L'Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. Fine della guerra fredda e globalizzazione [1] 8843071769, 9788843071760

Il volume ripercorre la storia italiana degli ultimi trent'anni seguendone le vicende alla luce della fine della Gu

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L'Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. Fine della guerra fredda e globalizzazione [1]
 8843071769, 9788843071760

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Carocci

@ editore

Il volume ripercorre la storia italiana degli ultimi trent'anni seguendone le vi­ cende alla luce della fine della Guerra fredda e della crescente globalizzazione delleconomia. Il focus dei contributi spazia dalla dimensione europea a quella atlantica, a teatri come i Balcani e l'Africa, affrontando i principali temi del rap­ porto tra politica nazionale e contesto internazionale prima e dopo la caduta del Muro di Berlino. Ne emerge un quadro sfaccettato e problematico che evidenzia la difficoltà dell'Italia a intraprendere la strada di una riforma e di una ricolloca­ zione del proprio ruolo negli scenari del mondo globale.

Silvio Pons

è professore ordinario di Storia dell'Europa Orientale all'Università

degli studi di Roma "Tor Vergata':

È direttore della Fondazione Istituto Gramsci.

Ha scritto numerosi saggi dedicati alla· storia della Russia sovietica e del co­ munismo italiano e internazionale. Tra i suoi lavori recenti: Berlinguer e la fine

del comunismo (Einaudi 2006) e La rivoluzione globale. Storia del comunismo . internazionale 1917-1991 (Einaudi 2012).

Adriano Roccucci

è professore ordinario di Storia contemporanea presso il Di­

partimento di Filosofia,

� omunicazione,

Spettacolo dell'Università degli studi

Roma Tre. Si è occupato di crisi dello Stato liberale in Italia e avvento del fasci­ smo e di storia russa del xx secolo, jn particolare dei rapporti tra Stato sovietico e Chiesa ortodossa. Oltre a collaborare con istituti di ricerca italiani, russi, ucrai­ ni e bielorussi, è membro del Consiglio scientifico della rivista "Limes':

Federico Romero insegna presso il Dipartimento di Storia e Civiltà dell'Istituto Universitario Europeo. Sta preparando un libro sull'integrazione dell'Europa nel mondo della globalizzazione post-1968. Tra i suoi lavori più recenti: Storia inter­

nazionale dell'età contemporanea ( Carocci 2012) e Storia della guerrafredda. L'ul­ timo conflitto per l'Europa (Einaudi 2009) che ha ricevuto il Premio s1ssco 2010.

ISBN

978-88-430-7176-0

1111111 l

9 788843 071760

€ 44,00

STUDI STORICI CAROCCI

/ 216

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele Il, 229

00186 Roma, tel o6 42 81 84 17, fax o6 42 74 79 31

Siamo su: http://www. carocci.it http://www.facebook.com/caroccieditore http://www. twitter.com/caroccieditore

L'Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi Volume primo Fine della Guerra fredda e globalizzazione

A cura di Silvio Pons, Adriano Roccucci e Federico Romero

@ Carocci editore

Il volume nasce da ricerche e iniziative svolte da: FONDAZIONE LUIGI EINAUDI AOMA

FONDAZIONE ISTITUTO RAMSCionlus

G

PER STUDI DI POUllCA ED ECONOMIA

Il volume è stato realizzato grazie al contributo del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo.

Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

GBID

DIREZIONE GENERALE PER LE BIBLIOTECHE, GLI ISTITUTI CULTURALI E IL DIRITTO D'AUTORE

lOIS I• edizione, ottobre lOI4 I• ristampa,

ottobre

©copyright 2014 by Carocci editore S.pA., Roma Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino

ISBN 978-88-430-7176-o Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22

1941

633

Parte prima Temi

I.

2. 3· 4· 5·

I.

2. 3·

I.

2. 3· 4· 5· 6.

L' Italia nelle trasformazioni internazionali di fine Novecento di Federico Romero

15

Premessa Il linguaggio della nazione nell' interdipendenza Sotto osservazione Strumenti e illusioni di un "grande paese" Interesse nazionale e dimensioni dell' influenza nell'era globale

15 16 18 24 29

La bipolarità italiana e la fine della Guerra fredda di Silvio Pons

35

Guerra fredda e "seconda modernizzazione" La persistenza della bipolarità interna Dopo la caduta del Muro : la specificità italiana L' Italia e l'integrazione sovranazionale: l'europeizzazione contrastata di Sergio Fabbrini

55

Premessa Governare l' Italia consensuale Governare l' Italia postconsensuale Il governo dei tecnici L' Italia e l'interdipendenza tra gli Stati europei Tra politics e policy

55 57 59 61 64

7

L ' ITA LIA CONT E M P O RANEA DAGLI ANNI OTTANTA A O G G I

I.

2. 3· 4·

L' Italia nel mercato globale e nell' Europa germano-centrica di Valerio Castronovo

71

L' Italia in crisi. Un percorso a spirale che nasce dagli anni Ottanta La globalizzazione e il made in Italy, i punti di forza e quelli di debo­ lezza delle P M I Tra una rigida austerity europea e la nostra mancanza di riforme strut­ turali L'intervento della B C E per frenare gli attacchi speculativi e il rischio del tracollo Bibliografia di riferimento

71

Traiettorie del declino economico italiano di Carlo Fumian I.

2. 3· 4·

I.

2. 3· 4· 5· 6. 7·

I.

2. 3·

74

85

UnfltJo r a global challenge? Qualche passo tra cronaca e storia Chi tira il freno a mano ? Alcuni flash dal presente L'enigma della produttività e il mantra della crescita Conclusioni. Quale globalizzazione ? Bibliografia di riferimento Le interpretazioni del declino economico italiano di Roberto Artoni

1 15

Macroeconomia La struttura produttiva La distribuzione funzionale e personale del reddito La bilancia dei pagamenti I conti pubblici I presupposti culturali Conclusioni

1 15 117 120 122 125 132 133

Molto rumore per nulla: la politica economica in Italia ( 1980-2012) di Guido M Rey

137

Premessa Il dibattito di politica economica Gli eventi e i fatti ( 19 8 1-20 12) 3. 1. Dallo SME a Maastricht (198 1-9l) l J.l. Verso l'euro: l'attesa del benessere (I99l-lOOI) l 3·3· Finalmente l'euro: luci e ombre (loo l-ll)

8

INDICE



Conflitti, accordi e politiche economiche settoriali

155

Conflitti fra rendita e redditi l 4.2. Aspetti micro e macro del settore pubblico l 4·3· Struttura produttiva e politiche settoriali 4.1.



Conclusioni L'agricoltura: dalla marginalità alla globalizzazione di Guido Fabiani

1. 2. 3· 4· S· 6. 7·

Un quadro di trasformazioni globali e convergenti: quattro fattori di contesto Gli anni Ottanta: un periodo di discontinuità nello sviluppo dell'agricoltura italiana Le trasformazioni macroeconomiche dell'economia agricola italiana Un inedito processo di ristrutturazione aziendale Un quadro territorialmente articolato di differenziazioni e squilibri Le funzioni dell'agricoltura contemporanea: un nuovo rapporto cittàcampagna Brevi considerazioni conclusive e alcuni interrogativi

166 170 177 179

Il riscaldamento globale di Saverio Luzzi I.

2. 3· 4· S· 6. 7· 8.

1. 2. 3· 4· s.

Cambiamenti climatici nella storia Andamento altalenante : global cooling o global warming? La crescita verticale del riscaldamento globale negli ultimi trent'anni Gli effetti dell ' inquinamento Decisioni e accordi internazionali The Day after Tomorrow: arriva l'emergenza climatica Pareri e visioni discordanti Conseguenze del riscaldamento globale e scenari prevedibili

189 190 192 194 197 200 20 2 205

Dalla caduta del Muro di Berlino a Tangentopoli: la dimensione internazionale della crisi della Prima Repubblica di Antonio Varsori

209

L' immagine internazionale dell'Italia alla fine di un decennio di espansione 209 La pressione dei mutamenti del contesto internazionale sul governo : 211 la questione della riunificazione tedesca Le crisi nei Balcani 216 L' Italia alla prova del Trattato di Maastricht 219 220 La fine della Prima Repubblica 9

L ' ITA LIA CONT E M P O RANEA DAGLI ANNI OTTANTA A O G G I

I. 2. 3·

I. 2. 3· 4·

Andreotti di nuovo a Palazzo Chigi : la politica estera italiana e il Medio Oriente fino alla Guerra del Golfo ( 1989-90) di Luca Riccardi

223

Il dialogo Israele-OLP Il Libano Tra Israele e Arafat

223 23 1 237

La riscoperta della forza. L' Italia tra missioni di pace, interventi umanitari e ricerca di un nuovo ruolo internazionale di Luciano Tosi

243

Gli anni Ottanta e l'evoluzione della politica estera italiana L' Italia e la sicurezza collettiva dopo la fine della Guerra fredda La crescita dell' impegno militare italiano dopo l' I I settembre 200 1 Conclusioni

243 247 255 259

Parte seconda Teatri L' Italia e le crisi nazionali nei Balcani occidentali alla fine del xx secolo di Massimo Bucare/li I. 2. 3· 4·

I. 2. 3· 4· 5· 6.

Alla difesa dello status quo adriatico e balcanico L' Italia e la disgregazione della Jugoslavia: la fine della politica conservatnce L' Italia e la difficile transizione albanese Di nuovo in guerra nei Balcani: l' Italia e la crisi del Kosovo •

263

265 272 27 5

Gli italiani, le guerre e la pace : dalla crisi degli euro missili alla Seconda guerra in Iraq di Giovanni Mario Ceci e Laura Ciglioni

28 1

Premessa Diversi ma uniti ? Una guerra giusta ? Dilemmi, senso del dovere e divorzi: gli italiani e la "guerra umanitarià' «A New Power in the Streets » Conclusioni

281 282 286 290 293 29 6

IO

INDICE

I.

2. 3· 4· 5· 6.

Il lungo travaglio istituzionale europeo (1992-2012) di Daniela Preda

29 9

Premessa Le prospettive aperte a Maastricht Tra slanci e resistenze Lo slancio riformistico d'inizio secolo La diffusione dell'euroscetticismo Conclusioni

299 300 304 307 311 314

L' Italia e gli allargamenti dell'Europa di Marinella Neri Gualdesi I.

2. 3· 4·

I.

2. 3· 4·

I.

2. 3· 4·

I.

2.

Premessa L'allargamento degli anni Ottanta all' Europa mediterranea: un suc­ cesso a metà per l' Italia La costruzione di una nuova Europa: l'allargamento a Est (2004-07) Fino a dove arriva l'Europa ? Il dibattito sui confini e la questione dell'a­ desione della Turchia

330

Un bilancio per cambiare il paradigma in uso nell'Adriatico di Franco Botta

333

Premessa La nuova politica adriatica e la crisi della Jugoslavia Del ricordare e della nostalgia Sul ruolo della simpatia e della prossimità

333 334 337 342

Il Pentapartito e il processo di pace arabo-israeliano di Matteo Gerlini

34 5

Premessa Italia-Palestina Roma, Tunisi, Tel Aviv La diplomazia del terrore

345 347 350 3 54

L'Africa nell'orizzonte italiano degli anni Ottanta e Novanta di Paolo Borruso

359

Il dilemma del Corno d 'Africa L'Africa australe e il movimento antiapartheid II

L ' ITAL IA CONTEMPORANEA DAG LI ANNI OTTA NTA A O G G I

3· 4· 5·

I.

2. 3· 4· 5· 6. 7· 8.

I.

2. 3· 4· 5·

Un inedito ruolo italiano : il caso del Mozambico L'Africa di Giovanni Paolo n L'Africa in Italia

366 370 373

Geopolitica del papato di Marco Impagliazzo

379

Premessa Chiesa e decolonizzazione Il Concilio e la Pacem in terris I viaggi di Paolo VI L' internazionalizzazione della Curia Lo spirito delle nazioni L' impero americano Carattere italiano e dimensione universale

379 381 383 386 388 389 390 391

L' Italia vista dall'estero (19 80-2010) di Danilo Raponi

393

Premessa L' Italia "anormale": gli anni Ottanta Il tramonto della Prima Repubblica Una nuova era: Berlusconi al potere Conclusioni

393 397 403 407 410

L' Italia vista dalla Repubblica Federale Tedesca (1975-20 10 ) . Appunti per una ncerca di Gabriele D' Ottavio •

1. 2. 3· 4· 5·

Introduzione « Potremo continuare a fare affidamento sugli italiani ? » Un paese opportunista e ripiegato sui problemi interni «La crisi duratura di una democrazia difficile » : un caso di studio Dalla Prima alla Seconda Repubblica: un paese vittima del luogo comune ?

413 415 420 426 429

Indice dei nomi

433

12

Parte prima Temi

L'Italia nelle trasformazioni internazionali di fine Novecento di Federico Romero

I

Premessa

Nel giugno del 1990 l' Italia metteva in scena il suo mondiale di calcio. Spese fuori controllo per opere d' immagine più che di utilità, bandiere al vento e retorica mediatica sulle "notti magiche". Era l'apoteosi finale del decennio in cui la nazione aveva cercato di rappresentarsi come un "grande paese": fiero dei suoi militari in missioni di pace, dell'indipendenza simbolicamente riaffermata a Sigonella e della vittoriosa rincorsa secolare al benessere della Gran Bretagna. Solo tre mesi più tardi, tuttavia, Giulio Andreotti ammoniva i suoi colleghi nella Direzione della DC: «Dob­ biamo scrollarci di dosso la vecchia abitudine di credere che con il debito pubblico si risolvono i problemi. Dopo decenni di questa filosofia siamo con le spalle al mur0 » 1• Lo iato tra l'euforia pubblica di quell 'estate e l'apprensione di Andreotti rimanda anzitutto a tematiche economiche e culturali. Ma il drammatico contrasto tra l'immaginario del paese e i suoi conti sbilenchi illumina anche un aspetto cen­ trale delle relazioni internazionali dell'Italia nella velocissima dinamica della globa­ lizzazione. Non intendo rinvangare il velleitarismo come tratto immutabile degli italiani. Una categoria così essenzialista ha scarsa utilità analitica. Non voglio ignorare il dibattersi dell' Italia di fine Novecento tra sforzi semiriusciti d'affermazione, evoca­ zioni di un'identità tanto ambita quanto irrisolta, frustrazioni autoimposte e auten­ tiche distorsioni cognitive. Ma l' indagine va ancorata a passaggi storici e fattori effettivamente analizzabili, lasciando perdere articoli di fede, autobiografie collettive o una malintesa genetica culturale.

1. Giulio Andreotti alla Direzione nazionale DC, 6 settembre 19 90, citato in A. Varsori, La Cene­ rentola d'Europa? L'Italia e l'integrazione europea dal I947 a oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli (cz) 2010, p. 370.

IS

F EDERIC O ROM ERO 2

Il linguaggio della nazione nell ' interdipendenza

Cominciamo da Sigonella. In quella notte dell' I I ottobre 1985 il governo italiano faceva tre cose assolutamente normali se astratte dal nostro contesto particolare : affermava la propria sovranità giuridica sul territorio; agiva in coerenza con una strategia ormai ben definita di ricerca del dialogo con le componenti moderate dell' OLP e del mondo arabo; impediva il compiersi di un'operazione statunitense extralegale e antitetica agli obiettivi di politica mediterranea dell' Italia. Sei mesi dopo, il governo italiano riaffermava lo stesso indirizzo di politica estera negando a Reagan l'uso di basi italiane per un raid aereo sulla Libia�. I fattori abnormi - se astraiamo ancora dalla nostra specificità - erano altri: che gli USA avessero agito senza consultazione preventiva con l'alleato ; che la vicenda sfociasse in una crisi di governo e, soprattutto, che da essa scaturisse un inedito, amplissimo profluvio di consensi per questa difesa, evidentemente inaspettata, della "dignità'' dell' Italia. Non era sorprendente che il governo si fosse mosso secondo un suo profilo ormai ben consolidato di «lealtà atlantica [ .. ] senza complessi d'inferiorità »\ e lo stesso Craxi ricondusse subito la vicenda a «concreti interessi di pace e concreti interessi economici »4 dell' Italia nel Mediterraneo. Ma la reazione pubblica aveva rivelato qualcosa di più profondo. Partiti di oppo­ sizione e correnti di governo, liberali e marxisti, intellettuali radicali e pacati giuristi si erano ritrovati ad applaudire questo « miracolo » 5 craxiano di tutela della dignità nazionale. Piero Ostellino criticava il «comportamento colonialista » statunitense sul "Corriere della Serà', Alberto Asor Rosa confessava « un fremito [ .. ] di soddisfa­ zione » . Nel fervore mediatico affioravano pure stilemi e metafore di un lontano nazionalismo prebellico che, inabissatosi per quattro decenni, tornava ora a dar voce a un orgoglio patriottico per il quale non sembrava essere disponibile un lessico più consono al tardo Novecento dell' interdipendenza e della sovranazionalità6• Sigonella aveva cioè esposto anche quel rimosso che segna sotterraneamente la vita della repubblica. Dal 1945 in poi l' Italia aveva percorso le tappe di una riacqui­ sizione di sovranità fondata sull'adesione alle norme e gli istituti dell' interdipendenza .

.

2. Sulla crisi di Sigonella cfr. L. Musella, Craxi, Salerno Editrice, Roma 2007, pp. 280-91; E. Di Nolfo (a cura di), La politica estera italiana negli anni Ottanta, Lacaita, Manduria (TA)-Roma-Bari 2003, pp. 93-150; A. Silj (a cura di), L'alleato scomodo. I rapporti fra Roma e Washington nel Mediter­ raneo: Sigonella e Gheddafi, Corbaccio, Milano 1998. 3· È il giudizio di E. Di Nolfo, Relazione introduttiva, in Id. (a cura di), La politica estera italiana negli anni Ottanta, cit., p. u. 4· Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. IX Legislatura, Discussioni, seduta del 4 novembre 1 985, Resoconto stenografico 37 1, p. 32508. S· A. Schiavone, Dopo Sigonella, in "la Repubblica", 23 ottobre 1 985. 6. Cfr. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010, pp. 33-8 da cui sono tratte le citazioni di Ostellino e Asor Rosa.

16

L ' ITALIA NE LLE TRASFO RMAZIONI INTERNAZI ONALI D I FINE NOVEC ENTO

che plasmarono la trasformazione postbellica dell' Europa occidentale7• Essa si basava sul riconoscimento del fatto che la sovranità di potenza apparteneva a un passato ormai non più recuperabile. Le ragioni di contesto erano ovvie e ineludibili: il ridi­ mensionamento delle potenze europee, il coalizzarsi di alleanze intorno all'egemonia bipolare delle due "superpotenze"; il declino degli imperi coloniali; il largo consenso sul rigetto delle dinamiche di guerra civile e ideologica e sulla ricerca della prosperità e della sicurezza economica. L' Italia tuttavia s' inseriva in queste condizioni sistemiche con un surplus di debolezza economica e strutturale. Era una nazione industrializzata e al tempo stesso "arretrata", in cui convivevano sviluppo e sottosviluppo, e che si poneva in chiave duale e ambivalente verso i partner europei, ai quali chiedeva l'apertura dei loro mercati sia ai nostri prodotti sia ai nostri disoccupati, l' invio di capitali come pure il riconoscimento di particolari esenzioni protezionistiche. In chiave economica si ebbe la crescita accelerata che cambiò il volto del paese, in un' interazione positiva con i meccanismi del multilateralismo8• In chiave identitaria e cognitiva, tuttavia, ciò non faceva che rafforzare un senso di perifericità, se non di minorità, tutt 'altro che facile da metabolizzare collettivamente. Soprattutto perché esso s' innervava nel mol­ teplice trauma della guerra perduta, dell'occupazione e di una liberazione in cui il ruolo della Resistenza e quello degli Alleati furono vissuti attraverso un prisma che ne scomponeva meriti e responsabilità a seconda dei filtri culturali dei diversi seg­ menti della società italiana. Il discorso pubblico repubblicano ricompose i frammenti nella sequenza sconfitta-riscatto-rinascita. Tony Judt ci ha mostrato quanto la rigenerazione dell' Europa postbellica si sia fondata anche intorno a silenzi e rimozioni che solo le generazioni successive hanno poi riportato alla luce9• Mentre Ernesto Galli della Loggia dava una risposta fuor­ viante al giusto interrogativo sulla «morte della patria » 10• Il problema non è che l'antifascismo non voleva o non poteva ricostituire un senso d'appartenenza nazio­ nale, ma che ogni forma di patriottismo nazionale avrebbe dovuto rapportarsi aper­ tamente non alla sconfitta - cosa possibile da razionalizzare - quanto alle responsabilità dell' Italia nella guerra. E questo il nostro rimosso che è purtroppo restato tale. Qualsiasi progetto nazional-democratico avrebbe dovuto render conto del ruolo ,

7· Cfr. M. Mazower, J. Reinisch, D. Feldman (eds.), Post-J#lr Reconstruction in Europe: lnterna­ tional Perspectives, I945-I949· Oxford University Press, Oxford 201 1; A. S. Milward et al., The Frontier ofNational Sovereignty: History and Theory, I945-I992, Roucledge, London I993· 8. N. Crafts, G. Toniolo (eds.), Economie Growth in Europe since I945· Cambridge University Press, Cambridge I996; B. J. Eichengreen, The European Economy since I945: Coordinated Capitalism and Beyond, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2007; V. Zamagni, Dalla periforia al centro. La seconda rinascita economica dell'Italia (IS6I-I93I), il Mulino, Bologna I990. 9· T. Judt, Dopoguerra. Come e cambiata l'Europa dal I945 a oggi, Mondadori, Milano 2007. IO. E. Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell'idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari I996. 17

F EDERIC O ROMERO

attivo dell' Italia nella destabilizzazione deli'ordine europeo fino ali' aggressione e alla guerra. Non fu la sconfitta ma questa corresponsabilità a porre il paese fuori dell'arco dei decisori del sistema postbellico e a farne ( insieme alla sua fragile vulnerabilità) un partner accolto o tollerato nella coalizione occidentale, ma pur sempre minore11• La condivisa soppressione della responsabilità portò a leggere la sconfitta come colpa del fascismo o, più diffusamente, come un evento pressoché inesplicabile da tollerare con stoicismo, alla stregua delle catastrofi naturali. Così il nascente ordine atlantico fu visto come opportunità di crescita e trasformazione, ma anche come con­ dizione obbligata e vincolante. Il paese non seppe liberarsi dai paradigmi cognitivi ed emozionali di un nazionalismo di cui non riusciva a spiegarsi non tanto il crollo, quanto il ruolo nefasto per gli italiani, oltre che per le sue vittime. La parte migliore della cultura cattolica cercò ovviamente di trascenderlo in termini irenici e idealizzati, ma buona parte del paese subì il mondo dell'interdipendenza postbellica come una gabbia, un recinto magari utile ma sottilmente iniquo. Il rapporto cardinale con gli Stati Uniti si caricò quindi di una tensione particolare, perché attribuimmo loro la nostra percepita subordinazione e la nostra mancanza d'autonomia postbellica. Senza consapevolezza condivisa di quanto aggressiva e moralmente indifendibile fosse stata la via percorsa in precedenza dall' Italia, i suoi cittadini si sentirono oggetto ben più che soggetto della costruzione dell' interdipendenza occidentale. Da qui il rivolo sotterraneo d'insofferenza, che sarebbe sgorgato a Si go nella, e talune frustranti aspettative mal riposte. Dal presumere che il multilateralismo occi­ dentale offrisse al paese non solo una leva per la crescita ma pure una scorciatoia per trascendere i limiti dell'influenza internazionale dell' Italia e recuperare un rango di potenza europea, alla consuetudine di misurare la nostra politica estera non sulla sua capacità di perseguire specifici interessi quanto di affermare un ruolo autonomo e di alto profilo del paesell.

