizioni del Gallo, Livio Maitan per «Bandiera rossa», quindicinale della Quarta Internazionale, Stefano Merli per la «Rivista storica del socialismo». Polemica con l'iniziativa è la redazione di «Classe operaia». Nel suo intervento Asor Rosa pone sotto accusa le finalità dell'inchiesta e svolge una puntuale critica della pratica e della fenomenologia del «gruppismo». Ne denuncia le astrattezze, il suo esasperato soggettivismo e la trionfalistica smania di prestigio. Il suo è anche un ragionamento autocritico sull'esperienza di «Classe operaia», una severa requisitoria contro un «sinistrismo» autoproclamato e manieristico, incapace di verifìcarsi con la pratica e la strategia del movimento operaio. Meno netta la posizione del Psiup che si dimostra interessato all'inchiesta e dedica all'argomento la rubrica «Gruppi minoritari e partiti» che appare su «Mondo nuovo» dal gennaio al luglio 1967. Il Psiup ha presente il fallimento di «Classe operaia» e il conseguente «ritorno al partito» e cerca di candidarsi come potenziale interlocutore del dissenso a sinistra. Scioglieranno l'equivoco le espulsioni di alcuni redattori di «Classe e Stato» a Bologna nel febbraio, così come le espulsioni dalla Fgci e dalle cellule universitarie nella primavera-estate decreteranno nei fatti la fine dell'entrismo nel Pci. L'anno universitario 1966-67 registra, sin dall'inizio, un deciso salto di qualità delle agitazioni studentesche. Scrive Luigi Bobbio sui «Quaderni piacentini»: «Non si è trattato questa volta di una battaglia di settore come erano state le importanti occupazioni di architettura del '63 e neppure di un' ennesima ripetizione delle "manifestazioni nazionali per l'università" proposte dall'alto delle organizzazioni studentesche; è stato invece un movimento carico di spontaneismo, che ha investito quasi tutte le principali sedi universitarie del Nord e del Sud (Milano, Torino, Padova, Pavia, Bologna, Pisa, Firenze, Cagliari, Napoli e Bari) e che è ricorso dappertutto allo strumento più duro di lotta cioè alla occupazione»2.

Al teach-in organizzato il 15 aprile a Roma dai Goliardi autonomi, l'organizzazione studentesca romana della sinistra, contro l'aggressione americana del Vietnam, autorevoli dirigenti della sinistra, Natoli, Basso, Pestalozza, sono fischiati e contestati. Con la manifestazione antimperialista di Firenze del 23 aprile 1967 le contraddizioni con il Pci e la sinistra tradizionale diventano insanabili: il Vietnam divide. Poco dopo, al congresso di Rimini, è la spaccatura dell'Ugi, l'organizzazione nazionale degli studenti universitari di sinistra. «Nuovo impegno», in parallelo con l'inchiesta sui gruppi minoritari, pubblica sul n. 6/7 il Progetto di tesi del sindacato studentesco (prime Tesi della Sapienza) e sul n. 8 le tesi del gruppo pisano e la mozione di sinistra del congresso di Rimini (seconde Tesi della Sapienza). Anima il dibattito promosso da «Nuovo impegno» l'esigenza di una nuova e diversa organizzazione della sinistra e la necessità ormai inderogabile di superare ogni ipotesi entrista. Il solco fra i partiti della sinistra tradizionale e le organizzazioni minoritarie è stato tracciato: sparisce ogni residua convinzione di possibili recuperi dei quadri critici che militano nel Pci e nel Psiup. Il tentativo portato avanti in tal senso dal gennaio 1966 al dicembre 1967 dal mensile «La sinistra» diretto da Lucio Colletti avrà vita breve e si trasformerà radicalmente nei primi mesi del 1968 sotto la direzione di Silverio Corvisieri, Augusto Illuminati e Giulio Savelli. Il dissenso nel Pci non è esploso, l'ingraismo è stato solo un espediente, la Fgci è rientrata nei ranghi. La Rivoluzione culturale «bombarda» il quartier generale, spazza via il vecchio e fa i conti alla radice con le tradizioni e col revisionismo; il Che muore nel tentativo di esportare la guerriglia cubana; i fuochi rivoluzionari esplodono in tutte le università europee; in America si ribellano i neri dei ghetti e i giovani bruciano le cartoline precetto alle manifestazioni dei reduci dal Vietnam. Il politicantismo dei piccoli passi, della tattica e del «fare i conti con le condizioni oggettive» sa di vecchio e di stantio: la politica va ridefinita nelle forme, nei metodi, nei contenuti. «Una sinistra da reinventare» avevano scritto i «Quaderni piacentini» al momento della loro fondazione e questo significava liberarsi dalle tradizionali etichettature, spaziando senza pregiudizi nell'arca marxista e nel dissenso cattolico. Don Milani e le sue esperienze non sono un caso isolato: nel Sud America ampi settori cattolici si schierano a fianco della rivoluzione, seguendo l'esempio di padre Camilo Torres, mentre in Italia, davanti alle fabbriche, a parlare di egualitarismo e di un socialismo fatto di giustizia sociale, non ci sono solo i gruppi operaisti e i marxisti-leninisti ma anche numerosi militanti del dissenso cattolico. Dopo l'indagine sul minoritarismo di sinistra, alla fine del 1967 «Nuovo impegno» lancia la già ricordata inchiesta sulla sinistra cattolica. L'obiettivo non è solo conoscitivo, ma punta direttamente a un esito politico, partendo dal presupposto che «certi settori di estrazione e di ispirazione cattolica già oggi collaborano con i giovani marxisti di estrema sinistra non solo nella battaglia universitaria ma anche in quella operaia, e i teologi di “Frères du monde” accettano la lezione di Marx, il

concetto di lotta di classe e la violenza rivoluzionaria, indicando nel messaggio di Guevara la linea strategica da seguire» 3. Il questionario, inviato ai gruppi operanti in Italia e in Francia, è articolato in cinque domande chiave. Inizia con la richiesta di ricostruire la «storia politica» e informare sugli strumenti di intervento del gruppo. Seguono: il giudizio sull'imperialismo in rapporto alla politica di coesistenza pacifica; quale posizione si assume di fronte alle lotte dei popoli del Terzo Mondo e alle forme di guerriglia e di violenza; partendo dal rapporto fra imperialismo e capitalismo italiano come ci si colloca rispetto alle forze politiche italiane. Infine la domanda chiave: «Siete favorevoli ad una trasformazione socialista della società?». Articolando ulteriormente quest'ultima domanda, si chiede quali forme deve assumere la lotta anticapitalistica e antimperialista e un pronunciamento «sulle diverse forme di azione violenta» I gruppi che rispondono all'inchiesta esprimono gradi differenziati di analisi del quadro internazionale e delle prospettive della lotta politica in Italia, tuttavia risulta netta la rottura con la De e una forte volontà di unità a sinistra, accompagnata da numerose critiche ai tradizionali partiti operai e in particolare al ruolo del Pci. Anima le risposte un'idea di socialismo egualitario e antiburocratico, attratta dal terzomondismo e dall'esperienza della Rivoluzione culturale. Pur nella varietà delle argomentazioni permane una sostanziale fiducia nel quadro istituzionale e nella possibilità di un approccio democratico alla rivoluzione, prospettiva a cui ha lavorato tenacemente il gruppo orbitante attorno a «Questitalia». «Nuovo impegno» nelle Considerazioni sui risultati dell'inchiesta, prende atto che ci si trova di fronte a una ricerca e a posizioni ancora non definitive, e giudica i gruppi cattolici «una componente di quel revisionismo che conserva o assume una fraseologia rivoluzionaria per poi tradurla in pacifici obiettivi di convivenza, di coesistenza o comunque di illusioni democratiche». Per questi gruppi, prosegue la rivista, la lotta politica non si manifesta «in una ricerca, fra le masse dei poveri e dei diseredati, di una strategia rivoluzionaria, ma in una ricerca di alleanze, a livello parlamentare e partitico, o di tavole rotonde fra direttori di riviste e deputati, col Pci, col Psiup o magari col Mis» 4. Mentre polemizza aspramente col rifiuto della violenza espresso da «Vita sociale», sottolinea positivamente la posizione antisocialdemocratica e antiriformista di «Alternativa» e l'analisi del capitalismo e dell'imperialismo di «Frères du monde». Del gruppo francese riprende con grande risalto la legittimazione della violenza, una scelta discriminante per sciogliere ambiguità e tentennamenti verso un autentico progetto rivoluzionario. Nell'inverno 1967 si entra nel vivo dell'esplosione delle lotte studentesche. Le riviste hanno ormai definito la loro collocazione o stanno per riciclarsi schierandosi a fianco del movimento. Alcune concluderanno la loro esperienza di lì a breve, altre prolungheranno la loro vita oltre il riflusso e dentro i gruppi seguendone gli effimeri trionfalismi e le brusche cadute. «Nuovo impegno» e

«Giovane critica» si incontreranno e si scontreranno nel crocevia Potere operaioLotta continua e mentre il primo diventerà l'organo ufficiale della Lega dei comunisti la seconda si distaccherà dal gruppismo tra il 1971 e il 1972 compiendo un'interessante autocritica. «Quaderni piacentini» si identificherà con la complessità multiforme del movimento e vivrà per intero la stagione del nuovo estremismo fino ai giorni nostri, con adesione prima, con distacco poi, quando la rottura con il movimento operaio diventerà rischio al confine con il terrorismo. «Lavoro politico» rimarrà prigioniero delle lotte interne al Pcd'I, mentre i suoi redattori Renato Curcio e Margherita Cagol diventeranno noti come i primi seminatori della gramigna del terrorismo. «Classe e Stato» proseguirà la sua ricerca fino alle soglie degli anni '70, lasciando frammenti della sua elaborazione in varie direzioni: nel populismo terzomondista dell'Unione dei comunisti italiani (m-1), nell'operaismo totalizzante di Potere operaio e nello spontaneismo sociologico di Lotta continua. «Quindici», il giornale d'avanguardia degli intellettuali che si erano raccolti attorno al Gruppo '63, sarà il manifesto delle prime ore delle occupazioni per poi disperdersi in molti rivoli secondo le scelte dei suoi protagonisti. L'edizione italiana della «Monthly Review» curata da Enzo Modugno, che pubblica i contributi di Baran, Sweezy, Huberman, farà da sfondo cosmopolita all'utopia della rivoluzione nei giorni magici del movimento, impolverandosi negli scaffali delle librerie Feltrinelli nel momento del riflusso. Alla fine del 1968 gli ex di «Classe operaia», Asor Rosa, Tronti e Cacciari, fonderanno il quadrimestrale «Contropiano» ma la rivista risulterà nettamente in ritardo rispetto alla fase di centralizzazione ormai avviata, cesserà le pubblicazioni nel 1972. Le riviste del decennio rappresentano il laboratorio politico e teorico del Sessantotto, sedimentano la cultura e le tensioni che lo preparano. Sono la storia di avanguardie intellettuali che, misurandosi con un movimento di portata eccezionale, muteranno la loro stessa configurazione, e diverranno i nuclei fondamentali dell'organizzazione su scala nazionale dei «partiti» dell'estremismo. Riflettendo autocriticamente sull'esperienza di «Giovane critica». Mughini scriverà nell'autunno '72: «Uno specchio obliquo che rinfrange le idee, le tensioni, le speranze di una generazione intellettuale. Una sorta di sintesi, culturalmente parlando, tra "Lacerba" e le riviste gobettiane, un pasticciaccio vitale, genuino, perché in quel modo lo vivemmo fin dal fondo delle nostre scelte personali. In politica eravamo operaisti; chi perché abitava a un tiro di schioppo dalla Fiat, chi perché aveva letto Mario Tronti... La concezione generale della società, della storia, i fini ultimi ci straripavano da tutti i pori... Eravamo figli del '56. Muovemmo i primi passi in un rifiuto furibondo dell'esperienza staliniana. Ci parve dover tornare a Marx, alle fonti, come sempre accade quando una cultura ne aggredisce un'altra. E noi aggredimmo il "realismo" all'italiana, lo storicismo, Mario Alicata e la politica culturale da lui interpretata, il centro-sinistra che ci parve divisione vigliacca del movimento operaio, il comitato centrale del Pci, le

"vie nazionali" (di cui non capivamo nulla), le riforme. E ciò in un contesto politico dove solo a proporla, una riforma, i governi cadevano a picco. La transustanzazione di quelle nostre idee non fu poi quale ce l'eravamo proposta» 5. 1 La rubrica «Classe-partito-teoria» esce sul n. 15/16, 1967, subito dopo l'espulsione dal Psiup del gruppo di «Classe e Stato» e contestualmente all'espulsione dei dissidenti dalla Fgci e dalle cellule universitarie del Pci. Vi vengono pubblicati: sul n. 15/16, Per una definizione del concetto di classe di G.M. Cazzaniga, Crisi del marxismo tradizionaledi M. Macciò, Su «Operai e Capitale» di M. Tronti di A. Asor Rosa; sul n. 17, 1967, II rapporto masseorganizzazionedi V. Rieser, Organizzare la lotta contro la proletarizzazione di G. Mottura, La nuova sintesi: dentro e contro di M. Tronti, I giovani hegeliani del capitale collettivo di G.M. Cazzaniga; sul n. 18/1968, Sui problemi della ricerca consiliare nel movimento operaio italiano di S. Merli; sul n. 19 68/69, Dalla spontaneità al partito, articolo con cui P. Leotta e E. Maretta, redattori di «Giovane critica», motivano la loro adesione al Pcd'I e II dibattito di Potere operaio sull'organizzazione su cui intervengono L. Della Mea, R. Luperini e A. Sofri. Una nota redazionale commenta negativamente la scelta di Leotta e Maretta e dichiara la convergenza della rivista con le posizioni espresse dall'editoriale del n. 12/13 di «Nuovo impegno».

2 L. Bobbio, Le lotte dell'Università. L'esempio di Torino, «Quaderni piacentini», n. 30, 1967; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 1962-1968», cit., p. 366. 3 «Nuovo impegno», n. 9/10, agosto 1967-gennaio 1968. 4 ibidem. 5 G. Mughini, Dieci anni di milizia intellettuale, «Giovane critica», n. 31/32, 1972.

V IL SESSANTOTTO: LA RIVOLTA DEGLI STUDENTI

1. I protagonisti

II Sessantotto, l'anno degli studenti, rappresenta un punto di sutura tra vecchio e nuovo. Vi si addensano informalmente le culture politiche del dissenso nato ai bordi e dentro la sinistra tradizionale, le spinte di una generazione in cerca di nuove libertà, desiderosa di ridefinire la politica, la morale, i caratteri di una società moderna e al tempo stesso anticapitalistica. Nella molteplicità delle valenze e dei significati, nell'ambiguo procedere del suo sviluppo, nella dialettica fra normalizzazione e dissacrazione, nelle oscillazioni fra modernismo e mitologia, il Sessantotto rappresenta un nodo cruciale nella formazione di una più avanzata coscienza sociale. È l'emergenza di un processo sociale e politico da cui non si può prescindere nell'esperienza successiva del movimento operaio e del complessivo sviluppo democratico. Il suo mimetico riassorbimento, le dimenticanze, come le tendenziose apologie, le variabili impazzite o normalizzanti, sono altrettante testimonianze di una sommersa e non ricomposta rottura del quadro politico post-resistenziale e, per l'insieme della sinistra italiana, della crisi irreversibile del togliattismo. Dopo il Sessantotto la sinistra sarà diversa: salteranno i suoi precedenti confini e i suoi contorni teorici e sociali esigeranno una completa ridefinizione, mentre si aprirà una profonda contraddizione fra il bisogno-desiderio di cambiamento e il concreto svolgersi delle vicende politiche. Troppo spesso nel panorama delle interpretazioni sono prevalse le tendenze alla generalizzazione, a scapito di una ricerca tesa a cogliere le dinamicità interne del Sessantotto. Le oscillazioni fra l'enfasi trionfalistica del «glorioso appuntamento» e la buia precipitazione nella zona del terrorismo, così, come i vari tentativi di appropriazione, unilaterale, non hanno concorso a un' indagine sulle pluridirezionalità del «movimento» e sui policentrismi che ne sono originati. In realtà lo spartiacque del Sessantotto è stato assunto più nella sua valenza di sommovimento civile che indagato nelle sue implicazioni politiche, anzi proprio la radicalità della sua critica alla politica è stata ampiamente rimossa, lasciata ai suoi

percorsi carsici o parzialmente cooptata più nelle forme sociali e comportamentali che nel sistema politico. Il Pci, nel suo cimentarsi con un fenomeno estraneo alla sua tradizione, tenderà a farne sparire le differenze interne valorizzando come dato di fondo l'emergere di un' esigenza di socialismo e un'inarrestabile domanda di democrazia partecipata, da contrapporre come valori al «gruppismo» e allo sviluppo dell'estremismo. In realtà lo stesso coraggioso pronunciamento di Longo nella primavera del '68 se evita una totale rotta di collisione tra il Pci e il «movimento» tuttavia non sana le fratture e il confronto procederà per fasi alterne. Per il Pci il tragitto interpretativo sarà finalizzato alla riappropriazione di un movimento nato fuori dalla sinistra storica, mentre i partiti del minoritarismo considerando il Sessantotto fallito per l'assenza di una dirczione antirevisionista e per la sua incapacità ad esprimere un'autonoma capacità di organizzazione, concorreranno alla sua polverizzazione. Soffocata in questa morsa, la vita del movimento non troverà più i fasti del magico «anno degli studenti», il suo rifluire sarà sancito dal proliferare del gruppismo e le sue delusioni si distribuiranno fra normalizzazione e «autonomismo». Dalla stretta non uscirà il cosiddetto «nuovo movimento» del '77 che, liquidata ogni visione elegiaca del Sessantotto, non riuscirà a trovare alcuna forma di dialogo con le culture politiche esistenti. Solo una ricognizione puntuale delle varie tematiche e dei molteplici «richiami» evocativi può rispondere all'interrogativo su quanto del sessantottismo si sia innestato, arricchendolo, nel flusso più generale del movimento democratico; ma anche di quanto si sia disperso o tradotto in vischiosa tendenza involutiva. Dunque non solo «l'assalto al cielo», ma anche la caduta nei meandri del terrorismo e i tanti metamorfici effetti boomerang di un'inesaudita domanda di nuovo ordine sociale. Il generarsi di un movimento senza precedenti, per estensione e novità, la sua stessa dinamica interna ed esterna, produce una gamma di comportamenti e posizioni teorico-politiche solo meccanicamente riconducibili a unità. Una nuova soggettività scende in campo: la lotta contro l'autoritarismo come lotta contro il potere e lo stato sociale esistente, sono grandi categorie etico-comportamentali che racchiudono un variegato panorama di approcci culturali e di tendenzialità politiche il cui esito e il cui sviluppo non saranno scontati. Emerge in modo dirompente un protagonismo diffuso; la richiesta di trasformazione sociale di una generazione che entra con prepotenza sulla scena politica si intreccia con l'esigenza e la richiesta di valori totalizzanti. Ma è una generazione senza storia, anzi infastidita da ogni memoria storica, incline all'assemblaggio delle suggestioni e dei concetti più diversi. Sono i giovani i principali soggetti sociali di quest'eccezionale stagione di lotta, ne saranno protagonisti nelle giornate di trionfo e di esaltazione e perciò stesso pagheranno il prezzo più alto delle successive delusioni. Il loro stato sociale non è definito, non sono una classe, non sono intellettuali, in quell'essere «studenti» ci sono la provenienza e le aspettative, quello che «si è» ma anche quello che si

vorrebbe essere. Vivono contraddizioni comuni: su di essi gravano le arretratezze di una scuola non riformata, i guasti e i meccanismi distorti di una società falsamente opulenta che non ha sanato i suoi squilibri economici e sociali. Se la categoria marxista di «classe» risulta inadeguata è impropria a definire il loro stato, tuttavia vi è una comune identità che li costituisce come un gruppo sociale decisivo per lo sviluppo della lotta politica nel paese. Non militano in nessun partito, alcuni, una minoranza, ne sono ai margini, fortemente critici, chiedono un diverso impegno civile e politico. Molti hanno seguito con passione la vicenda e la morte del Che, hanno letto Mao, Lenin e Rosa Luxemburg, hanno partecipato alle lotte per la pace nel Vietnam. Alcuni hanno orbitato attorno al dissenso cattolico, molti non hanno mai fatto politica, non sanno neppure che cos' è un partito e scopriranno il «fare politica» in quell'anno travolgente. L'identikit dello studente «sessantottino» è presto fatto. E nato alla fine della guerra e non è rimasto sconvolto dalla guerra fredda; alle medie è stato affascinato dai patrioti ungheresi poi al liceo ha manifestato contro i missili americani puntati su Cuba. In qualche caso ha avuto anche simpatie destreggianti e gli amici più grandi gli hanno raccontato del luglio sessanta. I figli dei comunisti vedono nei padri l'accettazione del sistema e delle sue regole normalizzanti, i figli della borghesia sono in rotta di collisione con la loro classe di provenienza, i figli degli impiegati e degli operai avvertono come una fregatura l'essere stati ammessi all'università, perché sanno che per loro non sono aperte tutte le strade e a loro non sono concessi privilegi. I più impegnati sono stati dentro l'organizzazione delle riviste, altri sono corsi con slancio e passione civile a Firenze nel 1966, nei giorni dell'alluvione; loro banco di prova le manifestazioni per la pace. Non si ritrovano né nella Fgci, né nelle altre organizzazioni giovanili: le contestano o le usano per contestare i partiti. Le organizzazioni universitarie li infastidiscono e solo una minoranza troppo «inserita» presta credito ai loro «parlamentini». Anche se hanno letto e studiato sono sostanzialmente autodidatti della politica: da ciò deriva la forte inclinazione all'eclettismo e alle mode culturali. Sono stati al Piper e ai concerti rock, hanno amato Bob Dylan, Joan Baez; alcuni portano ancora la cravatta ma i più l'hanno abbandonata per l'eskimo e le camicie militari alla «Fidel»; presto sparirà anche la minigonna, sostituita dal sobrio vestire degli «angeli del ciclostile», le future militanti del femminismo. Detestano l'ordine, il pierinismo e il perbenismo del militante della sinistra ufficiale. Insomma sono passati a vele spiega tè per il sogno degli anni sessanta, arrivando alle soglie degli anni settanta carichi di una grande, inesauribile voglia di cambiamento. Proprio questa massa eterogenea, percorsa al suo interno d diversità di provenienza e di livelli culturali, agitata da suggestioni e tensioni contraddittorie fra loro, sarà la protagonista indiscussa del «movimento studentesco». Una concezione diversa della conflittualità sociale, insieme al modificarsi della consapevolezza soggettiva e all'introduzione di nuove forme di lotta, squassano il tradizionalismo del quadri politico; mutano lo scenario dello scontro sociale, sia per quelli che riguarda il rapporto col movimento operaio e la sua esperienza, sia

travolgendo quell'embrionale gruppismo che pure aveva concorso a sedimentare e gettare le basi dell'esplosione sessantottesca. Costume, morale, politica, cultura, tutto si scopre e si in venta: per grandi masse di giovani è l'anno zero. Attorno alle lotte dell' università un po' tutti finiranno per fare «autocoscienza» la cultura della sinistra storica si rende permeabile e disponibile quasi colpevolizzata per i suoi limiti e ritardi; la gruppettistica è superata nei fatti dal movimento e affronta il salto organizzativo su scala nazionale. Con il '68 si conclude un ciclo storico e insieme a quelle che saranno le conseguenze dell'autunno caldo operaio, si gettano le premesse di una profonda crisi delle vecchie classi dirigenti e dei tradizionali meccanismi del consenso sociale. Il centrosinistra, consumatosi nell'altalena delle formule e dei difficili equilibri politici si è dimostrato inadeguato a risolvere i problemi del paese; i miti del benessere, del consumismo e del miracoli economico hanno permeato la società, ma a questa penetrazione non ha corrisposto la necessaria trasformazione, anzi, ulteriori profondissimi guasti sono stati prodotti nel tessuto economici e sociale. Nella situazione italiana, l'idea riformista di un neocapitalismo tecnocratico, capace di sanare le conflittualità e di risolvere le sue contraddizioni è risultata astratta e idealistica; per gli antiriformisti è una paura del tutto infondata di fronte alla realtà. Il dibattito apertosi negli anni sessanta sui caratteri dello sviluppo economico non ha sciolto i nodi di fondo, anzi eterogenei innesti culturali hanno concorso a circondarlo di schematismi e massimalismi, e la stessa riflessione avviata sulle riviste, nonostante le generose premesse, piuttosto che ancorarsi alla concreta realtà ha finito per privilegiare il ricorso a modelli interpretativi, mutuati da altre esperienze culturali e politiche, manifestando forti inclinazioni idealistiche. A partire dal '56, la sinistra non ha più ricomposto la frattura. L'entrata dei socialisti nella «stanza dei bottoni» ha diviso il movimento operaio e, l'unificazione con la socialdemocrazia, a cui hanno lavorato ampi settori del Psi, paventa un ulteriore spostamento in senso moderato, in netta contrapposizione con l'aumentata consapevolezza di una radicale svolta politica. La diffusa esigenza di unità di classe viene vissuta come sfondamento dei tradizionali steccati costruiti dalle varie forze politiche e come piena riappropriazione di una conflittualità di massa liberata dalle tante mediazioni e trappole delle leggi della politica. Le proposte del «partito unico» dei lavoratori di Amendola, e quella di una «Confederazione» dei movimenti giovanili, non corrispondono a queste tensioni, anzi rischiano di apparire un espediente tattico e contingente, ne convincono le lentezze e le prudenze con cui si fa strada il processo di unificazione delle organizzazioni sindacali 1. Al finire degli anni sessanta si determina una vera e propria rottura fra la società politica e la società civile. Coinvolta in questa crisi, l'esperienza storica della «sinistra» non è più riconosciuta come portatrice di un progetto di trasformazione, capace di rispondere a un nuovo per quanto indistinto bisogno di «socialismo». La

necessità è quella di un socialismo non identificabile con modelli o esperienze precedentemente realizzate, ma che nasce da una nuova concezione del far politica e si scontra con il bagaglio ideologico e con gli apparati burocratico-organizzativi dei partiti. La politica, come luogo delle mediazioni, come scienza del possibile, con i suoi tempi e il suo realismo, è troppo lenta e grigia rispetto al sociale e alla libertà di immaginare e desiderare una diversa società e un radicale mutamento dei rapporti fra gli uomini. Dalle regole del partitismo non si riscattano gli stessi «gruppetti di sinistra»: ne sono una riprova sia l'incontro di Bologna tra le varie formazioni minoritarie sia l'inchiesta promossa dalle riviste nel 1967. Dopo oltre un decennio, nell'aprile '80 su «l'Unità», Claudio Petruccioli tornando sul valore «di rottura» del Sessantotto scrive: «esso esprime un rifiuto del blocco dominante che aveva avuto una continuità ventennale, sia pure con la rilevante variazione del passaggio dal centrismo al centrosinistra. La gente, in particolare le ultime leve giovanili, ma anche la classe operaia, larghi strati di intellettuali e di ceti medi misero in discussione norme, limiti, regole, poteri, che sino a quel momento erano sembrati intoccabili e insuperabili. Da allora si è aperta una crisi del blocco dominante raccolto intorno alla Dc, crisi che dura tuttora» 2. Ma questo rifiuto è ancora più netto e radicale, investe non solo il blocco dominante ma la stessa opposizione e, di conseguenza, il ruolo del movimento operaio considerato come parte integrante del sistema di potere. Nello spettacolo della politica ognuno recita la sua parte, e ognuno recita la parte definita da un copione comunemente accettato. Da questo giudizio nascono le ambivalenze e le diverse direzionalità di un processo che segna un totale sconvolgimento nella dislocazione dei vari strati sociali e nei loro orientamenti ideali, un sommovimento che in modo non meccanico, come prova lo spostamento a destra del '72, sarà alla base del terremoto elettorale della metà degli anni settanta. Un percorso che, in un confronto serrato ed antagonistico con il Partito comunista e il movimento operaio, mette in discussione la qualità dello Stato democratico e sviluppa un diffuso anti-istituzionalismo in cui confluiscono fenomeni di sovversivismo e di violenza. Nella sua formazione e nelle sue aspirazioni la generazione del '68 è totalmente diversa da quella che nel '60, insieme all'ampio movimento democratico, aveva concorso a liquidare il governo Tambroni e a spezzare per sempre ogni tentativo di neocentrismo. Allora fu decisiva la congiunzione che si realizzò fra i giovani «delle magliette a strisce» e la vecchia generazione, la stessa che aveva scritto la pagina della Resistenza e aveva mantenuto aperta la via della libertà e dello sviluppo democratico 3. In quelle giornate si scopriva, nella lotta, il valore del nesso inscuidibile fra socialismo e democrazia: da ciò il senso della continuità di storia ed esperienza. E questa saldatura che nel sessantotto si incrina. Le ragioni di questo endemico processo di rottura, che esploderà nell'anno degli studenti, sono da ricercarsi nel divario fra ciclo politico e maturazione sociale; peraltro, nella stessa qualità della lotta operaia, si assiste a un arretramento, particolarmente sensibile dopo il '63-'64, mentre al contrario cresce la mobilitazione

antimperialistica, grande banco di prova di quella che è stata definita «la generazione del Vietnam». Nell'asprezza della polemica che segue e accompagna le divisioni intervenute nel campo socialista, la stessa nozione di socialismo si depura di concretezza caricandosi in questo modo di desideri e utopie che liberano l'orizzonte della sua applicabilità.

1 La proposta del «partito unico» della sinistra si pone con forza nel dibattito politico della seconda metà degli anni '60. Per il Pci Amendola ne è il più coerente sostenitore; l'argomento sarà ripreso nella relazione di Longo all'XI congresso. 2 «l'Unità», 20 aprile 1980. 3 ibidem

2. La scuola di classe

Ancora nel 1975, Giorgio Ruffolo in Riforme e controriforme, scriveva «Per quanto possa sembrare strano non esistono nella sterminata letteratura sugli studenti e sul movimento studentesco indagini sociologiche d'insieme». A partire dalla seconda metà degli anni sessanta l'espansione scolastica è impetuosa. La condizione universitaria si fa esplosiva. Sulla situazione come si presenta alla fine degli anni sessanta Rossana Rossanda scrive : «Nel mezzogiorno continentale i tre atenei di Roma, Napoli e Bari superano rispettivamente 60.000, 50.000, 30.000 iscritti», e ancora «gli insegnanti di cattedra che erano nel 1923 2.075 per 43.235 studenti sono diventati 3.000 per 450.000 studenti» 1. Nel 1967, l'anno delle prime occupazioni, gli immatricolati sono più di 140 mila, i nuovi iscritti sono 20 mila di più che nell'anno precedente. L'assetto istituzionale dell'università, nelle sue strutture portanti, è ancora quello varato nel 1923, ma rispetto ad allora il numero degli studenti universitari è duplicato. Moltissimi i fuori corso; la media nazionale è di un laureato su quattro immatricolati. Il mutamento non è solo quantitativo: è cambiata la composizione sociale degli studenti e il fenomeno si scontra con le arretratezze del sistema universitario. In Parlamento la riforma non procede. Non si interviene per affrontare le esigenze strutturali e manca una visione d'insieme del problema universitario e del suo rapporto con lo sviluppo economico del paese. Il progetto governativo si trascina per oltre tre anni. Manca di respiro, non affronta la complessità dei temi posti dall'università di massa: si ferma alla revisione degli ordinamenti introducendo un corso breve di diploma, parallelo al corso di laurea, una corsia di alleggerimento a fronte dell'alto numero di iscritti. Il lungo iter parlamentare si sviluppa in mezzo a contrasti nella maggioranza e a forti resistenze di un mondo accademico che non accetta modifiche. Il manifesto dell'occupazione di Torino rappresenterà questa conservazione vecchia e arretrata in un lugubre teschio ricoperto dalla feluca accademica. Il Parlamento è la cassa di risonanza del-l'opposizione accademica: 86 deputati (Dc e liberali) si iscrivono a parlare contro la richiesta comunista di introdurre il tempo pieno per i professori universitari. La discussione alla Camera si svolge mentre nel paese iniziano le occupazioni. Le università diventano il laboratorio di una sperimentazione politica autonoma dai partiti e dalle loro rigidità ideologiche e organizzative, mentre si estingue progressivamente il ruolo delle vecchie organizzazioni studentesche, e monta la critica al revisionismo. Una critica che diventerà senso comune nel sessantotto; per revisionismo si intendono cose diverse fra loro: la rinuncia al progetto

rivoluzionario, il giudizio sulla democrazia, la concezione delle alleanze sociali, la natura dello sviluppo economico da ciò i dissensi sulle forme e ragioni del socialismo, sulle condizioni della sua realizzabilità. Alcune di queste riserve saranno superate negli anni successivi quando, in seguito a parziali insuccessi e delusioni soggettive, numerosi quadri studenteschi entreranno nei partiti della sinistra storica e nel movimento sindacale. Non c'è dubbio alcuno: le lotte nell'università in quegli anni segnano in modo indelebile la storia del paese, la successiva esperienza del movimento operaio e lo stesso destino della democrazia nel nostro sistema politico e sociale. Il risultato elettorale del maggio '68, con l'affermazione del Pci, sconfìggerà l'ipotesi di socialdemocratizzazione adombrata nella temporanea unificazione tra Psi e Psdi e ratificherà il declino della formula di centro-sinistra, tuttavia agli occhi degli studenti il successo comunista non cancellerà la delusione e l'amarezza del dopo maggio francese. Torna in tutta la sua acutezza il nodo del «partito rivoluzionario»; un vuoto che consente al «revisionismo» di riassorbire tutte le spinte rivoluzionarie nel grigiore della politica delle condizioni oggettive, e impedisce la vittoria dell'«immaginazione al potere». Certo, anche nel Pci le cose si muovono: attorno al giudizio sul «movimento» si apre un intenso dibattito, i drammatici eventi cecoslovacchi e la coraggiosa presa di posizione della direzione del partito sembrano caratterizzare una fase nuova, mentre nascono i primi segni di quella che sarà la vicenda del «Manifesto». Ma intanto nel crogiolo del movimento trovano un'ampia area di reclutamento i nuovi gruppi, che si sono rigenerati nella lotta e, anche se permane al loro interno la dialettica spontaneità-organizzazione, ormai tendono ad assumere una configurazione nazionale e a porsi in aperta e decisa competizione con le organizzazioni storiche del revisionismo. Sia pure nelle rispettive specificità sono molti i nessi che si stabiliranno, e non solo per continuità temporale, fra l'esplosione sessantottesca e l'autunno caldo dell'anno seguente. Elementi accomunanti non sono solo le forme di lotta, il corteo, l'assemblea ma valori, desideri, esigenze, basti pensare alla funzione dell'egualitarismo. Eppure l'intreccio non si realizza compiutamente e se per il sindacato si apre una stagione di rinnovamento, anche se non esente da errori e da fughe in avanti, per il movimento studentesco si bruciano presto le tappe e si arriva rapidamente ai primi segni di declino. L'anno degli studenti è turbinoso, ma altrettanto fulminea è la sua caduta, una caduta che lascia segni profondissimi. Tra l'inverno e i primi mesi dell'estate si consumano i fasti del Movimento studentesco, si entra bruscamente nella fase del suo riflusso: alla ripresa dell'anno scolastico tutto sarà diverso. La qualità e l'estensione delle lotte studentesche sconcerta e trova tutti impreparati; il loro uscire dall'ambito universitario con obiettivi politici generali è il segno della crescita politica di una generazione e delle sue aspirazioni sociali. Esistono più centri di direzione del movimento, anche se costantemente discussi e sottoposti a vere e proprie rigenerazioni in una costante e diffìcile dialettica con la

totalità delle masse studentesche. Attribuire unicamente un'origine spontanea, sociologicamente protestataria, espressione di volontà partecipativa e democratica, sarebbe fuorviante nella comprensione dell'insieme dei contenuti reali del movimento e delle linee forza che lo agitano e ne determinano il suo svolgimento e i suoi esiti. Come già accennato, negli anni del «miracolo economico» la popolazione studentesca aumenta a dismisura, la scuola e l'Università si aprono alle diverse classi sociali, una democratizzazione che, in assenza di innovazioni, acutizza le contraddizioni sul piano dei contenuti didattici e nella determinazione di un nuovo rapporto fra il mondo della scuola e il mondo del lavoro. Il prolungamento degli studi diventa un fatto obbligato, l'università «un'area di parcheggio» per disoccupati, una componente del mercato del lavoro. Al tempo stesso muta l'atteggiamento soggettivo verso il lavoro, cresce una domanda qualitativa e si manifestano i limiti della vecchia divisione del lavoro e del suo assetto gerarchico. Sono questi elementi che scardinano nel profondo gli equilibri della società italiana e producono un sommovimento nella collocazione e negli orientamenti delle diverse classi sociali. La scuola è messa sotto accusa come portatrice di vecchi valori, primo momento della selezione di classe, luogo di normalizzazione accondiscendente alle regole del vecchio ordine sociale e alle sue ingiustizie. Chiaro esempio di questa lettura critica è il testo collettivo elaborato dalla scuola di Barbiana Lettera a una professoressa; al libro di don Milani si ispira un'intera generazione nella sua lotta contro la scuola e i suoi meccanismi repressivi, primo anello del sistema capitalistico ed espressione della sua strategia di dominio. Nell'espansione del moto studentesco concorrono fatti oggettivi: l'entrata in crisi dei vecchi modelli culturali e teorici, i problemi occupazionali, la riflessione sul ruolo della scuola e degli intellettuali e insieme la crescita di una nuova soggettività, conseguenza della trasformazione della stessa composizione della gioventù studentesca. Le forze di sinistra non colgono a pieno l'eccezionalità della fase politica che si apre, manifestando ritardi e incertezze di fronte al mutarsi dei comportamenti collettivi e di massa; permangono conservatorismi nell'affrontare in termini del tutto nuovi la stessa natura del «socialismo» e i suoi caratteri in una società occidentale. Già nelle occupazioni del '67, come risulta dalle Tesi della Sapienza approvate a Pisa, si manifestano i tratti principali dell'esplosione sessantottesca. Le piattaforme delle varie facoltà (Trento, Venezia, Pisa, Roma) suggeriscono le coordinate entro cui tende a muoversi il movimento studentesco. Il vecchio sistema rappresentativo, raccoltosi attorno all'Ugi e all'Intesa — rispettivamente organizzazioni studentesche della sinistra e dei cattolici — è ormai entrato in crisi. Tra il '60 e il '68 la crescita di una nuova consapevolezza politica fra le giovani generazioni non si accompagna a un rafforzamento delle organizzazioni giovanili dei grandi partiti di massa, anzi, al contrario, si assiste al loro progressivo svuotamento e al declino della loro influenza politica. Per i giovani l'approccio

con la politica tende sempre più a identificarsi col gruppismo. Vi è maggiore disponibilità organizzativa, non vi sono principi d'autorità da rispettare, maggiore libertà intellettuale. La Fgci e il Movimento giovanile della Democrazia cristiana, pur mantenendo sul piano degli iscritti le loro caratteristiche di organizzazioni di massa, soffrono i limiti della «partitocrazia» e la loro stessa ricerca di autonomia risulta asfìttica nel confronto con uno sperimentalismo proteso a reinventare le forme del fare politica 2 . Mentre mutano i tradizionali contorni ideologici, in un processo che non riguarda solo i grandi partiti di massa ma anche le formazioni minori (è il caso della sinistra liberale e di quella repubblicana), la struttura burocratica del «partito» non risponde più alla qualità della domanda di rinnovamento. L'essere dentro le regole del gioco ha finito per imprigionare la politica in una gabbia e la stessa «sinistra» ne ha subito un'amputazione, ridotta nel suo campo d'azione, sterilmente divisa nelle diatribe fra i partiti del movimento operaio, dal loro tatticismo e dal bisogno di legittimarsi al quadro democratico come riconoscimento dell'esistente. Contro questa logica, la fisionomia della sinistra va reinventata, dilatandone i confini e superando ogni schematismo partitocratico, per privilegiare la forza dell'atto rivoluzionario come rottura del vecchio ordine sociale con le sue regole codificate.

1 R. Rossanda, «L'anno degli studenti», De Donato, 1968. 2 Iscritti al Movimento giovanile della Dc e alla Fgci nel periodo 1959-1967:

3. La fine delle rappresentanze studentesche

La fluidità ideologica delle due fondamentali organizzazioni studentesche, l'Unione goliardica italiana (Ugi) e l'Intesa, pur spingendo a un' autonomia dal tradizionale assetto politico, non riesce a liberarle da quel burocratismo da piccoli partiti che ne impedisce un rapporto esteso e nuovo con le masse studentesche. La costituzione della giunta di collaborazione fra Ugi e Intesa, nel 1964, è un momento importante del processo di autonomia dai partiti anche se l'impostazione tecnocratica dell'Intesa mette in ombra la politica per sostituirla con un illuminismo moderato, vicino all'ideologia riformistica del primo centro-sinistra. La battaglia contro il «piano Gui», la riforma universitaria proposta dal governo, segna il punto più alto di sintonia fra la giunta e le masse studentesche. Nel novembre 1964 si proclama lo sciopero generale, e la mobilitazione trova il suo apice nella manifestazione nazionale dell'aprile 1965. La convergenza sarà di breve durata. Nel frattempo il Pci interviene con durezza per contenere il rivoluzionarismo della Fgci. Si conclude l'esperienza della sua rivista «Città futura» che raccoglie nella redazione militanti con doppia tessera, che si richiamano a Trotzky come Claudio Di Toro, Augusto Illuminati, Pio Marconi, Silverio Corvisieri, Franco Russo. Prima dell'XI congresso, nel partito si accentua la polemica Amendola-Ingrao, la direzione del partito, lanciando un evidente segnale e un monito, respinge le tesi congressuali della Fgci. Nel corso del '67 si matura il superamento delle rappresentanze universitarie scavalcate dalla pratica delle occupazioni e aspramente contestate al XVI congresso dell'Ugi. Si consuma e si conclude in quell'anno la «preistoria del '68» come la definisce Marco Boato 1. La proposta di «sindacalizzazione» degli studenti lanciata dall'Ugi al congresso di Napoli (maggio 1965) non riesce a decollare per le ostilità dell'Intesa che, contraria a ogni analisi di classe della condizione dello studente, è ancora prigioniera del mito dell'autonomia ideologica e politica dell'operatore culturale. Senza un comune progetto di adeguamento, senza una proposta organizzativa capace di rispondere alla spinta partecipativa, aumenta lo scollamento fra rappresentanze e masse studentesche. Fallito il tentativo di riforma proposto al congresso Unuri di Viareggio (marzo 1966), hanno vita vari tentativi di organizzazione di base, una sperimentazione locale dissolvente rispetto alle strutture nazionali.

L'occupazione romana che segue la morte del giovane Paolo Rossi, nel corso di un attacco squadristico, non riesce a rivitalizzare il completo esaurirsi di una fase. La crisi esplode in tutta la sua acutezza nel seminario dei quadri delle Rappresentanze (9-10 settembre '66) all'inizio del nuovo anno universitario. È l'atto conclusivo di un progressivo deterioramento nei rapporti fra le organizzazioni universitarie, la logica conseguenza dello scadimento nei metodi politici, e dell'incapacità di scegliere fra innovazione e conservazione. Non salva l'inarrestabile frantumazione la proposta, abbozzata dalla Fgci, di un processo di unificazione delle varie componenti studentesche dall'Ugi all'Intesa. Al consiglio nazionale del 28-30 gennaio '67 vengono presentate le dimissioni della giunta Unuri. Le vecchie organizzazioni, ormai sclerotizzate nelle schermaglie interne e in costante polemica fra loro, non riescono a fronteggiare la fase che si è aperta; ossificate nel loro burocratismo sono spiazzate dal sorgere di una nuova «politicizzazione» di massa. Nel '67 esplodono le «lotte di base»; esse rompono ogni logica di prolungamento della battaglia parlamentare e dei suoi schieramenti politici nell'università. Nascono forme aggregative libere da schemi ideologici precostituiti che contestano la delega, la rappresentanza e ogni mediazione esterna, e cercano il pieno coinvolgimento di tutti gli studenti. L'«assemblearismo» sostituisce il filtraggio delle decisioni, le estenuanti mediazioni, il distacco della dirigenza da una base che vuole invece essere protagonista. Con l'occupazione della Sapienza a Pisa (7-11 febbraio 1967) si ha un decisivo salto di qualità. L'agitazione, decisa a Bologna dall'assemblea degli studenti delle facoltà occupate (Firenze, Torino, Roma, Cagliari), vuole essere un contrappunto alla conferenza nazionale dei rettori organizzata a Pisa. Il documento politico assunto come piattaforma unitaria contesta i tradizionali organismi rappresentativi e ne denuncia: «sia il verticalismo parlamentaristico, del tutto privo di un vero controllo democratico di base, sia 'la politica unitaria', fondata sulle alleanze tra cattolici e forze di sinistra ed esprimente interessi puramente riformistici, interni al sistema capitalistico e miranti in sostanza ad un suo più efficiente funzionamento, non ad una sua globale contestazione» 2 . Le Tesi della Sapienza e la loro successiva rielaborazione per il congresso dell'Ugi di Rimini radicalizzano la proposta di sindacalizzazione degli studenti avanzata dalle organizzazioni studentesche della sinistra. Esse acquisiscono la peculiarità della condizione studentesca, come ragione di una nuova vertenzialità e, rifiutata ogni mediazione istituzionalizzata, assumono come controparte degli studenti «la classe dominante», contestando ogni tentativo di programmare lo sviluppo capitalistico. Il congresso dell'Ugi (maggio 1967) segna la temporanea sconfitta delle Tesi della Sapienza, aggiornate come Tesi di Pisa, e dimostra l'inconciliabilità fra le due linee presenti nella sinistra universitaria. Parte della componente comunista e i di quella socialista si irrigidiscono su una concezione moderata e legalitaria del «sindacato», mentre i gruppi e l'area raccolta attorno alle Tesi pongono la

necessità di un'inequivoca funzione antirevisionista del nuovo movimento e delle sue forme organizzative. Se nella prospettiva della sindacalizzazione degli studenti, tema che la Fgci trascinerà fino al convegno di Ariccia del novembre 1968, lo studente è visto come «forza lavoro in via di formazione», le Tesi radicalizzano il rapporto studente-classe operaia in quanto: «Sul piano di un modello formale di processo di valorizzazione, lo studente appare come produttore di valore (si qualifica e pertanto si autovalorizza) e come consumatore di valore, distinto a sua volta in valore sociale (i servizi che gli fornisce lo Stato) e il valore salario privato (il mantenimento da parte della famiglia): in questo senso lo studente appare come una figura sociale sia pure ai margini del processo di valorizzazione» 3. Considerata erronea una definizione di classe «semplicemente in funzione del collocamento all'interno del processo di valorizzazione del capitale», lo studente è a tutti gli effetti una «componente interna alla classe operaia» se si tiene conto della «divisione capitalistica del lavoro e della funzione parcellizzata-subordinata» che esso assume nella sua attività universitaria. Ne deriva che: «il sindacato studentesco, analizzando e contrattando il momento di formazione della forzalavoro, entra in rapporto col sindacato operaio. La base comune di questo rapporto è l'analisi dell'uso capitalistico della forza-lavoro. Partendo da questa analisi, il sindacato studentesco rivendica di essere inquadrato nel sindacato operaio» 4. Rifiutata così la tradizionale e arretrata lotta per il diritto allo studio, si passa alla rivendicazione del salario: «lo studente è un lavoratore e, come tale, se produce ha diritto al salario e se non produce non ha diritto di restare all'università» 5. Sotto l'influsso delle teorizzazioni dei «Quaderni rossi» e di «Classe operaia» di un piano del capitale teso al dominio delle varie articolazioni del sociale, nelle Tesi si tende a unificare lotta economica e lotta politica, puntando a un progetto totalmente antagonistico, finalizzato a scardinare gli equilibri del sistema: «La distinzione tra organizzazione dentro il sistema per la difesa degli interessi immediati (sindacato) e organizzazione antagonista al sistema (partito) tende a vanificarsi, o quanto meno ad essere assai meno netta, nella misura in cui la crescente socializzazione di ogni componente sociale, in termini di piano centralizzato, fa sì che ogni movimento parziale di contestazione dell'ordine esistente divenga immediatamente politica (generale) venga inevitabilmente assorbita dal sistema, riorganizzata nel sistema superiore, non appena essa abbia fallito l'uso eversivo delle fasi di squilibrio del sistema che si sono storicamente presentate»6 . Le Tesi non sono evasive sull'obiettivo principale: fondare una nuova strategia rivoluzionaria, capace di rappresentare un decisivo superamento delle concezioni revisioniste. Denunciata l'assenza di un partito e di una strategia rivoluzionari, nella «consapevolezza che questa contraddizione» può essere eliminata solo «attraverso la costruzione del partito politico di classe», esse affermano che l'azione del nuovo movimento acquista validità nella generalizzazione delle esperienze di lotta antimperialiste espresse nel mondo della scuola. In sostanza

spetta agli studenti radicalizzare la lotta di classe e costruire una nuova dirigenza politico-rivoluzionaria 7 . La mozione che si contrappone alla linea ufficiale dell'Ugi contesta ogni «strategia parlamentaristica» e respinge ogni visione di lotta sindacale inquadrabile nelle regole dell'organizzazione del lavoro salariato imposto dal capitalismo. Contro questa impostazione polemizza la Fgci, che vede nel sindacato studentesco un momento specifico della battaglia per la riforma universitaria. A poche settimane dal congresso, Claudio Petruccioli della segreteria nazionale della Fgci, attacca duramente «chi vuole parlare della classe operaia o di rivoluzione al di fuori e contro i partiti della classe operaia» 8. Sono chiari ormai i termini dello scontro: il documento pisano ha prodotto uno strappo nelle organizzazioni studentesche, non chiede più un'agibilità politica funzionale alla condizione universitaria e una generica alleanza con il movimento sindacale, ma rivendica una diversa strategia rivoluzionaria. A Rimini il contrasto interno alla sinistra universitaria non trova nessuna possibilità di mediazione, quello del 1967 è l'ultimo congresso dell'Ugi, poi le sue componenti si dissolveranno nel movimento. «Il congresso», scrive in luglio Paolo Flores D'Arcais, esponente della sinistra Ugi: «non ha potuto ricomporre un dissidio che ormai riguarda la strategia della sinistra rivoluzionaria e in essa il ruolo della componente studentesca, e ha condotto a chiarire fino in fondo i termini della divisione» 9. Considerata «riduttiva e settoriale» ogni lotta universitaria «concepita in funzione prevalentemente parlamentare», va ricercato un coinvolgimento di «tutto il movimento di sinistra, in quanto la trasformazione della scuola è legata al rovesciamento dell'assetto generale della società». In questo modo, prosegue Flores D'Arcais, «i conflitti interni al mondo universitario possono divenire un punto di tensione utilizzabile solo nella misura in cui determinati obiettivi, largamente sentiti, sono inseriti in un generale programma anticapitalistico, proprio di un partito di classe. La lotta della sinistra rivoluzionaria giovanile non può dunque svolgersi solo nei luoghi di studio: passa dentro e fuori di essi come passa fuori e dentro i partiti; forse, anzi, proprio in ragione di ciò» 10 . Incurante della sua crisi e del tutto separata dal nuovo movimento, liquidato con la generica accusa di «nullismo politico», l'Intesa da parte sua prosegue per la vecchia strada, lanciando una battaglia di retroguardia attorno ai problemi posti dalla legge di riforma universitaria. Con questa visione arriva stancamente al suo consiglio nazionale a ottobre, rispondendo ai fermenti interni e di base che spingono per un totale rinnovamento strategico, con un'involuzione dei vertici dell'organizzazione e la sostituzione del segretario generale. Parallelamente il presidente dell'Ugi, in presenza di un'insanabile contrapposizione fra le correnti interne, rassegna le sue dimissioni al convegno nazionale di novembre a Firenze. Tra crisi e travaglio, nel dissidio tra innovazione e conservazione, si realizza lo scioglimento, per altro mai sancito ufficialmente, dell'Ugi.

Una parziale riconversione dell'Intesa si manifesterà l'anno successivo mentre sono in corso le occupazioni delle principali università. Nella mutata situazione la vecchia dirigenza sarà liquidata e sostituita da quadri formatisi in esperienze di base, più organici al movimento: «la mano passa ai situazionisti» 11. Ma il tentativo avrà il fiato corto, nonostante gli elementi innovativi e le aperture del documento approvato dal nuovo consiglio nazionale, l'Intesa non reggerà il passo e sarà spazzata via dall'onda montante delle lotte studentesche. Scompaiono così, senza alcuna ufficializzazione, le obsolete strutture delle organizzazioni studentesche, al tempo stesso si recidono le connessioni con i partiti tradizionali che, privi di ogni mediazione, avranno ormai come loro interlocutore l'insieme del movimento studentesco. Rimarrà, unico residuato, nella pratica inesistente e silenzioso, l'Unuri che si autoscioglierà l’ 8 dicembre 1968, lasciando a testimonianza del «congelamento» della sua esperienza un patetico e inutile documento-mozione 12.

1 M. Boato, «II '68 è morto: viva il '68!», Bertani Editore 1979, pp. 110-149, il saggio appare su «La Critica sociologica» n. 21, primavera '72, pp. 208-231 con il titolo Per un'analisi dell'origine storico-politica del movimento studentesco. 2 Cfr. U. Carpi e R. Luperini, L'occupazione della Sapienza e il nuovo movimento studentesco, «Nuovo impegno», n. 6/7, novembre 1966 - aprile 1967. 3 Cfr. Lotta dì classe nella scuola e nel movimento studentesco, «Quaderni di Avanguardia operaia», n. 2, Sapere Edizioni, 1971, pp. 86-88. 4 ibidem. 5 ibidem. 6 ibidem. 7 «L'Università: l'ipotesi rivoluzionaria», Marsilio, 1968, pp. 165-166. 8 C. Petruccioli, Un nuovo sindacato universitario, «Rinascita», n. 9, giugno 1967. 9 P. Flores D'Arcais, I giovani della nuova sinistra, «La. Sinistra», n. 7, luglio 1967.

10 ibidem. Cfr. La mano passa ai situazionisti, «Italia-cronache», n. 2, 31 gennaio 1968; sulla crisi dell'Intesa, S. Bassetti, La crisi ai vertici dell'Intesa, «Questitalia» n. 114/115. Sullo scioglimento dell'Unuri cfr.: M. Boato, cit., pp. 142-146; UNURI la morte ritardata, «L'Astrolabio» n. 49, 15 dicembre 1968; A venticinque anni l'UNURI era vecchia, «Sette giorni» n. 79, 15 dicembre 1968.

4. Pisa, Trento, Venezia

Le riviste seguono con attenzione lo sviluppo del movimento, diventano il principale veicolo per la divulgazione dei suoi documenti e intrecciano la loro stessa mutazione politica agli esiti della lotta studentesca. Nel luglio 1967 uscirà il numero speciale redatto collettivamente da «Quaderni piacentini», «Nuovo impegno» e «Classe e Stato» suImperialismo e rivoluzione in America Latina: è la svolta politica. «Nuovo impegno» si identifica con le Tesi della Sapienza e polemizza con le conclusioni del congresso dell'Ugi, contemporaneamente si impegna nell'inchiesta sui gruppi minoritari. «Lavoro politico» propone l'apprendistato del maoismo. «Giovane critica» si cimenta sul tema dell'organizzazione e del partito. Attorno al nuovo movimento si ricompone e si addensa l'insieme del travaglio del decennio. In un mutato e più fecondo scenario sociale si presenta l'occasione per la fondazione della «nuova sinistra». In questo passaggio cruciale i gruppi e le riviste si rigenerano, dilatano i loro ambiti di influenza e avviano nuovi percorsi organizzativi. Il gruppo perde la sua precedente fisionomia, si mimetizza e al tempo stesso recluta nuove forze, mentre le varie posizioni teoriche subiscono una trasformazione per effetto di assonanze e di commistioni. La mobilitazione antimperialista agisce come catalizzatore di una nuova consapevolezza rivoluzionaria. La lotta del popolo vietnamita è il simbolo della possibile vittoria della guerra di popolo sull'imperialismo. L'antimperialismo non è un mitico terreno unitario ma lo spartiacque tra revisionismo e rivoluzione. Nascono accese polemiche: dagli slogan contrapposti si passa alle rissose contestazioni. A Firenze sono fischiati La Pira e Codignola, oratori ufficiali di una manifestazione pacifista, la giornata si chiude con la carica della celere e le barricate nel centro della città. In polemica con Fortini dei «Quaderni piacentini», Claudio Petruccioli scrive su «Rinascita»: «Quando Franco Fortini, nel corso di una manifestazione studentesca, in mezzo a tante altre deliranti affermazioni, giunge a dire che sul Vietnam non ci si unisce ma ci si divide, o gruppi di provocatori fischiano Codignola e La Pira che aderiscono senza equivoci e reticenze alla lotta per la pace e la libertà del Vietnam, allora esiste un ostacolo, un pericolo che dobbiamo abbattere e spazzare via» 1 . E’ l'aprile del '67 e ancora non sono spenti gli echi delle occupazioni di Trento, Venezia e Pisa; di lì a poco, al suo XVI congresso, avverrà la spaccatura dell'Ugi. Il Vietnam, la Cina, Cuba sono i simboli del nuovo internazionalismo, di una rivoluzione possibile contro il revisionismo, il capitalismo e l'imperialismo. Se le

Guardie rosse della rivoluzione culturale bombardano il «quartier generale», in occidente si fanno i conti con la tradizione culturale e politica, si mettono in discussione le regole del «gioco» politico. Si vive in un clima attraversato da spezzoni teorici eterogenei, da un ampio ventaglio di suggestioni e di ipotesi molto diversificate fra loro, su cui si riverberano le divisioni del movimento operaio internazionale e l'incertezza della prospettiva del socialismo. Il proliferare dello sperimentalismo politico determina un approccio alla questione del socialismo pieno di ambivalenze che fluidifìca provenienze culturali e matrici ideali. In quegli anni la battaglia per il rinnovamento della scuola italiana avviene in modo confuso e con scarsi successi. Il centrosinistra, al di là delle sue roboanti affermazioni, trascina il problema, oscilla fra revocazione di riforme generali e interventi parziali e sporadici, che arrivano in ritardo, senza efficacia e tempestività, privi di respiro 2. Un limite serio all'iniziativa comunista è la difficoltà di costruire un'estesa battaglia nel paese. Si registra una scissione fra condotta parlamentare e movimento, molte le polemiche fra partito e cellule universitarie sulle forme di lotta da adottare e sulle finalità delle agitazioni studentesche. Il gonfiamento dell'università, la sua crisi strutturale, la mancata riforma, la questione degli sbocchi professionali, si accompagnano al bisogno di entrare sulla scena sociale che un'inte-ra generazione va affermando. Le teorie sociologiche, in particolare il marcusismo, hanno un grande influsso sul clima delle lotte universitarie, a esse si aggiungono esperienze collettive e umane nate sulla spinta delle poliedriche controculture che vagano per il mondo: iprovos olandesi, gli hippies inglesi, i situazionisti tedeschi, il fascino dei modelli e delle forme della «rivoluzione», il mito costruito attorno a Cuba, Vietnam, Cina. La politica supera la soglia dell'analisi e dell'organizzazione per diventare fatto comportamentale; un'immediatezza che attrae i giovani, anche se in questa sua dilatazione tende alla schematizzazione, alla riduzione, allo slogan, alla ricerca di una sua forzosa semplicità. Nell'estensione delle lotte universitarie il motore principale è il riconoscimento dell'incompabilità fra una scelta anticapitalista e l'università, con le sue strutture, il suo funzionamento, i suoi corsi, i suoi rapporti col mondo del lavoro. A Torino, a Trento, come in molte altre occupazioni al centro della discussione il tema, non nuovo nella storia del Movimento studentesco, dell'avvenire delle facoltà scientifiche 3. L'università è funzionale al sistema e scardinare il sistema è possibile solo negando il ruolo specifico dell'università. È l'illusione della rivoluzione dietro l'angolo, la sfiducia nei tradizionali modi di trasformazione, troppo lenti di fronte all'ansia di cambiare. Col crescere delle lotte, l'ambito universitario diventerà stretto e si imporrà la ricerca di nuovi spazi politici e la necessità di una strategia politica complessiva. In Europa e nel mondo è un grande sussulto, enormi masse studentesche scendono in piazza non per una scuola diversa ma per una diversa società. Un filo rosso

corre fra le varie parti del globo, congiunge insieme in una comunanza ideale i giovani italiani con i giovani di Berkeley, con le Guardie rosse della lontana Cina, con gli studenti di Strasburgo, con la Lega degli studenti socialisti della Germania, con le tensioni che animano le università di Praga e di Parigi. In Italia, nella peculiarità della situazione politica e nell'incontro-scontro col movimento operaio, si determina la tipicità di un fenomeno che si conclude nell'«anno degli studenti» ma rompe con forza gli argini della «questione studentesca», invadendo per varie vie l'insieme del quadro politico. Nel corso delle tumultuose giornate di occupazione, nelle manifestazioni a getto continuo convivono in forme nuove gli spunti elaborativi e le teorizzazioni che, negli anni precedenti, erano state alla base delle agitazioni delle principali università, in particolare delle occupazioni di Trento, Venezia, e Pisa. Sono esperienze diverse fra loro che si ritroveranno come stratificazione o come vera e propria evoluzione nelle varie linee e tendenze che, pur nella loro conflittualità, sono il motore dinamico del «movimento». L'«operaismo» nelle sue ramificazioni, prodotte lungo il percorso originatesi attorno ai «Quaderni rossi» e a «Classe operaia», si cimenta a Pisa nelle Tesi della Sapienza enfatizzando la teoria della «proletarizzazione» dello studente. Le due linee dell'emmelismo si confrontano a Venezia, senza risolvere il perenne conflitto fra «partito» e «movimento». A Trento entra in crisi ogni ipotesi di modernismo cattolico sostituito da un progetto di Università negativa in cui, oltre le suggestività adorniane il vetero comunismo e il marxismo si incontrano con un nuovo integralismo cattolico. Fra il 1965 e il 1967, prende le mosse, una critica serrata alla cultura «specifica» e agli specialismi considerati elementi determinanti della divisione capitalistica del lavoro. L'università, uno dei centri decisivi della nuova scienza importata dagli Stati Uniti, la sociologia, è nata sotto l'egida dei settori progressisti della Democrazia cristiana che hanno dato vita alla battaglia contro il centrismo e prospettato un'operazione culturale finalizzata alla costruzione di un moderno mito tecnocratico, capace di superare sia lo storicismo marxista sia l'idealismo di matrice cattolica. L'obiettivo è gettare le premesse per la formazione di quel moderno «operatore culturale» auspicato nella fase illuministica del centrosinistra. Già nel corso dell'occupazione del gennaio 1966, decisa contro la presentazione del decreto che declassa la laurea in sociologia a laurea in scienze politiche ad indirizzo sociologico, si avvertono i segni premonitori del rifiuto di una formazione meramente tecnico-burocratica. Tra il 1966 e il 1967 si consuma l'esperienza legalitaria dell'università di Trento, si riconoscono i limiti e la sterilità di una lotta tutta ricondotta nelle maglie del parlamentarismo. E nell'occupazione, tra il 24 gennaio e il 10 febbraio del 1967, che si incrina definitivamente la funzione dell'organismo rappresentativo. Conclusa l'occupazione, l'agitazione si sposta sui temi dell'antimperialismo. Nel marzo è indetta una «settimana del

Vietnam» con manifestazioni, dibattiti, cortei, sit-in. Nel corso di queste iniziative la polizia sgombra le facoltà schedando gli studenti. All'apertura del nuovo anno accademico, senza neppure dichiarare l'occupazione, l'assemblea generale proclama lo «sciopero attivo» e avvia la costituzione dei «controcorsi» dell'Università negativa. Il manifesto per l'Università negativa di Trento, che appare nell'autunno '67, prima della proclamazione della terza occupazione condanna l'università come luogo e «strumento del capitalismo» per mettere a punto l'«organizzazione del dominio di una classe sulle altre classi». Per questa via sofisticata e mistificata «l'apparato tecnologico» può sostituirsi «al terrore nel domare le forze sociali centrifughe e fornire alla classe sociale che ne dispone una superiorità immensa sul resto della società». L'università, al di là della presunta oggettività e neutralità della scienza, serve a produrre e trasmettere l'ideologia della classe dominante presentata come «necessaria e universale». Contro questo progetto l'Università negativa deve affermare in forma antagonistica alle università ufficiali «la necessità di un pensiero teorico, critico, dialettico che denunci ciò che gli imbonitori chiamano ragione e ponga le premesse di un lavoro politico creativo, antagonista e alternativo». L'Università negativa, con la controlezione, l'occupazione bianca, il controcorso, è il «luogo di integrazione politica e analisi critica dell'uso degli strumenti scientifici proposti» dalla classe dominante. Il movimento di Trento non sopravaluta il ruolo degli studenti, non li considera alla stregua di una classe, piuttosto, in una prospettiva di lunga durata, essi possono sollecitare e stimolare la costruzione di un «movimento rivoluzionario delle classi subalterne» in collegamento con «altre forze antagonistiche della società» 4. Il convegno sulle lotte studentesche, che si svolge in febbraio, mentre è in corso l'occupazione e in tutta Europa cresce l'onda montante del movimento, pone il problema di un legame fra lotte studentesche e lotte operaie che, superata la forma degli incontri verticistici fra «pochi burocrati dell'uno o dell'altro movimento», compia «un salto politico dal "collegamento" alla "convergenza" di esse, sia a livello tattico che strategico». Non altrettanto politicizzate appaiono le posizioni che emergono in altre università, solo nelle facoltà di architettura di Venezia, Milano e Torino si manifestano analogie con la significativa ricerca della facoltà di Trento sulla funzione degli «specialismi». Nelle facoltà di architettura è messo in crisi il mito tecnocratico di un operatore culturale capace di risolvere attraverso l'autonomia del suo intervento le storture del sociale e crolla ogni fiducia nella pianificazione come strumento di ricomposizione dello squilibrio capitalistico. Di fronte allo scempio del territorio, ai guasti delle grandi metropoli, al dilagare della speculazione edilizia, l'utopia razionalizzatrice della cultura urbanistica e architettonica, risulta inerme e il suo fallimento aggrava il senso di protesta e sollecita il netto rifiuto di ogni piano capitalistico e ogni presunta neutralità della scienza e della professione.

A Venezia l'occupazione della primavera 1967 si prolunga per oltre due mesi. Si scontrano due linee contrapposte: la prima assume come proprio obiettivo il progetto di riforma del piano di studi, mentre i gruppi marxisti-leninisti, Tendenza e Occupazione permanente sono per un'accentuazione dei caratteri politici delloccupazione e del movimento. La spaccatura evidenzia una dialettica ricorrente nello sviluppo del movimento: l'uso politico dell'occupazione perseguito dal minoritarismo a cui si contrappone la ricerca di un'autonomia e specificità del movimento studentesco e del suo rapporto con la classe operaia. Anche se in modo differenziato, per i due gruppi marxisti-leninisti, in sintonia con altre formazioni extraparlamentari, le lotte degli studenti servono a smascherare il capitalismo e il revisionismo, a trovare un nuovo canale di reclutamento nel processo che trasforma lo studente da piccolo borghese in quadro militante. In modo particolare il gruppo di Tendenza, esprime molte assonanze con la ricerca avviata nel corso dell'occupazione di Trento, comune è la consapevolezza che la contestazione del ruolo dell' università non è separabile dalla più generale contestazione sociale. Per Occupazione permanente l'università diventa una potenziale «base rossa», l'occupazione è lo strumento di lotta per spezzare la logica del sistema e per fondare un'alternativa autogestita, libera dai condizionamenti e dai rischi di ogni possibile integrazione capitalistica 5. A Venezia come a Trento non si sciolgono i nodi del dibattito. II bilancio delle lotte '66/'67 contiene in nuce tutti gli sviluppi del Sessantotto. Entrate in crisi le tradizionali forze studentesche si affermano nuove leadership, molte di esse provengono dal minoritarismo o ad esso si riconducono, Potere operaio per Pisa, «Lavoro politico» per Trento, altre fuoriescono dal dissenso cattolico e di sinistra.

1 C. Petruccioli, Sul Vietnam ci si unisce, «Rinascita», n. 28, aprile 1967. Cfr. G. Bini, La scuola italiana fra vecchio e nuovo, «Critica marxista», n. 5/6, 1966. 3 Cfr. L. Bobbio, Le lotte nell'Università. L'esempio di Torino, «Quaderni piacentini», n. 30, 1967. 4 Sull'occupazione dell'università di Trento cfr. Soccorso Rosso, «Brigate Rosse. Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto», Feltrinelli, 1976, pp. 26-34; «Lavoro politico», n. 2, novembre 1967.

5 Sull'occupazione dell'università di Venezia cfr. R. Rossanda, «L'anno degli studenti», cit. , pp. 74-91.

5.Le occupazioni in tutto il paese

All'apertura dell'anno universitario 1967-68 entrano in agitazione l'università di Torino e la facoltà di sociologia di Trento. In quest'ultima vengono organizzati due controcorsi: il primo sulla Rivoluzione culturale e sul pensiero di Mao (tra gli altri svolgono relazioni Mario Cannella, Filippo Coccia, Giuseppe e Maria Regis), il secondo sulla fase dello sviluppo capitalistico (sono consigliati i testi di Sweezy, Baran, Shanfield, Sylos Labini, Claudio Meldolesi, Federico e Nicoletta Stame). Protagonisti dell'occupazione sono personalità molto diverse fra loro, le cui biografie politiche e teoriche si separeranno nel labirinto dell'estremismo italiano: Marco Boato, Mauro Rostagno, Renato Curcio. Fatto totalmente nuovo nella storia del movimento universitario, il 18 novembre è occupata l'Università cattolica di Milano. La scintilla è offerta dall'aumento delle tasse, ma partendo da questo oggettivo pretesto gli studenti si pongono la domanda di fondo «a che serve la Cattolica?» e chiedono il controllo sui bilanci e sui programmi universitari. Si risponde con la repressione. Il rettore chiama la polizia: 32 studenti sono espulsi dal collegio, 3 sono espulsi dall'università, 150 sono sospesi. L'agitazione prosegue. A Torino, il 27 novembre, è occupato Palazzo Campana: gli studenti della facoltà di lettere contestano radicalmente i contenuti dell'insegnamento, il criterio degli esami, il rapporto tra studenti e docenti. Sembra esistere ancora lo spazio per una rifondazione dell'università e del suo ruolo, ma ben presto ogni tentativo in tal senso risulterà vano e inadeguato di fronte alla qualità della domanda politica che esprime la gran massa degli studenti, una domanda tutta protesa verso un nuovo orizzonte ideale. Proprio questa dilatazione degli obiettivi spiega il groviglio di contraddizioni che viene dipanandosi e il rapido consumo dei controcorsi e delle varie commissioni di lavoro che nascono all'interno delle facoltà occupate. Le discussioni non vogliono isterilirsi nel proprio specifico né nell'asfissia di un controcorso; tutto sembra avvitarsi per tornare al nodo di fondo: la lotta anticapitalistica, la lotta contro il sistema, il desiderio di una rivoluzione politica, morale e culturale. Un'ansia percorre la nuova generazione, la voglia di un modo nuovo di far politica che è tutt'uno col rifiuto del partitismo istituzionale, del «sistema», considerato come prigione normalizzante, come autoritarismo mascherato di democrazia; un rifiuto generalizzato e totale che rappresenta l'altra faccia di una diffusa paura del capitalismo, delle sue insidie e delle sue false libertà.