3

Sotto osservazione

Oltre che in queste radici profonde, l'emotività nazionale che eruppe da Sigonella aveva origine anche in concause più vicine e contingenti, in particolare il bisogno di superare quel coacervo di vulnerabilità e lacerazioni con cui il paese aveva attraversato gli anni Settanta. C 'era il desiderio di archiviare la stagione di violenza politica aper1 1. Cfr. F. Romero, L'Italia nella Guerra fredda, in Gli italiani in guerra, diretto da M. Isnenghi, S · Le armi della Repubblica: dalla Liberazione a oggi, a cura di N. Labanca, UTET, Torino 2009, pp. 39-57· 12. Cfr. A. Brogi, A Qjt estion ofSelf-Esteem: The United States and the Cold u-ar Choices in France and ltaly, I944-I95S, Praeger, Westport ( eT ) 2002; R. J. B. Bosworth, S. Romano (a cura di), La politica estera italiana (IS6o-IgSs), U Mulino, Bologna 1991. 18

L ' ITALIA NE LLE TRASFO RMAZIONI INTERNA ZIONALI DI FINE NOVEC ENTO

tasi con piazza Fontana e culminata con l'omicidio di Aldo Moro, ma operavano anche altri fattori complementari che rimandano alla posizione internazionale dell' Italia. Gli anni di profondo scombussolamento dell'economia politica dell'intero Occi­ dente, tra il 1973 e il 1979, avevano visto l' Italia nel ruolo del malato più febbrile. Nella sconcertante altalena della stagflazione e del disordine monetario, l'ansiogeno trapasso dall'universo sperimentato dell' industrialismo fordista e del consenso keyne­ siano ai futuri paradigmi del mercato globale e della liberalizzazione finanziaria era stato vissuto come orizzonte imperscrutabile di crisi e imponderabilità. Con categorie che spaziavano dal preoccupato all'apocalittico, gli anni Settanta erano stati sofferti come era del disordine. Se ora li ripensiamo come momento formativo di nuovi paradigmi che poi definiranno l'epoca della globalizzazione, va ricordato che questo sguardo prospettico mancava ai contemporanei. Per loro lo « shock del globale » era assai più sconcertante che istruttivo13. L' Italia pativa con sue peculiari fragilità l' impatto del rialzo dei prezzi petroliferi, era costretta a uscire dal "serpente" monetario europeo e svalutare la lira entrando nella fase di più accesa pressione inflazionistica. Governi traballanti, assillati dalla crisi decisionale della DC e dalla traiettoria ascendente del PCI, soffrivano la confusa assenza di solidi punti di riferimento internazionali e avevano strumenti di politica economica svuotati di efficacia. Fu solo tra il 1978 e il 1979, con il varo del Sistema monetario europeo (SME) e la virata statunitense verso gli alti tassi d' interesse, che r indeterminatezza cominciò a diradarsi per essere presto sostituita dai parametri anti-inflattivi del monetarismo14• Nel contesto italiano ciò coincise con la rottura della fugace "solidarietà nazio­ nale" e l'uscita del PCI dalla maggioranza. Ma in quel dissestato quinquennio si era intanto concentrato il momento di più complessa e difficile relazione con gli alleati. La distensione intraeuropea aveva trovato l' Italia in un ruolo che era congeniale tanto ai suoi interessi quanto ai suoi ideali di pacificazione. Essa poteva infatti negoziare l'accesso ad altre fonti energetiche, trovare nuovi mercati d'esportazione, dirimere in chiave collaborativa le relazioni con la Jugoslavia, e partecipare fattivamente all'effi­ cace sforzo di facilitazione degli scambi tra Est e Ovest che avrebbe innescato l'ero­ sione nel blocco socialista15• I3. N. Ferguson et al (eds.), The Shock of the Global: The I970s in Perspective, Belknap Press of Harvard Universicy Press, Cambridge (MA ) 2.010; D. T. Rodgers, Age of Fracture, Harvard University Press, Cambridge ( MA ) 2011; F. Romero, Storia della guerra fredda. L'ultimo conflitto per l'Europa, Einaudi, Torino 2009; P. Chassaigne, Les années I970: Fin d'un monde et origine de notre modernité, Armand Colin, Paris 2008; A. Wirsching (ed.), The I970S and I9Sos as a Turning Point in European History? A Forum, in "Journal of Modern European History", 9, 2011, I, pp. 8-26. I4. Cfr. E. Mourlon-Druol, A Europe Made ofMoney: The Emergence of the European Monetary System, Cornell Universicy Press, Ithaca (NY) 20I2. IS. Cfr. W. Loth (ed.), Overcoming the Cold Uitr: A History ofDétente, I9SO-I99I, Palgrave, New York 200I; A. Romano, From Décente in Europe to European Décence: How the West Shaped the Helsinki escE, Peter Lang, Brussels 2.009. 19

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Nell'intreccio tra distensione e incipiente disordine economico vi erano tuttavia molti motivi di fibrillazione per la fondamentale relazione transadantica, tanto da indurre a costituire un inedito coordinamento della governance occidentale con i vertici del G6/G7 inaugurati nel 1975 a Rambouillet16• Era qui che tornava alla ribalta un'attenzione statunitense ed europea verso la solidità - o meglio la percepita fragi­ lità - di un assetto politico interno che ancorasse stabilmente l' Italia entro lo schie­ ramento occidentale. Ragione per cui il paese era simultaneamente soggetto, ancorché minore, della politica internazionale e suo oggetto. Già dal 1969 gli Stati Uniti avevano seguito con crescente preoccupazione, e maldestri tentativi di rafforzamento a destra della D C , una situazione che interpretavano come passibile di slittare verso « un lento ma inesorabile scivolamento a sinistra deli' Italia » 17• A partire dali' autunno del 1973 i vettori di crisi si moltiplicarono e si intrecciarono, inaugurando un periodo di crescente allarme in cui l' Italia prese a essere vista - e non solo a Washington come « una sorta di grande malato d'Europa » 1 8 • Lo shock petrolifero, seguito dalla svalutazione della lira, precipitò la recessione e aprì una voragine nella bilancia dei pagamenti, sospingendo il governo a chiedere un prestito al Fondo monetario internazionale (FMI). Ma quelle economiche non erano le sole vulnerabilità. La proposta del "compromesso storico" faceva balenare la prospettiva che il sistema politico potesse muovere verso una geometria antitetica alla solidità atlantica. Soprattutto perché la D C pareva sempre meno capace di esercitare la sua funzione cardinale, mentre il referendum sul divorzio evidenziava la sua distanza dalla società italiana. L' interazione tra fragilità economica e inefficacia di un assetto politico segnato dalla palese crisi della DC induceva Washington e i principali alleati europei a temere che l' Italia fosse sull'orlo di un baratro. Per le capitali occidentali il problema italiano aveva una triplice dimensione. Era innanzitutto la spia più allarmante di un'eventuale disaggregazione degli equilibri sociopolitici dell'Europa. La recessione evocava infatti il fantasma degli anni Trenta, con il timore di una spirale incontrollata tra debolezza economica e vulnerabilità politica. A Bonn come a Londra l'analogia storica era espli­ cita: «If world trade declines and financial instability increase, talk of a "crisis of capitalism" is bound to spread [ .. ] . We remember how the economie difficulties of the '3os encouraged the rise of dictators [ . .. ] . The danger is both internai and external» 19• .

1 6. Cfr. F. Romero, S. Pons, Europe between the Superpowers, Ig 6S-IgSI, in A. Varsori, G. Migani (eds.), Europe in the International Arena during the I9JOS: Entering a Diflerent World, Peter Lang, Brussels 201 1, pp. 85-97; M. Schulz, T. A. Schwartz (eds.), The Strained Alliance: us-European Relations from Nixon to Carter, Cambridge University Press, New York 2009; H. James, Rambouillet, I5 novembre I9J5.' la globalizzazione dell'economia, il Mulino, Bologna 1999. 17. L. Cominelli, Gli Stati Uniti e la crisi italiana degli anni Settanta (Ig 6S-IgJ6), tesi di dottorato presso l' Istituto italiano di Scienze umane, 201 1, p. 157. 1 8. Varsori, La Cenerentola d'Europa?, cit., p. 288. 19. The Economie Outlook: Consequencesfor Politica! Stability, Briefby the FCO, 6ch November 197 5, in National Archives of che United Kingdom, CAB 133/ 459· Cfr. anche H. Schmidt, Men and Powers: A Politica! Retrospective, Random House, New York 1989, p. 174. 20

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In secondo luogo, la situazione italiana metteva in rilievo quanto la distensione, benché concepita a Washington e Mosca come strategia di stabilizzazione per cementare la coesione dei due blocchi, avesse in effetti la conseguenza di allentare la disciplina bipolare e aprire prospettive di parziale autonomizzazione per vari soggetti2.0• Ciò poteva essere positivo per la diplomazia intraeuropea più dinamica che stava a cuore alla Ger­ mania e alla CEE, ma l' ipotesi che in Italia ciò potesse tradursi in un ingresso del PCI al governo risultava indigesta a tutti. A inquietare non era tanto la vicinanza o meno del PCI a Mosca, che pochi ormai ritenevano preoccupante, quanto il rischio di una graduale neutralizzazione del paese, con una strisciante disarticolazione del fronte sud della NATO . Il terzo ordine di timori era di carattere regionale. La crisi italiana era letta entro l'arco d' instabilità che toccava l' intera sponda mediterranea dell'Europa. L'incerta transizione alla democrazia nella Grecia appena liberata dai colonnelli, l'ancor impre­ vedibile destino della "rivoluzione dei garofani" in Portogallo e la fine che tutti sapevano imminente ( ma ancora imperscrutabile) del franchismo in Spagna ingigan­ tivano le potenziali conseguenze di un avvitarsi della vicenda italiana che portasse il PCI al governo. Il timore di una concatenazione di eventi, se non addirittura di un vero e proprio "contagio", era un'ulteriore preoccupazione, a cui naturalmente con­ tribuiva anche l' iniziativa berlingueriana di un dialogo tra i partiti "eurocomunisti"2.1• Per questo tra il 1974 e il 1976 l' Italia fu sottoposta a una vigilanza continua da parte dei governi di Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti, che si coordina­ rono per modulare interventi di sostegno all'economia italiana e pressioni sulle forze di governo affinché queste erigessero argini efficaci contro la disgregazione e il temuto scivolamento verso l ' ingresso del P C I al governo. E in questa chiave di tutela occidentale sulla stabilità del paese che va letto, in primo luogo, il prestito tedesco alla Banca d' Italia nel 1974. Con la Casa Bianca in crisi d'autorità per lo scandalo Water­ gate, i tre grandi euro-occidentali assumevano un ruolo sempre più attivo, ancorché cauto e riservato, di monitoraggio e di intervento stabilizzatore. Fu la crisi portoghese a disegnare un vero e proprio modello operativo. Scom­ mettendo su una stabilizzazione centrista imperniata sui socialisti di Soares - cui fornirono aiuti economici e sostegno politico - Germania, Francia e Gran Bretagna s' imposero su Kissinger, scongiurando la sua ipotesi più radicale d' isolamento di un Portogallo quasi dato per perso. Mostrarono così che l'Europa occidentale poteva esercitare una decisiva capacità d'attrazione e di condizionamento in chiave di sta­ bilizzazione occidentale e democratica. Non fu sostanzialmente diverso il ruolo giocato nel contesto greco e poco più tardi in Spagna, dove la CEE, il governo di '

20. Cfr. M. Del Pero, Henry Kissinger e l'ascesa dei neoconservatori, Laterza, Roma-Bari 2006, e il forum Détente and Its Legacy, in "Cold War History", VIII, 2008, 4· 2I. Cfr. M. Del Pero, Gli Stati Uniti e l'anomalia italiana, in P. Craveri, A. Varsori (a cura di), L'Italia nella costruzione europea. Un bilancio storico (I957-2007), FrancoAngeli, Milano 2009, pp. 4I9-30; Varsori, La Cenerentola d'Europa?, cit., pp. 29I-9; S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006. 21

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Bonn e la socialdemocrazia tedesca ebbero un ruolo di primo piano nel materializzare un sostegno europeo alla transizione democratican. Nel caso dell' Italia, l'allarme divenne intenso dopo il successo del PCI alle elezioni amministrative del 1975. Si moltiplicarono i moniti euroamericani affinché la DC e i partiti di governo prendessero provvedimenti tali da riconquistare la fiducia dell'eletto­ rato. A fine luglio i capi di governo di Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti decisero di istituire incontri regolari dei loro ministri degli Esteri, e nei mesi successivi questi discussero a più riprese del Portogallo e dell' Italia. Nel paese lusitano la strategia europea iniziava a ottenere riscontri positivi e di lì a poco anche la Casa Bianca si con­ vinse che l'azione degli europei poteva essere la più consona a difendere gli interessi occidentalF3• Kissinger abbandonò quindi l'idea d'interferire apertamente in Italia con moniti pubblici, e acconsentì all'opzione europea di un'azione riservata di cauta pres­ sione e persuasione sugli interlocutori italiani. I quattro, insomma, convergevano sull'idea di operare per una « Stabilizzazione concertata » l4 del paese. li panorama divenne ancor più cupo nei primi mesi del 1976, quando le persistenti difficoltà econo­ miche dell'Italia e lo scandalo Lockheed proiettarono l'immagine di una DC ormai quasi in ginocchio, suscitando presagi quanto mai preoccupanti per le imminenti elezioni politiche. Al vertice del G7 di Portorico i quattro organizzarono un incontro a latere, riservato, in cui il cancelliere Schmidt fece prevalere l'ipotesi di usare l' incentivo di prestiti economici per indurre l' Italia a nuove politiche di stabilizzazione, magari chie­ dendo a Roma di firmare impegni precisi e vincolantil5• Il governo italiano partecipava dunque a pieno titolo al vertice G7, quale soggetto della collaborazione occidentale sui problemi economici mondiali, ma era simultaneamente oggetto di discussione confi­ denziale e pressioni da parte dei suoi quattro maggiori alleati riuniti nella stanza accanto. La ricetta non era solo quella scontata di tenere i comunisti fuori dal governo, ma di intervenire sui mali più radicati della governance del paese. Si chiedeva « cur­ tailment of deficit financing, [ .. ] reduction of social inequalities, more equitable taxation policies » ma anche « to reduce tax evasi o n, reorganize certain public ser­ vices and [ .. ] improve the public personnel system at all levels » l6• La tenuta della DC alle elezioni e la successiva ascesa di Bettino Craxi (che ispirava fiducia ai social­ democratici tedeschi e britannici) alleviarono temporaneamente la preoccupazione. .

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22. Cfr. M. Del Pero et al., Democrazie. L 'Europa meridionale e lafine delle dittature, Le Monnier, Firenze 2010. 23. Cfr. us and Allied Security Policy in Southern Europe, 15ch December 1975, in Foreign Relations of the United States (FRUS) I909-I976, xxx. Greece, Cyprus, Turkey, http :/ /history.state.gov/historical documents/frus i96 9-76V3o/d56. 24. Cominelli, Gli Stati Uniti e la crisi italiana, cit., p. 341. 25. Discussion between the Foreign Ministers of the us, UK, France and Germany over Lunch at the Dorado Beach Hotel (Puerto Rico) on 2S fune, 29ch June 1976, in National Archives of the United Kingdom, FCO 33/2950. 26. Agreed Quadripartite Paper, s.d. [8 luglio 1 976], in National Archives of the United Kingdom, PREM 16/97 8. 22

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Soprattutto, il varo del governo Andreotti della "non sfiducià', con un programma di risanamento e austerità, sembrò indicare la tanto attesa svolta sul piano della politica economica. All' inizio del 1977 la manovra fu aiutata, e legittimata, da prestiti concessi sia dal FMI che dalla CEE2.7• Il coordinamento a quattro aveva funzionato nel delineare il perimetro delle opzioni perseguibili a livello europeo - austerità fiscale e lotta all' inflazione - e presumibilmente nell' incoraggiare e incentivare Andreotti. Sul finire del 1977, una mozione parlamentare unitaria dei partiti della solidarietà nazionale vedeva il PCI convergere sulla riaffermazione dell' integrazione europea e della solidarietà atlantica, inserendo una sorta di « bipartisanship implicita » 2.8 a fon­ damento della politica estera della repubblica. Se gli USA reiteravano la propria preclusione a una partecipazione del PCI al governo2.9, la situazione italiana appariva ormai meno drammatica agli europei, visto che il governo sembrava avviato su una strada di risanamento economico e irrobustimento politico. Un anno più tardi, l' in­ gresso dell' Italia nello SME e la successiva uscita del PCI dalla maggioranza segnala­ vano la definitiva fuoriuscita del paese dalla condizione di vulnerabilità che tanto aveva preoccupato gli alleati. Era proprio questa, del resto, la motivazione principale che ispirò quella scelta assai controversa. Oltre a fornire un vincolo europeo in favore dell'austerità finanziaria, l'adesione allo SME rispondeva all' intento di "europeizza­ zione" dell' Italia e di riconferma della sua salda collocazione occidentale30• Ad archiviare anche simbolicamente la stagione dell' Italia quale "malata" dell'Oc­ cidente provvedeva infine la decisione sugli euromissili. Scottato dall'esclusione dal vertice dei soliti quattro a Guadalupa - dove nel gennaio del 1979 essi decisero che la NATO avrebbe risposto agli ss-2o sovietici con una nuova generazione di propri missili di teatro - il governo italiano decise di cogliere l'occasione per affermare un suo ruolo determinante entro l 'Alleanza occidentale. La disponibilità italiana ad accogliere i missili poteva infatti risultare decisiva per l'intera strategia della NATO. Come Schmidt, anche Cossiga, Pertini e Craxi ritenevano che quel poco che rima­ neva della distensione potesse essere salvaguardato solo se veniva mantenuto l'equi­ librio militare tra le alleanze. E l'occasione per riqualificarsi in ambito occidentale era troppo ghiotta. Il governo scelse perciò di accogliere i missili in Italia, e vinse il relativo scontro parlamentare il 6 dicembre 197931• 27. Prime Minister's Visit to Paris {u-12 November 1976): Italy, 4t h November I976, in National Archives of che United Kingdom, FCO 33/2944; R. Gualtieri, L'Italia dal 1943 al 1992. DC e PCI nella storia della Repubblica, Carocci, Roma 2006, p. I90. 28. C. M. Santoro, La politica estera di una media potenza. L'Italia dall'Unita ad oggi, il Mulino, Bologna I99I, p. 207. 29. Cfr. O. Nj0lscad, The Carter Administration and Italy: Keeping the Communists Out ofPower Without Interfering, in "Journal of Cold War Studies", 4, 2002, 3, pp. s 6-94. 30. Cfr. R. Gualtieri, L'impatto di Reagan, in S. Colarizi et aL (a cura di) , Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004. 3 I. Cfr. L. Nuti, La sfula nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche, 1945-1991, il Mulino, Bologna 2007, pp. 347-93.

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Strumenti e illusioni di un "grande paese"

Chiusa la parentesi della solidarietà nazionale, si apriva la stagione del Pentapartito in cui Craxi avrebbe avuto una posizione cardinale, con Andreotti continuativamente alla guida del ministero degli Esteri. La politica estera costituì uno dei terreni carat­ terizzanti di quella decennale esperienza politica, ma le scelte per lo SME e gli euro­ missili non furono i soli indicatori del superamento della condizione di debolezza sofferta dal paese. La parabola del terrorismo entrava infatti nella sua fase discendente ed esso cessava di minacciare il futuro della repubblica. La dinamica economica migliorava e si apriva una fase di crescita sostenuta. L' Italia manteneva un surplus d' inflazione e di disoccupazione rispetto ai suoi principali partner e concorrenti, ma il suo PIL crebbe tra il 1979 e il 1989 alla media annua del 2,5 %, superiore a quella dei paesi OCSE (2,3%). Sarebbe stato l'ultimo periodo dell' intera epoca postbellica in cui l'economia italiana accorciava ulteriormente le distanze dai paesi più ricchPl. La percezione del cambiamento impiegò qualche tempo a farsi palese e a trasfor­ marsi in diffuso ottimismo, ma già all' inizio degli anni Ottanta divenne chiaro che lo scenario internazionale stava mutando rapidamente. Le vittorie elettorali di Mar­ garet Thatcher e Ronald Reagan sancivano l'ascesa politica della nuova dottrina anti-inflattiva e !iberista. L'emergere delle "Tigri asiatiche" forniva una prima indi­ cazione di quella globalizzazione manifatturiera e commerciale che da lì a poco sarebbe divenuta prorompente. E la rapida moltiplicazione della circolazione dei capitali su scala mondiale, in condizioni di crescente liberalizzazione, prospettava la necessità che ogni economia si orientasse ad attrarre gli investimenti internazionali. Il tramonto della distensione bipolare si accompagnava a rinnovati timori per il pericolo nucleare, che si tradussero nelle grandi mobilitazioni collettive contro il dispiegamento degli euromissili33• Se riecheggiava la grammatica della Guerra fredda, quasi tutti i vettori di mutamento rivelavano viceversa un deciso cambio di registro, evidenziando tanti fattori d'indebolimento dell' influenza sovietica e disarticolazione del suo sistema di alleanze. L' invasione dell'Afghanistan screditava Mosca nel Terzo mondo e mobilitava una parte consistente del mondo islamico contro l' uRSS. La Cina era ormai saldamente installata nel fronte antisovietico e iniziava la sua marcia verso il capitalismo, dando un colpo fatale alla già flebile, residua attrattiva del modello comunista. L'insorgere di Solidarnosé in Polonia evidenziava un'inedita impotenza del dominio sovietico, comunicava la bancarotta sociale e culturale del blocco socialista, e alludeva a prospettive - ancora confuse ma non più impensabili -

32. OECD, Economie Outlook: Historical Statistics I960-I9S9, OECD, Paris 1991. 33· Cfr. L. S. Wittner, Confronting the Bomb: A Short History of the World Nuclear Disarmament Movement, Stanford University Press, Stanford ( CA ) 2009.

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di una sua disgregazione34• Infine la cultura dei diritti umani riuniva diverse famiglie politiche - liberali, cristiane e socialiste - in una critica antitotalitaria la cui nuova egemonia faceva da contrappunto alla crisi verticale del marxismo35• Nessuno poteva ancora immaginare la fine della Guerra fredda, ma era chiaramente percepibile quanto lo scenario internazionale fosse divenuto mobile e mutevole, con un inedito m ix di potenziali tensioni (che esigevano cautela) ma anche di opportunità per un paese come l' Italia che voleva lasciarsi alle spalle la condizione di minorità patita in precedenza36• Alcune direttrici erano già chiare. Spiccava in primo luogo l' idea di consolidare l' impegno dell' Italia entro l'Alleanza atlantica per una politica non tanto di anta­ gonismo verso l' uRSS, quanto di fermo bilanciamento militare congiunto a nego­ ziati per una coesistenza il più possibile pacifica. La fermezza si esplicò nella determinazione ad andare avanti con l'effettivo dislocamento degli euromissili nel 1983, mentre il desiderio di intensificare il più possibile i contatti e gli scambi con l' Est sospinse a finanziare un nuovo gasdotto siberiano a dispetto della forte oppo­ sizione degli Stati Uniti. L' Italia e gli altri paesi europei vollero cioè bilanciare il proprio impegno per la coesione dell'Alleanza atlantica con l'indipendenza della loro azione per la distensione europea, che non intendevano compromettere. La condizione necessaria per questo esercizio di equilibrio era una decente coopera­ zione entro la C E , che costituiva il secondo ambito cruciale per l' Italia. L'adesione allo SME era stata l'utile premessa per dare credibilità alla voce del paese, oltre che per ancorare la sua politica economica a parametri di stabilità. L'acquisizione di una certa autorevolezza crebbe quanto più l'economia italiana cresceva di buon ritmo e il suo sistema politico emanava un' inedita impressione di solidità di cui Craxi seppe farsi emblema. Non di meno, un bilancio del decennio pare segnato da luci e ombre. Il governo italiano contribuì ad accelerare l' ingresso di Spagna e Portogallo nella CE, anche se ciò non si tradusse poi in quel riequilibrio in senso mediterraneo cui Roma affidava la speranza di una propria accresciuta influenza. Esso ebbe poi un ruolo cospicuo nell'assicurare, al Consiglio europeo di Milano del giugno 198s, il varo della Confe­ renza intergovernativa che avrebbe portato ali 'A tto unico, un passo cruciale verso la formazione della U E. La successiva marcia verso l' Unione e il mercato unico, tuttavia, fu scandita ben più significativamente dalle scelte del duo franco-tedesco, e dai suoi 34· Cfr. S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale, I9I7-I99I, Einaudi, Torino 20I2, cap. 6 ; A. Paczkowski, M. Byrne (eds.), From Solidarity to Martial Law, Centrai European University Press, Budapest 2007 ; V. Zubok, A Fai/ed Empire: The Soviet Union in the Cold Jtarfrom Stalin to Gorbachev, University of North Carolina Press, Chapel Hill (Ne) 2007, pp. 265-70. 35· S. Moyn, The Last Utopia: Human Rights in History, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge ( MA) 20 IO. 36. Cfr. Romero, Storia della guerrafredda, cit., capp. s e 6, e i saggi di M. P. Leffier, O. A. Westad (eds.), The Cambridge History ofthe Cold Jtar, Cambridge University Press, Cambridge 20IO, vol. 111.

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negoziati con la Gran Bretagna, che non dall ' Italia. Né fu d'aiuto la scelta di rompere la solidarietà comunitaria, in occasione della guerra delle Falkland nel 1982., in nome di legami bilaterali con l'Argentina che, oltre tutto, tradivano i principi essenziali della politica estera italiana: sovranità, mediazione dei conflitti, diritti umani. Un ulteriore terreno di maggior attivismo dell' Italia tentava di far leva su aspi­ razioni ideali largamente condivise per elevare il profilo internazionale della repub­ blica, pro iettarne l'immagine di promotore dei diritti umani e di una maggiore equità globale e, simultaneamente, estendere la sua penetrazione commerciale. Craxi posi­ zionava il suo partito e il governo nel variegato campo di forze impegnate in cam­ pagne per il rispetto dei diritti umani negli Stati socialisti dell' Est non meno che nei paesi dell 'A merica Centrale e Latina, per il riconoscimento dell'indipendenza pale­ stinese, per la lotta alla fame e alla povertà su scala globale. Non c 'era solo l'ambizione di elevare la legittimità morale dell ' Italia e delineare un' idea estensiva di pace, legata a una maggiore giustizia internazionale. Il governo moltiplicava infatti le risorse dedicate alla cooperazione allo sviluppo, concentrandole in aree di particolare inte­ resse in Africa e nel Mediterraneo. Essa serviva ovviamente a promuovere la crescita economica nelle aree riceventi, ma mirava anche a estendere l'attività delle imprese italiane, sostenendone una maggiore internazionalizzazione, e a posizionare l' Italia tra i paesi capaci di esercitare influenza su larga scala attraverso una rete di aiuti, crediti e collaborazioni tecniche37, Infine, il desiderio di lasciarsi alle spalle gli anni della fragilità e della quasi tutela esterna per riacquisire una voce autorevole nei consessi multilaterali, oltre che di accrescere le opportunità commerciali, si focalizzava sull'area del Mediterraneo e del Medio Oriente, dove s'immaginò un ruolo più attivo e autonomo del paese. A spin­ gere in tal senso non c'erano solo una logica geopolitica e una lunga tradizione. Il Medio Oriente conosceva una moltiplicazione dei conflitti, iniziava a gettare l'ombra lunga del fondamentalismo dopo la rivoluzione iraniana e proiettava sul Mediter­ raneo pulsioni d'instabilità che apparivano pericolose. Esse stimolavano tra gli occi­ dentali, e gli Stati Uniti in primo luogo, la tentazione a interventi diplomatici e, se il caso, anche militari che prevenissero un'ulteriore disarticolazione. L' Italia vide l'opportunità di proporsi come agente di stabilizzazione e pacificazione con il duplice vantaggio di estendere la propria influenza in un'area d'immediato interesse e rita­ gliarsi quindi un ruolo più preminente nel consesso occidentale. Riecheggiava qui la vecchia illusione nazionalista del primato mediterraneo e la successiva politica neo­ atlantica di fine anni Cinquanta38. Ma emergevano anche accenti nuovi e soprattutto

37· Cfr. P. Isernia, La cooperazione allo sviluppo, il Mulino, Bologna 1995. Cfr. inoltre V. Lomellini, L'appuntamento mancato. La sinistra italiana e il dissenso nei regimi comunisti (I9 6S-I9S9), Le Monnier, Firenze 2010. 3 8. Cfr. A. Brogi, L'Italia e l'egemonia americana nel Mediterraneo, La Nuova Italia, Firenze 1996; E. Calandri, Il Mediterraneo e la difèsa dell 'Occidente I947-I9S0, n Maestrale, Firenze 1997· 26

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una determinazione - inedita in epoca repubblicana - a usare lo strumento militare quale veicolo importante, se non primario, della propria proiezione internazionale. Per un verso, infatti, le principali culture politiche del paese e buona parte del suo circuito mediatico avevano ormai realizzato una certa convergenza intorno a un solidarismo emozionale che congiungeva l'alleviamento delle iniquità sofferte dal Sud del mondo a degli auspicati scopi etici e ideali della politica estera italiana ed europea. In ambito mediterraneo spiccava l' irriso ha questione palestinese, una cui eventuale soluzione concordava tanto con i principi quanto con specifici interessi dell' Italia: dalla riduzione del rischio terroristico nell'area all' irro bustimento dei regimi arabi moderati che erano gli interlocutori più ovvi per Roma. D 'altra parte la percezione di una maggiore instabilità induceva non solo l' Italia ma tutta la NATO a vedere nel Mediterraneo un nuovo "fronte" nel quale rafforzare strumenti di protezione mili­ tare. La pressione dell'Alleanza per un ammodernamento dell'apparato militare s' intrecciava con quella delle forze armate italiane (in particolare la marina), in cerca non solo di fondi ma di un ruolo più attivo, efficace, mobile e visibile39• I tecnici della politica estera collegavano questi diversi filoni nell' idea guida che l' Italia, assumendo un profilo più robusto e incisivo in questo nuovo fronte meri­ dionale dell'Alleanza, potesse proiettare maggiore influenza in Nord Africa e Medio Oriente, e quindi usare tale leva per accrescere il proprio peso negli ambiti multila­ terali essenziali: la C E e soprattutto la NAT O . Era un modello astrattamente razionale di politica estera, calibrato sulla mutevole situazione regionale. Esso offriva alla politica un triplo vantaggio. In primo luogo quello di irrobustire la percezione dell' Italia quale paese affidabile, capace di assumersi responsabilità d'interesse collet­ tivo per l'Alleanza e la comunità internazionale. In secondo luogo quello di colorire tale responsabilità di una valenza più esplicitamente nazionale, facendo dell ' Italia non solo un partner affidabile ma un attore in certa misura autonomo e propositivo. Infine, il modello poteva essere avvolto nei panni - talora genuini, talaltra di pura facciata - della politica di stabilizzazione come missione di pace con scopi umanitari. Una politica più attiva nel Mediterraneo concretava quindi bene lo spirito e l'ambizione del Pentapartito craxiano, che intendeva ritagliarsi un ruolo più incisivo nella rete di alleanze e interdipendenze in cui l' Italia operava. Iniziava così la pratica dell 'invio di missioni militari insieme ad altre forze occidentali o internazionali con compiti di interposizione e stabilizzazione: nel Sinai, poi a Beirut, nel Mar Rosso, nel Golfo Persico. Sotto il profilo delle relazioni internazionali quella pratica confi­ gurava una visione dell' Italia come "media potenza" che contribuiva attivamente agli scopi delle alleanze e delle comunità in cui essa era inserita - qualche anno più tardi si sarebbe detto alla governance internazionale -, accumulando così autorevolezza e influenza da utilizzare anche per obiettivi nazionali. In chiave domestica, il modello 39· Cfr. D. Sorrenti, La Guerrafredda nel Mediterraneo. La politica estera italiana dal compromesso storico agli euromissili, Edizioni associate, Roma 2008. 27

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forniva risorse inedite per coltivare l'autorappresentazione dell' Italia come un "grande paese" capace di tornare a contare, rimediando a quella percezione pubblica d'iniqua inferiorità patita negli anni Settanta40• La reazione pubblica all'episodio di Sigonella corroborava questo sforzo di evoca­ zione di nuove forme d' identificazione patriottica, evidenziandone una discreta capacità di mobilitazione culturale. Due anni più tardi, la revisione del calcolo del PIL, con una sua rivalutazione del 12%, consentiva di proclamare il sorpasso dell'economia italiana su quella britannica, coronando così una sorta di rinascita dell' Italia a un rango inter­ nazionale di primo piano enfatizzato dal titolo di "quinta potenza economica mondiale". Era l'apice, ma anche il momento conclusivo, di un ciclo di crescita non solo del PIL, ma dei consumi, del benessere e dell'ottimismo che molti hanno additato come una svolta profonda della nostra storia: una sorta di mutazione antropologica in cui la società italiana si lasciava alle spalle forme sociali e assunti culturali dell' industria­ lismo fordista, sostituito dall ' impresa e la proprietà diffusa; si autorappresentava come indistinto universo di ceti medi urbani addetti ai servizi con il mondo operaio relegato al passato; e sposava un nuovo "ethos dominante" dell 'ascesa individuale in cui gli italiani potevano finalmente immaginarsi, e celebrarsi, compiutamente europei, occidentali e ( post) moderni4'. C 'era in tutto questo, tuttavia, non poco di contraddittorio e d' illusorio. Il rap­ porto virtuoso con la globalizzazione commerciale si estrinsecava nel boom dell'ex­ port sia in Europa sia in America, facilitato anche dall'alta valutazione del dollaro. Ma i tentativi di trasformare i pochi grandi gruppi economici in vere e proprie multinazionali fallivano, e la scalata tecnologica della struttura produttiva restava assai limitata. Lo Stato moltiplicava i suoi sussidi alle imprese ma la capacità di attrarre investimenti dali'estero diminuiva inesorabilmente, inficiando l' internazionalizza­ zione e la competitività del tessuto produttivo. Nell'Europa che si andava ridefinendo intorno al progetto del grande mercato unico - iniettando dosi di neoliberismo competitivo in un'area economica ormai pensata su scala continentale - l' Italia pativa la modalità intergovernativa più che federale perché le sue minori risorse, politiche e sistemiche non meno che economiche, la mantenevano ai margini del nocciolo dei paesi decisivi. L' Italia si auto rappresentava come entusiasticamente europea ma la sua capacità di adeguamento strutturale, amministrativo, giuridico e socioculturale al nuovo regime competitivo e alla disciplina finanziaria che esso imponeva era scarsis­ sima, tanto che già nel 1992 essa dovette traumaticamente uscire dallo SME4l. 40. Sul concetto di media potenza, cfr. Santoro, La politica estera di una media potenza, cit. Sul suo ruolo nell 'universo culturale del craxismo, cfr. E. Di Nolfo, La Guerrafredda e l'Italia (I94I-I9S9), Polistampa, Firenze 2010, pp. 5 83-9. 41. Cfr. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni Ottanta, cit., p. 14. Analoga, ma di segno inverso, la lettura di G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell'Italia attuale, Donzelli, Roma 2009. 42. Cfr. A. Varsori, L 'Italia e la fine della guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (I9S9-I992), il Mulino, Bologna 2013, cap. 7· Cfr. inoltre R. Ranieri, L'industria italiana e l'integrazione

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Né il paese faceva molto meglio su altri terreni, meno facilmente misurabili e tuttavia cruciali, di rapporto con l'apertura globale non solo dei mercati ma delle società. Il CEN S I S segnalava che persino i nuovi ceti medi più emblematici del periodo (etichettati quali yuppies) sfoggiavano ico ne e consumi molto americani ma erano tuttavia ben poco propensi a globalizzarsi: restii alla mobilità, rimanevano legati alla famiglia e al luogo d 'origine, non parlavano altre lingue e avevano scarso desiderio di lavorare ali'estero. In generale, le risorse culturali e linguistiche del paese non si adeguavano che in minima parte alle pur percepite esigenze d'internazionalizzazione. I media, e soprattutto l'ormai trionfante televisione commerciale, costruivano un universo di segni superficialmente aperto al consumo al pari di quelli dell'intero Occidente, ma in effetti fortemente introverso, incardinato sulla celebrazione del made in Italy e su linguaggi d' intrattenimento nazional-popolari se non vernacolari. Molti osservatori, infine, sottolineavano quanto la mutazione antropologica fosse segnata «da un' incredibile accettazione di comportamenti a vario titolo illeciti » , fattori anche questi di divaricazione e aporia rispetto ai circuiti globali43. L' indicatore più spietato - e più gravoso in prospettiva futura - delle fragili basi su cui poggiava il rilancio nazionale degli anni Ottanta era comunque quello dell' in­ debitamento. Salito al s8% nei primi anni Settanta, il debito pubblico era rimasto ancora su quei livelli - alti ma non spaventosi - fino al 1980. Poi s' impennava all'So% ( 1985) e proseguiva salendo inesorabilmente fino al 120% del 199544• Larga parte della prosperità dei consumi, del sostegno alle imprese, delle tutele sociali e corporative, e dello stesso ruolo internazionale del paese, non era cioè stata pagata ma semplice­ mente addebitata alle generazioni future. Si era gonfiata una grande bolla, tutta nostrana perché in controtendenza rispetto ai partner europei, il cui superficiale luccichio mascherava il carattere largamente illusorio delle vantate capacità e poten­ zialità della nazione. E comprometteva ogni futura possibilità di miglioramento della sua competitività in ambito globale, com'è divenuto evidente nell'ultimo ventennio.

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Interesse nazionale e dimensioni dell 'influenza nell 'era globale

Il culto, la politica e le dinamiche sociali del "grande paese" avevano insomma costruito le premesse del suo declino e degrado. Tutto ciò sarebbe divenuto così evidente da occupare il centro dell'agenda politica dagli anni Novanta a oggi. Dall'uscita dallo europea: una sfida riuscita, e R. Gualtieri, L 'Europa come vincolo esterno, entrambi in Craveri, Varsori (a cura di), L'Italia nella costruzione europea, cit., rispettivamente pp. 259-82 e pp. 3I3-3I. 43· L. Ornaghi, V. E. Parsi, La virtu dei migliori: l'élite, la democrazia, l'Italia, il Mulino, Bologna I994, p. 66; cfr. anche S. J. Woolf (a cura di), L'Italia repubblicana vista dafuori (I945-2ooo), il Mulino, Bologna 2007. 44· I dati in http :// www.bancaditalia.it/statistiche/storiche. Cfr. inoltre G. Toniolo, L'Italia e l'economia mondiale (IS6I-2ou), Banca d' Italia, Roma 2011.