Si susseguono le occupazioni: il 29 novembre, la facoltà di lettere e filosofia di Genova; il primo dicembre a Pavia le facoltà di fisica e lettere; lo stesso giorno a Cagliari, lettere, filosofia e magistero; il 4 dicembre è la volta di Salerno; a Napoli l'agitazione si estende a tutto l'ateneo; l'11 dicembre si occupa a Sassari; a Padova, il 15 dicembre, lettere, filosofia, scienze politiche, fisica, magistero; il 17 dicembre scioperano tutti gli studenti universitari e gli studenti medi; architettura di Torino è occupata il 18 dicembre, sarà sgombrata dalla polizia, chiamata dal rettore, il 27 dicembre 1 . Con l'obiettivo di unificare e coordinare il movimento, a Torino 1'8 gennaio 1968, si svolge il convegno dei comitati di agitazione. Partecipano: Milano, Torino, Pavia, Napoli, Venezia, Pisa, Bari, Roma, Modena, Siena, Trento, Genova, Cagliari. E il primo della serie dei convegni politici dei quadri del movimento in lotta, seguiranno il convegno di Trento nel febbraio, quelli di Milano, Roma, Firenze e Venezia nel marzo e infine, a giugno, il convegno operai-studenti di Trento, a cui parteciperanno i segretari nazionali dei sindacati metalmeccanici Bruno Trentin e Luigi Macario 2. Attraverso la forma del convegno dei quadri si tenta il collegamento fra le occupazioni, evitando così i rischi di una gestione spontaneistica e atomizzata del movimento. Si vuole colmare il vuoto di dirczione politica, conseguenza del superamento del sistema delle rappresentanze e della crisi delle associazioni universitarie, senza tuttavia prefigurare nessuna direzione burocratica sul movimento, ma piuttosto cercando una sede di confronto e di dibattito per «promuovere un processo di progressiva omogeneizzazione strategica del movimento studentesco a livello nazionale»3. L'andamento dei vari convegni dimostra la complessità di tale obiettivo; le molte diversità ostacolano la ricerca di ogni possibile convergenza. Peraltro gli stessi convegni spesso mancano di valore rappresentativo e sono scavalcati dalla pratica delle occupazioni e della dinamica del movimento. Tuttavia rappresentano un indicatore utile per comprendere lo sviluppo delle varie elaborazioni e il nascere di quella dirczione politica che formerà lessatura portante dei gruppi. Il convegno di Torino non riesce a chiudersicon una mozione unitaria. Il confronto si attesta attorno a tre diverse posizioni: la linea del potere studentesco espresso dall'esperienza di Palazzo Campana; le tesi marxiste-leniniste di Napoli e Venezia e l'operaismo di Pisa, diretta emanazione delle Tesi della Sapienza. In assenza di un punto di unificazione, in questa fase il movimento torinese acquista una funzione egemonica. Rovesciata la logica delle Tesi della Sapienza, si sospende il giudizio sul tema della «forza lavoro in formazione». Non importa sapere quello che lo studente sarà: si parte dall'interno della condizione studentesca per aggredire i meccanismi della scuola, espressione della coercizione sociale e dell'autoritarismo delle istituzioni capitalistiche. La lotta è «contro l'università», contro quella sua «struttura interclassista» che «nonostante il diverso trattamento che riserva ai diversi strati, si presenta a tutti gli studenti come un meccanismo di promozione sociale neutrale rispetto alla provenienza di classe,

svolge un ruolo insostituibile come strumento di integrazione sociale e come mezzo per istituzionalizzare l'ideologia della stratificazione sociale continua (ad ogni titolo di studio consegue l'appartenenza ad un determinato strato sociale)» 4 . Gli studenti torinesi, come risulta dai documenti del loro comitato di agitazione, conducono un'analisi molto dettagliata della condizione studentesca 5. Molte delle categorie interpretative sono riprese da Lettera a una professoressa, anche se arricchite da passaggi sociologici e di generica provenienza marxista. L obiettivo è demistificare la neutralità dell'università e della didattica. Si dilata il campo di osservazione: non interessa più il ruolo professionale, ma la totalità dell'istituzione come strumento di classe e di normalizzazione. Entra in crisi la stessa idea di progresso ed è sottoposta a critica la cultura come trasmissione dell'ideologia dominante. Da questo presupposto muove l'indagine puntigliosa sui diversi atteggiamenti e destini della popolazione studentesca. Alcuni usano l'università «come base di lancio verso il conseguimento di posizioni di potere nella struttura sociale»; altri «la subiscono come una fase necessaria attraverso cui bisogna passare per andare ad occupare una condizione sociale predeterminata nella fìttizia gerarchla di una mistificatoria stratificazione sociale»; e infine altri ne sono «oppressi (in quanto essa funziona come strumento di legittimazione della loro posizione sociale subordinata)» 6 . Per questo «all'università entrano in molti ed escono in pochi. Escono innanzi tutto quelli per i quali la collocazione professionale in una posizione dirigenziale è già garantita dalla situazione sociale della famiglia di provenienza» per costoro prendere la laurea «è una cosa scontata». Ma dall'università escono anche «quelli che riescono a raggiungere la laurea senza aver mai brillato negli studi». «Per loro la carriera non esiste» e saranno destinati al grigiore degli «scatti di anzianità». Poi ci sono quelli che non trovano lavoro perché «il posto di lavoro, quel certo posto di lavoro, poi, non c'è per tutti». Ormai vi è un forte squilibrio fra lauree e posti di lavoro privilegiati a cui esse dovrebbero consentire l'accesso. I laureati «più di tanti non possono essere, gli iscritti ali' università sono molti di più: per questo l'università deve selezionarli». «Il primo e fondamentale criterio di selezione è di carattere economico: studiare e mantenersi agli studi costa. L'università non fornisce aiuti economici ai suoi iscritti che in misura risibile. Chi proviene da famiglie non abbienti, per mantenersi agli studi deve lavorare. Gli studenti lavoratori, specie nelle facoltà di economia, magistero, lettere, e filosofia, costituiscono ormai la maggioranza della popolazione universitaria. A matematica, fisica, legge, architettura la loro percentuale cresce continuamente» 7 . Lo studente lavoratore non solo è sottoposto allo sfruttamento del lavoro, ma, subisce le frustrazioni di un' università che non può frequentare, la solitudine dello studio individuale rispetto ai suoi compagni più privilegiati: è un «paria» nel posto di lavoro e nell'università. Gli esami sono la forma fenomenica sotto cui l'università si presenta allo studente lavoratore: un poliziotto denominato per l'occasione docente, che in 5-10 minuti

liquida l'imputato con una serie di domande». Il docente esercita il ruolo che gli è stato assegnato dal sistema e attraverso l'esame realizza la selezione di classe, peraltro già sancita dalla provenienza sociale dello studente: nascosto dietro le mistificazioni egualitarie del diritto allo studio e di una promozione sociale falsamente democratica, ripristina le gerarchle dell ordine capitalistico. «Così sotto le false spoglie di una selezione culturale e scientifica, si attua in realtà una selezione sociale. Dopo due, tre bocciature agli esami, si smette di studiare, si rimanda di sessione in sessione il prossimo esame, finché ci si accorge che è inutile continuare a pagare le tasse per dare lo stipendio a quel professore che continua a bocciarti. Chi è più perserverante, si fa incastrare per un numero superiore di anni. Solo pochi riescono a farcela per essere di perpetuo esempio a tutti gli altri che non ce la faranno mai perché continuino a credere che la scuola è uno strumento di promozione sociale» 8. Andando oltre la denuncia delle baronie universitarie del potere accademico, il movimento torinese individua la «radice dell'autoritarismo» non solo nelle strutture istituzionali ed economiche ma «in primo luogo nel consenso da parte di coloro che il potere lo subiscono». Si tratta, dunque, di spezzare la manipolazione del consenso che frantuma le aspirazioni collettive degli studenti, che divide e indebolisce il movimento. Per questo bisogna scardinare tutti gli strumenti di cui dispongono le autorità accademiche per imporre il controllo degli studenti 9. Alla base della speranza di una rifondazione dell'università vi è il rovesciamento del rapporto fra docenti e studenti. Il maggiore strumento di controllo, la base politica del potere accademico dei professori è «la collaborazione degli studenti». «Senza la collaborazione degli studenti, un professore non è nulla. E questo il nodo politico della nostra lotta, è questa la constatazione da cui dobbiamo partire per impostare una lotta che possa infine portarci ali' instaurazione di una didattica in cui professori e studenti lavorino in base a rapporti tra eguali e non in base a rapporti tra signore e suddito» 10. Le commissioni di studio sembrano essere ancora lo strumento di «contestazione del potere accademico». Ma a Torino, come in tutte le altre facoltà, la dinamica occupazione-repressione interromperà ogni possibile sperimentazione. Concorre a vanificare il lavoro delle commissioni la progressiva politicizzazione del movimento e la ricerca di collegamenti sempre più ampi con la generalità della lotta di classe, in sostanza raffermarsi della rivolta studentesca come movimento politico. Nel lavoro delle commissioni si sottopone a critica la cultura tradizionale, la sua separazione dai problemi politici, la ricerca come «ricerca di se stessa». In particolare si guarda ad argomenti esclusi dall'insegnamento universitario. Nascono così, nel vivo dell'agitazione di Torino, le commissioni: «Psicanalisi e repressione», che affronta i rapporti fra civiltà e repressione (bibliografia consigliata i testi di Freud, Malinowski, Jones, Marcuse, Adorno, Fromm e Reich); «Funzioni e compiti della filosofìa»; «Filosofìa della scienza» sostituita

poi da «Sociologia della ricerca scientifica»; «Scuola & società»; «Vietnam»; «America Latina». Ma «ben presto ci si accorge che i libri sono altrettanto autoritari dei docenti» 11. La commissione «Scuola & Società» vota una mozione in cui si proibisce ai partecipanti di usare i libri nei propri lavori. Si contesta l'istituzione libro, il rito capitalistico dell'accumulo del libro, la vecchia e autoritaria cultura libresca: «Al posto degli altari familiari ai Lari paterni di tradizione romana, le nuove leve del capitalismo si costruiscono in casa degli altari denominati libreria, o addirittura delle cappelle denominate studio, dove il feticcio libro troneggia incontrastato contento di sottoporsi all'adorazione privata» 12. La cultura viene demistificata, denunciata per i suoi caratteri di trasmissione dell'ideologia dominante, di funzionalità economica al sistema, per il suo autoritarismo. Sull'onda della parola d'ordine maoista «Contro la cultura libresca», si spinge verso un'ideologizzazione della pratica-movimento tutta proiettata verso una dimensione esistenziale della politica. Lo sviluppo dell'occupazione torinese dimostra il complesso rapporto fra dirigenza e base. Ormai esiste una pluralità di soggetti decisionali, la gran massa degli studenti vuole contare e mette in crisi ogni leaderismo di retroguardia, di fronte a incertezze o prudenze ci si autoconvoca, si autodecidono le occupazioni e le altre forme di lotta. Tra l'inizio dell'anno accademico e il 10 gennaio, giorno dello sgombero di Palazzo Campana ad opera della polizia, si realizzano tré occupazioni. La loro dinamica, gli errori che si compiono, dimostrano l'eccezionalità della lotta che si è aperta e come l'insieme del movimento sia ormai giunto a un radicale salto di qualità. All'intervento della polizia i quattrocento occupanti rispondono con la resistenza passiva e con lo sciopero bianco. Le elaborazioni delle varie commissioni dell'occupazione torinese non riescono a trovare una sintesi nella Carta rivendicativa, finalizzata a una ristrutturazione dello studio universitario. Nel documento si esprime la prospettiva del controllo studentesco sulla formazione culturale e professionale da cui originerà la parola d'ordine «potere studentesco». Si è ancora a un punto di congiunzione con le precedenti occupazioni, un precario equilibrio fra la fondazione di un nuovo ruolo dell'università e una contestazione radicale e generalizzata. Fra l'analisi del movimento torinese e la Carta rivendicativa sembra mancare un'organica consequenzialità, i nessi appaiono piuttosto meccanici e spesso sovrapposti. Peraltro ogni ipotesi di «ristrutturazione dello studio universitario» si scontrerà con la repressione del potere accademico e dello stato, con il conservatorismo delle strutture universitarie e dei docenti, con le inerzie delle forze politiche. Le proposte di Costituente studentesca avanzate dalla Fgci sembrano reperti archeologici confrontate con la carica ribellistica e di impegno globale di una generazione che vuole e si sente protagonista di una appassionante ed utopica stagione di lotta. Tutto il sistema di potere è sotto accusa e la stessa gruppettistica risulta arretrata rispetto alla rivolta delle masse studentesche. Se ne ha una riprova

nel conflitto non risolto al convegno di Torino fra movimento, gruppi operaisti e marxisti-leninisti. In quella occasione, come in tutto l'andamento delle lotte universitarie, si manifesta quella conflittualità che sarà permanente fra specificità e autonomia del movimento e formazioni dell'estremismo. Una conflittualità che, in modo dialettico e nelle reciproche interferenze, agirà come motore interno delle lotte, tenderà alla loro progressiva socializzazione e ad uno spostamento degli studenti verso il lavoro politico. Il successivo convegno si svolge il 6 febbraio a Trento, mentre è in corso la terza occupazione della facoltà di sociologia e in tutto il paese le università sono in agitazione. Contrariamente a quanto è accaduto a Torino, si riesce ad approvare una mozione unitaria che rappresenta un deciso spostamento in avanti rispetto alla Carta rivendicativa 13. Ormai è netta la consapevolezza della necessità di superare ogni frammentazione e settorialismo, attraverso la rivendicazione e la conquista di obiettivi sempre più avanzati e generalizzabili. La mozione conclusiva pone la questione della convergenza tattica e strategica «fra lotte operaie e lotte studentesche». La rivendicata autonomia del movimento non è separazione o un generico «collegamento», magari ricomposto dalla revisionistica politica delle alleanze sociali, ma deve esprimere una nuova dimensione dello scontro in una globalità dell'azione rivoluzionaria. Il movimento trentino innesta sulle analisi torinesi una forte caratterizzazione politica, le tipicità dell'esperienza dell'Università negativa si fondono con la ricerca sulla condizione studentesca in un movimentismo teso a produrre un radicale rovesciamento della precedente tradizione politica. La parola d'ordine «Potere studentesco» sconfina dal suo originario significato ed evoca un ruolo politico dello studente e del movimento. Nelle giornate di occupazione nascono nuove aggregazioni, nuovi moduli organizzativi, nuove forme di lotta, il tutto nella fluidità di un movimento di rivolta in cui si sedimentano, si accumulano ed esplodono speranze, illusioni, nuove conoscenze individuali e collettive. La lotta, funziona da valvola di sfogo di nodi teorico-politici irrisolti, autoesalta e al tempo stesso produce un ulteriore salto di qualità. E la risposta alla repressione, è l'occasione per unificare le molte diversità, è rincontro fra avanguardie e totalità degli studenti. A Trento come a Palazzo Campana i tentativi di far saltare dall'interno i meccanismi coercitivi dell'università, si dimostrano impraticabili, i «controcorsi» e le commissioni di studio rimangono forme elitarie di coinvolgimento, separate dalla gran massa di studenti che chiedono di partecipare, di stare nelle piazze, di essere «movimento». Non bastano più le ipotesi di Università negativa, né le tesi del sindacato studentesco: si è di fronte a un nuovo e originale movimento politico. Il partire dalla condizione studentesca, il tenere conto del dato soggettivo, servono a coinvolgere l'insieme della popolazione studentesca, a rompere barriere ideologiche precostituite, a mobilitare forze non ancora impegnate nella lotta politica.

Lo studente vive nella scuola tutte le conseguenze della divisione della società in classi, nell'istituzione scuola, nella trasmissione del sapere si riflettono, al di là di ogni mistificazione, tutte le contraddizioni del sistema. Alla gran massa degli studenti si svela il fine ultimo della scuola: «organizzare il consenso per la società e il tipo di rapporti sociali che in essa si sviluppano» 14. Denunciati i nessi fra i meccanismi formativi e selettivi, la critica si estende al sistema e ali' università come anello decisivo della continuazione dell'ordine capitalistico. In questo senso l'antirevisionismo del movimento studentesco è la risposta all'idea di una rivoluzione possibile, una rivoluzione già potenzialmente in atto, una rottura con la democrazia borghese e col parlamentarismo. Progressivamente si ridurrà il tempo per ogni riflessione, il crescere della rivolta esige la partecipazione, si deve stare da una parte o dall'altra: o con l'opposizione, quella della sinistra ufficiale considerata ormai integrata, socialdemocratica, revisionista; o con la rivoluzione, per lo scontro risolutivo. Questo salto che nega l'obiettivo parziale, la fase intermedia del gradualismo, non è schematismo di analisi, ma generalizzata volontà di ridefinire la politica. Su «Quaderni piacentini», nel luglio 1968, Carlo Donolo scrive: «II movimento studentesco ha sviluppato, in misura diversa e con riflussi e contraddizioni, alcune caratteristiche, che oggi fanno parte della sua definizione. Nel loro complesso designano un modo nuovo di fare politica ed anche di definire che cosa sia la politica. Una prima caratteristica e la tematica iniziale: l'autoritarismo. In questo termine sono condensate diverse intuizioni sociologiche e politiche. Esso si riferisce in primo luogo alla struttura di potere nelle istituzioni e nelle organizzazioni sociali, non legittimata funzionalmente e giustificabile solo con posizioni di interesse materiale. In secondo luogo, si riferisce dal lato passivo alla violenza più o meno mediata esercitata sui soggetti subalterni nei loro diversi ruoli sociali, compresa la repressione internalizzata, specialmente familiare. Infine si riferisce al clima politico-culturale generale della società in fase di razionalizzazione, che non è disposta a tollerare la soddisfazione di bisogni diversi da quelli che essa impone» 15. La nozione di autoritarismo, in questo aggiornamento, comporta un'estensione che supera il tradizionale concetto di sfruttamento di classe, permettendo «di coinvolgere in un discorso eversivo anche i gruppi sociali relativamente privilegiati ma subalterni, ai quali il sistema non sottrae tanto plusvalore quanto potere di autodeterminazione e possibilità di emancipazione» 16. Rivivono nelle elaborazioni e nella lotta del movimento studentesco le teorizzazioni mutuate dal sociologismo della scuola di Francoforte. Il percorso culturale che dalla dialettica dell'illuminismo di Adorno approda al marcusismo, si dialettizza con la rivisitazione del pensiero del movimento operaio, dal leninismo al maoismo. Da queste prismatiche combinazioni nascono le rifrangenze e le deformazioni, quelle continue interferenze culturali, che formeranno il labirinto teorico del gruppismo.

La sopravvivenza di «concezioni tradizionali della politicizzazione, riprese dal movimento operaio o dalla prassi dei gruppetti» rappresenta ancora un ostacolo alla piena autonomia del movimento e porta alla convivenza nello stesso di pratiche non esenti da autoritarismi. Un limite che si ritroverà nella vita interna delle varie formazioni minoritarie sempre oscillanti fra il modello partitico e la sua negazione. L'acquisizione di una coscienza antiautoritaria è il punto di origine fondamentale di una nuova figura di militante; esso si forma nella pratica del movimento e le sue contraddizioni irrisolte lo porteranno, nella fase di riflusso, a fuoriuscirne alla ricerca dell'organizzazione e nella speranza di una risposta più organica e di uno sperimentalismo meno informe e magmatico.

1 Per la cronologia del movimento cfr. S. Travaglia, «Cronache '68/69. Materiali di controinformazione», Bertani, 1978; per i documenti delle varie occupazioni cfr. «Documenti della rivolta universitaria», a cura del Movimento studentesco, Laterza, 1968 2 M. Boato Unità e diversità del nuovo ciclo di lotte del movimento studentesco del '68, in M. Boato, «II '68 è morto, viva il '68», cit., pp. 150-160. 3 ibidem. 4 G. Viale, Contro l'Università, «Quaderni piacentini», n. 33, febbraio 1968. 5 I materiali dell'occupazione torinese furono riportati in un numero speciale di «Quindici» (n. 7, 15 gennaio 1968). Il fascicolo, diffuso in venticinquemila copie, rappresentò un'importante veicolo di diffusione delle tesi torinesi. 6 Cfr. Sul diritto allo studio, in «Documenti della rivolta universitaria», cit., pp. 272-299. 7 ibidem. 8 ibidem. 9 Cfr. Didattica e repressione, ibidem, pp. 261-271, . 10 ibidem.

11 ibidem. 12 ibidem. 13 La mozione conclusiva di Trento è pubblicata in: «Documenti della rivolta universitaria», cit., pp. 73-78; «Università: ipotesi rivoluzionaria», cit. , pp. 32-37. 14 II potere operaio, «Relazione sulla scuola», Libreria Feltrinelli, 1968. 15 C. Donolo, La politica ridefinita. Note sul movimento studentesco, «Quaderni piacentini», n. 35, luglio 1968. 16 ibidem.

6. Potere operaio, Potere studentesco

«Potere operaio», «Potere studentesco» sono slogan ricorrenti nelle manifestazioni studentesche; la parola chiave che li accomuna è «Potere». Essi sono usati indistintamente, e non tutti padroneggiano fino in fondo le elaborazioni che sottintendono. Eppure nella dialettica fra queste due nozioni si spiega tanta parte delle dispute interne al movimento; le teorie e le pratiche che si fronteggeranno e che si rincontreranno nei partiti dell'estremismo post-sessantottesco. La ricerca di nuove forme organizzative non è separabile dai temi di strategia in cui si dibatte il movimento. Liberatosi, momentaneamente, dallo stereotipo minoritario della fondazione di un nuovo partito rivoluzionario, il movimento pur marginalizzando le formazioni di gruppismo, ne subisce l'egemonia teorica e ne fa proprie, le variegate tipologie di intervento politico. Esaltando la sua specifica ed autonoma proiezione politica, il Movimento studentesco finisce per porsi di per sé come forma di una milizia politica complessiva. Nel corso delle lotte si assiste alla metamorfizzazione dei gruppi; essa si manifesta nei passaggi cruciali come capacità di orientamento ideologico e insieme come risposta organizzativa contrapposta alla fluidità del movimento. La sua ramificazione sul territorio nazionale rappresenterà il principale supporto logistico e la condizione delle osmotiche fluttuazioni e delle continue trasmigrazioni da gruppo a gruppo. Per tutta una prima fase i marxisti-leninisti risultano esterni al movimento, anche se meritano considerazioni a parte l'esperienza veneta e quella romana e va tenuto conto del generale influsso della Rivoluzione culturale cinese. Il gruppo che con più autorevolezza si contrappone alla linea di «Potere studentesco», che può essere assunta come linea del movimento, è quello del Potere operaio pisano. Con l'esplosione sessantottesca, sviluppando l'elaborazione legata alleTesi della Sapienza, il gruppo precisa ulteriormente le sue posizioni operando un netto rifiuto di ogni ipotesi rivoluzionaria sovrapposta alla realtà studentesca. Il documento più organico in tal senso è La relazione sulla scuolapubblicata nel maggio. Si radicalizza l'impostazione che aveva caratterizzato la fase delle Tesi, che, come giustamente sottolinea Rossana Rossanda, interne a «una rielaborazione della tematica classica del Movimento operaio» considerando lo studente come «figura sociale impura ai margini del processo di valorizzazione» approdavano alla necessità del sindacato studentesco a livello nazionale» 1. Il gruppo pisano non solo respinge ogni prospettiva riformistica ma tutte quelle posizioni che «utilizzano le lotte studentesche solo per formare quadri per una lotta politica generale», e quindi non tengono conto della specifica violenza

rivoluzionaria della lotta contro la scuola, dove «come in ogni angolo della terra si svolgono violenti conflitti di classe a livello materiale e ideologico». È compito del gruppo inserirsi attivamente in questo «scontro con la forza e l'ideologia rivoluzionaria» 2. Questa presenza deve caratterizzarsi come costante denuncia del «carattere aggressivo delle operazioni culturali condotte nella scuola» e saper avanzare piattaforme rivendicative capaci di difendere gli studenti dagli attacchi della classe dominante, tali da suscitare una loro progressiva mobilitazione rivoluzionaria. Solo congiungendo questi due elementi la lotta supera il ristretto ambito scolastico per divenire lotta anticapitalistica e, non separandosi dalle reali condizioni degli studenti, produce un livello superiore di «reclutamento di forze per la lotta rivoluzionaria». La polemica si incentra sulla parola d'ordine del «potere studentesco». Nella prima fase dell'esperienza torinese, lo slogan vuole significare la riappropriazione da parte degli studenti della gestione della propria formazione culturale e professionale e degli strumenti di critica rispetto al ruolo professionale. Ma questa prospettiva «non incide nel mercato del lavoro ne può modificare i rapporto di produzione e della divisione del lavoro imposti dal regime capitalistico nel quale lo studente si troverà inserito», in quanto «la questione del potere si pone in modo realistico solo a livello delle strutture generali della società» 3 . Dunque, per il gruppo pisano, la parola d'ordine è scorretta se per «Potere studentesco» si vuole rappresentare «l'organizzazione nella scuola di un movimento di ribellione, di senso, di azione contestativa permanentemente contrapposta alle strutture ufficiali del potere». Non si avrebbe così alcun «potere» per gli studenti che rimarrebbero prigionieri del potere ufficiale e «dell'organizzazione capitalistica, cioè della divisione del lavoro, che nella scuola tiene rigidamente separato lo studio dall'attività produttiva» 4 . La polemica è molto forzata e paradossalmente il gruppo finisce col contraddire le proprie affermazioni e il riconoscimento compiuto nella suaRelazione sulla scuola. La natura del dissenso va oltre le esplicitazioni teoriche, incardinandosi attorno alla questione del salario generalizzato. Secondo Potere operaio, come risulta dal Documento sul salario elaborato e discusso nella Sapienza occupata nei giorni 20 e 21 febbraio 1968, la crescita del movimento studentesco pone la necessità di una piattaforma rivendicativa tale da determinare un collegamento con altri strati sociali. In tal senso «la proposta di salario generalizzato è in grado di mobilitare gli studenti operai e lavoratori, i lavoratori dipendenti con figli in età scolastica, i giovani lavoratori esclusi dalla scuola e confinati violentemente nel ruolo di sfruttati economicamente, e di inferiori culturalmente». Sullo stesso tema ritorna il gruppo Strumenti di classe di Milano che, polemizzando nel corso dell'occupazione della Statale con «gli amici del potere studentesco», lancia la proposta di un milione annuo per studente. E un modo, sostiene, attraverso il quale il «ceto studentesco» si può trasformare in uno «strumento anticapitalistico». Non importa la credibilità dell'obiettivo: anzi

proprio per il suo carattere provocatorio è l'unico possibile «non dal punto di vista del mantenimento del sistema» ma da quello «della sua eversione e della sua distruzione». Un procedimento analogo si ritroverà nell'intervento di Potere operaio davanti alle fabbriche: una logica che non ha più niente a che fare con l'originario economicismo e che si pone unicamente come «strumento formale» di «aggressione critica e negativa» al sistema. Si esaspera l'irrazionalismo dell obiettivo per contrastare la presunta razionalità capitalistica. Il momento più alto del confronto fra le due linee si sviluppa nel vivo dell'occupazione torinese. Vittorio Rieser considera la logica che guida la proposta del salario generalizzato un'ingenuità tattica così come «la ricerca di obiettivi apparentemente immediati, che in realtà invece non sono attuabili se non con un rivolgimento dell'intero sistema». «A volte», prosegue, « tale ricerca è semplicemente un tentativo non riuscito di rendere "più realistica" una linea che oggettivamente, al momento attuale, non può esserlo. Ma altre volte essa è teorizzata esplicitamente: la lotta concentrata su obiettivi specifici, immediati, ma non realizzabili è vista come l'unico mezzo per mantenere uno stato di tensione continuo» 5. La critica mossa dal leader torinese non è metodologica ma riguarda le finalità di collegamento con la classe operaia che si vorrebbero raggiungere attraverso il salario generalizzato. L'irrealizzabilità dell'obiettivo non solo non rappresenta uno strumento di mobilitazione ma «rinvia al problema più generale della lotta rivoluzionaria». Se questo è il punto allora è «più utile che il movimento si impegni più direttamente sui temi della lotta operaia di oggi, anche se specificamente sindacali, e cerchi con la massima flessibilità di impostazione organizzativa di far scaturire da essi un dibattito politico di maggiore portata» 6. Il Potere operaio toscano, commentando le posizioni torinesi, replica respingendo ogni strumentalismo della proposta e rivendicando, come unico metro per giudicare la validità del salario generalizzato, «quello di vedere se corrisponde o no alle esigenze delle masse e non se il capitalismo lo può o non lo può sopportare» 7. La polemica, come è evidente, va oltre il significato rivendicativo dell'obiettivo proposto e investe direttamente la natura del movimento studentesco. Oreste Scalzone, del gruppo romano di «Classe operaia» scrive: «II compito che spetta al movimento studentesco è quello di svolgere un lavoro politico eversivo. E lavoro politico eversivo significa scontro con il sistema». Il gruppo romano considera infatti la proposta del «salario generalizzato» un obiettivo capace di far saltare il sistema. Più oltre Scalzone affronta l'essenza del contrasto: «La discriminante resta quella leninista dell'organizzazione. Vale a dire, l'organizzazione della violenza del proletariato contro la violenza della borghesia. Vale a dire, rifiuto di ogni carattere estemporaneo della lotta. La norma leninista è l'esatto contrario dello spontaneismo, è la riaffermazione del primato della politica, dell' organizzazione politica della lotta di classe» 8. In sostanza i gruppi dell'area operaista considerano la tesi di Rieser secondo cui gli studenti devono entrare nel merito delle lotte operaie una «semplice proposta di controcorso culturale» in cui la condizione operaia è ridotta a mero «oggetto di

osservazione», e manifestano una profonda sfiducia sul carattere eclettico che il movimento verrebbe ad assumere se prevalesse la linea del potere studentesco. Il documento di Potere operaio riportato su «Nuovo impegno», pur prendendo atto del valore dell'impostazione torinese, sviluppa un forte attacco allo spontaneismo di Bobbio e Viale, giudicandolo «un valido appoggio alla strumentalizzazione degli opportunisti (vedi la politica del Psiup rispetto alle lotte studentesche)». Al contrario attribuisce il compito di stabilire collegamenti permanenti con la classe operaia a un'«avanguardia politica» della quale il movimento studentesco è una parte: «quando parliamo di collegamento con gli operai parliamo di intervento politico e questo lo facciamo non come studenti ma come militanti rivoluzionari». In questa operazione politica si vuole utilizzare il potenziale rivoluzionario che è in grado di esprimere il movimento studentesco, considerato come fondamentale serbatoio di militanti, ma spetta all'avanguardia garantire una dirczione strategica capace di realizzare l'unifìcazione delle lotte: «In effetti, se il movimento studentesco può svolgere nel contesto nazionale ed europeo delle lotte politiche, esso è di rompere il panorama di stagnazione politica, di funzionare da base di appoggio di un movimento rivoluzionario di più vasta portata, come gli avvenimenti francesi dimostrano. Oggi le distanze tra gli studenti e le masse sfruttate sono diminuite: nonostante gli sforzi dei sindacati per mantenere il distacco e la differenza, il movimento studentesco gode di credito tra le masse per il coraggioso contributo di lotte che esso ha dato. Presentandosi alle masse come protagonisti di questa esperienza di lotta e traducendola in proposte politiche più generali, gli studenti sono bene accolti, e viceversa una penetrazione anche solo a livello di opinione tra le masse popolari si traduce in concreto appoggio al movimento per fronteggiare la repressione e i più vasti compiti politici di domani» 9. Per Potere operaio spetta all'avanguardia politica garantire una dirczione strategica capace di realizzare l'unificazione delle lotte. E questo il valore della proposta del salario garantito, un obiettivo che raccorda la lotta degli studenti, senza separarli dalla loro condizione specifica, alle lotte più generali. Ma al di là dell'indicazione del salario agli studenti, il dibattito ruota attorno alla necessità e alle caratteristiche di un'ambiziosa convergenza strategica con la classe operaia. Prefigurando i termini di un contrasto tipico tra le organizzazioni dell'estremismo postsessantottesco, l'alternativa è tra un movimento studentesco che autonomamente determini le condizioni di questo incontro e la costruzione di una nuova avanguardia politica, capace di proporre obiettivi unificanti sia per gli studenti che per la classe operaia. Da ciò l'accanita polemica sullo spontaneismo e contro chi, come Rieser, teorizza una sorta di crescita del movimento per vie interne e la definizione dei contenuti dell'intero moto rivoluzionario partendo dalle esigenze poste dalla base degli studenti e dalle loro rivendicazioni. Il reclutamento fra gli studenti è affermato con spregiudicatezza nel documentoprogramma sulla scuola di Potere operaio: «L'importanza rivoluzionaria del movimento proviene proprio dal riconoscimento del carattere classista

dell'autoritarismo e dal porsi coscientemente sul terreno della lotta di classe per abbattere la fonte prima di ogni autoritarismo sociale: il capitalismo. In questo senso, man mano che il movimento si radicalizza, gli elementi di avanguardia sono portati a compiere scelte sempre più rivoluzionarie e sempre più coscienti nella direzione dell'abbattimento del sistema: questi elementi sono l'avanguardia della lotta e ne costituiscono l'elemento portante, che da continuità e permanenza al movimento. Questi elementi noi li chiamiamo proletari, anche se non è tale la loro origine di classe ma per l'ideologia che sono portati necessariamente a fare propria, in seguito anche a precise scelte di carattere materiale» 10. Dal costante proiettarsi verso l'intera società nascono gli interrogativi sullo sbocco generale della lotta e su come sia possibile esercitare un ruolo senza subire la mediazione riformista. In quei mesi per molti studenti la scelta di una più complessiva militanza politica diventa imperativa: la carica rivoluzionaria va trasmessa ad altri strati sociali e in particolare a una classe operaia ormai adagiata nelle regole e nell'ordine capitalistico. Al di là delle varie interpretazioni che si danno della proposta del salario generalizzato e lo sviluppo di una disputa non esente da formalismi nominalistici e da arroganze di gruppo, non c'è dubbio che attraverso questa discussione si supera ogni approccio riformistico alla tematica del «diritto allo studio», proiettandola in una visione globale del processo rivoluzionario. La necessità di un rapporto strategico con la classe operaia, tema posto sin dal convegno di Trento, stenta a trovare una sua esplicitazione, e non va oltre la «pratica politica» davanti alle fabbriche, in sostanza un agire da «partito» che per lo più riguarda e trova disponibili studenti già politicizzati. Sin dai primi mesi del 1968, a fianco della lotta studentesca, si consolida il lavoro dei gruppi operaisti davanti alle fabbriche: un intervento che mantiene una sua specificità ed entra in concorrenza rispetto all'autonoma presenza del Movimento studentesco 11. Le grandi aziende del Nord sono il principale banco di prova: vi è già una storia di dissenso operaio ed esse sono state al centro dell'analisi delle riviste degli anni '60. La vertenza alla Fiat che si concluderà nel maggio, la lotta dei chimici di Porto Marghera, la Pirelli e la lotta per l'abolizione delle gabbie salariali dell'autunnoinverno, saranno, nel manifestarsi di nuove tensioni operaie e delle difficoltà di tenuta del vecchio sindacato, altrettante occasioni per sperimentare forme di presenza, momenti di confronto fra varie linee dell'estremismo. La diversità delle parole d ordine, «potere studentesco-potere operaio», non annulla il comune giudizio critico sul ruolo delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio, anzi ancora più drastico delle affermazioni delle Tesi della Sapienza è l'accenno al sindacato studentesco contenuto nella riflessione di Bobbio sulle lotte studentesche torinesi. Partendo dalla «social-democratizzazione delle organizzazioni politiche del movimento operaio», Bobbio prospetta una sorta di «sindacato, inteso come organizzazione e espressione degli studenti in lotta, che non ha alcun rapporto con la rappresentanza ufficiale e anzi ne rifiuta gli stessi principi di unicità e rappresentatività». Nell'incontro con le tesi dell'Università negativa di Trento si precisa l'obiettivo della costruzione, attraverso «una nuova

metodologia politica», di un «movimento politico di massa». Da questo presupposto il collegamento con le lotte operaie rivendicato dalla mozione conclusiva di Trento e al tempo stesso le diverse accentuazioni che guidano le letture di Rieser e Rostagno sono riconducibili alla qualità e ai modi dell'allargamento dello scontro sociale. Nella vertenza contro la Fiat per le 44 ore, che si protrae dal dicembre '67 al maggio '68, si confrontano le posizioni del gruppo toscano di Potere operaio, che cerca di estendere la sua area di influenza, e quelle del movimento studentesco di Bobbio e Viale, in cui convergono i resti dei «Quaderni rossi», quest'ultimi reduci da un'ulteriore scissione che ha visto sorgere a Torino la Lega studenti operai, con un suo modesto prolungamento a Milano. Gli studenti sono insieme agli operai davanti alla fabbrica, nei picchetti, nel volantinaggio, nell'azione quotidiana, per scambiarsi esperienze, per incontrarsi, per lottare insieme contro l'autoritarismo ovunque si manifesti. I primi contatti sono improvvisati e sin dall'inizio esplode il contrasto sul rapporto col sindacato, acuito dalla netta differenziazione operata dal gruppo di Potere operaio: iniziano le polemiche sui volantini e gli attacchi della stampa comunista. Di fronte ad una lotta aspra servono a poco le dichiarazioni degli studenti di essere al servizio degli operai; serve a poco anche se di grande valore ideale e nell'accrescere la consapevolezza politica, quella che viene definita una collaborazione critica. Lo studente si politicizza, sente di non poter essere l'avanguardia rivoluzionaria se non si cimenta con la milizia politica, conosce nella pratica quotidiana i limiti dell'azione sindacale, rivendica con maggiore intensità una più generale strategia rivoluzionaria che faccia i conti col minimalismo dei sindacati e con le mediazioni dei partiti tradizionali. Le conclusioni della lotta, duramente contestate da Potere operaio, dimostrano i limiti dell'azione studentesca e la mancanza di una capacità di dirczione strategica sulle lotte «...quando la lotta si è interrotta, non si è avuta la capacità di prendere alcuna posizione. Non si è trattato di una decisione presa, ma con la presenza nella discussione di quasi tutte le possibili tesi, di prendere una qualsiasi decisione» 12. Ancora non conclusa la vicenda torinese, il movimento, se stenta a trovare una sua piattaforma unitaria, come dimostrano l'altalena del dibattito interno e gli esiti contraddittori dei vari convegni nazionali, riesce tuttavia ad esprimere una forte capacità di risposta e di aggregazione contro la repressione che colpisce duramente i protagonisti delle occupazioni e delle lotte. Il retroterra politico romano si presenta più debole e magmatico di quello di altre città: da ciò il ritardo d'avvio e l'incertezza della prima fase d'occupazione. La facoltà di lettere diventa il punto di riferimento fondamentale, l'assemblea generale è percorsa dalle diatribe ideologiche e dallo scontro fra vecchie e nuove dirigenze. Immediatamente si manifesta una tendenza al superamento delle prime tesi di Palazzo Campana, conseguenza questa dell'influsso anche diretto dei leader torinesi che saranno presenti in vari momenti dell'occupazione romana. In uno dei primi documenti si scrive che «!'università non può essere considerata un centro autonomo di potere [...], ma è uno strumento del potere del sistema capitalistico»

13. Si taglia corto con ogni illusione di contro-università: l'impatto deve essere direttamente con la struttura dello Stato. L'occupazione, decisa dall'assemblea plenaria all'inizio di febbraio dopo gli scontri di Firenze, si esaurisce per consunzione. Segue la spaccatura dell'assemblea dell'11 febbraio dove si decide «l'interruzione del dibattito politico»; in sostanza di liquidare le dispute ideologizzanti che finiscono solo col far ripiegare il movimento su se stesso. È la rottura fra il vecchio e nuovo movimento, le nuove avanguardie superano le commissioni di studio e organizzeranno l'occupazione in consigli. Alla fine di febbraio inizia la seconda occupazione: gli studenti sfondano le porte del rettorato, 88 di loro saranno denunciati e il movimento dilaga in tutte le facoltà. Si lancia la richiesta dell'esame alla pari. C'è ancora confusione fra consigli e controcorsi, si parla di politica, del Black Power, della Rivoluzione culturale cinese, di situazionismo, di Marcuse. L'analisi delle condizioni interne all'università si intreccia con l'esigenza di una nuova militanza. Contro la violenza di cui è portatrice l'università, contro il potere accademico, la risposta è l'occupazione come strumento per strappare l'università a un vecchio potere consolidato e per restituirla agli studenti, per esercitare il «potere studentesco». «Ma è forse illegale rifiutare l'università fatta di lezioni-conferenze dei professori?», chiede un volantino del consiglio di occupazione della facoltà di lettere, «E forse ingiusto reagire ad un esame che ha tutte le qualità per essere un vomitatoio, dove chi meglio vomita più è apprezzato? E dunque inumano lottare per ottenere un' università nostra? E forse illegale lavorare insieme e per tutti?» 14. Sono respinte le proposte tese a realizzare forme di collaboazione paritetiche fra studenti e docenti. Non ci può essere dialogo: «La scuola di classe organizza il consenso al sistema, noi organizziamo il dissenso alla scuola dei padroni». Le richieste si fanno sempre più intransigenti: è fondamentale scardinare il meccanismo dell'esame, contrastare la competitivita che esso sollecita, superare il voto come momento di separazione degli studenti. Si contesta alla radice la trasmissione di una cultura che serve solo a organizzare il consenso sociale, a perpetuare l'ideologia e i valori della società capitalistica e la selezione classista della società. Si chiede la pubblicità degli esami, la pubblica discussione del voto, la possibilità di contestarlo, l'esame politico. La risposta accademica è la repressione. Il rettore D'Avack si rivolge alle «forze sane» dell'università. L'effetto sarà la sollecitazione allo squadrismo fascista. Arriva subito dopo l'intervento della polizia: gli studenti rispondono con la resistenza passiva, oltre millecinquecento agenti rimangono a presidiare l'ateneo. Si innesca la spirale repressione-inasprimento delle lotte studentesche. La reazione delle forze accademiche conferma l'autoritarismo dell'università: lo scontro diventa tutto «politico». Si risponde così all'interrogativo posto da Oreste Scalzone «definire il ruolo del movimento. Questo è il punto di partenza [...] nel retroterra culturale e politico di molti di noi, nella ricerca d'una dimensione, d'uno

spazio; nell'avere voltato le spalle al Pci e nel non avere trovato — malgrado una ricerca spasmodica — una linea su cui attestarsi che non fosse minoritaria e, in tal senso, emarginata e depauperata di virtualità effettive»15. Dal rivoluzionarismo delle parole e dei documenti si passa all'atto politico «provocatorio», finalizzato alla rottura degli equilibri esistenti e a enfatizzare la conflittualità politica. In quei mesi molti, entusiasmati dalle suggestioni moralistiche e palingenetiche dei primordi del movimento, abbandonano la prospettiva di una laurea a ogni costo; caduto il mito degli specifici rinunceranno a ogni futura professionalità, rifiuteranno la loro mercificazione nel sistema capitalistico per dedicare un arco della loro esperienza umana unicamente all'impegno politico militante. Le delusioni post-sessantottesche interromperanno questo processo. Nel frattempo però si è formata un' anomala figura di militante il cui destino è esposto al disadattamento o alla cupa normalizzazione, un militante fluttuante su cui pesa l'autoesaltazione di un'idealistica ed utopica fretta rivoluzionaria e al tempo stesso su cui graverà il pessimismo di fallimenti pagati sulla propria pelle. In quei mesi il domani può essere il giorno della rivoluzione. Demagogia e massimalismo guidano la proposta del salario generalizzato, ma animano questa rivendicazione anche due bisogni reali: l'esigenza di rompere ogni sudditanza rispetto alla struttura familiare e al suo intrinseco autoritarismo, la volontà di assimilare lo studio al lavoro, in una meccanica identificazione fra studenti e proletariato. Il 29 febbraio il rettore D'Avack di Roma, fa sgombrare le facoltà di lettere, legge, fìsica, chimica, scienze politiche, architettura. Il pomeriggio gli scontri a via Nazionale, piazza Colonna, sotto Palazzo Chigi. L'indomani: è Valle Giulia. L'appuntamento è fissato a piazza di Spagna, da dove il corteo degli studenti muove per rioccupare la facoltà di Architettura. Si vuole e si cerca lo scontro; la testa del corteo assalta la polizia che presidia la facoltà. È la battaglia di Valle Giulia: 144 poliziotti contusi, 47 studenti feriti, 200 fermi; queste le cifre della giornata di Valle Giulia, assalti ripetuti che coinvolgono tutto il corteo; per oltre quattro ore si susseguono gli scontri con la polizia. Così un volantino del movimento sintetizza il bilancio della giornata. «La lotta ingaggiata ieri ad Architettura è un fatto del tutto nuovo e importante. Gli studenti hanno capito che quando si è in tanti e si è uniti non si ha più paura». Ormai si è usciti con forza dall'università, il movimento romano è diventato fatto nazionale, tutta la stampa segue con interesse e stupore quello che accade nel mondo studentesco. Nel pomeriggio il dibattito alla Camera dei deputati si trasforma in un tumulto. Per il Pci, Aldo Natoli, critica duramente l'intervento della polizia. Taviani, ministro degli Interni, afferma «la necessità di reprimere i violenti», contro di lui inveiscono i deputati comunisti e psiuppini gridando «siete tutti fascisti!». Il giorno dopo, il meeting a piazza del Popolo. I leader parlano dalla balconata del Pincio, sotto la piazza gremita di studenti universitari e medi. Sono già i reduci della battaglia di Valle Giulia. Con Valle Giulia il movimento entra con prepotenza nel dibattito culturale e politico. La rivolta degli studenti è

un dato imprescindibile del quadro italiano e pone nuovi interrogativi sulla praticabilità della rivoluzione in occidente. La sinistra, messa sotto accusa, deve ripensare le sue ipotesi strategiche e le caratteristiche della propria lotta per la trasformazione della società. Appaiono una provocazione, nel clima culturale e nel dibattito apertosi a sinistra, i versi che Pier Paolo Pasolini scrive all'indomani di Valle Giulia. Riletta alla luce degli eventi successivi, è una provocazione premonitrice: «Mi dispiace. La polemica contro / il Pci andava fatta nella prima metà / del decennio passato. Siete in ritardo, cari. / Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati: / peggio per voi. / Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi / quelli delle televisioni / vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio / goliardico) il culo. Io no, cari. / Avete facce di figli di papà. / Vi odio come odio i vostri papà. / Buona razza non mente. / Avete lo stesso occhio cattivo. / Siete pavidi, incerti, disperati / (Benissimo!) ma sapete anche come essere / prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: / prerogative piccolo-borghesi, cari. / Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti. / Perché i poliziotti sono figli di poveri. / Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano. / Quanto a me, conosco assai bene / il loro modo di essere stati bambini e ragazzi, / le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, / a causa della miseria, che non da autorità. / La madre incallita come un facchino, o tenera / per qualche malattia, come un uccellino; / i tanti fratelli; la casupola / tra gli orti con la salvia rossa (in terreni / altri, lottizzati); i bassi / sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi / caseggiati popolari, ecc. ecc. / E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, / con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio / fureria e popolo» 16. Intanto il movimento prosegue la riflessione su se stesso e sulla necessità di una più organica unificazione politica. Di particolare rilievo il convegno nazionale dei quadri che si svolge, all'interno della Statale occupata, a Milano nei giorni 10 e 11 marzo. L'iniziativa trova ampia eco sulla stampa, articoli di commento appaiono su «II Giorno» e su «l'Unità», è presente la televisione, alcuni intellettuali di sinistra, anche se con un ruolo del tutto marginale, seguono i lavori. Per la prima volta si opera una netta discriminazione nei confronti delle organizzazioni giovanili della sinistra tradizionale, delle vecchie rappresentanze e «degli ideologi folli e teorizzatori astratti dei vari gruppi minoritari esterni al movimento studentesco» 17. Gli obiettivi del convegno possono così riassumersi: superare i limiti di rappresentatività riscontratisi a Trento e unificare su scala nazionale le posizioni teoriche del movimento; far assurgere la rivolta studentesca a tema dominante della vita politica, dato imprescindibile per le forze politico-sindacali e per la cultura italiana. Le relazioni introduttive sono presentate da Sandro Bassetti per Milano e Mauro Rostagno per Trento, mentre quella di Luigi Bobbio e Guido Viale, essendo i due leader torinesi in stato di clandestinità, è inviata per iscritto.

L'intervento di Bassetti, improntato a un riformismo finalizzato a un generico «miglioramento delle condizioni di studio», riscuote scarso consenso. I contributi di Rostagno, Bobbio e Viale esplicitano la linea del «Potere studentesco». Le tre relazioni introduttive evidenziano il persistere di una frammentazione teorica che se pure vede prevalere come maggioritaria la linea del Potere studentesco, tuttavia non consente l'estraneazione del dissenso espresso dagli operaisti e dal composito movimento marxista-leninista. Il fallimento della tavola rotonda fra Potere operaio di Pisa, Sinistra universitaria di Napoli e il Movimento studentesco, organizzata in concomitanza del convegno milanese, è la conferma del difficile rapporto fra le varie componenti. Permangono differenziazioni fra le elaborazioni dell'occupazione di Trento e di quella torinese, resta aperta la discussione su: l'astensionismo elettorale, il salario sociale generalizzato, il rapporto fra lotte studentesche e lotte operaie, l'illegalità e la clandestinità. Ma è una forzatura sopravvalutare, come fece la stampa comunista, le divergenze: in realtà unifica le due esperienze la visione comune di un movimento studentesco come soggetto politico globale, «illegale» nel suo ribellismo antiautoritario e antistatuale. Partendo dalle caratteristiche che hanno assunto le occupazioni, Potere studentesco rifiuta ogni ipotesi di cogestione dentro le strutture esistenti dell'università e ogni visione della cultura separata dal conflitto sociale. Riprendendo il giudizio contenuto nella mozione di Trento su una lotta studentesca che ha posto al «centro della sua tematica il problema del potere: di quello attuale da spezzare, e di quello nuovo e alternativo da costruire» 18, per superare ogni visione corporativa, rivendica un salto di qualità politica del movimento: il passaggio dal collegamento alla convergenza con le lotte operaie. Bobbio e Viale, liberandosi da alcune strettoie dell'esperienza torinese, riconoscono alla lotta contro l'autoritarismo la capacità strategica di orientare la carica eversiva degli studenti verso «l'organizzazione permanente e collettiva della non collaborazione e la radicalizzazione dell'antagonismo». Per questo la lotta contro la scuola deve diventare il primo momento di ricostruzione di una prassi rivoluzionaria, «rompendo con la sclerosi riformista del passato» per portare il movimento studentesco su un terreno di contestazione del sistema politico e sociale. Da queste acquisizioni e dal concreto espandersi delle lotte nascono le riflessioni di Rostagno e Rieser «sull'allargamento dello scontro». Il primo riconosce come elemento persistente e qualificante del movimento l'aver «investito le strutture del sistema», e quindi «avere saputo tenere fermo il contrasto nella scuola, allargandolo successivamente ad altri settori della società civile e politica». In questa amplificazione la lotta fuoriesce dai «suoi limiti di categoria diventando lotta sociale» 19. Per Vittorio Rieser l'allargamento è insito nella dinamica interna del movimento, in quanto «l'emancipazione della scuola come quella dello studente passa attraverso l'emancipazione della società e dunque della classe operaia e proletaria ...»20. Partendo da queste premesse, di fronte alla progressiva radicalizzazione delle lotte, Rieser denuncia i limiti di strategia del

movimento, oscillante fra opportunismo e avventurismo, e sollecita un collegamento non settoriale fra lotte operaie e lotte studentesche. «l' Unità» nel suo commento, attribuisce al movimento una presunta volontà di trasformarsi in partito: è un'ipotesi già avanzata da esponenti della Fgci e ripresa su «Rinascita» da Ottavio Cecchi 21. In realtà non è questo il cuore della proposta di Potere studentesco: essa esprime una critica radicale ai partiti di sinistra, la rivendicazione di un rapporto non contingente con la classe operaia e si pone come rivendicazione politica generalizzata e immediatamente antagonista al sistema capitalistico. Per queste stesse ragioni contiene in sé una dialettica fra autonomia movimentista e bisogno di organizzazione. Viale e Bobbio dovranno correggere l'elogio della clandestinità contenuto nel loro documento, ma resta netto l'invito all'illegalità del movimento, tema che preciseranno ulteriormente in un intervista a «Mondo nuovo»: «Qualsiasi azione di massa che non rimane dentro i limiti di una protesta autorizzata, diventa azione illegale e deve fare i conti con l'apparato repressivo dello stato» 22. Alle contraddizioni che nascono dall'interno si aggiungono le spinte del minoritarismo e, su un altro versante, gli orientamenti di una Fgci incerta, alla ricerca affannosa di un suo spazio politico. La sua proposta di Costituente studentesca, peraltro respinta dal convegno degli stessi studenti comunisti, esprime ancora una logica pansindacalista e quindi tende a una limitazione, più o meno esplicita, dell'autonomia politica del movimento. Analoga negazione, anche se con motivazioni opposte, proviene dall'estremismo presessantottesco, tutto proteso verso la costruzione di un'organizzazione alternativa alla sinistra revisionista e diffidente nei confronti degli studenti, considerati dai marxisti-leninisti addirittura espressione del velleitarismo piccoloborghese, forza lavoro in via di formazione. Anche se la linea del Potere studentesco esce rafforzata e vincente dal convegno milanese, il persistere di divergenze impedisce di votare una mozione conclusiva. L'ulteriore approfondimento e l'allargamento del dibattito viene rinviato a un nuovo convegno nazionale convocato a Roma per il 14 e 15 marzo. L'attacco fascista alla facoltà di lettere e il tentativo dei vari gruppi minoritari, in particolare dei marxisti-leninisti di varia tendenza, di egemonizzare il convegno romano compromettono il suo esito e ne producono il sostanziale fallimento politico. Il 16 marzo, Caradonna e Almirante guidano l'assalto fascista a Lettere. Dopo un lungo scontro i fascisti si barricano a Legge, da dove iniziano a lanciare spranghe, panche di legno e suppellettili varie. Numerosi i feriti: Oreste Scalzone riporterà una grave frattura alla schiena. In serata un'imponente manifestazione si snoda per le vie della città. L'indomani a Firenze si apre il convegno degli universitari comunisti.

1 Cfr. R. Rossanda, «L’ anno degli studenti», cit., pp. 82-91. «Relazione sulla scuola», cit., p. 17. 3 II potere operaio, «La scuola e gli studenti», Libreria Feltrinelli, 1968, pp. 1819. 4 ibidem, pp. 19-20. 5 Cfr. V. Rieser, Università e società, «Problemi del socialismo», n. 28/29, 1968. 6 Ibidem. 7 II potere operaio, Su alcune posizioni del movimento studentesco di Torino, «Nuovo impegno», n. 11, febbraio-aprile 1968. 8 Prefazione di O. Scalzone a «Libro bianco sul movimento studentesco», a cura di M. Barone, Galileo, 1968, pp. 13-17. 9 «Nuovo impegno», n. 11, febbraio-aprile 1968. 10 «Relazione sulla scuola», cit. 11 Cfr. «Ciclo capitalistico e lotte operaie Montedison-Pirelli '68»,Introduzione di M. Cacciari, Libri Contro n. 7, Marsilio, 1969.

FIAT

12 F. Ciafaloni, Le lotte operaie alla FIAT e il movimento studentesco, «Quaderni piacentini», n. 35, luglio 1968. Sullo stesso numero risposte degli operai Fiat al referendum. 13 «Libro bianco sul movimento studentesco», cit., p. 47. 14 ibidem, p. 71. 15 O. Scalzone, Sull'occupazione della facoltà di lettere dell'Università di Roma, «Quindici», n. 8, 15 febbraio 1968. 16 «L'Espresso», 16 giugno 1968. M. Boato, «II '68 è morto, viva il '68», cit., p. 153.

18 «Università: l'ipotesi rivoluzionaria», cit., p. 34. 19 M. Rostagno, Anatomia della rivolta, «Problemi del socialismo», n. 28/29, p. 279. 20 Cfr. V. Rieser, Strategia del Potere Studentesco, in «L'Astrolabio», n. 13, 31 marzo 1968 e n. 14, 7 aprile 1968, poi in «Problemi del socialismo», n. 28/29, con il titolo Università e società. 21 Pisa, le idee degli studenti, «Rinascita» n. 3, 1 marzo 1968. 22 L'intervista apparsa sul n. 12, 24 marzo 1968 della rivista del Psiup «Mondo nuovo» con il titolo Studenti e partiti è rilasciata dopo il convegno di Milano e subito prima dell'incarcerazione di Viale e Bobbio.

7. Il Pci dalla «sorpresa» alla «svolta»

Ambiguamente la politicizzazione delle giovani generazioni avviene con un approccio alla politica vissuta come esperienza onnicomprensiva, come trasgressione rivoluzionaria per cambiare resistente sovvertendo la normalità codificata della democrazia e l'asfissia dei tempi lunghi dell'istituzionalismo parlamentare. Vogliono gestire in proprio quella fase di lotta, costruire il loro spazio politico. Il movimento si candida a essere nella sua interezza un soggetto politico autonomo, sarà questo il tema principale dell'incontro fra i rappresentanti del movimento studentesco e Luigi Longo; un terreno di difficile confronto ma solo il suo riconoscimento consentirà la svolta comunista di aprile. Ricostruendo i caratteri del confronto Pci e studenti, Giovanni Berlinguer, in un saggio Studenti e partito apparso su «Critica marxista» alla fine del '68, fecalizza sei snodi principali: dalla «sorpresa» del novembre '67 alla risposta positiva della scettica primavera '68, un passaggio maturato «attraverso un vivo dibattito interno»; dalla «scuola rossa» del maggio al «dal voto alla lotta» dell estate, un salto di qualità che segue il «rifiuto di ogni strategia d'attesa» e infine con la mobilitazione della seconda generazione, gli studenti delle scuole medie superiori, la «saldatura di novembre» fra movimento studentesco e movimento operaio 1. Il Pci stenta a individuare la novità della fase che si è aperta, manca di una capacità di confronto con l'eccezionalità insita nella scesa in campo di una generazione con un alto potenziale conflittuale e con una forte volontà di imporre un radicale cambiamento al sistema dei valori, al tempo stesso sottovaluta la portata regressiva presente nel rifiuto dell'esperienza del movimento operaio e del suo patrimonio di lotta e di storia. Finisce in questo modo per oscillare bruscamente fra varie posizioni: ritardi nel comprendere lo strappo che si opera con il sorgere di un movimento con forti spinte centrifughe rispetto alla tradizione della sinistra italiana; schematici rifiuti; acritiche comprensioni non prive di subalternità sinistriste. Incertezze che si riflettono nel dibattito interno e non è marginale il fatto che proprio l'interpretazione del «Sessantotto» sarà una delle cause della scissione del Manifesto alla fine del 1969. Il problema posto dal movimento studentesco riguarda l'esito del processo rivoluzionario nel paese e in generale nelle società dell'occidente, sullo sfondo di una diversa concezione della rivoluzione mondiale, da ciò la natura principale dello scontro con l'esperienza del movimento operaio.

Rossana Rossanda, nel suo libro L'anno degli studenti del giugno '68, esaltando l'immediatezza delle lotte degli studenti contro i limiti della sinistra tradizionale, scrive: «La natura della contraddizione studentesca non ammette fasi intermedie: l'esperienza le ha insegnato che la contestazione dell'autoritarismo diventa subito scontro diretto con lo stato. L'università è il sistema: pertanto non si può fondamentalmente riformare, la rivolta investe immediatamente tutto il meccanismo sociale, non scorge margini in obiettivi intermedi, brucia ogni prospettiva di tipo sindacale. Di qui la sua insofferenza nei confronti del movimento operaio organizzato, dell'intera tematica "riforma e rivoluzione" ; della sua articolazione su diversi piani, ivi compresi quello sindacale e parlamentare» 2. Il sistema con le sue strutture e i suoi meccanismi, democrazia, istituzioni e partiti politici, è sotto accusa. La critica coinvolge il Pci e la sua linea di «collaborazione» che tollera il parlamentarismo, consente un pluralismo solo formale e legittima la mediazione fra le classi. Il revisionismo del maggiore partito della classe operaia italiana è un nemico ancora più insidioso dell'ordine capitalistico. Le elaborazioni delle riviste degli anni sessanta, il dissenso con la sinistra tradizionale, diventano opinione diffusa, banalizzate dalla perdita dell'orizzonte teorico da cui erano originati e in qualche caso ridotti alla rozzezza della citazione estraniata dal suo contesto. Si opera la rottura con la storia come chiave interpretativa dei processi reali. La storia del movimento operaio internazionale diventa un repertorio da cui attingere slogan e modelli, il progetto rivoluzionario è un puzzle fatto di suggestioni, mode culturali, eclettismo che cerca di mettere insieme segmenti teorici fra loro eterogenei. Già nel corso delle occupazioni del 1967 si avvertono i segni del logoramento del rapporto con il Pci e il persistere di una sua difficoltà a comprendere il travaglio e le aspettative della popolazione studentesca 3. Per le nuove generazioni si apre un orizzonte politico illimitato, si manifesta la possibilità di una dimensione della milizia del tutto originale, ricca di protagonismo e di soggettività, lontana milioni di anni luce dalle angustie delle varie proposte di Costituente avanzate dalla Fgci. In discussione sono le grandi questioni dell'internazionalismo, della prospettiva rivoluzionaria, del ruolo e del significato della via italiana al socialismo, il tutto sullo sfondo di un crescente bisogno di una nuova socialità. All'apertura del nuovo anno accademico, pur ammettendo la necessità di rivedere il logoro sistema delle rappresentanze, la Fgci si presenta ancora con la parola d'ordine della Costituente sindacale, una proposta riduttiva e arretrata se commisurata al crescere delle agitazioni contro il decreto 2314 e più in generale della soggettività politica autonoma degli studenti. La Rossanda, allora responsabile culturale del Pci, cogliendo alcuni elementi di novità presenti nella nuova fase di lotta studentesca, nel dicembre '67 scrive, in polemica col partito e con le proposte della Fgci: «Dovremo poi meravigliarci se da certe occupazioni di facoltà, da certi gruppi studenteschi, verrà un rifiuto totale, se già oggi non è il Parlamento che assediano, perché poco se ne aspettano, come

le proprie facoltà, in una ricerca di nuove soluzioni cui la società politica nella sua maggioranza di governo, si è del tutto estraniato»4 . Tra l'autunno 1967 e il febbraio 1968 la Fgci passa dalla proposta di Costituente sindacale a quella di Costituente studentesca e concentrando l'attenzione sempre di più sullo specifico studentesco. Alla vigilia del congresso degli studenti comunisti, è esploso in tutte le città il movimento studentesco, Claudio Petruccioli, segretario nazionale della Fgci lancia la proposta non solo alle forze tradizionali dell'Ugi e dell'Intesa ma anche alle «forze nuove che sono emerse negli ultimi tempi» 5. I limiti della proposta vengono denunciati nel seminario degli studenti comunisti (16-18 febbraio 1968) : nel dibattito si mettono in luce le difficoltà e le arretratezze della Fgci di fronte a un movimento che, rivendicando la sua piena autonomia politica, nella pratica delle lotte e in presenza di una totale mancanza di dirczione ha ormai sancito la fine del vecchio sistema delle rappresentanze. Attorno alla linea della Costituente studentesca c'è poca convinzione e molta perplessità. Nelle sfaccettature di un dibattito pieno di incertezze e di autocritica si fanno strada tuttavia gli elementi di quella riflessione che porterà alla «svolta» di aprile. Condizione decisiva per questo passaggio sarà il riconoscimento del ruolo autonomo del movimento. Nel marzo, dopo i fatti della stazione di Firenze, di fronte alle novità dell'occupazione romana esplosa nella battaglia di Valle Giulia, e mentre la repressione colpisce i due principali protagonisti delle lotte torinesi Luigi Bobbio e Guido Viale, costretti alla clandestinità per evitare l'arresto si accentua la polemica fra il Pci e il movimento. Paolo Bufalini interviene contro il suo antiparlamentarismo, contro i pericoli di un nuovo qualunquismo, contro un'irrazionale spirale movimentista: «Consideriamo pericolosi per la causa antifascista democratica e socialista, l'irrazionale idoleggiamento dell'estremismo infantile, l'infatuazione per posizioni quali quelle della lotta per la lotta, dell'occupazione per l'occupazione che prescindano dai contenuti o dagli obiettivi» 6. Commentando i fatti di Firenze, sfociati in un' aspra battaglia con la polizia, Ottavio Cecchi accusa il gruppo di Potere operaio di «sinistrismo anarco sindacalista e piccolo borghese, fondamentalmente qualunquista» 7. Sul tema del qualunquismo, insiste Alessandro Natta secondo cui una lotta meramente extraparlamentare porta «alla rassegnazione qualunquistica alla protesta velleitaria, perdendo di vista e negando il valore della battaglia politica e rivoluzionaria» 8. Luciano Gruppi invece, nell'articolo Spontaneità e direzione, ripropone in modo meccanico la funzione egemonica del Pci e del movimento operaio, ruolo derivato da una sorta di principio di autorità storica. Tuttavia, dopo aver definito il Pci come «momento della coscienza del movimento», da cui fa derivare «la necessità di una dirczione che autoritaria non è perché scaturisce da decenni di movimento reale di lotte, di maturazione dei quadri nell'azione e nella riflessione teorica». Gruppi deve riconoscere «che tra gli stessi studenti comunisti vi è un'ala che

rilutta di fronte ad un effettivo rapporto con il partito che sia sì partecipazione ad una strategia e a una direzione democratica» 9. Ma è proprio il principio di autorità storicistica che è entrato in crisi: si rivendica un nuovo modo di fare e di essere in politica e al tempo stesso la sperimentabilità di originali approcci al tema della rivoluzione, della sua praticabilità e dei suoi valori comportamentali. Sfugge a Gruppi la fase che attraversa il movimento e le ragioni di fondo delle difficoltà dei giovani comunisti di fronte ai fermenti del mondo studentesco, tuttavia egli coglie il rischio della rottura con la tradizione del movimento operaio e della negazione del valore della dialettica democratica. Da ciò deriva, secondo Gruppi, «la scarsa attenzione per la radice della nostra lotta democratica: la resistenza e la Costituzione», un rifiuto che porta a un «estremismo infantile» e un atteggiamento politico coincidente con quello «della socialdemocrazia di destra (Bernstein)» 10. La piattaforma politica del convegno degli studenti comunisti, Note per un documento degli universitari comunisti,elaborate dalla direzione nazionale della Fgci, prende le mosse dall'analisi del nuovo ciclo di lotte studentesche. Pur manifestando attenzione alle novità del movimento, insiste sulla funzione egemonica del «partito della classe operaia» polemizzando contro «visioni non leniniste del problema del potere, che poi si riducono alla errata convinzione di poterlo risolvere ignorandone la dimensione unitaria e centralizzata». Non cogliendo fino in fondo i caratteri della ricerca di autonomia politica enfatizza il problema del «partito rivoluzionario» attribuendolo a un velleitarismo generalizzato del movimento studentesco: «Sono gravi errori di analisi teorica ed illusioni piccolo-borghesi quelli che stanno dietro i propositi di creare un nuovo partito rivoluzionario, il cui nucleo originario e fondamentale sarebbe offerto dalle avanguardie studentesche e la cui base teorica comporterebbe la individuazione di nuove forze motrici della rivoluzione socialista nei paesi capitalistici sviluppati, prescindendo dall'analisi di Marx dello sfruttamento capitalistico e dalla individuazione del proletariato come protagonista e nerbo della negazione del capitalismo e della affermazione del socialismo» 11. Il convegno oscilla fra autocritica per i ritardi e inadeguatezza dell'analisi. La proposta di costruire «un'organizzazione politica nazionale degli studenti, unitaria, autonoma e di massa» una logica di sovrapposizione al movimento, peraltro totalmente separata dall'esperienza concreta vissuta in quei mesi dagli studenti comunisti. La stessa relazione introduttiva di Claudio Petruccioli riconosce «la scarsa presenza politica dei comunisti nelle lotte, dovuta ad una valutazione iniziale di esse sostanzialmente errata, esterna alla logica su cui è accresciuta la organizzazione politica del movimento studentesco». Il segretario nazionale della Fgci deve ammettere l'impossibilità per i comunisti di svolgere a breve termine un ruolo egemonico all'interno del movimento, «il quale d'altra parte conduce una lotta che non trova un terreno di confronto positivo in questa fase con la strategia, con i metodi e le forme di organizzazione della lotta dei partiti organizzati, e in particolare del Pci» 12.

Il dibattito si svolge senza approdare a punti fermi, incertezze e frustrazioni si mescolano a rigidità e acritici aperturismi. Le conclusioni di Petruccioli vagano nell'indeterminatezza pur dovendo prendere atto della complessità delle posizioni e del travaglio prodotto per la Fgci e per l'intero Partito comunista: «Al termine di questi lavori, dobbiamo tutti uscire con una consapevolezza: che siamo in una fase transitoria, che il lavoro deve proseguire, che prendiamo atto di posizioni diverse, e ne prendiamo atto non in termini ideologici o teorici, nel senso cioè di vedere queste differenze come sanzione di un mutamento nel carattere dell'organizzazione comunista; prendiamo atto di queste differenze di posizioni, come un dato della situazione reale che dobbiamo, lavorando insieme superare, andare cioè ad una unificazione, prima di tutto al nostro interno, degli obiettivi e del discorso politico non rinunciando quindi al carattere dell'organizzazione comunista»13 . Nel mese di marzo «Rinascita» dedica numerosi articoli al movimento, tuttavia si è ancora in una fase di aspra polemica. Nonostante i primi segni della crisi interna, ormai il movimento si è imposto come nuovo soggetto politico: nascono i primi raccordi con l'esterno, si cercano sempre con maggiore intensità quei collegamenti con la classe operaia già auspicati nella mozione conclusiva di Trento. In questo periodo matura, sia pure guadualmente e contraddittoriamente, la svolta del Pci; le varie prese di posizione e l'ampia messe di articoli sul movimento studentesco, testimoniano il permanere di divergenze e la qualità del confronto in atto nel Partito comunista. Claudio Petruccioli nell'articolo L'assemblea e la delega che appare su «Rinascita» del 22 marzo, pur riproponendo la sostanza politica dei temi affrontati al convegno nazionale, sembra più disponibile ad affrontare la specificità autonoma del movimento e lascia cadere ogni riferimento alla proposta organizzativa della Costituente 14. La mozione approvata al comitato centrale del 27 marzo, condannata ogni «velleità dell estremismo», si limita a esprimere un generico appoggio alla lotta degli studenti 15. Vero e proprio colpo d'ala nella posizione del Pci è l'articolo di Luigi Longo, Su alcuni aspetti della campagna elettorale che appare su «Rinascita» del 2 aprile. Anche se sarebbe del tutto erroneo circoscriverla a un espediente tattico, non vi è dubbio che la preoccupazione elettorale è presente nell'argomentazione del segretario del Pci. Non si tratta solo di battere ogni linea astensionistica o il rischio delle schede bianche, minacciato da settori estremisti del movimento, quanto di comporre in una diversa collocazione strategica la questione del movimento studentesco e della formazione delle nuove generazioni. Luigi Longo, coglie con grande sensibilità politica, l'esigenza di un nuovo modo di partecipare alla formazione delle scelte politiche e, insieme, di autonomia di un movimento alleato imprescindibile nella battaglia del movimento operaio per la trasformazione, un tema che riprenderà in modo ampio nella relazione al XII congresso del partito. Longo polemizza contro «illusi e burocrati» che si manifestano nel momento in cui «si risvegliano tante e così entusiastiche forze». Un sommovimento delle coscienze non può avvenire in «modo educato». E prosegue «Proprio perché

marxisti, comunisti, rivoluzionari, noi sappiamo che profondi rivolgimenti politici e sociali non possono non sconvolgere schemi precostituiti e vecchie credenze, in una parola, bisogna rimettere tutto in discussione» 16. Analogamente Petruccioli, sullo stesso numero di «Rinascita», riconosce fallimentare ogni presunzione di «pilotare» il movimento verso approcci politici precostituiti, in quanto qualunque sforzo per egemonizzarlo, «indipendentemente dalla consistenza dell'organizzazione che la metta in atto, sia essa il Pci o il più sparuto gruppo minoritario» risulterebbe «fondamentalmente in contrasto con la logica interna del movimento» 17. Nonostante la «svolta», le posizioni degli esponenti comunisti continuano a esitare nel giudizio sul movimento. A pochi giorni dalla pubblicazione dell'articolo di Longo, la relazione di Giuseppe Chiarante al convegno «I comunisti e la scuola» (Roma 6-7 aprile) nonostante gli accenti autocritici non sviluppa una coerente radiografia delle linee forza del movimento18. Le polemiche subiscono un'attenuazione a ridosso della prova elettorale e appare evidente che le posizioni del Pci tendono a differenziarsi da quelle della Fgci, più sensibile alle argomentazioni del segretario del partito. All'indomani del voto, il duro attacco di Giorgio Amendola. Il suo articolo Necessità della lotta sui due frontiripete lo schema classico della cultura comunista: lottare contro l'avversario ma anche contro l'estremismo. Amendola riprende la necessità di avere nei confronti del movimento «un discorso critico [...] estremamente chiaro» in quanto «non serve a nulla ignorare i punti di contrasto, minimizzare l'importanza ed ostinarsi a dare nella nostra stampa un quadro acritico del movimento studentesco»19 . Amendola contesta le esitazioni della Fgci di fronte agli attacchi di gruppi e studenti che elogiando il maggio francese avevano criticato il Pcf per il suo pompierismo revisionista. Critica con asprezza quella che chiama la «vanità di certi strati studenteschi di una pretesa iniziativa rivoluzionaria». E conclude: «Non abbiamo bisogno di fare delle serenate ai giovani. Si tratta di una discussione politica, nella quale come nostri interlocutori vi sono dei militanti, ormai già ricchi di molteplici esperienze, dei quali vogliamo contestare le posizioni politiche, perché le consideriamo curate, e dannose allo sviluppo del movimento» 20. Ma non è tempo di lezioni e i moniti amendoliani, lucidi rispetto ai rischi possibili e alla rottura di una tradizione, mancano della forza strategica necessaria al livello dello sconvolgimento in atto. Segno della complessa discussione interna e delle future lacerazioni, quasi negli stessi giorni della pubblicazione dell'articolo di Amendola, appare nelle librerie un'interpretazione diametralmente opposta delle lotte L’anno degli studenti scritto da Rossana Rossanda. Il movimento ha ormai aperto molte brecce nella cultura comunista. Né si può ignorare il suo concorso all'avanzata elettorale del Pci. Sulla scia di queste tormentate riflessioni, nel giugno del 1968, la Fgci svolge il primo convegno di Ariccia. Gianfranco Borghini successivamente la definirà come la fase in cui la Fgci mette a punto una linea politica coerente con la natura rivoluzionaria del movimento. Le conclusioni del convegno, molto discusse e non

pienamente condivise nel corpo del partito, saranno liquidate dai marxisti-leninisti di «Lavoro politico» come un mero rivolgimento tattico: «la Fgci cambia il pelo». Meno netto il giudizio più complessivo del movimento. La proposta di trasformazione progressiva della Fgci e la sua organizzazione di massa della gioventù rivoluzionaria viene letta come segno delle sue difficoltà, non rimuove le diffidenze, anzi conferma la necessità di rafforzare ulteriormente la critica al revisionismo. Contraddittoriamente proprio mentre si avverte il bisogno di una diversa capacità organizzativa l'ipotesi della Fgci, utile ai fini di non rompere definitivamente col positivo espressosi nelle lotte sessantotesche, finisce per produrre un vuoto politico che sarà riempito per i settori più politicizzati del mondo studentesco dal gruppismo che sempre più tende a spostare le tensioni prepolitiche della nuova generazione su un piano di proposta rivoluzionaria globale. In realtà il movimento studentesco, sia nella sua genesi che nelle teorie che lo hanno originato e sviluppato, ha posto il partito comunista di fronte al bisogno di rileggere la sua storia, ha evidenziato la necessità di un confrontoscontro fra varie culture della rivoluzione e della trasformazione sociale, ha messo in crisi il suo continuismo, ha posto in termini totalmente nuovi il nodo della democrazia e dello stato interrompendo il percorso teorico del togliattismo e problematizzando le culture politiche postresistenziali. Claudio Petruccioli propone una riflessione autocritica, segnalando i limiti nel rapporto col movimento. Marco Boato vi coglie i tratti di un gattopardismo finalizzato a non troncare definitivamente i ponti con un potenziale rivoluzionario che, anche se non condiviso, va utilizzato nel quadro strategico del revisionismo 21. Per il segretario nazionale della Fgci, di fronte ai reiterati fallimenti di ogni approccio organizzativo con il problema movimento studentesco, fallite prima ancora di ogni sperimentazione le proposte del sindacato studentesco e della Costituente, la strada è un profondo ripensamento sul movimento e sul ruolo della organizzazione giovanile comunista 22 . Lo stesso Petruccioli sarà più esplicito nel secondo convegno di Ariccia quando affermerà «L'unica via per difendere un patrimonio ed evitarne la consunzione è il rinnovamento più coraggioso». Il problema nuovo che si pone alla cultura comunista è come spostare da un rischioso sovversivismo spinte della società che pure contengono in nuce potenziali elementi democratici e partecipativi, ma in assenza di sbocchi adeguati possono deviare, come è drammaticamente accaduto su un terreno antistituzionale e antidemocratico. In un clima sospeso tra diffidenza e tentativi di saldatura fra studenti e cultura della sinistra storica si arriverà al secondo convegno di Ariccia «Movimento operaio e studentesco» (29 novembre-1° dicembre), relatori: Achille Occhetto e Gianfranco Borghini 23. Il convegno tenta di riannodare in termini nuovi il rapporto con il movimento. In questa prospettiva ne enfatizza i tratti positivi e sposta tutta l'attenzione sulla valorizzazione, ai fini della battaglia per il rinnovamento del paese, delle spinte che vengono dal mondo giovanile e della domanda di cambiamento che esse esprimono. Tuttavia il risultato del convegno non raggiungerà l'obiettivo. Il rapporto cultura comunista e «cultura» del

movimento resterà diffìcile e, nonostante i recuperi elettorali e organizzativi, mai completamente risolto. La relazione di Occhetto affrontando il tema, movimento operaio e autonomia del movimento studentesco, parte dalla convinzione che non può essere visto alla luce di una «teoria generale» quanto nel vivo della lotta politica in atto nel paese e quindi della necessità di uno sbocco positivo della crisi. In questa ottica il movimento studentesco è «parte integrante del più grande movimento rivoluzionario». Un'affermazione importante che consolida la svolta dell'aprile, ma resta nel ragionamento di Occhetto una giustapposizione fra ruolo del partito politico e dei movimenti che nascono dentro e contro la moderna società capitalistica. Permane una vocazione alla teoria e alla pratica del partito interpreteprecettore più che dialetticamente interattivo, nelle forme e nella condotta con un altro soggetto politico, per sua natura conflittuale, nato per vie proprie e produttore autonomo di politica. In questo senso la pur giusta denuncia dei ritardi del Pci nei confronti del movimento studentesco su cui molto si insiste nei lavori del convegno, va ben oltre il livello della «comprensione della sua natura». Il «ritardo» sarà più radicale e sarà grave per la cultura politica di una moderna sinistra.