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nel 1992 agli sforzi di contenimento del deficit per entrare nell'euro, dal ristagno degli anni Duemila fino alle convulsioni nella grande recessione, la zavorra del debito su un'economia che non riesce più a crescere ha marcato il progressivo indebolimento di un paese nuovamente incerto e sempre più percepito come fragile. Da quando il ciclo contemporaneo della globalizzazione è divenuto più intenso e universale - pos­ siamo usare il 1989 e poi l'ascesa dell'Asia come sommari indicatori - la posizione internazionale dell' Italia si è fatta più marginale, vulnerabile a ogni scossa e gradual­ mente meno influente. Non di meno, le direttrici della politica estera del paese non sono molto cambiate, anzi hanno mostrato sostanziali continuità con l'impostazione degli anni Ottanta. Aggancio essenziale con la UE e le sue aree integrative primarie, dall'euro a Schengen. Partecipazione attiva alla NATO e alle sue missioni, così come a quelle dell' ONU e della UE. Persino il rapporto con gli USA è rimasto al centro di un sostanziale con­ senso bipartisan, malgrado il violento ma transitorio strappo sull' Iraq. Soprattutto, non è davvero mutata la visione del ruolo internazionale che la repubblica può avere, e la conseguente scala prioritaria degli strumenti con cui la politica pensa di perse­ guire l'interesse nazionale. La bussola principale resta quella di mantenere l' Italia entro i principali consessi decisionali in virtù della sua disponibilità a usare strumenti pubblici, in particolare le forze armate, in missioni di aiuto umanitario, stabilizza­ zione e - pur in termini assai più cauti - lotta al terrorismo. La concezione larga­ mente condivisa dell ' influenza internazionale resta cioè solidamente ancorata a ciò che lo Stato può fare entro una grammatica molto tradizionale della potenza. E questa la cifra caratteristica delle relazioni internazionali della repubblica, che ha ottenuto taluni degli scopi che perseguiva ma ha anche imposto una visione angusta e monocorde delle sfide che la globalizzazione pone ali' Italia. La strategia della "media potenza" che si assume dirette responsabilità di stabilizzazione, soprat­ tutto in area mediterranea, ha raggiunto alcuni risultati. A differenza del periodo precedente, l' Italia dagli anni Ottanta ha acquisito autorevolezza come comparteci­ pante affidabile e abbastanza efficace nelle principali iniziative congiunte che defini­ scono la ricerca di sicurezza e stabilità per le comunità fondamentali cui apparte­ niamo, europea e atlantica. Dal Libano alla Bosnia, dal Kosovo ali 'A fghanistan, l' Italia si è inserita nei circuiti decisionali con una buona capacità d'influenza non tanto sulle scelte strategiche - rispetto alle quali non avrebbe comunque potuto influire più di tanto - quanto poi sulle modalità applicative. E un partner ovviamente minore, ma è un partner e può dire la sua. Rispetto alle ambizioni dell'epoca craxiana il risultato è probabilmente inade­ guato, ma in confronto alla marginalità e ali ' inaffidabilità precedente la differenza è indiscutibile. Anche se non vanno taciute le contraddizioni inerenti al modello stesso45• La prima concerne il fatto che lo strumento militare non può essere che SME

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45· Cfr. la discussione di M. Neri Gualdesi, L 'Italia e l'Europa negli anni Ottanta: tra ambizione e marginalita, in Craveri, Varsori (a cura di), L'Italia nella costruzione europea, cit., pp. 79-108. 30

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complementare, e spesso supplementare, rispetto non solo a quello statunitense ma anche a quelli di Gran Bretagna e Francia. Detto semplicemente e brutalmente, l' Italia può compartecipare ma non iniziare, guidare e men che meno fare da sola anche in aree vicine d' immediato interesse. Pur con tutto l'investimento messo in campo, il raggio d' influenza e autonomia della "media potenza" resta necessariamente assai circoscritto. In secondo luogo, il consenso interno rimane legato al carattere eminentemente umanitario e pacifico di questa pur limitata proiezione internazio­ nale. Con il rischio dell'autogol. Quando l' intervento ha un carattere esplicitamente bellico il consenso diviene così fragile e precario - come si vide nel 1991 nel Golfo da rovesciare la ricerca di autorevolezza in dimostrazione d'incertezza. Infine, il modello della "media potenza" aveva una sua astratta coerenza nel contesto in cui nacque, cioè quando l'acquisizione di ruolo e influenza nell'Alleanza atlantica poteva rapportarsi al traguardo - difficile ma non irrazionale - di avvicinare l' Italia al direttorio dei paesi di vertice che condizionavano la relazione fondamentale dell'e­ poca, quella bipolare. Ma la fine del bipolarismo e, in particolare, il processo di riunificazione tedesca misero brutalmente in evidenza quanto l' Italia, a dispetto della retorica sul "grande paese", restasse ben al di fuori dei circuiti decisionali sulle grandi questioni strategiche46• Nel corso degli anni, poi, l'ascesa di nuove potenze negli altri continenti ha totalmente riplasmato gli orizzonti internazionali, aprendo campi d'interazione globale ben più vasti, rispetto ai quali il ruolo dell' Italia non può che essere forzatamente collaterale, se non marginale. Gli aspetti più critici non riguardano tuttavia le tensioni interne a quel modello di relazioni internazionali, quanto l'ampio spazio di problemi che esso non solo non risolveva ma neppure affrontava perché restavano al di fuori del suo orizzonte visivo e concettuale. Esso infatti traeva le mosse, come abbiamo visto, da una premessa tanto radicata quanto indiscussa. Vale a dire che l'interesse primario del paese risiedeva nell'avere voce come nazione, nel dotare Stato e governo di una possibilità d' in­ fluenza eminentemente politico-diplomatica nei consessi internazionali cruciali. Uscire dalla minorità e dal rischio di tutela, ricostruirsi una maggiore autonomia e ascendere a un ruolo autorevole, attivando un circuito virtuoso di maggiore identi­ ficazione nazionale degli italiani e loro maggior peso internazionale: definiti così gli scopi, la politica affidava (e affida) sostanzialmente a sé stessa, per mezzo delle isti­ tuzioni statali, il nocciolo cruciale delle relazioni internazionali del paese. Non c'era in questo nulla di strano o inspiegabile. In primo luogo discendeva dallo storico problema italiano di acquisire rango internazionale non solo per garantirsi sicurezza e benessere, ma per consolidare un' identificazione nazionale debole, in un continuo gioco di rispecchiamenti tra percezione esterna e senso di sé, affidabilità internazio­ nale e coesione interna, come se si trattasse di «cementare e rifare la nazione ogni 46. Sulla politica estera italiana nella ridefìnizione dell ' Europa dopo il I989 si rimanda a Varsori, L'Italia e La fine di un 'era, cit.

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volta, come se essa fosse qualcosa di fragile, di sfuggente e potenzialmente effimero »47• E poi rispondeva alla lunga tradizione di primazia dello Stato-nazione, di suo con­ trollo diretto o indiretto su gran parte delle relazioni internazionali, di sua centralità nell'incarnare le risorse materiali e simboliche della nazione. Il problema tuttavia era che questa centralità andava proprio allora diluendosi (almeno per le nazioni meno grandi e influenti), e sarebbe divenuta sempre meno rilevante, mentre altre dimensioni di influenza e credibilità internazionale si facevano più cospicue e importanti. Già le difficoltà degli anni precedenti, se analizzate più ampiamente, avrebbero potuto fornire utili indicazioni. La minorità patita dall' Italia negli anni Settanta non derivava dal suo basso profilo internazionale, ma viceversa era stato quest'ultimo a discendere dalla fragilità politica interna, dalla vulnerabilità finanziaria, dal disordine economico e sociale. E quanto più avanzavano la liberaliz­ zazione dei mercati e l'apertura competitiva delle economie e delle società - feno ­ meno ancora iniziale ma già visibile negli anni Ottanta - tanto più tali dimensioni sarebbero cresciute d 'importanza. Perciò la scelta di concentrarsi su un' interpretazione diplomatica e militare della "media potenzà' mostrava e mostra seri limiti. Perché quelli sono strumenti che, più che essere risolutivi di per sé, hanno effetto se operano in modo sinergico con altre risorse del paese. Nelle dinamiche della globalizzazione dischiusesi da allora a oggi, la rilevanza e l'influenza di un paese sono date non tanto dalla forza del suo Stato quanto da altri fattori: grandi istituti finanziari con ampio raggio d'azione e capacità d'inno­ vazione delle grandi imprese; voci mediatiche capaci di parlare oltre i propri confini; istituti d'analisi e di ricerca efficaci e pienamente integrati nei circuiti mondiali; organizzazioni non governative di dimensioni globali; infrastrutture efficienti e affi­ dabili; apertura e adattabilità cosmopolita di fasce crescenti della società civile; ordi­ namenti amministrativi e giuridici in grado di rispondere prontamente ai criteri di operatività dell'economia; apparati educativi che coltivino i saperi dell'odierna globa­ lità. E naturalmente un buon grado di affidabilità finanziaria e continuità politica48• Basta questa sommaria elencazione, mi pare, per evidenziare il problema. La concentrazione di risorse, comunque non gigantesche, sulle leve statali della potenza 47· F. Romero, A. Varsori, Introduzione, in Id. (a cura di), Nazione, interdipendenza, integrazione, Carocci, Roma 2006, vol. I, p. 21. Cfr. inoltre M. Graziano, The Failure of Italian Nationhood: The Geopolitics of a Troubled Identity, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2010; M. Lazar (éd.), L'Italie contemporaine: de I945 a nos jours, Fayard, Paris 2009. Anche il dibattito sulla nazione negli anni Novanta evidenziava questo aspetto: G. E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, il Mulino, Bologna 1993; S. Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992; R. Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell'Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1998; P. Pezzino, Senza Stato. Le radici storiche della crisi italiana, Laterza, Roma-Bari 2002; M. Viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazio­ nalismo nella storia, Laterza, Roma-Bari 1995. 48. Cfr. M. Carbone (ed.), Italy in the Post-Cold TVtlr Order: Adaptation, Bipartisanship, Vìsibility, Lexington Books, Lanham ( MD) 2ou ; V. Coralluzzo, La politica estera dell'Italia repubblicana {I940I992), FrancoAngeli, Milano 2000, pp. 363-75. 32

L ' ITALIA NELLE TRASFO RMAZIONI INT ERNAZIONALI DI FINE NOVEC ENTO

può ben poco a fronte della regressione - in taluni campi relativa, in altri anche assoluta e soprattutto combinata - di tutte le altre fonti sociali, economiche e civili dell'influenza e della credibilità internazionali. Tanto più se la simultanea ascesa del debito pubblico erige una vera e propria zavorra dalla quale né l 'economia e la società civile né le politiche pubbliche possono liberarsi, rendendo progressivamente più difficile il loro adattamento alle nuove condizioni. Il caso della scuola, dell'università e della ricerca - ormai prigioniere di una dinamica regressiva senza precedenti in epoca moderna - è emblematico. Ma il debito finisce per mordere persino sui terreni prescelti dal modello della "media potenza", impedendone la continuazione. Negli anni Ottanta gli sforzi della cooperazione allo sviluppo avevano, ad esempio, posi­ zionato bene l' Italia in Cina. Ma nel decennio successivo l'incertezza politica interna, la debolezza di un tessuto di piccole invece che di grandi imprese e i tagli ai fondi per la cooperazione smontarono rapidamente quel che si era costruito. L' Italia cedette quote di export, ebbe una scarsissima presenza come investitore e proiettò quindi fragilità, suscitando diffidenza più che interesse49• Il cane si mordeva la coda. Vorrei chiudere sfiorando appena un tema rivelatore, che sta esattamente ali' in­ crocio dei riflessi e dilemmi che ho cercato di riassumere : quello dell'immigrazione. Divenire e scoprirsi terra d' immigrazione è stato negli ultimi decenni, almeno fino alla grande recessione, il versante più problematico e ramificato della percezione della globalizzazione da parte della società italiana. Perché entrava in corto circuito - tal­ volta in termini reali, più spesso in chiave solo evocativa - con l'insicurezza econo­ mica che negli stessi anni andava moltiplicandosi. E perché riapriva i molti nodi irrisolti di un' identificazione nazionale debole e contraddittoria, oltre che di un'e­ sperienza coloniale rimossa, chiamando gli italiani a confrontarsi apertamente con il tipo di comunità che intendevano essere. Nei suoi mille gangli e anfratti la società italiana ha fatto gradualmente i conti con il fenomeno in molti modi diversi, la cui disordinata miscela d' integrazione, accomodamento e rigetto è difficile giudicare storicamente più negativa delle espe­ rienze analoghe della Francia, della Gran Bretagna o della Germania in decenni precedenti. Sul piano del dibattito pubblico e dell'azione politica, tuttavia, la que­ stione ha suscitato una polarizzazione sintomatica. Da un lato gli appelli alla difesa di una comunità - nazionale, religiosa, territoriale e talvolta definita pure in chiave razziale - che si pretende, e in certa misura si sente, vittimizzata se non violata: quindi politiche di controllo degli accessi, respingimenti e misure di discriminazione. Insomma l'esercizio rigido della sovranità della nazione contro la presunta "inva­ sione". Dali' altro lato la proposizione di un messaggio solidaristico e universalista ( cosa contigua ma diversa dalle pratiche diffuse di effettiva solidarietà) che ambiva a governare il problema, ma stentava a confrontarsi con gli strumenti effettivi di 49· G. Samarani, L. De Giorgi, Lontane, vicine. Le relazioni fra Cina e Italia nel Novecento, Carocci, Roma 2011, pp. 1 3 5-5 7·

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controllo, e più spesso faceva vanamente appello a un più alto livello di governance, quello europeo. Ciò che platealmente mancava, nella terra di nessuno tra quei due fronti, era per un verso la piena cognizione, se vogliamo anche orgogliosa, che la radice della questione risiedesse neli' attrazione del paese, dovuta alla sua relativa prosperità e soprattutto alla domanda di forza lavoro che esso esprimeva. E dali' altro la consapevolezza che sono in larga misura le sue molte "anomalie", rispetto alle altre società avanzate cui ci paragoniamo, a determinare l'apparente ingovernabilità della questione: ampio mercato nero del lavoro e della casa, rigidità e inefficacia ammini­ strative, tolleranza di alti livelli d ' illegalità organizzata e non, poliarchia normativa e decisionale. Su questo come su altri terreni, cioè, l'esperienza italiana di fronte alle tensioni della globalità è stata finora quella di ricorrere allo strumento politico dello Stato ­ nazione e del suo richiamo identitario, oppure di rinviare a livelli di gestione e rappresentazione più ampi - ma anche distanti, astratti e soprattutto difficilmente condizionabili. Finendo così per cascare tra due sgabelli. Perché l'appello alla sovra­ nità e all'autonomia dello Stato-nazione può esorcizzare ( e non per molto ) le diffi­ coltà e i vincoli insiti nelle trame dell'interdipendenza globale, ma non affrontarli e men che meno risolverli. Mentre nelle istituzioni, nelle pratiche e nelle reti di norme internazionali in cui siamo integrati - a cominciare dall'Unione Europea - la capa­ cità d' influenza discende non tanto dall'azione diplomatica in sé e per sé quanto da molteplici ambiti di vitalità, coerenza, efficacia e affidabilità sistemica. Con la glo­ balizzazione, infatti, non è solo la geografia della potenza a mutare, ma soprattutto il suo carattere multidimensionale, che ne viene dilatato. Influenza, potere e autore­ volezza discendono ormai da funzioni molteplici e intrecciate che risiedono nella capacità d'innovazione, di adattamento, di efficienza della società e delle sue istitu­ zioni, pubbliche come private. E sconsolante ma tutt 'altro che casuale, e anzi drammaticamente sintomatico, che la ricetta suggerita all' Italia quasi quarant'anni fa da anonimi funzionari francesi e britannici ( riforma della pubblica amministrazione e del sistema giudiziario ; lotta alla corruzione, alla criminalità e all'evasione fiscale; contenimento del deficit pub­ blico50 ) resti ancora oggi la chiave della credibilità e dell'influenza dell' Italia, in Europa e altrove. Ancor più esemplare è che sia proprio il debito, con i suoi indica­ tori che vediamo ogni giorno in prima pagina, a misurare inesorabilmente il flebile, precario, declinante aggancio del paese agli istituti, primi tra tutti quelli europei, che avevano definito gli orizzonti essenziali della collocazione internazionale dell' Italia repubblicana. '

so. Cfr.

nota

2.6. 34

La bipolarità italiana e la fine della Guerra fredda di Silvio Pons

I

Guerra fredda e "seconda modernizzazione"

La soluzione di continuità che si verifica nella politica italiana alla fine degli anni Settanta coincide con un significativo cambiamento internazionale. La conclusione della "solidarietà nazionale" e il tramonto dell'emergenza terroristica si producono sul limitare di un biennio decisivo della storia internazionale, che in successione tra il 1979 e il 1981 registra la rivoluzione in Iran, la crisi degli euromissili in Europa, l'invasione sovietica in Afghanistan, l'avvento di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, la crisi sociale e politica in Polonia, l'emergere della leadership di Deng Xiaoping e l'avvio della modernizzazione nella Cina postmaoista. Nel loro insieme, tali eventi rimandano a due diversi piani della storia degli anni Ottanta: la "seconda Guerra fredda" che pone fine alla distensione bipolare e gli effetti dello "shock glo­ bale" originato nel decennio precedente. In uno sguardo retrospettivo, la distinzione tra i due piani appare ancora oggi, come allora, meglio visibile del loro intreccio, sebbene la svolta neoliberale in Occidente venga subito percepita come il segnale di un mutamento dello spirito del tempo sia dagli entusiasti sia dai detrattori, con il suo duplice messaggio antitotalitario e antiwelfarista. La distinzione tra il piano della globalizzazione e quello della Guerra fredda configura un'autentica dicotomia in Italia, un paese caratterizzato da un sensibile dinamismo sociale e da un sostanziale immobilismo politico'. Da un lato, l'adeguamento della società italiana a una nuova stagione di "modernità'' e di consumismo, che in forme estreme ricalca modelli di individualismo e di ritiro nel privato diffusi ovunque in Occidente. Dali' altro lato, la staticità del sistema politico, che sembra costituire l'autentica specificità italiana, nel suo rapporto con il sistema bipolare internazionale. La cesura segnata dali' assassinio di Aldo Moro nella storia repubblicana e il succes­ sivo coagulo di un'alleanza di governo destinata a durare più di un decennio, fino al 1. Cfr. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010. 35

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crollo dei partiti di massa, sono stati sinora visti e indagati in un'ottica prevalentemente nazionale. Tale ottica privilegia il problema delle ripercussioni provocate dalla traumatica scomparsa di Moro nel tessuto istituzionale della Repubblica e nella tela dei rapporti tra le forze politiche: un problema aspramente dibattuto all'epoca che filtra e si ripresenta nel dibattito storiografico. L' immobilismo politico risulta così una conseguenza della perdita di prospettiva o della difficoltà di costruirne una diversa sia per le forze al governo sia per quelle all'opposizione, mentre emergono i segni inequivocabili di una crisi stri­ sciante della rappresentanza politica di massa, destinata a conoscere una lunga deriva�. Se spostiamo la nostra ottica al rapporto con il sistema internazionale, tuttavia, il quadro appare diverso. La fine degli anni Settanta e l' inizio degli anni Ottanta sono il momento in cui un meccanismo centrale della storia repubblicana, l' interazione molto stretta tra il sistema internazionale e il contesto nazionale, conferma caratteri di lungo periodo. A cominciare dalla continuità della "democrazia bloccatà: che nel decennio precedente era stata strettamente vigilata dall'esterno, ma anche contestata in un modo incompiuto e limitato dall'interno. La divisione permanente tra un blocco moderato di governo e un blocco progressista di opposizione, pur anacronistica, continua a distinguere la demo­ crazia italiana dalle altre democrazie europee. Ancora incentrati sull'ossatura dei grandi partiti di massa, i due blocchi che occupano lo spazio repubblicano sin dalle origini si trasformano al loro interno ma si perpetuano nella società. La loro permanenza è favo­ rita da quella apparente del sistema internazionale, che riafferma i caratteri antagonistici dell'ordine bipolare, in apparenza relegando la distensione a una parentesi. Le investiture della Guerra fredda mantengono il loro significato. La lunga crisi degli euromissili fornisce a entrambe le parti un banco di prova e uno strumento di identificazione. Il nuovo centro-sinistra italiano fondato da Andreotti, Cossiga, For­ lani e Craxi nel 1980 si giova dei vincoli atlantisti rinsaldati dalla risposta della NATO agli ss-2o sovietici e dalla politica dell'amministrazione Reagan. Il "preambolo" che costituisce il manifesto della nuova alleanza impiega un'esplicita argomentazione di carattere internazionale per motivare la conventio ad excludendum dei comunisti, che non presenta un volto contingente ma si lega agli antecedenti repubblicani e si proietta nel decennio a venire, mettendo ai margini un terzo dell'elettorato italiano3• Il PCI compie un'operazione più contorta e difensiva: si distanzia dal blocco sovietico, condannando l'invasione dell'Afghanistan e rinunciando al finanziamento diretto di Mosca, ma non giunge a una rottura - né lo farà due anni dopo dinanzi al colpo di Stato del generale Jaruzelski in Polonia. Berlinguer e il suo gruppo dirigente sfidano la vecchia logica dei blocchi ma affrontano l'isolamento interno e internazionale4•

2. Cfr. A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, il Mulino, Bologna 2005; M. Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano, Einaudi, Torino 20II. 3· Cfr. P. Craveri, La Repubblica dal I95S al I992, UTET, Torino 1996, pp. Sso ss. 4· Cfr. S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006.