1 G. Berlinguer, Studenti e partito: un anno decisivo, «Critica marxista», n. 6, novembre-dicembre 1968. 2 R. Rossanda, «L'anno degli studenti», cit., p. 117 R. Luperini, II Pci e il movimento studentesco, «Nuovo impegno», n. 12/13, maggio-ottobre 1968. 4 «Rinascita», 16 dicembre 1967. Cfr. G. Giannantoni, T. De Mauro, G. Devoto, B. Vitale, Che fare per l'università; C. Petruccioli, Dentro e fuori le aule universitario, «Rinascita», n. 7, 16 febbraio 1968. P. Bufalini, II partito e gli studenti, «Rinascita», n. 9, 1° marzo 1968.

7 O. Cecchi, Gli studenti di fronte ai partiti e agli operai, «Rinascita», n. 11, 15 marzo 1968. 8 A. Natta, Università da cambiare, «Rinascita», n. 11, 15 marzo 1968. 9 L. Gruppi, Spontaneità e direzione, «II contemporaneo» supplemento a «Rinascita», n. 13, 29 marzo 1968 10 ibidem. 11 Atti del Convegno nazionale degli studenti comunisti, «Nuova Generazione», supplemento al n. 17, 6 luglio 1968. 12 ibidem. 13 ibidem. 14 C. Petruccioli, L'assemblea e la delega, «Rinascita», n. 12, 22 marzo 1968. 15 Cfr. Mozione del CC del Pci del 27-28 marzo, in «Atti del convegno nazionale», cit. 16 L. Longo, Su alcuni aspetti della campagna elettorale, «Rinascita», n. 15, 2 aprile 1968. 17 C. Petruccioli, Studenti: come andare avanti, «Rinascita», n. 15, 2 aprile 1968. 18 Relazione di Giuseppe Chiarante al convegno «I comunisti e la scuola» ; vedi anche G. Chiarante, «La rivolta degli studenti», Editori Riuniti, 1968. 19 G. Amendola, Necessità della lotta sui due fronti, «Rinascita», n. 23, 7 giugno 1968. 20 ibidem. 21 M. Boato, I rapporti fra Partito comunista italiano e Movimento studentesco, «La Critica Sociologica», n. 17, 1971, ora in M. boato, «II '68 è morto, viva il '68», cit., p. 256 e sgg. 22 Cfr. Convegno nazionale quadri della Fgci, supplemento a «Nuova generazione», n. 18, 21 luglio 1968.

23 Cfr. Movimento operaio e movimento studentesco. Convegno Pci-Fgci, supplemento a «Nuova generazione», n. 24, 15 dicembre 1968; Cfr. G. Camboni D. Sansa, «Pci e movimento degli studenti, 1968-1973», De Donato, 1975.

8. Le elezioni e il maggio francese

Quasi contemporaneamente agli scontri romani, appare nelle edicole un numero de «La Sinistra» che diverrà famoso: in copertina la riproduzione della bottiglia Molotov con le istruzioni per l'uso, all'interno il servizio sugli strumenti di difesa e di attacco negli scontri con la polizia. La stampa scrive dell'università come di una possibile «scuola di terrorismo», mette sullo stesso piano «squadrismo di destra» e «squadrismo di sinistra». Mentre cresce l'offensiva moderata, «frange non secondarie del movimento studentesco nazionale hanno superato il dogma della legalità». Si conclude definitivamente l'epoca del pacifismo e della resistenza passiva. Esplode il movimento degli studenti medi. A Milano la lotta iniziata sin da gennaio, con l'assemblea e poi l'occupazione dei licei Berchet e Panni, sfocia in una carta rivendicativa che si muove sulle linee del movimento universitario. La mobilitazione cresce in tutte le grandi città: Bologna, Genova, Roma. Allo sciopero milanese, proclamato di fronte al rifiuto del diritto di assemblea, partecipano oltre seimila ragazzi. A Roma gli studenti degli istituti tecnici intervengono in massa all'assemblea del 9 marzo al Palazzetto dello Sport. Anche gli studenti medi vogliono dare «l'assalto al cielo», anche per loro il mito della rivoluzione diventa la molla fondamentale della politicizzazione, l'occasione per incontrarsi con l'impegno militante. Con grande enfasi e con trionfalistico orgoglio viene diffusa la Dichiarazione dei compagni cinesi in appoggio alla lotta degli studenti d'Italia, pubblicata dall'Agenzia Nuova Cina il 4 marzo. Commenta i fatti di Valle Giulia: «Roma è stata ripetutamente paralizzata e le autorità governative italiane sono state poste in agitazione negli scorsi giorni quando migliala di studenti universitari hanno tenuto dimostrazioni in questa città e hanno combattuto valorosamente contro la polizia fascista che li attaccava». E conclude inneggiando al marxismo-leninismo che anima la lotta rivoluzionaria degli studenti: «Nel corso delle loro dimostrazioni e persino negli scontri con la polizia, molti studenti progressisti hanno gridato "Viva Mao-Tse-Tung" e "Rivoluzione! Rivoluzione". Molti hanno affisso delle citazioni del presidente Mao-Tse-Tung lungo le strade nonostante le minacce della polizia armata sino ai denti». Nella primavera si manifesta uno scollamento fra la base e i vertici studenteschi. La relazione letta nell'assemblea della facoltà di architettura di Roma (18 marzo) dichiara finito il «periodo pioneristico» del movimento studentesco. Si accusano i vertici del movimento di monopolizzare le decisioni. Ormai gli studenti, afferma il

documento, «dopo una lunga partecipazione impegnata ed attiva», hanno acquistato consapevolezza, e superato la fase pre-politica dei primi giorni di occupazione: «Questa base è la nuova fonte del movimento studentesco, perché non è una massa numerica, ma una base cosciente, che prospetta un allargamento della lotta in forma mai raggiunta, ne sperata». Il potere accademico e politico, nel tentativo di ripristinare il vecchio ordine, interviene pesante con la repressione. Bobbio e Viale, già colpiti da mandato di cattura, dopo un breve periodo di «clandestinità» vengono arrestati. Inizia la pratica della schedatura di massa, la polizia presidia le università. Ma nella spirale occupazione-sgombero-occupazione aumenta la combattività studentesca, nascono le prime forme di illegalità, più o meno teorizzata e si diffonde il mito della violenza come elemento inseparabile dalla scelta rivoluzionaria. A Milano, all'alba del 25 marzo, scatta l'operazione di polizia per sgomberare la Statale. Come a Torino, Firenze e Roma, gli occupanti (cinquantasei studenti e due professori) sono identificati e schedati, ma stavolta l'elenco passa nelle mani della Procura della repubblica che ha ordinato lo sgombero. E la prima volta che la magistratura interviene con tale pesantezza. Due giorni prima vi è stato lo sgombero della Cattolica. L'intervento della polizia, sollecitato dal rettore Franceschini, segue il tentativo della parte più reazionaria del corpo accademico milanese di mobilitare le cosiddette forze sane per dividere gli studenti in lotta. Come già è accaduto in altre città, la mattina del 25 aprile si risponde con la resistenza passiva. Gli studenti della Statale si ritrovano con quelli della Cattolica fuori dei cancelli dell'università: cresce il clima di tensione. Alle tre del pomeriggio da via Festa del Perdono parte un combattivo corteo di oltre quattromila studenti. Ci sono tutti: quelli della Statale e della Cattolica, gli studenti di architettura e d'ingegneria, i rappresentanti della Bocconi e dei licei milanesi. Il corteo si ferma a piazza SantAmbrogio, a pochi metri dall'ateneo e l'improvvisata assemblea lancia un ultimatum al rettore Franceschini: esca e parli con gli studenti. Non si hanno risposte, si vuole rioccupare l'università, «la sede naturale degli studenti». Di lì a poco inizia la battaglia di Sant'Ambrogio, uno scontro violento coi poliziotti armati: la lotta si fraziona in feroci corpo a corpo, le cariche si susseguono, l'istituto Sant'Agnese viene occupato e subito sgombrato a colpi di bombe lacrimogene. Gli scontri proseguono per oltre un'ora: una cinquantina sono gli agenti feriti e un centinaio gli studenti, settanta i fermati. In serata il Comitato milanese di agitazione permanente proclama un'assemblea generale che si svolge ad architettura. Nel corso di essa si avverte il mutamento di clima: gli studenti hanno ormai abbandonato le carte rivendicative, le proposte programmatiche e le varie sperimentazioni didattiche. La parola d'ordine è la contestazione globale «dentro e fuori dell'università». Il 27 marzo, licei e istituti tecnici scendono in sciopero, si prospetta una grande manifestazione in piazza del Duomo. Studenti, assistenti e incaricati chiedono le dimissioni del rettore e del Senato accademico. Franceschini risponde denunciando alla magistratura cinquantuno universitari per istigazione a

delinquere, violenza e minacce. L'agitazione si sposta nella città, gli studenti fanno sit-in, megafonaggio e volantinaggio nei punti nevralgici. Gli studenti e non più le sole avanguardie, nell'impatto col «Potere», avvertono di essere un nuovo soggetto politico: il movimento studentesco nel suo insieme, oltre ogni teorizzazione, si è imposto come virtuale partito. Gli eventi successivi accelerano questa potenzialità e al tempo stesso concorrono a deviarla verso la polverizzazione del gruppismo. Nell'aprile, mentre è in atto la dura repressione degli organi dello Stato, la svolta del Pci, ma il clima prelettorale aumenta i timori di strumentalizzazione. Sulle elezioni e sul partito continua la discussione. I marxisti-leninisti di «Lavoro politico» non hanno alcuna esitazione: «Non votare per i nemici di classe», scrivono sul numero di marzo-aprile. Proseguono il loro attacco al revisionismo alleato del capitalismo nella gestione del sistema. Le elezioni altro non sono che «una truffa» perpetrata ai danni del proletariato dallo Stato e dal Parlamento, «strumenti della dittatura della borghesia». La loro parola d'ordine è annullare la scheda come mezzo di propaganda e come modo per contare i veri rivoluzionar!: «Non potendo raccogliere il consenso attorno ad una propria lista, i marxistileninisti devono chiedere ai rivoluzionari di manifestare il consenso alla giusta linea rivoluzionaria attraverso il rifiuto qualificato del proprio voto alle liste dei partiti della borghesia, e dei revisionisti loro lacchè. La scheda nulla contrassegnata da scritte o simboli rivoluzionari, è la parola d'ordine in cui si risolve oggi la propaganda e l'agitazione dei marxisti-leninisti italiani nella presente campagna elettorale. Attraverso di essa si educano i militanti dei partiti revisionisti a rompere con tali partiti e a rendersi disponibili praticamente per la costruzione del partito rivoluzionario» 1. All'obiezione di fare il gioco delle destre i marxisti-leninisti rispondono: «i partiti revisionisti italiani (Pci, Psiup) sono partiti controrivoluzionari che fanno il gioco della Dc». Nessun «fronte unito» con il «revisionismo», anzi il principale obiettivo è smascherarlo come nemico di classe, più pericoloso e insidioso dello stesso capitalismo. Da questa impostazione sviluppano la polemica con gli operaisti: «Per costoro si tratta unicamente di testimoniare la propria individuale rivolta contro i partiti in generale», scrive «Lavoro politico» rivolgendosi al gruppo di Potere operaio che, pur non atteggiandosi uniformemente, lancia la proposta del «voto rosso», un voto ai partiti della sinistra anche senza condividerne la linea. Oreste Scalzone, nellopuscolo Studenti, partiti ed elezioni politiche dopo una dura requisitoria contro il revisionismo, contesta la linea della scheda bianca come una forma di partecipazione subalterna al fatto elettorale, una sorta di «testimonianza documentaria del dissenso». Per Scalzone, anche se 1 elezione del Parlamento è un fatto estraneo alla logica del movimento, «occorre tenerne conto per i suoi effetti sul quadro politico senza cadere nella trappola di un aventinismo del tutto innocuo al sistema». La scheda rossa è solo un momento tattico della battaglia: «... la scadenza immediata che si pone su questa via in questo lavoro politico è battere

la De, il partito socialdemocratico, il governo di centro-sinistra che è l'espressione più significativa della fase attuale del sistema, della struttura di potere, del clima di questi anni» 2. La competizione elettorale si svolgerà in un paese in ebollizione; le giovani generazioni sognano una rivoluzione dai contorni indistinti e la loro critica al vecchio sistema di potere è radicale, mentre un logoro centro-sinistra tenta fino in fondo la carta della repressione e dell'appello alle forze moderate e conservatrici. Nell'accidentato percorso verso la definizione di una strategia politica globale, l'instabilità delle sedi di discussione e ravvicinarsi della scadenza degli esami incombono sulla tenuta del movimento. Intanto continua l'escalation della repressione. Alla vigilia della prova elettorale lo «Stato forte» vuole dare prova di sé. A Roma sono arrestati, per il furto di alcuni volumi dalla biblioteca di architettura, Massimiliano Fuksas e Sergio Petruccioli insieme ad altri studenti di giurisprudenza. Seguono altre incriminazioni. Un'accelerazione si realizza con la manifestazione del 20 aprile davanti al laboratorio militare Abc; il teach-in degli studenti è ripetutamente caricato dalla polizia. La stessa sera si sviluppa l'incendio doloso ai magazzini americani della Boston Chemical. L'attentato non è rivendicato. Tra il 22 e il 25 aprile vengono perquisite circa sessanta abitazioni, numerosi studenti sono incriminati, un centinaio sono interrogati. La stampa vicina al movimento scrive di «interrogatori ideologici» e di «processo alle idee». Il 25 aprile sono arrestati Franco Piperno e Antonio Russo che successivamente militerà nell'Unione dei comunisti italiani (m-1): sono accusati dell'attentato e insieme a loro sono denunciati per concorso e favoreggiamento altri sei studenti. Contro la repressione il 27 aprile si svolge una manifestazione in piazza Cavour. Sui cartelli le scritte: «liberate subito gli operai della Fiat e di Valdagno», «si tortura non solo in Vietnam ma anche a Roma», «Piperno-Russo liberi», «il potere nella scuola e nel lavoro si conserva con la violenza e la repressione». La manifestazione sta concludendosi quando iniziano le cariche: è una vera e propria caccia al sovversivo. Alcuni giorni dopo, durante l'assemblea dei professori di ruolo riunitasi per discutere dei problemi dell'università, numerosi docenti, fra cui Walter Binni, Bruno de Finetti, Gustavo Minervini e Giorgio Spini, firmano un documento contro l'autoritarismo. In una conferenza stampa Ferruccio Parri, il prestigioso leader della Sinistra indipendente, denuncia le «vergognose torture» cui è stato sottoposto Antonio Russo nel carcere di Regina Coeli. Nel memoriale che consegna alla stampa, lo studente si chiede: «a che cosa può portare questa struttura repressiva?». E risponde: «Non certo a recuperare alla società il detenuto ma a sviluppare in lui la paura e l'odio. Solo che la paura di tornare in carcere non è mai abbastanza forte da frenare l'odio». No al fascismo! titola l'editoriale di Ferruccio Parri sull'«Astrolabio». Esplode la grande fiammata del maggio francese: l'eversione auspicata da CohnBendit e dai suoi «arrabbiati», da Nanterre si propaga a macchia d'olio alla Sorbona e alle altre università francesi. Gli «arrabbiati» sono contro tutto il

sistema si scontrano duramente con la Cgt e il Pcf. Georges Marchais, in un articolo sul quotidiano del partito, si scaglia contro il Movimento 22 marzo e contro il suo leader Cohn-Bendit, definito sprezzantemente «l'anarchico tedesco». René Piquet, responsabile della gioventù comunista, critica apertamente le posizioni di Marchais mentre «l'Humanité», l'organo del partito, sembra voler ricucire il rapporto con gli studenti, allineandosi con le motivazioni che sono alla base della rivolta studentesca. Ormai la spaccatura è profonda ed è essa stessa una molla della rabbia movimentista. «L'Express», commentando la contestazione contro lo scrittore Aragon nel corso della manifestazione del 9 maggio, scrive: «L'autore dell'Homme comuniste ha constatato con dolore la nascita dell'Homme d'ultra gauche». La dura reazione dello Stato provoca un fronte comune fra studenti e sindacati. Lo sciopero generale proclamato dalla Cgt sembra essere la prova della vittoria studentesca: anche «il revisionismo» si deve piegare di fronte all'onda montante della rivolta. Sulle barricate di Parigi si infrangono i sogni facili, le utopie dell'«ora X», il velleitarismo di trascinare nello scontro la sinistra ufficiale. La lezione del maggio sarà amara. Ne derivano la conferma dello strappo operato nel corpo della sinistra e la riprova che l'affermazione del movimento come soggetto autonomo, capace di imporre una strategia della rivoluzione passa per strade del tutto inesplorate. Da ciò la consapevolezza che si è chiusa una fase della vita del movimento studentesco. Cresce il bisogno dell'organizzazione: non è possibile una rivoluzione senza teoria e senza un'organizzazione alternativa. Questo tema predomina la riflessione e 1 esperienza interna del movimento, marginalizzando ogni interesse sul significato del voto. Il 19 maggio si svolgono le elezioni politiche in Italia: saranno le ultime a scadenza ordinaria. L'operazione Psu (l'unificazione socialdemocratica) è nettamente sconfitta, avanza in modo consistente il Pci; il Psiup, alla sua prima competizione elettorale, raggiunge il 4,5 per cento dei voti. Sorprende la tenuta della Dc accompagnata dalla secca sconfìtta delle destre. Alimentano il voto alla Dc, in particolare per le giovani generazioni, le molte spinte a una mutazione dei caratteri dell'impegno sociale dei cattolici. Il sommovimento che contrassegna il tradizionale pensiero della sinistra, trova diversi parallelismi negli scossoni ideologici che si manifestano nell'arcipelago del collateralismo cattolico. Aspetti diversi di questo processo sono il discorso autocritico di Moro sul Sessantotto e sui giovani, l'itinerario di «Questitalia» e dello spontaneismo cattolico, le novità che caratterizzano il sindacalismo cislino. Nel loro complesso le elezioni segnano uno spostamento a sinistra, tuttavia agli elementi dinamici che si sono introdotti nel quadro politico non corrisponde una sua modificazione. Ancora una volta permane un divario profondo fra le aspettative e il governo del paese. Per le avanguardie del movimento è un'altra conferma della necessità di forzare i tempi e le forme della politica. La rivista «Lavoro politico» continua con il suo pedagogismo ideologico la campagna sul partito: «Primo dovere di ogni rivoluzionario è costruire il partito

che guiderà le masse alla rivoluzione» 3. Il gruppo di Walter Peruzzi cerca di superare il propagandismo settario del Pcd'I facendo leva sulle contraddizioni irrisolte del movimento e cercando di tradurre in organizzazione l'adesione degli studenti al maoismo e alla Rivoluzione culturale. Nelle citazioni del libretto rosso si trovano i principi della costruzione del partito, i caposaldi ideologici della milizia politica; le tensioni politiche del movimento sono strumentalmente ridotte al semplicismo dell'assioma: per sconfiggere i partiti revisionisti è necessario il partito rivoluzionario, un partito rivoluzionario può vivere solo se animato da una teoria e questa è il marxismo-leninismo. Per «Lavoro politico» senza questo passaggio si cade nel movimentismo fine a se stesso che è incapace di liberarsi definitivamente dall'ipoteca revisionista. Nel numero di luglio, la rivista riflettendo sulla lezione del maggio francese, sviluppa una serrata critica alle illusioni elettoralistiche e afferma l'ineluttabile necessità del partito della rivoluzione. Le elezioni sono una «truffa della borghesia», essa vi ricorre «quando il processo rivoluzionario non è ancora riuscito a maturare una reale coscienza di classe nella maggioranza degli sfruttati». Il risultato elettorale è dunque scontato: non può che essere favorevole alla borghesia. Peraltro la mancanza di un partito «rivoluzionario» costringe gli elettori a scegliere fra partiti egualmente integrati nel sistema borghese e quindi innocui. Diverso l’atteggiamento quando il processo rivoluzionario ha già costruito una solida presenza fra le masse ed esiste un reale partito rivoluzionario. In questo caso «la borghesia ricorre al colpo di stato fascista, liquida l'organizzazione rivoluzionaria e sopprime le "libere" elezioni» 4. Dalla Francia la conferma di questa «tecnica». De Gaulle «ha indetto le elezioni sapendo che il movimento rivoluzionario era ancora limitato alla classe operaia e agli studenti (i quali non avrebbero votato) mentre non aveva ancora saputo stabilire giusti collegamenti con la classe contadina e piccolo-borghese, la quale poteva essere conscguentemente manovrata — agitando lo spettro del comunismo — dalla propaganda gollista». Contemporaneamente De Gaulle «si è assicurato che le organizzazioni impegnate ad estendere il movimento rivoluzionario fossero messe nell'illegalità prima delle elezioni, in modo che queste non potessero essere turbate da "incidenti" o da attentati alla "legalità" del regime borghese». Dunque un risultato scontato; «La piccola borghesia reazionaria, i contadini coi quali nessuna forza politica aveva ancora stabilito giuste alleanze, non potevano che votare per De Gaulle. Gli operai delusi e traditi, hanno in parte votato "il più a sinistra possibile" spostando mezzo milione di voti dal Pcf al Psu, in parte hanno disertato le urne dimostrando di aver così inteso il tradimento e la truffa perpetrata nei loro confronti. Gli studenti — che erano nelle piazze a scandire "elezionitradimento" — non erano però nelle cabine elettorali»5 . Così la borghesia ha vinto con lo strumento pacifico, ma ha fatto intendere ai francesi «con il richiamo di Salan, Massu, Bidault e la formazione di squadre dedite alla tortura» di essere pronta ad usare altri strumenti, pur di conservare la sua «dittatura». Ne deriva

l'insegnamento fondamentale: «L'impossibilità di una via pacifica al socialismo, la necessità della presa rivoluzionaria e violenta del potere». Uno schema interpretativo che alimenta e sostiene l'assillante bisogno organizzativo delle aree più politicizzate del movimento. Analogamente a «Lavoro politico», anche se con un diverso retroterra culturale, «Nuovo impegno» insiste contro lo spontaneismo: stanno maturando le condizioni del dibattito dell'autunno-inverno con la conseguente scissione del gruppo redazionale.

1 Non votare per i nemici di classe, «Lavoro politico», n. 5/6, marzo-aprile 1968. 2 O. Scalzone, «Studenti, partiti ed elezioni politiche», Libreria Feltrinelli, 1968, p. 50 e p. 54. 3 Senza partito niente rivoluzione, «Lavoro politico», n. 7, maggio 1968. 4 ibidem 5 ibidem.

9. L'ottobre rosso degli studenti

II movimento entra nella sua fase estiva. Il dibattito e la pratica si sviluppano in mezzo a molte puntigliosità ideologiche, orbitando attorno al dilemma del partito e dell'organizzazione. Prosegue, acutizzato dai fatti francesi, lo scontro col revisionismo. L'invasione sovietica della Cecoslovacchia è un nuovo shock. Contro il socialismo di Stato che soffoca le libertà, contro il socialismo burocratico e imperiale, si ribella il protagonismo sessantottesco. Il giorno stesso dell'ingresso a Praga delle truppe del Patto di Varsavia con una coraggiosa presa di posizione dell'Ufficio politico «i comunisti italiani giudicano ingiustificato ed esprimono il loro dissenso per l'intervento militare in Cecoslovacchia». Ancora una volta si fanno i conti con lo stalinismo e tornano gli interrogativi che hanno originato il dissenso interno alla sinistra a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta. La conferma del ruolo di potenza imperialista dell'Urss si accompagna alla speranza che si riversa sul maoismo della «Grande rivoluzione culturale». Già prima degli eventi cecoslovacchi, il convegno di Venezia (8-9 giugno) e il convegno di Trento (23 giugno), entrambi sul tema «operai-studenti», segnano un'accelerazione in dilezione di un autonomo rapporto del movimento con la classe operaia. A Venezia riemergono i gruppi minoritari, riaffiorano le contrapposizioni ideologiche e i meccanici accostamenti fra lotte studentesche e lotte operaie. Il dibattito, a cui partecipano militanti e intellettuali della sinistra ufficiale, non esce dal generico limitandosi alle postulazioni di principio. Le università si chiudono nella quasi totale indifferenza. La lotta sull'esame politico non riesce a galvanizzare, anzi introduce divisioni e qualunquistiche adesioni al movimento. Per i militanti formatisi nelle occupazioni e nelle manifestazioni di piazza la prospettiva è ormai il lavoro esterno, alla ricerca di quella classe operaia, tanto criticata quanto mitizzata. Mutuate dal sociologismo, ideologizzate attraverso una frettolosa e schematica lettura del maoismo, l'inchiesta e la pratica sociale divengono la metodologia di base del lavoro politico esterno all'Università, l'occasione per la formazione di veri e propri militanti a tempo pieno. In un documento del movimento studentesco romano si legge: «Per i nostri militanti questo è un vero e proprio banco di prova: superarlo vuol dire porre le basi per l'organizzazione rivoluzionaria nel paese; venirne sconfitti vorrebbe dire o chiudere la lotta nell'università con i pericoli riformisti di cui si è detto, o isterilire il movimento in un lavoro operaistico e senza sbocco. Gli studenti possono diventare dei militanti rivoluzionari strettamente legati alle

masse oppresse o possono invece rimanere studenti, ma per quanto ribelli, esterni alle masse. La nuova realtà universitaria non deve isolarsi, deve scardinare le vecchie barriere ideologiche, fare aria nei santuari marxiani, imporre una sperimentazione corretta e aderente alla linea di massa». Il convegno di Trento è convocato unitariamente dalla Fiom-Cgil, dalla Fim-CisI e dal movimento studentesco trentino. Per il sindacato partecipano i due segretari nazionali Bruno Trentin e Luigi Macario. Il vizio dell'astrattezza e dell' ideologismo, anche se avvertito, non è superato. La natura dell'impasse è evidenziata nello stesso foglio di convocazione: «L'obiettivo del convegno è un confronto fra le varie esperienze di sede che riescano a superare la pura cronaca degli avvenimenti o gli astrattismi ideologici dei teorizzatori di mestiere, per arrivare ad un approfondimento dei temi politici e ad un chiarimento sulle possibili strategie e tattiche del Movimento, in funzione del rilancio delle lotte a ottobre-novembre». Anche questa occasione comunque non produce sostanziali passi in avanti e la questione del rilancio del movimento studentesco è rimandata a un prossimo appuntamento fissato per settembre. Se il Nord attrae per le lotte operaie, il Meridione non esercita un minore fascino: le sue storiche contraddizioni sembrano un fertile terreno di sperimentazione per il terzomondismo nò-strano. Il populismo maoista vi cerca la grande occasione per far scoccare la scintilla rivoluzionaria. Nel Sud si è sviluppata una certa presenza del Pcd'I, dal Sud vengono le proteste di Cutro e di Isola Capo Pizzuto che sembrano rivitalizzare antiche tradizioni anarchiche e far riemergere il ribellismo popolare. Sembra possibile trasformare il Meridione in una «base rossa» da cui partire, applicando il principio cinese, per l'accerchiamento «dalle campagne alle città». In Calabria, nell'estate, si avvia la formazione dell'Unione dei comunisti marxistileninisti, mentre il Pcd'I si consuma definitivamente nella sua lotta interna, fino alla scissione di dicembre fra la «linea rossa» e la «linea nera». Le lotte alla Fiat hanno manifestato le crepe interne del movimento e il riflusso dell'estate concorre a far esaurire l'esperienza dell'assemblea operai-studenti di Torino. Dentro i gruppi operaisti si apre la questione dell'organizzazione. Indicativo del dibattito in corso l'articolo di Edoarda Masi su «Quaderni piacentini» di luglio La nuova sinistra e il problema dell'organizzazione. Il ragionamento della Masi enfatizza le potenzialità unificanti contenute nella consapevolezza dello scontro frontale al «sistema», e considera questo «fine comune» sufficiente a far dissolvere in prospettiva i gruppi «come entità isolate e differenziate». «Pur nelle divergenze di analisi, di impostazione, di tesi, esiste un comune denominatore che li unisce e che è riconoscibile non appena la coscienza minoritaria tende a farsi coscienza di massa». Anche se questa intenzionalità anima ogni singolo progetto di organizzazione, si dimostra del tutto illusoria ogni ipotesi unificante di «nuova sinistra». Tuttavia, in uno scenario contrassegnato da contrasti e costanti scissioni ma anche dal raggrumarsi di nuove esperienze minoritarie, si forma quella cultura

dell'insubordinazione sociale che alimenterà il sinistrismo. La galassia del movimento risulta attraversata da contrasti di fondo, l'irrisolto dissidio operaismo/marxismo-leninismo è reso ancor più confuso e osmotico dall'eclettismo culturale che accompagna l'approccio generazionale al mito rivoluzionario. Il forzato processo di autorganizzazione cristallizzerà sempre più le posizioni dando vita alla proliferazione minoritaria. Il 2 e 3 settembre il nuovo appuntamento nazionale a Venezia: tutta la stampa nazionale da grande risalto all'iniziativa, molti sono i tentativi di deformarne la natura. «L'Espresso» titola L'ottobre rosso degli studenti 1. Dai lavori delle varie commissioni si ricava una prima sintesi delle posizioni a confronto. In nuce rappresentano le linee teoriche delle diverse formazioni. Il gruppo di lavoro sulla scuola fa una radiografìa delle posizioni che coesistono nel movimento: Torino, Trento, Genova e in parte Venezia, sono considerate uno sviluppo della strategia del «Potere Studentesco»; Milano, criticata per il suo movimentismo, è tutta protesa nel rapporto con le lotte esterne all'università, mentre a Roma la situazione si presenta fluida e si avverte più che altrove la presenza dei marxisti-leninisti. A Roma, nel suo eclettismo, la linea maggioritaria del movimento imposta: «una lotta contro tutte le istituzioni dello stato borghese, rifiutando le mediazioni sindacali e parlamentari e proponendo invece una linea politica che si sviluppi dall'interno delle lotte, che accetti e superi i livelli di scontro raggiunti attraverso una violazione costante e consapevole delle regole del gioco borghese, rappresentata dai canali istituzionali, attraverso cui viene generalmente recuperata la potenzialità eversiva della lotta». Analogo tentativo di classificazione delle varie posizioni e insieme di bilancio critico viene operato nelle altre due commissioni, «Lotte operaie e contadine» e «Quartieri». La lotta contro l'autoritarismo nella scuola è ormai diventata il pretesto di una più generale prospettiva strategica del movimento. In una delle relazioni al convegno, quella di Pino Ferraris, si legge: «L'apporto più originale e sconvolgente delle lotte studentesche non consiste tanto nelle idee e nella volontà di contestazione globale, ma nell'esistenza stessa del Movimento studentesco come movimento politico di massa». In quanto tale, si prosegue, esso rappresenta «la critica vivente della strategia riformista» 2. È in questa consapevolezza la natura della contraddizione fondamentale in cui si dibatte il movimento: il problema del suo sbocco politico. Il ragionamento di Vittorio Rieser orbita attorno a quella che è considerata la contraddizione fondamentale dei partiti comunisti, «che hanno bisogno di creare una grande forza di lotta e di pressione per il loro inserimento al governo ma al tempo stesso non possono non praticare una alleanza sostanziale con la borghesia e con la socialdemocrazia». Da ciò il carattere meramente tattico della svolta di aprile che serve al Pci per «non lasciarsi sopravanzare da una spinta di lotta incontrollata». Dunque l'esigenza di un'alternativa. La sua comunicazione insiste sulla validità della lotta antiautoritaria come prospettiva strategica del movimento, si presenta come una piattaforma politica.

Contro ogni impostazione restrittiva, questa acquisizione fondamentale del movimento studentesco si deve estendere a tutto lo scontro di classe: «Non sempre si opera una connessione, esplicita e sistematica, tra le forme dell'autoritarismo e le forme dei rapporti di produzione che definiscono i rapporti di classe nella attuale società capitalistica. Questa connessione esplicita e sistematica è necessaria se la lotta anti-autoritaria viene vista come elemento di continuità strategica dell'azione del Movimento studentesco e non come aspetto tattico transitoriamente importante» 3. Oreste Scalzone va oltre l'individuazione di questi nessi: la necessità di una lotta antistituzionale e antiautoritaria significa: «scontrarsi con la scuola, impedirne la riforma; realizzare una mobilitazione di massa degli studenti contro l'uso capitalistico della loro condizione; intervenire nelle lotte svolgendo un lavoro di collegamento e di generalizzazione: significa organizzare le tensioni, far nascere dallo scontro l'organizzazione della lotta, agire nel presente, cominciare a costruire il tessuto, la trama, capace di stringere alla gola il capitale, fino a sopprimerlo» 4. In sintonia con Scalzone, Franco Piperno propone «l'annullamento dell'anno accademico» per contrastare il piano di ristrutturazione capitalistico in un suo punto decisivo. A suo avviso la saldatura fra lotte operaie e lotte studentesche non consiste «in una negazione parallela dell'autoritarismo nell'Università e nella fabbrica», ma nell'obiettivo generale dello «scardinamento» dei piani del capitale 5. Su «Rinascita» Gianfranco Borghini, individua nel convegno due linee «profondamente contrastanti» fra loro. Nell'animato dibattito, infatti, si confrontano la negazione del partito politico e al tempo stesso la sollecitazione della sua rifondazione, affermando il ruolo autonomo dei movimenti di massa e quindi dello stesso movimento studentesco 6. L'interpretazione di Borghini risulta funzionale alla riflessione della Federazione giovanile comunista, e tende a sottovalutare la carica autorganizzante che si sta affermando dentro il movimento e la rottura ormai operatasi con la sinistra storica. Commentando i risultati del convegno in un'intervista al settimanale «Settegiorni», Marco Boato precisa: «Le caratteristiche che deve avere lo sbocco politico del movimento, dimostrano che esso deve intendersi non come ipotesi di un unico scontro frontale, generalizzato e definitivo a breve scadenza, ma come un lungo processo che si prepara e si costruisce attraverso l'organizzazione e la caratterizzazione politica di tutte le lotte sociali; lotte che sono potenzialmente antagonistiche e che si determinano ed esplodono in rapporto al radicalizzarsi delle contraddizioni strutturali del sistema sociale neo-capitalistico ed imperialistico e dal loro riflettersi sempre più diretto e brutale su tutte le istituzioni sociali». In sostanza si è aperto «il problema della rivoluzione a livello mondiale» e si è decretato, con la nascita del movimento, l'anno della «definitiva morte politica di Togliatti, della strategia delle riforme di struttura e della via italiana al socialismo» e «di tutto il sistema dei partiti comunisti legati all'Unione sovietica».

Il convegno di Venezia rappresenta il bilancio di un'intera fase di lotta del movimento e segna, nell'asprezza del confronto e nella ripresa dell'egemonia del minoritarismo, l'apertura di un nuovo ciclo di lotta. L'impossibilità di rimandare un'unificazione strategica resta un'intezione. Prende il sopravvento il dogmatismo. Il confronto con le lotte operaie e le brusche accelerazioni all'autorganizzazione accentuano le reciproche diffidenze. Il 4 ottobre del 1968 aree consistenti del movimento studentesco romano (Luca Meldolesi, Nicoletta Stame, Enzo Caputo, Maria Sebregondi. Rocco Pellegrini), il gruppo milanese ex Falce e Martello (Brandirali, Bonriposi) e alcuni militanti del Psiup di Paola (Enzo Lo Giudice) formano la direzione nazionale dell'Unione dei comunisti marxisti-leninisti e si autodefiniscono «il nucleo d'acciaio» che deve costituire il partito rivoluzionario. Di lì a poco uscirà il primo giornale di un gruppo organizzato, «Servire il popolo». Con l'atto volontaristico di quel piccolo gruppo si è sciolto il problema dell'organizzazione: l'Unione nazionale di una fitta trama di contatti e comincia ad agire da partito. Sempre sul fronte dei marxisti-leninisti si va intanto definendo la scelta di campo di «Lavoro politico». Nel numero di settembre la rivista, proseguendo nella rilettura in chiave marxista-leninista del revisionismo, sviluppa un forte attacco ai limiti del movimento studentesco e ai risultati contraddittori del convegno di Venezia. Considerando la «sovversivistica e piccolo-borghese», critica la rivendicazione della autonomia del movimento rispetto alle altre forze sociali. Contro questa tendenza che produce costanti deviazioni e un sostanziale opportunismo nei confronti del revisionismo, per «Lavoro politico» non e' è altra strada che il «Partito», estendere la sua capacità egemonica e combattere l'influenza dei revisionismo fra le masse studentesche. Matura l'approccio al Pcd'I. Viva il Partito comunista d'Italia titola con enfasi l'editoriale della rivista di novembre-dicembre. Nel comitato di redazione non figura più Renato Curcio, mentre il resto del gruppo di Walter Peruzzi confluisce nel troncone della «linea rossa» e ha un ruolo determinante nella scissione di dicembre. Se i marxisti-leninisti sciolgono con una spinta soggettiva la questione dell'organizzazione, più complesso si presenta il dibattito negli altri comparti del movimento e negli stessi gruppi minoritari antecedenti al Sessantotto. Il superamento della microrganizzazione territoriale, esigenza avvertita già alla fine del 1967, all'apice della scomposizione-ricomposizione dell'operaismo, è rimasto senza risposta e di fatto è stato scavalcato dall'esplosione del movimento. Lo sfaldamento, che caratterizza la ripresa, ripropone con nuova attualità il bisogno di dare punti di unificazione e di incanalare in una forma strutturata, pena una sua dispersione, il potenziale rivoluzionario che si è espresso nel corso delle lotte. L'esasperata ricerca di una propria identità teorico-politica, capace di egemonizzare l'intero movimento e l'insieme della «nuova sinistra», ideologizza le reciproche differenze. Si forma così una miriade di microteorie che si rivolgono ai medesimi interlocutori sociali, che operano sulla stessa platea di reclutamento, che formano nella dialettica unita-diversità, organizzazione-spontaneità, operaismo-

maoismo, le peculiarità delle singole formazioni e al tempo stesso i caratteri osmotici dell'estremismo postsessantottesco. Tra la fine del 1968 e la fine del 1969 si definisce la nuova geografìa dell'operaismo. Con l'editoriale Rivoluzione culturale ed organizzazione del numero 14/15 dell'aprile 1969, «Nuovo impegno» prende le distanze da Potere operaio, orientando la propria scelta politica nella dirczione marxista-leninista della presenza esterna al movimento e quindi optando per la soluzione del «partito». Attorno al nodo dell'organizzazione, le due relazioni di Adriano Sofri e Luciano della Mea sul rapporto avanguardia-massa nel dibattito promosso da Potere operaio nel settembre 1969 rappresenteranno nella loro diversità i punti di approdo a cui è giunta eterogenea esperienza del gruppo e la natura del processo di scomposizione che si avvierà. Si darà vita successivamente alle due distinte strutture dell'operaismo: Adriano Sofri diventerà leader della costituenda Lotta continua mentre per il versante veneto-romano, Piperno, Scalzone e Negri raccoglieranno l'eredità di Classe operaia interpretandola in una chiave organizzativa. Diversa la storia del gruppo di «Nuovo impegno»: Cazzaniga e Campione formeranno il Centro Carlo Marx, mentre Luciano della Mea, Romano Luperini e la maggioranza del collettivo redazionale insieme ai quadri di Massa e Carrara, La Spezia, Pisa e Firenze daranno vita alla Lega dei comunisti italiani. Sarebbe erroneo, nel considerare questo processo di nuova articolazione, non aver presenti gli effetti che derivano dagli esiti del XII congresso del Pci, gli elementi di novità introdotti dalla vicenda del «Manifesto», l'abbassamento generale della tensione politica attorno ad un movimento studentesco, che alla ripresa autunnale non ritrova il suo slancio e infine l'eccezionalità delle lotte sindacali che mutano sostanzialmente lo scenario della lotta politica italiana. L'anno degli studenti si chiude in modo drammatico. Nella notte di Capodanno, a Viareggio la polizia spara contro operai e studenti che manifestano davanti al lussuoso locale «La Bussola». Soriano Ceccanti, un ragazzo di 16 anni, è colpito: rimarrà paralizzato per sempre. Sono arrestati quaranta fra studenti e operai. Il comunicato dell'ufficio politico del Pci afferma: «Nessuna giustificazione può esistere per l'impiego di reparti armati di polizia contro i giovani dimostranti di Viareggio, e il ricorso alle armi anche da parte di singoli agenti non può che definirsi criminoso» 7'". Sono trascorsi pochi giorni dai fatti di Avola, dove la polizia ha sparato contro i braccianti. Governo e polizia sono reticenti, deformano i fatti attribuendo le responsabilità ai manifestanti, Pci e sindacato chiedono in Parlamento il disarmo della polizia nei conflitti sociali. La stampa conservatrice e reazionaria si scatena contro gli studenti. «La Nazione» definisce «fascisti» i giovani di Potere operaio pisano. «Il Tempo», in prima pagina, scrive: «la gente comincia ad armarsi, per difendersi e sostituirsi cosi a chi dovrebbe (lo Stato) opporsi al disordine».

1 G. Bultrini, M. Monicelli, L'ottobre rosso degli studenti, «L'Espresso», n. 38, 22.settembre 1968; sul convegno di Venezia cfr. «Settegiorni», n. 66, 15 settembre 1968. 2 P. Ferraris, I movimenti politici di massa, «Monthly Review», n. 10, ottobre 1968. 3 V. Rieser, Movimento studentesco e la lotta di classe in Europa, «Monthly Review», n. 10, ottobre 1968 4 «Monthly Review», n. 10, ottobre 1968 5 ibidem 6 G. Borghini, II movimento e le sue prospettive. Studenti alla vigilia di nuove lotte, «Rinascita», n. 36, 13 settembre 1968. 7 «l'Unità», 2 gennaio 1969

VI LE STRATEGIE DELLA TENSIONE

1. I partiti del sinistrismo

II problema dell'organizzazione alternativa al «partito revisionista» ha avuto una lunga incubazione: per oltre un decennio la ricerca e la sperimentazione politica della nuova sinistra ha orbitato attorno a questo tema. Il Sessantotto segna la svolta. Nel corso delle agitazioni studentesche, nella dialettica fra avanguardia e movimento, cresce la necessità di una dirczione politica unitaria. Tuttavia i numerosi convegni nazionali dei quadri non riescono nell'intento di fornire un momento centralizzato di dirczione e unificare gli obiettivi di lotta in un comune indirizzo strategico. Peraltro la tanto rivendicata autonomia del movimento, è messa costantemente in discussione da un leaderismo che egemonizza le assemblee studentesche riducendole spesso a una cassa di risonanza in cui le linee dei gruppi si scontrano senza trovare una sintesi compiuta. Nonostante questi limiti si diffonde la «pratica sociale» degli studenti, un apprendistato politico vissuto come una scelta esistenziale. La riflessione sui fatti del maggio francese, combinandosi con il riflusso estivo del movimento, accelera il bisogno di autorganizzazione. «La rivoluzione non si può fare senza partito!», affermano perentoriamente i marxisti-leninisti, mentre gli operaisti si dividono sulla forma che deve assumere l'organizzazione. Nella breve memoria storica del Sessantotto la lezione negativa è rappresentata dal Pcd'I col suo forzato volontarismo, un'esperienza che non si vuole ripetere. Eppure non è facile scegliere tra la rigidità di una struttura centralizzata e la fluidità di un movimento che ha dimostrato la sua disponibilità alla rivoluzione. I gruppi, anche se nelle lotte universitarie si sono mimetizzati, hanno avuto un ruolo decisivo per le loro teorie e per la capacità aggregativa dimostrata nei momenti cruciali. Dalle loro file sono emersi i nuovi leader di massa, mentre i quadri più interni al movimento sono attratti dalla loro pervicace volontà a farsi organizzazione. Spinge in questo senso la volontà di raccordarsi alla classe operaia, superando l'ambito universitario e facendo assolvere al movimento un

ruolo politico generale. Non si tratta solo della tensione volontaristica dei quadri più attivi nelle lotte, ma piuttosto dell'effetto di un clima in cui l'antirevisionismo non si limita ad alcune avanguardie ma è un sentimento diffuso che, prima ancora di ogni giudizio teorico, esprime l’ esigenza di un diverso modo di fare politica. All'interno di questo clima lo stesso risultato elettorale del maggio ha una duplice valenza: dimostra il potenziale soggettivo «disponibile al comunismo», ma al tempo stesso aumenta la necessità di sottrarre al Pci la possibilità di gestire politicamente tutte le forme di contestazione. Si ritengono ormai mature le condizioni soggettive e oggettive di una transizione rivoluzionaria. Non contano i reali rapporti di forza, occorre restituire la coscienza rivoluzionaria a una classe operaia ancora troppo integrata nel sistema e quindi liberare le forze disponibili dall'egemonia del revisionismo, dei sindacati, della partitocrazia. Se comune è l’esigenza di un'unificazione strategica, le divisioni si manifestano sulle caratteristiche e sui tempi della costruzione del partito rivoluzionario. Pur affermando il valore dell'organizzazione non è facile separarsi dal movimento studentesco che rimane la base essenziale del reclutamento delle diverse formazioni. I gruppi, con il loro policentrismo, saranno una componente decisiva del suo dissolvimento. Progressivamente il movimento degli studenti perderà la sua identità. Dietro la sua sigla, in particolare a Milano, ma con ramificazioni in molte città, il gruppo capeggiato da Mario Capanna, Salvatore Toscano e Luca Cafiero, lotta contemporaneamente contro il revisionismo e contro l'avventurismo. Il secondo obiettivo, messo in discussione dai gruppi più oltranzisti interni ed esterni al movimento, non sarà sempre raggiunto. Mentre entrano in scena gli studenti medi, i protagonisti del Sessantotto, dai leader delle assemblee universitarie ai militanti di base, transitano nei minipartiti dell'estremismo. Quanto più si rinsecchirà il movimento tanto più prenderà sopravvento il gruppo. L'organizzazione è anche un bisogno per chi, incontratosi con la milizia attiva, non ha referenti certi. Insieme alle teorie, le solidarietà studentesche, le amicizie giovanili, la storia delle singole facoltà, la stessa mobilità della popolazione universitaria, formano la trama su cui si innerverà il fenomeno dei gruppi e spiegano le ragioni delle trasmigrazioni da gruppo a gruppo. Una fluidità solo apparentemente in contraddizione con la rigidità ideologica delle singole formazioni. Nel suo itinerario organizzativo, ogni gruppo si cimenterà con gli altri, cercherà d'imporre la sua egemonia e al tempo stesso, contro il rischio dell'isolamento ma non senza trasformismi, sfrutterà le possibili connessioni. Nodo irrisolto rimarrà il rapporto fra autonomia del movimento e centralizzazione. Fra questi due poli oscillerà la storia delle formazioni minoritarie, la costruzione di tanti minipartiti e la loro progressiva ed endemica negazione in un costante alternarsi fra dirczione e spontaneità. Davanti alle fabbriche, con i militanti sindacali e con quelli del Partito comunista, il dibattito è acceso ma non raggiunge le asprezze e le rotture dell'anno successivo: discussioni estenuanti sul revisionismo, la rivoluzione culturale, la natura del

capitalismo e delle forze politiche; si contestano l'unità di vertice e l'iniziativa del sindacato. Si raccoglie qualche consenso fra gli operai. Non è difficile passare dalla critica alle commissioni interne, organismi ormai logori e invecchiati, a quella più generale all'organizzazione sindacale. La classe operaia non guarda con fastidio alla presenza studentesca davanti alle fabbriche, è disponibile all'incontro. Rappresenta una novità rispetto al passato, non si tratta del «gruppetto» ma di un movimento, esprime una nuova alleanza sociale. Le cose cambieranno quando i gruppi torneranno con una propria fisionomia, quando scavalcare e denigrare il sindacato sarà il loro disegno principale. Gli studenti si sentono «guardie rosse», debbono portare la linea giusta, debbono vivere la vita del popolo, denunciare il revisionismo contrastare la rinuncia alla rivoluzione e la politica degli accordi di vertice. Sono caratteristiche comuni della milizia del maoista e dell'operaista. Ancora una volta pionieri del partito si fanno gli emmellisti. Dopo una breve e confusa presenza politica nel meridione, sin dall'ottobre '68, l'Unione dei comunisti italiani si autoproclama «nucleo d'acciaio che costruisce il partito». Alimentano il gruppo studenti in cerca di identità, vogliosi di trovare nella pratica sociale una loro dimensione e di mettere la politica al primo posto. Per loro il movimento studentesco è stato un decisivo terreno di sensibilizzazione e maturazione politica, ma proprio per le sue caratteristiche ha dato alla politica una dimensione globale che non sempre si ritrova nella singola esperienza di quartiere o di fabbrica. Sul mito dell'organizzazione si scarica la difficile riconciliazione fra la radicalità del movimento studentesco e la quotidianità della pratica politica. Nel superamento di questa contraddizione nasce l'esigenza di reinterpretare alla luce di una mitica unificazione strategica la stagione del movimento. Senza la comprensione di questo passaggio di fase risulterebbero incomprensibili esperienze come quella dell'Unione, il dogmatismo ideologico e le battaglie di principio che si sviluppano fra i vari gruppi. Attraverso difformi itinerari biografici, dopo l'esaltazione delle giornate d occupazione e l'euforia delle «battaglie», i militanti sperano di superare l'anonimato della gestualità collettiva e la passività di un'assemblearismo inconcludente nel «gruppo». Alla ricerca di una forma più strutturata del fare politica gli studenti incontrano il minoritarismo, subiscono il fascino dell operaismo, l'attrazione del maoismo coi suoi principi comportamentali e con i suoi richiami al «partito». Soggiogati da Operai e capitale di Tronti e dalle letture delle «riviste»; al Nord «battono» le fabbriche: Porto Marghera, la Fiat, la Pirelli, l'Alfa. Il Meridione, con le sue storiche contraddizioni, con le sue masse contadine e popolari, ribelli ma incapaci di reagire al sistema come all'egemonia revisionista, è idealizzato come laboratorio rivoluzionario. L'assalto al municipio di Cutro, nel novembre '67, da parte di braccianti e contadini guidati da militanti del Pcd'I è assunto come simbolo di un forte potenziale antistituzionale. Non si è trattato di un episodio isolato ma può generalizzarsi. Tutto il Sud è pronto a infiammarsi, basta accendere la scintilla della rivoluzione.

Sullo sfondo dei vari ripensamenti autocritici dei convegni dei quadri e delle assemblee operai-studenti, solo la pratica politica può risolvere gli annosi conflitti fra operaismo e maoismo. Lo scegliere fra una formazione o l'altra è un passaggio inevitabile in una fase di transizione, ma la prospettiva finale rimane sempre l'unificazione di tutte le forze della nuova sinistra. Anche il successo del singolo gruppo passa per la credibilità che volta per volta saprà dare di questa possibilità. Nell'estate del '68, un segno premonitore di quello che sarà l'autunno caldo, le lotte per l'abolizione delle gabbie salariali. L'innesco delle agitazioni, che presto assumeranno carattere nazionale, è uno sciopero dai forti tratti spontanei nella provincia di Latina. I gruppi non sono ancora una realtà, anche quando dietro c'è un embrione di organizzazione, i volantini degli studenti spesso sono firmati genericamente Movimento studentesco. L'Unione dei comunisti italiani, tra la seconda metà del 1968 e la fine del 1969, sfrutta la crisi di riflusso del movimento studentesco. Il suo sviluppo organizzativo evidenzia un passaggio costante nell'area estremistica: alla carenza di linea politica si supplisce con l'ideologismo. Il gruppo risponde con un sistema dogmatico e una forte organizzazione al diffuso bisogno di superare i limiti dello spontaneismo. Enfatizza il suo proclamarsi partito, presentando questa scelta come una condizione per la definizione di una strategia rivoluzionaria e per un reale radicamento fra le masse. Premesse indispensabili per la definizione della sua linea sono la militanza, l'intervento, la pratica sociale. Sul piano ideologico-teorico il maoismo è la garanzia contro il revisionismo del Pci. L'Unione è la prima organizzazione a staccarsi dal movimento studentesco e a contestare la pratica delle manifestazioni unitarie col sindacato. Alla fine del 1968, in occasione della manifestazione sindacale per la riforma pensionistica, decide in opposizione alle altre componenti del movimento studentesco, di organizzare un contro-corteo. Intanto nelle università le assemblee si dividono sul tema dell'organizzazione. I gruppi prendono il sopravvento mentre l'autonomia del movimento stenta ad affermarsi. L'anno degli studenti sembra prolungarsi nel gennaio del nuovo anno, ma è una breve fiammata. La lotta dell'università di Roma, più volte occupata e sgomberata dalla polizia, si conclude il 27 gennaio, il giorno della visita nella capitale del presidente americano Nixon. I carri armati dei carabinieri entrano nell'università, la città è punteggiata di scontri. Alla facoltà di Magistero, cercando di sfuggire alla polizia, «coadiuvata» nello sgombero dai fascisti, muore lo studente Domenico Congedo. Ormai è la volta degli studenti medi, saranno loro il futuro del movimento. L'università non è più il centro motore delle lotte, tutta l'attenzione si sposta sulle lotte operaie. Con il suo XII congresso, appuntamento atteso senza illusioni, il Pci non riesce a conciliarsi con l'antirevisionismo del movimento. La relazione di Longo riconosce il valore generale della rivolta degli studenti, tuttavia questa scelta non è sufficiente a ridurre le divergenze e la qualità del dissenso interno. Accanto ai

temi internazionali e alla concezione del partito, divide la questione dei tempi e dei modi della transizione al comunismo. Dalle diverse risposte a questi interrogativi derivano i contrasti sulla natura e sugli esiti dei conflitti sociali e del loro rapporto col sistema istituzionale e politico. Sarà questo il terreno principale dello scontro col «revisionismo». La prova verrà nel luglio 1969, con la battaglia di corso Traiano a Torino, uno snodo decisivo verso 1 organizzazione del sinistrismo. Alla vigilia delle lotte dell'autunno caldo si definiscono le linee e gli strumenti organizzativi dell'operaismo. Dopo corso Traiano e il deludente esito del convegno nazionale delle avanguardie autonome, la scissione. A settembre il gruppo de «La Classe» dà vita a Potere operaio e il primo novembre esce «Lotta continua». Nel Pci il dissenso si coagula attorno al «Manifesto». La rivista esce dall'estate del 1969: è una novità senza precedenti, il partito è messo sotto accusa dall'interno, da quadri di indubbio prestigio nazionale. Nell'autunno vi sarà la radiazione del gruppo dal partito. Intanto le riviste si schierano più o meno organicamente con i vari gruppi e anche quando la loro posizione rimane autonoma, come nel caso dei «Quaderni piacentini», insistono sul tema dell'organizzazione. Si è ora di fronte a precise strutture politiche, con le loro teorie e pratiche, con i loro apparati, i loro strumenti di propaganda e di reclutamento. Il primo impatto verrà con le lotte operaie dell'autunno. Per l'Unione sarà la crisi: l'astratto «governo degli operai, contadini e studenti» non risveglia le masse, è una retorica evocazione del tutto avulsa dai concreti sviluppi dello scontro contrattuale. Potere operaio al momento della presentazione delle piattaforme sindacali sceglie la scorciatoia del «tutto e subito», isolandosi così dal corpo della classe operaia. Esorcizzando la sconfitta subita all'insegna della «violenza operaia» decide un'ulteriore stretta organizzativa. Non imbrigliata da schemi ideologici precostituiti, Lotta continua non ripiega su se stessa e sfrutta tutte le contraddizioni per estendere la sua influenza su scala nazionale. Dà il massimo sfogo all'autorganizzazione delle lotte, moltiplicando le occasioni di scontro. Dopo le bombe di piazza Fontana il movimento e i gruppi si sentono braccati: inizia la caccia ali estremista. Alle lotte dell'autunno seguono le battaglie di piazza. Le parole d'ordine sono sempre più violente. Nelle manifestazioni lo squadrismo di destra cerca l'incidente, innesca la provocazione, spesso sotto gli occhi di una polizia compiacente. Alla gioiosità del Sessantotto segue la cupezza degli anni settanta, alla creatività dei cortei studenteschi seguono le barriere dei servizi di ordine. Fra paura del golpe e repressione, sotto lo stillicidio della violenza squadrista, un brusco richiamo all'asprezza dello scontro di classe. L'organizzazione è l'autodifesa, il sovversivismo della piazza con le sue guerriglie urbane rappresenta la disperata e minoritaria replica al sovversivismo dello Stato.

2. L'autunno caldo

Le lotte operaie del 1968-69 portano a compimento un intero ciclo della vita nazionale, mutano gli scenari sindacali, intervengono prepotentemente nell'assetto politico, fanno saltare precari equilibri economici introducendo nuovi livelli retributivi e diverse condizioni di democrazia in fabbrica. In concomitanza con le pesanti congiunture internazionali, la radicale messa in discussione delle basi su cui si fonda l'asfittico sistema produttivo, già sconvolto dalle ondate della «riscossa» operaia dei primi anni sessanta, produce un ulteriore aggravamento della crisi economica. Nella confusione del quadro politico, l'azione delle forze di governo è priva di ogni capacità e volontà riformatrice; manca la consapevolezza delle profonde correzioni che vanno introdotte per sanare gli squilibri economici e sociali, prevalgono le ipoteche di un sistema di potere fatto di assistenzialismo e di un equivoco intreccio tra industria pubblica e industria privata. Evidenzia questi limiti il Progetto 80 presentato ad aprile del '69 a cura del Ministero del bilancio e della programmazione. Il documento, pur registrando la gravità dei problemi economici, non va oltre l'enunciazione dei possibili interventi correttivi senza esplicitare i tempi e i modi di una loro concretizzazione. L' analisi rimane sterile e, sia pure nell'ambito del meccanismo di sviluppo esistente, non offre terapie. Anche le timide intenzioni e le illusioni riformistiche presenti nel Progetto si scontrano con la mancanza di respiro dei gruppi dominanti e con la resistenza delle forze più conservatrici dello schieramento industriale. I fatti hanno dimostrato che non basta entrare nella «stanza dei bottoni». Il riformismo socialista ha scontato la sua sottovalutazione del nodo di fondo: la rottura del sistema di potere della Dc e del suo monopolio politico. Le stesse aperture manifestatesi nella cultura politica e sociale, esempio più emblematico il convegno economico di San Pellegrino, sono state sacrificate all'altare dell'interclassismo democristiano. Il «decennio» operaio apertosi agli inizi degli anni sessanta, in uno sviluppo non lineare e non privo di battute di arresto, trova il suo culmine nella nuova stagione di lotte. Nel 1969 gli scioperi raggiungono il massimo livello dell'intero dopoguerra. Le ore di lavoro perdute per sciopero arrivano a 302 milioni a fronte dei 74 milioni del 1968. Un tetto che non si ripeterà: 146 milioni nel 1970; 103 nel 1971; 163 nel 1973. È il momento degli aumenti uguali per tutti, delle quaranta ore lavorative, del controllo sull'organizzazione del lavoro, delle trattative senza tregua, dei delegati e delle assemblee, delle conquiste realizzate prima in fabbrica e poi imposte nei

contratti, dei grandi contratti nazionali e delle centinaia di accordi aziendali. Nel periodo '66-'68 la parola d'ordine di una nuova maggioranza di governo alternativa al centro-sinistra era stata accompagnata da una grande campagna sul ruolo del sindacato. Commentando quest'operazione di «pansindacalizzazione», Sergio Bologna e Francesco Ciafaloni sui «Quaderni piacentini» scrivono: «... fu in realtà un periodo di grande impegno ideologico ed organizzativo del movimento operaio per far passare il pansindacalismo. Le grandi lotte dei metalmeccanici del '66 ebbero un'importanza decisiva a questo proposito. A chi chiedeva nuova organizzazione politica o partito in fabbrica, la dirczione comunista rispondeva: "in fabbrica ci sta solo il sindacato; bisogna puntare tutto sull'unità tra le tre confederazioni, le lotte operaie debbono essere viste come momento di pressione extraparlamentare per l'attività del gruppo delle sinistre alla Camera"» 1 . Dai rinnovi contrattuali del 1962, la politicizzazione delle lotte operaie è tema ricorrente nella cultura della nuova sinistra, è il centro concettuale della critica al revisionismo e alla sua visione della lotta di fabbrica. Attorno a questa disputa si misura il conflitto fra operaisti e sindacato. Già nel 1966, al petrolchimico di Porto Marghera come nelle altre fabbriche-laboratorio dei gruppi, esplodono le contraddizioni fra un uso legalitario delle lotte e un uso contestativo generale, immediatamente rivoluzionario, della centralità operaia. Due visioni si scontrano: la lotta unitaria del sindacato che spinge nel senso di un mutamento radicale degli indirizzi di governo e il progetto della centralità operaia che vuole assumere in proprio il compito di interrompere il ciclo capitalistico e quindi le sue proiezioni sul quadro istituzionale. La presenza dei gruppi de «La Classe» getta in quella fase i primi sedimenti della stagione di lotta dell'autunno caldo: «Non vi è dubbio che è Potere operaio — più che non i sindacati — a predisporre il terreno delle lotte rivendicative dal '67 al '68. Nocività e qualifiche sono i temi di intervento degli attivisti di Potere operaio: 1 obiettivo è far crescere attraverso le lotte di reparto uno stato di insubordinazione generale su cui costruire una organizzazione di base in grado di esercitare un reale controllo sul sindacato determinando gli obiettivi e i tempi e i modi di intervento»2 . Le lotte operaie del 1968 a Porto Marghera, alla Fiat, alla Saint Gobain, vedono intensificarsi la presenza studentesca davanti alle fabbriche. Ai militanti de «La Classe» e agli ex dei «Quaderni rossi» si affiancano i nuovi quadri del movimento. Non è una generica predicazione rivoluzionaria ma una pratica politica che, sia pure in modo confuso, concorre a far crescere l'esigenza di un sindacalismo in cui la base operaia abbia un peso maggiore. Le grandi fabbriche diventano laboratori delle prove generali dell' estremismo, il terreno su cui sperimentare la praticabilità dell'inasprimento dello scontro sociale. Due movimenti, quello operaio e quello studentesco, entrambi proiettati in una visione politica generale, si confrontano su obiettivi, forme di lotta e strategie. A differenza di quanto è accaduto in Francia, il sindacato italiano tenta la saldatura tra il mondo del lavoro e il vento di rinnovamento di cui si è fatto portatore il

movimento degli studenti. È una dialettica difficile, che implica scontri e polemiche. In questo cimento l'organizzazione sindacale, sconfiggendo burocratismi e sclerotizzazioni, rinnova se stessa, conosce un più vitale contatto con i lavoratori, modifica la qualità della partecipazione, eleva il tono politico delle piattaforme, sperimenta nuove forme di lotta. In fabbrica si scopre l'assemblea, ci si batte per una nuova democrazia, si rivendica maggiore potere e una partecipazione dei lavoratori alle scelte del sindacato e nella vita delle aziende, si vuole intervenire sulla qualità del lavoro, sulla sua organizzazione, sul sistema delle qualifiche. Per la classe operaia non si tratta più solo di un aumento dei salari e di una modifica nella distribuzione del reddito nazionale, ma di questioni più generali che investono le condizioni di vita nei luoghi di lavoro e nella società ed esigono un diverso ordine economico, sociale e politico. Nelle novità organizzative, dai delegati ai consigli di fabbrica, e nella conduzione delle lotte nascono dal basso una nuova stagione unitaria e una spinta decisiva nei confronti delle tré organizzazioni sindacali. Nella prima metà del 1969, nella Uilm, appare netta la vittoria della corrente di sinistra guidata da Giorgio Benvenuto. Di fronte alla scissione socialista matura la decisione dei dirigenti di quella organizzazione di rimanere nel Psi. Un analogo spostamento a sinistra si verifica nella Fim-Cisl: Macario e Camiti, presentandosi con piattaforme programmatiche avanzate, dichiarano la fine di ogni collateralismo con la Dc. Le Acli si pronunciano per la fine di ogni stretta dipendenza dal partito, rinunciano a presentare propri candidati nelle liste democristiane e lasciano libertà di voto ai propri iscritti. Livio Labor, il presidente dell'associazione, va oltre: dà le dimissioni e preannuncia la costituzione dell'Acpol, Movimento politico dei lavoratori cristiani. Nella prospettiva di un nuovo sindacato unitario, la Cgil decide l'incompatibilità fra cariche sindacali e cariche di partito. Finisce per tutti l'epoca della cinghia di trasmissione. L'autonomia sindacale diventa la bandiera della nuova fase, mentre l'azione complessiva del sindacato si politicizza. Il sindacato in questa sua rigenerazione si misura con la cultura della nuova sinistra contrastandone, al tempo stesso, le spinte più oltranziste. Contemporaneamente scattano le controtendenze: le forze ostili all'unità sindacale stimolano le manovre scissioniste dei settori repubblicani e socialdemocratici della Uil. L'unità di base si scontra con la lunga, defaticante, mediazione dei vertici sindacali. Nel dicembre '68 l'Intersind firma l'accordo per l'abolizione delle zone salariali. Il padronato privato ancora resiste, ci vorrà la grande mobilitazione del 12 febbraio. È lo sciopero nazionale, vi partecipano i lavoratori di tutte le zone comprese quelle al primo posto nella scala retributiva. La Confindustria è costretta alla firma. Sempre nel febbraio, lo sciopero per le pensioni vince le ultime resistenze del governo; in aprile i lavoratori delle fabbriche si uniranno agli statali che rivendicano la cancellazione delle «taglie» sugli scioperi brevi. Un susseguirsi di lotte aziendali prepara il clima dell'autunno. Alla Marzotto di Valdagno l'occupazione, sostenuta dagli studenti, dura da gennaio a febbraio. A conclusione

si strappa un accordo unitario che sancisce aumenti retributivi e il riconoscimento dei delegati. Alla Pirelli è sconfitto il cosiddetto «decretone» padronale, un tentativo di anticipare la scadenza contrattuale isolandola dal contesto generale delle lotte per ammortizzare e fiaccare la combattività operaia. In molte realtà il padronato reagisce alle lotte attizzando crumiri, guardiani e polizia contro gli operai. A Battipaglia, il 9 aprile 1969, la polizia spara contro i braccianti, uccide un lavoratore di 19 anni e una maestra che sta assistendo agli scontri. Dopo un'aspra lotta i braccianti conquistano, fra l'altro, il controllo sul collocamento. Alla Rhodiatoce di Pallanza si lotta su ambienti e ritmi di lavoro, dopo l'occupazione dello stabilimento la vittoria. A Roma si conclude positivamente la strenua lotta dell'Apollon. In ogni lotta accanto agli operai ci sono gli studenti: una minoranza attivissima. Ovunque nascono sul modello torinese le Assemblee operai-studenti, i comitati di base. Alle lotte aziendali si affiancano le lotte per i contratti nazionali. È alla Fiat che guarda l'intero movimento. Per tutto l'anno la grande azienda sarà al centro dell'attenzione sindacale, politica e dei gruppi. La produzione tira. In primavera quindicimila assunzioni, per lo più immigrati del Sud. Scrive Guido Viale: «L'arrivo dei nuovi assunti mette in chiaro come Torino sia ormai un punto di concentrazione di tutte le contraddizioni dello sviluppo capitalistico postbellico». Affrontando la condizione operaia e resistenza quotidiana che spetta a chi vive l'esperienza Fiat prosegue: «II nuovo punto d'arrivo di ciò che questa società offre ai proletari; la solitudine di una vita senza radici, senza amici, spesso senza parenti e conoscenti, la mutilazione di una separazione violenta fra essi, fatta di miseria e di centinaia di chilometri di distanza....» 3. Si sviluppano le agitazioni di reparto, fra contestazioni al sindacato e spontaneità operaia, sono strappati accordi parziali su orario, cottimo, straordinari, delegati. La lotta comincia alle officine ausiliarie. Il Psiup vuole accelerare l'istituzione dei delegati, nuova figura di operaio che deve controllare i cicli produttivi e gli orari in fabbrica. La lotta, fatta propria dal sindacato, si estende all'abolizione della terza categoria. Presto la mobilitazione coinvolge altri reparti, ognuno avanza le sue richieste. La parola d'ordine generale diventa: «lavorare meno e guadagnare di più». Il rapido accordo parziale non spegne l'agitazione. In giugno il corteo interno di cinquemila operai si conclude con l'assemblea dentro la fabbrica: cinquanta lire l'ora d'aumento e seconda categoria per tutti. Si susseguono le rivendicazioni e le lotte di reparto. I sindacati sono spesso scavalcati. I contrasti riguardano la natura delle richieste, i tempi e i modi della lotta, la firma degli accordi e il loro successivo superamento. Si ottengono i delegati: ogni duecentocinquanta operai un delegato, deve controllare le tabelle istituite con l'accordo del 1967. I gruppi ne contestano la funzione verticistica. Di lì a breve scatta la lotta dell'Officina 54. I cortei interni invadono i piazzali. La direzione aziendale è costretta a trattare con una rappresentanza operaia, poi si conquista un altro accordo aziendale: alcuni aumenti, per una media di venti lire, e l'istituzione di una categoria inventata: la «terza super».