LA B I P O LARITÀ ITALIANA E LA FINE D E LLA GU ERRA FREDDA

Ciò che si verifica non è però semplicemente la riproduzione del tradizionale nesso nazionale-internazionale. In primo luogo, perché lo stesso sistema internazio­ nale non riproduce che in superficie i caratteri del passato. Lo "shock globale" degli anni Settanta ha destabilizzato l'ordine postbellico e posto le premesse del suo sov­ vertimento5. La fisionomia asimmetrica del sistema bipolare, risalente alle sue stesse origini, ha ormai generato uno squilibrio irreversibile tra il dinamismo occidentale e la paralisi sovietica. L'unico progetto globale sulla scena appare incarnato dalla tra­ sformazione postindustriale dell'economia capitalistica e dal rilancio dei dettami del liberalismo e del monetarismo, mentre il comunismo come soggetto unitario ha ormai cessato di esistere dopo la rottura definitivamente consumatasi tra URSS e Cina e dopo la terza guerra indocinese. La rinnovata saldatura tra atlantismo ed euro­ peismo è consentita da una svolta culturale ed economica che, al di là della retorica neoconservatrice, asseconda la rottura profonda con le compatibilità e gli assetti dell'industrialismo. La ripresa del conflitto Est-Ovest prepara la sua radicale trasfor­ mazione in Europa, dove, a differenza del contesto bipolare, la distensione non viene liquidata6• La Ostpolitik si iscrive anzi ormai nell'interesse nazionale tedesco, dise­ gnando uno scenario di interazione nell'Europa divisa sconosciuto in passato e segnato dalla dipendenza economica dei paesi orientali. Tale dipendenza appare irreversibile anzitutto nella Germania orientale e rappresenta un motivo di tensione forte nel blocco sovietico7• Al tempo stesso, l'ennesima crisi delle società di tipo sovietico emersa in Polonia porta la riprova di un discredito difficile da confinare a un singolo caso nazionale e suscita interrogativi sul futuro stesso del mondo comu­ nista. La nascente globalizzazione impedisce agli Stati comunisti di mantenere la loro separatezza sistemica e li pone dinanzi alla sfida impossibile di trasformare le loro economie di comando centralizzate8• Il termine di globalizzazione non viene impie­ gato, ma nozioni quali la crisi del bipolarismo, la crescita dell' interdipendenza, la fine dell 'epoca fordista e la crisi delle società di tipo sovietico, adottate da attori S· N. Ferguson et al. (eds.), The Shock of the Global: The I970S in Perspective, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge ( MA) 20IO ; F. Romero, Storia della guerra fredda. L'ultimo conflitto per l'Europa, Einaudi, Torino 2009. Sull' Europa, cfr. anche A. Varsori, G. Migani, Europe in the International Arena during the I970s: Entering a Dijferent World, Peter Lang, Brussels 2011. 6. Cfr. J. W. Young, Western Europe and the End of the Cold Jtar, in M. P. Leffler, O. A. Westad (eds.), The Cambridge History of the Cold Jtar, Cambridge University Press, Cambridge 20IO, vol. III; L. Nuti (ed.), The Crisis ofDétente in Europe: From Helsinki to Gorbachev, I975-I9S5, Roucledge, London 2009; O. Nj0lstad (ed.), The Last Decade ojthe Cold Jtar: From Conflict Escalation to Conflict Transformation, Frank Cass, London 2004. 7· Cfr. soprattutto S. Kotkin, The Kiss of the Debt: The East Bloc Goes Borrowing, in Ferguson et al (eds.), The Shock of the Global, cit. Cfr. anche H. H. Herde, Germany in the Last Decade of the Cold Jtar, in Nj0lstad (ed.), The Last Decade of the Cold Jtar, cit. 8. Cfr. C. S. Maier, "Malaise": The Crisis of Capitalism in the I970S, in Ferguson et al ( eds. ), The Shock ofthe Global, cit., pp. 45-6; C. S. Maier, The Cold Jtar as an Era ofImperia/ Rivalry, in S. Pons, F. Romero (eds.), Reinterpreting the End of the Cold Jtar: /ssues, Interpretations, Periodizations, Frank Cass, London-New York 2005. 37

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diversi o in accezioni diverse, rimandano comunque al logoramento di elementi costitutivi dell'ordinamento postbellico e alludono a un panorama mondiale. In secondo luogo, il "vincolo esterno" tradizionale appare ridimensionato e modi­ ficato. Superati i momenti più drammatici della crisi degli anni Settanta, l' Italia perde gradualmente rilevanza nella politica estera americana, se non come tassello di una politica europea che ha però il suo fuoco sul centro del continente. Le capacità d' in­ fluenza dell' URSS sono in caduta libera. L' integrazione europea acquisisce nuovo spessore. Senza dubbio, le trasformazioni del sistema internazionale non sono così evidenti nella prima metà del decennio, mentre il rilancio di linguaggi e pratiche classiche della Guerra fredda offusca il senso del cambiamento e lo rende meno facilmente decifrabile. Ciò nonostante, è già chiaro come la svolta antitotalitaria e monetarista di Reagan implichi un tentativo di rilancio egemonico e una ridefini­ zione del ruolo degli Stati Uniti sul piano globale, di certo controversa ma non leggibile mediante le categorie della crisi largamente adottate nel decennio prece­ dente9. Mentre proprio il senso di una crisi profonda emana dalla deriva dell' Unione Sovietica. Nei suoi riflessi interni, la legittimazione offerta dall'appartenenza occi­ dentale continua ad avere una sua consistenza e anzi la recupera. Invece il blocco sovietico non offre più alcuna fonte di legittimazione, neppure quella legata alla distensione che tanto aveva illuso e fuorviato i comunisti italiani nel decennio pre­ cedente'0. Gli squilibri e le asimmetrie del bipolarismo provocano perciò ripercussioni dirette nel paese. Non si tratta però soltanto di questo. In una certa misura, i due blocchi politici italiani continuano a riflettere il bipolarismo, cercando di contenerne l' invasività e negoziando spazi di manovra nella politica nazionale. Tali meccanismi sono ancora presenti ed efficaci. Ma la tendenza a eludere i vincoli esterni e a servirsene strumen­ talmente in chiave di politica interna si fa molto più forte. Ciò che conta sempre di più non sono soltanto gli imperativi della Guerra fredda e il disciplinamento a essi legato, bensì la loro traduzione e il loro lascito nelle culture politiche. Di conse­ guenza, quello che si produce non è un ridimensionamento del discorso identitaria in chiave conflittuale, bensì un suo incremento e un rilancio, sia pure declinato con intensità e modalità molto diverse tra le due parti. Sembra ripresentarsi per la seconda volta nella storia repubblicana un paradosso, questa volta in una forma ancora più 9· Cfr. B. A. Fischer, The United States and the Transformation ojthe Cold 1-Vtlr, in Nj0lstad (ed.),

The Last Decade of the Cold 1-Vtlr, cit., pp. 226-40; B. A. Fischer, us Foreign Policy under Reagan and Bush, in Leffler, Westad (eds.), The Cambridge History ofthe Cold 1-Vtlr, cit., vol. III; C. S. Maier, Among Empires: American Ascendancy and Its Predecessors, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2006, p. 250. Sul reaganismo come risposta alla crisi di egemonia americana e come premessa di un "dominio senza egemonia", cfr. G. Arrighi, Adam Smith in Beijing: Lineages of the Twenty-First Century, Verso, London-New York 2007 (trad. it. Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008). IO. Sulla crisi di legittimazione del comunismo sovietico, cfr. S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale {rf)IJ-If)f)I), Einaudi, Torino 2012.

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acuta di quanto non fosse accaduto vent'anni prima: la società italiana conosce una nuova ondata di modernizzazione, segnata dal trionfo dell'individualismo, dal con­ sumo di massa, dalla diffusione dei media televisivi, e si adegua ai ritmi improvvisa­ mente accelerati della globalizzazione economica sotto l' impulso della deregulation thatcheriana e reaganiana. Tuttavia, non si verifica un rivolgimento negli assetti politici basilari che continuano a distinguere il paese dalle altre principali democrazie europee, ma piuttosto una lenta metamorfosi, che si manifesta soprattutto come erosione delle basi di massa dei grandi partiti politici e come emersione (o riemer­ sione) di sentimenti profondamente scettici se non anche ostili nei confronti dei partiti e della politica11• Il senso dell'appartenenza ai due blocchi storici prevale, anche solo per forza d' inerzia, sulla percezione della loro inadeguatezza a riflettere e a governare la "seconda modernizzazione". Il disagio e l'insoddisfazione per la "demo­ crazia bloccatà' assumono le forme prevalenti del distacco, invece di configurare la richiesta dal basso di una riforma. In sintesi, mentre la società italiana reagisce viva­ cemente ai primi impulsi della globalizzazione economica, dopo i traumi e le crisi degli anni Settanta, la politica e le sue culture sembrano impigliate nelle maglie della Guerra fredda. I due piani sono però più compositi e intrecciati tra loro di quanto non sembri a prima vista.

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La persistenza della bipolarità interna

La divisione permanente tra un blocco di governo e un blocco di opposizione con­ tinua a caratterizzare la Repubblica. Il principio dell'alternanza viene stabilito, per la prima volta, soltanto all' interno del fronte anticomunista, con i governi Spadolini e Craxi. Proprio la parabola di Bettino Craxi appare emblematica delle continuità e dei mutamenti nei rapporti tra la politica nazionale e il sistema internazionale. Il leader socialista si allinea senza riserve al neoatlantismo esprimendo però, a differenza degli altri protagonisti, la coscienza della necessità di realizzare riforme politiche. Egli basa la propria strategia sull'idea di europeizzare l'Italia liquidando il vecchio bipo­ larismo nazionale. Il concetto prevalente è quello della "governabilità", in apparenza soltanto più pragmatico e minimalista rispetto alle strategie in campo nel decennio precedente, ma in realtà connesso all' idea più generale che la "democrazia bloccatà' costituisca un ambiente ostile per il riformismo e debba perciò essere superatall. Significativa al riguardo la proposta informale rivolta da Craxi a Berlinguer nel marzo 1 1. Cfr. P. Craveri, Dopo !'"unita nazionale": la crisi del sistema dei partiti, in S. Colarizi et aL (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004. I2. Cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2oos. 39

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1981, con l'impegno a riconoscere la legittimità democratica dei comunisti in cambio del loro sostegno a un governo a guida socialista. Non è chiaro se quel ballon d'essai avrebbe avuto sviluppi autentici nel caso di una disponibilità comunista, che comunque non viene neanche minimamente considerata. La sua evidente ispirazione mitterrandiana costituisce motivo sufficiente per suscitare l'ostracismo del gruppo dirigente del PCI'3• Resta il fatto che la proposta craxiana riconosce implicitamente il relativo anacronismo dei veti nei confronti del PCI, compresi quelli di carattere esterno, alludendo allo scenario di una scomposizione dei blocchi politici esistenti e alla fine della loro ragion d'essere. Un' idea estranea ai leader della DC e a quelli del PCI, che, seppure da ottiche diverse o persino divergenti, vedono come unici scenari possibili l'unità nazionale o la configurazione bipolare. Escluso il primo dei due scenari, entrambi i partiti mag­ giori postulano la continuità della bipolarità italiana malgrado l'attenuazione delle tradizionali lealtà esterne. Sin dal momento della sua elezione a segretario democri­ stiano, De Mita propone contraddittoriamente l' idea di un bipolarismo "risolto" e moderno, imperniato sulla DC e sul PCI, senza rinunciare alla centralità democristiana nel sistema politico e senza vederne il declino'4• Più eloquente il caso di Berlinguer, perché sono i comunisti italiani a dover fronteggiare assai più degli altri un deficit di riferimenti internazionali. Lo "strappo" con Mosca rende visibile la scelta di fon­ dare la credibilità del PCI sul distanziamento dalle tradizionali appartenenze, senza che queste vengano però sostituite dalla ricerca di una diversa famiglia politica neli' Europa socialdemocratica'5• Il leader del PCI opera un autentico sganciamento della strategia interna da quella internazionale. Proprio tale sganciamento produce una radicalizzazione del discorso politico comunista. Il lancio della "questione morale" come questione nazionale genera una contrapposizione frontale con le forze di governo, accusate di sottovalutare ingiustificatamente la portata della questione nella vita pubblica e le sue potenziali conseguenze distruttive'6• Berlinguer ha ragione da vendere al proposito e si propone di recuperare consenso nell'opinione pubblica. Nello stesso tempo, il suo discorso è volto a delegittimare gli avversari con argomenti di ordine etico e costituisce una ritorsione contro l' impiego che essi fanno, a fini interni, del crescente discredito del comunismo internazionale. L'unico elemento unificante tra aspetti nazionali e internazionali è costituito per il PCI dal pacifismo e dali' antiamericanismo, che rafforzano una precisa strategia di tipo identitaria. Tale strategia appare rinunciataria dal punto di vista dell'obiettivo di governo, ma non è priva di una sua efficacia. Nell'immediato, Berlinguer difende I3. P. Craveri, L'ultimo Berlinguer e la c'questione socialista", in "Ventunesimo Secolo", I, 2002, I. I4. A. Giovagnoli, La crisi della centralita democristiana, in Colarizi et al. (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, cit. IS. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, cit. I6. L. Cafagna, Il duello a sinistra negli anni Ottanta, in G. Acquaviva, M. Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia 20I I.

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e mantiene la coesione del blocco di opposizione, pagando il prezzo di accettarne la minorità e il rischio di un logoramento. A più lungo termine, egli pone il comunismo italiano, a differenza dei suoi omologhi occidentali, in sintonia con l'onda pacifista intransigente che emerge nelle opinioni pubbliche europee17• Così il PCI appare una forza autoreferenziale nella politica interna e internazionale, ma in grado di marcare una presenza importante nei nuovi movimenti occidentali. Il risultato è quello di porre le premesse per una rinnovata identità dello schieramento di sinistra, diversa dai modelli classici della Guerra fredda. Non è il caso di enfatizzare oltre misura, retrospettivamente, la contrapposizione personale tra i leader, compreso il dualismo tra Berlinguer e Craxi. Tale dualismo esiste e anzi si acuisce in un contesto sempre più segnato dalla personalizzazione della politica. Ma la polarizzazione delle appartenenze, la delegittimazione dell'avversario politico come nemico dell'ordine democratico, l' ideologizzazione del confronto hanno radici profonde, che si impongono anche in tempi di trasformazione18• Tra queste radici, spicca il ruolo giocato dagli elementi di derivazione internazionale. Le strategie seguite da Berlinguer e da Craxi non potrebbero essere più lontane tra loro : il primo si trova nella necessità di reinventare un'identità priva di autentici modelli e punta tutto sulla "diversità", una nozione che implica conflitto frontale e che rivela, al tempo stesso, un antico pregiudizio antisocialdemocratico; il secondo opera a sua volta una reinvenzione della tradizione del socialismo italiano, ancorata al riferimento della socialdemocrazia europea, che chiede un forte investimento identitaria date la sua storica fragilità nel paese e l'egemonia comunista nella sinistra. In altre parole, la particolare combinazione tra continuità e cambiamento che si verifica negli anni Ottanta induce a enfatizzare o a reinventare identità contrapposte. La DC subisce più che alimentare questo meccanismo, assomigliando sempre di più a un grande corpo acefalo della politica italiana, mentre il ruolo della Chiesa cattolica appare sempre più teso a un universalismo scollegato dalla realtà italiana ed europea, se non per il tramite della Guerra fredda19• Non per caso, sul piano delle intese e degli orientamenti, sarà proprio la DC a dividersi in due: da una parte, De Mira e la sinistra del partito sempre più in conflitto con Craxi, dall'altra Forlani, Andreotti e la destra alleati del leader del PSI. Per tutto il decennio, e ancora dopo l'Ottantanove, il conflitto politico vede protagonisti il P S I e il PCI, coinvolgendo sulle rispettive sponde protagonisti emergenti del mondo economico quali Berlu­ sconi e De Benedetti. Tuttavia, ciò non significa la scomposizione degli schieramenti I7. A. Brogi, Confronting America: The Cold "/far between the United States and the Communists in France and ltaly, University of North Carolina Press, Chapel Hill (Ne) 2on, pp. 373-4. I8. L. Di Nucci, E. Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell 'Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 200 3 . I9. A. Giovagnoli, Karol Wojtyla and the End of the Cold "/far, in Pons, Romero (eds.), Reinter­ preting the End of the Cold "/far, ci t. 41

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tradizionali della Guerra fredda, ma piuttosto la loro trasformazione e la loro continuità. E stato rilevato il paradosso per cui a uno scontro ideologico « durissimo ma politicamente gestibile » subentri un conflitto etico e civile « sicuramente meno drammatico ma politicamente più difficile da comporre » 20 • Tale passaggio è proba­ bilmente comprensibile soltanto con la constatazione che la Guerra fredda, dopo avere plasmato le più antiche e feroci divisioni della società italiana, lascia una traccia forte nell'epoca della sua estinzione. Il legame culturale delle principali forze poli­ tiche italiane con il retaggio bipolare, ancorché esorcizzato tramite i discorsi della distensione, dell 'europeismo o del terzomondismo, resta una ragion d 'essere irrinun­ ciabile. In altre parole, la «lunga ombra di Yalta » esercita la sua influenza in Italia, anche se questo non significa affatto che la Guerra fredda sia un contesto fisso e immutato fino al 19892.1• Ciò contribuisce a spiegare perché il nuovo accento sull'orgoglio nazionale che emerge nel discorso pubblico, tramite la presidenza di Sandro Pertini e il governo Craxi, stenti ad affermarsi pur trovando condivisione da entrambe le parti dello schie­ ramento politico. I funerali di Berlinguer sono forse il momento nel quale si rende più visibile la compresenza di un'emozionalità condivisa dalla nazione intera e di un'incandescenza politica insopprimibile. La contraddizione latente tra la ricerca di una nuova assertività nel rango internazionale dell' Italia e la divisione della comunità nazionale segna l'esperienza del governo Craxi. La personalità di Craxi si presenta come un fattore di innovazione e di rottura dell'immobilismo politico. Per molti aspetti, egli rappresenta la figura chiave di un'epoca che lega l'enfasi sulla leadership e sulla decisione politica con le nuove interdipendenze tendenti a mettere fuori gioco ovunque, anche se non sempre nella stessa misura, le politiche regolative e le forme di negoziazione sociale del passato. Le riforme attuate dal suo governo si inseriscono in tale contesto, insieme alla svolta di politica economica realizzata da Mitterrand nel 19 832.2.. In politica estera, Craxi legittima la propria ascesa alla guida del governo con la posizione di fermezza assunta sugli euromissili, non diversamente da Mitterrand. In tal modo, egli conferma la scelta, già avanzata quattro anni prima, di lasciare alle spalle una stagione di oscillazioni e incomprensioni circa il posto dell' Italia nell'Alle­ anza, con un'evidente ricaduta di politica interna volta a mettere i comunisti con le spalle al muro2.3• Tuttavia, proprio tale scelta gli consente di adoperarsi per fornire un'interpretazione della fedeltà atlantica in una chiave diversa dal passato. La que­ stione non riguarda soltanto l'episodio di Sigonella del 1985, ma investe la formula­ zione della politica mediterranea dell' Italia, che assume i caratteri dell'autonomia dal ,

20. Giovagnoli, La crisi della centralita democristiana, cit., p. 99· 2I. G. De Michelis, La lunga ombra di Yalta. La specificita della politica italiana, Marsil io, Venezia 2003. 22. Maier, "Malaise": The Crisis of Capitalism, cit., p. 37· 23. L. Nuti, Italy and the Battle of the Euromissiles, in Nj0lscad (ed.), The Last Decade of the Cold ffilr, cit., pp. 346-52.