Il 3 luglio, dopo cinquanta giorni di lotta alla Fiat, i fatti di corso Traiano. Il volantino a diffusione nazionale dell'Assemblea studenti-operai li definirà «non un episodio isolato o un'esplosione incontrollata di rivolta» ma «il punto più alto di autonomia politica e organizzativa finora raggiunta dalle lotte operaie distruggendo ogni capacità di controllo sindacale» 4. Il sindacato ha proclamato lo sciopero per il blocco degli affitti. Operai e studenti si affollano davanti ai cancelli dell'officina Mirafiori: «È una prova di forza, una manifestazione operaia massiccia al di fuori e contro sindacati e partiti» 5. Intervengono le cariche della polizia, immediata la reazione: «Cominciano gli scontri. Il corteo si forma di nuovo più lontano, e si muove raggiungendo corso Traiano. Arriva la polizia, carica di nuovo, furiosamente. Ma poliziotti, padroni e governo hanno fatto male i conti. In poco tempo, non sono solo le avanguardie operaie e studentesche a sostenere gli scontri, ma tutta la popolazione proletaria del quartiere. Si formano le barricate, si risponde con cariche alle cariche della polizia. Per ore ed ore la battaglia continua e la polizia è costretta a ritirarsi. Il corteo non serve più, è la lotta di massa che conta. Non è una lotta di difesa: mentre gli scontri si fanno più duri nella zona di corso Traiano, la lotta contagia altre zone della città, dal comune di Nichelino a borgo San Pietro, a Moncalieri. Dappertutto le barricate le pietre, il fuoco vengono opposti agli attacchi della polizia» 6. Il giorno dopo cade il precario governo Rumor. L'Assemblea operai e studenti non ha dubbi: è merito della battaglia di Torino. Ormai la lotta è capace di coprire tutti i terreni di scontro. Il suo significato è sintetizzato dallo slogan: «Cosa vogliamo: tutto». Di fatto nasce in quelle giornate il «partito» di Mirafiori. L'«antirevisionismo» deve dimostrare a tutti i costi che il movimento di classe è libero dal gioco del Pci e dei sindacati: «II grande programma di inserimento del Pci al governo viene svuotato dalla distruzione progressiva della influenza del Pci sui movimenti della classe operaia»7. E nel perseguimento di questo obiettivo il nesso stretto fra contestazione del Pci e del sindacato e rafforzamento dell'organizzazione «autonoma»: «La ricchezza politica della lotta Fiat, la sua forza di massa, permettono oggi a tutta la classe operaia italiana di passare a una fase di lotta sociale generale su obiettivi, forme e tempi non più fissati in base alle esigenze dello sviluppo capitalistico, dal sindacato e dal partito ma interamente determinati dalla organizzazione autonoma degli operai» 8. Dopo corso Traiano si lancia l'appuntamento del convegno nazionale dei comitati e delle avanguardie operaie, per organizzare «nel vivo delle lotte la marcia verso la presa del potere». Nella lotta della Fiat si combinano il rivendicazionismo salariale dei gruppi provenienti da «La classe» e i temi dell'autolimitazione della produzione e del protagonismo assembleare, portati avanti dai gruppi più organici al movimento studentesco torinese. Una miscela di anarco-sindacalismo, termine molto usato nel dibattito sull'organizzazione che si sviluppa a ridosso delle lotte dell'autunno nell'area operaista. Nell'estate, la situazione politica si fa sempre più torbida.

Cresce la tensione interna al Psi fino alla scissione della componente socialdemocratica. Alla crisi di governo del luglio segue il monocolore Rumor. Alla vigilia della scadenza contrattuale si respira aria di spostamento a destra. In molti ambienti circola l'ipotesi di un possibile «colpo di Stato». Sfruttando la precarietà della situazione, a settembre la Fiat anticipa lo scontro contrattuale. La principale fabbrica italiana dichiara la serrata. Contro lo sciopero dell'officina 32 di Mirafiori 35.000 operai sono sospesi dal lavoro. La risposta dei metalmeccanici è la manifestazione del 25 settembre a Torino. A Milano, la serrata alla Bicocca. A Torino come a Milano, lo slogan è uno solo «AgnelliPirelli, ladri gemelli». Seguono, imponenti, le manifestazioni di Milano, Bologna, Firenze, Genova. Accanto alla vertenza dei metalmeccanici le lotte degli edili e dei chimici. È un succedersi di appuntamenti. A Milano la polizia carica i lavoratori davanti alla filiale della Fiat. Fra gruppi e sindacato prosegue la polemica. Si arriva alla manifestazione al Salone dell'auto di Torino, i sindacati si accodano dopo averla definita «una scelta provocatoria». Al rientro in fabbrica esplode il «luddismo», poi lo sciopero. La stampa è un coro: «estremisti, vandali, teppisti!». La Fiat risponde con la rappresaglia: sospensione di 96 operai della Mirafiori, 15 del Lingotto, 15 di Rivalta. Per lo più sono operai che partecipano ali'Assemblea operai-studenti. Dopo un mese la rappresaglia si estende a quadri sindacali e militanti del Psiup e del Pci. A Torino si organizza il «Processo alla Fiat», promotore il sindacato. Agnelli ritira le sospensioni. La lotta dalle fabbriche si estende alla piazza: il 27 ottobre a Pisa dopo l'intervento dei fascisti contro gli studenti, la battaglia con la polizia si conclude con la morte dello studente Cesare Pardini ucciso da un candelotto lacrimogeno. Il 7 novembre la firma del contratto degli edili. Per Potere operaio è il primo dei «contratti bidone», la sua risposta è «no alla tregua, sì alla violenza operaia». Il 19 novembre è lo sciopero generale delle categorie in lotta. Non sono indette manifestazioni. Al teatro Lirico di Milano è convocata un'assemblea dei sindacati per discutere l'andamento delle trattative. L'Unione dei comunisti (m-1) organizza un corteo di protesta, giunto nei pressi del teatro Lirico in via Larga la carica della polizia: una tragica conclusione la morte del giovane agente di polizia Antonio Annarumma.

1 S. Bologna - F. Ciafaloni, I tecnici come produttori e come prodotto, «Quaderni piacentini», n. 37, marzo 1969; ora in «Quaderni piacentini, Antologia, 19681972», Edizioni Gulliver, 1978, pp. 165-166.

2 E. Pasetto - G. Pupillo, II gruppo «Potere operaio» nelle lotte di i Porto Marghera, primavera '66 - primavera '70,«Classe», n. 3, novembre 1970. 3 G. Viale, «II sessantotto tra rivoluzione e restaurazione», Mazzotta, 1978, p. 158. 4 Fiat: La lotta continua, volantino a diffusione nazionale dell'assemblea studentioperai di Torino, in «Quaderni piacentini», n. 38, 1969. 5 ibidem. 6 ibidem. 7 ibidem. 8 ibidem.

3.Contro l'avanzata delle forze democratiche

A pochi giorni dalla strage di piazza Fontana, il quotidiano inglese «The Observer», commentando la situazione politica italiana, usa l'espressione «strategia della tensione». Secondo questa interpretazione, il precipitare degli avvenimenti dall'instabilità politica alla minaccia di un ricorso anticipato alle urne, dai primi atti di terrorismo alle bombe di Milano, rientrerebbero in un disegno preordinato a cui, si lascia chiaramente intendere, concorrono forze interne e internazionali. Lo stesso quotidiano, insieme ad altri organi di stampa estera, aveva già reso noto un rapporto segreto inviato ai colonnelli greci sulla possibilità di un colpo di Stato in Italia. L'espressione «strategia della tensione» diverrà tristemente nota negli anni settanta. Lo schema interpretativo ben si adatta al torbido susseguirsi di oscuri episodi politici, all'escalation di atti terroristici, all'orditura di complotti, al dilagare della violenza politica. Già nel corso del 1968 la reazione ha giocato le sue carte. Il potere accademico più retrivo non ha esitato ad attizzare lo squadrismo fascista, lo Stato ha usato pesantemente la repressione, l'opinione moderata è scesa in campo col suo armamentario ideologico per appellarsi al perbenismo conservatore. Il Sessantotto incute paura alle classi dominanti. Esse si chiedono allarmate: cosa sta accadendo nel paese? Quali tensioni lo agitano e quale sbocco politico possono produrre? Il Pci ha avuto un consistente aumento elettorale, ma non si tratta tanto dei nuovi rapporti di forza parlamentari quanto, più radicalmente, degli effetti generali che il movimento di contestazione giovanile produce nell'insieme della società. Le spinte al cambiamento di indirizzi che premono sulla Dc non trovano corrispondenza nei nuovi assetti del partito; dopo il voto, si appanna l'egemonia morotea e prendono il sopravvento i dorotei, la lotta interna diventa faida tra correnti, fra uomini delle stesse correnti. Aldo Moro, grande accusato per i rovesci elettorali, guarda con riflessiva attenzione ai fermenti giovanili, ne intuisce il significato ideale tuttavia non riesce a formulare una loro trasposizione politica. Sembra voler mettere fra parentesi il mondo politico per rivolgersi alla società civile. Sconfitto, accenna a nuove politiche dell'«attenzione» come le definisce il leader repubblicano Ugo La Malfa. Nel paese cresce un immaginario collettivo che anela al cambiamento e mette in discussione alla radice il vecchio ordine. Il suo potenziale sviluppo non è un interrogativo retorico ma un'incognita che grava e accelera la crisi del sistema politico. Per le forze moderate e conservatrici occorre impedire la saldatura fra movimento operaio e democratico e nuove dinamiche sociali. Drammatizzare la

situazione presentandola in preda al caos della contestazione ed enfatizzare la crisi di rappresentanza del Pci nei confronti dei nuovi conflitti sociali serve per delegittimarlo come possibile forza di governo. La destra, in assenza di un rapido ripristino dell'ordine sociale si dichiara pronta a contrastare la violenza con la violenza. Nel Msi di Almirante si ricompatta il dissenso della seconda metà degli anni sessanta. Nell'autunno '69, motivando il suo rientro nel partito, l'ideologo oltranzista Pino Rauti su «Ordine nuovo» seconda serie (la prima aveva interrotto le pubblicazioni nel '56) scrive: «Bisogna far quadrato di fronte alla situazione d'emergenza creata dall'autunno caldo». Non dello stesso avviso Clemente Graziani, uno dei teorici dello stragismo, che formando nel dicembre '69 l'omonimo gruppo Ordine nuovo ribadisce la linea dell'avanguardia rivoluzionaria per sovvertire il sistema democratico. Agli organi dello Stato, polizia e servizi segreti sono noti i movimenti dei vari gruppi eversivi di destra. Le vicende del commissario Pasquale Juliano confermano che a partire dall'aprile '69 si conoscono le intenzioni e le finalità del gruppo padovano di Freda e Ventura. La Dc cerca di sfruttare la confusione del clima politico e l'ondata contestativa per riproporre la sua centralità. Vuole presentarsi agli occhi dell'opinione pubblica come l'unico partito capace di assicurare la tenuta del quadro legalitario e di difendere il paese da avventure dall'esito incerto. Concorre alla generale incertezza la battaglia per la successione al Quirinale. Alla vigilia della scadenza del suo mandato, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat si fa ispiratore della scissione del Psu e interprete di una linea repressiva e da blocco d'ordine. Nella Dc, Fanfani lascia apertamente intendere la sua disponibilità e vocazione a restaurare la legge e l'ordine nel paese. Scrive Giorgio Galli: «agisce su di lui la suggestione del De Gaulle del giugno '68 che scioglie le camere e portando alla vittoria il blocco d'ordine si prende la rivincita del maggio francese». E ancora: «la posizione e i contatti di Fanfani in questo periodo sono ambigui ed oscuri come molti degli eventi italiani nell'anno di avvio della strategia della tensione: il 1969» 1. Nell'autunno di quell'anno rincontro fra Fanfani e l'ambasciatore americano a Roma, Graham Martin. I due convergono sulla necessità di contenere l'avanzata dei comunisti, nel corso del colloquio si parla anche di una ripresa dei finanziamenti Cia alla Dc, finanziamenti interrotti nel 1967. La proposta non ebbe esito, ma rimangono gli interrogativi sul ruolo di Fanfani. Candidandosi alla presidenza della Repubblica cerca il sostegno delle destre, dopo aver acquisito negli anni precedenti una certa credibilità a sinistra per le sue posizioni in politica estera. Con il termine «fanfascismo» Lotta continua sintetizzerà le inclinazioni del leader della Dc a una repubblica presidenziale e a una stretta autoritaria. In un quadro fortemente dinamico, le riforme strappate dalla crescente combattività operaia e democratica (la fine della divisione del paese nelle «zone salariali», la riforma pensionistica, lo statuto dei lavoratori) e i risultati delle lotte contrattuali scatenano molte controtendenze.

La destra messa fuori gioco negli anni precedenti cerca la sua occasione. Sfrutta gli spazi che gli offre la sfrenata campagna moderata, una vera orchestrazione stampa e politica per arginare con ogni mezzo la contestazione «comunista». Su tutto il sistema democratico incombe l'assurda pregiudiziale nei confronti del Partito comunista. Il rischio fondamentale è il suo avvento al governo, tutto il resto è secondario. Contro questa possibilità riemerge in forme inedite il «sovversivismo» delle classi dominanti. Si innesta un circuito di complementarità fra sovversivismo di Stato e sovversivismo sociale. In questa spirale si costruiscono e si occultano trame eversive, si persegue la strategia delle bombe, esplode il neosquadrismo di destra, dilaga la violenza politica, prendono corpo le prime forme del terrorismo rosso. Vari sistemi eversivi entrano in risonanza fra loro e formano il tessuto connettivo della strategia della tensione. Interne e funzionali a questa dinamica sono le deviazioni dei Servizi segreti. L'ostinazione della Dc nel confermare la sua centralità diventa accanita difesa del suo sistema di potere e a questo fine l'uso spregiudicato delle montature stampa, l'apertura e la chiusura delle inchieste giudiziarie a seconda delle fasi politiche e del colore di cui si ammantano i vari terrorismi. Fenomeni eversivi endogeni, originati da culture, gruppi sociali e politici diversi, si nutrono di questo clima favoriti dalle tecniche di depistaggio, dai segreti di Stato opportunamente invocati e dal ruolo del principale partito di governo. L'uso politico del terrorismo diventa parte integrante del caso italiano. Le tensioni e le aspirazioni che animano la rivolta degli studenti irrompono nella società italiana immettendovi un forte bisogno di rinnovamento e, sull'onda di un grande movimento, danno parvenza di credibilità al desiderio di una nuova etica e di un nuovo assetto sociale. Il vento del «tutto e subito» soffia in tutte le direzioni, agita ideali collettivi ma anche pericolose frettolosità. Tanto più forti saranno le illusioni utopiche di una rivoluzione onnicomprensiva, tanto più brusche saranno le cadute nella radicalità di un inedito sommovimento. Le pessimistiche intuizioni pasoliniane suonano come ammonimenti conservatori di fronte alle entusiastiche curiosità dei numerosi convertiti ad un marxismo eterodosso e confusionario, ai vitalismi dei nuovi esegeti della classe operaia. In questo processo si modifica la dislocazione ideale dei vari strati sociali, nuovi valori si affermano e diventano componente decisiva della battaglia democratica e di progresso. Una prima prova verrà con la stagione contrattuale dell'autunno '69. Il movimento sindacale si confronta con le nuove tematiche assumendo come proprie istanze la partecipazione e l'egualitarismo, la lotta per una qualità diversa della vita e del progresso civile. La classe operaia è chiamata a farsi soggetto della trasformazione economico-sociale e del rinnovamento del tradizionalismo politico, ad essere parte essenziale nella costruzione del nuovo blocco di forze impegnate sul terreno del progresso democratico. Le lotte dell'autunno saranno rivelatrici. Il nuovo del Sessantotto non è un episodio. Dopo l'anno degli studenti viene l'autunno degli operai. Contro si

scatena il sovversivismo di Stato, in un inquietante parallelismo con il diffondersi del neosquadrismo fascista e del sovversivismo di sinistra. All'ombra della equivoca teoria degli «opposti estremismi» la Dc cerca la sua nuova centralità. Oggettivamente funzionale a questo disegno il sovversivismo «rosso». Le teorie della lotta armata, revocazione della violenza contro la violenza dello Stato non sono estranee alla cultura del sinistrismo che ha animato la stagione del sessantotto. La critica alla democrazia si sposa alle follie armate, la violenza diventa contemporaneamente difesa e attacco di fronte al rischio autoritario-repressivo, espressione di paura e di isolamento. Sembra quasi che un disegno preordinato lavori per sospingere fuori della legalità democratica un movimento che pone in discussione l'assetto del potere. Le classi dominanti reagiscono a quelli che lo psicologo Fachinelli, sui «Quaderni piacentini», chiama «i desideri dissidenti» di una generazione non solo negandoli ma usando la repressione e il sovversivismo di Stato, e — per miope calcolo politico — augurandosi il prevalere delle sue componenti più avventuristiche. La strategia delle bombe e le trame eversive di destra sono parte di questo disegno: loro obiettivo impedire l'avanzata delle forze democratiche. Contro il duplice rischio dell'omologazione e dello scivolamento antistituzionale deve battersi il Pci operando su due fronti non meccanicamente convergenti: interpretare il nuovo senza troncare con la sua storia, contemporaneamente vigilare e agire sulla democratizzazione della struttura statuale pena la vanificazione dei fondamenti dello stesso ordinamento costituzionale. Alterne sequenze caratterizzano il periodo che va dal dopo sessantotto al terremoto elettorale del 20 giugno '76: le lotte operaie dell'autunno caldo: le bombe di piazza Fontana; un neofascismo che sfrutta volta per volta la violenza squadristica e il doppiopetto di Almirante; la strategia degli oppositi estemismi; l'uccisione Calabresi e il cadavere di Feltrinelli sotto il traliccio di Segrate; la svolta moderata che segue al voto del '72; la mobilitazione democratica contro i rischi dell'involuzione a destra; il referendum sul divorzio e le battaglie per i diritti civili; l'offensiva conservatrice di Fanfani; il terrorismo «rosso» e infine gli sconvolgimenti politici del '75 e del '76. Dentro questa complessa vicenda si situa l'ascesa e il fallimento del gruppismo sessantottesco, in questo itinerario si determinano le ragioni del suo espandersi e del suo progressivo polverizzarsi in questo scontro fra rinnovamento e conservazione si delinea il suo conflitto con le tradizioni culturali del movimento operaio nonché il suo scivolamento sul terreno antidemocratico fino alle mimetizzazioni ai bordi e dentro il terrorismo. Se la storia del Sessantotto è inscindibile dalla sua «preistoria», dalle teorie che lo hanno prodotto e quindi dalla prima genesi del minoritarismo, la storia del terrorismo «rosso» finisce con l'essere inscindibile nei suoi primordi con lo sviluppo delle varie organizzazioni extraparlamentari e dai loro ripetuti fallimenti, complici le omertà e le rimozioni, sorgono le prime leve delle formazioni armate.

1 G. Galli, «Fanfani», Feltrinelli, 1975, p. 109.

4.Piazza Fontana

Nel corso del 1969 si registra un'ondata di azioni eversive: 312 attentati con bombe, la stragrande maggioranza risulterà opera di gruppi di destra. La città più colpita è Milano. Il 27 gennaio una bomba esplode davanti a una sede turistica spagnola, non ci sono vittime. Lo stesso giorno un attentato ad una sezione del Pci. Il 30 gennaio è la volta di un negozio di dischi della Rca. Il 2 marzo esplosivi danneggiano la tipografia de «l'Unità». Una carica di tritolo è sistemata dentro una galleria d'arte. L'8 aprile scoppia una bomba davanti alla Borsa valori; bottiglie molotov davanti all'Hotel Commercio feriscono due giovani. Il 25 aprile (la data è già un simbolo) una bomba è collocata all'interno del padiglione Fiat della Fiera di Milano, sono ferite 19 persone; lo stesso giorno l'attentato all'Ufficio cambi della stazione. Tra 1'8 e il 9 agosto le bombe ai treni su varie linee ferroviarie, il bilancio è il ferimento di 8 persone. Gli attentati, come si riscontrerà successivamente, sono opera del gruppo neofascista di Freda e Ventura. Ancora a Milano una bomba rudimentale esplode davanti la casa dell'addetto commerciale cubano e il 30 agosto nel cortile del Palazzo Comunale, è ritrovata una bomba inesplosa. Il depistaggio inizia con le bombe del 25 aprile alla Fiera campionaria. Autori dell'attentato sono indicati gli anarchici. Nel quadro dell'estremismo italiano della seconda metà degli anni sessanta gli anarchici hanno un ruolo del tutto marginale, ormai superati dal nuovo gruppismo. A differenza di altri movimenti studenteschi europei, in particolare di quello francese, nel corso del Sessantotto in Italia poco si sono sentiti e visti, sono la parte più debole e isolata del movimento. Alla campagna d'opinione finalizzata a costruire un clima di paura lo «studente» non serve; «anarchico», «anarchia» sono invece messaggi che evocano il nichilismo, il terrore, le bombe. Peraltro le esili organizzazioni anarchiche sono proprio per la loro fluidità un facile terreno di infiltrazioni, di strumentalizzazioni. Già nella seconda metà del '68 nascono equivoci raggruppamenti come i Nazimaoisti, Lotta di popolo, gli Anarco-fascisti. Mentre si formano i prodromi di quella destra radicale che alimenterà lo squadrismo e il terrorismo nero degli anni settanta, equivoci personaggi si aggirano nella confusione ideologica di frange marginali del movimento infiltrandosi nelle aree più deboli. E questo il caso del circolo anarchico XXII marzo. Avola, la Bussola, Battipaglia: la polizia interviene violenta contro lavoratori e studenti. Le sinistre chiedono il disarmo delle forze dell'ordine mentre la Dc rivendica il diritto dello Stato di difendersi contro le violenze. Il movimento

studentesco ha avuto la sua prima vittima: Domenico Congedo, lo studente morto al Magistero. I giornali sono bollettini di guerra, evocano catastrofi sociali e guardano con allarme alle scadenze contrattuali dell'autunno. Deliberatamente si ingigantiscono le difficoltà sindacali presentando le fabbriche in mano agli estremisti di sinistra. Sempre di più «contestazione», la parola magica del Sessantotto, nell'opinione moderata e perbenista diventa sinonimo di violenza. La tensione cresce nell estate in concomitanza con la crisi di governo. La paura del golpe è l'ossessione dell editore Giangiacomo Feltrinelli: Estate 1969: la minaccia di un colpo di Stato all'italiana è il titolo di un suo opuscolo di quei mesi. Nello stesso periodo hanno vita i Gap (Gruppi di azione partigiana). Gli scontri di corso Traiano a Torino, sono opportunamente presentati come un'anticipazione dell'autunno. Il grande padronato replica alle piattaforme sindacali con la rappresaglia; Agnelli e Pirelli sono in prima fila su questa linea oltranzista. L'unificazione delle lotte aziendali e i processi in atto nei vari sindacati compattano il fronte operaio ma intanto nelle grandi fabbriche lo scontro tra sindacati ed estremismo si fa più duro: anche i gruppi, come il padronato, hanno ben chiaro che la conclusione della vertenza contrattuale darà più forza politica al sindacato. A Roma un volantino, distribuito a novembre, della Federazione nazionale combattenti della Repubblica sociale italiana incita gli ex combattenti a non farsi «strumentalizzare per un colpo di Stato reazionario». Le forze armate sono in subbuglio. Molto scalpore desta il discorso del comandante del distretto militare di Monza: «Stante l'attuale situazione di disordine nelle fabbriche e nelle scuole, l'esercito ha il compito di difendere le frontiere interne del paese; l'esercito è l'unico baluardo contro ogni disordine e l'anarchia» 1. A Roma un intenso riorganizzarsi dei gruppi paramilitari fascisti attorno al principe nero Junio Borghese. Ugo La Malfa e il socialdemocratico Mario Tanassi sferrano un duro attacco ai lavoratori in lotta. Gli fa il coro la Confindustria: il potere operaio sta sostituendosi al Parlamento, vuole stabilire un rapporto diretto con il governo creando un «sovvertimento in tutto il sistema politico». Pietro Nenni paragona la situazione agli anni che precedettero il fascismo. La giornata di sciopero nazionale del 19 novembre ha un epilogo drammatico, a Milano la morte dell'agente Antonio Annarumma. Dal Quirinale, Giuseppe Saragat, ancora non sono chiare le circostanze del tragico episodio, lo definisce un «barbaro assassinio». È un invito alla repressione, un giudizio a senso unico: il pericolo viene dall'estremismo «rosso». Il segretario del Msi, Giorgio Almirante intervistato dal settimanale tedesco «Der Spiegel», afferma che le organizzazioni giovanili del suo partito si preparano alla guerra civile: contro il comunismo occorrono misure militari. Su «Epoca» il giornalista Pietro Zullino, vicino al partito socialdemocratico, dichiara che in Italia ormai occorre una Repubblica presidenziale e se la «confusione dovesse aumentare» spetterebbe alle Forze armate ristabilire la legalità democratica. All'inizio di dicembre due settimanali inglesi, «The Guardian» e «The Observer»,

pubblicano il già citato dossier inviato dal Ministero degli Esteri di Atene all'ambasciatore greco a Roma, sulle possibilità di colpo di Stato in Italia. «The Observer» è ancora più preciso: «un gruppo di elementi di estrema destra e ufficiali sta tramando in Italia un colpo di Stato militare». Sarebbero aiutati in questi propositi dal governo greco. Secondo varie ricostruzioni processuali, nel dicembre tutto è pronto per un colpo di Stato. All'ultimo momento il tentativo è rinviato. Una decisione che provoca la reazione dei gruppi più oltranzisti. È la strage. Alle 16,30 del 12 dicembre 1969, alla Banca nazionale dell'agricoltura in piazza Fontana a Milano, una bomba ad alto potenziale provoca la morte di diciassette persone e il ferimento di ottantotto. Per la sinistra non ci sono dubbi sulla matrice della strage. «l'Unità» scrive: «Nel quadro di provocazioni fasciste e manovre reazionarie un orrendo attentato». Per i sindacati «l'attentato è ispirato dai nemici dei lavoratori». Dello stesso tono il giudizio dell'«Avanti!». Ingrao, allora presidente dei deputati comunisti, intervenendo alla Camera denuncia la campagna di destra, le torbide manovre internazionali e definisce le bombe di Milano: «una strage premeditata». È la prima di una lunga serie di stragi, seguiranno l'attentato ai treni a Gioia Tauro del 22 luglio '70, che provoca 6 morti e 50 feriti; il 31 maggio 1972 a Peteano (Gorizia), una carica di dinamite sistemata su di un'auto uccide 3 carabinieri e ne ferisce 2; il 17 maggio '73 le bombe alla Questura di Milano, muoiono 4 persone, 12 sono i feriti; il 28 maggio '74 a piazza della Loggia a Brescia la strage provoca 8 morti e 94 feriti; a soli due mesi di distanza, il 4 agosto, l'attentato al treno Italicus: 12 morti e 104 feriti. Tra il 1969 e i 1975, la destra eversiva compie 63 omicidi su di un totale di 92. A partire dalla seconda metà degli anni settanta si interrompe il ciclo delle stragi nere e il tragico primato della morte passa al terrorismo «rosso»; non si usano più le bombe, si uccide a raffiche di mitra, si compiono esecuzioni, agguati a sangue freddo, si spara nel mucchio. In una mimetica emulazione e intricate comunanze culturali, le sigle dell'eversione di destra muteranno la loro fisionomia e molti dei moduli operativi dei due «terrorismi» si identificheranno: dall'attentato individuale agli espropri, dai sequestri alla gestione politica dei processi. Nell'agosto '80, in un momento di massima espansione e virulenza dell'attacco del terrorismo «rosso», torneranno le bombe nere, lo squadrismo nero compirà la strage più feroce: il 2 agosto alla stazione centrale di Bologna dopo una violenta esplosione rimangono uccise 80 vittime innocenti, 200 feriti. Il bilancio dei morti per stragi è enorme, un tributo pagato dal paese alla lotta per la democrazia, un tributo a cui ancora oggi non è stato reso l'onore della verità. Scandalose sentenze, mezze verità, silenzi e coperture fanno da velo alla conoscenza reale dell'entità dei propositi e dei disegni, alla ricostruzione delle molte responsabilità, all'individuazione dei colpevoli. All'indomani di piazza Fontana la pista che si segue è quella rossa. Viene arrestato l'anarchico Pietro Valpreda. Il questore di Milano non ha esitazioni: secondo lui

l'ordigno che ha provocato la strage è simile a quello usato per gli attentati del 25 aprile alla Fiera Campionaria, per i quali sono stati accusati militanti anarchici che risulteranno poi innocenti. Tutte le indagini sono opportunamente orientate. Serve un messaggio politico da lanciare al paese: i nemici delle istituzioni vengono da sinistra. Solo alla fine del '71 si seguirà la pista «nera», quando il lavoro ricostruttivo dei giudici Giancarlo Stiz e Gerardo D'Ambrosio produrrà una serie di prove decisive contro i neo-fascisti Freda e Ventura. Le scoperte di D'Ambrosio provocheranno un'inchiesta nell'inchiesta da parte dei sostituti procuratori Emilio Alessandrini e Rocco Fiasconaro. Sotto accusa per occultamento, sottrazione di reato, omissione di rapporto, tre alti funzionari dello Stato: Elvio Catenacci, vice capo della polizia e i dirigenti delle squadre politiche di Roma e Milano, Bonaventura Provenza e Antonino Allegra. Due giorni dopo l'orrendo attentato, in oscure circostanze, alla questura di Milano muore «suicida» Giuseppe Pinelli, definito dalla polizia «anarchico individualista», il suo interrogatorio non è stato verbalizzato. Nei partiti della sinistra si registrano segni di sbandamento. «l' Unità» definisce Valpreda «equivoca figura di ballerino». «Potere operaio» sembra ignorare la strage. Scriverà Guido Viale: «Potere operaio denuncia la matrice di Stato ma considera la battaglia antifascista un fronte arretrato di lotta». Ci vorrà qualche mese perché «II manifesto» affronti il caso Valpreda. Le prime manifestazioni in difesa dell'anarchico non vedono un'ampia partecipazione. La situazione cambierà nei mesi successivi. Spetta a Lotta continua il merito di condurre una vasta opera di controinformazione: è l'unico gruppo a reagire tempestivamente. Dopo piazza Fontana scatta la repressione contro i gruppi della «nuova sinistra». Vengono perquisite le loro sedi, compiuti numerosi arresti, con insistenza si fa il nome dell'editore Feltrinelli. Tra l'ottobre del 1969 e il gennaio 1970 i denunciati sono tredicimila, moltissimi gli studenti. Sindacati e padronato siglano il contratto dei metalmeccanici il 22 dicembre: quaranta ore settimanali, settantacinque lire di aumento l'ora, parificazione graduale con gli impiegati per la mutua, libertà di contrattazione integrativa, diritto d'assemblea in fabbrica. In primavera il Parlamento approverà lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Obiettivo strategico del sindacato diventano le riforme: il fìsco, la sanità, la casa, i trasporti. La controparte diventa dunque il governo. All'inizio del 1970 l'Unione dei comunisti è sconvolta dalla crisi: gli effimeri successi organizzativi si sono scontrati con la realtà delle lotte operaie. Sarà la rottura del gruppo. Potere operaio, su cui pesa l'isolamento sofferto davanti alle fabbriche, concentra la sua riflessione sull'organizzazione. Conquista dell'organizzazione e dittatura operaia è il titolo di una delle relazioni presentate al suo convegno nazionale del 9-11 gennaio. La polemica è con lo spontaneismo di Lotta continua: solo un rigido impianto centralistico può consentire «la distruzione della macchina dello Stato». Le parole d'ordine sono: «no alla tregua, no all'unità sindacale», «scontro sull'inflazione», rifiuto del lavoro e salario politico. Più dinamica si presenta Lotta continua che assume come campo di intervento un

insieme di tematiche quali la marginalità sociale, il femminismo, la condizione carceraria, l'iniziativa nelle caserme dei «proletari in divisa». «Il manifesto» cerca di sfruttare la sua presunta autorevolezza per imporre la sua egemonia. Il risultato è magro, il suo eclettismo non paga. Solo nel settembre 1970 riesce ad esprimere una piattaforma politica. Il tratto caratteristico della fase è lo smarrimento. Una grande confusione si agita nel laboratorio di teorie e pratiche che hanno contrassegnato il biennio che va dal 1968 all'inverno 1970. Numerosi i «cani sciolti», — un'espressione coniata in quel periodo, — che entrano ed escono dalle formazioni alla ricerca di un gruppo che li convinca e li organizzi. Molti di loro saranno l'esercito di riserva delle manifestazioni di massa, i protagonisti delle «guerriglie urbane» apparentemente senza capi che riempiranno le cronache dei giornali. Dalla confusione originano i molti percorsi che attraverseranno la storia dei partiti dell'estremismo. Da un lato c'è il difficile approdo alla politica, diametralmente opposti i labirinti che portano alla lotta armata. La repressione dello Stato gioca la sua parte nell'alimentare il sovversivismo di sinistra. Complice lo squadrismo di destra e complici i miti della guerra civile, della guerriglia, dell'insurrezione. L'eversione di destra, con azioni provocatorie, acutizza le tensioni sociali nei punti caldi, davanti alle scuole e alle fabbriche, nelle borgate e nelle occupazioni delle case. Lo squadrismo fascista cambia pelle: il Msi cerca di utilizzare fino in fondo la reazione moderata cavalcando quella che viene definita «la maggioranza silenziosa» e al tempo stesso alimenta un sovversivismo di destra che muta radicalmente la sua vecchia fisionomia. Si forma a destra una cultura della rivoluzione e della violenza che vuole collegarsi all'antistatalismo e al radicalismo delle nuove generazioni. All'armamentario del nazifascismo, del mussolinismo, del richiamo alle forze armate e all'ordine si aggiungono le teorie di Julius Evola sulla «Dittatura legale», uno «Stato moderno» che espelle dal suo seno la partitocrazia e organizzato in modo gerarchico, secondo il trinomio fascista «autorità, ordine e giustizia». L'«antifascismo militante» diventa il terreno vischioso della risposta colpo su colpo, dello stillicidio delle vendette. Gli incidenti di piazza si ripetono secondo un copione prestabilito. Protagonisti: i gruppi, la destra e la polizia. Si vuole coinvolgere il sindacato e il Partito comunista. Il Movimento nei cortei si «autodifende» con il suo servizio d'ordine. Scatta la provocazione ed è difficile ricostruire in ogni circostanza chi è il primo ad intervenire. Fascisti contro gruppi, gruppi contro fascisti, intervento della polizia, scontro con la polizia: guerriglia di piazza. Possono ridursi i protagonisti o possono invertirsi nella sequenza i fattori. Il tutto comunque è al servizio della semplifìcatoria teoria degli opposti estremismi. Tra paura del golpe e repressione maturano le prime clandestinità: è di questi mesi la definitiva involuzione del Collettivo metropolitano milanese. Dalla violenza delle parole, per fasi successive, si passa alla terribile violenza delle armi.

1 «La strage di Stato, dal golpe Calabresi»,Samonà-Savelli, 1970, pp. 27-28.

Borghese

all'incriminazione

di

5. Paura del golpe e lotta armata

II Sessantotto ha trovato in Cuba, nella Cina della Rivoluzione culturale e nella lotta del popolo vietnamita i suoi principali riferimenti internazionali. Nel crinale degli anni settanta questi miti subiscono un offuscamento. La Rivoluzione culturale non esce dai confini nazionali e il suo valore emblematico non si coniuga con il proliferare dei focolai rivoluzionari. Suscita perplessità la posizione cinese sui fatti cecoslovacchi. La condanna dell'imperialismo dell'Unione Sovietica non si tramuta in reale leadership del movimento rivoluzionario e intanto giungono gli echi delle lotte interne al Partito comunista cinese. Sul piano diplomatico la Cina esce dall'isolamento e nel 1972, fra l'incredulità dei tanti adepti occidentali del «libretto rosso», dopo la visita di Nixon, riprende i rapporti con l'imperialismo americano. Cuba non prende posizione in merito all'invasione della Cecoslovacchia. La Tricontinentale di Fidel Castro continua la sua funzione di raccordo tra i movimenti di liberazione del Terzo Mondo e dell'America Latina ma Cuba guarda sempre di più alla sua stabilità interna. Mentre in vari paesi dell'America latina infuria selvaggia la repressione militare, la guerriglia si polverizza. Lo slogan guevarista «costruire uno, due, mille Vietnam!» è caduto nel vuoto. Il movimento degli studenti si era sentito parte integrante di un più generale sviluppo rivoluzionario. Ora, nel mutarsi delle condizioni internazionali, perde questo respiro strategico e ripiegato su se stesso, costretto a fronteggiare le resistenze dei singoli paesi, si rinchiude in forme difensive come l'autorganizzazione nei minipartiti dell'estremismo o vagheggiando l'azione militare come innesco di quella rivoluzione che il movimento di massa non ha prodotto. Il nuovo punto di riferimento diventa la guerriglia sudamericana. Il dibattito si concentra su come rispondere alla repressione dello Stato borghese con un'analoga violenza. L'America Latina è stata al centro di molte analisi. Nel luglio del 1967, un numero speciale delle riviste ha passato in rassegna le molte teorie rivoluzionarie che si confrontano in quel continente. Ma proprio nel 1967, con la morte del Che, la guerriglia ha subito una correzione. La strategia rurale prospettata da Guevara, dopo la sconfitta dei guerriglieri del Venezuela, del Perù e della Colombia, non è stata in grado di mobilitare le masse contadine. Il passaggio successivo è la guerriglia urbana. In occidente il laboratorio rivoluzionario non può che essere la grande metropoli, massimo luogo di concentrazione delle contraddizioni della

società industriale. È facile dunque comprendere l'attenzione che suscita questo rovesciamento teorico-pratico. In America Latina i gruppi più attivi sono in Uruguay, Brasile e Argentina 1. I primi a conquistare notorietà sono i Tupamaros dell'Uruguay. In Brasile fra il '68 e il '70 operano varie formazioni di guerriglia urbana Aln (Acão libertadora nacional), la Vpr (Vanguardia popular revolucionaria) e i Var (Vanguardia armada revolucionaria)-Palmares. Nel 1970 nascono l'Erp, il principale gruppo di guerriglia urbana argentino, il Far (Fuerzas armadas revolucionarias) della sinistra peronista e i Montoneros. Quest'ultimo gruppo sale alla ribalta della cronaca con il sequestro e l'assassinio dell'ex presidente argentino Aramburu. La fama dei Tupamaros cresce nel 1970 con l'uccisione del consigliere americano Dan Mitrione. Successivamente lanceranno «l'attacco diretto e sistematico contro le forze repressive». Nei primi anni settanta i vari gruppi militari, anche in presenza di forti differenze arrivano alla fondazione di una giunta di coordinamento rivoluzionario. Fra i principali teorici del terrorismo sudamericano Abraham Guillen e Carlos Marighella. Le loro teorie e pratiche si ritroveranno nelle azioni delle formazioni terroristiche italiane, tedesche e francesi: in particolare l'essenzialità della propaganda armata e l'attenta scelta degli obiettivi militari. Guillen e Marighella teorizzano l'importanza dell'effetto stampa e la necessità di costruire attorno all'azione armata il massimo di clamore. Nello stesso periodo anche il terrorismo separatista europeo subisce una metamorfosi. In Irlanda il gruppo dei Provisional dell'Ira tende a uscire da uno stato organizzativo informale per creare una più efficiente struttura politicomilitare. Un processo analogo si verifica nell'Eta basca. Il gruppo darà prova della sua forza nel 1973 con il sequestro del primo ministro spagnolo Carrero Bianco. Altro dato caratteristico è l'introduzione di motivi marxisti nell'eterogeneità culturale che contrassegna questi raggruppamenti, mentre un fenomeno che esprime il clima generale di quegli anni è l'attribuzione di una valenza rivoluzionaria a lotte nate da motivazioni esclusivamente separatiste, con forti accentuazioni nazionalistiche: il caso tipico è quello del canadese Front de libération de Quebec. In questo quadro la vicenda palestinese diventa un nuovo simbolo della rivoluzione: «al Fatah-Palestina rossa» sono gli slogan che scandiscono le manifestazioni di piazza degli anni settanta. Dirottamenti aerei e azioni terroristiche compiute in vari paesi richiamano l'attenzione del mondo intero sul dramma palestinese. La complessa vicenda dell'Olp fa molto discutere e molto influenza le vicende dei partiti armati. Con i gruppi più oltranzisti palestinesi non mancheranno contatti logistici. Militanti della Raf tedesca si addestreranno in Giordania e, a più riprese e in circostanze diverse, si parlerà di rapporti e «viaggi» di gruppi terroristi italiani in Libano.

Nel crogiolo delle culture della lotta armata, più vicine alle esperienze italiane si presentano formazioni come la tedesca Raf (Rote armee fraktion) e la francese Gauche prolétarienne, da cui si distaccheranno i gruppi di Action directe. Si tratta di sviluppi organizzativi e di una scansione di azioni militari, tecniche e teorie che interagiscono tra loro nella comune prospettiva di estendere i confini della lotta armata. «Sinistra proletaria», il foglio del Collettivo metropolitano milanese, nel numero di settembre-ottobre 1980 afferma: «II capitale unifica il mondo nel suo progetto di controrivoluzione armata; il proletariato si unifica nella guerriglia a livello mondiale» intenzionale dunque l'autodefinirsi della Raf quale «frazione» dell'armata rossa, segmento del più generale processo della militarizzazione. Battesimo del fuoco per il gruppo capeggiato da Andreas Baader è l'attentato ai grandi magazzini di Berlino nell'aprile 1968. Il movimento studentesco tedesco si sta ripiegando su se stesso, represso dal sistema e logorato dalle sue stesse contraddizioni interne. Di lì a poco, l'attentato alla sede del gruppo editoriale Springer e l'attentato a Rudi Dutschke leader e teorico degli studenti tedeschi. È il punto di svolta del Movimento 2 giugno, formazione che ha preso il nome dal giorno della morte dello studente Bruno Olenesong ucciso dalla polizia nel corso di una manifestazione pacifista. Il gruppo si scinde: una parte si trasforma nella Raf, che verrà sprezzantemente definita la «banda» Baader-Meinhof. Rappresenta in Europa il primo esempio di formazione militare-terroristica 2 . I suoi protagonisti sono i figli della media borghesia tedesca. Ulrike Meinhof, una delle personalità più interessanti del gruppo, trasforma la sua militanza social-democratica e pacifista nella militanza terrorista. In un suo scritto motiverà questa scelta come uno stato di necessità: «È la brutalità della società tedesca che ha reso necessaria la violenza della Rat». Baader è l'ideologo trascinatore, nel suo fanatismo, il mito militare sostituisce ogni fiducia sulla capacità propulsiva della classe operaia del movimento studentesco. L'azione terroristica serve come dimostrazione in sé, un esempio detonatore, una sfida contro la presunta inerzia rivoluzionaria. E lui che sul muro della comune di Francoforte, in cui vive nel '68, scrive «Gli intellettuali vanno mandati tutti in campo di concentramento» e rimarrà sempre fortemente influenzato dall'anti intellettualismo del gruppo berlinese «Frazione-giubbe di pelle». Dopo la liberazione di Baader la clandestinità. Per la Meinhof non ci sono dubbi: il problema della lotta armata non può che risolversi con l'esperienza e nella esperienza. Il gruppo è imbevuto di un terzomondismo fatto di militarismo e della totale negazione dell'intervento delle masse nel processo rivoluzionario. La loro parola d'ordine è «distruggere le isole del benessere in Europa», l'obiettivo costruire la guerriglia urbana. La sfiducia nelle masse è accompagnata dalla funzione emblematica assegnata all'atto terroristico. La Germania risponde con le leggi speciali, e con un'aspra campagna di stampa. La «Bild zeitung» pubblica consigli pratici per aiutare la polizia nella caccia al

terrorista e sulla copertina di «Stern», sotto le loro foto, campeggia il titolo «chi sarà il prossimo a morire?». Servendosi dell'escalation terroristica, in Germania si apre un processo di revisione costituzionale e di sostanziale irrigidimento. Attraverso l'ossessiva caccia al terrorista, passano i provvedimenti restrittivi per gli appartenenti alla sinistra, vengono giustificate le limitazioni della libertà di stampa, i supercarceri e l'annientamento psichico dei carcerati. Non si tratta solo della lotta contro il terrorista ma in generale di una lotta contro il «diverso» come affermazione di una democrazia superprotetta, risposta reazionaria alla crisi del Welfare state. Il modello tedesco influenza il moderatismo e la conservazione italiana ma il disegno autoritario non passerà, anzi nell'Italia delle trame e della strategia della tensione emerge con prepotenza la «questione comunista». Tuttavia la paura del golpe e il rischio della germanizzazione sono angosce collettive dei movimenti estremisti. La crisi dei gruppi dopo le lotte dell'autunno caldo, congiuntamente ai torbidi scenari che circondano la strage di Stato, accentua le suggestioni militariste. Nessuna delle formazioni minoritarie ne resta immune. In un documento del gruppo di studio Ibm, confluito poi nel Collettivo metropolitano milanese si legge:, «L alternativa è chiara: o i gruppi [...] superano questa fase profondamente imbevuta di spontaneismi, volontarismo, settarismo e priva quindi di una seria prospettiva di classe contrapponibile alle organizzazioni che rifiutano assumendo il punto di vista generale dello scontro tra borghesia e proletariato, oppure sono destinati ad essere spazzati via inesorabilmente dalla scena politica» 3. È un chiaro invito a scegliere la lotta armata. «Lotta continua» pubblica ampi resoconti e commenti sulle guerriglie internazionali. La frenetica riorganizzazione di Potere Operaio si muove per una più funzionale strategia di «distruzione dello Stato». Il tema della guerra civile torna spesso negli articoli e nelle discussioni de «II manifesto». In Italia, alla fine del 1970, il foglio del Collettivo metropolitano assume la guerriglia non più come un possibile emblematico detonatore ma come una linea generalizzabile. Nel suo ultimo numero del gennaio 1971 lancia la parola d'ordine «organizziamo la nuova resistenza». È in perfetta sintonia con quanto nel maggio 1970 avevano scritto i «Cahiers de la Gauche proletarienne»: «La nostra politica ha un nome nuova resistenza: la lotta violenta popolare [...] l'ora della guerriglia è suonata». «Sinistra proletaria», polemizzando col collettivo romano Palestina rossa, afferma l'esigenza di stabilire non generiche solidarietà ma rapporti concreti fra la lotta rivoluzionaria del nostro paese e le lotte e le guerre di popolo. Per la prima volta un documento della Raf, Guerriglia urbana, è pubblicato da «Nuova resistenza», l'organo che sostituisce «Sinistra proletaria». Sullo stesso numero appaiono i documenti di varie formazioni della guerriglia: un'intervista a un tupamaro, materiali dall'Uruguay e dalla Palestina, i testi delle «trasmissioni al popolo» dei Gap. Nei primi mesi del 1971, il passaggio alla clandestinità e alla lotta armata: compaiono le prime azioni firmate Br.

Sul ruolo della Raf nella formazione dei primi gruppi terroristici europei si dilungherà Renato Curcio in una lettera spedita dal carcere di Monserrato in occasione della morte di Holger Meins. Al gruppo di Baader riconosce la funzione di vera «rottura storica» avendo per primo affrontato la questione della lotta armata in una «società tecnologica metropolitana». Nella tortuosità del ragionamento, assume questo dato come «vittoria in sé», da cui fa discendere la «necessità» da parte dello Stato di «annientare la Rat nuovo obiettivo ossessivo e confessato della controrivoluzione tedesca» 4. Nella stessa lettera non sono taciute le diversità rispetto alla situazione italiana e, considerazione che serve per comprendere le linee dell'azione terroristica del nostro paese, viene registrato come limite di fondo della Raf «rimpianto del rapporto politico-militare con lo Stato da un lato e del rapporto politico organizzativo con il movimento operaio e rivoluzionario tedesco dall'altro». Le peculiarità del terrorismo italiano, infatti, saranno la costante mimetizzazione ai fianchi del movimentismo postsessantottesco, e il tentativo di dialettizzarsi con le tensioni sociali allo scopo di mantenere in vita policentrici canali di reclutamento. Originate da background culturali, sociali e politici diversi, le due formazioni terroristiche hanno in comune i tragici rituali: l'ossessione dell'efficienza militare, il valore di simbolo assegnato all'atto terroristico, l'uso della condizione carceraria, l'uso del processo come arma politica. Comune la tipologia dell'azione terroristica: il processo-sequestro, l'esproprio-rapina, la scelta degli obiettivi e le tecniche operative. Gli anni che vanno dal 1970 all'inverno 1972 vedono il proliferare delle battaglie di piazza. Si può dire che non c'è manifestazione promossa dai gruppi e dai resti del movimento che non si concluda con la guerriglia urbana. Al Sud esplodono le rivolte: a Caserta in seguito a un avvenimento sportivo, a Reggio Calabria la destra si impadronisce della città facendo leva su antichi e mai completamente scomparsi antistatualismi e sulla miseria delle popolazioni meridionali. Nelle rivolte delle carceri e del sottoproletariato urbano nuove marginalità si fanno soggetto politico. In questo clima si accentua lo scivolamento verso l'organizzazione della lotta armata. Sarà una svolta decisiva per la storia dell'estremismo, ne determinerà un'irreversibile crisi.

1 Cfr. W. Laqueur, «Storia del terrorismo», Rizzoli, 1978. 2 Cfr., «Raf, formare l'armata rossa- I «tupamaros d'Europa...?», prefazione L. Della Mea, Bertani editore, 1972.

3 Gruppo di studio IBM, «IBM capitale imperialistico e proletariato moderno», Sapere, 1973. 4 Lettera dal carcere di Casale, pubblicata su «ABC», n. 9, marzo 1975 e su «Rosso», n. 15, marzo-aprile 1975.

6. La rivolta di Reggio

II 1970 è un anno diffìcile per il Pci e per l'insieme del movimento operaio e democratico: si è aperto con la strage di piazza Fontana a cui è seguita l'ondata repressiva e il pullulare dello squadrismo fascista. Il sindacato, concluse le lotte sui contratti, sceglie il terreno sociale delle riforme ma il processo unitario procede con lentezza e il confronto con il governo è reso difficile dalla precarietà del quadro politico. Accrescono le difficoltà i risultati delle elezioni regionali. Arretrano il Pci e il Psiup, mentre aumenta l'astensionismo, specie nelle zone operaie e urbane. Arnaldo Forlani, allora segretario della Dc, ha condotto la campagna elettorale all'insegna dell'omonimo preambolo, non solo per la volontà di chiudere ai comunisti ma per costringere il Psi a scegliere e caratterizzare in senso moderato la formula di centrosinistra. Il rifiuto socialista di praticare il preambolo Forlani congiuntamente alle tensioni economiche porta alla caduta del governo Rumor. Si manifestano in varia misura segni di scollamento fra lotte sociali e Partito comunista. Nelle fabbriche numerosi episodi testimoniano il crescere della tensione nel rapporto tra lavoratori e sindacato. Lo spostamento sul terreno delle riforme ha dato dimensione politica generale all'iniziativa sindacale ma ha scoperto il fronte aziendale. All'Alfa già nella primavera erano riprese le vertenze sui ritmi e sulle condizioni interne. I sindacati riassorbono le spinte in una vertenza aziendale, ma la piattaforma è incerta e le trattative sono defaticanti. Lotta continua, all'insegna dello slogan «poche ore di sciopero non risolvono nulla», cerca di scavalcare il programma di sciopero dei sindacati. Nel mese di giugno alla Mirafìori si susseguono scioperi autonomi. All'inizio «l'Unità» non dà risalto alla notizia: «In alcune officine della Mirafiori gli operai hanno prolungato l'orario di sciopero sindacale». All'indomani diecimila lavoratori promuovono un imponente corteo interno. Così lo descrive «Lotta continua»: «I capi, i delegati crumiri, i guardiani, gli impiegati fuggono e si rintanano ma ogni tanto un operaio ne becca due nascosti in refettorio e li presenta ai compagni tenendoli per il bavero». Per il 7 luglio 1970 il sindacato proclama lo sciopero generale di ventiquattro ore per le riforme. Contro lo sciopero — che per il padronato è il più insensato e colpevole del dopoguerra — si dimette il governo Rumor. Per la Cgil è «una grave provocazione politica». Tutti i sindacati sono concordi: il rischio è una svolta a destra. Lo sciopero è revocato. La dichiarazione della direzione politica del Pci dell'8 luglio '70 sottolinea la peculiarità e l'ampiezza dell'offensiva reazionaria

dopo l'autunno: «Sono state tentate strade diverse per spingere ad una situazione grave della vita economica nazionale ben sapendo che un'abbassamento delle condizioni di vita delle masse lavoratrici, e con l'acutizzarsi di certe contraddizioni all'interno delle classi lavoratrici, e fra Nord e Sud, si sarebbero aperte le possibilità più reali per la reazione». A Rumor succede Colombo; la prima scelta del nuovo governo è un attacco sul fronte economico-sociale: il 27 agosto vara misure anticongiunturali che colpiscono indiscriminatamente i consumi popolari senza dare avvio a nessuna politica strutturale di riforma. I gruppi parlamentari del Manifesto e del Psiup scelgono la via dell'ostruzionismo. Al contrario, l'«opposizione costruttiva» del Pci propone un complesso di emendamenti che hanno lo scopo di affermare scelte qualitativamente diverse, assicurare la piena occupazione e superare gli squilibri e le lacerazioni del tessuto sociale. Dall estremismo viene un coro di critiche. Lotta continua, Potere operaio, i gruppi marxisti-leninisti. Avanguardia operaia. Manifesto, Movimento studentesco, tutti sono concordi: si tratta di un ulteriore patteggiamento fra revisionismo e borghesia, il Pci per legittimarsi come forza di governo contratta la tregua sociale, lancia un ponte al grande padronato, strizza l'occhio alla Dc. In luglio, esplode la rivolta di Reggio Calabria 1. La proposta di Catanzaro come sede dell'assemblea regionale infiamma la protesta campanilistica, pretesto per una più generale ribellione,. espressione inquietante del groviglio di problemi vecchi e nuovi che si addensano nella realtà meridionale. Per i partiti dell'estremismo le barricate dei quartieri popolari di Reggio sono un brusco richiamo alla realtà meridionale. La ribellione popolare trova nelle destre locali il suo principale motore: la sovversione, la rivolta contro lo Stato è una carta che va giocata fino in fondo, se le forze della rivoluzione non sanno utilizzarla altri se ne avvantaggiano. Per le rivolte non c'è colore: destra e sinistra sono vecchie categorie di comodo, quando ci si batte contro lo Stato e si viene repressi si sta tutti dalla stessa parte. Anche la sinistra tradizionale si interroga: rivoluzione o reazione. Le risposte saranno contraddittorie. E la prima volta che le organizzazioni del movimento operaio non hanno assunto l'iniziativa di fronte a un grande moto di massa e anzi sono costrette alla difensiva. Non sono in pochi nel Psiup e nella sinistra cattolica a fare paragoni e parallelismi con quello che accade in altre nazioni in cui si sono imposti sommovimenti e lotte alimentate da ragioni locali, autonomismi e minoranze. La domanda di fondo rimarrà: la rivolta di Reggio poteva essere gestita e incanalata su obiettivi giusti dai partiti operai e dai sindacati? La «rivolta», inizia il 5 luglio, lo stesso giorno in cui è convocato il consiglio regionale a Catanzaro, col rapporto alla città del sindaco democristiano Piero Battaglia; finirà nel febbraio del '71 con la decisione dell'assetto istituzionale in Calabria e l'intervento militare nei quartieri popolari di Santa Caterina e Sbarre. A metà settembre, intervenendo alla commissione Interni della Camera il ministro degli Interni, Restivo, fa un primo bilancio del periodo compreso tra il 5 luglio e il

15 settembre: 19 giorni di sciopero generale, 32 blocchi stradali, 14 ferroviari, 2 portuali, 1 aereoportuale, 1 radiotelevisivo, 23 scontri con la polizia, 6 assalti alla prefettura, 4 alla Questura, 283 persone fermate, 426 denunciate in stato di arresto o a piede libero, 191 feriti fra la polizia, 37 fra i civili, 3 morti dei quali 2 civili e un militare. Si è ancora all'inizio di quelli che saranno i cento giorni di Reggio, sarà un crescendo di violenza, di tentate stragi. Ben presto le azioni di protesta sfuggono al controllo del Comitato d'iniziativa a cui partecipano notabili Dc, dirigenti della Cisl e autorità ecclesiastiche, fallito ogni tentativo di ricondurre le azioni alla pacificazione avrà buon gioco il «Boia chi molla» di Ciccio Franco e delle sue squadre. I gruppi organizzati della destra cercano con ogni mezzo di egemonizzare la rabbia popolare, una presenza inquinante e decisiva che tuttavia sarebbe erroneo considerare l'unico motore della rivolta; essi si avvantaggiano del clima di protesta, di una consumata sfiducia nelle istituzioni, sfruttano le debolezze dello stato e il suo scollamento dalla realtà meridionale. Già nel corso del '69 in Calabria sono particolarmente attivi i gruppi del Fronte nazionale di Valerio Borghese, di Avanguardia nazionale e di Ordine nuovo; a Nicotera, sulla Sila, a San Lorenzo in Marina, i loro campi di addestramento alla guerriglia e alla controguerriglia. A Reggio Calabria, sul finire dell'anno, si segnalano alcuni attentati: cariche di tritolo alla Sip, al Catasto, alla chiesa di San Brunello, alla Standa, alla chiesa di San Lorenzo in Marina, il più grave alla Questura, è il 7 dicembre cinque giorni prima delle bombe di piazza Fontana, A metà luglio '70 i primi blocchi stradali, selvagge cariche della polizia. La Cgil lascia liberi i suoi aderenti di partecipare alle manifestazioni, il comitato cittadino del Psi, in polemica con la federazione provinciale, aderisce alla lotta. Il 15 luglio barricate nella città, dimostranti guidati dal consigliere provinciale della Dc, Arillotta, assaltano le sedi del Pci e del Psi. L'appello alla calma lanciato dal sindaco Battaglia non è raccolto, proseguono ininterrottamente gli scontri, in serata dopo una carica della polizia la morte del ferroviere Bruno Labate iscritto allo Sfi-Cgil. È la paralisi totale della città. Ai suoi funerali i gruppi squadristici di destra fanno la loro prima comparsa organizzata: oltre 200 persone lanciano molotov contro la Questura e cercano di coinvolgere nella battaglia i manifestanti. La direzione della rivolta passa dal sindaco Battaglia, considerato moderato, al Comitato di agitazione, lo compongono avventurieri locali, esponenti degli agrari, notabili della De e il missino Aloi che ha nel quartiere di Santa Caterina la sua roccaforte. Un parziale ritorno alla calma si ha dopo il 22 luglio in seguito alla decisione di sospendere il consiglio regionale già convocato a Catanzaro. Proprio lo stesso giorno a Gioia Tauro viene fatto deragliare il Treno del Sole: 6 morti e 50 feriti. Fallisce in attentato al tratto ferrovario tra Villa e Cannitello. Il Pci, con un comunicato della direzione, prende posizione sul carattere eversivo dei moti di Reggio e contro l'atteggiamento dei partiti di centro-sinistra. Anche il Comitato di agitazione viene liquidato, l'ala più oltranzista confluisce nel Comitato d'azione di marca fascista ed eversivo presieduto dall'ex segretario della

Cisnal, Ciccio Franco, ne fa parte anche l'industriale del caffè Demetrio Mauro. Ad una adunata di oltre diecimila persone Ciccio Franco afferma «la battaglia per Reggio capoluogo inizia da oggi» e lancia lo slogan «Boia chi molla!». Di lì a poco non esiterà a prospettare la volontà di esportare i moti in tutta la regione, un tentativo sarà sventato a Villa San Giovanni dove la polizia deve interrompere tutte le comunicazioni con la Sicilia. Al Comitato d'azione si contrappone su una linea più moderata il Comitato unitario a cui partecipano esponenti della Dc e del Psi, ma ancora si è ad una gestione che ha molti tratti in comune. La rottura ci sarà solo dopo le manifestazioni della metà di settembre. Al loro divieto da parte delle autorità di polizia, Ciccio Franco risponde con la minaccia di costruire le «Brigate» per Reggio libera; fanno la loro comparsa le armi da fuoco. Lo sciopero del 14 settembre è l'occasione di nuove provocazioni, assalti alle sedi dei partiti democratici e violenze, mentre la città è un infittirsi di barricate, proseguono gli scontri con la polizia: sassaiole, blocchi alla stazione, lancio di molotov, nei quartieri si spara, un incendio di grandi proporzioni culmina con la morte dell'operaio Angelo Campanella. Il 23 settembre ancora bombe sui binari della stazione di Taureana a pochi chilometri da Gioia Tauro; un ordigno esplosivo scoppia alla stazione di Santa Caterina. Mentre il sindacato unitariamente lancia la piattaforma per la rinascita regionale e le forze politiche tentano di trovare una soluzione alla vicenda del capoluogo, nel susseguirsi di riunioni, di rapporti-vertice col governo centrale, nel contrapporsi delle varie proposte-pacchetto per la Calabria, mentre i tradizionali notabili del Meridione cercano di riprendere ognuno per proprio conto fette della perduta egemonia, a Reggio proseguono i tumulti diretti dalle squadre di Ciccio Franco. I quartieri di: Sbarre, Santa Caterina, Ferrovieri, piazza Italia sono circondati dalle barricate che vengono innalzate subito dopo ogni rimozione delle forze dell'ordine. Il 9 ottobre un nuovo attentato: saltano 40 metri di rotaia a Eronova, una stazione fra Gioia Tauro e Rosarno. Un agente è ferito da colpi di pistola nel corso della battaglia che si sviluppa su uno dei ponti che collega Sbarre al centro della città. Ad attentato segue attentato. All'inizio del '71, l'intervento dell'esercito: reparti di alpini, bersaglieri, paracadutisti circondano Reggio, si calcola che siano più di diecimila fra militari e forze dell'ordine. Il 28 gennaio la dura dichiarazione di Enrico Berlinguer vicesegretario del Pci: «È giunto il momento di stroncare le provocazioni fasciste!». Due giorni dopo il tentativo di assalto alla federazione del Pci di Reggio. I sindacati si impegnano in mezzo a molte difficoltà a far riprendere il traffico ferroviario. Ciccio Franco, insieme ad altri esponenti del Comitato d'azione, è colpito da mandato di cattura, inizia la sua latitanza, lo ritroveremo eletto nelle liste del Msi sui banchi di Palazzo Madama. Il 3 febbraio una carica di esplosivo al Palazzo della Provincia di Catanzaro, il giorno dopo la strage: cinque bombe a mano sono lanciate contro la

manifestazione antifascista che si svolge a Piazza Grimaldi, nell'esplosione muore il muratore socialista Giuseppe Malacaria, rimangono ferite 11 persone. Nonostante il lutto cittadino non cessano le violenze. Arrivano a Reggio la divisione Aqui e 30 mezzi cingolati M 13 dei carabinieri che si attestano a Santa Caterina. Qualche giorno dopo un carro armato tipo Sherman, in dotazione ai carabinieri, entra nel quartiere di Sbarre: il blocco del rione è durato oltre 20 giorni. A Reggio Calabria il 4 aprile dopo l'approvazione dello statuto si ha la proclamazione ufficiale del consiglio regionale. Ha vinto lo Stato, ma la democrazia è stata profondamente colpita. A Reggio sono esplose tutte le contraddizioni di un meridionalismo assistenziale e notabilare, i fascisti si sono serviti della rabbia e della disperazione per una prova di forza. La sinistra storica ha pagato un alto prezzo politico alla sua incapacità a fronteggiare il dramma storico del Meridione e a comprenderne le novità, dovrà trame tutte le sue implicazioni. I fatti di Reggio Calabria e poi quelli dell'Aquila del marzo 1971, impegnano il partito comunista in una severa riflessione autocritica. Scrive su «Rinascita» Alfredo Reichlin: «Sono fatti molto gravi che impongono una seria riflessione poiché essi mettono in luce limiti e difetti molto profondi del partito e del movimento popolare, la debolezza dei legami con le masse povere e di piccola gente, e soprattutto con la gioventù delle città meridionali, i pericoli che minacciano la democrazia nel Mezzogiorno, il rischio quindi che le Regioni nascano morte». E prosegue: «II colpo subito a Reggio non deve nascondere il fatto che in Calabria e nel Mezzogiorno siamo in presenza di una situazione nuova che il livello nello scontro (che certo lì non abbiamo saputo fronteggiare come si doveva) è molto avanzato, molto politico. Altro che spontaneità. A Reggio — noi riteniamo — è solo una battaglia che fa parte di una guerra più vasta. In altre parole, nelle vicende di Reggio si esprime contraddittoriamente, sia tutto il passato (una situazione di retroterra non solo sociale ma anche ideale e culturale, e il limite grave di un partito che non riesce a rinnovarsi e perciò riflette in parte tutto ciò sul suo volto) sia tutta la crisi del vecchio blocco di potere» 2. Dai fatti di Reggio, da quelli dell'Aquila nasce la necessità di un nuovo impegno del partito comunista: non uno «Stato maggiore politico» ma un'organizzazione di massa capace di una propria azione di agitazione, di promozione di lotta 3. Con questo spirito, con questa volontà si risponde alle innumerevoli provocazioni: alla rivolta dell' Aquila dei primi di marzo, alla manifestazione promossa a Roma dai sedicenti «amici delle forze armate». Fra scalpore, incredulità e minimizzazione, il 20 marzo '71 il giornale romano «Paese sera» diffonde la notizia dell'incriminazione di Valerio Borghese accusato di aver ideato un golpe mancato. Il tentativo dell'ex comandante della X Mas, fondatore il 13 settembre del '68 — davanti ad un notaio di Roma — del Fronte nazionale rivoluzionario, risale alla notte tra il 7 e 1'8 dicembre 1970. Erano pronti gruppi d'assalto dentro lo stesso Viminale, era stato predisposto un blocco alle

centrali elettriche e telefoniche, mentre un corpo di forestali — attestato sulle montagne del reatino — doveva consentire l'occupazione della Rai. Il piano non era un mistero nei salotti dell'alta borghesia romana e proprio in quegli ambienti Borghese cercava e trovava i finanziamenti alla sua organizzazione e potenti coperture. Nella sua villa vengono sequestrati elenchi di nomi compromessi, nel fallito colpo di Stato figurano alti ufficiali dell'esercito e due ammiragli. Nel paese un vasto arco di forze democratiche dà vita ad imponenti manifestazioni antifasciste, l'appuntamento nazionale a Roma, coi comuni di tutta Italia coi loro gonfaloni, vede la partecipazione di oltre trecentomila persone; ovunque si estendono i Comitati unitari antifascisti, la risposta democratica contro la strategia della tensione è la costruzione di un vasto movimento unitario e di massa.

1 Per la cronologia Cfr. F. D'Agostino, «Reggio Calabria, i moti del luglio 1970febbraio 1971», Feltrinelli, 1972. 2 A. Reichlin, I fatti di Reggio Calabria, «Rinascita», n. 33, 21 luglio 1970. 3 E. Berlinguer, intervento al convegno dei quadri meridionali del Pci, l'Aquila, 34 ottobre 1972; ora in E. Berlinguer, «La “questione comunista”», a cura di A. Tatò, Editori Riuniti, 1975, vol. 1, p. 499.

7. Il Traliccio di Segrate

In agosto Potere operaio sperimenta a Porto Marghera le forme di lotta della rivolta di Reggio: blocchi stradali, bottiglie incendiarie, barricate, cerca di coinvolgere i quartieri intorno al Petrolchimico. Nella sua seconda conferenza d'organizzazione a Bologna in settembre, lancia un ponte verso il Manifesto avviando la costruzione dei Comitati politici, ma non rinuncia a perseguire la linea della militarizzazione dello scontro. Intanto attorno alle questioni economiche riprende l'offensiva dei gruppi: mobilitazioni e incidenti a Roma, Firenze, Bologna. «L'autunno rosso è già cominciato»: con questo titolo «Sinistra proletaria» annuncia la costituzione delle Brigate rosse. Negli argomenti e nelle parole d'ordine del'giornale echeggiano motivi ampiamente ripresi dalla Gauche proletarienne e non c'è dubbio che la decisione del governo francese di dichiarare fuori legge quel gruppo ha un notevole effetto nelle scelte dell ex Collettivo metropolitano milanese. La rivolta di Reggio Calabria entra a pieno titolo nel dibattito dei gruppi. Scrive Guido Viale: «Che la battaglia di corso Traiano possa ripetersi nelle città del settentrione, come le rivolte nere degli Stati Uniti si riproducono da Harlem a Watts, a Detroit, a Washington, è sicuramente un errore di previsione. Ma ha permesso di capire le rivolte di Battipaglia, Caserta, di Reggio, dell'Aquila» 1. Su «Lotta continua» e su «Potere operaio» numerosi i resoconti e le esaltazioni: «Reggio Proletaria, Reggio Rossa»; è «il punto più alto della rivoluzione proletaria nel Sud». Attorno alla parola d'ordine «prendiamoci la città», lo slogan della conferenza indetta a Bologna, Lotta continua riorganizza la sua presenza sociale. Il tema della violenza echeggia nelle tesi del «Manifesto» pubblicate in settembre: «questa crisi è necessariamente violenta, anche se non può assumere la forma della guerra civile, per la forza stessa del movimento». Facendo il bilancio di un anno di «antifascismo militante», «Lotta continua» usa termini come «giustizia proletaria» per commentare l'omicidio dell'esponente missino Venturini e «gogna proletaria» a proposito dei sequestri dell'avvocato Mitolo e del sindacalista Piccolo da parte di un corteo di operai. Tra dicembre e giugno numerosi gli episodi di violenza in varie città, è un microterrorismo che ha come principale obiettivo i fascisti. Si estende l'organizzazione delle Br: ad aprile esce «Nuova resistenza»: pubblica documenti dei Gap e informazioni sulla guerriglia nel mondo; alla Siet Siemens e alla Pirelli, in settembre, le prime azioni. Guerra civile e lotta armata sono i temi che rimbalzano da gruppo a gruppo. Alle teorie fa da verifica la crescente asprezza

delle manifestazioni. Ormai l'obiettivo principale è lo scontro duro: provocare un'irreversibile crisi del sistema, smascherando così la falsa democrazia dietro cui si celano i disegni reazionari e conservatori. In questo terreno di coltura del sovversivismo sociale si colloca la prima riflessione teorica delle Brigate rosse. Nel documento-intervista, del settembre 1971, i brigatisti esplicitano il loro progetto di partito armato e la loro posizione nei confronti dei gruppi extraparlamentari: «Non ci interessa sviluppare una polemica ideologica. Il nostro atteggiamento nei loro confronti è innanzitutto determinato dalla posizione sulla lotta armata. In realtà nonostante le definizioni rivoluzionarie che questi gruppi si attribuiscono al loro interno prospera una forte corrente neofascista con la quale non abbiamo niente a che spartire che riteniamo si costituirà al momento opportuno in una forte opposizione all'organizzazione armata del proletariato. Meno sicuramente un'altra parte dei militanti accetterà questa prospettiva. Con essi il discorso è aperto»2 . La crisi politica trova il suo apice nel dicembre '71 in occasione del voto per il presidente della Repubblica. Fanfani non riesce nel suo obiettivo. In una equivoca convergenza fra schieramento moderato e Msi si arriva all'elezione di Giovanni Leone. Secondo il politologo Giorgio Galli è in questo periodo che si delinca un aspro conflitto fra le forze di quello che egli definisce il «governo invisibile». Nel suo La crisi italiana e la destra internazionale scrive infatti: «Da una parte la maggioranza ritiene di aver avviato la stabilizzazione; è pronta a favorire il recupero di una posizione centrale da parte della Dc, pur consolidando le posizione del Msi vanno invece liquidati i gruppi estremisti del terrorismo di destra. La parte minoritaria del governo invisibile ritiene invece che la situazione sia sempre difficile, che la Dc non offra sufficienti garanzie che bisogna puntare in misura maggiore sul Msi senza liquidare il terrorismo di destra» 3. Ipotesi credibile se confrontata al groviglio di situazioni che si addensano nel periodo primavera inverno '72 e si prolungheranno negli anni successivi. La liquidazione dell'eversione nera, ritenuta ormai un ostacolo, provoca duri contraccolpi; al tempo stesso molti episodi dai torbidi contorni tendono a rilanciare l'allarme sociale sui rischi del pericolo «rosso». Lo scontro si riflette nella lotta ai vertici del Sid, una lunga crisi di transizione che troverà la sua massima tensione nella seconda metà del 1974 con la consegna da parte del generale Maletti del dossier sui retroscena del golpe Borghese e sul terrorismo di destra. Tassello decisivo di questa battaglia fra poteri occulti variamente collocati nel sistema di potere: l'avvento nel giugno '71 a capo dell'ufficio «D» del Sid del generale Maletti. Giuseppe de Lutiis in Storia dei Servizi segreti in Italia collega direttamente la nomina, peraltro contestuale al richiamo da Rangoon dell'ambasciatore Edgardo Sogno, alla preparazione di una soluzione d'ordine diversa dal colpo di stato militare: «L'alternativa è un golpe incruento che dovrà avere caratteristiche di riforma istituzionale e venature di "sinistra". Sarà appoggiato dalla parte più moderna del mondo industriale e tenderà ad inserire l'Italia — priva del "pericolo" comunista — in un contesto europeo più efficiente, tecnocratico e possibilmente in posizione di maggior

autonomia rispetto agli Stati Uniti» 4. Si tratta del progetto di «golpe bianco» che ha come aperti sostenitori personaggi come Edgardo Sogno e Luigi Cavallo, nome ricorrente nella storia di oscure provocazioni alla Fiat, nonché settori di diverse aree politiche e sul piano economico si avvale dell'appoggio della stessa Fiat. È evidente che per portare a compimento questo disegno occorre liberare la scena dai protagonisti del golpismo più rozzo. Le inchieste sul terrorismo subiscono rallentamenti e attivazioni funzionali a questo obiettivo. Il processo Valpreda subisce un ulteriore rinvio; al contrario si accelera l'inchiesta, prima frenata sul gruppo Freda e Ventura, inchiesta che arriverà fino all'arresto di Pino Rauti. Inizia in questo contesto la battaglia per la liquidazione del generale Miceli capo del Sid nonché le contro tendenze che questo riassestamento della linea eversiva mette in moto. Gli eventi del marzo '72, il sequestro Macchiarmi, la battaglia dell'11 marzo a Milano, la morte di Feltrinelli, e l'uccisione del commissario Calabresi, sia pure nella loro diversità e nelle singole meccaniche, serviranno alle forze più oltranziste del cosiddetto governo invisibile a riproporre la psicosi della guerriglia urbana e del terrorismo promosso dalla sinistra. Nella prima metà del 1972, la lotta armata è ormai una tragica realtà. Il 3 marzo il primo sequestro politico, Macchiarini. Nel «carcere» delle Brigate rosse il dirigente della Sit-Siemens è sottoposto a «processo politico». Sul cartello appeso al collo la frase: «Macchiarini Idalgo dirigente della Siemens, processato dalle Br. I proletari hanno preso le armi, per i padroni è l'inizio della fine». Nonostante il divieto della Questura, a Milano, città-laboratorio dell'eversione, l'11 marzo si svolge la manifestazione indetta dal Comitato di lotta sulla strage di Stato. La reazione della polizia provoca la morte di un pensionato. Gli scontri sono durissimi, in prima fila il servizio d'ordine di Potere operaio. Il Manifesto impegnato nella preparazione della sua campagna elettorale è uscito dal Comitato di lotta. Fra i gruppi la polemica è accesa. «Potere operaio» afferma: «il diritto di stare in piazza lo si conquista con la forza della propria organizzazione, non lo si può ottenere attraverso il legalitarismo e le trattative con la Questura». E ancora: «L'autodifesa militante del movimento rivoluzionario ha saputo sostenere il carattere politicamente offensivo della manifestazione: con i sassi, con le bottiglie, con le fionde, con le barricate i compagni hanno respinto per ore, strada per strada, gli attacchi della polizia ancora una volta assassina» 5. Dello stesso tenore è il giudizio di «Lotta continua» 6. Per «Avanguardia operaia» la repressione contro le forze rivoluzionarie non ha più «il significato di un diversivo intorno alla questione della strage di Stato, ma è parte integrante del suo disegno più ampio di realizzazione di uno Stato forte» 7. Tuttavia anche Avanguardia operaia, consapevole dei rischi di avventurismo, uscirà di lì a poco dal Comitato di lotta contro la strage di Stato. Sono passati quattro giorni dai fatti di Milano quando, il 15 marzo, a Segrate nei pressi del capoluogo lombardo è rinvenuto il cadavere di Giangiacomo Feltrinelli. «Potere operaio» non ha esitazioni: Feltrinelli apparteneva ai Gap. Il gruppo è nel

cerchio delle indagini, circola la voce di una sua messa fuori legge. «Giù le mani da Potere operaio» proclama minacciosa «Lotta continua». «Avanguardia operaia», prende le distanze e definisce avventuristiche le posizioni di «Lotta continua» e di «Potere operaio». Ancora a Milano, il 17 marzo, è ucciso il commissario Luigi Calabresi. Il suo nome è legato alle indagini sulle bombe di piazza Fontana e alla morte dell'anarchico Pinelli. In quegli stessi giorni si svolge il XIII congresso del Pci. La parola d'ordine «per un governo di svolta democratica», lanciata per l'imminente campagna elettorale, vuole offrire un organico sbocco politico alla battaglia per le riforme di struttura superando il loro settorialismo, la pura somma di rivendicazioni, per porre come questione centrale la dirczione politica del paese, «un diverso modo di governare», di fronte alla crisi lacerante in cui si dibatte ormai il centrosinistra: «II problema del rapporto con il Partito comunista», afferma Enrico Berlinguer, che alla chiusura del congresso sarà eletto segretario del partito, «è diventato sempre più pressante fino a presentarsi, come avviene ora, il problema centrale della vita del nostro paese e la condizione prima per farlo uscire dalla grave crisi che attraversa. E possibile uscire dalla crisi del paese solo con un rapporto nuovo con i comunisti». Denunciata la Dc e il suo sistema di potere, la relazione di Berlinguer si sofferma ampiamente sui caratteri della crisi: «Essa investe non solo l'economia ma l'insieme delle relazioni sociali, la morale, la cultura, le grandi questioni ideali. Essa è conseguenza delle trasformazioni sociali intervenute nel paese; la tumultuosa espansione dell'ultimo decennio, le diverse e contraddittorie sollecitazioni che si sono manifestate nello sviluppo dei vari momenti di emancipazione, l'emergere in forma sempre più acuta di problemi drammatici per l'avvenire stesso dell'umanità. Tutti elementi che modificano le abitudini di vita, che incidono nelle vecchie concezioni dell'uomo, della famiglia, della società, sulle sorti e sul futuro del mondo. Un sommovimento in cui accanto ai fatti positivi si registrano angosce e smarrimenti, un clima di incertezza su cui tenta di far leva la forza reazionaria — la destra fascista — sollecitando nostalgie, e invocando il ristabilirsi di un vecchio "ordine sociale"»8. Per il Pci sanare la crisi di valori ideali e morali, significa costruire un ordine civile e democratico che superi l'assurdo disordine prodotto dallo sviluppo capitalistico e da venticinque anni di governi conservatori. Diventa, dunque, prioritario dare al paese una diversa dirczione, adeguata alle lotte e a quel bisogno di cambiamento che non ha trovato una corrispondente soddisfazione. Non ha vinto il disegno della divisione. Anzi, fallita l'unificazione socialdemocratica, nuove possibilità si aprono nei rapporti fra partito comunista e socialista, appaiono rafforzati i rapporti col Psiup. Si può lavorare ad una nuova intesa fra le forze di sinistra, come asse fondamentale per un più generale impegno per le riforme e nella lotta contro il rischio di rigurgiti di destra. Per la prima volta dopo decenni si stanno verificando condizioni che costringono la Dc a confrontarsi con uno schieramento a sinistra, non ipotecato da vecchie logiche

«frontiste» ma esteso a tutte le forze che vogliono «far avanzare una alternativa di governo, basata sulla collaborazione delle correnti popolari, democratiche, antifasciste». Partendo da queste premesse e nella consapevolezza che le conquiste di progresso, di democrazia nel paese non possono andare avanti senza 1'«apporto autonomo delle varie componenti politico-ideali della società italiana, quella socialista e cattolica», condizione decisiva per il Pci è lo sviluppo dell'unità senza offuscare la propria identità ma al contrario esaltando la sua insostituibile funzione nella lotta per il socialismo. Gli effetti della strategia della tensione si fanno sentire nel risultato elettorale del 7 maggio, mentre appare evidente il disegno democristiano di utilizzare la teoria degli opposti estremismi sullo sfondo inquietante delle trame eversive e del terrorismo. Le sinistre perdono seggi, la De è stabile, mentre a destra si registra un aumento del Msi. La prova elettorale del Manifesto e del Partito comunista marxista-leninista è un completo fallimento: le due liste ottengono come unico risultato la dispersione dei voti a sinistra, aggravata dal crollo elettorale del Psiup e dal risultato negativo del Movimento politico dei lavoratori. La candidatura di Pietro Valpreda non è bastata a risolvere i contrasti interni al Manifesto, dissensi che hanno portato alle dimissioni dal direttivo nazionale del leader fondatore del gruppo Aldo Natoli, né a costruire attorno alla scelta elettorale il consenso delle altre formazioni extraparlamentari, fatta eccezione per qualche modesto segnale di attenzione da parte di Lotta continua. Cade nel vuoto la parola d'ordine del «voto rosso» come pronunciamento contro la società e lo Stato borghese, come impegno a costruire uno schieramento di lotta rivoluzionario. Il risultato negativo acutizza le polemiche interne e rende ancora più estesa la critica al Manifesto di strumentalizzazione e separazione dal movimento. La costituzione del governo Andreotti-Malagodi, composto da Dc e Pli con l'appoggio di socialdemocratici e repubblicani e con il voto determinante del Movimento sociale, sancisce lo spostamento a destra della situazione politica.

1 G. Viale, «II sessantotto, tra rivoluzione e restaurazione», cit., p. 238. 2 Brigate rosse, settembre 1971. 3 G. Galli, «La crisi italiana e la destra intemazionale», Mondadori, 1974, p. 39.

4 G. De Lutiis, «Storia dei servizi segreti in Italia», Editori Riuniti, 1984, p. 193. 5 «Potere operaio del lunedì», 26 marzo 1972. 6 «Lotta continua», 23 aprile 1972. 7 «Lotta continua», 23 aprile 1972. 8 E. Berlinguer, La «questione comunista», cit., pp. 404-432.

8 .Contro il governo Andreotti-Malagodi

Dopo le elezioni si registra un riassestamento nell'area dell'estrema sinistra. Si conclude l'esperienza del Psiup, un partito che pur assolvendo un'innegabile funzione nel panorama della sinistra non ha trovato una sua identità. La maggioranza dei socialproletari confluisce nel Pci. La scelta non è condivisa dagli appartenenti all'area di Miniati e Foa: inizia il percorso che porterà alla formazione del Partito di unità proletaria. Sul Manifesto grava il peso della sconfitta elettorale. Ai contrasti interni si aggiunge la polemica degli altri gruppi: appare ormai irreversibile la rottura operatasi già in occasione dell'11 marzo. Consapevole dei rischi di avventurismo che attanagliano le altre formazioni, il Manifesto accompagna l'autocritica all'ansiosa ricerca di un proprio ruolo politico. Tuttavia permane l'illusione di poter unire in un medesimo progetto le forze della sinistra rivoluzionaria. L'uno dopo l'altro i vari comitati politici, sorti unitariamente con Potere operaio, vanno verso l'autoscioglimento nell'Autonomia. Contemporaneamente si accelera la rincorsa verso l'organizzazione della lotta armata. La cultura dell'estremismo, per effetto delle sue stesse contraddizioni, origina percorsi diametralmente opposti. I tentativi di definirsi in partito, al di là delle reiterate proclamazioni, entrano progressivamente in crisi, cozzando con la magmaticità del movimento postsessantottesco. Per il Manifesto, dopo la definitiva liquidazione dei comitati politici, si avvia il processo di unificazione con il gruppo ex Psiup che ha rifiutato la confluenza nel Pci. Sarà un rapporto diffìcile: i congressi di scioglimento delle due organizzazioni non risolveranno le differenze di storia e di formazione politica e il nuovo Pdup sarà la terra di confine di varie culture non mediate da una comune strategia. Avanguardia operaia, attraverso un infittirsi di iniziative, cerca il partito: approderà attorno al 1975 a Democrazia proletaria, il cartello elettorale costituito per le elezioni amministrative insieme al Manifesto, che si farà autonomo gruppo nella seconda metà degli anni settanta. Lotta continua procede per fasi alterne, oscillando fra partito e movimento, fra dimensione politica e autonomismo. Dopo i foschi avvenimenti del marzo 1972, la morte di Feltrinelli e l'uccisione del commissario Calabresi, è in sintonia dialettica con Potere operaio sui temi della lotta armata. Solo con il sequestro Mincuzzi del 1973 denuncerà l'avventurismo delle Br, tuttavia non sarà un netto distacco dalla lotta armata. Il suo farsi partito incontra non poche resistenze interne: si succedono le fughe, anche se il suo trasformismo consente un certo recupero della sua presenza organizzata. Più di

altre formazioni entra in risonanza con le campagne sui diritti civili, e all'insegna del «governo delle sinistre» arriverà spregiudicatamente a sostenere il voto al Pci nelle elezioni amministrative del 15 giugno 1975. Netto il destino di Potere operaio. Il «partito dell'insurrezione» sceglierà l'autoscioglimento per ridefinirsi nell'Autonomia operaia insieme al Gruppo Gramsci e ai vari spezzoni delle Assemblee autonome. Tale rimescolamento della geografia politica dell'estremismo non è separabile dal ciclo politico che contrassegna il periodo compreso fra il voto del 7 maggio 1972 e i terremoti elettorali del 1975 e 1976 e dalle caratteristiche che assume il dibattito sulla lotta armata mentre si profila in termini inediti la «questione comunista» e le organizzazioni sindacali sono messe a dura prova da un padronato che punta con decisione ad attaccare le conquiste dell'autunno caldo. E in questo contesto che vanno collocate le azioni «esemplari» delle Br e la loro ripercussione nella vicenda dell'estremismo. Dopo Feltrinelli non è più un mistero che alcuni militanti della «sinistra rivoluzionaria» hanno scelto e praticano la lotta armata. Appare chiaro che gli scontri di piazza non sono frutto di spontaneità ma sono sapientemente programmati da una regia militarista. Potere operaio diffonde i materiali delle Br e si fa propagandista dei comunicati che scandiscono le loro azioni armate. Il Manifesto e Avanguardia operaia prendono le distanze ma si limitano ad accusare generici complotti e trame piuttosto che comprendere e contrastare la lotta armata che sta lavorando dentro la crisi dell'estremismo e sfrutta la sua incapacità a farsi interprete delle tensioni più fertili che lo avevano originato e a dare ad esse una prospettiva politica. Dentro Potere operaio la discussione sulla lotta armata procede a ritmi serrati. Di fatto già opera su un doppio livello, quello legale e quello illegale. Sin dal congresso del settembre 1971, considera invecchiati slogan come «guerriglia urbana» e «guerriglia di fabbrica», ormai quello che interessa Potere operaio è «organizzare e armare le masse». Per il gruppo di Negri, Piperno e Scalzone, anche se diviso sul tema dell'organizzazione, una cosa è chiarissima: «il problema della militarizzazione è completamente subordinato allo sviluppo delle lotte di massa». Nell'estate 1972 lo squadrismo fascista riprende l'offensiva. Risponde l'«antifascismo militante». Continua la repressione dello Stato contro i lavoratori. Le dinamiche delle strategie della tensione alimentano il sovversivismo di sinistra e contemporaneamente lo rendono sempre più complementare al terrorismo. Il 25 novembre, a Torino, una manifestazione si conclude con duri scontri con la polizia, arresti e fermi. Il giorno dopo le Br per dare quella che viene definita un'«esemplare punizione», incendiano nove auto di altrettanti «guardiani della Fiat». L'azione terroristica ha bisogno di seguire l'andamento delle lotte per esprimere con maggior forza la sua scelta di trasformare il conflitto sociale in guerra militare, per estendere il consenso attorno al partito armato. Alla fine di novembre, il governo Andreotti approva il disegno di legge sul fermo di polizia: un altro atto che sembra sancire il disegno complessivo dello Stato di

criminalizzare indistintamente le avanguardie rivoluzionarie. Si conclude la lotta contrattuale. Per «l' Unità» e «II manifesto» è una «grande vittoria»; per «Lotta continua» è la «firma della resa». Da parte sua il partito armato non perde l'occasione per inserirsi nella contraddizione fra legalità e eversione dell'estremismo. Dopo la firma del verbale d'intesa fra Fiat e Flm, le Br bruciano sei macchine di sindacalisti gialli. Di lì a poco, in febbraio il sequestro e la «gogna» del segretario provinciale della Cisnal Bruno Labate. L'episodio non suscita reazioni da parte degli operai e del sindacato, anzi passa inosservato nel clima post-contrattuale. Occorrerà arrivare al 1976, dopo il tentativo di aggressione a Bruno Trentin da parte di gruppi dell'Autonomia e dopo un nutrito numero di attentati e incendi, per avere una piena mobilitazione operaia e la consapevolezza del ruolo del terrorismo rosso. Sfruttando il malcontento operaio, ali'ombra delle parole d'ordine dei gruppi estremisti e lavorando sulle loro contraddizioni, i primi nuclei terroristi operano dentro le fabbriche. Alla Fiat sono presenti Antonio Savino, Antonio Basone, Cristoforo Piancone. Mario Moretti lascia la Sit-Siemens alla fine del 1971 ma si dimetterà solo nel 1974. Incendi, attentati e sequestri si susseguono, eppure le Br non vengono isolate dall'estremismo, che anzi è coinvolto dal dibattito sulla natura della lotta armata, né dal sindacato, che reagisce ancora debolmente. Quello che sfugge è la natura del terrorismo rosso, non si comprende la sua matrice eppure si è consapevoli del crescere delle violenze, anche di quelle di fabbrica da parte di gruppi più oltranzisti. Questa prima fase dello sviluppo della lotta armata si liquida come «provocazione» di marca fascista. «Sedicenti Brigate rosse» è l'espressione che ricorre nella stampa di sinistra e nei commenti sindacali. Non si tratta solo di una sottovalutazione, ma anche della conseguenza dell'asprezza del quadro politico e dell'offensiva padronale. Secondo varie fonti, nel 1973 la Fiat attraverso il Msi assume duemila lavoratori: ingrosseranno le fila della Cisnal. La controffensiva padronale è durissima: denunce, licenziamenti, interventi della polizia. Prosegue indisturbata l'azione dello suqadrismo fascista: il Msi è entrato nel gioco politico, in più occasioni sostiene apertamente il governo Andreotti. Insieme alle componenti più integraliste del mondo cattolico e della Dc si fa propugnatore dell'iniziativa per la richiesta di referendum per abrogare la legge sul divorzio. Per il Pci è un grande momento di recupero dell'iniziativa di massa: occorre liquidare quanto prima il governo Andreotti-Malagodi, costruire nuove condizioni politiche, reagire alle minacce eversive, per lo più identificate nella matrice fascista, con un «sussulto democratico». In questo contesto matura quello che le Br definiscono l'attacco ai fascisti in camicia bianca «di Andreotti e della Democrazia cristiana». Il 15 gennaio 1973 un commando armato irrompe nella sede dell'Ucid (Unione cristiana imprenditori dirigenti), incatenano il segretario e requisiscono gli archivi. Il volantino di rivendicazione fa esplicito riferimento alla situazione economica, alla repressione in fabbrica e nel paese: «I prezzi aumentano e la disoccupazione cresce sempre di più; in fabbrica la polizia attacca sempre più ferocemente i picchetti e scioglie con

forza le assemblee operaie; con il "fermo di polizia" gli arresti indiscriminati vogliono impedirci qualunque forma di organizzazione e resistenza». Tutto questo «mentre i fascisti assassini di Almirante godono della più assoluta impunità e gli viene addirittura permesso di riunirsi a congresso». Nel paese ancora manifestazioni di piazza. A Milano, il 24 gennaio, all'Università Bocconi, nel corso di violenti scontri fra gruppi e polizia, trova la morte lo studente Franceschi. Ovunque manifestazioni di protesta. A Torino il bilancio è molto pesante. Il rettore della Bocconi dichiara la serrata. La destra si scatena: il 30 dello stesso mese riprendono le agitazioni a Reggio Calabria, vengono fatte esplodere numerose bombe, al Nord vengono assaltate varie sedi dei partiti democratici. La sinistra, stavolta unita, è impegnata contro il fermo di polizia e nel denunciare all'opinione pubblica la pista nera della strage di piazza Fontana. Il rapporto del questore di Milano, Allitto, sulla sinistra extraparlamentare: denuncia la presenza nella sola Milano di dodicimila militanti pronti a mettere a soqquadro la città e a innescare la guerriglia urbana. Ancora una volta si sceglie la strada più semplice: mettere tutto nel mucchio, criminalizzare tutto il movimento senza distinguere, e ciò lo spinge a un cieco sovversivismo, facilita i gruppi più oltranzisti e favorisce il reclutamento del partito armato. Si infittiscono gli scontri fra opposti estremismi. Nel mese di febbraio: incidenti a Napoli e in tutte le principali città; è incendiata l'abitazione del magistrato romano Paolino Dell'Anno; alcuni attentati hanno come obiettivi caserme e commissariati. Si moltiplicano gli assalti dell'antifascismo militante alle sedi del Fronte della gioventù. Il 15 aprile un torbido e atroce attentato: viene incendiata la casa del segretario della sezione del Msi del quartiere romano di Primavalle e trovano la morte i suoi due figli. La stampa si divide sulla matrice dell'attentato. Alla grande opinione pubblica vengono indicati come autori ex militanti di Potere operaio. A un mese di distanza, il 17 maggio, a Milano, un sedicente «anarchico» Gianfranco Bertoli getta una bomba sulla porta della Questura dove, qualche minuto prima, era stato inaugurato un busto alla memoria del commissario Calabresi. Tre agenti e una donna perdono la vita, numerosi feriti tra i passanti. Ancora polemiche sulla natura dell'attentato e sulla pista da seguire. Vengono avanzate le prime supposizioni sulle piste internazionali del terrorismo, peraltro già emerse nelle varie inchieste sul terrorismo nero. Nel giugno la definitiva crisi del governo Andreotti: si avviano le trattative per il centro-sinistra che sosterrà il nuovo governo presieduto da Rumor; Cronometrico nell'intreccio con il ciclo politico, giunge il sequestro del dirigente dell'Alfa Romeo Michele Mincuzzi, ad opera delle Br. Commentando l'episodio, 1'«Avanti!» introduce un elemento nuovo rispetto alle precedenti analisi: «Esistono [...] estremisti di sinistra, nei cui confronti c'è da parte dei socialisti il più chiaro dissenso, ma anche la volontà di difenderli da ogni repressione indiscriminata purché agiscano nell'ambito delle libertà politiche garantite dalla Costituzione [...] l'etichetta di sinistra non sarebbe invece da accettare per chi avesse fatto della violenza e del delitto il suo strumento di lotta» 1. Per «l'Unità»

le Br sono «una banditesca organizzazione il cui scopo è solo alimentare la strategia della tensione» 2. Dello stesso tono il giudizio della Federazione Cgil, Cisl, Uil. Il sequestro Mincuzzi divide Potere operaio e Lotta continua. Sui rispettivi giornali uno scambio di accuse. Per Potere operaio le Br tentano di dare una risposta «in termini di attacco» alle lotte operaie, mentre Lotta continua, sia pure con molte ambiguità, coglie i rischi dell'azione terroristica. Durissima la polemica di Potere operaio con i «dottorini» del Manifesto. Le Br, consapevoli del dibattito in corso nelle formazioni dell'estremismo, nel loro secondo documento teorico, polemizzando contro chi pensa alla sola azione armata per «mettere in movimento la classe operaia» e contro chi attribuisce a un «gruppo di samurai l'attenzione ed i compiti della lotta armata», avevano scritto: «Si tratta dunque di fare un passo in avanti ed imporre nella lotta la linea di costruzione del potere proletario armato contro le tendenze militariste o comunque errate» 3. Il 1973 si chiude con l'autoscioglimento di Potere operaio, la centralizzazione dei vari gruppi dell'Autonomia e con il delinearsi di nuovi scenari politici. I drammatici avvenimenti cileni del settembre offrono l'occasione per un'ulteriore riflessione del Pci: Berlinguer lancia la proposta di un grande compromesso storico fra le forze democratiche. Per l'estremismo, invece, la fine di Unidad popular è la conferma dell'impossibilità di una pacifica transizione rivoluzionaria. Intanto sul fronte del terrorismo rosso, con il nuovo sequestro di Ettore Amerio capo del personale della Fiat (10 dicembre), si conclude un ciclo della sua storia. A novembre è iniziata la complessa trattativa per il rinnovo contrattuale. Gli incontri tra Agnelli e i massimi vertici sindacali non danno risultati, sul tavolo della trattativa pesa la minaccia della cassa integrazione. Debole la risposta operaia. A venti giorni dall'inizio della vertenza giunge il sequestro. Sin dal primo comunicato sono chiari gli obiettivi delle Br: dalla crisi di regime non si esce con un «compromesso», al contrario occorre approfondirla non concedendo alcuna tregua alla borghesia. Rivolgendosi alla sinistra rivoluzionaria si indica il bivio davanti a cui si trova: «Compromesso storico o potere proletario armato; questa è la scelta perché le vie di mezzo sono state bruciate». Nei giorni del sequestro alla sequela dei comunicati si alternano le azioni di propaganda davanti alle fabbriche, mentre il sindacato e le forze di sinistra denunciano i rischi di provocazione e lo Stato si dimostra inerme di fronte all'offensiva del terrorismo. La stampa si interroga sulle matrici delle Br; «Avanguardia operaia» scrive di un accordo tra Br, servizi segreti e lo stesso Amerio, «II manifesto» preferisce il silenzio. Diversa la reazione di «Lotta continua»: certo le Br esprimono una deviazione «militarista-piccolo borghese» ma non si può ignorare il problema «vivo e serio» della «violenza proletaria» che esse pongono. Dopo otto giorni di sequestro e dopo il ritiro della minaccia di cassa integrazione da parte di Agnelli, le Br rilasciano Amerio. Per il partito armato ormai l'obiettivo sarà «colpire il cuore dello Stato».

1 «Avanti!», 30 giugno 1973. 2 «l' Unità», 30 giugno 1973. 3 Soccorso rosso, «Brigate rosse - Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto», Feltrinelli, 1976, p. 146.

9. La “questione comunista”

Il superamento del governo Andreotti non comporta una stabilizzazione della situazione politica, dalla sua caduta allo scioglimento anticipato delle camere del 1976 si succedono altri quattro governi. Mentre imperversa la crisi economica, sono i mesi della crisi energetica e i partiti di governo sono sconvolti dagli scandali, sulla scena politica interviene prepotentemente la vicenda del referendum. Intanto lo scontro fra l'area «illegale», Miceli, e l'area «legale», Maletti, del Sid non si è ancora conclusa. Occorrerà superare la battaglia referendaria, il sequestro Sossi, la strage di Brescia, l'uccisione di due militanti del Msi-destra nazionale a Padova, l'attentato al treno Italicus per arrivare nel settembre '74 alla sospensione dall'incarico del generale Miceli e alla sua sostituzione. Seguirà poi l'arresto e le incriminazioni. Nel comunicato diffuso al momento del rilascio di Amerio le Br insistono sul concetto di crisi di regime: «Siamo nella fase di apertura di una profonda crisi di regime che soprattutto è crisi politica dello stato e che tira verso una rottura istituzionale verso un mutamento in senso reazionario dell'intero quadro politico» 1. Linea golpista e «riforma costituzionale» in senso autoritario, per le Br sono due versioni dello stesso disegno e centro motore di entrambe è la Dc. Commentando la scadenza referendaria i brigatisti scrivono: «E chiaro che se la Dc dovesse vincere il referendum in testa alle forze monopoliste, il progetto di "riforma costituzionale" riceverebbe un enorme slancio e diventerebbe immediatamente piattaforma di ordine "democratico" sulla quale "restaurare" lo Stato e ristabilire il dominio integrale della borghesia» 2. All'inizio del '74 oscuri episodi riportano l'attenzione sui rischi del colpo di stato, manovre militari sono circondate da misteriose rivelazioni e frettolose smentite. Un trafiletto de «l'Unità», titola «voci di stato d'allarme nelle caserme». A marzo col rientro di Andreotti al ministero della Difesa iniziano le tappe conclusive della resa dei conti Maletti-Miceli. Alla ricomposizione del quadro politico corrisponde una ridefinizione delle strategie dei vari partiti dell'eversione. Un punto alto di questa conversione saranno le progressive trasformazioni della P2 di Licio Gelli. Il partito occulto raffina le sue tecniche di occupazione dello Stato e attorno al «piano di rinascita nazionale» consolida un complesso sistema eversivo in chiave anticomunista avvalendosi di protezioni interne ed internazionali. Le molte deviazioni, i tanti gradi di «clandestinizzazione» della politica, del mondo finanziario, della magistratura, dei servizi segreti, della

criminalità si fanno «partito» convergendo su un medesimo obiettivo. Nella seconda metà degli anni settanta, quando la «questione comunista» domina la scena politica italiana, le tante strutture parallele e le strategie dell'eversione che hanno segnato la storia nazionale a partire dalla fine degli anni sessanta sembrano riunificarsi fra loro predisponendosi ad un nuovo ciclo dell offensiva reazionaria 3. Tra il 1974 e il 1975 la violenza politica cambia qualità e segno. Se tra l'inizio del 1970 e il 1974 le stragi e il maggior numero di attentati alle cose e alle persone, alle sedi dei partiti democratici portano il marchio dello squadrismo di destra, a partire dall'assassinio dei due militanti missini a Padova questo tragico primato passa al sovversivismo e al terrorismo rosso. Tra il 1969 e il 1974 le azioni di violenza nera sono in totale 2.004. L'apice è raggiunto nel 1971 con 460 azioni contro le 17 attuate nello stesso anno da estremisti di sinistra. Gli attentati rivendicati dalle organizzazioni terroristiche di destra arrivano alla punta massima di 43 nel 1974; decrescono tra il 1975-1976; mentre registrano un'ulteriore incremento dal 1977 in poi. I terroristi di sinistra rivendicano: un attentato nel 1969; 4 nel 1970; 6 nel 1971; 31 nel 1972; 11 nel 1973; 32 nel 1974; 48 nel 1975. Successivamente si registra una brusca impennata fino al 1979 che vede la punta massima di 659 attentati rivendicati, di cui 66 dalle Br. Nel 1974, dunque, gli attentati rivendicati dalla destra e dal terrorismo di sinistra sono rispettivamente 43 e 32; quelli effettivamente compiuti rispettivamente 211 e 49, le violenze 393 contro 65. I segni della mutazione in atto si vedono già nel 1975, gli attentati rivendicati passano da 48 per le organizzazioni «rosse» e a 14 per quelle «nere»; gli attentati compiuti 76 e 117; le violenze 44 e 154. Nel 1976 la situazione si rovescia: il terrorismo rosso sigla 106 azioni, quello nero 10, gli attentati effettivamente compiuti sono rispettivamente 157 e 149, le violenze 63 e 110. La battaglia sul referendum segna un decisivo spartiacque nella molto confusa vicenda politica italiana. Paolo Bufalini della direzione del Pci con una felice espressione lo definirà «un diversivo». Mentre il dibattito ruota attorno alla proposta berlingueriana di un «nuovo grande compromesso storico» fra le componenti comuniste, socialiste e cattoliche sembra vanificare questa prospettiva l'uso dissennato che l'integralismo fa del referendum gestito come un'ultima spiaggia contro il rischio tanto temuto della legittimazione comunista. Insieme a Fanfani si schierano la destra e i settori più retrivi del moderatismo clericale. La linea del ragionamento scelta dal Pci, evita la trappola del muro contro muro, della battaglia ideologica e dello scontro preconcetto. Il 18 aprile del 1974, una data simbolica nella storia della De, lo stesso giorno in cui Agnelli si insedia alla presidenza della Confìndustria, un commando delle Br sequestra il magistrato genovese Mario Sossi. Il terrorismo rosso supera l'ambito della fabbrica per aggredire lo Stato e «rendere evidente l'approfondimento delle contraddizioni all'interno e fra i vari organi dell'apparato statale». Sossi si è fatto notare per l'accanimento e lo zelo nel colpire l'estrema sinistra. Nel 1972 aveva

fatto arrestare l'ex partigiano Lazagna e, suscitando molto scalpore, Vittorio Togliatti, figlio dello scomparso leader comunista. Più di recente era stato il principale protagonista del processo contro il gruppo 22 Ottobre di Genova. Inizia il tragico rituale dei comunicati e della gestione politica del sequestro e due poteri occulti sembrano dialogare fra loro in un intrico di messaggi cifrati, nell'alternarsi di minacce, di colpi di scena, durezze e concessioni. Si manifestano le prime crepe dello Stato sul fronte della trattativa. Il processo al gruppo 22 Ottobre diventa lo schermo di un illusorio terreno di scambio, per le Br l'obiettivo è un altro: conquistare legittimità politica per il partito armato. Il 12 maggio 1974, contro l'integralismo della Dc, la «vittoria della ragione»: i «No» ottengono oltre il 59 per cento. Nel paese si apre una nuova stagione democratica. E anche in Europa spira un vento diverso: in Portogallo cade il regime fascista, di lì a pochi mesi crolla la dittatura dei colonnelli in Grecia. Poi, ancora un colpo alla linea Fanfani: la sconfitta della Dc alle elezioni regionali in Sardegna. Per Avanguardia operaia e per il Pdup-Manifesto è l'inizio del crollo democristiano: diventa sempre più credibile l'ipotesi del governo delle sinistre. Per Lotta continua si sta per arrivare all'inevitabile resa dei conti col revisionismo, occorre costruire l'opposizione antagonista al sistema. Perché ciò si realizzi senza equivoci è necessario il passaggio del Pci al governo: linea che porterà il gruppo all'opportunistico voto al Pci alle elezioni regionali dell'anno successivo. Alla vittoria referendaria replicano le molte strategie della tensione. A Brescia, dopo numerosi episodi di squadrismo fascista, il 28 maggio ci sarà la strage di piazza della Loggia. Un mese dopo, a Padova, per la prima volta nella loro storia, le Br usano le armi uccidendo due militanti del Msi. Nello stesso periodo la resa dei conti ai vertici del Sid: Andreotti parla di deviazioni dei servizi segreti e di ingerenze straniere. Si susseguono rivelazioni «bomba». Varie riviste anticipano i contenuti del dossier Maletti sui rapporti fra Miceli, Servizi e eversione nera. Proseguono i colpi di scena. Giannettini, implicato nella strage di piazza Fontana, si «consegna» alla magistratura; Maletti conclude la sua «ricostruzione» sui complotti di destra della Rosa dei venti e del previsto golpe borghese. Il 4 agosto il gravissimo attentato dinamitardo al treno Italicus ad opera del gruppo Ordine nuovo. Manovre e avventurismo contrassegnano la fase che precede le elezioni amministrative previste per il giugno '75, una tornata elettorale che interessa 15 consigli regionali a statuto ordinario e 86 capoluoghi di provincia. La Dc guidata dal senatore Fanfani è scossa dal risultato referendario, dalla sconfitta subita in Sardegna e dal test — parziale ma significativo — delle elezioni amministrative del 17 novembre '74, al suo interno numerose voci si levano per un ricambio ai vertici. L'integralismo democristiano tuttavia non demorde e usa tutte le armi di cui dispone per drammatizzare l'imminente prova elettorale. Rispolvera il vecchio armamentario delle paure, dei rischi; del comunismo come negazione della libertà; sfrutta la crescente psicosi del terrorismo caratterizzandolo sempre più come «rosso».

Dopo l'azione di Padova si registra un periodo di parziale silenzio delle Br e nell'autunno i carabinieri del generale Dalla Chiesa assestano alcuni duri colpi all'organizzazione terroristica. In settembre, a Pinerolo, il primo arresto di Renato Curcio e del suo braccio destro Franceschini. Di lì a poco, sulla base di alcune rivelazioni dell'infiltrato e misterioso frate Girotto, viene arrestato Giambattista Lazagna ex comandante partigiano. Lo scontro con il terrorismo rosso si militarizza. A Robbiano di Mendiglia, in un conflitto a fuoco, è ferito il brigatista Roberto Ognibene e resta ucciso il maresciallo dei carabinieri Felice Maritano. In ottobre, nel corso di una rapina a Firenze, rimangono uccisi Luca Mantini e Giuseppe Romeo. Sono due giovanissimi e la loro storia è simile a tanti altri giovani finiti nella ragnatela del terrorismo: sono passati per Lotta continua, ne sono usciti da sinistra, sono rimasti intrappolati nella lotta armata, sono morti in un «esproprio proletario», convinti che una rapina sia un gesto rivoluzionario. Le Br si fanno aggressive e tracotanti. L'azione spettacolare, sarà la liberazione di Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Guida il commando la sua compagna, Mara Cagol, che troverà la morte in giugno, durante una battuta dei carabinieri in seguito al fallito sequestro dell'industriale Gancia. Renato Curcio è presentato dalla stampa come un «eroe», molti settimanali gli dedicano la copertina, numerose le interviste e i pezzi di colore. La stampa e i mass media divengono uno strumento non secondario dello spettacolo del terrore. Nei primi giorni di ottobre spetta ai socialdemocratici aprire la nuova crisi, una vera e propria intimidazione antisocialista. Ai calcoli democristiani si intrecciano le interferenze americane: John Volpe, ambasciatore a Roma, non esita a dichiarare che sarebbe auspicabile una nuova consultazione elettorale. Cade il governo Rumor: la situazione del paese si presenta alle soglie dell'ingovernabilità, dopo un lungo balletto di tentativi solo il 29 ottobre viene affidato l'incarico a Moro. Il Pci si batte per evitare un nuovo scioglimento anticipato delle Camere, vuole accreditarsi come grande forza a difesa del quadro democratico e della sovranità nazionale, capace di realizzare una svolta negli indirizzi economici e imporre una moralizzazione nella vita pubblica, ne deriva la sua netta opposizione ad ogni rischio di pericolosi vuoti di potere. Nel novembre è arrestato l'ex capo del Sid, generale Vito Miceli, eletto successivamente nelle liste del Msi, accusato per cospirazione contro la Repubblica, l'arresto si inserisce nell'inchiesta per la «Rosa dei venti», il tentato golpe Borghese e le trame eversive di destra, numerosi personaggi democristiani sono chiamati in causa come correi. Al suo XIV congresso (Milano, 2-4 novembre) il partito radicale rilancia la battaglia sui diritti civili, mentre Pannella uscito temporaneamente dal partito annuncia la costituzione della Lega 12 maggio, «movimento socialista per i diritti e le libertà civili» con l'obiettivo di rilanciare la campagna per gli otto referendum. Il sindacato sotto la spinta di base rompe la trattativa sulla contingenza. All'inizio di novembre oscure manovre e allarmismi, sulla stampa sempre più intense si fanno le notizie di un possibile attacco contro il sistema democratico. Spetta ad

Armando Cossutta scrivere su «Rinascita»: «Contro il verificarsi, comunque di eventuali e possibili situazioni di emergenza, di colpi di mano contro il regime democratico, la nostra linea è altrettanto chiara. Ogni comunista sa ciò che deve fare in simili circostanze [...]. Milioni e milioni di lavoratori democratici, di antifascisti, di giovani saprebbero scendere nelle piazze e nelle strade, combattendo con tutti i mezzi necessari per difendere la libertà e per vincere. Tutto questo sanno i comunisti che senza attendere ovviamente ne ordini scritti ne telefonate farebbero il loro dovere fino in fondo, unendosi ai socialisti, ai democratici, agli antifascisti, agli uomini e alle forze della Dc che hanno a cuore il regime democratico e costituzionale, a tutti coloro che amano l'Italia e la Repubblica 4. Dopo oltre due mesi di crisi spetta a Moro far uscire la situazione dallo stallo, si forma il governo Moro-La Malfa con l'appoggio esterno dei socialdemocratici e dei socialisti, sarà l'ultimo governo presieduto dal leader democristiano; il governo che porterà alle elezioni anticipate del 20 giugno '76 e sanzionerà il fallimento definitivo del riformismo socialista avviatosi alle soglie degli anni sessanta. Continua indisturbato lo squadrismo fascista. A Roma, culmine della violenza nera è l'agguato al militante di Avanguardia operaia Giannicolò Macchi, gli aggressori gli sfondano le tempie con spranghe di ferro, il giovane dovrà essere sottoposto a intervento chirurgico per rimuovere le schegge penetrate nel cervello. Il Pci avvia il suo XIV congresso nazionale: al centro la questione comunista. Anche se in modo non esplicito sembra voler aprire un dialogo con i settori più ragionevoli del gruppismo. Commentando il 1° congresso nazionale di Lotta continua, che si svolge nel gennaio '75, «Rinascita» sottolinea: «la piccola svolta» e valorizza i timidi passi in avanti compiuti dal gruppo di Sofri a conferma di un suo avvicinamento alla «politica». Analoga attenzione la rivista del Pci aveva già dedicato al congresso di Avanguardia operaia. Registrando un passo in avanti dell'organizzazione considerata nel solco culturale dei «marxisti-leninisti» per il suo dogmatismo ideologico e lo schematismo politico, scrive: «II fatto nuovo però che si è registrato nel congresso è stato uno sforzo di confronto con i problemi della lotta politica e sociale, sia pur sempre, negli interventi dei dirigenti, filtrati attraverso l'ideologia e annegati in lunghi confronti storici o citazioni culturali. Gli interventi dei delegati hanno rilevato più concretezza, ma hanno fatto emergere con maggiore evidenza il piatto economicismo che caratterizza, alla fin fine, la proposta politica di Avanguardia operaia» 5. Intanto nel paese all'aumento dei prezzi la risposta dell'estremismo è la campagna delle autoriduzioni. Il tema della disobbedienza civile entra nel dibattito di un movimento sindacale che deve fronteggiare «una base» sempre più critica e la proliferazione di forme di lotta sempre più incisive. Drammatico si presenta il problema della disoccupazione giovanile e in diverse categorie avanzano pericolose esperienze di sindacalismo autonomo. A fronte di altri passi in avanti nello sviluppo della democrazia, le elezioni scolastiche, oltre

venti milioni di studenti, genitori e insegnanti chiamati alle urne, e il voto ai diciottenni, il sindacato stenta ad adeguarsi alla nuova fase. Il comitato centrale del Psi riunitosi dall'8 al 10 aprile in vista delle elezioni amministrative mette a punto la sua strategia elettorale. Tutte le correnti accentuano la critica alla Dc. Si va concludendo la fase demartiniana. Abbandonata, sin dal '69, una concezione palingenetica del centro-sinistra, come incontro storico fra socialisti e cattolici per attribuirsi in modo più realistico la funzione di pungolo nei confronti della Dc; il Psi attraversa una fase comatosa, in cerca di una linea e di una identità, al tempo stesso corroso da quelli che suoi autorevoli esponenti chiameranno «i mali del partito», le conseguenze della cogestione con il potere democristiano. Il 30 aprile '75 la vittoria del Vietnam. Il governo di Saigon si è arreso incondizionatamente al Grp dopo oltre 30 anni di guerre. Gli americani dopo un'occupazione di 20 anni lasciano il Vietnam e con loro 4.000 sudvietnamiti collaborazionisti. Con la vittoria del popolo vietnamita il mondo è più libero, scrive su «Rinascita» Enrico Berlinguer634. La Dc, nel tentativo di ipotecare il futuro dello schieramento politico, lancia la teoria della «reversibilità» delle alleanze, vuole ricattare il Psi e lasciarsi aperta la strada a nuovi centrismi. Mentre davanti alle Camere è in discussione il progetto Reale sull'ordine pubblico, il giudice Viola e altri magistrati portano avanti numerosi arresti e perquisizioni, al centro dell operazione la direzione nazionale di Avanguardia operaia nonché numerose sedi di Lotta continua. Sconfìtte le manovre dilatorie si va verso la campagna elettorale amministrativa. Pdup e Avanguardia operaia superano le reciproche diffidenze e stringono il patto elettorale nella formula di Democrazia proletaria. Lotta continua, come già aveva fatto intendere al suo congresso, fra lo sconcerto dell'estremismo e gli anatemi del Pdup-Manifesto, si dichiara, per il voto al Pci, un voto per accelerarne l'involuzione a destra. All'insegna del partito dalle mani pulite, dell'unità del paese, del buon governo, di una rafforzata autorevolezza conquistata in nuovi settori dell elettorato, il Pci consegue uno straordinario successo. Il 15 giugno, il primo dei grandi terremoti elettorali. Rispetto alle precedenti regionali il Pci avanza del 5,6%, il Psi dell' 1,6%. La lista di Dp conquista otto seggi nelle regioni dove si è presentata. Secca la sconfitta democristiana, a cui si aggiunge la forte contrazione dell'area socialdemocratica e liberale. Nelle regioni interessate dal voto muta radicalmente la distanza fra Dc e Pci: solo un 1,8% separa i due più grandi partiti. Nel bene e nel male la sindrome del sorpasso caratterizzerà la nuova fase. L'oltranzismo non ha vinto, non hanno avuto buon gioco gli strumentali allarmismi democristiani tesi ad evocare vecchie e nuove paure.

1 Comunicato del 18 dicembre 1973, pubblicato su «Controinformazione», n. 1/2, febbraio-marzo 1974. 2 Contro il neogollismo portare l'attacco al cuore dello Stato, pubblicato su «II Giornale d'Italia», 13 maggio 1974 e su «II Tempo» dello stesso giorno. 3 Ai fini del rapporto P2-strategie eversive cfr: G. De Lutiis, «Storia dei Servizi segreti in Italia», cit., in particolare I contributi dei privati alla politica dei Servizi — Licio Gelli, p. 179 e Dalla riforma del 1977 alla loggia P2, p. 261 e sgg.; Atti del convegno promosso dal Centro Riforma dello Stato ad Arezzo 26-27-28 novembre 1982, La vicenda della P2, Poteri occulti e stato democratico; G. Galli, «Per una storia del partito armato», inserto a «Panorama», novembre 1984. 4 «Rinascita», n. 45, 15 novembre 1974. 5 «Rinascita», n. 40, 11 ottobre 1974. 6 «Rinascita», n. 19, 9 maggio 1975.

VII IL MAOISMO E IL NEOSTALINISMO DELL UNIONE DEI COMUNISTI

«La parola "rivoluzionario" si può applicare solo alle rivoluzioni il cui fine è la libertà» A.N. Condorcet

1. Il nucleo d'acciaio costruisce il partito Gli stessi gruppi hanno ampiamente ironizzato sull'esasperato dogmatismo e sulle rigidità dell esperienza dell'Unione dei comunisti italiani (m-1), una formazione che proprio per le sue caratteristiche emblematizza un approccio alla politica carico di semplificazioni ideologiche e organizzative. Il nucleo dirigente dell'Uci cerca di sfruttare la crisi di identità, il bisogno di organizzazione e di certezze teoriche del militante del movimento studentesco; estremizzando la precarietà del suo stato sociale, lo colpevolizza del suo essere o sentirsi «piccolo borghese» e all'insegna dei principi del libretto rosso vuole convertirlo al «Partito» e alle regole del «servire il popolo». Da ciò la rapida quanto effimera fortuna di unbperazione fondata su una riduzione a norma del maoismo e su un apparato scenico fatto di miti e di autoesaltanti rappresentazioni della propria forza, il tutto tenuto insieme da un impianto organizzativo autoritario e ideologicamente coercitivo. Il successo sarà breve: nella prima metà del '70 il sostanziale sfaldamento del gruppo. Tuttavia proprio per le sue anomale tipicità esso avrà una funzione di volano nel dibattito e nella pratica organizzativa dell estremismo. Nel corso dell'estate '68, mentre il movimento studentesco è in fase di declino, si sviluppa il lavoro di centralizzazione che porta a confluire nel gruppo promotore delTUnione diverse matrici culturali ed esperienze cementate non da una linea politica e da un'analisi comune bensì da un frainteso maoismo e dall'esigenza della costruzione del partito. Dopo un brevissimo lavoro politico, per lo più nel Mezzogiorno e a Roma, qualche presenza nelle lotte operaie per il superamento delle «gabbie salariali» e qualche improvvisato comitato di lotta, il 4 ottobre 1968 si costituisce con atto

volontaristico la dirczione nazionale dell'Unione 1. In questa prima struttura, da cui si diramano le varie squadre d'intervento, convergono: il gruppo dirigente del disciolto Falce e martello; militanti del marxismo-leninismo romano, in particolare della commissione fuori sede e del Centro antimperialista Che Guevara; un gruppo di militanti del Psiup di Paola in Calabria. Fra i nomi più noti dell'area romana ricordiamo: Luca Meldolesi, Nicoletta Stame, Antonio Russo, Guglielmo Guglielmi. Meldolesi e Stame, già collaboratori di «Classe e Stato» e di altre riviste politico-culturali, usciranno dall'Uci nell estate '70; lo stesso farà Antonio Russo, già protagonista della vicenda della Boston Chemical; Guglielmo Guglielmi sarà fra gli artefici della prima scissione del gruppo nel febbraio '70 e lo ritroveremo a distanza di anni leader della formazione terroristica Unità comuniste combattenti. Nella fase costitutiva dell'Uci è impegnato anche Paolo Ceriani Sebregondi che, al momento della formazione della direzione nazionale, sceglierà di confluire nel Pcd'I linea nera. Lo ritroveremo successivamente nelle file del partito armato. Falce e martello era nato a Milano e Bergamo come filiazione della IV Internazionale, i suoi militanti provenivano dall'entrismo nelle file del Pci, della Fgci e del Psiup. La rottura del gruppo col trotzkismo coincide con l'insorgere della Rivoluzione culturale cinese, con un brusco spostamento di linea si realizza l'avvicinamento al marxismo-leninismo. Sulla necessità del partito rivoluzionario si pronuncia in modo inequivoco la mozione del luglio '68, documento che sancisce la svolta di Falce e martello. Componenti essenziali della costruzione del partito sono: la scelta soggettiva di un nucleo di militanti ideologicamente compatto, l'autorità del pensiero di Mao, uno stile di lavoro al servizio delle masse 2. Enunciazioni metodologiche che prescindono dalla linea politica, considerata nei fatti una risultante della corretta applicazione dei principi del marxismoleninismo. Nelle intenzioni dei suoi fondatori, l'Unione contesta la scelta soggettiva del Pcd'I: proclamarsi partito senza aver prima realizzato un rapporto con le masse. Al contrario vuole coniugare il momento della dirczione, atto comunque volontaristico, con un processo verso la costruzione del Partito rivoluzionario. In sostanza operare da subito come partito ma procedere per tappe alla sua corretta organizzazione secondo il grado di integrazione fra le masse che si riuscirà a esprimere. Trascinandosi dietro l'originaria contraddizione tra il velleitarismo di una decisione assunta come «nucleo da cui si origina il partito» e lo spontaneismo della pratica politica, si sviluppa un'esperienza che procede tra costanti correzioni, determinate più che da approfondimenti di linea da progressivi aggiustamenti organizzativi. La rivendicazione di una corretta «applicazione della linea di massa» secondo cui si dovrebbe realizzare il radicamento del gruppo tra le masse diventa nella realtà attivismo propagandistico in cui maoismo e neostalinismo si congiungono a populismo e moralismo di maniera. Se il Pcd'I e la Federazione (m-1) sono rimasti estranei al movimento studentesco, imprigionati nella loro pregiudiziale verso gli studenti considerati «figli della

borghesia», l'Unione attribuendo una funzione catartica al partito e alla milizia politica fa leva sul diffuso disagio giovanile e rappresenta se stessa come l'occasione e lo strumento per una loro trasformazione rivoluzionaria. Risponde con 1 organizzazione forzata alla crisi che si è aperta nel movimento dopo il maggio francese, colmando in questo modo la contraddizione apertasi fra le avanguardie politicizzate e la gran massa degli studenti marginalizzati dal leaderismo assembleare. Prospettando la costruzione del nuovo partito rivoluzionario maoista-leninista al servizio del popolo come un «processo aperto» sembra consentire, con una capillarizzazione organizzativa e moltiplicando i livelli di impegno, una maggiore responsabilità individuale a militanti che si sentono orfani delle occupazioni studentesche e scarsamente inseriti nelle dinamiche movimento-gruppi. All'ombra dell'autorevolezza del maoismo e del fascino della rivoluzione culturale cinese, l'Unione, «nucleo d'acciaio che costituisce il vero e glorioso Pcd'I (m-1)», presuntuosamente dichiara di avere una linea politica e un'analisi di classe con le quali il futuro partito affronta la sua integrazione fra le masse 3. Il gruppo ex Falce e martello, Aldo Brandirali, Sergio Bonriposi, Enzo Todeschini, Angelo Arvati, ha immediatamente il sopravvento sull'eterogenità della componente romana, peraltro ancora fortemente caratterizzata da un approccio terzomondista e intrisa di movimentismo. Infatti, dopo una breve presenza nella direzione nazionale i principali leader romani, Nicoletta Stame e Luca Meldolesi, sono accusati di «intellettualismo» e relegati a ruoli sempre più marginali fino alla loro definitiva fuoriuscita nell'estate '70 quando, in conseguenza delle scissioni a catena del dopo autunno caldo, l'Unione entra nella sua fase di decomposizione e si avvia, al di là dell'autoesaltazione della fondazione del Partito comunista (m-1) italiano, a essere una delle tante minuscole formazioni dei marxisti-leninisti. Ricostruendo, a proprio uso e consumo, i suoi primi anni l'Unione ricondurrà lo scontro interno alla lotta ideologica contro «I esaltazione unilaterale dell esperienza del movimento spontaneo nella rivoluzione culturale» tendenza per cui Luca Meldolesi è bollato come il «principale maestro negativo» insieme a coloro che, secondo le stereotipate regole del dogmatismo emmelli-sta, altro non sono che «piccoli borghesi» antipartito. Tuttavia il mito del partito farà convivere le due anime dell'Unione fino alle prime sconfitte quando lo scollamento sarà irreversibile. Senza comprendere l'attrazione che suscita la speranza di un nuovo partito rivoluzionario 1 esperienza dell'Uci sarebbe solo interessante per una lettura psicoanalitica del gruppismo post-sessantottesco. Per il mito del «partito» si sacrifica l'imma-ginazione del movimento, ci si adatta in tempi brevissimi a modificare le proprie abitudini e si operano anche opportunistiche conversioni, basta pensare alla funzione dello stalinismo nell'Unione. Le ripetute e ossessive campagne di rettifica che assumono le citazioni del libretto rosso come fondamento di regole comportamentali e politiche, sono lo strumento per la normalizzazione della vita interna, per affermare, contro ogni policentrismo,

una fiducia acritica nel gruppo dirigente bloccando sul nascere ogni interrogativo sulla qualità del lavoro politico che si sta portando avanti. Essere partito significa anche essere diversi dal movimento studentesco, imporsi sulla sua eterogeneità attraverso un'alterità organizzativa e fisica ben visibile. L'occasione per distinguersi dal coacervo del movimento è la manifestazione nazionale per la riforma pensionistica del 5 dicembre 1968. L'Unione lancia ai suoi militanti la direttiva di presentarsi esteriormente diversi, non più l'immagine dello studente delle occupazioni ma quella del «quadro politico», del «proletario». Puliti e ben rasati sfilano dietro i «simboli» della rivoluzione, della «dittatura del proletario», della «Grande rivoluzione culturale cinese»: i grandi cartelli raffiguranti Marx, Engeis, Lenin, Stalin, Mao. Il primo atto politico del costituendo gruppo è la fondazione di un proprio organo di stampa, il titolo è ripreso da una citazione maoista: «Servire il popolo», nelle intenzioni risponde al-l'obiettivo di unificare i militanti e offrire alle squadre di intervento uno strumento di lavoro. Rispetto ai dogmatismi bordi-ghiani del Pcd'I e al movimentismo della Federazione marxista-leninista l'inventario dei temi politici evocati dall'Unione non presenta grandi novità. Sul Pci si ripetono le accuse degli emmel-listi e i temi dell'antirevisionismo sessantottesco: il tradimento della Resistenza, la scelta della via parlamentare, una concezione delle alleanze collaborazionista, il progressivo imborghesimento della sua dirigenza contrapposto alla «sincerità» comunista di una base ancora legata agli ideali rivoluzionari, alla dittatura del proletariato e alla figura di Stalin. Poche le indicazioni di linea, tutto ruota attorno alla specificità che assume la questione partito anche ai fini del lavoro politico. Nel processo di costruzione del partito la realtà, il campo d'intervento politico, è il luogo dove si verificano i principi astrattamente estrapolati dalle citazioni del libretto rosso, assunto come campionario di verità rivoluzionarie: «Noi siamo in disaccordo con tutti quei compagni che si sono organizzati senza basare la propria disciplina sulla linea di massa; essi hanno agito in modo dogmatico. Hanno fondato la loro unità sui principi, ma noi sappiamo che i principi non si possono riconoscere nella loro reale validità se non vengono applicati». Inizia il primo ciclo di vita dell'Unione, un ciclo tutto improntato alla strutturazione organizzativa, a estendere la propria influenza su scala nazionale; funzionali a questi obiettivi le battaglie interne contro «l'intellettualismo». Tappa conclusiva di questa fase il 1° maggio '69 quando organizza cortei e manifestazioni in tutte le principali città. La mancanza di una linea politica è del tutto irrilevante ed è sostituita dalla propaganda ossessiva del valore metastorico della rivoluzione, a cui si accompagna l'esasperato centralismo organizzativo. Successivamente il confronto con la realtà pratica evidenzierà la macroscopica contraddizione fra l'inconsistenza dell'intervento politico, un concentrato di frenetico attivismo propagandistico e di meccaniche traslazioni dalla Rivoluzione culturale cinese, e il velleitarismo del porsi come gruppo dirigente di un virtuale partito in cui la disciplina produce una

vita di gruppo improntata alla cieca subordinazione gerarchica. Il sistema interno impedisce ogni possibilità di discussione, vanificando così le embrionali potenzialità delle inchieste, della pratica sociale, degli stessi enunciati metodologici. Se a parole si contesta ogni pratica spontaneista nella realtà prevalgono attivismo e sperimentalismo. Ma l'Unione non se ne preoccupa: «Ci si può obiettare che noi non abbiamo nessuna prova che siamo dirczione valida delle masse. Noi rispondiamo che non si dirige e non si può scoprire se si è su di una giusta direzione, e che noi lavoreremo tra le masse come nucleo di partito e correggeremo tutti gli errori che volta per volta scopriremo di aver fatto, e in tal modo saranno le masse stesse che correggeranno il nostro carattere e ci rafforzeranno. Purché noi si sia armati fino in fondo della critica e dell'autocritica» 4. Il coacervo di suggestioni, dal maoismo al terzomondismo, dal trotzkismo al neostalinismo, dal mito del partito al movimentismo, che convivono e sono alla base della fase formativa del-l'Unione progressivamente si depurano per inquadrarsi nella rigidità di un sistema ideologico-normativo tenuto insieme da un forte impianto organizzativo. L'azione politica, per lo più opera di reclutamento e di propaganda, diventa la proiezione del proprio stato esistenziale, autocompiacimento della propria trasformazione soggettiva, il tutto esaltato in una visione della Rivoluzione culturale cinese destoricizzata che porta ad assumere i suoi paradigmi come valori ideali indiscutibili a cui conformarsi. Nozioni, metodi e stili di lavoro sono il riflesso di una religiosa lettura delle citazioni dal libretto rosso, fonte suprema dell'autore-volezza del gruppo e della validità del suo procedere politico. Base rossa, Fronte unito, Comitati di partito, inchiesta e pratica sociale, diventano altrettanti moduli sperimentali del tutto indifferenti alla concreta situazione in cui si applicano. Per l'Unione il maoismo diventa la religione della rivoluzione e l'applicazione psicoanalitica dei suoi principi rappresenta la possibilità concreta che viene offerta al singolo militante di realizzare il suo presunto bisogno rivoluzionario. Proprio attraverso questa distorsione, da cui non sono immuni altre esperienze del gruppismo, e ponendo come garanzia sufficiente dei caratteri rivoluzionari del partito la sincerità, la volontà e la dedizione dei suoi militanti, l'Uci riesce a conseguire notevoli successi nel reclutamento. I leader del gruppo sono presentati, con una vera liturgia dei capi, come i massimi interpreti del pensiero del presidente Mao e del marxismo-leni-nismo nella realtà italiana. Date le premesse, la prima battaglia interna si sviluppa sul partito. Si tratta di bandire ogni interrogativo, non lasciare spazio a dubbi per affermare la disciplina di gruppo, le regole della milizia e il rispetto delle gerarchle. Solo con la conferenza nazionale, della fine del settembre 1969, l'Unione dei comunisti italiani (m-1) cercherà di darsi una linea. Risulterà un elenco di banalità, di slogan massimalistici, di utopie da società presocialista e di arretratezze culturali. Per tutto il periodo che la precede il gruppo contrabbanda per linea principi, metodi,

strumenti di lavoro, attività di reclutamento nei vari settori d'intervento: borgate, paesi, fabbriche, studenti, intellettuali. Nel frattempo si susseguono camaleontiche metamorfosi realizzate attraverso continue ristrutturazioni organizzative, vaste campagne di autocritica e di rettifica; un trasformismo interno che difende il gruppo dagli attacchi esterni e riconduce i suoi limiti politici non a insufficienze politiche ma unicamente a carenze soggettive e metodologiche a cui si supplisce con continui spostamenti di incarico a dirigenti e militanti. Dalle originarie squadre di intervento, un residuo del movimento studentesco, scimmiottando le citazioni sul partito del libretto rosso, passerà ai comitati di partito, per approdare al tradizionale modello organizzativo del partito comunista; cellule, sezioni territoriali, federazioni provinciali e comitati regionali. La selezione dei militanti è raffigurata come un faticoso processo in cui le distinzioni gerarchiche sono opportunamente rimarcate: prima l'apprendistato nella «squadra di intervento» poi la promozione a «quadro di partito». Ai vari aggiustamenti organizzativi si affiancano le campagne di rettifica attraverso la critica e l'autocritica. Veri e propri processi di autocoscienza collettiva in cui si affrontano i rapporti con la famiglia e quelli affettivi, si discute delle abitudini del singolo militante per trasformarle alla luce del «servire il popolo». Sfruttando la teologia «del servire il partito» vengono coercitivamente risolte crisi soggettive e interpersonali per uniformarle alle norme di un'esistenziale «politica al primo posto». Sin dalla sua costituzione l'Unione, con la sua evocazione del «partito», inteso come garante supremo contro l'individualismo spontaneistico, esercita una certa suggestione nei confronti di aree socialmente e culturalmente colpite dalla crisi d'identità prodotta dal sessantottismo, in particolare giovanissimi, studenti fuori sede, intellettuali in formazione che in una masochistica concezione della milizia politica scaricano le loro frustrazioni e i loro velleitarismi. Non solo, ma dietro la metafora maoista cercano senso e valori, esprimono quel bisogno di «testimoniare» che caratterizza alcune sperimentazioni sociali di gruppi integralisti cattolici, valga per tutti l'esempio di Comunione e liberazione 5. Progressivamente si espellono dal seno dell'Unione tutti i residui del dibattito del movimento studentesco anzi, in questa autoritaria normalizzazione, si utilizza il senso di colpa dello studente militante, il suo sentirsi troppo incline a discussioni totalizzanti per esaltare la quotidianità del «servire il popolo» come terreno esclusivo su cui si deve verifìcare la coscienza del vero rivoluzionario. Nei primi mesi del '69 la battaglia interna si sviluppa contro «l'intellettualismo» e lo spirito antipartito 6. E in questa fase che vengono emarginati Luca Meldolesi e altri quadri provenienti dal movimento ancora non convinti ad accettare una ferrea e staliniana disciplina e troppo inclini a mettere in discussione il «centralismo democratico». Le «campagne di rettifica», lanciate dalla dirczione nazionale nel marzo, si ripromettono di consolidare l'orientamento dei militanti, sconfiggendo «l'intellettualismo e proiettando tutti i quadri verso il lavoro fra le larghe masse

popolari e a porsi alla loro scuola». Nelle sedi dell'Unione di Milano, Torino, Roma, Trento, Paola e di altri centri iniziano le «scuole quadri», per intensificare, seguire, guidare lo studio di tutti i militanti. Si legge collettivamente il libretto rosso, si studiano gli articoli ideologici di «Servire il popolo», si confrontano le diverse esperienze territoriali interpretandole alla luce del pensiero di Mao. Davanti alle fabbriche, alle scuole, nei quartieri, l'interven-to politico si limita alla diffusione del giornale. Dopo un'opera di prima conoscenza, la cosiddetta «inchiesta» che tende a enucleare l'avanguardia, la «sinistra» interna al popolo, si passa al reclutamento e ali organizzazione. Alle squadre d'intervento, tramutate poi in comitati di partito, per le borgate, le fabbriche, le aree territoriali omogenee, si affiancano le strutture del Fronte unito: le brigate e le squadre di propaganda, le donne rivoluzionarie, i gruppi Stalin composti da vecchi militanti ormai ai margini di ogni esperienza politica, gli intellettuali, i giovani organizzati nelle Guardie rosse e persino i bambini. La ramificazione organizzativa si realizza a tappe ravvicinate, contattando nuclei emmellisti e spezzoni del movimento studentesco delle principali città, utilizzando e sfruttando le contraddizioni del post-movimento, al tempo stesso offrendo ai propri aderenti la fugace illusione di essere realmente protagonisti della costruzione del partito. Animati dai principi del maoismo i crociati dell'Unione fronteggiano le polemiche degli altri gruppi e sono del tutto incapaci di avvertire i limiti della loro vita interna. In tutta Italia l'uscita clamorosa dell'Unione si registra in occasione del 1° maggio 1969. Nelle principali città il gruppo organizza cortei alternativi alle manifestazioni sindacali. La coreografia è perfetta: i «pionieri» aprono i cortei, ogni militante ha la sua bandiera rossa, tutti i fazzoletti rossi al collo, sono d obbligo, come risulta dalle circolari interne, per le donne le gonne e per gli uomini la giacca, la camicia deve essere aperta come i vecchi partigiani. Tutto è ordinatissimo, si rispettano le distanze fra cordone e cordone, una parata militare aperta sempre da grandi e solari ritratti del presidente Mao Tse-tung. Le apparenze tuttavia non debbono ingannare. A Roma, anche se il piano fallirà, alla coda del corteo che sfiora la manifestazione del sindacato a piazza San Giovanni un'apposita squadra è incaricata di provocare incidenti e consentire ai «veri rivoluzionari» di confluire nella manifestazione del gruppo. In nessuna città si registrano incidenti, tutti i giornali riportano con curiosità le foto di questi strani e curiosi cortei, qualcuno scrive dei «ballila di Mao» riferendosi ai pionieri, altri sottolineano la perfetta macchina organizzativa. L'Unione si è ormai imposta all'attenzione di un gruppismo ancora in formazione. L estate è piena di iniziative: la marce alla ricerca di nuclei di rivoluzionari, i teatri popolari, le sceneggiate; un misto di propaganda vetero comunista e populismo cinese adattato alla realtà italiana. Intanto sul fronte interno una nuova campagna di rettifica contro lo spontaneismo; si vogliono accelarere i tempi del partito. A fine giugno si svolge la conferenza nazionale degli intellettuali e degli artisti e si lavora per la «storica» conferenza nazionale. «Servire il popolo» convocandola scrive: «Nei prossimi mesi si svilupperanno impetuosi movimenti di massa», il

riferimento è ai rinnovi contrattuali, «II riformismo tenterà di dimostrare di essere perfettamente in grado di controllarli; su questa base tenterà la scalata definitiva al governo. La nostra strategia alternativa, di vittoria, è rappresentata dalla parola d ordine: Avanti verso il governo rivoluzionario degli operai, dei lavoratori e dei contadini» 7.