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partner americano come mai era accaduto in precedenza e costruisce l, immagine di un nuovo prestigio internazionale dell'Italia quale "media potenza"14• Così Craxi coltiva il progetto ambizioso di rafforzare l'autorità del paese dopo la sua caduta negli anni Settanta, cercando di consolidare un'appartenenza nazionale storicamente debole. Ciò implica un forte investimento sulla premiership e sull'alleanza competitiva con la n e , vantando nel contempo maggiori credenziali atlantiste e mag­ giore autonomia di condotta. In altre parole, egli appare il protagonista di un nuovo discorso nazionale e di una cultura politica riformista, ma segue anche la logica della divisione tra blocchi politici, a differenza dei democristiani, con l'obiettivo di logorare il PCI e non di coesistere con esso. Questo difficile equilibrio appare sostenibile fino a che il leader socialista mantiene la guida del governo. Ma dopo il 1987 egli finirà per identificarsi molto di più nella logica dei blocchi che nel tentativo di riformare la "democrazia bloccata" e di intervenire sui vincoli internazionali. Tale esito non è imputabile semplicemente a scelte soggettive. La vischiosità e la compatibilità degli assetti e delle culture politiche giocano un ruolo essenziale. Le principali forze politiche italiane cercano con difficoltà di arginare l'erosione delle appartenenze tradizionali e mostrano una crescente incapacità di canalizzare il muta­ mento sociale. La loro passata funzione civile è posta in discussione. Il sistema poli­ tico presenta caratteri chiusi e autoreferenziali15• Tuttavia, i simboli della divisione e dell'antagonismo all' interno della comunità nazionale mantengono la capacità di emanare messaggi mobilitanti e di raggiungere il cuore del paese, ancor più - e non meno - nella "seconda modernizzazione" e nella sua civiltà mediatica. Gli ingredienti che componevano l'antagonismo bipolare si scompongono. Mentre nel contesto dell 'estinzione della Guerra fredda la disciplina (e l'autodisciplina) imposta o indotta dal "vincolo esterno" si attenua e tende a dissolversi, questo non accade alla polariz­ zazione ereditata dalle culture politiche. Di conseguenza, emerge una profonda contraddizione tra la ricerca di un ruolo autorevole dell' Italia come attore interna­ zionale e come "quinta potenza" economica del mondo, da una parte, e la sua auten­ tica capacità di coesione come compagine nazionale e come comunità politica, , dali altra. La retorica e la politica della divisione nazionale percorrono il discorso pubblico italiano. Nel blocco di governo, l'anticomunismo presenta un carattere centrale, quale collante tra settori di opinione anche molto diversi tra loro. Un elemento incardinato nella lunga durata della storia italiana del Novecento e legittimato nell'epoca della repubblica democratica dalla collocazione occidentale e atlantica del paese16• Negli

24. E. Di Nolfo (a cura di), La politica estera italiana negli anni Ottanta, Lacaita, Manduria (TA)­ Roma-Bari 2003. 25. G. Vacca, Vent'anni dopo. La sinistrafra mutamenti e revisioni, Einaudi, Torino I997, pp. I79-9I. 26. A. Mariuzzo, Divergenze parallele. Comunismo e anticomunismo alle origini del linguaggio politico dell'Italia repubblicana {1945-1953), Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2010. 43

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anni Ottanta si assiste al tentativo socialista di rinnovare il paradigma anticomunista, liquidando il cauto conservatorismo democristiano e sfidando i comunisti sul terreno del riformismo e della modernità. Questo approccio consente ai socialisti di cogliere serie implicazioni della crisi dei sistemi di tipo sovietico e di mettere alle corde i comunisti italiani sul terreno che li vede più vulnerabili e incoerenti, in particolare sulla questione del dissenso, dei diritti umani e della libertà a Ese-7• Seguendo questa linea, il gruppo dirigente craxiano afferma nel discorso pubblico e di governo i carat­ teri dell 'anticomunismo di sinistra, volto a chiedere al PCI una "revisione" compiuta2.8 • Nella seconda metà del decennio, tale discorso assume sempre più il carattere di una polemica storico-politica sulla questione dello "stalinismo", favorita dal revisionismo di Gorbacev in URS S . Craxi e il suo gruppo dirigente hanno ragioni forti e gioco facile nell'incalzare i comunisti, accusandoli di reticenza e scarso coraggio a fare i conti con la propria storia. La delegittimazione del comunismo sta diventando un dato di fatto in Europa e non è certo ascrivibile a una manovra politica. C 'è però da chiedersi se il leader socialista non conti proprio sulla reazione di chiusura e di orgoglio suscitata nel PCI, seguendo una strategia di logoramento più che confidando in un cambiamento. Una strategia che presuppone tempi più lunghi e condizioni più stabili, sul piano nazionale e internazionale, di quanto non accadrà a seguito dell'Ot­ tantanove. Nel contempo, si verifica uno slittamento più sottile e meno visibile all'epoca. Per la prima volta nella storia repubblicana, il blocco anticomunista si affranca dalla centralità democristiana. Questo passaggio modifica alcuni caratteri basilari dell'an­ ticomunismo. I comunisti vengono incalzati con un argomento che in un passato non troppo lontano era stato da loro impiegato contro gli avversari: quello di non essere al passo con i tempi e di non capire la società moderna. Così un nuovo para­ digma si sovrappone al tradizionale anticomunismo conservatore di matrice cattolica, dominante per decenni nell'Italia della Guerra fredda. L'anticomunismo si presenta più efficacemente come una declinazione della modernità dinanzi al degrado e all'ar­ retratezza evidenti delle società comuniste, e contro un' idea di società che comprime il dinamismo, il consumismo e l'individualismo. Ingiustamente accusati da buona parte della sinistra comunista di esprimere la deriva di una "nuova destrà'2.9, i socialisti italiani appaiono semmai in sintonia culturale con lo spirito neoliberale predomi­ nante in Occidente e ne forniscono una traduzione nella specificità del paese, legata alla presenza dell'unico partito comunista di massa rimasto sulla scena. Un' innova­ zione cruciale, che autonomizza il discorso anticomunista dalla presenza stessa della

27. V. Lomellini, L 'appuntamento mancato. La sinistra italiana e il dissenso nei regimi comunisti (I9 6S-I989), Le Monnier, Firenze 20IO. 28. Colarizi, Gervasoni, La cruna dell'ago, cit. 29. Cfr. in particolare A. Tatò, Caro Berlinguer. Note e appunti riservati di Antonio Tato a Enrico Berlinguer, Einaudi, Torino 2003. 44

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e ne prepara la persistenza nel post-Guerra fredda, con una potenziale espansione semantica della nozione stessa di comunismo. Nel caso del PCI, la scomparsa di Berlinguer ha l'effetto di consolidare la costru­ zione identitaria dei primi anni Ottanta. D 'altro lato, non si vede come il PCI potrebbe farsi forza di governo nell'Europa degli euro missili, della conversione moderata di Mitterrand e della crisi della SPD, senza una profonda revisione politica e culturale che non viene neppure accennata. Ciò che si verifica è anzi il contrario di una revisione. L'avvento di Gorbacev non modifica le coordinate dei comunisti italiani, se non nel senso di scongelare il rapporto tra il PCI e l' uRSS. Sebbene l'eu­ rocomunismo sia ormai un ricordo del passato, i comunisti vedono vendicate le loro aspettative di una riforma del "socialismo reale". La loro dichiarata volontà di inte­ grarsi nella sinistra europea viene ricalibrata alla luce dell'attrazione esercitata dalla partnership con Gorbacev. L'affermazione internazionale del "nuovo modo di pen­ sare" nel 19 88-89 e il successo dell' immagine gorbaceviana in Occidente, e in Italia soprattutto, coincidono con l'emergere della nuova generazione di dirigenti raccolta attorno ad Achille Occhetto, amplificando l'idea che la fine della Guerra fredda e un' uRSS riformata possano coincidere e aprire una nuova epoca anche per il comu­ nismo italiano. Le riforme di Gorbacev sembrano offrire la possibilità, tra l'altro, di liquidare definitivamente il "vincolo esterno" senza cancellare l' identità comunista. E un' illusione che dura poco, sepolta dalla caduta del Muro di Berlino e poco dopo dalla dissoluzione dell' uRss. Ma il rapporto con Gorbacev lascia un segno profondo, perché contribuisce a plasmare un' identità "postcomunista" diversa da quella social­ democratica30. Tale prospettiva prevale nettamente sulle posizioni dei moderati, guidati da Giorgio Napolitano, e sulla formulazione di una linea alternativa in chiave di realismo politico, adesione alla famiglia socialista europea, revisione della tradizione antiame­ ricana. Napolitano cerca inutilmente di indicare un ordine di priorità diverso tra l'integrazione nella sinistra europea e il gorbacevismo. La sua alternativa subisce un colpo decisivo proprio alla vigilia del passaggio d'epoca della fine del decennio. Quando egli dichiara, nel febbraio 1988, che i comunisti italiani sono « usciti dai confini della tradizione comunista » , le reazioni nel partito sono largamente nega­ tive31. Subito dopo, il ricambio generazionale interrompe le implicazioni di un simile discorso, volte a recuperare un rapporto con la tradizione socialista e a contribuire alla scomposizione dei blocchi repubblicani. Malgrado la rottura invocata rispetto alla segreteria di Alessandro Natta, la nuova generazione del PCI ricostituisce una continuità più selettiva, ma non meno forte, DC

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30. S. Pons, L'invenzione del "post-comunismo': Gorbaéev e il Partito comunista italiano, in "Ricerche di Storia Politica", XI, 2008, I, pp. 2I-36. 3I. G. Napolitano, Dal PCI al socialismo europeo. Un 'autobiografia politica, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 233· 45

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con la cultura politica berlingueriana32• Il PCI di Occhetto finisce anzi per accentuare l' idea della "diversità'' e per rivendicare la presenza di un comunismo che si pretende risolto nella sua vicenda nazionale, offrendo fino all'ultimo una sponda al discorso anticomunista degli avversari. I tentativi di allacciare relazioni più stabili con il socia­ lismo europeo, usandole però in funzione anticraxiana, presentano un forte aspetto strumentale. L'apice del disorientamento viene raggiunto all'indomani della strage di Tian'anmen nel giugno 1989, quando Occhetto dichiara che il suo partito non ha nulla a che fare con il comunismo internazionale, ma respinge ogni richiesta di un cambiamento del nome. Sotto questo profilo, il PCI costituisce la parte più debole, contraddittoria ed esposta di un intero sistema politico dominato dal riflesso bipolare e impreparato a fronteggiare il repentino disfacimento dell'ordine della Guerra fredda dalla fine del 1989 in avanti.

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Dopo la caduta del Muro : la specificità italiana

Nessun altro evento come la caduta del Muro di Berlino mette in luce la persistenza di una specificità italiana. I principali Stati dell' Europa occidentale non subiscono particolari ripercussioni nella loro politica interna e sono indotti a rivedere piuttosto il proprio modo di pensare l'Europa, che dopo le prime incertezze porta all'accele­ razione dell'integrazione sotto l'impulso congiunto di Kohl e di Mitterrand. Sol­ tanto per la Germania si pongono ovvie implicazioni statuali, risolte dalla scelta dell 'annessione immediata e dell'integrazione dei territori orientali nella compagine federale e nel suo sistema politico, istituzionale ed economico. L' interazione tra l'unificazione della Germania e il rilancio dell'integrazione europea è alla base di Maastricht. Prima ancora della conclusione del trattato, lo scioglimento del Patto di Varsavia e la fine dell' Unione Sovietica sanciscono il carattere mondiale dell'Ottan­ tanove. La fine dell'ordine della Guerra fredda è piena di ambivalenze e incertezze - a cominciare dal rapporto tra gli Stati nazionali e l' Unione Europea - ma sin da quel momento è difficile dubitare che essa apra le porte a processi di portata globale a lungo incubati e ora più visibili nell'economia e nella politica internazionale33• Prima ancora che un evento destinato a investire la politica estera e le strategie internazionali, la caduta del Muro costituisce invece per l'Italia anzitutto una que­ stione di politica interna. Il tramite diretto è ovviamente la fine del PCI. Essa produce 32. A. Guiso, Dalla politica alla societa civile. L'ultimo PCI nella crisi della sua cultura politica, in Acquaviva, Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, cit. 33· G. Lawson, C. Armbruster, M. Cox (eds.), The Global 19S9: Continuity and Change in World Politics, Cambridge University Press, New York 20IO; P. Grosser, 19S9. L'année ou le monde a basculé, Perrin, Paris 2009; S. R. Dockrill, The End of the Cold 1-Vtlr Era, Hodder Arnold, London 2005; C. S. Maier, What Have We Learned since 19Sg ?, in "Contemporary European History� I8, 2009, 3, pp. 253-69.

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un effetto paradossale. Invece che favorire un'articolazione del gioco politico e una ridislocazione delle forze, la trasformazione comunista ha l'effetto contrario. Presa con una certa dose di coraggio subito dopo la caduta del Muro, la decisione di Occhetto di porre fine all'esistenza del Partito comunista italiano non è il frutto di una strategia, ma un'improvvisazione e una presa d'atto del nesso esistente tra politica nazionale e politica internazionale, che Berlinguer aveva cercato di eludere e di scindere. Ora è la nuova generazione dei dirigenti comunisti a invocare la fuoriuscita dalla tradizione e a riconoscere che le sue particolarità nazionali non sono una condizione sufficiente per mantenere legittimità politica. Tuttavia, resta un punto fermo l' idea che la solu­ zione di continuità con la tradizione non possa portare a un'opzione socialdemocra­ tica. La richiesta rivolta da Occhetto al PSI di cambiare nome è forse la mossa più eloquente del "nuovismo" postcomunista, che equiparando la caduta del comunismo alla "crisi" della socialdemocrazia si condanna a un lungo dilemma identitaria e coltiva una cultura politica volta a enfatizzare la specificità italiana invece di ridimensionarla34• Assai più della scissione con Rifondazione comunista - che focalizza l'attenzione su un tormento tanto carico di passioni quanto vuoto di senso politico - la partita autentica si gioca tra la maggioranza del PCI e la corrente riformista fondata da Napo­ litano insieme a Bufalini, Chiaromonte e Macaluso alla fine del 1990. A distanza di vent 'anni, è difficile non vedere le ragioni di Napolitano, quando afferma che l'ansia di innovazione fatta propria dalla maggioranza è soprattutto il frutto di un «confuso velleitarismo » e di una riserva mentale persino sull'adesione richiesta all' Internazionale socialista35• Tuttavia, anche i dirigenti più pronti a fare i conti con la storia del PCI tendono a privilegiare la sua dimensione nazionale, rivendicandone le esperienze rifor­ matrici su base locale: una realtà piena di significati per marcare la distanza del PCI dagli altri partiti comunisti, ma insufficiente a mettere le basi di una nuova identità. Sebbene la decisione di mettere fine all'esperienza del PCI sia maturata come conse­ guenza di un clamoroso avvenimento di portata europea e mondiale, tutti i postcomu­ nisti faticano a riconoscere la rilevanza dell'eredità internazionale nel definire i caratteri e i confini della loro stessa cultura politica. Di qui l'influenza esercitata fino all'ultimo da Gorbacev, figura chiave per configurare una "tradizione" riformatrice inventata nel solco del "socialismo dal volto umano". Occhetto cerca e trova nel leader sovietico riformatore una fonte di legittimazione per la nascita di una formazione postcomunista, tale da consentire sia di vantare la discontinuità in nome di vaghi ideali democratici "di sinistrà', sia di disegnare una continuità con la politica dell'ultimo Berlinguer36• L'opposizione alla Guerra del Golfo costituisce l'occasione per stabilire un legame

34· M. Gervasoni, Una guerra inevitabile. Craxi e i comunisti dalla morte di Berlinguer al crollo del muro, in Acquaviva, Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, cit. 35· Napolitano, Dal PCI al socialismo europeo, cit., pp. 256 -7. Cfr. anche E. Macaluso, 50 anni nel PC!, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2003. 36. A. Rubbi, Incontri con Gorbaciov, Editori Riuniti, Roma 1990. 47

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con il pacifismo degli anni Ottanta e per accreditare il partito nascente nel contesto postbipolare, con una vocazione prevalentemente movimentista. Ciò consente ai postcomunisti di accumulare sufficiente capitale politico per assorbire la caduta di Gorbacev e la dissoluzione dell' uRss alla fine del 1991. Amaramente svanite le ultime illusioni di costruire una nuova legittimità anche tramite un' u RSS riformata, la fine dell' Unione Sovietica può apparire come il passaggio definitivo verso una diversa esperienza, da costruire più sull'oblio che sulla memoria e la coscienza critica del proprio passatoF. Nello schieramento di governo, per altro verso, è difficile rintracciare una visione dei contraccolpi generati dalla fine del sistema bipolare più lungimirante del semplice vanto di stare dalla parte dei vincitori della Guerra fredda. In questo biennio cruciale il ruolo internazionale dell' Italia, malgrado le ambizioni della "media potenza" rilan­ ciate dopo il crollo del Muro specie verso l'Europa centro-orientale, appare alquanto limitato. L' Italia resta esclusa dal negoziato principale, quello sull'unificazione della Germania, pagando ancora a mezzo secolo di distanza le proprie responsabilità nella Seconda guerra mondiale, che le sue classi dirigenti continuano a ignorare. Il governo italiano gioca nella crisi del Golfo un ruolo incerto e attardato in una visione bipo­ larista ormai inadeguata e al tramonto. La ricerca di un diverso e più incisivo "vincolo esterno" europeo che caratterizza l'opera dei governi Andreotti fino alla firma del Trattato di Maastricht non suscita autentici interrogativi sull' idoneità del sistema italiano, così com'è, a confrontarsi con le trasformazioni internazionali. Emerge così una netta contraddizione tra le esigenze di stabilizzazione e di rigore sollecitate dal vincolo europeo e la fragilità del quadro politico nazionale38• La maggioranza delle forze politiche non comprende che il nuovo vincolo europeo presenta una duplice implicazione: offre l'opportunità di realizzare riforme economiche altrimenti impos­ sibili, ma a condizione di smantellare un consolidato tessuto di relazioni tra Stato, partiti e mondo economico cresciuto sotto l'ombrello dell'ordine bipolare. Sotto questo profilo, la sfida costituita da Maastricht deve essere inserita nel contesto della fine della Guerra fredda e delle sue conseguenze sulla politica interna dell' ltalia39• Sebbene alcuni protagonisti si pongano il problema dell' impatto della fine del comunismo sul sistema politico italiano, nessuno fornisce risposte autentiche. Le leadership democristiana e socialista vedono nello scioglimento del PCI prevalente­ mente un cedimento lungamente atteso e decisivo ai fini delle rispettive strategie : 37· A. Possieri, Il peso della storia. Memoria, identita, rimozione dal Pci al Pds (I970-I99I), il Mulino, Bologna 2007. 38. A. Varsori, La Cenerentola d'Europa? L'Italia e l'integrazione europea dal I947 a oggi, Rub­ bettino, Soveria Mannelli ( c z ) 20IO; R. Gualtieri, L 'Europa come vincolo esterno, in P. Craveri, A. Varsori (a cura di), L 'Italia nella costruzione europea. Un bilancio storico (I957-2007), FrancoAngeli, Milano 2009. 39· A. Varsori, L'Italia e la fine della guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (I939I992), il Mulino, Bologna 20I3.