2. La falsa coscienza dell'Unione A meno di un anno dalla costituzione della direziono nazionale l'Unione è una realtà strutturata in tutto il paese, secondo alcune stime fra mèmbri del partito e aderenti, i militanti sarebbero circa 12 mila. La cifra è sicuramente eccessiva ma non ce dubbio che il frenetico proselitismo del gruppo ha riscosso notevoli successi, gli ex studenti che formano lessatura dell'or-ganizzazione, a colpi di citazioni di Mao sono presenti nelle situazioni più disparate. Secondo lo schema del gruppo il lavoro politico nei quartieri, nelle fabbriche, nelle scuole, rappresenta l'applicazione della linea di massa per costruire i primi embrioni del Fronte unito rivoluzionario, che viene definito lo strumento di unificazione del popolo: «Noi puntiamo sotto la dirczione del partito a organizzare il Fronte unito, nella forma specifica e locale del Comitato rivoluzionario del popolo come parte di dirczione suprema di tutte le forme di organizzazione della vita delle masse» 8. Dietro la macchinosità dell'impianto prospettato in realtà si vuole sistematizzare la contraddizione fra centralismo e situazioni di base. La complessa prefigurazione del rapporto partito-comitati rivoluzionari del Fronte unito che tanto farà interrogare e scervellare i militanti dell'Unione, altro non è che un tentativo per non rompere attraverso la scelta soggettiva dell'organiz-zazione con la ricchezza delle occasioni di intervento. Una formula che vuole lasciare aperto il rapporto con le altre componenti del movimento. Il problema si pone sin dalla costituzione della dirczione nazionale, le varie invenzioni organizzative sono altrettanti tentativi di risolverlo. Accanto al partito si hanno così, volta per volta, le squadre di intervento, i gruppi Stalin, i gruppi di quartiere, le guardie rosse, i comitati. Nella storia dei gruppi ritroveremo spesso questo impianto, si tratta sempre di una conseguenza della contraddizione partito-movimento. Analogie si possono riscontrare nel rapporto Avanguardia operaia e Comitati unitari di base, nella fluidità organizzativa della prima fase costitutiva del Manifesto, e infine nello stesso rapporto fra Autonomia e il suo universo. La metafora del Fronte unito in sostanza rappresenta in nuce il campo di intervento del singolo gruppo, il virtuale terreno di unificazione con altre esperienze del sinistrismo magari ridotte a manifestazioni parziali delle spinte rivoluzionarie. Affermarsi come partito, esprimere una dirczione strategica significa egemonizzare questo campo di forze. Nasce da ciò il confronto che si realizza fra i gruppi, il loro unirsi e dividersi, nonché il loro addensarsi su alcune realtà sociali e di fabbrica particolarmente significative. Come si è già detto, il problema prioritario dell'Unione è cementare l'unità interna, darsi e offrire regole per la centralizzazione e far scaturire da ciò la disciplina dei singoli militanti. Soccorre a questo obiettivo un approccio neoidealistico,

apparentemente organico alla critica al sistema capitalistico. La contestazione dei valori della società borghese e dei suoi idoli viene estremizzata al servizio dell'organizzazione. Sia nella vita interna che nel lavoro politico si applica la direttiva «il nostro primo compito di comunisti è combattere il nostro egoismo partendo dalle piccole cose». Per l'Unione anche la critica al «revisionismo» si carica di un significato che trascende il giudizio politico per coincidere con la critica ai suoi valori del tutto omologabili a quelli della borghesia. Già nel primo numero di «Servire il popolo», l'articolo Per il nuovo partito rivoluzionario marxista-leninista offre una retrospettiva del «tradimento» del Pci: la rivoluzione socialista è stata tradita nella Resistenza perché a «dirigenti con armi in pugno e con una profonda e onesta partecipazione ideale» si sono opposte «a livello nazionale le dirigenze nazionali che si riunivano nel Comitato di liberazione con i rappresentanti della borghesia e con i militanti dell'esercito delle nazioni imperialistiche alleate alla borghesia italiana». I dirigenti del Pci appellandosi al senso di disciplina dei quadri rivoluzionari, sono riusciti a disarmare il popolo e ad estromettere dal partito e dal sindacato «i veri comunisti» 9. Alla critica tradizionale degli emmellisti l'Unione aggiunge il suo idealismo: il tradimento è reso possibile perché i vertici imborghesiti si sono allontanati dalle «idee giuste e pure» del proletariato. In questo modo il revisionismo diventa corruzione, atteggiamento soggettivo. I malvagi revisionisti sono rappresentati con le più incredibili, irreali e demagogiche descrizioni: «hanno il volto e il passo viscido, hanno il volto e gli atteggiamenti corrotti, hanno il volto, il passo e gli atteggiamenti dei traditori che si aggirano furtivamente, cercando di seminare la discordia e la zizzania, 1 egoismo e l'individualismo». Al contrario gli uomini e le donne del popolo, secondo i canoni del realismo socialista sono, «uomini dal volto duro e dalle mani callose», «donne semplici e dolci madri...» che soffrono il dramma dei loro uomini10. Per rispondere al bisogno di certezza dei suoi militanti, più in generale tentando di interpretare uno stato di disorientamento dell'insieme del movimento studentesco si riduce tutto alla lotta fra bene e male. Criticando il tentativo di autorganizzazione dell'Unione, Francesco Ciaf aloni e Carlo Donolo sui «Quaderni piacentini» scrivono: «II bisogno di certezza corrisponde al bisogno di un orientamento stabile nell'agire, grazie però alla riduzione radicale della complessità della situazione. Ciò è ottenuto tramite uno schema interpretativo bianco e nero: noi e gli avversari, il bene e il male, i rivoluzionari e i revisionisti» ". La lotta al revisionismo diventa così lotta fra concezioni del mondo, lotta fra le idee: «da dove vengono i revisionisti? I revisionisti vengono dalla borghesia; allora noi per fare la lotta contro i revisionisti dobbiamo fare la lotta contro il modo di pensare che i revisionisti possiedono e contro quel modo di pensare che i revisionisti cercano di inculcare negli operai». Ridotto il revisionismo alle categorie di egoismo e di individualismo, per sconfiggerlo bisogna affermare le idee giuste del proletariato, cioè l'amore per il popolo, la dedizione, l'altruismo e la

sincerità. Per non tradire il popolo bisogna vivere come vive il popolo: avere un salario da operaio, non pensare mai prima a se stessi, ma sempre agli interessi del popolo: questa è la purezza ideale dei veri comunisti! Nella costante semplificazione della complessità della lotta di classe, affermazioni del tipo «questa è l'epoca della coscienza delle masse» o «l'imperialismo marcia verso la sua sconfitta totale» sono calate sulla realtà fino ad attribuire a un'indistinta categoria di popolo un'altissima coscienza rivoluzionaria, condizione per cui è possibile anche nel nostro paese parafrasare il modello della rivoluzione culturale cinese nella lotta contro il revisionismo. Nasce da ciò l'esasperata imitazione nel linguaggio e nelle forme espressive del maoismo. Nei colori, nella struttura delle immagini, anche se ingenuamente si cambiano le caratteristiche somatiche dei soggetti, i manifesti sono la copia di quelli cinesi, 10 stesso accade per l'apparato scenografico che accompagna le iniziative del gruppo. Il linguaggio giornalistico di «Servire 11 popolo» e «Bandiera rossa» dietro l'apparente semplicità è pieno di un aristocratico populismo che esalta i comportamenti del popolo e del proletariato riproponendoli in versione neosta-liniana. Nell'elaborazione dell'Uci la nozione di classe è sostituita da una sociologica' interpretazione dei comportamenti sociali. Già nel bollettino interno n. 1 dell'inverno '69 si legge «avevamo commesso l'errore di essere rimasti al concetto di classe». Assunto come parametro fondamentale il giudizio «questa è l'e-poca della coscienza» si deformano le potenzialità rivoluzionarie e la dislocazione di classe dei diversi strati sociali. Il popolo diventa una categoria astratta in cui si annullano tutte le differenze: «escluso il pugno dei ricchi borghesi e sfruttatori del popolo tutti gli altri uomini compongono il popolo, che ha come interesse comune la rivoluzione si può dire che il 97% degli italiani può in ultima analisi essere unito e guidato a fare la rivoluzione socialista». Ne consegue una riduzione di tipo assistenzialistico della nozione «servire il popolo», a cui si accompagna il privilegio degli aspetti sovrastrutturali e dei dati soggettivi rispetto alla politica. Si deforma così la realtà estendendo a un popolo immaginario contraddizioni e problematiche che sono invece espressione delle tensioni che animano gli aderenti del gruppo. Non sono i rapporti di produzione e la miseria delle masse popolari le spinte prioritarie che determinano la lotta di classe, bensì l'oppressione, l'insoddisfazione e i miti della società del benessere: «Si può dire che l'elemento che spinge maggiormente allo sviluppo del movimento rivoluzionario non è tanto la miseria delle masse popolari quanto la loro profonda insoddisfazione nei confronti della organizzazione sociale, della concezione del mondo che guida questa marcia nella società, dell'uso che viene fatto del bene pubblico». E ancora: «in questa fase della lotta rivoluzionaria in un paese di capitalismo sviluppato i compiti della rivoluzione non possono essere quelli della rivoluzione economica e politica, ma dobbiamo anche impegnarci a

sviluppare la rivoluzione nei campi della cultura e della sovrastruttura» 12. Infatti: «Le classi dominanti, il capitalismo, esprimono il loro potere politico sugli uomini e sulle loro coscienze in quanto le loro idee sono dominanti». Spetta alla «grande e giusta Unione» estirpare queste idee, restituire al popolo le «idee» della rivoluzione: «A questo punto quella che appariva la forza del padrone diventa debolezza infinita, perché gli operai hanno preso il potere sul proprio pensiero e hanno capito che la forza del padrone non dipendeva da altro che dalle idee ingannatrici che propagandava e dalla difesa che il governo e la polizia ne fanno» ". Tuttavia questo unilateralismo esprime un mutamento delle ragioni stesse della lotta di classe e, sia pure nella sua deformazione, la molla ideale della scesa in campo di nuovi settori sociali e l'esplodere di una soggettività del cambiamento non più ri-conducibile alle tradizionali categorie di classe. Dietro le rigidità organizzative, si nascondono molti elementi di provenienza marcusiana quali la lotta contro il consumismo come «male» sociale, il diffuso rifiuto del progresso e una generica aspirazione al socialismo come felicità. Un* eclettica combinazione di idealismo e vetero comunismo, un'insistenza ossessiva sulla «concezione del mondo» che trasferisce il mito della rivoluzione sul piano dei comportamenti quotidiani e nel microcosmo del gruppo. Le idee della borghesia e le idee del proletariato sono due assoluti che si combattono fra loro; male e bene che si scontrano: «Ogni elemento onesto e sincero vive dentro di sé la lotta tra queste due diverse idee, le idee della borghesia e le idee degli operai» 14. Lottare contro il revisionismo dunque significa cambiare se stessi, modificare le proprie abitudini. Per lo studente ex movimento ciò vuoi dire rompere col suo individualismo, piegarsi alle regole dell'organizzazione, essere al servizio del popolo e tautologicamente del «partito». Alle «idee marce e corrotte» del dominio del capitale, l'Unione contrappone l'altruismo. Da un'idea in sé, «l'amore», si fa discendere l'«odio» di classe, non sono i reali rapporti di produzione che creano l'o-dio di classe e spingono il popolo a lottare ma è l'«amore» che crea la forza motrice della storia. La stessa visione della storia della lotta di classe ne risulta stravolta: «II popolo si batte per modificare il rapporto fra gli uomini, si batte per generare quel-l'amore che è la carica fondamentale che crea Iodio di classe [...] Dall'amore nasce Iodio, dall'amore per il popolo, dalla concezione altruistica e collettivistica nasce Iodio per chi impedisce al popolo di unirsi e di realizzare la trasformazione collettivistica. L'odio cresce con la stessa intensità dell'amore: più l'amore è intenso e reale e più cresce l'odio. La lotta di classe è generata dal generarsi dell'odio dall'amore» 15. Quest'ossessione ideologica che decade al rango di norma e contrabbanda metodologie per politiche non è solo il frutto di un paranoico abuso del maoismo. Piuttosto enfatizza le motivazioni ideali che hanno spinto gli studenti, per lo più di provenienza borghesi o comunque non una classe definita a mobilitarsi, a schierarsi dalla parte della rivoluzione. Qualcosa che va oltre la politica, un

inedito patrimonio su cui si vuole e si può far leva. Rivolgendosi agli studenti il giornale «Le guardie rosse» scrive: «In generale la maggioranza dei giovani non è ancora corrotta (spesso anche i più ricchi o privilegiati per provenienza sociale) e quindi la tendenza più diffusa sarà quella di andare verso il popolo, verso le vie giuste contro l'individualismo e l'egoismo». L'Unione guarda alla scuola e all'università dall'alto del suo proclamarsi partito. Sarà questa una forza e una debolezza del gruppo. La sua estraneità le garantisce una forte capacità di reclutamento; numerosi gli studenti medi che sotto la guida del «partito» si trasformano in guardie rosse e, al servizio del popolo, in quadri rivoluzionari. Del tutto irrilevante invece il suo contributo al movimento studentesco. Il gruppo nel suo sviluppo ne ignora l'esistenza e prende le distanze dalle sue manifestazioni, ripetendo ossessivamente le critiche allo spontaneismo sovrappone al dibattito del movimento il suo orgoglio di partito in formazione. Agli studenti, non al movimento studentesco, si attribuisce un grande potenziale rivoluzionario: «Gli studenti sono una categoria sociale a sé stante, in ultima analisi solamente collegabili alla piccola borghesia. Gli studenti possono essere definiti semplicemente piccolo-borghesi solo dal punto di vista di un'analisi di tipo sociologico borghese che parte dal dato della composizione sociale senza analizzate, quindi, la contraddizione di fondo che vivono gli studenti [...]. L'aspetto principale degli studenti non è quello della provenienza di classe, bensì che essi sono giovani» 16. Ed essendo «giovani» essi sentono l'attrazio-ne verso il popolo, sono spinti ad andare «verso il giusto» e combattere contro «l'individualismo e l'egoismo». Confrontata con l'ampiezza delle analisi condotte nel corso delle lotte studentesche, l'analisi dell'Unione appare semplifica-toria e rozza. La scuola, come la vita politica, «è dominata da una cricca di luridi affaristi che hanno conquistato cattedre e posti elevati di insegnamento a colpi di corruzione politica» 17 un potere borghese contro cui si indicano come terreni di lotta la promozione dei «collettivi di studio» o l'uso collettivo dei libri di testo, per affermarne il valore rivoluzionario dell'«aiuto reciproco». Poco incisivi alcuni propositi di lotta, un retaggio del movimento, contro l'istituzione scolastica come il sabotaggio delle lezioni, il rifiuto di pagare le tasse, la contestazione dei professori. Non va sottovalutata la presenza di queste spinte nel sistema disciplinare e normativo dell'Unione, al contrario esse contenute dal centralismo organizzativo si scateneranno al momento della sua crisi ― nei primi mesi del '70 ― ricongiungendosi per molti rivoli al corso del gruppismo. Ma gli studenti non sono ancora quadri di partito, la loro milizia è piena di interrogativi e dubbi, residui di intellettualismo o marchi della loro provenienza di classe. Organizzazione e maoismo soccorrono a tal proposito; offrono stabilità e identità al militante senza politica, uscito in uno stato confusionale dalla sbornia del Sessantotto. Essere al «servizio del popolo» significa un generale spostamento del punto di vista. Ecco così gli studenti che abbandonano gli studi per la «rivoluzione»,

collettivizzano i loro beni, gli idoli del consumismo, i libri, i dischi, le macchine; una collettivizzazione che arriverà fino a far possedere all'Unione appartamenti e vari beni, anche se sono in molti a dichiararsi dubbiosi sulla provenienza degli ingenti finanziamenti di cui dispone il gruppo. Se le forme esteriori sono primitive e infastidiscono con la loro pedissequa imitazione del maoismo, la teoria e la pratica dell'Unione non sono separabili dalla critica alla società capitalistica che serpeggia nella cultura del movimento studentesco. Critica alla cultura, critica ai modi di vita imposti dal capitalismo si fanno ordine, la contestazione si irreggimenta all'insegna della disciplina, la lotta all'autoritarismo della società si placa all'ombra della più nobile autorità del pensiero di Mao. Esemplifica al massimo l'accecamento trionfalistico e lo spirito di autoesaltazione l'intervento che si realizza tra gli artisti. Con la costruzione dei «nuclei di artisti al servizio del popolo» si vuole dar vita a un processo di trasformazione degli artisti che partendo dai sentimenti delle masse e imparando «a leggere nel grande libro della vita degli sfruttati» possono modificare in senso rivoluzionario la loro collocazione, sprezzantemente definita dall'Uci di «servi del padrone». Agli artisti spetta il compito morale di combattere il revisionismo che ha creato il pessimismo fra gli studenti e le masse operaie e popolari, imponendo attraverso le loro opere l'ottimismo per il socialismo e solo stringendosi attorno alla «grande e giusta Unione» essi possono ottenere la garanzia di mettersi al servizio del popolo. Farsi partito significa dotarsi di un preciso «stile di lavoro», fornire ai propri militanti un metodo di intervento, la politica sarà una conseguenza. In realtà la frase maoista che rimbalza in tutte le riunioni dell'Unione «la politica al primo posto» significa più esattamente l'«idea» della rivoluzione al primo posto. Partendo dalla citazione maoista: «Da dove provengono le. idee giuste? Cadono dal cielo? No, sono innate? No, esse provengono dalla pratica sociale e solo da questa», l'inchiesta è lo strumento fondamentale e prioritario dell'intervento del gruppo nei vari settori. Utilizzando in modo schematico lo scritto di Mao Tse-tung Contro la mentalità libresca, con una fuorviante critica ali'intellettualismo e alla cultura, l'unica conoscenza del militante rivoluzionario è la «pratica sociale». L'avido lettore delle riviste politiche cessa il suo vagabondaggio nelle culture della rivoluzione per approdare al lido sicuro del Mao Tse-tung-pensiero, unica e principale fonte di verità. I militanti, i nuovi reclutati sono sottoposti alla «pratica sociale» tra il popolo «per raccogliere le idee giuste», per trasformarsi così in rivoluzionari e «guardie rosse». Colpisce nello scorrere la raccolta di «Servire il popolo» la quasi totale assenza di riferimenti concreti alla situazione politica italiana o anche alle singole situazioni di intervento. Ne consegue una pratica politica fatta di propaganda, di slogan, di modelli organizzativi, non guidata da nessuna organica impostazione teorica. Nei quartieri, nei paesi come nelle fabbriche, «il popolo può unirsi solo nell'ideale socialista in una grande carica di amore e di altruismo» a cui si aggiunge la carica rivoluzionaria basata sul profondo odio che il popolo nutre per i suoi «nemici».

Verificato, in modo del tutto soggettivo, attraverso una non ben definita inchiesta, che l'altruismo corrisponde ai desideri del popolo, la pratica rivoluzionaria si riduce a obiettivi morali e di costume come «la raccolta di fondi tra il popolo per poter dare una sedia a rotelle a un anziano compagno infermo»; oppure combattendo Pindividualismo borghese, come si ricava da ragionamenti del tipo «le ragazze sono prese dal problema dell'avere un costume più bello di un'altra»; «al mare e'era il bullo che cercava di farsi bello facendo vedere che lui nuotava meglio degli altri», da cui si arriva a teorizzare come momento di unificazione del popolo il «nuoto proletario», contrapposto a un nuoto di stile borghese. Nelle fabbriche per affermare il collettivismo e l'altruismo si propongono le squadre di aiuto reciproco a cui partecipano «tutti gli operai» con l'unica discriminante «di pensare prima agli altri che a se stessi». Esasperando un utopico bisogno di egualitarismo, all'interno della fabbrica, si prospetta una redistribuzione del reddito, chiedendo a chi più possiede un riequilibrio a favore dei meno abbienti. Esempi che sarebbero, secondo le elaborazioni dell'Unione, l'attuazione delle idee del socialismo e un modo concreto per sconfiggere l'opera di divisione creata nelle file della stessa classe operaia: «oggi quando il padrone minaccia di licenziarci noi gli rispondiamo che adesso non è così facile per lui; ci licenzi e poi non troverà da sostituirci, perché noi operai edili ci siamo uniti e abbiamo deciso che se uno di noi viene licenziato nessuno deve accettare di andare a sostituirlo» 18. Modestissime presenze si registrano all'Alfa di Milano e in qualche altra fabbrica, per lo più si tratta di nuclei raccogliticci di militanti critici nei confronti del sindacato e scarsamente rappresentativi. Anche i mèmbri dell'Unione avvertono questo punto di debolezza ma sono accecati dal trionfalismo, peraltro offre un velo alla dimensione reale delle difficoltà il grande attivismo, la coreografia e l'ingente opera propagandistica. Davanti alle fabbriche o ai cantieri, ancora non si è allo scontro duro con l'estremismo, suscita curiosità e anche apprezzamento vedere questi studenti militanti che diffondono «Servire il popolo», che discutono con gli operai sempre accompagnati da un esaltante stormire di bandiere rosse. Le squadre si ritrovano nei quartieri, organizzano le scuole proletarie con i bambini, i medici al servizio del popolo. Nel sano furore della rivoluzione questi studenti trasformati in quadri di partito si accontentano di poco: piccole riunioni, qualche disponibilità, qualche consenso costruito sul malessere nei confronti del Pci e dei sindacati. Basta questo per essere, nel gergo dell'Unione, una potenziale «sinistra» in seno al popolo. Con l'autunno caldo la situazione muterà bruscamente.

3. Dalla storica conferenza alla crisi. Con un grande sfoggio di bandiere rosse, con un apparato scenico e un cerimoniale degno della «storica» occasione, nel settembre '69 si svolge a Roma la prima conferenza nazionale, un appuntamento che deve preparare il congresso di fondazione del partito. Il gruppo ex Falce e martello ha sconfitto le opposizioni interne, l'intellettualismo è stato bandito attraverso l'intensa «rieducazione» fra le masse. Dopo le manifestazioni del 1° maggio, tutto il Paese ha parlato dell'Unione; il gruppo ne ha tratto ulteriore linfa organizzativa. Nell'estate le «lunghe marce», le carovane delle guardie rosse, gli artisti al «servizio del popolo» con le loro rappresentazioni inneggiami alla Cina e alle virtù del popolo, hanno fatto conoscere il pensiero di Mao Tse-tung anche nei paesini più speduti. Apparentemente tutto procede secondo i piani. Eppure qualche dubbio comincia ad insinuarsi: perché non si fonda il partito? E la Cina perché non si pronuncia sul-PUnione? Qualche quadro di base comincia a dubitare ma ancora non socializza le sue prerplessità, il mito dell'organizazione è troppo forte. Eppure le cose stanno cambiando: cominciano le esitazioni di fronte all'insistenza sul nome di Stalin, timide critiche accolgono l'articolo apparso su «Servire il popolo» che non esclude la partecipazione del gruppo alle elezioni. Ma la maggior tensione è sulle lotte. Il distacco dal movimento era stato sopportato nella prima fase quando la scelta era tutta finalizzata a crescere organizzativamente. Molte delusioni avevano suscitato la totale indifferenza dell'Unione nelle manifestazioni antimperialiste e le molte assenze nelle lotte delle fabbriche e dei quartieri. Alla propaganda era seguita la rete organizzativa ma molti militanti ormai si chiedono a quando le lotte e il movimento, a quando il riunificarsi con le spinte di tutti i «ribelli rivoluzionari». Anche sul partito le cose evolvono: nel Pci scoppia il caso del Manifesto, gli operaisti tendono a organizzarsi, nessuna novità invece sul versante dell'emmellismo che continua a essere diviso. Sulla conferenza nazionale si caricano molte aspettative. La selezione dei delegati è rigorosissima. Al canto dell'Internazio-naie la platea, in piedi e col pugno levato, saluta il leader del gruppo, il segretario nazionale Aldo Brandirali. Il suo rapporto politico è l'idilliaca cronistoria dell'esperienza prodotta dal-l'Unione, mentre sul piano delle indicazioni si ripetono, risistemate, le posizioni già espresse sui singoli argomenti. Senza richiamarvisi esplicitamente il punto di partenza della relazione è la nascita del movimento studentesco: «Un grande cambiamento è avvenuto nel nostro paese in questi anni e mesi recenti [...]. La giovane generazione di rivoluzionari proletari è scesa in massa sulla strada della causa del popolo [...]. Ma, inizialmente, la

ribellione dei giovani rivoluzionari si è sviluppata senza strumenti adeguati per capire le cause del tradimento revisionista e per poter criticare il revisionismo sino alle radici che 10 hanno generato. Questo ha fatto sì che la ribellione si sviluppasse in modo disordinato e commettendo molti errori di principio e politici» 19. Per correggere questi errori, per dotare i ribelli rivoluzionari di un piano rivoluzionario scientifico l'Unione sin dal momento della sua fondazione si è sottoposta all'«autori-tà» dell'invincibile pensiero del presidente Mao. E questa la guida sicura per costruire il partito rivoluzionario dunque al primo posto quella che viene chiamata «l'assimilazione del pensiero del presidente Mao». Il leader dell'Unione ripercorre le ragioni del fallimento dei movimenti marxisti-leninisti. Il procedimento è quello di sempre: «Bisogna combattere contro coloro che alzano la bandiera rossa del presidente Mao per combattere contro il pensiero di Mao. Bisogna criticare il dogmatismo e la degenerazione opportunistica di "sinistra" che si è sviluppata dal 1964 al 1968 nelle file dei marxisti-leninisti in Europa» 20. Per Brandirali il problema vero è assimilare correttamente 11 pensiero di Mao quale si esprime compiutamente e al punto più alto nella Rivoluzione culturale successiva alla costituzione del movimento marxistaleninista. La novità di fondo, prosegue, consiste nel non limitare la critica al «revisionismo» al tradimento dei dirigenti e alla loro politica ma andare alla sostanza: «Non capivamo cioè che il revisionismo ha le sue radici, nell'ideologia borghese e che dell'ideologia borghese si esprime nelle putride concezioni dell'individualismo e dell'egoismo». E questo il cuore concettuale che anima la teoria, e quindi la sua precipitazione nell'ideologismo, dell'Unione. Nasce da ciò la sua forza e quella che sarà la sua debolezza, il suo dogmatismo saccente e il suo moralismo. Tutto il resto è conseguenza. Abbiamo già detto delle componenti che sono alla base delle fortune dell'Unione. Agli aspetti già indicati, risposta al bisogno di stabilità e di certezza, si aggiunge il fascino di cui carica la Rivoluzione culturale; essa diventa teoria, metodo, pratica, idee per interpretare non solo e non tanto la sfera politica quanto il vissuto del singolo militante. Il rapporto politico alla conferenza è una lunga sequela di ripetizioni tratte dal libretto rosso, in una piatta «assimilazione» si procede elencando citazioni e loro esemplificazioni. L'analisi politica si limita alla proclamazione: «Profonde contraddizioni interne dilaniano il potere della borghesia». La conclusione sul piano internazionale e nazionale è scontata quanto discutibile se confrontata con quello che sta avvenendo nel paese: «La grande borghesia capitalistica italiana ha bisogno di un governo spostato a sinistra» per mantenere sotto controllo il movimento di massa. La De non è più in grado di garantire la tregua sociale, ormai questo compito sarà assolto dalla «cricca revisionista italiana che domina il Pci, il Psiup e la Cgil» sono loro che da vent'anni offrono una copertura a sinistra al governo della De. Ma di fronte al sorgere di un possente movimento di massa il «revisionismo» ha perso il controllo sulle masse, nasce da ciò il piano di un suo

inserimento al governo voluto dai settori più avanzati della borghesia, a cui si oppone il movimento rivoluzionario: «Probabilmente i revisionisti entreranno nel governo e i sindacati vedranno migliorare la loro posizione nelle fabbriche grazie all'appog-gio dello Stato e dei capitalisti, ma questa operazione è così grossolana che nessuno nei settori di massa crederà veramente che si sia fatto un passo avanti con questi cosidetti spostamenti a sinistra» 21. L'Unione, definita sempre nel rapporto «Partito», rappresenta un ostacolo a questo disegno. E prevedibile una controffensiva reazionaria fatta di manovre poliziesche e di attacchi violenti: «Dobbiamo dunque e lo siamo, essere pronti per ogni evenienza, essere in grado di lavorare anche in condizioni di clandestinità». Operano già nel gruppo i primi sistemi di vigilanza ed una rudimentale rete di protezione contro l'ipotesi repressiva. Contro il rischio di attentati e di provocazioni la scorta di Bran-dirali e alcuni militanti fidati girano armati, fra il rispetto e anche l'orgoglio rivoluzionario, per tanta efficienza, degli altri mèmbri del gruppo. L'appello generale alla «combattività rivoluzionaria» non si sofferma sulla natura del movimento di lotta in atto nel paese, del tutto ignorata nei suoi caratteri concreti la tensione nelle fabbriche, silenzio sulla battaglia di corso Traiano a Torino e sull'e-splosione della contestazione al sindacato. Significativo il commento della rivolta a Caserta. Dalla protesta di massa conseguente a un evento sportivo si fa risalire un più generale antistatuali-smo, uno schema interpretativo che in nuce testimonia Patteggiamento dell'estremismo su quella che sarà la rivolta di Reggio Calabria. I più insoddisfatti sono i militanti che operano nel Sud, avvertono che sul piano della lotta il gruppo non regge. Nel piattume generale delle ovazioni alla grande e giusta Unione, nel dibattito si registra qualche timida critica. Propagandare l'altrui-smo contro l'egoismo non basta di fronte alla natura delle tensioni sociali e alla qualità dello scontro. Nel rapporto di Brandirai! i molti richiami alla combattività delle masse insistono sul dato soggettivo: non il disagio economico ma l'innato rifiuto del sistema capitalistico è il principale motore del movimento rivoluzionario. Le lotte debbono nascere dalla profonda condanna che le masse popolari esprimono sul «marcio» e «corrotto governo della boghesia e su tutto il sistema di potere politico», rispondere a questa volontà significa «spazzare via» tutti gli strumenti del malgoverno propagandando un governo della società che sia nelle mani del popolo, fondato su una democrazia qualitativamente nuova, capace di dare soluzione ai drammatici problemi di vita e al tempo stesso di costruire un nuovo sistema di valori e di convivenza collettiva. Contro il governo della borghesia l'Unione lancia la proposta del «Governo rivoluzionario degli operai, dei contadini, e dei lavoratori fondato su delegati eletti e controllati alle assemblee di massa». Demagogia e semplicismo si combinano in una proposta astratta, formulata con ampia dovizia di particolari e con una puntigliosa elencazione di norme e principi.

«La forma democratica dei delegati del popolo eletti nelle assemblee di massa è superiore a ogni altra forma democratica, e smaschera e pone in ridicolo la farsa del sistema elettorale borghese. Il popolo è la forza di ogni trasformazione e il popolo sotto la dirczione della classe operaia e del suo partito, instaurando il governo rivoluzionario, potrà finalmente decidere tutte le trasformazioni che ritiene necessarie. I consigli rivolu-zionari del popolo e di fabbrica decideranno tutto. Potranno così gridare: "― basta con il sistema delle elezioni e delle urne nelle quali si deve votare per partiti e persone che non si possono controllare e che fanno quello che vogliono; ― basta con il sistema del Parlamento in cui recitano le loro farse i rappresentanti della borghesia e del revisionismo che hanno rubato con l'inganno i voti del popolo; ― basta con il sistema dei deputati che corrompono l'amministrazione pubblica e che non possono mai esser tolti dai loro scanni di potere; ― basta con il sistema di leggi che difendono lo sfruttamento e l'oppressione del popolo; ― basta con il sistema dei ministri che decidono le riforme su raccomandazione e pagamento dei grandi capitalisti; ― basta con il sistema dei tribunali che lasciano liberi i ricchi che rubano, o che incarcerano gli affamati che rubano un po' di cibo e i proletari che si ribellano e protestano» 22. Il programma del governo rivoluzionario è specificato attraverso l'indicazione di un complesso di leggi: «E proibito produrre beni di lusso»; la «disoccupazione è un crimine», «tutto il materiale pornografico ed ogni fattore di propaganda delle idee morali e corruttrici della borghesia debbono essere immediatamente eliminati»; «il governo rivoluzionario aiuterà i vecchi pensionati»; «tutti i cattolici che desidereranno continuare ad andare in chiesa potranno farlo»23... Secondo il leader del gruppo, Brandirali, il governo rivoluzionario è un obiettivo concreto in quanto si tende alla sua effettiva realizzazione ma, nello stesso tempo, essendo la sua attuazione a lunga scadenza e una «idea» da portare alle masse, un modello che «da il senso giusto alle lotte delle masse e ai desideri di lottare per questo obiettivo». In realtà è solo uno strumento propagandistico: un insieme di parole d'ordine, un condensato di «principi» per un'utopica e semplificata società socialista. II moralismo della denuncia del corrotto «potere politico» si accompagna ad immagini ingenue, «davanti agli occhi degli sfruttatori e degli oppressi stanno l'enorme ricchezza e lo sfarzo dei capitalisti: grandi ville, interi palazzi, tenute private, grandi yacht, macchine lussuose, e orge corrotte e ributtanti. Ministri, politicanti, dirigenti, hanno stipendi che toccano le stelle. Il furto è all'ordine del giorno nell'amministrazione pubblica». Allo sfascio borghese si contrappone il sogno di una mitica società socialista: «La rivoluzione socialista spazzerà in un colpo solo tutti i lussi dei capitalisti e tutte le grandi differenze salariali. Assegnerà una casa a ognuno, controllerà e bloccherà i prezzi delle merci, programmerà la costruzione di industrie e di attività lavorative in eguale misura in tutte le regioni del paese, fermerà ed eliminerà in un colpo solo la disoccupazione e l'emigrazione. Tutti i dirigenti e gli amministratori avranno salari uguali a quelli degli operai, e le differenze salariali saranno grandemente ristrette, eliminando in un

colpo solo tutti gli alti stipendi, e assegnando a tutti i più poveri un salario minimo in grado di garantire una vita dignitosa. Tutti i consumi inutili e lo spreco verranno eliminati affinchè tutto il popolo possa avere garantito il necessario per vivere. Le idee corruttrici che guidano la cultura e l'informazione verranno apertamente combattutte. Nell'eguaglianza sociale e nello spirito collettivo affermato nei rapporti comuni del popolo, si vivrà una condizione completamente nuova di felicità. Lavorando per il bene del popolo tutti i lavoratori aumenteranno profondamente la loro volontà di produzione, le forze produttive si sprigioneranno e il paese, che è industrialmente ricco e pieno di risorse materiali e umane, diventerà in ogni sua provincia un giardino fiorito, e la vita del popolo realizzerà grandi conquiste, quali mai finora si sono conosciute. L Italia socialista si reggerà sul controllo armato del popolo e della milizia popolare, affinchè costantemente e ovun-que si eserciti la dittatura del proletariato contro qualunque tentativo di ricostruire lo sfruttamento capitalistico» 24. Con grande enfasi, nel plauso dei delegati ma senza grandi risultati si conclude la conferenza nazionale. II paese affronta la stagione delle lotte contrattuali, per molti quadri dell'Unione sarà un brusco risveglio alla realtà. «La precisione e la grande validità della linea e del programma approvato dalla conferenza» si dimostra una pia intenzione, fonte solo di delusione per l'impegnato e sincero attivismo di tanti militanti. All'indomani della conferenza nazionale crollano gli effimeri trionfi. Intelaiatura teorico-organizzativa e apparato scenico crollano nell'impatto con la politica. I militanti, sia pure filtrate dal mito del maoismo, hanno acquisito maggiori conoscenze, hanno maggiore dimestichezza con la pratica politica, non soffrono delle originarie paure del primo incontro con il popolo e la classe operaia, vogliono discutere e sono sempre più insofferenti al vuoto centralismo. Mettono in discussione l'esperienza svolta e spazzano via come un castello di sabbia il mito della «grande e giusta Unione». Un processo che produce profonde crisi soggettive, la migrazione di molti militanti in altri gruppi nonché l'innestarsi in altre formazioni di alcuni motivi propri dell'unionismo. Davanti alle fabbriche la situazione è molto diversa dalle descrizioni di «Servire il popolo», il gruppo è isolato in qualche caso sbeffeggiato. Altro che le roboanti cronache del giornale: «Si è ottenuta una grande vittoria perché gli operai hanno capito che i sindacalisti che bruciano le bandiere rosse sono traditori e noi siamo i veri comunisti». La propaganda del maoismo non è sufficiente, ne la generica critica al sindacato produce grandi consensi. Manca ai militanti del gruppo, ogni conoscenza della fabbrica, gli appelli al mutuo soccorso e all'al-truismo si manifestano alle squadre di intervento come parole altrettanto generiche della massimalistica proposta del «Governo degli operai, dei contadini e degli studenti». Proprio nella conduzione del lavoro politico, profuso con cieca dedizione, viene meno la fiducia nel gruppo dirigente, si svelano i limiti di una milizia che, servendosi di pratiche che sfiorano la psicanalisi di gruppo, contrabbanda i principi per la politica. La presunta trasformazione «rivoluzionaria» del militante si palesa come un'operazione volontaristica che, non traducendosi in un'effettiva capacità politica, dimostra tutte

le sue contraddizioni fino a mettere in crisi tutta la forzata impalcatura del gruppo che subisce un rapido processo di sfaldamento. Con l'inizio della strategia della tensione e la conseguente ondata repressiva, salta il centralismo interno, esso si svela nella sua natura di strumento oppressivo nei confronti dei militanti e solo funzionale al mantenimento di una fittizia unità di gruppo. Di fronte agli insuccessi è messo sotto accusa il gruppo dirigente, il sistema delle direttive burocratiche, l'organizzativismo e la settorialità degli interventi. Già prima dello sfaldamento, in particolare nelle situazioni meridionali e a Roma, si avvertono i segni di un rigurgito spontaneistico. A Roma, mentre il gruppo è impegnato a sostenere l'occupazione delle case popolari a varco San Paolo, per la prima volta nella sua breve storia, l'Unione decide di aggredire a freddo la polizia. Armati di manici di piccone, i cosiddetti «Stalin», i militanti del gruppo assaltano i gipponi della polizia fermi, distraendo così gli agenti e consentendo una nuova occupazione degli appartamenti dopo lo sgombero già avvenuto. Il dinamismo di Potere operaio e di Lotta continua davanti alle fabbriche, il dibattito apertosi attorno alla vicenda del Manifesto rimettono in moto suggestioni movimentiste solo momentaneamente tenute a freno. In molte sedi si comincia a discutere delle prospettive, si criticano le indicazioni del Rapporto politico, ci si chiede dove si sta andando allontanandosi dal corpo vivo dell'estremismo. L'università sembra avere una nuova fiammata di dibattito, ma il «partito» esclusosi in un anno di lotta non trova spazio. Non e' è diritto di parola per chi si è autoescluso e a nulla serve presentarsi con l'orgoglio e il trionfalismo di una grande organizzazione ma priva della forza del movimento. L'accusa ricorrente è: dove stava l'Unione nei giorni delle grandi mobilitazioni? Dopo la morte dell'agente Annarumma a Milano, l'Unione è nell' occhio del ciclone. La situazione si drammatizza ulteriormente dopo le bombe di piazza Fontana; il gruppo come tutto l'estremismo è al centro dell'offensiva repressiva. A Monterotondo, un comune vicino Roma, è perquisita la sede della dirczione nazionale; davanti alla sede romana dopo alcuni modesti incidenti sono arrestati numerosi militanti del gruppo. Cresce la tensione interna, la discussione si fa agitata, cosa impensata i dirigenti cominciano a essere discussi, la base fa sentire la sua voce, le sue vere esperienze e le sue disillusioni. Tra il dicembre '69 e il febbraio '70 in tutte le città le strutture dell'Unione sono attraversate da una profondissima crisi. Nel dibattito interno si ricostruisce la storia del gruppo, si passano in rassegna i fallimenti, si critica il gruppo dirigente. Le frustrazioni di un anno deflagrano nella liberazione di tanti interrogativi. Le accuse sono spieiate: ideologismo, fascistizzazione, culto della personalità, eccesso di organizzazione. I militanti di base dichiarano falsi i successi organizzativi e il numero dei tesserati, nel frattempo, guardando alla prossima costituzione in partito, il gruppo era passato ali'iscrizione con tessera. Con insistenza circola la voce di oscuri finanziamenti all'U-nione.

A Roma il clima è incandescente. La seduta dell'intero comitato centrale con il gruppo dirigente romano è l'ultimo tentativo di Brandirali di cooptare il dissenso. Dalla Sicilia, dove era stato inviato, rientra a Roma con una funzione da commissario politico Antonio Russo ex leader studentesco molto legato ai quadri romani dell'Unione. L'intervento farà precipitare ulteriormente la situazione. Guglielmo Guglielmi e i principali dirigenti dell'organizzazione dopo qualche incertezza assumono la dirczione del dissenso al gruppo ex Falce e martello. Lo scontro arriva ali occupazione «militare» delle sedi e del giornale con la cacciata dei fedelissimi del leader milanese u. Le coordinate del dibattito sono fumose. E più una rivolta della base che una precisa volontà di rifondazione, anzi ogni tentativo di tener uniti i vari militanti dissidenti si dimostrerà fallace e impossibile. Il processo di disgregazione è rapidissimo, in esso si ritrovano, rovesciate di segno, le stesse componenti della repentina fortuna; ma, contravvenendo a una consuetudi-ne dell'emmellismo, segno evidente delle spinte eterogenee che sono all'origine del processo emorragico, non si determina un nuovo gruppo bensì un'endemica migrazione di quadri: ognuno sceglierà la sua strada, il ritorno al privato, la milizia in altre formazioni, il curioso vagabondare da gruppo a gruppo, qualcuno entrerà nel Pci. La storia successiva dell'Unione non presenta grande interesse: uno spezzone secondario insieme ai residui del Pcd'I, di Stella rossa e di altre sigle minori dell'arcipelago emmellista.

4. Tattica e strategia Incurante delle scissioni a catena, dopo Roma, Milano, Padova, il nucleo dirigente nazionale dell'Unione prosegue imperterrito verso la formazione del partito. Contro la «cricca antipartito» dei piccoli borghesi che hanno incrinato la disciplina e la forte unità del «gruppo», contro gli «agenti della borghesia, troskisti, frazionisti», risponde con un'ulteriore stretta organizzativa 26. . Ricomincia l'indottrinamento dei militanti, nelle «scuole quadri» si torna al libretto rosso, ai testi del marxismo-leninismo, a ripetere principi su principi e a sviluppare la critica e Pautocritica. Per normalizzare la vita interna si compie qualche cooptazione negli organismi dirigenti e si concede qualcosa nei rapporti fra vertice e base. Quello su cui non si transige è il giudizio sulTUnione come nucleo d'acciaio portatore della linea ed embrione costitutivo del futuro partito. Nessun cedimento a chi vede la definizione della linea politica come «un processo di esperienze», anzi per combattere questi menscevichi è necessaria una nuova e più serrata bolscevizzazione. La dirczione nazionale e la sede del giornale si spostano da Roma a Milano, città roccaforte del gruppo. Una maggiore attenzione alla situazione politica si avverte negli articoli di «Servire il popolo». Nel febbraio, l'Unione lancia la campagna «contro la repressione e contro il governo». Il nemico principale è il governo, centro motore insieme a polizia e magistratura dell'attacco reazionario. Nel suo «programma politico per gli operai» della primavera '70 il gruppo assume fino in fondo il valore delle battaglie sociali, casa, prezzi, sanità, scuola. Altrettante occasioni di lotta pur nella consapevolezza che a nessuno di questi problemi delle masse il governo borghese potrà dare una risposta in quanto il problema vero rimane «instaurare la dittatura contro i capitalisti. La lotta di oggi per le esigenze del popolo deve preparare la lotta generale per la presa del potere» •". Prospettiva a cui certo non lavora la sinistra tradizionale. Impegnati a «imbrogliare i lavoratori a favore dei capitalisti», Pci, Psiup e Psi non sono partiti di sinistra ne di progresso, senza fare alcuna distinzione fra loro, sono tutti definiti come «partiti di centro». Brandirai! precisa: essere di centro in realtà significa essere di destra. Con un brusco trasformismo alle elezioni regionali del maggio '70 l'Unione invita i suoi militanti a votare per il Pci. Nell'estate un nuovo ciclo di espulsioni e scissioni28, sono smantellati quasi tutti i gruppi meridionali, a Napoli una parte del ceppo maoista si ritroverà nel gruppo Granisci. In questo periodo escono Luca Meldolesi, Nicoletta Stame, Antonio Russo che orbiteranno nell'area di Lotta continua. Nelle sedi dell'Unione procede la «bolscevizzazione». Il comitato centrale sempre allo scopo di fare assimilare la

linea impartisce ai quadri le sue lezioni, appare così l'opuscolo Sulla via dell'insurre-zione il primo degli scritti di strategia e di tattica m. L analisi saccheggia ampiamente l'opuscolo cinese Problemi della guerra e della strategìa, numerosi i brani ripresi da Mao e da Lin Piao, citazioni queste ultime che saranno soppresse nella nuova edizione del 1972 curata dallo stesso Brandirali. Per quello che riguarda lo sviluppo del movimento rivoluzionario nel mondo si riprendono i giudizi di Lin Piao: nelle «città del mondo», Nord America ed Europa, si è avuto uno stallo delle lotte di classe mentre al contrario esse sono esplose nelle «campagne del mondo», Asia, Africa, America Latina. Una situazione che acutizza lo scontro fra popoli oppressi e imperialismo aggressore e rende ineluttabile la crisi del sistema capitalistico, fonte dell'imperialismo, e la vittoria del socialismo e la dittatura del proletariato. Sempre attingendo al maoismo, «II vento dell'Est prevale sul vento dell'Ovest», dunque le campagne prevalgono sulle città. In questo scontro l'imperialismo subisce duri colpi, venendo meno le sue basi di rapina cadono i presupposti materiali di vecchi «privilegi» interni ai paesi capitalisti. Si determinano così le nuove spinte aggressive dell'imperialismo: la «guerra» come mantenimento del relativo «benessere» interno. L'esempio più clamoroso di questa spirale è la tragica guerra del Vietnam. Nelle «città del mondo» spetta al proletariato ostacolare questa follia aggressiva e di fronte a una guerra imperialista esso deve lavorare per la sconfìtta del proprio paese. Per il proletariato l'unica guerra possibile è la guerra civile e ad essa deve prepararsi. Lo scritto di Mao Tse-tung Problemi della guerra e della strategia, del 1938 nella fase di guerra di resistenza contro il Giappone, rivisitato dalle elaborazioni di Lin Piao e riletto attraverso il filtro della Rivoluzione culturale cinese, offre all'Unione la campionatura della lotta di classe nel mondo. Le nazioni oppresse dall'imperialismo dove, passando per la fase di nuova democrazia, la strategia è la «guerra di popolo»; l'Eu-ropa e il Nord America dove si deve combattere per l'insurre-zione armata e la guerra civile, e infine la Cina dove attraverso la Rivoluzione culturale si deve difendere la dittatura del proletariato. In Italia il compito principale è attrezzarsi a una strategia insurrezionale, educare gli operai ad accumulare forze attraverso una lunga lotta legale, servirsi della tribuna parlamentare, ricorrere agli scioperi economici e politici. Prepararsi alla «guerra civile di classe» avendo chiaro che «non bisogna dare inizio a insurrezioni e guerre fino a quando la borghesia non sarà veramente debole, fino a quando la maggioranza del proletariato non sarà decisa a condurre un'insurrezione armata e una guerra, fino a quando le masse contadine non si offriranno per aiutare il proletariato» 30. Tuttavia ricorda l'Unione, riprendendo Mao, non bisogna dimenticare l'interconnessione tra «fascismo e democrazia borghese» quindi prepararsi alla clandestinità. Il tema sarà ampiamente ripreso nel Progetto di Tesi del congresso di fondazione del Partito comunista (m-1) i del '72. La deduzione logica è semplice. La rivoluzione socialista in Italia non è una chimera ma strategicamente

è già in atto; la sua realizzazione è solo legata al crescere dell'«elemento cosciente», cioè la consapevolezza della maggioranza del popolo delle «grandiose possibilità di progresso che può generare la rivoluzione socialista». Proprio in virtù dello stadio cui è giunta la contraddizione antagonista fra proletariato e borghesia maturano le offensive reazionarie del capitalismo che si serve dei sindacalisti corrotti per contrabbandare come interesse dei lavoratori lo sviluppo della produzione, della democrazia borghese come finzione di rappresentanza e falsa illusione di potere; del revisionismo che contrabbanda un capitalismo ammodernato per socialismo. A tutto ciò si aggiunge il fascismo come «fronte di riserva» del sistema. Le lezioni dell'Unione proseguono fra indicazioni di metodo alternate ad affermazioni di principio. Per rendere elemento «cosciente» il popolo occorre unirlo, sovviene ancora il maoismo, risolvendo le contraddizioni in seno al popolo. Il proletariato, e quindi il suo partito, può dirigere il popolo, portare avanti la sua opera di unificazione solo integrandosi totalmente alle masse. Nel loro lavoro i militanti debbono aver sempre presente la seguente direttiva: «mai condurre azioni che non corrispondono alla volontà e alla coscienza delle masse». Non è difficile comprendere lo strabismo con cui opera l'Unione, l'enor-me divario fra le affermazioni e il livello di politizzazione che riscontra nelle situazioni di intervento. Nasce da ciò la «tattica» del gruppo. Nelle singole lotte sono presenti due linee: quella borghese, il revisionismo e tutti i suoi alleati, e quella proletaria che si organizza nel partito rivoluzionario. Nel? applicazione di una «corretta» linea di massa i compiti nell'Unione sono: sostenere le lotte, intervenirvi per garantire la loro unità, gettare le basi dell'organizzazione ed enucleare le avanguardie. Si defìniscono così i terreni della nuova fase di impegno del gruppo, le tattiche della più generale strategia rivoluzionaria: costruire la corrente rossa nella Cgil; la lotta per «le riforme contro il governo», come anticipazione del programma del governo rivoluzionario; la lotta per la vera democrazia per smascherare, anche partecipando alle elezioni, la democrazia borghese. Armata dei principi del maoismo, della tattica e della strategia, debellato lo «spontaneismo interno», l'Unione conosce un nuovo quanto effimero impulso. Dal centro i quadri dirigenti sono inviati a riportare ordine nelle varie sedi. Si procede a una più oculata politica finanziaria, sono chiuse tutte le sedi che non riescono ad autofinanziarsi. Memore delle esperienze passate, l'organizzazione è accompagnata da un' attenta selezione di tutti gli aderenti. L'interesse politico prevalente si sposta dal Sud alle grandi fabbriche del Nord. Lo stile di lavoro sembra tornare alle origini. Si registra un nuovo aumento nella diffusione di «Servire il popolo», secondo alcune stime arriva a toccare le 20 mila copie settimanali. Seguendo le indicazioni del nuovo statuto, che prevede che ogni due operai vi può essere solo uno studente iscritto al gruppo, fra i mèmbri effettivi dell'Unione aumentano gli operai. Riprende il dialogo con gli altri gruppi. Per tappe successive confluiranno nel? Unione: il Partito comunista rivoluzionario, Avanguardia proletaria maoista e i resti del Pcd'I

linea rossa. Ben presto in tutta Italia si calcoleranno 150 sedi dell'Unione. La maggioranza è al Nord, nella sola Milano se ne contano 18. Al Sud rimangono alcuni punti forti coordinati dalla sezione meridionale. Nelle fabbriche la linea è l'entrismo nel sindacato, lavorare all'interno delibrganizzazione per evidenziarne le contraddizioni: «Partecipare attivamente ai livelli di massa in cui si esprime la dialettica del movimento di massa e cioè: commissione interna, assemblea operaia, assemblea di sede sindacale, delegati di reparto, di linea e di consiglio di fabbrica. In tutte queste sedi bisogna portare avanti gli obiettivi sostenuti dagli operai e condannare la metodologia che guida gli obiettivi sostenuti dai sindacati, le forme di lotta, e così tracciare la discriminazione fra le forme di lotta sostenute dagli operai e quelle sostenute dai sindacati». La lotta contro l'egoismo per affermare l'altruismo sparisce a favore di un netto spostamento verso lotte dure. L'Unione incoraggia gli scioperi a gatto selvaggio, il blocco della produzione, agendo sui punti chiave ali organizzazione del lavoro in fabbrica. A settembre, lancia la campagna contro il governo Colombo e le sue misure antipopolari. Sul piano operativo si tratta quasi sempre di volantinaggi, lavoro organizzativo, qualche comizio. Poche le occasioni che vedono il gruppo al centro di rilevanti appuntamenti di massa: una carenza di iniziativa che contrasta con la durezza degli articoli del giornale e degli slogan. Su «Servire il popolo» il governo Colombo è definito «anticamera della reazione» e il fascismo non è altro che uno strumento del governo e del suo disegno reazionario. Se questo è il gioco delle parti come è possibile l'unità antifascista con la De come vorrebbero i revisionisti? Anche sull'Unione interviene la mano pesante della repressione, Enzo Lo Giudice, leader meridionale del gruppo, è arrestato per aver parlato di mafia in un comizio. La rivolta di Reggio riporta la riflessione sulla questione meridionale. I fatti del luglio colgono impreparato il gruppo che ancora una volta manca il suo appuntamento con le «lotte». Nel novembre 1970, con il comunicato della sezione meridionale, si schiera: «Salutiamo e appoggiamo fermamente il popolo di Reggio Calabria in lotta contro la miseria la disoccupazione, la rapina dello stato capitalistico». L Unione, non discostandosi dalle analisi di Lotta continua, vede in Reggio la rivolta contro lo Stato, contro la falsa democrazia borghese. Anche se De e fascisti hanno tentato di strumentalizzare ai loro fini la rabbia del popolo calabrese, il comunicato prosegue perentorio: «il popolo meridionale non è disponibile a queste manovre, esso non si mette contro gli operai, bensì vuole colpire i baroni di ogni colore» 31. Lo svolgimento dei cento giorni di Reggio e le sue stesse contraddizioni non sono altro che la conseguenza del principale problema del popolo meridionale la mancanza del partito rivoluzionario. Per Brandirali si conferma un'altra verità: «il Meridione come riserva della rivoluzione». Della rabbia del popolo meridionale si è sempre parlato al-l'interno dell'Unione come di un potenziale rivoluzionario da far esprimere. L'origine stessa del gruppo è stata fortemente influenzata da un'accentuazione terzomondista che aveva

portato molti militanti a spostarsi nel Sud. Ancora delusioni che si scaricano nella vita dell'organizzazione e nella coscienza dei militanti: perché quelle analisi e quelle prime ipotesi non hanno consentito di interpretare per tempo la rabbia spontanea del popolo meridionale? Torna la contraddizione organizzazionespontaneità che pervade l'insieme dell'esperienza Uci. Supplisce alle carenze di movimento la rigida sistematizzazione della «questione meridionale»: questione nazionale, territoriale, di grande disgregazione sociale. Al capitalismo serve un Meridione lasciato nella miseria, anzi ― si precisa ― non una «zona di miseria» ma «una miniera doro» per il capitalismo. Per la classe operaia l'alleato principale è il popolo meridionale proprio perché lottare e sconfìggere il capitalismo coincide con l'e-mancipazione del Sud. Vi è inoltre una specificità locale: l'at-teggiamento del popolo meridionale nei confronti dello Stato. Lo scontro si manifesta in tutta la sua radicalità, in assenza di ogni mediazione sindacale e politica la lotta diventa «rivolta locale» di un fronte sociale potenzialmente molto ampio. La politica di saccheggio del capitalismo ha costruito un esercito di disoccupati di riserva di futuri emigrati, di marginali, ma proprio questa decomposizione sociale fa del meridione la «Base rossa» della rivoluzione. A Reggio «il regionalismo», è stato il «lato debole» della rivolta. Un limite superabile con la presenza del partito rivoluzionario e riconoscendo nel Programma del governo rivoluzionario l'autogestione del popolo meridionale. Incapaci di risolvere questi problemi, reazionari e riformisti diventano uguali agli occhi delle masse. Vicina ad altre elaborazioni dell'estremismo, la riflessione che, ali' interno della questione meridionale, si sviluppa sul ruolo del sottoproletariato. L'autorità di Mao è sempre ben accolta: «II presidente Mao ci ha insegnato che la classe sottoproletaria non esiste, il sottoproletariato è una mentalità. Non è altro che una manifestazione di retroguardia del proletariato»32. Sulla disgregazione occorre lavorare rafforzando l'organizzazione e costruendo nel Sud il partito. I proletari debbono impadronirsi di questo strumento di lotta entrando nel-l'Unione «anche se non sono operai d'avanguardia». In polemica col Pci si respinge ogni ipotesi di fascismo eversivo e di massa: «i proletari sanno comprendere l'origine di classe delle loro sofferenze». Su tutto si stende il mito del grande e giusto partito, panacea di tutte le possibili contraddizioni: «Da Reggio a l'Aquila, da l'Aquila a Foggia, da Foggia a tutto il Meridione, la classe operaia italiana, mediante il suo Partito marxista-leninista assolve alla sua missione di guida verso le eroiche masse meridionali» ". Nell'analizzare la rivolta di Reggio si è affermato che non esiste un fascismo di massa ed eversivo ma questo non cancella la pericolosità dell'uso del fascismo a fini repressivi. Le rivelazioni sul tentativo di colpo di Stato preparato dal principe nero Borghese offrono un fertile terreno per rilanciare la campagna «contro i fascisti e il governo». Il vero pericolo va oltre il fascismo e sta nel governo Colombo. Contro la repressione e la reazione si creano comitati unitari aperti a tutti, unica discriminante quella contro la De.

Anche se con modesti risultati l'Unione tenta .comunque di ripristinare un dialogo con le altre formazioni dell'estremi-smo. Molti i punti di convergenza, ma quello che la divide dal resto del movimento è l'esasperato ideologismo, il neostalinismo mai abbandonato e la concezione del centralismo interno. Le aperture dell'Unione sono solo fonti di ulteriori crisi, nel confronto con gli altri gruppi si incrina la compattezza interna e riemergono spontaneismi tenuti a freno solo dalla concezione del «partito». Continuano, a cicli oscillanti, le emorragie del gruppo. Al lavoro per la costruzione dei comitati unitari «contro il fascismo e il governo» si affiancano l'impegno propagandistico sui temi sociali più scottanti e la presenza davanti alle fabbriche. Proseguendo la sua tradizione, il 1° maggio '71 comizi e manifestazioni pubbliche in molte città. Intanto di fronte alla ripresa delle lotte alla Fiat, «con il cuore colmo di gioia» e col solito trionfalismo di «una nuova marea montante», il gruppo lancia l'obiettivo del movimento di massa, guidato dagli «eroici operai della Fiat». Ancora una volta l'analisi si carica di ingenuità e di deformazioni funzionali al mito dell'organizzazione. Ormai per l'Unione tutto spinge alla costruzione del partito, ne esistono le condizioni soggettive poiché i militanti sono diventati «abili organizzatori e forti dirigenti rivoluzionari», ne esistono le condizioni oggettive perché la classe operaia non attende altro che di essere chiamata alla lotta dal vero partito rivoluzionario. Chiedendo «un voto per l'insurrezione», nelle elezioni amministrative dell'estate '71, l'Unione in diversi comuni presenta proprie liste. «Il voto non cambia le cose» ma «ogni voto alla nostra lista dimostrerà che esistono i capi per fare la lotta rivoluzionaria nel nostro paese». Il fallimento non sconsiglierà l'anno dopo di ripetere su scala nazionale la prova elettorale. AU'indomani della prima conferenza nazionale della corrente rossa della Cgil del giugno, appuntamento che non registra consistenti novità, un nuovo fiorire di scuole quadri. Il nucleo d'acciaio deve rinsaldarsi, epurare la «destra» interna, espellere con la critica e l'autocritica i residui borghesi. Scrive Francesco Ciafaloni sui «Quaderni piacentini»; «L'Unione è un fenomeno religioso di controrivoluzione basato sul potere della funzione» 34. Alla ripresa autunnale il gruppo rafforzatesi con le sue pratiche di autocoscienza collettiva si lancia solo con la forza dei suoi slogan in una campagna di scioperi politici. Il programma prevede una «settimana rossa» al mese fino alla caduta del governo Colombo». A novembre la prima «settimana rossa». Gli slogan sono: basta con il carovita, blocco dei prezzi; basta con la disoccupazione, lavoro per tutti; basta con i salari miserabili, salario minimo garantito; basta con 1 occupazione e la miseria del Sud, rinascita del Meridione; basta con i salari miserabili, salario minimo garantito; basta con la dittatura poliziesca, la giustizia nelle mani del popolo; basta con le aggressioni imperialiste, fuori l'Italia dalla Nato. Lo sciopero vede scarsissime adesioni. Ma basta poco al gruppo. Brandirai! saluta a nome del comitato centrale «l'eroismo dei combattenti» della settimana rossa, una lotta che ha «commosso milioni e milioni di lavoratori, donne, giovani, vecchi».

Gli insuccessi non cambiano la rotta verso la fondazione del partito. A differenza degli altri gruppi che consideravano aggravata la situazione, l'Unione col solito fastidioso trionfalismo dichiara la situazione «eccellente» non ci sono dubbi «fra cinque o dieci anni l'Italia sarà rossa» 35. Sul piano interno il gruppo si fa sempre più setta, arriva persino con un assurdo rituale a celebrare i «matrimoni di partito» 36. Nello spirito del Fronte unito, sotto la dirczione del partito e utilizzando sempre le medesime forze si organizza il Movimento delle 5 leghe (delle donne, della gioventù, della vecchia guardia, dei pionieri, del vento rosso), suo compito sviluppare le linea di massa e «la ribellione alla borghesia nei diversi settori» attraverso «la forza educativa dell'altruismo trattando specificamente le contraddizioni ideologiche attraverso l'unità e la lotta, la critica e l'autocritica, l'aiuto reciproco» 37. La situazione dunque è «eccellente», per rispondere al desiderio di ribellione delle masse manca solo la tappa fondamentale: la costruzione del partito, «la potente forza organizzativa della rivoluzione socialista, la vasta rete del partito rivoluzionario della classe operaia».

5. Il Partito comunista (m-l) italiano Prepara il congresso di fondazione del partito il Progetto di Tesi. Tornano principi e concetti già formulati nella prima conferenza nazionale. Stavolta il programma socialista del governo rivoluzionario si articola in 26 articoli suddivisi in cinque capitoli: espropriazione degli sfruttatori, organizzazione del nuovo Stato, ripresa delle energie produttive per il benessere del popolo, cultura-sport-moralereligione. Con la solita pignoleria si definiscono i comportamenti e le norme della vita socialista, il tutto irreggimentato in un immaginario sistema politico gerarchicamente organizzato nei vari comitati rivoluzionari, leghe, fronte unito di uno Stato retto dalla dittatura del proletariato. Sullo sfondo un idilliaco paesaggio sociale: «Le città si estenderanno armoniosamente integrandosi alla campagna, i monti e le rive del mare saranno abitati dai vecchi riuniti in centri sociali, dai bambini e dai lavoratori per i riposi ricreativi. Il vino e i buoni cibi del nostro paese saranno prodotti per tutti, ogni regione darà alle altre le sue cose migliori. Le più belle usanze del popolo risorgeranno nella vita collettiva. E l'Italia sarà un giardino fiorito»3S. Ma questo paradiso terrestre non sarà possibile senza il passaggio dalla lotta armata. La concreta esperienza della lotta di classe nel mondo dimostra che contro i desideri del popolo e i suoi successi si scatena la reazione armata della borghesia: «II principio della lotta armata per la presa del potere è un principio generale della via rivoluzionaria». In Italia essa assumerà la forma della «via dell'insurrezione», uno sbocco che si renderà inevitabile quando il capitalismo, non avendo altra mediazione possibile, ricorrerà alle armi per reprimere le lotte del proletariato e del popolo. In questa transizione il popolo acquisterà coscienza dell'inevitabilità della guerra civile, nel frattempo spetta al partito attrezzarsi a questa evenienza, la fatidica ora X della rivoluzione. Una mitica crisi rivoluzionaria che per l'Unione finisce per coincidere con generici principi della lotta di classe e col suo sentirsi partito. Peraltro, avendo sempre collegato, nei suoi enunciati, radicamento fra le masse e costruzione del partito, il suo stesso esistere verrebbe meno senza la finzione del trionfalismo. Affermare la necessità del partito e passare alla sua fondazione significa anche constatare l'imminenza della crisi rivoluzionaria. Non è difficile comprendere le conseguenze negative che questo strabismo rispetto alla realtà produce nei militanti del gruppo per lo più giovanissimi e senza esperienza politica. La scoperta della finzione sarà sempre un dramma personale. Microstorie che scorrono nella vicenda complessiva del sovversivismo.

Nelle tesi si illustrano pedantemente i modelli di organizzazione sociale e di propaganda della «rivoluzione». Accanto al partito, strumento egemone della dirczione politica, le leghe con la loro articolazione per settori, una gerarchica ingegneria politico-sociale ricomposta dalla logica del Fronte unito. Spetta alla lega del Vento rosso, che opera nel settore della cultura, propagandare gli ideali del socialismo portando fra le masse le sue squadre di artisti, il «Teatro rosso», le canzoni del proletariato, mentre le «marce» rosse percorrono il paese. Nelle fabbriche «Stalingrado», nei quartieri «base rossa» si deve lottare per gli scioperi politici, costruire l'unità del popolo edificando gli strumenti dell'aiuto reciproco. Nel nutrito elenco non mancano le squadre di vigilanza e di autodifesa, contro il fascismo e le provocazioni. Dunque accanto ai principi anche il militarismo. Fra i militanti si parla poco del servizio d'ordine, una struttura rigorosamente inquadrata sin dai tempi della conferenza nazionale. Si muove parallelamente al partito, circondata da mistero, procede alla schedatura dei fascisti e dei provocatori. Il gruppo non vorrà mai esser confuso con l'avventurismo che critica nelle altre formazioni, tuttavia è facile intuire quanto il verbalismo rivoluzionario accompagnato dalla scarsa capacità di lotta generi turbamenti in giovani che scoprono la politica. L'Unione non ha mai visto positivamente il Comitato nazionale contro la strage di Stato, non vuole mischiarsi con gli altri «gruppi studenteschi». Estranea alla giornata dell' 11 marzo 1972 a Milano, preferisce ignorarla nei suoi aspetti più inquietanti. «Servire il popolo» non commenta l'assalto al «Corriere della sera» e liquida gli scontri di piazza come «una qualunque manifestazione studentesca» selvaggiamente aggredita dalla polizia, per giustificare la sua assenza agli occhi di quei militanti che non ne comprendono le ragioni, che si sentono esclusi dalla lotta che altri hanno ingaggiato, ancora una volta invoca la ragione di partito. Pur non avendo partecipato gonfia il proprio ruolo arrivando ad affermare «Tutta l'operazione [...] ha mirato a colpire non solo la protesta studentesca ma anche l'azione del nostro partito, a Milano particolarmente intensa». Questa chiave interpretativa guida il commento alla morte di Feltrinelli: il congresso del Pc(m-l)i e la presentazione delle sue liste fanno paura alla De che vuole con ogni mezzo screditare i veri «democratici» come Feltrinelli e i «salottieri medio borghesi» di Potere operaio. La morte di Feltrinelli è un delitto per far confluire voti sulla De; una macchinazione che trova la disponibilità di Potere operaio per impedire la fondazione in Italia del Partito comunista marxistaleninista. Conclusioni che nella loro presunzione non danno alcuna credibilità alla loro critica al sovversivismo. A Milano, dall'8 al 16 aprile '72 si svolge il congresso di fondazione del Partito comunista (m-1) italiano. I revisionisti «non possono più chiamarsi comunisti»; in un congresso stupendo «profondamente unito» è nato «il nuovo partito della rivoluzione in grado di trasformare tutto perché è formato e diretto da operai». Ma l'altisonante «appello al popolo italiano» rimane inascoltato.

La nascita dell'Unione aveva acceso interessi ma ben presto le sue principali peculiarità, organizzazione e maoismo, si erano tramutate nella sua camicia di forza. Dopo la crisi del '70, per la cultura del sinistrismo un esempio da non imitare. Più diviso che mai il campo dell'emmellismo, alle scarse confluenze nell'Unione fa da contrappunto 1 enorme frastagliamento in gruppi locali, regionali e nazionali. A differenza dell'Unione e del dogmatismo del Pcd'I per molte di queste esperienze, per lo più nate da scissioni, il problema principale, senza nulla togliere al faro cinese, è una corretta interpretazione del leninismo. Spesso dopo l'ubriacatura ideologica ci si rifugia nello studio, proliferano così opuscoli, riviste e documenti alla ricerca di quella teoria senza la quale l'intervento concreto è solo fonte di fallimenti. Dopo i fatti della Bussola del dicembre '68, Gianmario Cazzaniga criticando lo spontaneismo era stato molto esplicito: senza chiarezza politica l'intervento fra le masse diventa dannoso. Con lui Vittorio Campione e Giuliano Foggi usciti dal Potere operaio pisano fondano il centro Karl Marx. L'annunciato convegno nazionale non si svolge, prosegue invece un'analisi non astiosa del revisionismo e degli scenari internazionali senza sottacere le contraddizioni dell'esperienza cinese. Dopo la conferenza d'organizzazione (10-12 aprile '70) l'atten-zione del centro si concentra sulla scuola. Scelta da cui deriva l'internità alla Cgil scuola, al suo primo congresso nazionale (dicembre '70) numerosi e documentati gli interventi degli appartenenti del centro. Lo stesso Lama esprime apprezzamenti sul-l'intervento di Gianmario Cazzaniga, che presto diventerà un quadro nazionale della Cgil scuola. Il lavoro congiunto con altri centri ― il centro Karl Marx di Torino, il centro Lenin di Broscia, il circolo Lenin di Lecco, il circolo Lenin di Milano-Sesto ― porta alla fusione, nel febbraio '72, nell'Organizzazione dei lavoratori comunisti che si riconosce nel documento Movimento rivendicativo e lotta politica e pubblica la rivista «Sotto le bandiere del comunismo». Alle elezioni politiche del 1972 invita a votare per il Pci sia alla Camera che al Senato. Sempre guardando ali'area toscana l'altro spezzone della redazione di «Nuovo impegno» in conseguenza del dibattito sull'organizzazione, da vita alla Lega dei comunisti. Con l'uscita successiva di Della Mea e Cristofolini che si collocheranno in area di confine tra Lotta continua e Manifesto-Pdup, il gruppo cerca di portare avanti un paziente lavoro di ricucitura nell'uni-verso emmellista. Al nucleo originario Pisa, Massa, Carrara, Spezia, Firenze si affianca il circolo comunista m1 di Lucca e infine un intenso rapporto con Unità operaia di Roma, gruppo nato sull'onda del movimento degli studenti entrato in crisi nell'estate '69 e dopo la rottura, autodefinita «salutare», con lo spontaneismo presente in alcune fabbriche della capitale. Sempre a Roma nascono alla fine del '70 i Nuclei comunisti rivoluzionari. Solo nel '71 cercano di uscire dall'ambito locale pubblicando «Per la costruzione del fronte anticapitalistico» e nel '72 il foglio «Per la rivoluzione proletaria». Nel marzo dello stesso anno si stabilisce un rapporto con il Fronte popolare comunista rivoluzionario della Calabria, una fusione che origina il Comitato politico di coordinamento atto sancito con la pubblicazione nel maggio

della rivista «II comunista». A Milano all'inizio del '71 dal Movimento studentesco si stacca il Gruppo Granisci; in presenza del fallimento delle varie proposte della sinistra extraparlamentare il suo obiettivo è «costruire un'altra forza politica». Ancora sul vero partito della rivoluzione insiste l'Organizzazione comunista (m-1) Fronte unito, la parola d'ordi-ne nel marzo '72 «Ricostruiamo il partito di Lenin». Convergono nel gruppo la Lega dei comunisti m-1, l'organizzazione m-1 «Rivoluzione interrotta» e il gruppo napoletano di Hermann ex Pcd'I. Una selva di sigle che da sola testimonia la grande confusione, mini organizzazioni che si formano, si sciolgono, si fondano su spunti teorici e su obiettivi parziali ma tutte piene di ambiziose volontà di rifondazioni strategiche. Per lo più sono luogo di transito per altre esperienze, occasioni di primo apprendistato politico per altri approdi. L'erosione viene da tutte le parti, dal Pci e dal sindacato che proprio in quegli anni conoscono un forte rinnovamento interno, dai gruppi più solidi del sinistrismo. I percorsi delle organizzazioni si diradano in tanti percorsi biografici. Declina il mito della Ci-na, il partito rivoluzionario non arriva, al contrario nelle piazze cresce il sovversivismo. Le prime organizzazioni armate passano in questo quadro di decomposizione dell'emmelli-smo e di ridefinizione complessiva della cultura della nuova sinistra; attraversano i partiti dell'estremismo, i gruppi in destrutturazione, i primi germi dell'autonomia. Sullo sfondo di tali scenari il farsi Partito dell'Unione appare del tutto estraneo, viziato dall'ideologismo religioso del gruppo e senza alcuna reale corrispondenza al dibattito e alla pratica del sinistrismo. Nel maggio 72, la prova elettorale. Per il Pc(m-l)i 85.000 voti raccolti in tutta Italia di cui 11.000 solo nella città di Milano, baluardo e roccaforte del gruppo 39. Le giravolte interpretative non spiegano l'insuccesso, non basta «non sputare sui voti ottenuti» per dar loro un senso 40. Progressivamente il gruppo scompare dalle cronache, rari accenni si ritrovano sul «Diario extraparlamentare» dell'Espresso, di tanto in tanto ricompare la sigla, una delle tante nel panorama marxista-leninista. E coperto dal dileggio delle altre formazioni, esempio negativo e ultimessenza dell'ideologismo settario. Inesorabilmente procede l'emorragia interna. La casa editrice Servire il popolo pubblica stancamente le opere di Mao, di Stalin, una riedizione della storia del partito comunista dell'Urss, libri di Brandirai!. Nessun pronunciamento sulla vicenda Lin Piao e sulla nuova fase che contrassegna la politica cinese. In campo emmellista unica voce a difesa di Lin Piao la Lega leninista che sul suo «Lotta di classe» lancia l'appello a tutti i fedeli di Lin Piao e Cen Po-Tà perché «riprendano la lotta di classe spazzino via tutti i reazionari». Il precipitare della situazione cinese produce ulteriori sbandamenti, il castello ideologico messo in piedi dall'Unione, ormai Pci (m-1) non regge più e si appresta ad andare in frantumi. Dal 2 ottobre '72 viene affisso davanti alle fabbriche la «Voce operaia» quotidiano murale che, per mancanza di finanziamenti, cesserà le pubblicazioni dopo quattro mesi. Al suo posto compaiono manifesti murali che fungono da bollettino e

lanciano proclami che cadono nella più totale indifferenza. Anche «Servire il popolo», ora diretto da Angelo Mai, attraversa grandi difficoltà economiche dopo una breve pausa nella pubblicazione torna in edicola nel marzo del '73. I rapporti fra vari gruppi emmellisti sono sempre più sfilacciati. Nel? imminenza di rinnovi contrattuali. La Lega dei comunisti (m-1). Rivoluzione ininterrotta, e Partito comunista d'Italia (m-1) in aperto contrasto con le iniziative dell'ex Unione stampano «Per l'unità di classe» a cura del Fronte unito. Contro l'ipotesi di corrente rossa sindacale lanciano una riedizione dell'entrismo per modificare la federazione sindacale dall'interno. Le difficoltà del Pc(m-l)i continuano a crescere. A giugno del '73 una nuova prova editoriale «La voce contadina», primo giornale per i braccianti e per i salariati agricoli, nelle intenzioni si vuole arrivare «alla fondazione di un vasto fronte unito popolare che raccolga tutte le forze sociali contrarie alla De e che chiedono un governo operaio e contadino capace di garantire la rinascita del paese». Più interessante, anche se contiene evidenti segni di trasformismo, l'impegno dichiarato dal gruppo per un referendum sull'eliminazione dai codici dei reati d opinione un ponte che si vuole lanciare all'intero campo dell'extraparlamentarismo e alle stesse forze radicali. Ma la polemica prosegue e il gruppo di Brandirai! è del tutto tagliato fuori dallo scenario del gruppismo. A nulla servono i tentativi anche «culturali» che cerca di mettere in atto attraverso la rivista «Che fare», il periodico fondato nel '67 da Francesco Leonetti. Con 1 entrata nel comitato di dirczione di Enzo Todeschini e Fausto Cupetti, la rivista tende a diventare l'organo di dibattito culturale del Partito comunista (m-1) italiano. Gli eventi cinesi, il progressivo appannamento ideologico del pensiero di Mao Tse-tung, recidono ogni residuale spazio di legittimazione del gruppo, ormai si naviga senza bussola. Nel!' estate del '75 dietro l'artificiosa riproposizione delle polemiche GramsciBordiga, l'annosa polemica avanguardia o movimento che si trascina, Brandirali cerca tardivamente nel «gramscismo» un rilancio teorico-organizzativo, ma il risultato sarà la rottura definitiva. Ali'inizio del '76 il comitato centrale decide la radiazione dal «partito» dell'incontrastato leader storico 41. Il «culto» della personalità coltivato da Brandirai! non è sufficiente a sconfiggere gli oppositori, la sua mediazione si dimostra inutile e lo scontro si conclude in una rottura senza ulteriori prove di appello. Partito di quadri o partito di massa, 1 eterno dilemma del-l'area emmellista si ripresenta senza una soluzione. I conti con la pratica non tornano e la «purezza ideologica» diventa la scappatoia alla verifica e all'autocritica, la fuga dalla riflessione sulla politica. Sono le ceneri di un'esperienza: dalle fortune del-P Unione al postumo riciclaggio del bordighismo. Di Aldo Brandirali torneremo a sentir parlare alle fine degli anni settanta quando approderà a Comunione e liberazione, il gruppo politico religioso di Don Giussani e Formigoni. Il Pc(m-l)i, diretto da Eleonora Fiorani, assume progressivamente la

sigla del nuovo giornale «Voce operaia» e abbandona la originaria rigidità per una maggiore fluidità organizzativa, un processo che lo porterà a fiancheggiare l'ala più oltranzista del movimento del '77. Nella storia dell' emmellismo resterà il dilemma di quale sia stata realmente la linea nera e quale la linea rossa, chi ha vinto e chi perso, chi ha fatto più danni ad alcune generazioni di militanti.

NOTE 1 Cfr. «Giovane critica», n. 20, primavera 1969; P. Bevilacqua, Un anno di lotte in Calabria, «Contropiano», n. 3, 1968; G. Backhous, Urgenza dell'organizzazione, «Quaderni piacentini», n. 37, marzo 1969. 2 Cfr. G. Vettori, «La sinistra extraparlamentare in Italia», Newton Compton Italiana, 1973, p. 55. 3 «Servire il popolo», n. 1, novembre 1968. 4 ibidem. 5 Cfr. F. Ottaviano, «Gli estremisti bianchi, Comunione e liberazione», Datanews, 1986. 6 Cfr. Documenti dell'archivio del partito, n. 2 (cicl.); G. Vettori, La sinistra extraparlamentare in Italia, cit., p. 56. 7 Cfr. G. Vettori, «La sinistra extraparlamentare in Italia», cit., p. 57. 8 Avanti verso la costruzione del Partito comunista italiano (marxista-leninista), «Rapporto politico alla Conferenza nazionale», Edizioni Servire il popolo, 1969, p. 52. 9 «Servire il popolo», n. 8, 1969. 10 Cfr: volantino distribuito nell'estate 1969 nel corso della «lunga marcia» in Ciociaria nel Lazio (cicl.). 11 F. Ciafaloni, C. Donolo, Contro la falsa coscienza nel movimento studentesco, «Quaderni piacentini» n. 38, luglio 1969. Ora in Quaderni piacentini, Antologia, 1968-1972, Edizioni Gulliver, 1978, p. 212 e sgg.. 12 Avanti verso la costruzione del Partito comunista italiano (marxista-leninista), cit., pp. 25-26. 13 ibidem, p. 49. 14 «Servire il popolo», n. 67, 1969. 15 Cfr.: Relazione alla scuola quadri per gli studenti, Milano, maggio 1969. 16 «Servire il popolo», n. 3, 1969. 17 Avanti verso la costruzione del Partito comunista italiano (marxista-leninista), cit., p.73. 18 «Servire il popolo», n. 17, 1969. 19 Avanti verso la costruzione del Partito comunista italiano (marxista-leninista), cit., pp. 3-5. 20 ibidem, p. 12.

21 ibidem, p. 31. 22 ibidem, p. 43. 23 ibidem, pp. 39-42. 24 ibidem, pp. 22-23. 25 Cfr. L'Unione dei comunisti italiani ovvero: l'unione senza una ragione, «Avanguardia operaia», n. 4/5, marzo-aprile 1970. 26 Cfr. Il Partito epurandosi si rafforza. «Documenti dell' archivio di partito», n. 8 (cicl.); Cfr: G. Vettori, «La sinistra extraparlamentare in Italia», cit., p. 61. 27 Programma politico per gli operai, in A. Brandirali, «Contro il governo reazionario», Edizioni Servire il popolo, 1972, p. 11. 28 Cfr. Le cause teoriche e politiche della disgregazione delI' Unione dei comunisti italiani (come non si costruisce il partito del proletariato). Autocritica di un gruppo di compagni usciti dalla sezione romana dell' Uci, giugno 1970 (cicl.). 29 «Sulla via dell 'insurrezione», Edizioni Servire il popolo, 1970. 30 «Problemi della guerra e della strategia», Edizioni in lingue estere, Pechino 1968. 31 Appoggiare fermamente la lotta del popolo meridionale, novembre 1970; anche in A. Brandirali, «II meridione riserva della rivoluzione». Edizioni Servire il popolo, 1971, p. 93. 32 ibidem, p. 88. Per le considerazioni sulla questione meridionale cfr: «Capitalismo, Sud, Rivoluzione», Edizioni Servire il popolo, 1972, in particolare la parte dedicata al «Fronte unito» pp. 145-157. 33 A. Brandirali, «Contro il governo reazionario», Edizioni Servire il popolo, 1972, p. 53. 34 F. Ciafaloni, Manifesto ed altro, «Quaderni piacentini», n. 42, 1970. 35 «Contro il governo reazionario», cit., p. 136. 36 Cfr. G. Vettori, «La sinistra extraparlamentare in Italia», cit., p. 75; «Un matrimonio rosso», Edizioni Servire il popolo, 1972. 37 Cfr.: «Il programma rivoluzionario del partito» dal Progetto di tesi per il congresso di fondazione del Pci (m-l), Edizioni Servire il popolo, 1972. 38 ibidem. 39 Cfr.: Il Pci (m-l) dopo le elezioni del 7 maggio in N. Massari, E. Desideri, «Gli extraparlamentari come e perché», Ellegi edizioni p. 67 e sgg. 40 Cfr.: «Marea montante e crisi di regime», relazione di Aldo Brandirali al comitato centrale, «Servire il popolo», 3 giugno 1972. 41 G. Passalacqua, I marxisti-leninisti cacciano il ministalin: Brandirali radiato, «la Repubblica», 25 gennaio 1976.

VIII POTERE OPERAIO: IL PARTITO DELL'INSURREZIONE

1. La costellazione operaista Già alla vigilia del Sessantotto sono chiari i termini del conflitto fra le varie anime che hanno convissuto e si sono scontrate nell'arcipelago operaista a partire dalla scissione tra «Quaderni rossi» e «Classe operaia». Con la fine della pubblicazione delle due riviste, rispettivamente nel '66 e nel '67, venuto meno ogni riferimento nazionale, non cessa tuttavia il lavoro organizzato nelle singole aree d'influenza. Anzi proprio il parziale radicamento nelle lotte di fabbrica ― significativo l'intervento al Petrolchimico di Porto Marghera ― estremizza il confronto e accentua le divisioni, fino a delineare scelte diametralmente opposte. Il ritorno al partito del gruppo che si raccoglie attorno a Mario Tronti è fortemente osteggiato dagli «interventisti», mentre a Pisa prendono il sopravvento i «sociologi». Nasce in questo mutamento di fase, concomitante col sorgere del movimento studentesco, quell'osmosi di sigle che crea non poche confusioni nel laboratorio ideologico dell operaismo e nei suoi distinti tronconi organizzativi. Si sviluppano in parallelo le due esperienze di Potere operaio: quella toscana di Adriano Sofri, a cui si aggiungerà il gruppo torinese (ex «Quaderni rossi») che fa capo a Guido Viale e a Luigi Bobbio, e quella veneto-emiliana di Toni Negri, a cui daranno un concorso decisivo i romani Franco Piperno e Oreste Scalzone. È una geografìa composita per provenienza e pratica politica, che sempre di più avverte l'esigenza di coordinarsi e, per uscire da ogni strettoia localistica, rivendica un livello omogeneo di dirczione politica. Tra la fine del '67 e l'estate del '69, passando per il nodo delle lotte universitarie, maturano le condizioni di una centralizzazione su scala nazionale. Ma mentre per i marxisti-leninisti questa ricerca ha come obiettivo la strutturazione in partito, per l'operaismo il punto d'arrivo non si presenta così nettamente definito e si verrà precisando solo per successive approssimazioni. La natura stessa del movimento studentesco accentua la contraddizione fra la sua autonomia e ogni presunzione avanguardista: nonostante il ruolo importante svolto dai suoi leader, la linea operaista risulta sovrapposta alla specificità del «Potere studentesco». Anche davanti alle fabbriche, è il caso delle lotte alla Fiat dell'inverno-primavera '68, la mediazione fra le due linee è difficile. Nei vari

gruppi locali, ancora a uno stadio molto fluido, agisce una dialettica irrisolta fra il rifiuto del partito e la necessità di fondare una dirczione politica rispetto a uno spontaneismo che si avverte ricco di potenzialità rivoluzionarie. Entrando in risonanza con la complessità teorica e con la magmaticità organizzativa del Sessantotto, l'arcipelago operaista origina percorsi distinti. Il Potere operaio pisano, dopo il serrato dibattito sull'organizzazione, ampiamente ripreso dalla rivista «Giovane critica», dà vita con Adriano Sofri a Lotta continua; mentre Luciano Della Mea fonda la Lega dei comunisti da cui, con un ulteriore scissione, nasce il Centro Karl Marx di Gian-mario Cazzaniga. Il Potere operaio veneto e settori consistenti dei gruppi emiliani e romani si ritrovano insieme nel nuovo Potere operaio. In questo passaggio l'operaismo, nato dentro e ai bordi del dibattito della sinistra negli anni del primo centro sinistra, decreta la fine di ogni possibilità di agire come strumento di pressione nei confronti del «revisionismo» e acutizza i suoi caratteri antagonistici. La pratica condotta nell'università, con i suoi limiti e le sue novità, i rapporti ormai interrotti col Pci e con le forze di sinistra, il confronto-scontro con i gruppi marxisti-leninisti, sono tutte componenti che influiscono e concorrono a determinare questa scelta. Le dichiarazioni organizzative che ne derivano sono espressioni delle due opzioni che si misurano nella nuova sinistra: neomaoismo e neoleninismo. L'origine teorica della costituzione su scala nazionale di Potere operaio è la differenziazione manifestatasi all'interno del gruppo promotore di «Classe operaia». Fin dai primi numeri della rivista, infatti, si vanno sempre più divaricando le posizioni di Mario Trenti e Alberto Asor Rosa dalle tesi sostenute da Toni Negri. Lo scontro è sulla nozione dell'autonomia. Trenti è venuto progressivamente approdando ali' «autonomia del politico», premessa del suo rientro nel partito, Negri, sostenuto dal gruppo veneto di «Classe operaia», teorizza la radicale rottura col movimento operaio organizzato e il passaggio a una nuova fase del conflitto sociale attraverso lo sviluppo dell'autonomia operaia. Banco di prova: la lotta contrattuale del '66 a Porto Marghera, che rimarrà un punto di forza del gruppo 1. Quando «Classe operaia» chiude le pubblicazioni, il lavoro a Porto Marghera continua e, nel marzo del '67, dopo alcuni contatti con i gruppi operaisti veneti e quelli sorti a Modena, Bologna e Ferrara, nasce «Potere operaio», «giornale politico degli operai di Porto Marghera» 2. Gli editoriali dei primi tré numeri, redatti nella primavera del 1967 dai veneti, (in seguito i testi saranno eleborati alternativamente dalla redazione veneta e da quella emiliana), delineano l'area di interesse teorico-politico e le direttrici di intervento del gruppo: «Autonomia operaia contro il piano; una classe operaia forte, autonoma e unita, contro il piano. Autonomia operaia nella società vuoi dire ovunque sabotare il piano». La riflessione muove dall'esasperazione della conflittualità già presente nella tarda elaborazione dei «Quaderni rossi», accentuata ora da un più marcato antirevisionismo. E netto il rifiuto di ogni continuità con la tradizione culturale del movimento sindacale e della sinistra

organizzata, in particolare del patto democratico dentro cui questi ultimi hanno accettato di muoversi e di lottare. Emerge subito la spiccata vocazione salarista del gruppo che vede negli aumenti retributivi lo strumento principale per accelerare la crisi del sistema capitalistico, impedire il riassorbimento delle lotte e ogni loro prevedibile compatibilita. Il primo numero (20 marzo 1967) del «giornale politico degli operai di Porto Marghera» apre con un duro attacco al revisionismo. L'editoriale, Autonomia operaia contro il piano, contesta la scelta astensionistica dei parlamentari della Cgil di fronte al piano presentato dal governo di centro-sinistra. In fabbrica la parola d'ordine è: autonomia operaia contro il padrone, contro la politica «collaborazionista» del sindacato. All'interno del Pci bisogna far esplodere l'autonomia, una forza dirompente per rovesciare la sua linea: «La forza rivoluzionaria dei mille e mille comunisti onesti va rovesciata contro una linea politica che avvia alla sconfitta, che permette ai sindacalisti comunisti di astenersi sul Piano in Parlamento che non interpreta la necessità della lotta operaia in Italia. Una parola d'ordine sola "no al Piano" deve sconvolgere le strutture del partito. "No al Piano" ovunque nel sindacato e nelle fabbriche». Insistendo su questi temi, nel numero successivo si afferma: «E ora di muoversi nel partito» e si prospetta l'embrione di una strategia che abbia come sbocco il partito rivoluzionario: «II risultato finale che ci proponiamo con questa azione è la formazione del partito rivoluzionario della classe operaia, del partito capace di organizzare le lotte decisive contro il piano del padrone capace di pianificare un attacco generale al sistema capitalistico». La polemica coi marxisti-leninisti non è, dunque, sul «partito», ma sui tempi e sui modi della sua realizzazione. Il gruppo veneto-emiliano continua la sua esperienza davanti alle fabbriche senza prestare molta attenzione al movimento studentesco, e da questo punto di vista si differenzia sostanzialmente dal Potere operaio pisano e dai torinesi provenienti dai «Quaderni rossi». Tuttavia, fra la confusione derivante dall'omonimia delle sigle, la parola d'ordine del «Potere operaio» suggestiona numerosi militanti. La presenza dei gruppi locali nelle varie mobilitazioni suscita interesse e, d'altra parte, lo sviluppo del movimento studentesco è un fertile laboratorio di ripensamento per tutto il panorama operaista. Rilevante per lo sviluppo nazionale del Potere operaio veneto-emiliano sarà la confluenza sulle sue posizioni dell'area romana di Piperno, Scal-zone e Pace 3. Non marginale, tra l'altro, la popolarità che, i primi due conquistano nelle turbinose giornate romane da Valle Giulia a piazza Cavour, dalla risposta all'attacco squadristico di Caradonna all'episodio dell'incedio alla Boston Chemical. Sorprende la posizione assunta rispetto alle elezioni del maggio 1968. Contro ogni suggestione astensionistica, enfatizzando il rifiuto operaio della scheda bianca Potere operaio invita al voto per «i candidati del Pci e dello Psiup che si battono contro il piano del capitale ed organizzano la lotta operaia rifiutandone ogni

ingabbiamento». Ma aggiunge un minaccioso monito: «Di ogni voto ricevuto occorre essere coscienti che è una lama levata sulla testa di chi tradisce la classe operaia, di chi ne frena le lotte. Il voto lo diamo senza illusioni, ma illusioni non se ne facciano Pci e Psiup perché li aspettiamo in fabbrica, lì noi vediamo chi è contro i padroni e chi sta al loro gioco. La classe operaia vincerà: i burocrati no!» 4. Le lotte alla Montedison fanno clamore, investono l'intera Marghera: scioperi generali, blocchi ferroviari, forme di lotta dura5. Intanto al convegno delle avanguardie studentesche, che si svolge nel settembre a Venezia, si registrano le prime difr ferenziazioni fra Potere operaio veneto e Potere operaio pisano. Nell'inverno 1968-69 si conclude l'esperienza del «giornale politico degli operai di Porto Marghera», ma continua il lavorio nelle fabbriche: al comitato operaio del Petrolchimico si affiancano i nuclei delle grandi fabbriche di Milano e Torino. Confluisce in questa attività anche il gruppo che si raccoglie intorno al settimanale «La Classe», «giornale delle lotte operaia e studentesche», il cui primo numero esce il 1° maggio del 1969. Vari nuclei regionali convergono sulle stesse posizioni e si forma lo stato maggiore del nuovo gruppo: l'area veneta, con Toni Negri ed Emilio Vesce; Guido Bianchini, che rappresenta Mode-na, Bologna e Ferrara; Scalzone, Piperno e Pace, provenienti dal movimento romano; Sergio Bologna, Ferruccio Gambino e Giairo Daghini, che esprimono la realtà lombarda; Alberto Magnaghi dell'area piemontese. Nell'agosto '69, dopo i fatti di corso Traiano a Torino, «La Classe» finisce le pubblicazioni. Nel settembre esce il primo numero del nuovo «Potere operaio» 6. Più interna al travaglio sessantottesco si presenta la vicenda di Potere operaio pisano, che, superando le precedenti elaborazioni, attraverso una complessa mediazione con l'esperienza trentina di Marco Boato e con quella torinese di Guido Viale, approda a quel peculiare spontaneismo che caratterizzerà Lotta continua 7. Il primo numero del suo «Potere operaio» esce in tremila copie, nel febbraio 1967, come supplemento a «Lotta di classe», un giornale di fabbrica dell' Olivetti di Ivrea. Dopo altri due numeri, il 10 maggio di quell'anno, il giornale diventa autonomo sotto la dirczione di Luciano Della Mea 8. I nuclei fondamentali del gruppo si attestano a Pisa e a Massa, concentrano il lavoro politico all'università, all'Olivetti di Massa, alla Nuova Pignone e alla Saint-Gobain di Pisa, stabiliscono collegamenti con le esperienze in corso a Porto Marghera e alla Fatme di Roma. Molti militanti sono iscritti alla cellula universitaria del Pci di Pisa: alcuni saranno espulsi di lì a poco, altri usciranno spontaneamente. Una forte accentuazione economicista caratterizza l'impo-stazione del gruppo: nella sua elaborazione ogni lotta di tipo economico assume una valenza politica e una tendenzialità rivoluzionaria. Nel corso del '67, inoltre, sull'originaria impostazione operaista si innestano motivi guevaristi9. Sono di questo periodo parole d'ordine del tipo «guerriglia internazionale, subito» e «costruire uno, due, tre, molti Vietnam», alle quali si aggiungono citazioni e riferimenti all'esperienza cinese. Non si tratta però di precisi richiami a modelli rivoluzionari, ma piuttosto

di un insieme di suggestioni assemblate fra loro, un passaggio in cui i riferimenti ai «Quaderni rossi» e a «Classe operaia» subiscono un duplice appiattimento, verso l'economicismo e verso l'illegalismo diffuso. Davanti alle fabbriche la propaganda dei temi internazionalisti e la critica al revisionismo si unisce all'analisi della condizione operaia, ma la situazione reale sul posto di lavoro è assunta come pretesto da cui far nascere occasioni di agitazione. Se gli obiettivi sono rivoluzionari, le forme di lotta devono essere dirompenti: «Le lotte possono crescere fabbrica per fabbrica solo sulla base del rifiuto dei contratti e della permanente capacità di opposizione della base operaia. Lo sciopero non ne è che uno strumento; la non collaborazione, il rifiuto degli spostamenti, il rifiuto degli straordinari, la limitazione produttiva, il rifiuto del cumulo delle mansioni, l'insubordinazione collettiva ai capi, la richiesta degli aumenti salariali uguali per tutti e della riduzione d'orario a parità di salario, il rifiuto delle mansioni pericolose, il sabotaggio stesso nelle molteplici forme in cui può attuarsi (e già si attua) ne sono gli aspetti principali. È quella che si definisce la guerriglia in fabbrica, la permanente mobilitazione dell'assemblea operaia, squadra per squadra, reparto per reparto, e una conseguente organizzazione articolata "clandestina" e no, della lotta politica in fabbrica» 10. La nascita del movimento degli studenti, tra il finire del 1967 e l'inizio del 1968, comporta una revisione del lavoro e una sua nuova impostazione. Al nuovo «referente» sociale il gruppo guarda con diffidenza ed estende meccanicamente alla figura dello studente categorie concettuali e obiettivi mutuati dalla nozione di classe operaia. Con l'uscita di Della Mea e Cazzaniga dal Psiup si risolve definitivamente il problema del rapporto con i partiti tradizionali della classe operaia: pur non ponendosi in termini di rifondazione del partito, la questione dell'organizzazione diviene centrale. In questa chiave la presenza all'interno dell'università è tutta tesa alla formazione di militanti rivoluzionari e a determinare obiettivi corrispondenti alle «esigenze delle masse» nella prospettiva deU'unifìcazione politica dei vari settori di lotta 11. Nell'inverno 1968-1969 si radicalizza il confronto sul tema dell'organizzazione, la polemica si svolge sulle relazioni contrapposte di Luciano Della Mea e di Adriano Sofri " .Gli sviluppi del dibattito determineranno le dimissioni di Della Mea, una serie di scissioni a catena e uno scontro che preciserà la fisionomia del gruppo. Della Mea tende alla fondazione di un'«avanguardia politica rivoluzionaria» che «attraverso un sistematico intervento nelle lotte» si confronti, senza perdere la sua identità, con il movimento qualificandosi come «avanguardia esterna». A suo avviso nella pratica del gruppo si sono manifestate forti spinte ad un crescente coordinamento: ne sono esempi la stabilità dei gruppi di intervento politico, il lavoro per la formazione dei quadri, la tessitura di rapporti con le altre esperienze del gruppismo e, infine, la proposta del convegno nazionale di collegamento. Dopo il maggio francese, caduta ogni illusione ed equivoco sul possibile coinvolgimento dei partiti «revisionisti», si pone come indilazionabile per Potere operaio la necessità di consolidare il proprio ruolo di avanguardia. Da ciò Della

Mea fa scaturire il bisogno, di un solido rapporto fra tutti quei gruppi e quelle esperienze che hanno lavorato in modo analogo e sono riconducibili a una comune impostazione teorica. Si tratta quindi di ricomporre a unità il mosaico teorico e organizzativo che, originatesi attorno alla redazione dei «Quaderni rossi» e passando per «Classe operaia» ha dato vita al dissenso nel Pci e nel Psiup e al proliferare delle varie redazioni e dei nuclei d'inter-vento. Questa unità potrà essere possibile attraverso un'organiz-zazione nazionale ― quasi una federazione ― che, pur non identificandosi con un partito, consideri la costruzione di quest'ultimo l'obiettivo a cui tendere. Il processo di centralizzazione, il passaggio «dal provvisorio al regolato, dalla improvvisazione alla disciplina» deve attuarsi con la costituzione di un ufficio politico a livello nazionale. NelTipotesi di Luciano della Mea, come per l'Unione dei marxisti-leninisti, il processo di costruzione del partito è visto con una forte componente soggettiva e in entrambi i casi l'impostazione è guidata dal maoismo (o meglio da una certa lettura del maoismo). In un' ottica opposta si muove la relazione di Adriano Sotti, un documento che è da considerarsi la premessa ideologica e organizzativa di Lotta continua. Sofri giudica le esperienze realizzate ancora del tutto insufficienti per approdare a una svolta organizzativa e respinge due argomentazioni molto diffuse nelle file dell'estremismo: quella che vede nel momento della scelta soggettiva una garanzia sufficiente per la costruzione del partito e quella che sostiene la logica della «continuità lineare di una tradizione rivoluzionaria (il marxismo, il marxismoleninismo, il marxismo-leninismo-maoismo)». A suo parere la «dirczione rivoluzionaria» non è legittimata dal legame con un'ininterrotta continuità storica (che è altra cosa dal rapporto vivo con tutta l'esperienza rivoluzionaria passata e presente) e l'esigenza del partito non può essere tradotta in atto notarile, bensì può originarsi solo dal rapporto con le masse, dal suo essere espressione cosciente e generale dei bisogni rivoluzionari delle masse oppresse. Esaltando i movimenti di lotta in corso, Sofri attribuisce alle masse una coscienza rivoluzionaria innata e da questa soggettività fa derivare la loro disponibilità alla politicizzazione, condizione-necessaria per arrivare alla crescita e al collegamento delle avanguardie, in una dialettica permanente fra dirczione e spontaneità. Accettato formalmente, il principio leninista secondo cui «senza teoria rivoluzionaria non può esserci movimento rivoluzionario» viene travolto dall'accentuato sperimentalismo politico: «Non e e una teoria che si incontra e penetra nel movimento delle masse, ma una teoria come conoscenza sistematica dei bisogni delle masse e una loro generalizzazione, in un incessante processo dialettico che cresce nella lotta delle masse». Partendo dal ruolo di avanguardia espresso dal movimento degli studenti, Sofri giunge a conclusioni nettamente antitetiche sia alla relazione di Luciano Della Mea, sia all'impostazione dei gruppi marxisti-leninisti per cui ormai si tratta di determinare rapidamente le condizioni per la costruzione del nuovo partito rivoluzionario. Per Sofri la nuova leva di militanti non può disancorarsi dalle lotte, bensì deve rimanere legata al movimento e puntare a una sua crescita complessiva, così da porsi rispetto alla

classe operaia non come «avanguardia esterna» di memoria leninista, ma come settore di lotta. Le divergenze sui fatti della Bussola del Capodanno 1968 accelerano la rottura del gruppo di Potere operaio ". Cazzani-ga condanna come «avventuristica» l'iniziativa presa davanti al locale di Viareggio; al contrario Adriano Sofri la considera un'a-zione esemplare da cui si può e si deve trame un «vantaggio politico». A gennaio del 1969 si hanno le dimissioni di Della Mea, che tuttavia rimane legato parzialmente al gruppo fino alla fondazione insieme a Romano Luperini della Lega dei comunisti. Seguono quelle di Cazzaniga che, fonda il Centro Karl Marx. La rivista «Nuovo impegno», che nella fase del movimento studentesco aveva sorretto il gruppo di Potere operaio e in parte si era identificata con esso, aderisce alla Lega dei comunisti. Nella vicenda del gruppo pisano vanno maturando le condizioni che nel settembre 1969 porteranno alla fondazione di Lotta continua.

2. Si alla violenza operaia II primo numero di «Potere operaio» settimanale esce, alla vigilia dei rinnovi contrattuali, il 18 settembre 1969. Direttore responsabile è Francesco Tolin, collaborano alla redazione fra gli altri: Nanni Balestrini, Lapo Berti, Guido Bianchini, Michelangelo Caponetto, Pino Adriano, Bruno Brezzo, «Biffo», Sergio Bologna, Giairo Daghini, Alisa Dal Rè, Luciano Ferrari Bravo, Alberto Forni, Mario Galzigna, Ferruccio Gambino, Roberto Giuliani, Claudio Greppi, Stefano Lepri, Alberto Magnaghi, Libero Maesano, Bruno Massa, Toni Negri, Lanfranco Pace, Calogero Palermo, Paolo Patrizi, Franco Piperno, Paolo Pomperi. Luigi Rosati, Oreste Scalzone, Alessandro Serafini, Toni Verità, Emilio Vesce, Lauso Zagato. Nei primi 11 numeri, fino alle condanne di Tolin, la rivista indica i nomi dei redattori. Dopo l'arresto di Tolin, per un paio di numeri, viene indicata come direttore responsabile Letizia Paolozzi sostituita poi da Emilio Vesce. L'editoriale, Da «La classe» a «Potere operaio», ricostruisce le ragioni della scelta compiuta. Affermata una continuità con le passate esperienze, sottolinea la volontà di aprire una nuova fase rispetto al discorso portato avanti da «La classe», una necessità non astratta ma provocata «dal livello delle lotte e in primo luogo dalle urgenze d'organizzazione». Dopo la battaglia di corso Traiano e con il convegno delle avanguardie operaie del luglio a Torino, si è chiuso un ciclo: ormai la scadenza contrattuale impone iniziative «organizzative più incisive», pena il soffocamento dell'autonomia operaia. Polemizzando con ogni residuo di economicismo, «Potere operaio» scrive: «Diciamo chiaramente: Agnelli ha scoperto i limiti della lotta continua, del blocco della produzione, benché questa prospettiva lo terrorizzi al punto di fargli perdere la testa». Ormai tra operai, sindacati e padrone lo «scontro è politico» e chiama in causa direttamente l'assetto del potere. «L'organizzazione della lotta continua» è un dato irreversibile dell'iniziativa della classe operaia, la questione è «andare oltre la gestione operaia della lotta di fabbrica, oltre l'organizzazione dell'autonomia per impostare una dirczione operaia» 14. Il dibattito a Torino ha decretato la fine di ogni pretesa autonomia del movimento studentesco come specifica organizzazione articolata in varie tendenze (operaista, marxista-leninista, anarchica). Rimane il problema di «assicurare nei fatti l'egemonia della lotta operaia sulla lotta studentesca e proletaria». Di ciò Potere operaio intende farsi carico non come parte delle assemblee operai-studenti o come espressione dei comitati di base ma come autonomo soggetto di direzione. Il giornale, dunque, non può essere un semplice bollettino di informazioni, attraverso cui coordinare le varie realtà d'intervento e unificare gli obiettivi delle singole lotte, bensì lo strumento che imposta strategicamente la «dirczione

operaia», si pone al servizio di una precisa linea, orienta i militanti del gruppo e la loro condotta, un vero e proprio organo di partito. Le strategie del «rifiuto» unificano le lotte dell 'università e le lotte di fabbrica. Negazione della scuola e rifiuto del lavoro sono aspetti complementari di un medesimo attacco al sistema capitalistico e al suo ordine. Nella fabbrica i lavoratori sono totalmente indifferenti ai processi produttivi e alla trasformazione sociale. Solo l'organizzazione soggettiva del «rifiuto» corrisponde alla coscienza operaia: il rifiuto del lavoro è la condizione fondamentale per unificare le lotte nel paese, nel Nord come nel Sud, e in tutta l'Europa capitalistica. Dall'organizzazione del rifiuto del lavoro ali'organizzazione politica operaia, in ciò consiste il salto di qualità che si vuole compiere: «Non abbiamo mai proceduto per alternative: ieri il problema era quello della lotta continua oggi il problema è quello della lotta continua organizzata; ieri il problema era quello dell organizzazione della singola lotta, oggi il problema è quello dell'organizzazione permanente, comunicata, coordinata della lotta. Dalla lotta operaia alla programmazione della continuità della lotta sul terreno sociale sotto l'egemonia e la guida delle avanguardie operaie: questo è il nostro obiettivo, questa è la nostra urgenza» ". Produttività ed efficienza sono regole che vanno fatte saltare, sono questioni che interessano i padroni, i capitalisti e lo Stato, non la classe operaia che, nella sua lotta contro il capitale, al contrario, vuole e deve distruggere le regole del lavoro. È in questa prospettiva che occorre realizzare una «generale dirczione operaia nella lotta anticapitalista e antimperialistica», capace di comporre tutte le lotte contro il capitalismo e affermare il comunismo non come progetto finale, da guardarsi nella logica del futuro, ma addirittura come «programma minimo». Quello che si vuole far emergere è una nuova soggettività critica, quella dell'operaio-massa che con il suo rifiuto all'intero sistema, si fa soggetto del non più rinviabile scontro con lo Stato: «II rifiuto del lavoro è la scoperta della possibilità della costruzione di una società in cui la libera collettività operaia saprà produrre quanto serve alla vita, quanto serve a soddisfare i bisogni fondamentali, fuori dalle regole della produttività. Il rifiuto del lavoro è rifiuto, insieme, del capitalismo e del socialismo, come forme di produzione che si fondano sulla estrazione sociale del profitto. Rifiuto del lavoro è insieme lotta contro lo Stato e contro il lavoro. La conquista del potere non può semplicemente significare per i comunisti, oggi, dittatura per l'estinzione dello Stato: se lo Stato è organizzatore del lavoro, la conquista del potere sarà dittatura di classe per l'estinzione del Stato del lavoro» 16. La rilettura del Marx dei Grundrisse si incontra con spezzoni teorici marcusiani. Al proletariato non è assegnato nessun compito propositivo, nessun progetto di nuovo ordine sociale: il sostanziale pessimismo nei confronti dalla classe operaia che pervade il gruppo non lo consente. Unico fine: l'utopica liberazione dalla divisione del lavoro e dai meccanismi produttivi. Nemico principale è lo Stato, quello del sistema capitalistico come quello del sistema socialista, in quanto entrambi sono

«organizzatori del lavoro». Il comunismo, il «programma minimo», è la lotta contro lo Stato del lavoro. In tutta Europa è questo il filo rosso che unifica le lotte operaie e sociali. Riaggiornando la propria identità operaista il gruppo rivisita un leninismo che, nella stretta organizzativa, assume tratti di forte centralismo. I nuclei operanti alla Fiat, a Porto Marghera, alla Farmitalia, all'Alfa Romeo, alla Fatme, a Pomezia decidono la convocazione della prima conferenza operaia: il convegno di coordinamento delle avanguardie operaie, che si svolge a Firenze il 12 ottobre 1969. Il documento conclusivo lancia la proposta di un coordinamento nazionale. Non si vogliono ripetere gli errori del movimento studentesco, il livello dello scontro e l'estensione delle lotte impongono non solo autonomia ma anche disciplina. Centralizzarsi, però, non significa acquisire la forma-partito tradizionalmente intesa, significa garantire un'unità di dirczione senza ripercorrere le strade del monolitismo e del verticismo burocratico, senza chiudere al movimento reale di lotta. Propositi diffìcili quanto nebulosi che presentano già tutte le contraddizioni che porteranno allo sviluppo, dal corpo stesso di Potere operaio e dalle sue propagini, dell'Autonomia organizzata. La prima prova del gruppo sono le lotte dell'autunno. La posta in gioco è l'insurrezione, lo scontro contrattuale è «immediatamente politico», non e' è nessuna distinzione fra lotta economica e lotta politica. Gli obiettivi indicati sono conseguenti: «far saltare le piattaforme sindacali, impedire le trattative, respingere il contratto». Funzionale a questo piano è l'estremizza-zione delle rivendicazioni: «lotte su massicci aumenti salariali e completa parità normativa», «lotta per il salario minimo legato alle reali esigenze di vita e non alla produttività del lavoro». Le grandi fabbriche sono al centro dell'attenzione del gruppo: la Fiat, l'Alfa di Milano, la Pirelli, Porto Marghera. Eppure la sconfitta si registra proprio sul terreno operaio. Il gruppo non riesce a modificare dal basso le piattaforme contrattuali del sindacato e allora, con una di quelle mosse a sorpresa di cui si farà protagonista in più di un'occasione, la parola d'ordine diventa la chiusura immediata dei contratti: «Tutto e subito!». Continuare le lotte è un'inutile perdita di tempo. Nelle cronache del giornale un accecante trionfalismo deforma il reale andamento e l'esito delle lotte: ovunque sembra di assistere alla sconfìtta sindacale e all'inarrestabile avanzata della nuova dirczione operaia. D'altronde l'obiettivo dichiarato non è informare, bensì costruire i presupposti teorici per una di-rezione politica, creare e maniere viva la fiducia nell'organizza-zione, ed è sulla base di questi fini tattici che vengono selezionate le notizie e gli argomenti. Questa deviante impostazione «porterà al punto di tacere ogni accenno sulle vicende delle bombe di Milano, dell' assassinio di Pinelli, dell' incriminazione di Valpreda» 17. In questo travisamento della realtà le parole d'ordine diventano «implacabili», immediatamente evocative, cariche di insubordinazione. Si parte dal «bisogno» elevato a dignità rivoluzionaria per affermare in modo strumentale e demagogico obiettivi non da trattare ma da ratificare subito: «Sostanziali aumenti salariali, le

40 ore, la completa parità normativa con gli impiegati, niente qualifiche, salario sganciato dalla produttività, rifiuto del lavoro» 18. Liquidato ogni terreno di confronto col sindacato, considerato strumento del piano di integrazione della classe operaia portato avanti dal padronato e dal capitalismo, è scontato il giudizio sulle piattaforme: sono funzionali al mantenimento dell ordine esistente. Ogni piattaforma, anche la più avanzata, può essere inglobata e recuperata dal sistema in quanto permarrebbe comunque «una divergenza qualitativa insanabile». Due grandezze disomogenee, infatti, si confrontano fra loro: un «progetto di contenimento sindacale», un «progetto di rivoluzione operaia» 19. Messa in discussione è tutta la tradizione e la storia del movimento operaio italiano, a cui si contrappone un mito rivoluzionario valido di per sé. Nell'immediatezza del «subito», la fretta soggettiva diventa negazione dei rapporti di forza, delle posizioni dei partiti politici, non e'è più ne tattica ne strategia. La situazione del sindacato è giudicata comatosa, incapace di uscire da una duplice difficoltà: inseguire e recuperare l'autonomia operaia a scapito del progetto di nuova maggioranza, cioè il Pci al governo, oppure smascherarsi di fronte agli operai. Tattica e strategia coincidono. Il problema non è chi guida la classe operaia, è «cosa vuole la classe operaia italiana» e per il gruppo «la classe operaia non ha alcun ideale da realizzare», punto di partenza delle lotte sono le sue «esigenze materiali». La novità consiste nel? attualità della rivoluzione, un progetto non rinviabile che si esprime nelle lotte come «tensione essenziale che porta ali'autonomia della dirczione operaia». La lotta operaia deve essere «lotta dura». Sul giornale immagini crude e violente, un inno alla guerriglia e alla guerra rivoluzionaria: «la lotta operaia recupera sempre di più una pratica quotidiana di violenza. Cortei, picchetti duri, sassaiole contro crumiri e dirigenti, blocchi stradali sono ali ordine del giorno, non fanno più nemmeno cronaca»20. Intanto sulla base dei risultati del convegno di Firenze si procede all'autorganizzazione. Ormai, scrive entusiasta e trionfante «Potere operaio», «gli estremisti sono dentro la fabbrica», una lealtà che rende obsoleta la vecchia sigla «operai-studenti» mentre attualizza sul piano organizzativo il bisogno della direzione operaia delle lotte. Dura la polemica con l'organo di stampa del Pci, «una linea nera comincia oggi a collegare polizia e stampa padronale con "l'Unità"». L'attacco riguarda il modo come vengono presentate le lotte operaie e la costante denuncia di «gravi provocazioni» attribuite ai militanti di Potere operaio. Riferendosi alle condizioni dell'arresto di tre militanti del gruppo davanti alla porta «2» di Mirafiori si arriva ai toni minacciosi: «Se lo ricordino i compagni che lavorano a "l'Unità": gli operai della Fiat non dimenticheranno che sul giornale del Pci un provocatore possa dare versioni che servono e che concordano con i motivi che hanno portato alla provocazione» 21.

Ai cancelli della fabbrica «misteriose» esplosioni di molotov, picchetti duri. Il «delegato» è il nemico principale dell'au-torganizzazione della classe prospettata da Potere operaio, una proposta per far passare e garantire in fabbrica ciò che si decide al vertice». Alla falsa democraticità sindacale, nelle lotte della primaveraestate, il gruppo contrappone il delegato, scelto fra i lavoratori più combattivi, eletto senza le formalità della scheda e immediatamente revocabile dalla base. Il procedere della «lotta continua operaia» modifica la funzione dei delegati. Essi hanno assolto un ruolo importante nell'autolimitazione della produzione, garantendo una minima perdita di salario. Poi sono diventati il braccio esecutivo del sindacato e del padronato: un altro espediente per imporre un nuovo ordine sul ciclo produttivo e contenere la spinta rivoluzionaria 22. Ma, secondo Potere operaio, agli operai non interessa la produzione, far perdere danaro agli imprenditori, quello che vogliono è «più soldi e meno lavoro» non meno lavoro meno soldi. La lotta sul salario dunque annulla tutte le «funzioni» del delegato nella vita interna alla fabbrica. Non serve a nulla il controllo democratico dei ritmi di lavoro e delle mansioni. Al contrario si tratta di: «Far pagare interamente al capitale i costi sociali della formazione e della riproduzione della forza-lavoro, impedire che questi momenti di lotta funzionino come ricomposizione della rottura operata in fabbrica, significa da una parte costruire l'unità organizzata di classe attraverso obiettivi materiali unificanti che consentano di aggredire tutti i momenti del piano sociale di sfruttamento; dal-l'altra spostare in avanti il terreno di scontro, liberare la strada ad una lotta frontale contro la produttività complessiva del sistema» 23. A Firenze il problema dell'unificazione era rimasto abbastanza vago, nelle conclusioni si era parlato non di un vero e proprio coordinamento di azioni e lotte ma di una piattaforma comune costruita attorno a obiettivi e parole d'ordine 24. Un limite che solo parzialmente sarà superato con il secondo convegno di coordinamento che si svolge il 26 ottobre del '69 a Milano. Partecipano all'assemblea e promuovono la piattaforma di discussione: comitato operaio Porto Marghera, Petrolchimica e Chatillon; comitato operai-studenti di Este (Padova); comitato operaio Petrolchimica di Ferrara; gruppo di operai di Pomezia; comitato di base della Fatme di Roma; gruppo di operai dell'Al-fa Romeo di Arese; gruppo di operai delle officine Galileo di Firenze; gruppo di operai della Stide di Firenze, comitato unitario Lavoratori della Farmitalia di Milano; gruppo di tecnici della Snam progetti di Milano; comitato operaio della Fiat di Torino; Comitato di base della Rai di Milano. L'iniziativa si conclude con l'approvazione di un documento che deve servire come piattaforma nazionale. La linea indicata ribadisce il «No» alla trattativa: «la lotta operaia non vuole essere ingabbiata in nessuna trattativa, in nessun contratto che garantisca la pace sociale agli sfruttatori». Obiettivi: 40 ore subito pagate 48; seconda categoria per tutti, un

primo passo per l'abolizione delle categorie; parità normativa fra impiegati e operai; ratifica e nessuna trattativa. La fase contrattuale sta per chiudersi, Potere operaio sente la difficoltà di mantenere viva la conflittualità nelle fabbriche e per rompere l'isolamento tende a spostare lo scontro sul sociale. Il documento di Milano si conclude con un lungo appello a contrastare i tentativi sindacali di spezzare il fronte degli scioperi: «Davanti ai tentativi di spaccare le rivendicazioni operaie in tanti tronconi, davanti ai tentativi di impedire che le lotte si unifichino in un unico blocco di forze e'è un'unica risposta da dare. Estendere la lotta di fabbrica ai quartieri, alle piazze, far uscire le lotte dall'isolamento, dalla singola fabbrica. Unificare le lotta di tutti i settori, sviluppare una forte pressione sul movimento degli studenti affinchè la lotta studentesca riprenda decisamente il carattere di lotta di massa contro la scuola. Solo a tali condizioni la lotta degli studenti interessa gli operai: come componente di uno scontro sociale di massa» 25. Intanto, a Pisa, la battaglia di piazza, il bilancio è tragico: la morte dello studente Cesare Pardini; 68 dimostranti fermati, 27 di loro sono arrestati perché trovati in possesso di pistole, coltelli, spranghe di ferro, molotov; 9 civili sono feriti, 20 feriti tra gli agenti e i carabinieri. I militanti di Potere operaio e di Lotta continua impediscono il comizio antifascista promosso dai partiti democratici, dal Comune e dalla Provincia, assaltano con una fìtta sassaiola la polizia, lanciano bottiglie molotov, e tentano di invadere la stazione ferroviaria e la caserma dei carabinieri. «!'Unità» commentando i fatti di Pisa accusa governo, polizia, padroni, fascisti e «provocatori» di «voler montare un clima di provocazione per tentare di trasferire sul piano dell'ordine pubblico il conflitto sociale in atto». Per Potere operaio questa linea si sposa alla linea del governo e del padronato in un medesimo disegno «stroncare il processo di autorganizzazione operaia» che si esprime nelle lotte in corso e «qualificarsi come l'unica possibile gestione del controllo, del contenimento delle lotte». Il Pci vuole essere l'unico garante della pace sociale, proprio per questo l'insubordinazione e la sovversione sono i grimaldelli di una lotta dura che non vuole più mediazioni ma auspica e cerca lo scontro diretto con lo Stato. Se la violenza padronale va schiacciata, la violenza operaia va difesa: «Noi affermiamo invece e sosteniamo con tutta chiarezza la durezza dell'insubordinazione violenta degli operai, contro la violenza dei rapporti capitalistici di lavoro e contro il disordine della società del capitale» 26. «Sì alla violenza operaia» titola a grandi caratteri il numero del giornale in cui si riportano con i toni di un ' imminente guerra civile gli scontri di Pisa. Il 7 novembre 1969 il sindacato firma il primo contratto è quello degli edili. Sul paginone-manifesto, Potere operaio commenta: «Ecco il primo contratto bidone!». Tutta l'attenzione si sposta al prossimo 19 novembre, una giornata che deve diventare di «rafforzamento e inasprimento» della lotta, un momento di

coordinamento delle «iniziative autonome» della classe. Sul giornale prosegue l'inno alla violenza come strumento dell'azione di classe. Mentre l'iniziativa sindacale ottiene le prime vittorie, nel paese prosegue lo stillicidio del sovversivismo, intanto sempre più aggressiva si fa la campagna stampa contro le violenze e il «teppismo» rosso. Preparando la risposta «operaia» del 19 novembre, giorno dello sciopero generale proclamato dai sindacati, «Potere operaio» ricostruisce a suo modo la storia della vicenda contrattuale. A luglio quando il sindacato dirottava la combattività operaia sullo sciopero per gli affitti, gli operai scendevano in piazza. Le richieste erano 150 lire di aumento l'ora e seconda categoria per tutti. Al petrolchimico di Porto Marghera: 1.000 lire al giorno di più, 36 ore lavorative per i turnisti, completa parità normativa. Alla Pirelli: abolizione del cottimo e aumento di 15.000 lire sul premio di produzione. Questi erano gli obiettivi «imposti dalle lotte autonome e nessuno osava discuterli». Dopo le ferie arrivano le piattaforme sindacali. I metalmeccanici, la punta più avanzata del movimento, chiedono 75 lire di aumento l'ora, 40 ore subito e parità normativa: «La forza operaia è cresciuta con la lotta di massa, che è diventata sempre pù aspra. Si sono messi a correre i ministri, i consiglieri comunali, la polizia». Iniziano le tappe della capitolazione sindacale: il 10 novembre si cede sull'orario, sul salario, sulla normativa degli edili; il 15 novembre sulle offerte di Donat Cattin, infine retromarcia sulle 40 ore subito, sulla parità normativa per metalmeccanici e chimici. Il sindacato aveva detto ai lavoratori che il padrone poteva dare tanti soldi e nessun diritto sindacale. Ma è vero proprio l'inverso: «I padroni mollano sui diritti sindacali, aprono le porte al sindacato in fabbrica perché i sindacalisti tengano fuori gli operai, ma non mollano sugli interessi materiali della classe operaia: orario e salario». È tempo di aprire un nuovo ciclo della lotta di classe, arrivare ad una risolutiva resa dei conti: «II 1969 è cominciato con Battipaglia, è continuato con corso Traiano, ma non si chiuderà certo con il 19 novembre!» 27. Con una drammatica sintonia al clima generale che sollecita il ripristino dell'ordine e accusa di sovversione tutta la nuova sinistra, il 19 novembre, in circostanze mai chiarite, la morte del giovane agente di polizia Annarum-ma. «Potere operaio» commenta: «I soli assassini sono i padroni [...] una morte che è conseguenza della violenza dello Stato, di quello Stato che dal 1947 al 1969 nei conflitti sociali ha prodotto 91 morti, 674 feriti e 80.000 fermati. Colpa di quello Stato che lascia che ogni mezz'ora muoia sul lavoro un operaio e consente 2.270 omicidi bianchi ogni anno». E conclude: «Tutti i momenti della vicenda, tutti i passaggi della violenza di via Larga, diventano comprensibili se si riesce a leggere il livello generale di classe, la quantità di insubordinazione e di volontà di lotta che circola oggi dentrola classe operaia» 28.

3. No alla tregua sociale Nel frattempo scattano nei confronti di Potere operaio arresti e mandati di cattura, alla Fiat Rivalla e alla Mirafiori l'av-venturismo costa numerose denunce e la sospensione di alcuni operai, lo stesso accade a 5 operai della Dalmine accusati di blocco stradale, e all'Italcementi. Il 12 novembre a Pavia sono arrestati Lanfranco Bolis, Andrea Zunus, Cesare Maffioli, Siro Rejossi per violenza privata e lesioni nel corso del picchettaggio alla fabbrica Korting. Per gli scontri di Pisa sono arrestati Don-ca, Sabbietti, Giacomelli, Campani, Fantozzi. Contro la repressione il gruppo rivendica la libertà della lotta dura e violenta. Iniziano le latitanze, prime modeste anticipazioni di ben altre clandestinità. Per Potere operaio non ci sono dubbi, la campagna repressiva si intensificherà, per batterla bisogna rispondere colpo su colpo; bisogna «attaccare, l'unica e vera difesa è l'attacco, la vittoria ha un solo nome, l'orga-nizzazione». Potere operaio si sente circondato da una campagna di odio e vittima principale di una repressione contro cui la lotta deve farsi più dura e l'organizzazione permanente. Il 24 novembre, a Padova, è arrestato Francesco Tolin; il 26 novembre sono arrestati Mario Bianchi, Matteo Piacentino, Michele Zambroni, Romolo Bellisari operai milanesi militanti. I reati attribuiti al direttore di «Potere operaio» sono: apologià di reato, sequestro di persona, danneggiamento, resistenza alla forza pubblica; è accusato di «aver istigato gli operai di tut-t'Italia alla rivolta contro lo Stato ed in particolare gli operai metallurgici della Fiat di Torino a danneggiare le autovetture di detto complesso». Per Francesco Tolin arresto immediato e processo per direttissima in quanto, secondo il procuratore di Roma, le imputazioni: «appaiono di eccezionale gravita poiché dirette a fomentare disordine e a creare nel territorio nazionale un clima rivoluzionario». La IV sezione del Tribunale di Roma, pubblico ministero il giudice Occorsio, lo condanna a 17 mesi di carcere: «primo processo di regime, una sentenza da capitalismo maturo» commenta «Potere operaio». «Compagni, non rispettiamo la tregua!» con questo slogan il gruppo si accinge ad affrontare la fase postcontrattuale mentre «padroni, Stato e sindacati firmano accordi per i prossimi tré anni» 29. I risultati ottenuti sono «accordi» che non corrispondono alle esigenze operaie e quindi le lotte non sono chiuse: «La lotta operaia di questi mesi ha raggiunto vertici talmente alti che in questi contratti i padroni sono stati costretti a concedere più che negli altri contratti, ma ciò che ora è stato ottenuto è pochissimo in confronto all'intensità, la forza e l'invenzione della lotta operaia». Per Potere operaio le esigenze operaie non hanno limite, la classe

con le sue lotte ha imposto un terreno più avanzato di scontro: distruggere definitivamente il comando del capitale sul lavoro produttivo. Sul giornale non e'è traccia dell'orrenda strage di piazza Fontana, ne della morte dell'anarchico Pinelli. Numerosi invece i richiami alla lotta dura, alla replica organizzata contro la repressione. Silenzio anche sugli insuccessi, anzi al contrario si tende a rappresentare il passaggio alla nuova fase politica, compresa la conclusione contrattuale come una vittoria della propria linea. L'asprezza della lotta ha costretto il sindacato a chiudere i contratti, i padroni a cedere più del previsto, lo Stato a iniziare la repressione. Il tutto per spostare nel tempo uno scontro ormai non più rinviabile: il passaggio alla lotta per il potere da parte della classe operaia. Eppure nel gruppo è in atto una riflessione, non mancano, come riportano alcune testimonianze dirette, segni di crisi. All'inizio del '70 i teorici del gruppo ripensano all'insieme di un'esperienza ormai decennale. «1960-1970 / Dalla guerriglia di fabbrica alla lotta per il potere» con questo titolo il giornale sintetizza il percorso compiuto. Una storia non dissimile da quella di altri militanti ma si sottolinea vi è una specificità nel «gruppo di compagni ― che si sono raccolti attorno a «Potere operaio» ― avere partecipato ai vari cicli di lotta secondo il «punto di vista della ricomposizione di classe». Da questa premessa si sono tratte volta per volta alcune conseguenze. In primo luogo il rifiuto delle vie nazionali al socialismo come forme teoriche desuete e impraticabili di fronte ali' unificazione politica del capitalismo a livello europeo. Ciò aveva significato il rifiuto della programmazione e la progressiva sottrazione della classe dai suoi «tutori, controllo-ri dei suoi movimenti», i sindacati e i partiti revisionisti. Superata, per tappe successive, l'illusione entrista nei partiti della sinistra tradizionale e nel sindacato, si era meglio definita una nuova identità dell'internazionalismo. E infine il sorgere del movimento studentesco aveva dimostrato la praticabilità di una nuova dimensione del conflitto anticapitalistico e il maggio francese, al di là del suo esito, confermata in modo inequivoco l'esistenza di una forza organizzata autonoma dalle vecchie tutele e pronta allo scontro risolutivo. Alle spalle ― dunque ― un decennio di lotte tese alla riunificazione e ricomposizione della classe; per il futuro: la lotta per il potere 30. Per tutto il mese di gennaio mentre, in conseguenza delle bombe di piazza Fontana, la repressione colpisce indiscriminatamente le varie formazioni dell'estremismo di sinistra, «Potere operaio» non esce nelle edicole. Dopo una parziale riflessione autocritica il gruppo è tutto proiettato sull organizzazione. Dalle lotte dell' autunno, dal loro svolgimento e dalle loro conclusioni secondo i leader di Potere operaio emerge un'indicazione prioritaria: «costruire l'organizzazione politica», ormai il lavoro di massa deve guardare al «partito», è questa la principale discriminante di classe. Per arginare striscianti spontaneismi ed emorragie, il gruppo si arrocca in una difesa a oltranza delle proprie teorizzazioni e, privilegiando «!' organizzazione come iniziativa esterna», passa a un impiego totale e quasi professionale dei suoi militanti. Puntando al rafforzamento organizzativo sconta il suo isolamento come

un inevitabile tributo alla costruzione di un nucleo dirigente capace di egemonizzare e rilanciare le lotte estremizzando fino all'inverosimile tutti gli obiettivi politici. Una perenne rincorsa verso la disarticolazione del sistema. La svolta trova nel convegno di Firenze, 9-11 gennaio 1970, una parziale sistematizzazione. La discussione si incentra sulle proposte contenute nei Materiali per l'intervento politico pubblicati sul numero 11 di «Potere operaio». Essi sono presentati come una piattaforma per la fondazione e lo sviluppo dell'organiz-zazione operaia: «macchina politica, guidata dall'interesse complessivo operaio e predisposta alla distruzione dell organizzazione capitalista». Nelle intenzioni dei proponenti si tratta di un approfondimento coerente del percorso politico-teorico di un decennio di lotte. Il punto a cui è giunto lo scontro di classe, secondo il gruppo, impone ormai una brusca accelerazione di fase: dalla «guerriglia di fabbrica alla lotta per il potere». Le linee teoriche riecheggiano, attualizzandoli, temi già presenti nelle prime elaborazioni del gruppo veneto-emiliano e ampiamente riprese sulle pagine del giornale: lo Stato come piano e padrone-collettivo; il sindacato come istituzione del piano; il rifiuto del lavoro salariato; l'organizzazione operaia come strumento della distruzione capitalistica. Il salto di qualità invece si coglie sul tema dell'organizzazione. Conquista dell'organizzazione e dittatura operaia è il titolo di una delle relazioni di base. Gli ex de «La Classe» e i quadri provenienti dal movimento studentesco convergono su una medesima ipotesi di centralizzazione nazionale. I due punti concettuali che consentono questa temporanea unificazione sono il rifiuto del lavoro e la finalizzazione dell'organizzazione come strumento per «la conquista e la distruzione dello stato». Come si vedrà la mediazione non sarà definitiva, ne l'approccio alle forme dell'organizzazione lineare. Al di là delle autoproclamazioni sulla propria forza, Potere operaio, come i marxisti-leninisti dell'Unione, è attraversato da una profonda crisi di identità. La sconfitta è stata subita nelle fabbriche, nel confronto con la classe operaia, da sempre il terreno privilegiato del gruppo. E una sconfitta che incrina la solidità interna e che riduce una certa egemonia esercitata nei confronti della nebulosa dell'estremismo. Il barricadero «Compagni non rispettiamo la tregua!», titolo con cui il giornale era uscito dopo le conclusioni contrattuali 31 sarà presto rivisto, al convegno di Firenze si afferma autocriticamente: «riprendere subito la lotta, lottare continuamente sono le parole d'ordine più stupide che oggi si possono diffondere» 32. Spariti gli entusiasmi sul grado di consapevolezza rivoluzionaria della classe operaia, prevale l'idea di un suo ripiegamento difensivo. Agli insuccessi subiti davanti alle fabbriche si aggiunge il clima indotto dalla strategia della tensione. Con una proiezione teorica frequente nella storia del gruppismo l'a-naiisi dei comportamenti di classe e della situazione politica deriva unicamente dal proprio stato organizzativo. Alla crisi si risponde alzando il livello di scontro, agli interrogativi che nascono dal dopo contratti si replica risaldando la compattezza

dei militanti, alla strategia della tensione e alla repressione, liquidate come effetto e conseguenza della tregua sindacale, si contrappone l'esigenza di una più combattiva insubordinazione allo Stato. Presentandosi come gruppo, alla vigilia delle lotte contrattuali, Potere operaio non aveva risparmiato critiche alle altre formazioni dell'estremismo. I militanti dell'Unione dei comunisti erano stati bollati come «pagliacci» e «provocatori squadristi» fino ad affermare che «organizzazioni di questo tipo sono nuclei di resistenza della borghesia, associazioni di nemici di classe, e come tali vanno perseguiti». La presenza di Lotta continua diretta antagonista di Potere operaio è ignorata fino al marzo '70 quando viene denunciato Marco Bellocchio, allora direttore del giornale. Durissimo è il primo giudizio sul Manifesto: la sua linea è etichettata come «neo-trotskismo-cinesizzante» e si aggiunge con disprezzo: «a un gruppo di intellettuali può essere concesso tutto. In fondo, sono "sinistra per bene anche loro", con tutta la loro ideologia sovietista, la loro Luxemburg e il loro Lenin da casa editrice, fanno parte deVestahilishement, sono amici di Lombardi, di Labor e di Scalfari». L'ondata repressiva che segue alle bombe di piazza Fontana, attenua parzialmente il settarismo del gruppo; bisogna trovare alleanze, estendere il fronte di lotta. Uno strano connubio si realizza con le tematiche marxiste-leniniste. L'Unione è entrata in crisi, il Pcd'I non esiste, tuttavia queste formazioni hanno rappresentato, particolarmente la prima, un livello organizzativo e un tentativo di centralizzazione che attrae Potere operaio. L'errore dei marxisti-leninisti è stato l'esasperato soggettivismo nell'approccio al partito, a ciò si è aggiunto lo scarso confronto con le lotte che ne ha accentuato l'ideologismo. Superando questi limiti sarà possibile coniugare la forza dell'autonomia operaia con le regole del partito. Nel clima confusionale dei primi mesi del '70 Potere operaio, dichiarando conclusa l'epoca dei gruppi, sembra disponibile a lanciarsi in un progetto unitario della sinistra extraparlamentare al di fuori dell'egemonia revisionista. Rimarrà un'intenzione, a poco serviranno alcuni tentativi, prigioniero del dogmatismo e dell' autoconvinzione delle proprie verità, il gruppo non riuscirà a trarre tutte le implicazioni dalle sue stesse affermazioni. Nella vita interna si punta alla disciplina e alla centralizzazione senza alcun serio ripensamento della linea e in un tattico repechage di motivi dell'estremismo. Le stesse aperture nei confronti delle altre formazioni finiscono così con l'assumere un carattere strumentale, funzionali solo a rompere il proprio isolamento. In questo quadro si realizzerà il temporaneo incontro col Manifesto attraverso la formazione di alcuni comitati politici, una sperimentazione che, passando per il convegno unitario del febbraio '71, entrerà definitivamente in crisi nell'inverno del '72. Un fallimento, caso tipico i comitati politici del Policlinico e dell' Enel di Roma, da cui si origineranno successivamente le prime basi dell'Autonomia organizzata. Quando il giornale riprende le pubblicazioni l'attenzione si concentra sulle nuove lotte operaie e sulla necessità, peraltro già annunciata, di riprendere i rapporti col

movimento studentesco. Sul n. 12 appare il documento Contro la scuola, il primo di una serie di materiali che saranno prodotti dalla commissione scuola del gruppo. Le linee d'intervento ripropongono il vecchio schema: solo attraverso una forte radicalizzazione è possibile contrastare i tentativi padronali di «staccare la lotta studentesca da un impatto generale, complessivo sulla macchina statuale» 33. Da questa impostazione la dura polemica con il Movimento studentesco milanese, capeggiato da Mario Capanna, accusato di essere un «rinnegato» e di volere costruire un movimento di natura meramente settoriale del tutto organico al revisionismo e al capitalismo. Intanto nel settore tessile riprendono le lotte. Potere operaio si presenta all'appuntamento con la parola d'ordine «riduzione dell'orario di lavoro-salario per tutti». Proseguendo nella critica al capitalismo e al progetto di controllo sociale della sinistra tradizionale, contro «un futuro governo popolare, un prossimo stato sociale», il gruppo prospetta «un' organizzazione autonoma operaia che imponga un'unificazione del reddito sociale» 34. Unico risultato: un sovversivismo autoalimentato che cresce su se stesso in una spirale di estetismo rivoluzionario. In tutta l'elaborazione di Potere operaio il tema della ricomposizione di classe ha un ruolo decisivo, in questa ottica si colloca l'impegno verso il Sud e nei confronti dell emigrazione. Agli emigrati ci si rivolge in più occasioni. «Organizziamoci per lottare contro 1 emigrazione, per potere vivere dove ci pare, per non essere ridotti a cani randagi...» così comincia il volantino pubblicato nel numero 17 del giornale. Iniziative sono intraprese in concomitanza del voto del giugno '70; nell'agosto a Firenze e nell'autunno dello stesso anno a Zurigo si svolgono due convegni internazionali. Ma, riconoscono gli stessi organizzatori, la discussione registra divergenze e gli obiettivi restano nel vago. Nell'ambito delle indicazioni scaturite dal convegno di Firenze, l'impegno sul Meridione è una condizione indispensabile per preparare quella che viene indicata come «una scadenza generale di lotta politica operaia», in quanto: «rompere oggi l'uso capitalistico del sottosviluppo nel Sud, significa porre le condizioni della rottura dell'uso capitalistico della crisi nel Nord». Il collettivo Sud, impegnato nel Mezzogiorno e con prolungamenti organizzativi nel centro industriale di Porto Torres, poggia le sue attività su alcune direttrici chiave: le università; i problemi operai e la marginalità sociale. Stabilisce rapporti con il circolo Lenin operante in Puglia e dopo una fìtta serie di incontri arriverà alla prima conferenza delle avanguardie operaie bracciantili del Sud. L'editoriale che lancia la conferenza è molto esplicito sulle finalità politiche che si intende perseguire: «passare dalla spontaneità ali'identificazione di una nuova organizzazione», nella consapevolezza che «usciti dalla miseria dell'ideologia contadina dal deserto assoluto in fatto di proposte politico-pratiche nuove, i compagni del Sud, il movimento, i gruppi, 1 enorme potenziale soggettivo disseminato nelle fabbriche, nelle zone bracciantili, nei paesi, nelle grandi università meridionali, nelle scuole, chiedono di potersi mettere al lavoro sulla

base di una ipotesi completamente nuova» 35. Sono le premesse dell'atteggiamento di Potere operaio di fronte alla rivolta di Reggio. La prima conferenza d organizzazione del Sud, che si svolge a Napoli il 25 aprile 1970, si apre all'insegna dello slogan «salario politico generalizzato» in un'ipotesi generale di «ricomposizione di massa intorno a un ruolo di dirczione e di organizzazione che il punto di vista operaio viene ad assumere dentro l'intera composizione del proletariato meridionale» 36. Nella consapevolezza di essere in ritardo sia sul piano del-l'elaborazione che sul piano dell'organizzazione, l'obiettivo di Potere operaio è stabilire non tanto condizioni di «egemonia di linea» quanto una «premessa» per l'intervento politico, superare quello che viene chiamato «il deserto della teoria» nel Sud. Un limite che Potere operaio riscontra in tutti i gruppi e che può essere rovesciato a patto di essere «dentro» le situazioni di lotta in maniera organizzata «costruire le lotte, ripercorrere la composizione di classe, inseguire puntualmente le iniziative del capitale tracciare i contorni delle esperienze politiche che sono state compiute...»37. Il 1° maggio mentre nel paese si sta svolgendo la campagna elettorale per le prime elezioni dei consigli regionali, la parola d'ordine con cui ci si presenta alle manifestazioni è: «assalto proletario alla ricchezza». Tuttavia il progetto organizzativo lanciato a Firenze non fa sostanziali passi in avanti. Cadono nel vuoto le proposte dei centri di organizzazione territoriale e dei coordinamenti regionali. Attraverso il giornale il circolo operaio di Limbiate lancia una «proposta unitaria alle avanguardie operaie di fabbrica», in contrapposizione ai consigli di fabbrica prospettati dalle federazioni metalmeccaniche invita a costruire «organi autonomi del sindacato, un nucleo di iniziativa politica autonoma e capace di rappresentare non gli operai del singolo reparto ma tutti gli interessi di classe». Partendo dalla propria esperienza propone inoltre la generalizzazione dei «circoli operai territoriali». Anche questa indicazione cadrà nel vuoto e lo stesso circolo di Limbiate cesserà presto la propria vita organizzata. Anche gli ipotizzati coordinamenti regionali si manifestano di scarsa efficacia. Nel Veneto, punto di forza del gruppo, la conferenza che si svolge a Padova il 2 maggio del 1970, sostituisce il collettivo regionale con una struttura più fluida articolata per commissioni (stampa, intervento, scuola e quadri). Alle difficoltà organizzative Potere operaio risponde consolidando le sue strutture nelle realtà più significative. Nasce così la conferenza d'organizzazione alla Fiat-Torino. I punti in discussione sono: congiuntura internazionale e ristrutturazione del ciclo Fiat, attacco operaio sul salario alla Fiat, coordinamento degli obiettivi d'intervento e modelli di intervento. AU'iniziativa di Torino segue il convegno promosso dal comitato operaio di Porto Marghera. Di fronte alle elezioni regionali del giugno '70 il gruppo ribadisce la sua indifferenza istituzionale; «dalle urne esce sempre il potere dei padroni».

All'indomani del voto, a conferma delle proprie posizioni, sottolinea «la disfatta del Psiup e il ristagno del Pci». In estate riprendono le lotte. La prima occasione politica è l'offensiva contro il decretone. Si guarda con un certo interesse ali'ostruzionismo del Manifesto, ma si è consapevoli che il proprio compito è altro: «Scatenare il boicottaggio parlamentare, la violenza di classe e l'agitazione nelle fabbriche e nelle scuole, comprendere tutto questo in un progetto politico per la ricostruzione dell'organizzazione rivoluzionaria...»38. Seguono nel luglio le agitazioni alla FiatMirafiori. Ad agosto le direttive sindacali sono scavalcate, le lotte si inaspriscono: picchetti, blocchi stradali, bottiglie molotov, barricate nei quartieri adiacenti il Petrolchimico. Potere operaio è alla testa degli scontri. Intanto al Sud prosegue la rivolta di Reggio, «Potere operaio» commenta: «il punto più alto della rivolta proletaria del Sud». Come per altri gruppi, nelle trasmigrazioni cicliche del popolo dell'estremismo, numerosi militanti di Potere operaio calano al Sud, si spostano alla ricerca della rivoluzione.

4. La guerriglia di fabbrica è troppo-troppo poco Potere operaio insiste sempre di più nella proposta «del passaggio dalla autonomia all'organizzazione, dalla lotta sul terreno economico-rivendicativo, a una lotta apertamente politica sul terreno del potere». Nelle teorizzazioni del gruppo si tratta di un passaggio imposto dalla natura della crisi, per frenare l'in-sidia della normalizzazione e della svolta moderata, per mantenere «il punto di vista operaio all'offensiva», contro ogni tesi omologante di impostazione revisionista. La seconda conferenza d'organizzazione di Bologna (5-6 settembre 1970), non registra sostanziali novità di linea. Nel dibattito si ribadisce l'urgenza di organizzare il processo rivoluzionario e quindi del «partito dell'insurrezione» da cui deriva, nelle intenzioni del gruppo, una nuova pratica di massa da proporre al movimento, determinando un «programma di unificazione di tutti i proletari su un livello di scontro di potere». Terreno di questo progetto è il «salario politico» inteso come capacità del proletariato di liberarsi dal ricatto del lavoro «una lotta non per il lavoro, ma per il reddito, per il reddito sganciato dal lavoro». Nuove, invece, le aperture nei confronti dell'insieme del sinistrismo, in particolare la proposta di collaborazione col Manifesto, una premessa per una più ampia aggregazione della sinistra rivoluzionaria. Il Manifesto si è distinto nell'ostruzionismo parlamentare al decretone del governo Colombo, nelle sue tesi — apparse nel settembre del '70 — si fanno molti riferimenti alla cultura dellbperaismo e al tema del rifiuto del lavoro, non manca neppure il richiamo alla guerra civile. Peraltro tutto il clima spinge alla radicalizzazione dello scontro. Potere operaio è in piazza con gli altri gruppi contro la politica economica del governo, contro il fascismo. Si profilano ali orizzonte le prime azioni terroristiche, già nell'autunno '70 appare il programma dei Gap milanesi. Alla ripresa autunnale del '70 Potere operaio gioca la sua carta organizzativa sui Comitati politici in fabbrica. Ma se si escludono le realtà di Torino e Porto Marghera, la proposta non avanza. Il massimalismo non paga, agli operai sfugge il cifrato linguaggio dell'operaismo, lo sciopero proclamato per il 1° settembre alla Mirafìori è un totale fallimento. Ma Potere operaio senza mettere mai in discussione la sua analisi insiste: formare il «comitato Fiat da Mirafìori a Rivalla»; non ha alcun dubbio: «il livello politico raggiunto dai quadri operai rende oggi reale e particabile quella dirczione operaia dell'intervento organizzativo che era stata l'ipotesi sulla quale era nato il comitato operaio» w. Di fronte al contrattacco di un padronato che assume soggettivamente la crisi che gli operai gli hanno imposto e la usa come sua arma politica non bastano più gli

obiettivi dell'auto-nomia. Non si può andare ai cancelli delle fabbriche senza farsi portatori di una proposta di blocco politico e di nuovi strumenti di lotta altrimenti «la proposta non riesce a "mordere", a orien-tarc la volontà di lotta degli operai». Partendo da questa difficoltà la risposta non è quella di rivedere i propri obiettivi, ma di «riqualificare l'iniziativa organizzativa». Potere operaio cerca una maggiore unità con le altre formazioni estremistiche, precisa ulteriormente il rapporto col Manifesto e lancia un ponte verso Lotta continua, gruppo sempre più presente nelle lotte e con una forte capacità egemonica nelle manifestazioni di piazza. La segreteria nazionale di Potere operaio propone alla discussione dei suoi militanti l'opuscolo Alle avanguardie per il partito. Affrontando le condizioni del possibile incontro con i compagni del Manifesto pur richiamandosi alle diversità teoriche e di percorso politico si afferma che essi «dimostrano nei confronti dell'aggregazione un atteggiamento aperto, stimolante e fruttuoso di esperienze comuni e di chiarimenti non superficiali». Apprezzamenti e disponibilità anche nei confronti di Lotta continua: «...ci sembra avviato un processo di superamento di quella ambigua definizione organizzativa (Lotta continua è l'organizzazione rivoluzionaria/Lotta continua è il movimento), di quella chiusura settaria nei confronti delle forze organizzate della sinistra operaia, alla quale faceva riscontro una acritica e trionfalistica subordinazione nei confronti del movimento». Nel documento i due gruppi vengono considerati interlocutori privilegiati in un processo «per l'unificazione delle avanguardie» 40. Potere operaio cerca di uscire dall'isolamento ma non rinuncia al partito anzi ne ribadisce l'essenzialità come «organizzazione tecnica dell'attacco» e vede nei comitati politici, una sintesi di iniziativa di massa e di dirczione, un primo embrione delle tappe della costruzione del partito. Non ci sarà un grande futuro nei rapporti con le altre formazioni. Peraltro mentre Potere operaio, quasi una rimozione da ogni indagine sul fallimento della sua pratica politica, cerca una via verso il partito, l'emorragia dei gruppi prosegue. Parallelamente nascono forme autonome di cultura underground, che si raccolgono attorno a «Rè Nudo», «UBU», riviste di contro cultura prive di un vero e proprio progetto politico ma significative nel processo di dissoluzione dell'estremismo «storico». Nel contempo prende corpo la nebulosa dell' autonomia. Su un altro versante, ma, non senza influssi reciproci, l'esperienza del Collettivo metropolitano di Milano si consuma rapidamente con-vertendosi prima nella rivista «Sinistra proletaria» e approdando, nell'enfasi del mito guerrigliero, alla pratica armata delle prime azioni terroristiche. Quando si avrà la consapevolezza degli effetti della spirale repressioneclandestinità-lotta armata per molti militanti sarà già tardi, per alcuni prevarrà la rimozione, per altri le forme del terrorismo saranno scelte ineludibili e intenzionalmente predeterminate. Il convegno nazionale operaio, promosso congiuntamente dal Manifesto e da Potere operaio, che si svolge a Milano nei giorni 30 e 31 gennaio '71 si conclude

con una scarna mozione. «Il Manifesto» la ignora. Il documento parla di un programma comune immediato ma il dibattito ha lasciato inalterate le rispettive posizioni. Il principale contrasto riguarda la funzione dei Comitati politici. Al convegno, Massimo Serafini per il Manifesto li rappresenta in un'ottica tutta consiliare, mentre Magnaghi per Potere operaio li definisce: una struttura politica «di direzione, coordinamento e unificazione politicamente armata, tecnicamente e militarmente organizzata»41. Anche sul piano organizzativo il convegno milanese è ben poca cosa: i comitati politici presenti sono quelli di sempre: Porto Marghera e Torino a cui si è aggiunto quello di Porto Tor-res. Le loro pratiche concrete sono molto lontane dalle prospettazioni di Serafini e di Magnaghi. A Torino, dopo il fallimento della proclamazione dello sciopero, la situazione precipita. Di lì a poco il comitato politico si scioglierà nell' Assemblea operaia autonoma di fatto egemonizzata da Lotta continua 42. A Potere operaio non rimane che Porto Magherà, il suo storico fiore all'occhiello, «unico esempio in Italia di organismo in cui la di-rezione politica del processo di formazione dell'avanguardia è in mano operaia». Ma anche al Petrolchimico si manifestano debolezze nell'iniziativa e nella tenuta del gruppo. Nel frattempo i comitati politici che vanno realizzandosi unitariamente col Manifesto, si trascinano stancamente, irretiti da una polemica interna su cui pesano le matrici delle due formazioni di origine e le divisioni sulle finalità. Se i teorici delle rispettive organizzazioni sottolineano le rispettive specificità in un'estenuante disputa ideologizzante, la pratica tende a vanificare ogni differenza, l'altalena dei distinguo produce solo sfiducia nella possibilità di un processo unitario, fastidio dei militanti di base. In concomitanza con le difficoltà dell'incontro Manifesto-Potere operaio a Padova si costituisce un comitato politico organizzato in tré settori di intervento: scuole, fabbriche e quartieri. La sua presenza si avverte nelle manifestazioni studentesche del febbraio-marzo e, dopo brevi occupazioni a scacchiera in varie facoltà, nelloccupazione di Chimica. In fabbrica stenta a riprendere corpo l'azione politica e di lotta. L egemonia di Potere operaio è contestata, il suo ambizioso disegno organizzativo rimane evanescente. Inizia la rincorsa con le altre epressioni del sinistrismo sul terreno della radicalizzazione dello scontro. Inizia una pericolosa emulazione con Lotta continua, con torbide attenzioni alle manifestazioni più «coerentemente» rivoluzionarie. L'antifascismo militante è il viscido piano inclinato di questa concorrenza. «Potere operaio», in analogia con quanto appare su «Lotta continua» pubblica un «bollettino politico-militare delle lotte: due mesi di antifascismo militante». Intanto .il giornale si trasforma in quindicinale e nei suoi articoli, segno degli inquietanti interrogativi che si fanno strada nei dirigenti del gruppo, insiste nel sollecitare «forme di lotte adeguate» al-l'asprezza dello scontro sociale, della repressione, e del fascismo. Non riuscendo a prospettare una soluzione alla sua crisi interna il comitato politico tende a sciogliersi nell' autonomia e l'attivo del 12 marzo a Torino finisce

con la semplificatoria quanto minacciosa parola d'ordine «armare i comitati politici». Progressivamente si interrompe ogni ricerca di rapporto col Manifesto. Il convegno unitario non ha risolto i contrasti e le aperture del gruppo di Magri si sono dimostrate del tutto inadeguate. Lo stesso Magri dovrà tornare sulle sue posizioni ammettendo, nella tempestosità degli eventi che caratterizzeranno la fase più acuta della strategia della tensione e di fronte alle involuzioni militaristiche di Potere operaio, l'inconciliabilità fra le due organizzazioni denunciando al tempo stesso i rischi a cui è sottoposta la nebulosa dell'estremismo. Snodi decisivi nell'accelerazione verso un militarismo pre-insurrezionale, per Potere operaio come per l'insieme del gruppismo post-sessantottesco, sono il laboratorio milanese del Comitato nazionale di lotta contro la strage e su un altro versante l'atipicità della rivolta di Reggio, eventi non separabili dalla spirale di violenza e di neofascismo che si scatena nel paese. Difficoltà organizzative e crisi politica mai apertamente dichiarate si riflettono nel dibattito ai vertici di Potere operaio. Toni Negri e Franco Piperno, personificano le principali divergenze: è quest'ultimo che in varie occasioni accusa il leader padovano di «ambiguità politica» rispetto al problema dell'orga-nizzazione. Se a Bologna, nel settembre '70, il partito dell'insurrezione era stato appena evocato ora il dibattito si fa più stringente. Nelle astrattezze che caratterizzano gli avvitamenti del pensiero estremistico il fallimento politico non è da ricercarsi nelle teorie quanto nelle coerenze e dunque il problema si sposta sulla reale praticabilità del partito dell'insurrezione, sulle sue caratteristiche, sul suo grado di clandestinizzazione e sulla sua capacità di rimanere interno alle varie situazioni di massa. Alle difficoltà organizzative si aggiungono quelle finanziarie, il giornale rallenta le pubblicazioni. Alla ricerca di un rapporto con le forze più «rivoluzionarie» iniziano i contatti con le formazioni armate clandestine dei Gap e delle Br. Alla fine dell'aprile '71 il quindicinale del gruppo pubblica integralmente La dichiarazione politica dei gruppi di azione parti-giana e un primo documento delle Br n. La «guerriglia di fabbrica è troppo-troppo poco» occorre andare oltre. Il giornale presenta i due documenti come contributi al problema dell' «organizzazione della violenza» nella prospettiva di un'autentica strategia della rivoluzione comunista. Sullo stesso numero un' intera pagina è dedicata a citazioni tratte da Lenin sul tema della violenza e sulla lotta armata. Correda le affermazioni teo-riche una puntigliosa rassegna di possibili situazioni della lotta armata «condotta da singoli individui o da piccoli gruppi di individui». Un repertorio in cui figurano 1 esproprio e la confisca di danaro per «la necessità del partito, parzialmente per l'arma-mento e per la preparazione dell'insurrezione», il tutto illuminato dal principio-obbligo per i marxisti, nell epoca della guerra civile, di costruire il partito combattente. Il tema dell'insurrezione prende il sopravvento su tutte le analisi e partendo da esso si definiscono i nuovi compiti politici. All'assemblea autonoma di Torino si afferma: «dalla città fabbrica alla città

insurrezione»; nel corso delle occupazioni delle case a Roma: «nella cintura rossa nasce il partito dell'insurrezione». Nella primavera-estate ancora un' escalation nelle lotte di piazza, le tecniche d'as-salto si fanno più sofisticate. La prima «giornata nazionale delle avanguardie della classe operaia e della sinistra rivoluzionaria» si conclude a Torino, Genova, Milano, con numerosi militanti piazza. Insieme a Potere operaio gli altri gruppi, solo a Roma Potere operaio non aderisce alla manifestazione. Nella capitale il gruppo si cimenta nelle occupazioni di case nei quartieri di Casal Bruciato e della Magliana. Lotte sociali, di fabbrica e di piazza spesso gestite, non senza polemiche, insieme a Lotta continua. Il 29 maggio a Torino: la guerriglia urbana. «Potere operaio» la definisce orgogliosamente «la battaglia di Torino» dalla «Fiat - un corteo armato di seimila operai».