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per Andreotti e Forlani, bilanciare e indebolire il potere di coalizione socialista servendosi della presenza di una forza postcomuni sta caratterizzata dali' antisocia­ lismo ; per Craxi, rovesciare i rapporti di forza a sinistra e iniziare la costruzione di un soggetto politico sotto l'egemonia socialista, ma rimandando al futuro ogni pro­ getto di alternativa. Tra i dirigenti democristiani affiora la consapevolezza che la fine del PCI possa implicare un indebolimento della ragion d'essere del loro stesso partito, da sempre legata a doppio filo alla presenza del comunismo italiano. Tuttavia la questione non viene sollevata in tutta la sua drammaticità e non scalfisce la convin­ zione prevalente che la missione democristiana abbia ancora un senso e un futuro40• Il rischio di un tracollo emerge invece chiaramente durante la Guerra del Golfo, un momento di passaggio decisivo per il mondo cattolico non meno che per quello comunista. Proprio la prima crisi internazionale del post-Guerra fredda mette in luce le divisioni e la tendenziale implosione dell'unità politica dei cattolici. Con la sua condanna senza appello dell' intervento americano, la Chiesa cattolica segue logiche diverse e incompatibili con il governo a guida DC, facendo emergere fratture sempre più difficili da colmare, destinate molto presto ad allargarsi dinanzi all' inizio della dissoluzione della Jugoslavia. Così la Guerra del Golfo presenta un duplice effetto sulla politica italiana: da un lato, annuncia una destabilizzazione del mondo cattolico e la crisi terminale della sua unità politica; dall'altro, fornisce insperato ossigeno ai postcomunisti, pronti a seguire gli anatemi papali sull' « avventura senza ritorno » , anche al prezzo di indebolire la propria credibilità come forza di governo41• In questo panorama, Craxi non gioca il ruolo politico che sarebbe stato lecito attendersi alla luce della sua strategia di lungo periodo. La proposta dell"'unità socia­ lista" dà sin troppo per scontato un rompete le righe unilaterale dei postcomunisti. Craxi non si rende conto che la fine del P C I non cancella l'anticraxismo in quell'area politica e anzi, per molti aspetti, lo alimenta42.. Egli non riconosce a Occhetto quel credito che sembrava disposto a concedere a Berlinguer dieci anni prima e sottovaluta il radicamento nazionale e la capacità di tenuta del nucleo maggioritario del comu­ nismo italiano, a differenza delle altre forze di tradizione comunista in Europa. Ma, soprattutto, il leader socialista non sembra vedere che gli argomenti degli ex comu­ nisti, quando lo accusano di sbagliare legando la propria immagine e il proprio destino all'alleanza e alla gestione del potere con la DC, presentano un fondamento e una eco nella pubblica opinione molto più importanti delle sterili e ormai consunte invettive reciproche nella sinistra italiana. Il Pentapartito è largamente sinonimo di un immobilismo e di un' incapacità di

40. R. Gualtieri, L'Italia dal 1943 al 1992. DC e PCI nella storia della Repubblica, Carocci, Roma 2006; E. Bernardi, La D C e la crisi del sistema politico nelle carte Andreotti, relazione al convegno La Repubblica in transizione 19S9-1994 ( Roma, IO-II marzo 201 1). 4I. Varsori, L'Italia e la fine della guerra fredda, cit., cap. 3· 42. Gervasoni, Una guerra inevitabile, cit. 49

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autoriforma della politica, in un contesto definitivamente separato da ogni giustifi­ cazione legata all'ordine bipolare, comprese quelle relative alle pratiche consociative e alla corruzione, i cui margini di tolleranza si riducono drasticamente. E così che la questione irrisolta di una riforma della "democrazia bloccatà' lascia il passo alla critica del sistema dei partiti nel suo complesso, facendo emergere sentimenti antipolitici mai liquidati nella pancia profonda del paese e persino tra le sue classi dirigenti43. Simili sentimenti configurano una risposta difensiva e impaurita alle sfide della glo­ balizzazione che chiama in causa la società italiana non meno del suo sistema politico. Tali sfide sono ignorate o eluse dalla politica, ma la società e il sistema-paese appaiono privi di risorse sufficientemente differenziate e di culture attrezzate per affrontarle44• In sintesi, finito il sistema bipolare internazionale, la cultura politica italiana tiene in vita la bipolarità segnata dalla Guerra fredda e fondata sulla delegittimazione reciproca risalente alla fine degli anni Quaranta. La continuità di questa « divisività delegittimante » - per dirla con Luciano Cafagna45 - presiede anzi alla prima tran­ sizione post-Guerra fredda, tra il 1989 e il 1992, e lascia la sua impronta sul ventennio successivo fino ai nostri giorni. Sono la deriva cieca di questa transizione, il logora­ mento della credibilità dei partiti e l'esaurimento del "vincolo esterno" della Guerra fredda a spiegare l'effetto dirompente delle inchieste giudiziarie, e non viceversa. La crisi dei partiti di massa e della rappresentanza politica rimanda a sommovimenti profondi della società italiana e al suo passaggio nell'epoca postfordista, che non può essere collegata direttamente al cambiamento internazionale e che riguarda tutte le società europee, con effetti che giungono sino ai nostri giorni46• Ma la fine della combinazione tra i due piani degli anni Ottanta - quello della Guerra fredda nella sua ultima fase e quello delle conseguenze dello "shock globale" - presenta un impatto specifico sull' Italia. Lo "sblocco" del sistema politico italiano si verifica soltanto per consunzione e collasso, perché vecchi e nuovi soggetti politici sono incapaci di una riforma. Il movimento di opinione che improvvisamente afferma il primato della rigenerazione morale dopo decenni di sonnolenza pubblica - e che attraversa tra­ sversalmente tutto l'arco politico - non è portatore di una riforma e non segna la fine delle concezioni antagonistiche dell ' identità politica. Ne è al tempo stesso una manifestazione tardiva e una reinvenzione della tradizione divisiva, un impasto di vecchie idee antipartitiche e di nuovi linguaggi volti ad affermare l'emergere della supremazia della sfera pubblica sulla crisi della rappresentanza politica. Il crollo dei partiti di massa in Italia viene talvolta visto come un evento che '

43· S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (IgSg-2on), Laterza, Roma-Bari 20I2. 44· Cfr. il saggio di F. Romero, L'Italia nelle trasformazioni internazionali di fine Novecento, in questo volume. 45· L. Cafagna, Legittimazione e delegittimazione nella storia politica italiana, in Di Nucci, Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni, cit. 46. M. Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino 20I3. so

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accosterebbe l'esperienza del nostro paese molto di più ai paesi dell' Europa centro­ orientale che non a quelli dell' Europa occidentale. Tale visione rischia di essere fuorviante. Nei paesi comunisti si verificano un collasso dello Stato e una dissoluzione delle istituzioni neppure lontanamente paragonabile agli eventi italiani. La "società incivile" costituita dalle élite comuniste conosce una progressiva paralisi che produce l'arresto e infine il crollo dei poteri burocratici e di tutti i meccanismi basilari dell' at­ tività amministrativa ed economica47• Stabilire una seria analogia con l' Italia significa istituire una dubbia distinzione tra un establishment politico e istituzionale screditato nella sua totalità e una "società civile" candidata a rifondare la sfera pubblica e la sovranità, distinzione che appartiene alla retorica di alcuni protagonisti dell'epoca ma può difficilmente costituire una categoria di interpretazione storica. E significa soprattutto ignorare che in Italia il crollo dei partiti non coinvolge le istituzioni dello Stato. Queste anzi svolgono una funzione di tenuta e di supplenza del sistema poli­ tico, destinata a trasformarsi da un elemento contingente in un elemento permanente della Repubblica, con effetti sia di un contenimento sia di un aggravamento della delegittimazione tra le parti. Così si delinea sin dai primi anni Novanta un muta­ mento sostanziale della "costituzione materiale" del paese, che i soggetti della politica non saranno tuttavia in grado di tematizzare e gestire. La fine dei partiti di massa configura in realtà un caso a parte e una seria anomalia dell' Italia nel mondo occidentale, denunciando la fragilità della figura politica dello Stato nel suo rapporto con la società. Entra definitivamente in crisi il duplice prin­ cipio di legittimità - fondata tanto sull'antifascismo quanto sull'anticomunismo che aveva sin dalle origini caratterizzato la Repubblica e l' impalcatura del sistema politico e costituzionale italiano48• Caduto l'equilibrio asimmetrico tra i due principi insieme al preponderante ordine internazionale che li aveva sovrapposti all'indomani della Seconda guerra mondiale, essi tendono a separarsi quali identità contrapposte, incapaci di fondare un nuovo patto politico e civile. La destra italiana emergente dal crollo del sistema politico e raccolta attorno alla personalità di Berlusconi si propone come il nucleo centrale di una nuova polarità che adotta e aggiorna il vocabolario e le mitologie dell'anticomunismo, comprendendo che il crollo dei regimi comunisti e la fine del PCI possono rilanciarne il significato ideologico invece di liquidarlo. La nozione di comunismo conosce un'espansione semantica e una distorsione pari a quelle conosciute dalla nozione di fascismo negli anni Settanta. La sinistra subisce invece la crisi del paradigma antifascista, oscillando tra l'eredità dell'uso retorico, indifferenziato e monopolistico fattone nel passato e l'esigenza di difenderne il valore

47· S. Kotkin, Uncivil Society: I9S9 and the Implosion of the Communist Establishment, The Modern Library, New York 2009; P. Macry, Gli ultimi giorni. Stati che crollano nel Novecento, il Mulino, Bologna 2009. 48. A. Lepre, L 'anticomunismo e l'antifascismo in Italia, il Mulino, Bologna 1997.

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quale fondamento della Repubblica49• Perciò ricorre allo strumento della denuncia morale già forgiato nel decennio precedente. Il rilancio dell'anticomunismo e la reazione difensiva dell'antifascismo riman­ dano all'esperienza collettiva della Guerra fredda. Ma il suo esaurimento scopre anche un sedimento più profondo della storia italiana. Il discorso anticomunista della nuova destra presenta infatti una forte connotazione prepolitica e antipolitica che viene da lontano e che risale a un'epoca antecedente50• Tale discorso - nella sua contrapposi­ zione all'antifascismo quale identità politica per definizione e quale permanenza della Prima Repubblica - costituisce il principale veicolo, anche se non l'unico, per il linguaggio dell'ostilità ai partiti e alla politica come rappresentanza, come missione e, in definitiva, come sfera autonoma, contrapponendo a essa le virtù della "società civile". La delegittimazione dell'avversario che affligge la storia della Repubblica viene così portata al limite estremo di svalutare la politica in quanto tale: un fenomeno unico nel panorama dei principali paesi europei. Sul piano del discorso pubblico, l'anticomunismo post-Guerra fredda diviene così il fattore più divisivo dello spazio repubblicano e l'aspetto più significativo della anomalia italiana51• Nella prima metà degli anni Novanta, l'elogio dell'eccezionalismo italiano - ancora forte durante gli anni Settanta nelle culture politiche comunista e cattolica - non è ormai all'ordine del giorno. Ma, all'indomani del crollo dei partiti tradizionali, le aggregazioni politiche si connotano per differenza piuttosto che per analogia rispetto alle famiglie politiche europee, contribuendo alla radicalità della polarizzazione. Si lavora molto di più per alimentare la specificità italiana che per normalizzarla, per rinvigorire vecchi linguaggi e identificazioni che non per inventarne di nuovi. La democrazia dell'alternanza che nasce affrancata dal "vincolo esterno" del "lungo dopoguerra" non rimuove, da entrambe le parti, la percezione che il prevalere dell'av­ versario costituisca un rischio per la democrazia e per la vita civile. Il nuovo "vincolo esterno" costituito dall' Unione Europea non ha la forza né il profilo per contenere questa riproduzione in forme diverse della bipolarità italiana. Tutte le forze politiche italiane sono europeiste fino ai primi anni Novanta, ma questo non costituisce un deterrente adeguato. Il motivo va probabilmente indicato nel carattere astrattamente ideale dell'europeismo italiano, ma anche nei limiti strutturali della sponda europea. Mentre infatti il vincolo dell'ordine bipolare internazionale presupponeva una comu­ nità nazionale divisa ma implicava anche le forme del reciproco contenimento nel quadro delle interdipendenze mondiali, il vincolo europeo presuppone una comunità nazionale coesa ai fini del perseguimento dell' interesse del paese nel quadro dell' in49· S. Luzzatto, La crisi dell'antifascismo, Einaudi, Torino 2004. so. R. Chiarini, Atlantismo, americanismo, europeismo e destra italiana, in P. Craveri, G. Quaglia­ riello (a cura di), Atlantismo ed europeismo, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2003, p. 489. S I. Su questo punto, pur condividendo alcuni elementi di anal isi, le nostre conclusioni sono opposte a quelle di E. Galli della Loggia, La perpetuazione delfascismo e della sua minaccia, in Di Nucci, Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni, cit., p. 261. 52

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tegrazione e della globalizzazione economica. Un obiettivo perseguito dalle forze di governo e per aspetti importanti anche da quelle di opposizione nelle posizioni di politica estera, per essere però regolarmente smentito nella sua dimensione interna e nella formazione stessa delle strategie nazionali. Questa dinamica non si attenua ma si accentua e finisce per investire la stessa opzione europea che era apparsa una delle poche acquisizioni incontestabili per circa vent'anni. Il nesso europeista, inteso come la ricerca di un vincolo esterno virtuoso nell' Unione Europea, continuerà a distinguere infatti soltanto le forze e le persona­ lità eredi dei partiti di massa, destinate a distribuirsi nei due schieramenti ma in prevalenza a formare il nucleo del polo progressista, che lega così indissolubilmente le proprie sorti alle fortune alquanto alterne e incerte della costruzione europea. La nuova destra egemone nel polo moderato tenderà invece a contestare il nesso euro ­ peista e a combinare la vocazione antipolitica con l' insofferenza verso l'unico "vin­ colo esterno" rimasto, edificando il proprio consenso maggioritario nel paese sulla chiusura verso i caratteri e i requisiti delle interdipendenze globali. Tale divisione costituisce una delle fondamentali caratteristiche della specificità italiana degli ultimi vent'anni, emancipata dalla "democrazia bloccata" ma non dall'eredità della Guerra fredda e segnata dalla continuità di una frattura bipolare della comunità nazionale, particolarmente rischiosa e dannosa nel nostro mondo globale.

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L' Italia e l'integrazione sovranazionale : l'europeizzazione contrastata d i Sergio Fabbrini

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Premessa L'esperienza governativa che si è svolta tra il novembre 201 1 e il dicembre 2012, e quindi la difficile formazione del governo di coalizione nell'aprile 20 13, costituiscono l'ultimo esempio dell'europeizzazione contrastata della democrazia italiana. Nel novembre 20 1 1 un governo regolarmente eletto venne sfiduciato dai mercati interna­ zionali e dalle istituzioni europee, per essere quindi sostituito da un governo com­ posto da personale tecnico ( ovvero privo di ruoli formali nel sistema politico ) , rimasto in carica fino al dicembre 20 12. Sostenuto da una maggioranza trasversale in Parlamento, il governo tecnico guidato dal primo ministro Mario Monti operò scelte per larga parte definite nelle istituzioni europee, scelte che consentirono di prevenire la probabile bancarotta finanziaria del paese. Seppure da tempo considerate neces­ sarie, quelle scelte di politica pubblica erano state evitate dai precedenti governi di centro-destra e di centro-sinistra, in considerazione dei loro inevitabili costi elettorali. A loro volta, le elezioni parlamentari del 24-25 febbraio 2013 non sono riuscite ad aprire una nuova stagione politica. Occorrerà attendere più di due mesi e occorrerà passare attraverso la drammatica conferma del presidente della Repubblica in carica per giungere alla formazione di un nuovo governo di coalizione ( costituito da tre partiti politici ) , eppure privo delle indispensabili proprietà di un governo di larghe intese, quali un programma condiviso e un reciproco riconoscimento. Ancora una volta, era stata la pressione europea ( oltre che internazionale ) a imporre un'alleanza politica tra partiti che si percepivano come inconciliabili. Poche democrazie sono state condizionate dal sistema europeo e internazionale come l' Italia. Sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, la strutturazione della democrazia italiana e la sua logica di funzionamento sono state, allo stesso tempo, giustificate e condizionate dai processi europei e internazionali. Durante il periodo della Guerra fredda ( 1948-91 ) , che coincide largamente con la vicenda della Prima Repubblica ( 19 53-93 ) , il sistema politico italiano è venuto a riflettere, senza media­ zioni, la basilare frattura geopolitica che aveva caratterizzato il sistema internazionale

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(e quello europeo in particolare) . Con la fine della Guerra fredda e lo sviluppo della Seconda Repubblica ( 1996-20 1 1 ) , il sistema politico italiano è venuto quindi a essere condizionato prepotentemente dal processo di integrazione sovranazionale, in parti­ colare sul piano monetario. Da questo punto di vista è bene tenere distinti il concetto di "europeizzazione" e il concetto di "influenza internazionale". Mentre la seconda si esercita attraverso pressioni esterne sul sistema domestico, la prima implica una com­ penetrazione di logiche tra sistema domestico e sistema europeo. Se la Guerra fredda aveva finito per giustificare e consolidare la basilare frattura ideologica del paese (quella tra comunisti e anticomunisti), l' integrazione sovranazionale ha finito invece per vincolarne l'autonomia decisionale. Se la necessità di tenere l' Italia nell'area di influenza occidentale, durante la Guerra fredda, aveva autorizzato i partiti di governo italiani a un uso particolaristico e sregolato delle risorse pubbliche (tutto era ritenuto legittimo, pur di tenere gli elettori lontani dall'influenza comunista) , tali margini di azione si ridurranno drammaticamente, per i partiti di governo, nel dopo Guerra fredda. Questo secondo periodo, che coincide con l'approfondimento del processo di integrazione europea a partire dal Trattato di Maastricht del 1992, è caratterizzato da un mutamento radicale della relazione tra politica interna e sistema europeo. Quest'ultimo si è trasformato in un vincolo esterno della politica italiana, mentre aveva funzionato come fonte di giustificazione di quest'ultima nella fase precedente. Tuttavia, poiché la classe politica italiana non si è dimostrata in grado di governare l'integrazione sovranazionale del paese, accentuatasi con il Trattato di Maastricht, quell'integrazione ha finito per avere implicazioni contraddittorie e impreviste sul sistema politico. La sospensione della competizione elettorale nel novembre 20 1 1 e la sofferta formazione di un governo di coalizione nell'aprile 20 13, scelte imposte dall'esterno del paese e non già elaborate autonomamente dalla sua classe politica\ costituiscono gli ultimi esempi di ciò che ho definito come l'europeizzazione contra­ stata della democrazia italiana. Qui procederò come segue. Partirò da una ricostruzione della vicenda delle due Repubbliche nel contesto internazionale ed europeo, per quindi discutere le ragioni che hanno portato alla formazione di un governo tecnico nel novembre 201 1. Sulla base di questa ricostruzione, analizzerò infine le problematiche connesse all'europeiz­ zazione della democrazia italiana. Il mio argomento è che le difficoltà in cui si è trovata l' Italia tra il novembre del 201 1 e l'aprile del 2013 sono l'esito dell 'incapacità mostrata dalla sua classe politica nel fare i conti con la crescente interdipendenza tra il paese e il sistema sovranazionale europeo2.. I. Nel testo userò l 'espressione "classe politicà', piuttosto che "élite politica", per sottolineare il carattere di permanenza nelle posizioni di rappresentanza dei principali attori politici sia della Prima che della Seconda Repubblica. 2. Per economia di discorso, farò riferimento al sistema sovranazionale europeo o ali ' Europa intendendo la specifica configurazione istituzionale che è emersa dal processo di integrazione, cioè l' Unione Europea.

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L ' ITALIA E L ' INTEGRAZIONE SOVRANAZ IONALE: L ' EUROPEI ZZAZI ONE C O NTRASTATA 2

Governare l ' Italia consensuale

L' Italia postbellica è stata un'arena cruciale del confronto della Guerra fredda. Si potrebbe dire che quest 'ultima ha rappresentato la sua vera e propria costituzione materiale. Con il ritiro della cosiddetta "legge truffà' nel 1953, il sistema di governo parlamentare si è assestato su un modello di funzionamento di tipo consensuale, così da contenere il confronto tra i partiti rappresentanti i due versanti del conflitto ideologico (la Democrazia cristiana o DC e il Partito comunista o PCI ) . Il modello consensuale di democrazia, contrariamente al modello competitivo, è stato e continua a essere proprio di società caratterizzate da profonde fratture identitarie, quali pos­ sono essere le divisioni di natura linguistica, religiosa, etnica e più generalmente culturale\ Si tratta di divisioni non facilmente negoziabili, avendo un carattere qua­ litativo piuttosto che quantitativo. Per queste ragioni, le democrazie connotate da cleavages identitarie funzionano sulla base di sistemi elettorali altamente proporzio ­ nali (così da riprodurre le relazioni tra i gruppi) , di sistemi di governo che richiedono la costruzione di larghe coalizioni, di sistemi territoriali che riconoscono ampie autonomie alle comunità identitarie in cruciali ambiti di politica pubblica (come l'istruzione, l'assistenza sanitaria, l'organizzazione dei servizi sociali). In Europa, è il caso di paesi come il Belgio, l'Olanda, l'Austria, il Lussemburgo, ma è stato anche il caso della Finlandia, della Francia della Quarta Repubblica ( 1 946-58 ) e (appunto) dell' Italia della Prima Repubblica. Con alcune specificità, la politica consensuale connota anche la Svizzera, oltre che, al di fuori dell'Europa, Israele. Nel caso italiano della Prima Repubblica, il modello consensuale è stato adottato con alcune peculiarità che necessitano di essere rilevate. Se nelle altre piccole demo­ crazie europee, con cleavages identitarie di tipo etnico-culturale, le coalizioni di governo hanno potuto (e possono) allargarsi a tutti i principali partiti politici, questo non è stato possibile nell' Italia della Prima Repubblica (così come nella Francia della Quarta Repubblica o in Finlandia) . Nel caso italiano, dove la cleavage ha avuto un carattere identitaria-ideologico, l'allargamento della coalizione di governo ha incon­ trato un ostacolo politico evidente nella collocazione geostrategica e nella natura ideologica del PCI. Non potendo coinvolgere nel governo un partito collegato alla potenza rivale (l' uRss) dell'Alleanza atlantica a cui l'Italia apparteneva, una conventio ad excludendum si è così attivata nei confronti di quel partito. Un'esclusione dal governo cui non è corrisposta, però, un'esclusione dal processo decisionale interno al Parlamento. L'Italia consensuale si è venuta a strutturare su una doppia maggio­ ranza, centrista nel governo e allargata all 'influenza del PCI nel Parlamento. Natu­ ralmente, ciò ha richiesto un' interpretazione del sistema parlamentare in senso 3· S. Fabbrini, La politica comparata. Introduzione alle democrazie contemporanee, Laterza, Roma­ Bari 2008. 57

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quasi-assembleare, come era avvenuto nella Francia della Terza Repubblica (in par­ ticolare nel periodo 1 9 1 8-40 ), e non già in senso razionalizzato, come nella Germania occidentale postbellica. Il modello consensuale si è dunque strutturato su un sistema parlamentare con governi deboli e partiti forti4 • Il radicamento sociale e la legittimazione ideologica dei partiti sono stati una condizione del funzionamento del sistema parlamentare. I partiti politici sono stati non solamente i gatekeepers del processo decisionale, ma anche lo strumento attraverso il quale ha potuto funzionare l' intero apparato pub­ blico. I confini tra partiti e istituzioni pubbliche si sono progressivamente rarefatti. Tra gli uni e le altre si è creato un rapporto di reciproca identificazione, oltre che di reciproco sostegno. L' Italia consensuale è stata una democrazia dei partiti, in cui attori privati hanno controllato buona parte dell'apparato pubblico, piuttosto che una democrazia liberale in senso proprio, cioè un regime politico basato sulla distin­ zione tra pubblico e privato. Dopo tutto, la logica della Guerra fredda, trasferita all' interno del sistema politico italiano, non poteva che richiedere una soluzione istituzionale debole del conflitto tra i due campi ideologici e geostrategici. La debo­ lezza dei governi era una garanzia che quel conflitto non sarebbe stato risolto attra­ verso atti di forza o attraverso il ricorso a scelte di maggioranza. Più in generale, tale debolezza lasciava aperta un'unica strategia per risolvere il conflitto, ovvero quella della mediazione o del compromesso tra visioni opposte e inconciliabili. Il Parlamento era dunque divenuto l' istituzione centrale per la promozione di compromessi tra i due principali partiti ( n e e PCI ) e i loro alleati. La centralità par­ lamentare nel processo decisionale è stata la condizione per favorire la decisionalità negoziata sulle grandi questioni di policy del paese. Ciò ha creato un processo deci­ sionale farraginoso e lento, ma non di meno rassicurante le principali forze politiche. La ricerca del consenso ha avuto necessariamente i suoi costi, che si sono riversati sulla spesa pubblica, cresciuta sistematicamente nel tempo, raggiungendo quindi il suo picco negli anni Ottanta del Novecento. Le esigenze della Guerra fredda hanno quindi giustificato una declinazione in senso assemblearista del sistema parlamentare e un utilizzo partitico e particolaristico delle risorse pubbliche. Ogni spoglia poteva essere utile per conquistare consenso o per lo meno per allontanare segmenti di elettorato dall'attrazione nei confronti del partito "nemico". Il Parlamento è stato il luogo dove le esigenze della Guerra fredda sono state tradotte in misure finanziarie. La decisionalità incerta del consensualismo italiano ha costituito una vera e pro­ pria anomalia tra le democrazie europee comparabili all' Italia (come la Gran Bre­ tagna, la Francia e la Germania). Sono generalmente i paesi piccoli, privi di una proiezione esterna, ad avere strutture decisionali deboli. Nel caso italiano, ciò fu 4· Cfr. S. Colarizi, Storia politica della Repubblica. Partiti, movimenti e istituzioni (I943-2oo6),

Laterza, Roma-Bari 2007; P. Ignazi, Il potere dei partiti. La politica in Italia dagli anni Sessanta ad oggi, Laterza, Roma-Bari 2002.