5. Per il partito, per l'insurrezione, per il comunismo A partire dalla fine del 1971 Potere operaio è investito in modo irreversibile dai temi dell'organizzazione clandestina, assetto essenziale per il passaggio al «partito dell'insurrezione» e a quella militarizzazione lanciata pubblicamente nella III conferenza di organizzazione di Roma del settembre. Le strutture dirigenti del gruppo mantengono contatti alterni con l'editore Feltrinelli da tempo entrato in clandestinità. In questo periodo di transizione, secondo le dichiarazioni del pentito Carlo Fioroni a cui fu attribuito dallo stesso Negri il compito di tenere i rapporti fra l'editore e Potere operaio, si sviluppa una discussione sulle possibili convergenze operative. Feltrinelli riferendosi a questi approcci scriverà, nell'ottobre '71, a «Saetta» nome di battaglia attribuito a Franco Piperno: «Abbiamo parlato di complementarietà delle nostre forze a Milano, dell'auspicabilità di un processo di avvicinamento, di integrazione e di coordinamento tanto sul piano operativo, quanto su quello logistico e politico» 44. Proseguendo lamenta la genericità del colloquio e il fatto che la sua proposta di costruire a livello milanese e di Alta Italia una sorta di «stato maggiore» della lotta armata sia caduta nel vuoto. Respinta l'idea di una mera confluenza organizzativa, avanza l'ipotesi di una reale integrazione o altrimenti di intervenire con strutture militari differenziate sia pure complementari. La discussione procederà senza trovare un'organica composizione. Tra i gruppi di azione partigiana di Feltrinelli e Potere operaio sono troppe le differenze di origine e di impostazione. In quello stesso periodo le Brigate rosse approdano al loro primo documento teorico, concludendo così il percorso che dal Comitato metropolitano passando per Sinistra proletaria arriva alla proliferazione di una più estesa rete logistica del terrorismo. Inizia allora la nazionalizzazione di un vero e proprio assetto illegale e la tessitura di una trama di contatti fra i vari raggruppamenti dell'eversione. In concomitanza con il III convegno d'organizzazione, il 26 settembre '71 si svolge, sempre a Roma, una conferenza stampa a cui partecipano Negri, Scalzone, Piperno. In merito a essa e ai lavori del convegno, Franco Piperno, sarà successivamente interrogato dalla magistratura. In quell occasione a nome del gruppo, egli si dichiarerà contrario a ogni azione violenta e accuserà gli interlocutori di aver frainteso lo spirito del dibattito e le sue indicazioni. Si pensò allora ad affermazioni verbali, evocazioni rivoluzionarie interne al clima di quegli anni, e non ci fu nessuna azione penale. La magistratura di Roma dovrà ricredersi, al momento del procedimento penale contro Achille Lollo, Marino davo e Manlio Grillo, militanti di Potere operaio, incriminati per la strage di Primavalle. Nell'ordinanza a giudizio si legge:

«Non si può sottacere l'indubbia influenza che ebbe sugli imputati l'avventurismo politico di taluni esponenti di Potere operaio, con la parossistica esaltazione della violenza contro le istituzioni e le persone e il ricorso allodio, niente affatto infrequenti nelle pubblicazioni edite a cura del movimento. La violenza opera contro i capi e i dirigenti; il livore verso la costituzione, le organizzazioni politiche popolari, i sindacati; il partito armato; l'insurrezione sono concetti più volte esposti in tali pubblicazioni. Ne risulta che i su accennati leader abbiano sostanzialmente rigettato l'accusa di propensione al terrorismo, loro mosso dopo la III Conferenza settembre '71, la quale teorizzò la «militanza del gruppo, con un'impostazione teorica di azioni provocatorie e di ribellione». Risulta ormai acquisito da un' ampia documentazione testimoniale, da appunti ritrovati in varie perquisizioni e dai materiali dei diversi procedimenti per terrorismo, che con la conferenza di Roma prende avvio quel primo livello di Lavoro illegale diretto sul piano politico da Franco Piperno e Valerio Morucci e militarmente da Carlo Fioroni e Emilio Vesce. I fatti di Milano, la guerriglia provocata in occasione del 12 dicembre, decretano fra molte polemiche interne lo scioglimento di Lavoro illegale sostituito, sempre sotto la dirczione di Morucci e Piperno, dal Fronte armato rivoluzionario operaio che firmerà nel marzo '72 alcuni attentati. La macchina organizzativa ormai funziona da vero e proprio partito, al vertice la segreteria nazionale che si avvale di una rete di militanti a tempo pieno. Punto cardine dell'involuzione militaristica di Potere operaio, dunque, la III conferenza dbrganizzazione che si svolge a Roma dal 24 a 26 settembre del '71, che lancia i trionfalistici, quanto farneticanti nella loro presunta attualità, slogan: «Per il partito, per l'insurrezione, per il comunismo». Fra i materiali preparatori, pubblicati nel supplemento al n. 45 del mensile «Potere operaio», figura Crisi dello Stato-piano, comunismo e organizzazione rivoluzionaria di Toni Negri. Partendo dalla nuova figura dell'«operaio di massa», quale si è affermato nello sviluppo delle lotte operaie della seconda metà degli anni sessanta, prospetta un progetto di «insurrezione» che esce definitivamente dalla tradizione classica del marxismo. Nella postilla all'edi-zione di Crisi dello Stato piano Negri sarà ancora più esplicito occorre tradurre in proposta di organizzazione quello che definisce «l'interesse operaio alla sovversione». «Si tratta di nuovo di porsi il problema di ciò che è mutato dentro la classe operaia, si tratta di comprendere le conseguenze che la tendenziale caduta della barriera storica del valore determina nella composizione politica della classe operaia stessa». In particolare: «va messa in atto una analisi che ne colga il nuovo essere, la nuova struttura dei bisogni determinata dall'essere proletario nella Zivilisation del capitale» 45. Nella conflittualità dinamica fra «spontaneità operaia» e «provocazioni del comando capitalistico», la nuova teoria dell organizzazione non è separabile da una nuova teoria dell'insurrezione come levitatrice del comunismo. Insurrezione e non rivoluzione, precisa Negri, in quanto «la rivoluzione è la ricomposizione di un processo che ha con la sua forza distrutto un intero apparato di potere» al contrario

interessa «battere continuamente l'iniziativa puntuale che il capitale opera per la rottura del fronte proletario unificato» 46. Si è logorato, anche se ancora non definitivamente troncato il tentativo di raccordo col Manifesto. I riferimenti operaisti appaiono qualcosa di lontano nel tempo, la stessa composizione del gruppo si è profondamente modificata, vi sono confluiti marxisti-leninisti, studenti medi, sottoproletariato urbano. I fallimenti registrati su quello che era considerato un terreno privilegiato del gruppo, cioè la fabbrica, hanno portato a una chiusura dogmatica e a un rigorismo di tipo militaresco: un centralismo che già sfiora la clandestinità. Partito, insurrezione, comunismo, vengono considerate questioni ormai ali' ordine del giorno. E la logica del catastrofismo. Schematizzando, il ragionamento è il seguente: nelle lotte si è espressa una forte combattività, contro di essa si è scatenata la reazione, si sono quindi messe in moto tutte le condizioni per un processo rivoluzionario. Ad una dirczione realmente rivoluzionaria non spetta altro che aggravare la conflittualità rendendo possibile e definitivo l'impatto frontale con lo stato del capitalismo: lo scontro finale. L'idealizzazione dell'economicismo operaistico, che esaspera alcuni connotati del neo-hegelismo della seconda metà degli anni sessanta, ha bisogno di una rilegittimazione storica, esigenza che spinge il gruppo a riformulare, attualizzandoli, gli elementi fondamentali che sono all'orgine della propria esperienza e della sua evoluzione. Tornando al processo apertosi con il centrosinistra si afferma: «... di fronte a questo tipo di contrattacco generale, di rilancio capitalistico, lo schema della III Internazionale — schema classico basato su un' ipotesi di crollo,di crisi dell'economia capitalistica su cui intervenire portando dentro un programma di potere capace di egemonizzare l'intera stratificazione proletaria — potremmo dire "tutto il popolo" intorno alla classe operaia va in crisi. Questo tipo di ipotesi, — cioè dell organizzazione comunista che impersona le ragioni dello sviluppo contro la crisi capitalistica e che su questo riesce ad egemonizzare realmente la maggioranza del proletariato — questa ipotesi veniva a cadere. I militanti comunisti, i militanti rivoluzionari in quegli anni non vedevano più la possibilità di giocare su una crisi "spontanea" e catastrofica del capitalismo come quella che si era data in Russia, come quella che si era data in Cina; crisi di proporzioni spaventose che arrivano al punto limite della guerra impcrialistica. Sembrava di trovarsi di fronte a un capitale potentissimo, imbattibile, che appena scopriva una contraddizione era subito capace di saturarla, di sanarla; cioè che appena una contraddizione si rilevava — e contraddizioni ce n'erano di formidabili — era capace di spostarla su un livello più alto, e comunque di riuscire a tamponare le cose in modo che non si desse uno scoppio di violenza tale da compromettere l'equilibrio del potere. E d'altra parte la vecchia, tradizionale tematica della III Internazionale — tematica leninista peraltro — dell'organizzazione comunista che impugna la bandiera della lotta politica come lotta per lo sviluppo estremo della democrazia; anche questa sembrava ormai uno

strumento inservibile, perché lo Stato si presentava come Stato pianificato e democratico, addirittura con caratteristiche "socialiste"»47. Polemizzando con altri settori della «sinistra di classe» afferma che non si può interpretare la crisi secondo vecchi schemi, ormai obsoleti, continuando a immaginarsela come una ripetizione del '29, come una crisi catastrofica, baloccandosi nello stabilire se essa sia sovrastrutturale o strutturale; al contrario, secondo il gruppo di Piperno, Scalzone, Negri, la crisi deve intendersi come blocco dell'iniziativa capitalistica: «Crisi è la necessità a cui è inchiodato il capitale, e al tempo stesso la volontà politica di parte capitalistica di bloccare, di arrestare lo sviluppo, di pagare questo scotto pur di riprendere il controllo e il dominio sulla classe operaia e sull'intera società, pur di portare avanti un processo di "normalizzazione" sociale, quindi crisi è necessità e volontà politica di bloccare il riformismo come capacità di assecondare le richieste operaie». E inevitabile dunque che la difficile situazione comporti anche una: «crisi della lotta di fabbrica, crisi dell'autonomia operaia, crisi della spontaneità della lotta operaia; proprio perché la crisi è il colpo specifico piazzato dal nemico di classe, proprio perché è la risposta specifica al progetto rivoluzionario che noi portiamo avanti, proprio perché è la capacità di render vana, di svuotare di contenuto, di spuntare quest'arma formidabile che abbiamo conosciuto negli anni dello sviluppo, che era la lotta offensiva che ha procurato tanti guai e tanti danni al padrone» 48. Di fronte a questa forza del capitale, a questo trionfo del riformismo, non ce altra strada che porre la questione dell'at-tualità della rivoluzione nel capitalismo avanzato. Nell'ideologizzazione di questo passaggio teorico si radica il pessimismo nichilistico che attanaglia il gruppo, un pessimismo che trova una delle sue massime espressioni nel pensiero filosofìco del principale leader del gruppo Toni Negri, e che lo porterà dalle originarie matrici operaiste, al di là delle sentenze giudiziarie e delle oggettive responsabilità, all'approdo del partito armato. Accecati dalle declaratorie sulla necessità di una strategia rivoluzionaria, di un programma comunista immediato in un paese a capitalismo avanzato, la cultura della violenza e del ribellismo diventano principali fondamenti della rottura dello stato sociale del capitale. E la risposta disperata alle dispute senza fine fra riformisti-keynesiani e marxisti velleitarii un dibattito che, secondo il gruppo, ha finito con l'avvitarsi su se stesso negli anni sessanta: «da un lato cerano i riformisti ridotti a un ruolo permanentemente subalterno di fronte alle ideologie più avanzate del capitale. L'economia keynesiana, il progetto di questa grande strategia del capitalismo, diventa un orizzonte avanzato per questi teorici del riformismo del movimento operaio. D'altra parte c'erano molti velleitari all'interno dello schieramento marxista, ma — come dire — si presentavano un po' come una valle di lacrime, stavano lì a piangere sul fatto che la classe operaia era a loro parere integrata perché lottava per i soldi, perché manifestava un fondamentale egoismo e attaccamento ai temi pratici, materiali di lotta» w.

Dunque tagliare corto con queste querelle senza conclusioni significa porre il comunismo all'ordine del giorno. Nell'osti-nato perseguimento di quest'ipotesi la presenza del gruppo è vista come capacità di far funzionare «l'egoismo di massa», la primordiale volontà di lottare per i propri interessi materiali, interessi per loro intrinseca natura contrapposti agli interessi generali della società, far leva su questi comportamenti per rimettere in moto un processo rivoluzionario. Programma per il comunismo è l'esaltazione dell'antagonismo tra operaio e padrone nel rapporto di produzione dentro la fabbrica, l'espressione immediata del rifiuto da cui discende l'organizzazione dell'insu-bordinazione operaia. Al tempo stesso più cresce la consapevolezza della negazione del comando capitalistico più aumenta la necessità di organizzare e rendere permanente il conflitto fra i bisogni materiali della classe operaia e la logica del piano cioè di quello sviluppo capitalistico falsamente propagandato come «interesse generale». Alla ragione capitalistica si contrappone una ragione rivoluzionaria identificata come distruzione, come pura negazione di tutto. Toni Negri scriverà in Dominio e sabotaggio: «siamo qui, incrollabili, maggioritari. Abbiamo un metodo di distruzione del lavoro. Siamo tesi alla ricerca di una misura positiva del non lavoro. Della liberazione da quella schifosa schiavitù che i padroni godono, che il movimento ufficiale del socialismo ci ha sempre imposto come araldo di nobilita. No, non possiamo davvero dirci socialisti, non possiamo più accettare la vostra infamia» 50. Ossessionati dalla paura del capitalismo, illusoriamente rappresentato «come macchina perfetta» si vuole agire su quello che viene considerato il suo principale punto debole la necessità del piano riformistico di fondarsi sul consenso della classe operaia. Scardinare il consenso e negare l'adesione degli operai al riformismo significa scoprire ed esaltare l'autonomia con il suo consapevole disprezzo di tutte le regole del piano. In questa logica non ce spazio per il sindacato e la sua tradizionale mediazione del conflitto lavoro-capitale. Il punto più alto della sua funzione normalizzante è rappresentato dall'equilibrio compatibile fra dinamica dei salari e dinamica produttiva. Per spezzare definitivamente le fìnte regole del gioco democratico-capitalistico, la lotta sul «salario politico» è il volano che spinge in avanti la variabile salariale, «impazzita rispetto alla razionalità dello sfruttamento capitalistico», ed esaspera il «costo del lavoro fino a mettere in crisi la programmazione». Nel progetto-proclama del Potere operaio, non ci può essere alcuna compatibilita fra la lotta economica e il sistema regolato del capitalismo. Da questo parossismo della crisi deriva che ogni parola d'ordine deve servire a interrompere il disegno ordinatore e totalizzante dello Stato del riformismo, del piano e dello sviluppo: «La parola d'ordine che abbiamo tante volte agitato negli anni sessanta: più soldi e meno lavoro, era proprio questo: provocare la crisi capitalistica con una volontà precisa e soggettiva, cioè scaglionando contro la stabilità del capitale l'irriduci-bilità dei bisogni materiali della classe operaia» 51.

Solo accelerando la crisi si possono ripristinare le condizioni classiche per un'iniziativa rivoluzionaria, cioè la presa del potere per la distruzione dello Stato dei capitalisti e l'instaurazio-ne del «potere operaio». Occorrono pretesti e occasioni: agitare la parola d'ordine «aumenti uguali per tutti», non significa perseguire il suo concreto raggiungimento, bensì serve per svelare l'antagonismo tra gli interessi di classe degli operai e l'interesse dei padroni, rendere esplicita la necessità di organizzarsi non contro «un singolo padrone ma contro tutti i padroni, contro lo Stato come rappresentante generale degli interessi dei padroni». Dunque: «Inchiodare il capitale alla crisi, cioè costringerlo all'arresto dello sviluppo, cioè costringerlo a dichiararsi incapace di una iniziativa riformista, a dichiarare il blocco della iniziativa politica, a rifiutare di assecondare le richieste operaie; e quindi ha significato costringere i padroni e lo Stato a mostrarsi come dominio, come violenza aperta contro gli operai» 52. Per il gruppo dirigente di Potere operaio ci possono essere stati limiti e insufficienze nell' esperienza pratica, ma nel bilancio complessivo quello che conta è che la «lotta autonoma» ha prodotto una situazione politica nuova in cui si sono demistificate le logiche del riformismo e si è smascherata la sua natura di «operazione di violenza aperta, di impoverimento, di attacco alle condizioni materiali della classe operaia e di tutto il proletariato». Nella brutalità della crisi si creano le condizioni per una crescita della coscienza di classe, le masse avvertono «la necessità di distruggere il potere capitalistico, di prendere tutto il potere; cioè distruggere la schiavitù del lavoro salariato». E questo il «filo rosso» che esprime e lega insieme l'espe-rienza del gruppo dagli anni sessanta in poi: «il percorso dentro il movimento»: nelle lotte della Fiat del '62, nelle lotte operaie, sociali, studentesche cominciate nel '68 con Valdagno, nelle lotte del Sud con Battipaglia e poi la lotta della Fiat del '69, e infine la grande stagione dell' «autunno caldo». Da questo itinerario e partendo dall'affermazione del ruolo dell' autonomia, si conferma la validità dell'ipotesi politica del «programma comunista» e la sua ineludibile attualità. Ne deriva lo slogan, ripreso da una citazione di Marx, della III conferenza d'organizzazio-ne: «il comunismo è il movimento reale che distrugge lo stato delle cose presenti». Distruzione del lavoro salariato, distruzione della necessità di lavorare per vivere, questa è Fattualità del comunismo da cui consegue la necessità di scoprire la richiesta di comunismo dentro i comportamenti degli operai e dei prole-rari, dentro le loro lotte contro il lavoro. Misurati con il parametro della volontà distruttiva, unica premessa rivoluzionaria, poco importano i risultati ottenuti; la lotta contro l'orario di lavoro, contro la mistificazione capitalistica dei diversi valori del lavoro; la lotta contro «l'aggancio fra salario e produttività», sono questi i «formidabili contenuti rivoluzionari» che portano a esprimere un bilancio ampiamente positivo delle lotte. Su questa base, incuranti dei processi reali, i militanti del gruppo considerano l'ipotesi formulata sin dagli inizi degli anni sessanta «in larga parte verificata». Ora non basta più bisogna andare avanti sulla strada dell'insurrezione.

La carica distruttiva, il richiamo all'individualismo corporativo spiegano il consenso che il gruppo conquista nei settori operai meno sindacalizzati, nei servizi e nelle aree di marginalità urbana. Esasperato intellettualismo e desolazione della crisi si compenetrano tra loro, componenti del rifiuto del capitalismo, ma anche perverso prodotto della crisi capitalistica e delle sue contraddizioni. Anche in questo senso si spiega l'interesse per il Sud, l'adesione del gruppo alle motivazioni e al ribellismo che si esprime nelle vicende di Reggio e dell'Aquila, test significativi della spontaneità rivoluzionaria e, nella più totale indifferenza sulle matrici di destra che le animano, conferme di possibili inneschi di lotta armata insurrezionale. Dall'elogio della violenza diffusa alle prime azioni terroristiche il passo è breve. La svolta sarà evidente all'indomani della morte dell'editore Feltrinelli. Alla ricerca di una propria identità e forzando l'interpreta-zione dei cicli politici della vicenda politica italiana, il gruppo ricostruisce la sua storia: «Potere operaio come organizzazione nazionale data dal '69, dalle lotte Fiat del '69, dalla preparazione dell'intervento dei gruppi rivoluzionari nei contratti e contro i contratti; però come ipotesi politica-passata attraverso esperienze successive (Quaderni rossi, Classe operaia) — in realtà risale agli inizi degli anni '60» 53. Con questa carta di presentazione, utilizzando la sua tradizione e il prestigio derivato dal ruolo delle riviste dell'operaismo negli anni sessanta il gruppo cerca nuove autorevolezze nella presunzione tracotante di imporsi sugli altri gruppi. Anche nei confronti delle altre formazioni si tratta di esercitare un ruolo di avanguardia, spingendole verso la discontinuità, il salto, la forzatura dello stesso processo rivoluzionario: «Non importa attraversare delle fasi di isolamento, di battaglia politica del movimento; il problema è che quello che accettiamo è un isolamento positivo, non l'isolamento dei ritardatari, ma semmai di quelli che anticipano le scelte alle quali poi va costretto l'intero movimento». La prospettiva finale è la «riaggregazione delle avanguardie» 54. Settarismo e attenzione si dialettizzano fra loro: «II nostro settarismo oggi sarà quello dell'organizzazione, del processo riaggregativo, della fiducia nelle avanguardie di tenere in piedi e di condurre questo diffìcile processo». Il sovversivismo fa da collante mentre, nel clima di quegli anni, repressione, paura del golpe, delusioni concorrono a definire le equivoche radici culturali di nuove e più pericolose fasi dell estremismo55. Se la rappresentazione trionfalistica della propria esperienza serve a dare validità alle scelte del gruppo al tempo stesso sposta sulla società il proprio stato soggettivo. In questa trasla-zione teorico-comportamentale si realizza un' etereogenea comunanza di figure diverse, quali l'intellettuale disadattato e il sottoproletario ribelle. Una galleria di microprotagonismi interni a una società in crisi che cercano la propria affermazione individuale nella gestualità rivoluzionaria, nel mito avanguardistico, nell'elogio del coraggio militare e nelle curiosità morbose dei primi conati di clandestinità.

Sempre seguendo gli schemi ricostruttivi che vengono sintetizzati nella fase della conferenza di Bologna, all'inizio degli anni sessanta, dopo la sconfitta, la ripresa operaia; una ripresa che porta i segni dell'insubordinazione e trova la sua forza nella durezza e nella violenza della protesta smantellando le revisioni-stiche progettualità politiche. Nella mutata condizione del neocapitalismo e del centrosinistra, il grande padronato non solo non ha paura, anzi, addirittura stimola una ripresa di lotte, purché possa contrattaccarla e contenerla, purché la dinamica delle lotte, la richiesta di aumento dei salari, di trasformazione delle condizioni di lavoro funzioni da fattore propulsivo dello sviluppo e di espansione dell'economia capitalistica. Contro questo disegno omologante e di tregua sociale 1' «insurrezione proletaria» del luglio '60, e i primi «gatti selvaggi» alla Fiat: «il ceto politico, il ceto capitalistico italiano più avanzato tenta di cambiare le carte in tavola, di riportare nel paese certi modelli avanzati di sviluppo che sono già stati sperimentati negli Stati Uniti a livello di paesi capitalistici avanzati all'interno del mercato mondiale. E un tentativo di anticipare l'iniziativa operaia, di predisporre gli strumenti politico-istituzionali perché il capitale abbia una capacità di lettura e di interpretazione dei movimenti di classe e dunque una sorta di "preliminare" al riformismo, di "legge quadro" del riformismo. Ecco quindi che il padronato più moderno e più forte — pubblico e privato — e il personale politico più avveduto di parte capitalistica si rendono conto di come sia necessario, proprio per mantenere il controllo sulla forza lavoro, portare avanti una gestione democratica del rapporto di lavoro; far partecipare gli operai al progetto di sviluppo, incanalare l'insubordinazione operaia rendendola un elemento dinamico del sistema, superare gli squilibri e le contraddizioni attraverso la programmazione, gli uffici studi, il piano, superarli attraverso la determinazione di una funzione dello Stato come cervello capitalistico, non solo come poliziotto; superarli attraverso questa determinazione di una funzione dello Stato come regolatore dei conflitti tra capitalista e capitalisti, e soprattutto tra operai e capitale» '"'. Con l'obiettivo di evitare una crisi ingovernabile del sistema, il capitalismo avvia una ristrutturazione dell'assetto dello Stato che tende sempre più a presentarsi come uno stato democratico-pianificato, in cui prevalgono come regolatori sociali, non gli strumenti di repressione ma quelli di controllo del-1 opposizione. Nemico fondamentale è dunque lo stato democratico che, in ragione della sua necessità fisiologica di contenere e di riassorbire tutte le spinte antagoniste per affermare il proprio dominio, tollera spazi di conflittualità sociale purché programmati e programmabili. Nasce da ciò l'acutizzazione della crisi, la necessità di farla scoppiare, far saltare il gioco delle parti. Nessuna proposta concreta può aver risultato, salvo l'insurre-zione e il comunismo. Rifiuto, luddismo, insubordinazione, violenza sono le forme dell'aggravamento, con la loro carica eversiva esse prevalgono su ogni contenuto. Se salario e lotta dura erano le parole cordine nella fase dell'autonomia, ormai il salto di qualità consiste nel coniugare salario politico e lotta per il potere con il processo

insurrezionale armato. Certo, prosegue Potere operaio, è un processo di lungo periodo, ma che va avviato da subito, e verso il quale, va sospinto tutto il movimento.

6. La militarizzazione Con la III conferenza d'organizzazione il gruppo precipita definitivamente nel buio labirinto della lotta armata. Come si è visto l'insieme teorico che sostiene i materiali preparatori, le relazioni e il dibattito della conferenza di Roma hanno l'obietti-vo principale di evidenziare l'attualità del comunismo da cui, come coerente comportamento politico, fanno derivare l'urgen-za del passaggio alla lotta armata. La questione si presenta aperta a varie ipotesi che si fronteggiano nei diversi interventi. Un' articolazione di posizioni che è complementare al tema mai compiutamente sistematizzato da Potere operaio del partito. Indicando i principali nodi politici su cui la conferenza è chiamata a pronunciarsi e decidere Oreste Scalzone sottolinea: «il primo punto riguarda i livelli e gli strumenti di organizzazione; il secondo punto riguarda il programma politico e le organizzazioni delle scadenze, il terzo punto il tema dell'appropriazione, dell'organizazione e dell'insurrezione». Per l'ex leader del movimento studentesco romano una cosa è certa, pena essere codisti o opportunisti, non si può rimandare oltre: «il problema della difesa e dell'attacco, il problema dell'educazione tecnica della violenza operaia e proletaria». Il dibattito sulla lotta armata vede varie accentuazioni: Dalmaviva si pronuncia sulle necessità di coinvolgere i vari livelli dell'autonomia e le forme del suo manifestarsi; Magnaghi insiste sul tema dell'appropriazione; Francesco Pardi identifica Ibr-ganizzazione nell'organizzazione armata; Lanfranco Pace sviluppa il tema della soggettività del partito; Franco Piperno pone l'attualità del problema del potere da conquistarsi con la militarizzazione. Nelle sue conclusioni Negri congiunge il tema dell'appropriazione al tema della militarizzazione, aspetti non separabili fra loro in un progetto insurrezionale. Al tempo stesso riconduce le diversità manifestatesi nella discussione ali' oggettiva «discrepanza fra tempi d'organizzazione e tempi dello scontro. Da urgenza soggettiva e oggettiva insieme alla proposta di partito». Per Negri sia la ricomposizione dell'unità del gruppo che il coinvolgimento delle altre forze «rivoluzionarie» passano attraverso un deciso salto di qualità: prospettare e determinare come organizzazione quelle che significativamente definisce le «scadenze di scontro». Esplicitando quest'indicazione, il giornale, a commento dei lavori della conferenza, scrive: «Potere operaio, nel suo convegno, ha detto: insurrezione come passaggio necessario alla riqualificazione delle forze del movimento». Partendo da questo presupposto mutano i termini con cui 1 estremismo «tradizionale» ha concepito e concepisce nel suo gradualismo o nelle sue forzature dogmatiche la costruzione del partito rivoluzionario. «Qui allora non si tratta più

di progettare la continuità dall'au-tonomia al partito (su cui poggia ogni opportunismo) non si tratta più di parlare di "nuovi livelli di lotta in politica" questa tematica si riduce oggi all'utopia, si tratta di cogliere organizzazione e violenza antistituzionale come passaggi verso il partito». Dalla violenza al partito, dunque, come una conseguenza del ragionamento sulla crisi e sulle caratteristiche della sua accelerazione, diventa questa «!' unica proposta credibile» per un movimento rivoluzionario che voglia assumere con coerenza la questione dell'insurrezione. A ridosso della III conferenza di organizzazione il giornale «Potere operaio» è trasformato in «rivista teorica» mensile, mentre si annuncia la pubblicazione di «Potere operaio del lunedì» che apparirà dal febbraio 1972. L'occasione per una «scadenza di scontro» è l'appuntamen-to del 12 dicembre 1971, anniversario di piazza Fontana. Bisogna colpire «la volontà togliattiana del Manifesto» e la «stupida ingenuità propagandistica di Lotta continua», che inneggiando demagogicamente alla guerriglia di fabbrica, in realtà vogliono solo «castrare la potenzialità rivoluzionaria» e «farne il trampolino di lancio per il Manifesto come trampolino rivoluzionario»; così si esprime la circolate dell'esecutivo nazionale del 28 novembre. La direttiva è: «spingere a fondo su tutte le iniziative di lotta e di violenza nelle quali possiamo essere [...] Torino, Padova, Bologna, Avelline [...] sono le sedi dove la spirale della lotta e dell'egemonia rivoluzionaria del movimento è già stata messa in moto». Tutto il servizio d'ordine di Potere operaio è mobilitato. Fioroni a capo del neo-costituito Lavoro illegale appresta l'appartamento di via Galilei a Milano per la fabbricazione di un ingente quantitativo di molotov. L'appuntamento è caricato di un forte valore simbolico. Non solo ricorre l'anniversario della strage di piazza Fontana ma l'anno precedente, proprio nel corso delle manifestazioni, aveva trovato la morte lo studente Saltarelli. Il movimento studentesco e i vari gruppi che formano il Comitato nazionale di lotta contro la strage (Lotta continua, Manifesto, Avanguardia operaia, Collettivo autonomo di Architettura di Milano, Lotta comunista, Gruppo Gramsci) sono divisi sulla condotta da tenere contro il divieto. La notte che precede la manifestazione militanti di Potere operaio vengono arrestati perché trovati in possesso di bottiglie molotov. Pronta la solidarietà del gruppo: «Compagni di Potere operaio arrestati con 250 molotov! Noi affermiamo il diritto degli operai e dei proletati di difendere le proprie lotte con le armi dalla violenza poliziesca dello "stato della crisi". Noi affermiamo l'urgenza, per la crescita dell'organizzazione rivoluzionaria della militarizzazione del movimento. Potere operaio! Insurrezione armata!». La guerriglia urbana programmata per la giornata non può essere attuata. Per Potere operaio la manifestazione è stata una «parziale vittoria». 15 mila partecipanti, lo stato nonostante i divieti e le provocazioni se è riuscito a ridurre la «portata della manifestazione» non è riuscito nel suo intento principale di farla fallire. La critica sull'esito della «mobilitazione» si sposta alle altre componenti

del movimento. Per Potere operaio si è trattato infatti di «una vittoria della nostra linea, delle nostre proposte, delle nostre indicazioni: ancora una volta abbiamo saputo costruire — e paghiamo un corretto rapporto d'avanguardia, di tradizione, di proposta rispetto al movimento, un atteggiamento che sistematicamente rifiuta di registrare e di rappresentare la medietà del movimento e di contendersi con essa scambiando il codismo per linea di massa» 57. Meno soddisfacente il bilancio interno. Ancora non si è pronti per organizzare, pianificandola, la guerriglia. Dopo un' aspra discussione la vicenda del 12 dicembre porta allo scioglimento di Lavoro illegale. Il numero 46 di «Potere operaio» del febbraio '72 pubblica in ultima pagina la poesia di Brecht «lode del lavoro illegale», è l'implicito epitaffio di una esperienza ormai chiusa. La scelta non è indolore, Fioroni riferisce di forti dissensi fra Negri e Piperno favorevole al mantenimento di Lavoro illegale. Sarà proprio Piperno insieme a Morucci a dar vita di lì a poco al Faro (Fronte armato rivoluzionario operaio). Iniziano a operare all'interno e all'esterno di Potere operaio più livelli occulti, forme di strutture parallele non riconducibili all'intero gruppo ma piuttosto facenti capo a singoli leader e a spezzoni dell'organizzazione. Nel febbraio del '72, una lettera di Piperno ad «Osvaldo», nome di battaglia di Feltrinelli, così prospetta la possibile collaborazione fra gruppi clandestini armati: «In un quadro di integrazione nazionale delle nostre organizzazioni omogenee e di un rapporto dialettico con Potere operaio (quadro che deve tenere presente e far fronte a tutti gli oneri che ne derivano) andiamo ad unità operativa e di comando delle nostre forze a Milano. Ma i nostri compagni vanno trattati come un nucleo organizzativo con cui si discute come tale e non separati e utilizzati come tecnici. Essi hanno idee, maturità e motivazioni con cui bisogna confrontarsi - non è possibile rimuovere amministrativamente queste cose, altrimenti si chiede loro di diventare dei killer e non dirigenti rivoluzionari» 58. I rapporti tuttavia non procedono come si vorrebbe. In un'altra lettera sempre di Piperno, nome di battaglia «Elio», si sottolinea il persistere di sostanziali differenze fra Gap e Potere operaio, contrasti che riguardano le finalità, le forme e i tempi dell'unificazione organizzativa: «Questo "avanti-indietro" dei nostri rapporti politici è negativo. Va troncato. Ti prego quindi di continuare un legame con noi solo se ritieni che ci siano le condizioni per fare questo passo avanti. Altrimenti è preferibile far decantare le cose. Mettere del tempo sopra le diffidenze e i sospetti. E rivederci quando può marciare — se mai giorno verrà — un rapporto saldo in cui si tien fede reciprocamente all'impegno» 59. Intanto sulle pagine del giornale numerosi articoli commentano le posizioni dei Gap e delle Br. Il riconoscimento è esplicito: queste formazioni clandestine hanno posto il problema della violenza rivoluzionaria in una strategia di distruzione dello stato borghese. Le divergenze nascono sul rapporto lotta armata-lotta di classe; Potere operaio, rivendica una maggiore saldatura fra iniziativa politica e azione militare.

Ormai il dibattito sulla lotta armata si sviluppa fra numerosi interlocutori e le varie posizioni interagiscono fra loro. All'inizio del '72 la rottura del Comitato politico dell'Enel e del Collettivo lavoratori del Policlinico con il Manifesto. Il commissariamento tentato da Eliseo Milani non produce alcun risultato 60. Le conseguenze sono a catena, toccherà poi al-l'assemblea autonoma di Porto Marghera e a quella dellAlfa Romeo. Nel frattempo il dibattito sulla violenza si fa sempre più acceso nella gruppettistica: si è esaltata la lotta armata e lo scontro per lo scontro, si è rifiutato ogni tradizionalismo della «politica» quasi che fosse irrimediabilmente imprigionata nelle maglie delle cosiddette «condizioni oggettive», il tutto ha concorso ad una spirale ribellistica antistatuale che, insieme ali' ondata repressiva, ha alimentato il mito della clandestinità e della preparazione alla guerra rivoluzionaria. Nel marzo '72 le posizioni sulla lotta armata si vengono ulteriormente precisando. L'occasione è il sequestro di Idalgo Macchiarmi ad opera delle Br. Con una parziale sintonia con «Lotta continua», che pure si era dissociata dall'azione di Laina-te e manifesterà una più articolata discussione al suo interno, «Potere operaio» scrive: «Sono nuove forme di lotta operaia che si stanno facendo strada: questa pratica della violenza organizzata da parte proletaria è resa obbligatoria dalla crescita dello scontro di classe e dalle sue caratteristiche di violenza» e ancora «si tratta di azioni che portano un segno di classe proletario e comunista, ed esprimono una volontà sovversiva e un bisogno di rivoluzione che è delle masse sfruttate, e non di esigue minoranze» 60. Altri drammatici episodi si addensano nella torbida scena del quadro politico, teatro la città di Milano: la prova di piazza dell' 11 marzo, la morte di Feltrinelli, l'uccisione del commissario Calabresi. Fra i gruppi esplodono le diversità, infuriano le polemiche contro l'avventurismo a cui fanno da contrappunto le critiche di codismo. Il Faro firma un gruppo di azioni a Roma: il 5 marzo '72, rivendica un attentato contro una caserma dei carabinieri; il 9 marzo contro la sezione De di via Bonaccor-si; il 10 davanti al carcere di Regina Coeli; il 13 contro la sezione De di Porta Cavalleggeri e alcune bottiglie incendiarie contro la sede della Biblioteca spagnola di via Albani. Dopo gli scontri dell' 11 marzo a Milano, la rottura definitiva del Comitato contro la strage, il Manifesto aveva già preso le distanze, sarà poi la volta di Avanguardia operaia che attacca Potere operaio e Lotta continua di cieco avventurismo e di provocazione. La morte di Giangiacomo Feltrinelli, la mattina del 15 marzo, sotto il traliccio di Segrate lascia attoniti e smarriti, l'e-stremismo esita e si interroga. Potere operaio squarcia il velo del silenzio: Feltrinelli era un militante dei Gap 61. Sulle cronache dei giornali compare il nome di Carlo Fioroni «il professorino», un personaggio che tornerà nella storia del terrorismo: sarà il primo dei «super-pentiti». E lui l'intestatario del pulmino trovato sotto il traliccio di Segrate, di lì a poco si equivoca sui nomi Fioroni-Scalzone. Per la

stampa Potere operaio è l'aspetto di movimento dei Gap e delle Br. Avanguardia operaia, dissociatasi dal Comitato di lotta contro la strage, polemizza veementemente con Potere operaio a cui fanno eco le posizioni di Lotta continua 63. Sulla stampa e negli ambienti della magistratura, sempre più insistenti le minacce di una messa fuori legge di Potere operaio. Lotta continua, il cui esecutivo milanese è già stato colpito da mandati di cattura per aver inneggiato nei confronti del sequestro di Idalgo Macchiarmi e del francese Robert Nogrette dirigente della Renault ad opera della Gauche proletarienne 64, dichiara senza esitazioni tutta la sua solidarietà militante a Potere operaio. Di li a poco l'uccisione del commissario Calabresi, «Potere operaio» commenta: «terrorismo è quello che ha fatto cadere uno di loro [...] e questa iniziativa terroristica costringe oggi tutti a prendere posizione. I padroni lo hanno fatto immediatamente e lo si poteva prevedere, anche noi abbiamo il dovere di farlo sottraendoci ad ogni tentazione opportunista. E allora, di fronte a questa iniziativa, dobbiamo avere una sola obiezione: e cioè la sproporzione tra i nostri morti e i loro, non è colmabile con questi strumenti. In questo modo questo raffronto continuerebbe a restare troppo favorevole ai padroni: il problema resta per noi quello di distruggere la società che vive su questi morti» 65. Con la morte del commissario Calabresi i riflettori si puntano su Lotta continua. Il gruppo, a causa della sua campagna contro il commissario, è additato come responsabile morale dell'assassinio. Tutto tende ad accreditare il grave episodio delittuoso come un fatto di terrorismo rosso. Mentre il Manifesto e i marxisti-leninisti di «Servire il popolo» cercano il conforto degli elettori, negli altri settori dell'e-stremismo si ha la netta sensazione di essere all'apice della spirale repressiva ma anche ad una inevitabile svolta nella lotta armata. Su «L'Espresso» del 2 aprile appare l'intervista concessa a Mario Scialoja da Carlo Fioroni, definito ex militante di Potere operaio. Il giornalista racconta, senza fare homi, il rituale dei vari abboccamenti che lo hanno portato al «super-ricercato», si saprà poi che tramite dell'incontro fu Jaroslav Novak, che ritroveremo nella vicenda del 7 aprile e sarà successivamente attivo organizzatore dei dissociati dal partito armato. Alla precisa domanda di Scialoja, Fioroni non smentisce di essere ancora «interno» alle posizioni di Potere operaio anche se afferma di essersi allontanato dall'impegno attivo nel gruppo per ragioni di salute. Il «professorino», intanto, con una lettera al procuratore della Repubblica spiega le ragioni della sua latitanza come frutto di una sostanziale sfiducia nella macchina della giustizia: la sfiducia di un militante rivoluzionario che pur essendo innocente rispetto ai fatti addebitati non vuole essere irretito nelle maglie dello «Stato della strage». La lettera si chiude con la difesa di Potere operaio, secondo Fioroni infatti si vorrebbe tendere una trappola non tanto a lui quanto coinvolgere in una vasta azione di repressione il gruppo e Finterà «sinistra rivoluzionaria».

Per il gruppo dirigente di Potere operaio tutto conferma l'urgenza della militarizzazione. Nella Proposta di documento nazionale sulle scandente del '72, materiale a uso interno, attribuito allo stesso Negri, si legge: «II passaggio della lotta di classe operaia verso la lotta armata per il potere sta verificandosi dentro le masse» il resto ne consegue «è necessario buttare tutto il peso della nostra intelligenza e della nostra forza organizzata sulla previsione materiale di questo passaggio». Sulla stessa linea si muove la Bozza di documento politico elaborata dalla segreteria nazionale di Potere operaio. In che modo realizzare il passaggio alla lotta armata? Su questo discute a lungo l'esecutivo nazionale di Potere operaio, continuano intanto quelle divisioni e contrasti che porteranno alla radicale trasformazione del gruppo con il passaggiodissolvenza nell'Autonomia. Nel frattempo si realizza l'unifica-zione fra Gap e Br. Il dopo elezioni conferma lo spostamento del quadro politico: si forma un governo di centro-destra, per i partiti dell estremismo si è alla vigilia di una svolta autoritaria e repressiva dello stato. Nell'estremismo post-sessantottesco la rottura è ormai un fatto insanabile: nella seconda metà del '72 le Brigate rosse passano alla clandestinità totale, è la fase che va dal 2 maggio, data della perquisizione del «covo» di via Boiardo, al novembre '72 quando riappaiono le azioni firmate. A giugno del '72 cessa le pubblicazioni «Potere operaio» rivista, il nuovo numero sarà quello del novembre '73 contenente gli atti del seminario di Padova del 28 luglio-4 agosto dello stesso anno, il gesto simbolico quanto polemico di chi sta per abbandonare il gruppo senza lasciarne la tradizione teorica. «Potere operaio del lunedì» che continua a uscire si riduce a un bollettino sulla repressione e su qualche situazione di lotta. Sempre a giugno del '72, a Firenze, si svolge il convegno d'orga-nizzazione dei quadri66. Torna con insistenza il tema del partito armato e di massa. Ancora una volta si sottolinea la differenza di impostazione con la linea dei Gap e delle Br. Afferma Franco Piperno: «quello che lo stato teme è l'unione terrorismo-letta di classe, non quello che facciamo saltare». Contro le deviazioni tupamaros, il documento conclusivo del convegno precisa: «ogni riduzione dello scontro violento a questione privata fra rivoluzionari e le forze repressive dello stato è perdente e favorisce il nemico di classe. La violenza deve essere più che mai collegata alla condizione proletaria; in ogni caso i proletari debbono poterla riconoscere e sentire come cosa propria» 67. Potere operaio è praticamente isolato, il «preparare l'insurrezione» si fa ossessivo e al tempo stesso sembra perdere contenuti per smarrirsi nei meandri di imprecisati «livelli occulti», cresce la difficoltà a riprendere contatti di massa. Il suo più pericoloso concorrente è l'Autonomia organizzata, un proliferare di forme fluide d'organizzazione nate ai bordi dei gruppi e alimentate dalla loro stessa crisi. Nell'autunno del '72 diventano sempre più divergenti le posizioni di Negri e Piperno. Il primo guarda con interesse al sorgere dell'auto-nomia mentre il secondo riafferma la necessità del partito contro il «decrepito riemergere di teorizzazioni di dissoluzione dell'organizzazione nell'infinito dell'autonomia» 68.

Attorno ai due leader si formano gruppi concorrenti fra loro; ognuno cerca, servendosi dei militanti più fidati, di conquistare l'egemonia sull'intero gruppo tentandone una conversione complessiva. Negri avverte che l'universo dell'estremismo sta cambiando e nuove tematiche della liberazione e della distruzione circolano nel movimento per rivoli ancora inesplorati. In questo clima maturano i contatti fra Negri e le Br. L'organizzazione terroristica da tempo seguiva con attenzione gli sviluppi di Potere operaio, suoi militanti avevano partecipato come osservatori alla stessa conferenza di Roma. Rapporti vi erano stati con Piperno nella sua qualità di dirigente del Faro. È difficile ormai parlare unitariamente di Potere operaio. Rimane la sigla, il giornale esce a fasi alterne, vari i comportamenti e le prospettive che si agitano nei suoi principali tronconi. Seguendo le cronache e le posizioni del giornale appare evidente che ormai Potere operaio è del tutto dialettico all'escalation terroristica delle Br, anche se permane la divisione sul rapporto azione terroristica e lotta politica di massa. Il giudice Calogero di Padova nella requisitoria del «processo 7 aprile» affermerà che sin dall'inizio del '73 si stabilisce «un accordo tatticostrategico fra Potere operaio e Brigate rosse che costituisce la prima realizzazione del partito armato». Ormai lo storico Potere operaio sta scomparendo, spezzoni organizzativi, singoli leader si ritroveranno in un assetto del tutto nuovo in cui terrorismo brigatista, violenza diffusa dall'auto-nomia, marginalità sociale, crisi del gruppismo formeranno i molti volti del partito armato.

7. Una programmata dissolvenza L'iniziativa politica di Potere operaio, al di là delle autoproclamazioni è del tutto impotente di fronte alle lotte contrattuali '72-'73. La discussione politica è isterilita dal progressivo avvitamento sulle teorie dell'insurrezione e della lotta armata. Il documento elaborato per la conferenza dei quadri del giugno '72 è un ulteriore passo verso la militarizzazione. Pur entrando indirettamente in polemica con le scelte delle Br, non pone discriminanti nei loro confronti e assumendo integralmente la logica dello scontro armato prefigura quel policentrismo che, attraverso le scomposizioni-ricomposizioni dell'autonomia, si verrà sviluppando nella spirale militarismo-movimentismo e sarà il centro progettuale dell'ipotesi del partito armato e troverà il suo apice nella seconda metà degli anni settanta. Entrate definitivamente in crisi le esperienze del Comitato politico dell'Enel, del Collettivo lavoratori studenti del Policlinico di Roma, dell'Assemblea autonoma di Porto Marghera, dell'Alfa di Milano, alla ricerca di una nuova identità si avvia l'inesorabile disgregazione di Potere operaio 69. Si è ormai di fronte all'atomizzazione dell'autonomia: una distruzione dell'estremismo post-sessantottesco che, superata l'illusione del partito alternativo al «revisionismo» e le astratte e ideologiche dispute avanguardia-movimento, riprogetta un processo organizzativo che partendo dalle varie situazioni di lotta le riconduce a unità non per volontà soggettiva ma come coerente sviluppo di una potenzialità antistatuale. Il gruppo veneto, Negri, Vesce, Sbrogiò, ritiene invecchiato il modello partito e lavora per un progetto organizzativo alternativo e in questo senso influenza e orienta le scelte dell'Assemblea autonoma di Porto Marghera e di altre esperienze simili realizzando, in una sorta di contiguità fra crisi e disegno predeterminato, la conversione dei resti del vecchio Potere operaio. Diverso l'atteggiamento del gruppo romano. Piperno e Scalzone rimangono ancora legati a un'ipotesi di rifondazione organizzativa centralizzata. Due anime dell'Autonomia di origine operaista che si scontreranno e si divideranno per poi ricomporsi nella sua più generale geografia e nelle sue compiici interferenze col terrorismo. In un'intervista al settimanale «Panorama» del '78, Piperno non avrà esitazioni ad affermare a proposito dei terroristi che essi portano un patrimonio di «tipo operaista», e Scalzone in un colloquio con un giornalista de «L'Espresso» preciserà: «la guerriglia è una delle facce del movimento iniziato nel '68. Potere operaio ha avuto in questo movimento un ruolo di punta ed è quindi naturale che abbia avuto a che fare con la genesi della guerriglia».

Gli apprendisti stregoni della rivoluzione agitano e costruiscono miti e suggestioni di cui rimangono essi stessi prigionieri; le teorizzazioni sul «partito per l'insurrezione», la progressione verso la militarizzazione gettano i semi di ingovernabili germogli: come sempre chi semina vento raccoglie tempesta, e la tempesta saranno «gli anni di piombo». Potere operaio, stretto nella morsa della clandestinizzazione, si avvia alla sua scelta di autoscioglimento non come liquidazione di un'esperienza ma come una precisa opzione politico-militare. Intanto si intensificano le tappe della costruzione dell'Autonomia: nel novembre '72, i comitati autonomi di Roma e Napoli danno vita al convegno sul-l'Autonomia operaia, seguiranno nell'inverno '73 sempre più fìtti gli appuntamenti organizzativi. Prima ancora di «Controinformazione», la rivista nascerà nel novembre del '73 con il contributo dello stesso Negri, spetta a «Potere operaio» il compito di diffondere le elaborazioni teori-che delle Brigate rosse e aprire attorno alle loro scelte terroristi-che un serrato dibattito con l'area dell'estremismo. Nel marzo '73, il settimanale pubblica una nuova intervista firmata Br, il documento scritto nel gennaio apre quella che è considerata la seconda riflessione teorica del gruppo terroristico. Nel testo si spiegano le ragioni della scelta compiuta: la clandestinità come superamento del gruppismo post-sessantottesco, giudicato come una «realtà del passato»71. L'intervista delle Br offre un ulteriore spunto a un serrato e critico dibattito fra Potere operaio e Lotta continua, quest'ultima, infatti, rovesciando precedenti giudizi attacca il documento di «velleitarismo» e di «confusione ideologica». Dura la replica di Potere operaio: «Chi sono dunque i compagni di Br? Sono compagni proletari che hanno condotto le lotte dell'autunno caldo nelle fabbriche del Nord, e che hanno, attraverso una lunga riflessione teorico-politica scelto la via della clandestinità, nella convinzione che questa sola permetta la costruzione di un' organizzazione autonoma per la lotta armata; è difficile sostenere che esista altra via che quella della clandestinità per costruirla...». Infine legittimando l'organicità delleBr e del terrorismo con la «sinistra di classe» afferma: «Noi crediamo che i compagni delle BR si muovono con piena lealtà all'interno del processo di costruzione della forza organizzata dell'Autonomia operaia» 72. La polemica non accenna a smorzarsi anzi si inasprirà ulteriormente col sequestro Mincuzzi. Per Potere operaio, Lotta continua si è allineata al giudizio del Manifesto, un codismo mascherato dietro quelli che sono sprezzantemente definiti i suoi «opportunismi di stagione». Per il gruppo di Negri, Scalzo-ne, Piperno non ci sono dubbi: anche se vanno corrette alcune impostazioni «giustizialiste» delle Br, esse con le loro azioni cercano: «di dare una risposta in termini di attacco, come pure noi tentiamo, alle lotte dagli operai...»73. Intanto Negri e i suoi più stretti collaboratori, seguono con crescente interesse la formazione dell'autonomia organizzata. Sempre più accesi i contrasti fra le due anime del gruppo, al suo interno ormai si scontrano vere e proprie correnti

organizzate. A nulla serve il convegno di Rosolina, precipitano i tempi per l'autoscioglimento. La principale ragione del dissenso riguarda le forme dell'organizzazione: il leader fondatore del gruppo non condivide la logica da minipartito in cui lo stesso Potere operaio è rimasto invischiato. Ricostruendo l'itinerario teorico-politico di Toni Negri, è evidente che la «dissoluzione» proposta sin dal primo sorgere dei sedimenti dell'Autonomia organizzata meglio corrisponde al suo disegno strategico. Nel progetto dell'autonomia Negri cerca una continuità con le intuizioni del primo Potere operaio veneto-emiliano e, sia pure nel mutarsi dei termini dello scontro di classe, con le ragioni di fondo che erano state alla base della esperienza de «La classe». Dell'inasprirsi del conflitto Negri-Piperno parlerà Carlo Fioroni nelle sue dichiarazioni a proposito dell'incontro, avvenuto nel settembre '72 in Svizzera, col leader padovano. Due progetti di organizzazione si sono fatti strada dentro il gruppo, due diversi modi di intendere il «processo rivoluzionario» e la conseguente militarizzazione 73. «Potere operaio» liquida semplicisticamente «il decrepito riemergere di teorizzazioni di dissoluzione dell'organizzazione nel cattivo infinito dell'autonomia». Ma la pedagogia non convince più, lo sfaldamento è già in atto. Attorno ai nodi del partito, delle forme della lotta armata, mentre incalza l'Autonomia, entrano in molecolare dissoluzione le anime del gruppo. La conferenza di Roma non trova coerente sviluppo, Potere operaio risulta politicamente isolato, mentre in un forte regime di concorrenza interna i vari leader cercano di ritagliarsi aree di consenso. In questo clima, stretto fra autonomia e la pratica militare delle Br, Potere operaio approda alla sua IV conferenza d'organizzazione, che si svolge a Rosolina dal 31 maggio al 3 giugno del '73 ". Un ultimo tentativo di mediazione. Impossibile tornare indietro, il bivio è fra la stanca e ormai inutile sopravvivenza o il salto nel buio: «Ma se da un lato questa crisi evolve in senso opportunista per quanto riguarda Manifesto, Avanguardia operaia e Lotta continua, dall'altro pone le altre formazioni extraparlamentari di fronte a una scelta ben precisa: o seguire, come gli altri la strada della sopravvivenza della propria organizzazione, o fare una scelta di campo, tale da porsi dialetticamente all'interno del movimento stesso senza pretendere di rappresentare la coscienza o peggio presumere di possederne la "linea complessiva" [...] il passaggio determinato che oggi segna il processo di costruzione dell'organizzazione armata dei proletari. Ed è un passaggio appunto che, mette il fucile in spalla agli operai, per garantire in alcuni punti, la loro vittoria sullo Stato» 76. Non si ha il coraggio di ripensare criticamente la propria storia, anzi proprio l'enfatizzazione del proprio ruolo è sfruttata per legittimare l'irreversibilità di una scelta distruttiva ancora più intransigente: «Con le nostre lotte, con la nostra forza abbiamo costretto il capitale a scoprire i denti, a mostrare la struttura che lo sorregge: su questa struttura, con forza, dobbiamo calare il meglio dell' offensiva comunista, come una condanna

definitiva» ". Partecipano al convegno di Rosolina 160 delegati, sono rigorosamente selezionati fra i delegati di sede e quelli convocati con apposito invito nominale. Nessun dissenso sui fini strategici, piuttosto il dibattito si concentra sui tempi e sulle forme della lotta armata. Le Br nel loro «secondo documento teorico» pubblicato su «Potere operaio del lunedì» (11 marzo '73), hanno posto il problema dell'unificazione politica di tutte le avanguardie politico-militari che marciano nella prospettiva insurrezionale, la questione non può rimanere senza risposta. Nella sua relazione al convegno Franco Piperno assume come ineludibile la necessità di imprimere una svolta nel lavoro del gruppo con l'assunzione in quanto partito della «dimensione politicomilitare come dimensione organizzativa». Toni Negri, al contrario, guarda a una forma fluida dell'organizzazione e, rivendicando «l'articolazione dell'avanguardia organizzata in momenti di Potere operaio», ipotizza la «guerra civile» come un processo eversivo di lunga durata da far maturare parallelamente all'intensificarsi delle azioni di lotta armata, direttamente gestite dal motiplicarsi di avanguardie combattenti non imbrigliate in un rigido schema partitico. A dimostrazione dell'ormai avvenuta spaccatura Negri non interviene al convegno, insieme a lui restano in silenzio gli ex de «La classe». La commissione nominata per stilare una conclusione unitaria non riesce a concludere positivamente i suoi lavori. Per ammissione degli stessi partecipanti il dibattito al convegno si svolge in modo nebuloso, ripropone in forma acuta le differenze, riesplodono nuovi e vecchi patriottismi di gruppo, anche se a stragrande maggioranza sembra delinearsi, sia pure in un mare di confusionarismi, il superamento della forma organizzativa del Potere operaio. Ormai le realtà più significative nella storia del gruppo — Porto Marghera, Pordenone — sono state già sconvolte dalla trasmigrazione verso Autonomia. E proseguito con continuità l'abbandono delle militanti; una crisi inarrestabile dopo gli scontri dell'estate '72, quando militanti di potop — sentendosi esclusi — avevano aggredito un convegno separatista di Lotta femminista da sempre vicina alle posizioni salariste di Potere operaio 78. Il 30 giugno l'espulsione di Toni Negri. Il comunicato che appare sul «Potere operaio» così ricostruisce le ragioni del dissenso: «Già da un anno, progressivamente, il percorso di questo compagno aveva cominciato a dividersi dal nostro, sul terreno di indicazioni e valutazioni politiche contrastanti, soprattutto a proposito del modo di confrontarsi con le punte alte dell'auto-nomia operaia e più in generale con tutta quella parte definita da Potere operaio area di partito». E prosegue accusando esplicitamente Negri di aver lavorato a una diversa ipotesi organizzativa: «Nell'ultimo periodo questo argomento s'è aggravato per la diretta responsabilità di questo compagno che si è fatto promotore di iniziative e pratiche a mezzo di organizzazioni e su progetti diversi da quelli di Potere operaio, in questo senso inserendo al nostro interno elementi di confusione, principi di dualismo organizzativo oltre che di errata dirczione politica, i quali non si potevano a lungo tollerare» 79.

Della crisi che attraversa Potere operaio, «L'Espresso» scrive: «Potere operaio settimanale del gruppo omonimo ha ripreso le pubblicazioni dopo la grave crisi, da cui questa formazione extraparlamentare era stata investita dall'inizio della scorsa estate. Dopo i "fatti di Primavalle" in cui la polizia coinvolse i suoi militanti, molti aderenti al gruppo l'avevano abbandonato (o erano stati espulsi) in polemica con chi proponeva la lotta armata e violenta contro il sistema capitalistico. Tra gli espulsi cerano anche Toni Negri, il maggior esponente del gruppo, che proprio in questi giorni ha dato vita, insieme a Pio Baldelli e Gian Battista Lazagna al mensile "Contro-informazione" » 80. A Padova dal 28 luglio al 4 agosto si svolge il seminario di scioglimento e di confluenza dell'area Negri nell' Autonomia, partecipano rappresentanti dei comitati autonomi e militanti che ormai hanno rotto con Potere operaio come Emilio Vesce, Mario Galzigna, Ferruccio Gamdino, Paolo Mander, Augusto Pinzi. I materiali sono stampati in un numero speciale che porta ancora il titolo di «Potere operaio» (finito di stampare nel novembre 1973). Ricominciare da capo non significa tornare indietro, con questo spirito si decide quella che è ambiziosamente definita una «vera e propria rivoluzione culturale nell'ambito della sinistra rivoluzionaria», cioè una dissoluzione della struttura di gruppo funzionale ad una riconversione della propria esperienza e tesa alla riappropriazione dei contenuti e della pratica di una lotta decennale adeguandola al salto in avanti che, si afferma, ha compiuto il movimento rivoluzionario. Non si rinnega un itinerario, anzi se ne riconosce con orgoglio la sua totale validità. «Autonomia operaia e rifiuto del lavoro sono la forma e il contenuto del formidabile salto in avanti che, da piazza dello Statuto a corso Traiano, da via Tibaldi all'll marzo '72, dalle prime azioni di lotta armata al marzo '73» hanno sancito una prima fase della lotta rivoluzionaria. Con le giornate del marzo '73, si è avuto un decisivo e irreversibile salto di qualità. Il riferimento ai primi mesi del '73 è l'elogio indiscriminato del dilagare del sovversivismo, delle prime azioni di terrorismo, del succedersi di manifestazioni di piazza che hanno come unico obiettivo quello di provocare incidenti e sospingere senza via d'uscita il movimento alla resa dei conti militare con lo Stato. Negli anni sessanta «il gatto selvaggio» e la mobilitazione di massa sulle lotte sul salario hanno costituito una «forma superiore della lotta operaia» ora la transizione al comunismo è possibile attraverso il passaggio alla lotta armata gestita dalle avanguardie interne al movimento. Il convegno di Padova determina una nuova fisionomia dell'estremismo e del sovversivismo: il congiungimento fra la molecolarizzazione avanguardistica e le occasioni di movimento dentro cui far germinare la lotta armata, da ciò nascono le strutture operative conseguenti. Negri, insieme ad altri componenti entra a far parte del gruppo redazionale di «Rosso» nuova serie. Il giornale dell'ex gruppo Gramsci diventa lo strumento di coordinamento dell'Autonomia. Le ultime permanenze di Potere operaio non riescono a risolvere la crisi apertasi a Rosalina. Agli inizi del '74 si concluderà definitivamente la storia organizzata di Potere

operaio, i suoi leader, le teorie elaborate lungo quasi un ventennio, confluiranno nella storia dell'Autonomia organizzata e nell' arcipelago delle formazioni armate. Altri militanti si disperderanno nella miriade di gruppi, gruppetti, collettivi. Alcuni rientreranno o entreranno per la prima volta nei partiti storici della sinistra, sarà questo il caso di Franco Piro che s'iscriverà al Psi e di Antonio Romiti che entrerà nel Pci e diventerà uno dei testi chiave del processo 7 aprile. Cessa la pubblicazione «Potere operaio del lunedì». Negli ultimi numeri, partendo dai fatti cileni, aveva insistito sulla necessità strategica della militarizzazione: «La rivoluzione è all'or-dine del giorno», «per i comunisti la guerra civile è una legge, ed è da questo punto di vista che va affrontato il problema della sua preparazione» un unico criterio deve valere «anticipare il nemico sul terreno della guerra civile». Non teoria ma preparazione concreta: «accumulare i fucili e prepararsi alla clandestinità» e ancora: «preordinare ogni azione, ogni articolazione dell'iniziativa a quest'unico fine, vedere l'azione di massa riferita a quest'unico fine, l'azione legale e quella illegale riferita a quest'unico fine, l'iniziativa militare diretta a questo unico fine» M. Sull'ultima pagina di «Potere operaio» del novembre, drammatica e minacciosa parola d'ordine che anticipa i cupi anni di piombo, lo slogan: «mai più senza fucile!».

NOTE 1 E. Pasetto - G. Pupillo, II gruppo «Potere operaio» nelle lotte di Porto Marghera: primavera '66 - primavera 70, «Classe», n. 3 Novembre 1970; Cfr. G. palombarini, «7 Aprile: il processo e la storia», Arsenale cooperativa editrice, 1982, pp. 39-48. 2 L'ultimo numero della rivista è del 1° gennaio 1969 (direttore responsabile: Francesco Tolin; capiredattori locali: Guido Bianchini, Marcello Pergola, Piero Caneti). La raccolta completa di «Potere operaio» (1967-1969) è stata ristampata dalla Cooperativa libreria Calusca di Padova nel 1980. 3 Per la storia del gruppo romano di Potere operaio, cfr. O. Scalzone, «Biennio rosso», Sugarco edizioni, 1988. 4Operai ed elezioni, «Potere operaio», n. 9, 10 maggio 1968. 5 Cfr. «Porto Marghera-Montedison: estate 1968», a cura di Potere operaio, edito dal centro G. Francovich, Libreria Feltrinelli, 1968. 6 Cfr.; M. Cacciari, Problemi teorici e politici dell'operaismo nei nuovi gruppi dal '60 a oggi, in «Operaismo e centralità operaia», Editori Riuniti, 1978; G. Palombarini, II «7 aprile: il processo e la storia», cit. 7 Cfr.: L. Bobbio, «Lotta continua: storia di un'organizzazione rivoluzionaria», Savelli, 1979. 8 Cfr.: R. Luperini, Da Potere operaio a Lotta continua. Note di cronaca e appunti per un bilancio critico, «Nuovo impegno», n. 17-18, gennaio 1970; G. Vettori, «La sinistra extraparlamentare in Italia», Newton Compton Italiana, 1973. 9 Cfr.: R.Luperini, cit. 10Appunti sul lavoro di fabbrica del «Potere operaio», «Nuovo impegno», n. 11, aprile 1968. 11 Cfr.: La scuola e gli studenti, Libreria Feltrinelli, 1968; Su alcune posizioni del movimento studentesco di Torino, «Nuovo impegno», n. 11, cit. 12 «Giovane critica», n. 19, inverno 1968-1969. 13 Cfr.: «Nuovo impegno», n. 14/15, aprile 1969. 14 «Potere operaio», n. 1, 18-25 settembre 1969. 15 ibidem. 16 «Potere operaio», n. 3, 2 ottobre 1969. 17 G. Viale, «Il sessantotto fra rivoluzione e restaurazione». Mazzetta, 1978, p. 64. 18Dirczione operaia delle lotte, «Potere operaio», n. 3, 2 ottobre 1969. 19ibidem. 20 «Potere operaio», n. 6, 23-29 ottobre 1969. 21Torino: provocazione e repressione, «Potere operaio», n. 2, 25 settembre-2 ottobre 1969. 22Fiat: contro il delegato di linea, «Potere operaio» n. 2, 25 settembre-2 ottobre 1969.

23Lotta di fabbrica e lotta sociale, «Potere operaio», n. 3, 2-9 ottobre 1969. 24Dirczione operaia dell'organizzazione proposte dei compagni di Firenze per il coordinamento operaio, «Potere operaio» n. 6, 23-29 ottobre 1969. 25Le nuove/orme di organizzazione operaia, «Potere operaio», n. 7, 29 ottobre-5 novembre 1969. 26Dopo Pisa, Ibidem. 27 «Potere operaio», n. 9, 20-27 novembre 1969. 28I soli assassini sono i padroni, «Potere operaio», n. 10, 27 novembre-3 dicembre 1969. 29Compagni, non rispettiamo la tregua, «Potere operaio» n. 11, 11-19 dicembre 1969. 30ibidem. 31ibidem. 32 «Potere operaio» 7 febbraio 1970, supplemento al n. 11; cfr.: «Linea di massa», n. 4, 1970, dedicato al convegno di Firenze. 33Contro la scuola, «Potere operaio», n. 12, 14-21 febbraio 1970; cfr.: «Linea di massa», n. 3, 1969; Direzione operaia delle lotte studentesche, «Potere operaio», n. 4, 9-16 ottobre 1969. 34Interesse operaio contro lo stato sociale, «Potere operaio», n. 16, 21-27 marzo 1970. 35Compagni, «Potere operaio», n. 19, 18-25 aprile 1970. 36ibidem. 37ibidem. 38 «Potere operaio», n. 31, 15 ottobre 1970. 39 «Potere operaio», n. 31, 15 ottobre 1970. 40Alle avanguardie per il partito, supplemento al n. 36 di «Potere operaio», 1970. 41 Cfr.: «Potere operaio», n. 37, 31 marzo 1971. 42 Cfr.: «Potere operaio», n. 38/39, 17 aprile 1971. 43ibidem. 44 G. Calogero. Sentenza istruttoria del 7 aprile. Cap. V, pp. 770-771. 45ibidem. 46 T. Negri, «Crisi dello Stato piano», Feltrinelli, 1974, p. 61. 47 «Potere operaio», mensile, n. 44, dicembre 1971. 48ibidem. 49ibidem. 50 T. Neghi, «II dominio e il sabotaggio», Feltrinelli, 1978, p. 47. 51Che cos'è Potere operaio, «Potere operaio», mensile, n. 44, dicembre 1971. 52 ibidem. 53ibidem. 54 Cfr.: Alle avanguardie per il Partito, cit.. 55 Cfr.: Su questa nozione di «nuovo estremismo» cfr.: P. Franchi, Note per un'analisi delle componenti politico-culturali dell 'estremismo e del terrorismo, in

B. Bertini, P. Franchi, U. Spagnoli, «Estremismo, Terrorismo, Ordine Democratico», Editori Riuniti, 1978. 56 Che cos'è Potere operaio, cit.. 57 Volantino del 13 dicembre 1971, «Potere operaio», mensile, n. 46, febbraio 1972. 58 G. Calogero, Sentenza istruttoria del 7 aprile. Cap. V, p. 773. 59 Cfr.: G. Palombarini, «7 aprile: II processo e la storia», cit., p.84; G. bocca, «I caso 7 aprile, Toni Negri e la grande inquisizione», Feltrinelli 1980, in particolare pp. 70-86. 60 Cfr.: Documento del febbraio 1972 firmato Militanti Romani del Manifesto proletari dell'Autonomia operaia. E ancora: Documento del marzo 1972 firmato da 12 ex militanti del Collettivo politico Enel in «Autonomia operaia», Savelli, 1976, p. 20 e sgg. 61 «Potere operaio», mensile, n. 47/48, maggio-giugno 1972. 62Un rivoluzionario è caduto, «Potere operaio del lunedì», n. 5, 26 marzo 1972. 63 «Avanguardia operaia», n. 8, 22 aprile '72. 64«Processo Valpreda», 10 marzo 1972. 65 «Potere operaio del lunedì», n. 12, 28 maggio '72. 66Cfr.: «Potere operaio», mensile, n. 49, giugno 1972. 67 «Potere operaio del lunedì», n. 14, 18 giugno 1972. 68 «Potere operaio del lunedì», n. 57, 18 giugno 1973. 69 Cfr. G. Palombarini, «7 aprile: II processo e la storia», cit., pp. 81-103. 70 Cfr.: «Potere operaio del lunedì», novembre 1972 - «Potere operaio del lunedì», gennaio 1973. 71Brigate rosse, gennaio '73, «Potere operaio del lunedì», n. 44, 11 gennaio 1973. 72Chi è senza -peccato, «Potere operaio del lunedì», n. 46, 25 marzo 1973. 73«Potere operaio del lunedì», n. 61, 16 luglio1973. 74 «Potere operaio del lunedì», n. 57, 18 giugno 1973. 75ibidem. 76ibidem. 77ibidem. 78 Cfr.: Lettera di Lotta femminista, ibidem. 79 «Potere operaio del lunedì», n. 61, 16 luglio 1973. 80 «Diario Extraparlamentare», «L'Espresso», 25 novembre 1973. 81 «Potere operaio del lunedì», 5 novembre 1973.