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possibile perché le nostre responsabilità esterne erano state delegate ad altri: agli Stati Uniti (e più generalmente alla NATO ) per quanto riguarda la politica di sicurezza, alla Comunità economica europea ( CE E, divenuta quindi Comunità Europea, C E ) per quanto riguarda la politica economica. Tale separazione netta tra politica esterna e politica interna ha consentito la formazione di una classe politica ideologicamente internazionalista, eppure parochial in quanto esclusivamente orientata alla ricerca e alla costruzione del consenso domestico. Una classe politica specializzata nella mobi­ litazione e nella rassicurazione del proprio elettorato di riferimento, spesso collocato all' interno di vere e proprie subculture territoriali, ma impreparata tecnicamente ad affrontare e risolvere i grandi problemi sollevati dallo sviluppo politico ed economico nazionali. Non può stupire che professionisti della politics ma dilettanti delle policies abbiano finito per trascurare le questioni strutturali del paese (come quella meridio­ nale, ancora irrisolta dopo un secolo e mezzo dall'unificazione nazionale), ovvero abbiano utilizzato il bilancio pubblico per sopperire all'incapacità di promuovere riforme strutturali e modernizzazioni istituzionali, come avveniva negli altri paesi europei a noi comparabili. L'esito è stata la creazione delle condizioni della crisi finanziaria del paese, crisi esplosa (nel 1992) una volta sparite le ragioni che avevano giustificato la democrazia consensuale con la fine della Guerra fredda5•

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Governare l ' Italia postconsensuale

Se la fine della Guerra fredda tra il 1989 e il 1991 portò al deperimento della giustifi­ cazione ideologica del modello consensuale, il Trattato di Maastricht concordato nel 1991 e quindi firmato nel 1992 condusse alla messa in discussione delle basi finanziarie di quel modello. Seppure alcuni politici e funzionari pubblici italiani (tra tutti, Guido Carli, allora ministro del Tesoro) ebbero un ruolo cruciale nelle trattative che condus­ sero a quel Trattato, quest'ultimo si sarebbe ben presto rivelato poco o punto conci­ liabile con la domestica politica! economy del paese. Le conseguenze interne di quel Trattato si fecero, infatti, sentire subito. L'avvio del processo di integrazione monetaria portò alla messa in discussione del sistema di "corruzione democratizzata" che si era creato ai lati del modello consensualé. La combinazione della fine della Guerra fredda e dell'avvio del processo di integrazione monetario finì per sradicare le basi dei grandi partiti ideologici emersi dopo la Seconda guerra mondiale, lasciando un vuoto di rappresentanza che venne colmato da organizzazioni personali oppure da partiti coaS · Cfr. P. Grilli, Il cambiamento politico in Italia. Dalla Prima alla Seconda Repubblica, Carocci,

Roma 2007. 6. Cfr. D. Sassoon, Tangentopoli or the Democratization of Corruption: Considerations on the End ofItaly's First Republic, in "Journal of Modern Italian Studies", I, 2008, I, pp. I2 4-43; M. Salvati, Occa­ sioni mancate. Economia e politica in Italia dagli anni '6o ad oggi, Laterza, Roma-Bari 2000. 59

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lizionalF. Tuttavia, anche i nuovi partiti che si affermarono a partire dal 1996 fecero fatica a comprendere la trasformazione strutturale della politica italiana avviatasi con il Trattato di Maastricht. Dopo l'esperienza significativa del governo P rodi del periodo 1996-98, governo che operò con inusuale efficacia per portare la spesa pubblica italiana all' interno dei parametri necessari per adottare la moneta comune, i governi che si sono susseguiti ritornarono alla politics as usual. Basti considerare che i governi di centro­ destra (del periodo 2001-06 e 2008-u) e di centro-sinistra (del periodo 2oo6-o8) non furono in grado di utilizzare la straordinaria opportunità rappresentata dai bassi tassi d'interesse (per via dell'entrata nella moneta comune) per avviare una riduzione del debito pubblico e più generalmente una razionalizzazione dell'apparato statale, sia al centro che nelle regioni. Inoltre, i governi di centro-destra che si sono succeduti, a causa delle caratteristiche talora particolari di alcuni loro membri, finirono per assol­ vere un ruolo marginale nelle negoziazioni europee, con la conseguenza di un ridi­ mensionamento dell' influenza dell' Italia su importanti decisioni comunitarie (come nella politica della giustizia, dell'emigrazione o dell'economia e finanza) . Comunque, agli inizi degli anni Novanta del Novecento, pressioni interne ed esterne spinsero la democrazia italiana oltre i confini consensuali8 • L'approvazione di una nuova legge elettorale quasi maggioritaria nel 1993, in presenza di un sistema di partito destrutturato, ha condotto a una competizione bipolare incentrata su due coalizioni spurie di partiti e raggruppamenti. La bipolarizzazione della competizione ha modificato la relazione tradizionale tra Parlamento e governo a favore del secondo e non più del primo9• Dopo tutto, in un sistema bipolare, la posta in gioco della competizione non può che essere la conquista della maggioranza per dare vita a un governo. Se si vincono le elezioni, è inevitabile che il vincitore voglia utilizzare il governo per realizzare le proprie promesse elettorali e quindi garantirsi la permanenza nella posizione di decisore. Se nell ' Italia consensuale i governi si erano formati dopo lunghe trattative successive alle elezioni, nell' Italia postconsensuale i governi sono emersi direttamente dalle elezioni, condotte da coalizioni eterogenee anche se guidate da un leader indicato come candidato al ruolo di primo ministro per l' intera coali­ zione. Il declino decisionale del Parlamento ha quindi condotto all'ascesa decisionale del governo e, al suo interno, del capo della coalizione vincente. Come mai era avvenuto nel passato, la politica italiana si è personalizzata, al punto che sono stati i leader a definire i partiti e non già viceversa'0• 7· Cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (Ig3g-2on), Laterza, Roma-Bari 20I2. 8. Cfr. S. Fabbrini, Compound Democracies: Why the United States and Europe Are Becoming Similar, Oxford University Press, Oxford 20IO. 9· Cfr. Id., The lnstitutional Odyssey of the ltalian Parliamentary Republic, in "Journal of Modern ltalian Studies': I7, 20I2, I, pp. I0-24. IO. Cfr. Id., The Rise and Fall of Silvio Berlusconi: Personalization of Politics and Its Limits, in "Comparative European Politics", 1 1, 20I3, 2, pp. IS 3-7 I.

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A loro volta, i processi di europeizzazione e internazionalizzazione delle decisioni politiche avevano spinto verso la verticalizzazione delle relazioni politiche interne, con l'inevitabile indebolimento dei meccanismi di controllo su chi decideva (o si presumeva che potesse farlo). Dopo tutto, alle riunioni del Consiglio europeo a Bruxelles oppure a quelle del G8 e del G2o nella capitale di turno, partecipavano i capi di governo e pochi altri ministri (in particolare quelli dell' Economia e degli Esteri). Il funzionamento di tali riunioni richiede inevitabilmente un'autonomia decisionale di coloro che vi partecipano e una speditezza della decisione che rendono di fatto out ofdate i meccanismi tradizionali del controllo parlamentare sugli esecu­ tivi. Il punto è che, nel caso italiano, tale impetuoso processo di trasformazione della logica elettorale e di quella istituzionale non è stato accompagnato da alcun signifi­ cativo intervento di razionalizzazione e di riadeguamento del sistema istituzionale. Così, lo stesso sistema istituzionale che aveva protetto la democrazia consensuale postbellica è stato sottoposto alla pressione di una politica postconsensuale ed euro ­ peizzata poco congeniale a quel sistema istituzionale. Basti pensare alla persistenza di un bicameralismo simmetrico, di una rappresentanza parlamentare ridondante, di un governo collegiale e talora frantumato in dicasteri poco controllati dal primo ministro11, di un'amministrazione inefficiente e introversa1l. Come se non bastasse, quel processo impetuoso di trasformazione non è stato accompagnato da una ridefi­ nizione degli schemi cognitivi della classe politica, da una modernizzazione della cultura pubblica, da una riqualificazione dei processi di selezione dei decisori pub­ blici. Per questo motivo è stato possibile giungere, nel novembre del 2ou, alla minaccia di un tracollo finanziario del paese, senza che il sistema dei partiti dispo­ nesse delle risorse politiche, tecniche e istituzionali per affrontare quella minaccia.

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Il governo dei tecnici

La formazione di un governo a prevalente composizione di tecnici nel novembre 2o u ha formalizzato il declino dell'esperimento politico della Seconda Repubblica. Con la nascita di quel governo si ufficializzò il fallimento di un sistema politico, delle sue classi politiche e dei loro modi di pensare la democrazia italiana nel fare i conti con il processo di europeizzazione. La Seconda Repubblica si è consumata per le sue arretratezze istituzionali e culturali, oltre che per le debolezze strutturali della sua politica! economy. Il paese non era cresciuto economicamente con l'adozione della moneta comune perché non era stato governato adeguatamente, sia dal centro-destra che dal centro-sinistra13. Entrambi gli schieramenti politici erano stati prigionieri (sia rr. Cfr. M. Cotta, L. Verzichelli, Il sistema politico italiano, il Mulino, Bologna 2008. I2. Cfr. S. Cassese, L'Italia: una societa senza Stato ?, il Mulino, Bologna 20r r. I3. Cfr. S. Rossi, Controtempo. L'Italia nella crisi mondiale, Laterza, Roma-Bari 2009.

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pure con lodevoli eccezioni ) di un paradigma politico introverso, un paradigma che aveva continuato ad assumere la politica nazionale come una realtà autosufficiente. Non può stupire che di fronte all'aggravarsi della crisi finanziaria, tra l'estate e l'autunno del 201 1, il paese fosse costretto a rivolgersi ai tecnici per affrontare l'emer­ genza14. Infatti, se evidente era risultato il fallimento del governo di centro-destra nell'affrontare quella crisi, altrettanto evidente era risultata l' inadeguatezza dell'op­ posizione di centro-sinistra a prendere il posto dei suoi avversari. Così, contrariamente ad altri paesi europei ( come l' Irlanda, il Portogallo, la Spagna o la Slovenia) , in Italia non fu possibile affrontare la crisi ricorrendo a elezioni anticipate con cui legittimare nuove politiche di intervento. Un cambiamento al governo, infatti, non avrebbe prodotto sostanziali innalzamenti del tasso di coesione governativa, essendo anche il centro-sinistra ( al pari del centro-destra) diviso e frantumato al proprio interno sulle politiche basilari per salvare il paese15. Si è ripetuto così, vent'anni dopo, ciò che era avvenuto nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, cioè un'alternanza tra governi politici e governi tecnici16. L' Italia, insieme alla Grecia, fu dunque costretta a sostituire la democrazia con la tecnocrazia per affrontare l'emergenza finanziaria17. Come nell'autunno del 201 1, il centro-sinistra era arrivato all'appuntamento del governo senza una cultura adeguata, un programma condiviso, una squadra ministe­ riale preparata, un leader riconosciuto in Italia e in Europa. Così, anche la crisi della Seconda Repubblica ha fatto emergere una seconda logica di alternanza, quella tra governi politici e governi tecnici, piuttosto che tra governi di centro-destra e governi di centro-sinistra. La crisi aveva confermato la difficoltà della classe politica italiana a passare dal paradigma dell'introversione al paradigma dell'europeizzazione18• Il governo dei tecnici, guidato da Mario Monti e durato formalmente fino al 21 dicembre 2012 e di fatto fino alla formazione del nuovo governo Letta il 24 aprile 2013, ha costituito l'epitome dell' insufficienza culturale della classe politica italiana formatasi nel corso della Seconda Repubblica. Larga parte di quest'ultima, infatti, aveva continuato a pensare che il paese fosse davvero sovrano, che il Parlamento potesse controllare le principali variabili monetarie, economiche e sociali, che l'U14. Cfr. J. Hopkin, A Slow Fuse: ltaly and the EU Debt Crisis, in "The lnternational Spectator", 47, 2012, 4, pp. 35-48. 15. Cfr. C. Fusaro, The Formation of the Monti Government and the Role of the President of the Republic, in A. Bosco, D. McDonnell (eds.), Italian Politics: From Berlusconi to Monti, Berghahn, New York 2013, pp. 78-97. 1 6. F. Marone, Prime riflessioni sul governo tecnico nella democrazia maggioritaria italiana, in "Rivista Telematica dell'Associazione Gruppo di Pisa", 2012, http :/ / www.gruppodipisa.it/wp-content/ uploads/ 201 2/ n /MaroneD EF.pdf. 17. Cfr. J. Hopkin, Technocrats Have Taken over Governments in Southern Europe: This fs a Chal­ lenge to Democracy, in "LSE European Politics and Policy (EURO PP) Blog ", 24rh Aprii 2012, http:/ l blogs.lse.ac.uk/ europpblog/ 2012/04/ 24/technocrats-democracy-southern-europe/. 1 8. S. Fabbrini (a cura di), L'europeizzazione dell'Italia. L'impatto dell'Unione Europea sulle isti­ tuzioni e le politiche italiane, Laterza, Roma-Bari 2003.

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nione Europea fosse esclusivamente un'arena di coordinamento tra governi nazionali che rimangono però sostanzialmente indipendenti l'uno dall'altro19• Anzi, nei pas­ saggi più drammatici della crisi dell'estate-autunno 2o u, leader di partito, consiglieri politici di varia natura, esponenti parlamentari, segretari di organizzazioni sindacali alzarono la voce contro la speculazione dei mercati finanziari o l'egoismo dei paesi europei più forti, quasi che la crisi finanziaria fosse l'esito di un complotto europeo se non internazionale contro l' Italia. Quella crisi mostrò, insomma, che continuava a prosperare una visione dualistica della politica italiana: da un lato c'era l' Italia (che è democratica) e dall'altro lato c'era l' Europa (che democratica non può essere). In questa visione, la sovranità fu concepita come un oggetto unitario, in coerenza con la tradizione formalistica italiana, divenuta per molti aspetti un senso comune all'interno dei nostri rappresentanti politici e sindacali. Naturalmente, la sovranità, così come la democrazia, non è un oggetto unitario, bensì può essere spacchettata in modo diverso, nelle diverse arene e politiche pubbliche in cui generalmente si esercita l'azione dell'autorità pubblica. Per di più, questo spacchettamento della sovranità era iniziato da tempo, sul piano finanziario-monetario sin dal Trattato di Maastricht del 1992 e più generalmente sul piano economico dal Trattato di Parigi del 1951 e dai Trattati di Roma del 1957, che sono all'origine dell'attuale Unione Europea. Non solo, l' Italia era stata un paese decisivo per avviare il processo di integrazione sin dagli inizi degli anni Cinquantalo. Insomma, la classe politica della Seconda Repubblica (con ovvie e importanti eccezioni) ha avuto difficoltà a comprendere che in Europa da molto tempo non esistono più gli Stati nazionali ma esistono gli Stati membri dell' Unione Europea. Ha avuto difficoltà a concettualizzare il fatto che l'Unione Europea non è un sistema distinto dagli Stati membri che la costituiscono, come si potrebbe pensare sulla base della logica dualistica. Al contrario, l'Unione Europea è un sistema composito, cioè un sistema politico ed economico nel quale le istituzioni comunitarie di Bruxelles e quelle degli Stati membri condividono pezzi di sovranità, mentre altri pezzi sono controllati principalmente o dalle seconde o dalle primel1• L' Europa è andata oltre Westfalia da molto tempo. La formazione di un mercato comune si è dimostrata una condizione, non solamente della pacificazione europea, ma anche dello sviluppo economico e civile dell' intero continente. Dopo tutto, nessuno Stato nazionale europeo, da solo, avrebbe mai potuto risolvere il problema della pace politica (e quindi della democrazia) e dello sviluppo economico (e quindi della crescita civile e della solidarietà sociale). 19. La letteratura che ha messo in discussione l' interpretazione dell' Unione Europea come un'orga­ nizzazione internazionale è vasta e da tempo consolidata. Per quanto mi riguarda, rinvio a: S. Fabbrini (a cura di), L'Unione Europea. Le istituzioni e gli attori di un sistema sovranazionale, Laterza, Roma-Bari 2002; S. Fabbrini, F. Morata (a cura di), L'Unione Europea. Le politiche pubbliche, Laterza, Roma-Bari 2002. 20. S. Fabbrini, S. Piattoni (eds.), Italy in the European Union: Redefining National Interest in a Compound Polity, Rowman & Litdefìeld, Lanham (MD) 2008. 21. Cfr. Fabbrini, Compound Democracies, cit.

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L' Italia e l ' interdipendenza tra gli Stati europei

Con la decisione di partecipare alla moneta comune, l'euro, che oggi è utilizzata da buona parte dell 'Europa continentale (sono I8 gli Stati membri dell' Unione Europea che aderiscono all' Unione economica e monetaria, UEM) , l' Italia ha ulte­ riormente accentuato la propria integrazione nel sistema composito che organizza i processi decisionali all ' interno dell' Unione Europea. In un sistema composito a sovranità monetaria condivisa, ognuno e responsabile per gli altri, nel senso che le scelte di bilancio di uno Stato membro hanno inevitabili conseguenze finanziarie sugli altri Stati membri. Il contesto di integrazione monetaria e di interdipendenza economica (creato dall' uEM) ha obbligato tutti gli attori politici a rivedere moda­ lità e fini dell 'azione pubblica. In questo contesto è divenuto sempre meno possibile l'uso politico della spesa pubblican, così come si è accentuata la necessità, da parte di ogni Stato dell 'Eurozona, di intervenire nelle decisioni o indecisioni degli altri Stati dell'Eurozona, per via delle loro inevitabili esternalità. La risposta data dal Consiglio europeo (l'organismo politico dell ' Unione Europea in quanto costituito dai capi di Stato o di governo degli Stati membri di quest 'ultima) alla crisi dell'euro ha ulteriormente accentuato l'integrazione tra gli Stati membri dell' uEM. Il Trattato intergovernativo sulla stabilità finanziaria (o ESM) e il Trattato intergovernativo sull'unione fiscale (o Fiscal Compact) hanno verticalizzato il con­ trollo, da parte delle autorità europee, sulle politiche di bilancio e fiscali degli Stati membri (tra cui l'Italia) che hanno aderito a quei trattati (solamente la Gran Bretagna e la Repubblica Ceca non hanno sottoscritto il Fiscal Compact). Tale controllo europeo sulle politiche di bilancio nazionali si è rivelato tanto più forte quanto più irrealistiche erano risultate quelle politiche. Insomma, gli Stati membri che non sanno governarsi hanno finito per essere governati da istituzioni esterne. Ecco perché fu necessario ricorrere al governo tecnico, e alla sua depoliticizzazione delle policies, per avviare alcune basilari riforme finalizzate a ridurre il debito pubblico e a tenere sotto controllo il deficit corrente\ Insomma, ciò che è emerso con chiarezza dopo il 20 I I è che, se è vero che l' integrazione monetaria e l' interdipendenza europea hanno ridimensionato i mar­ gini di azione "sovrana" dei singoli paesi, tuttavia è altrettanto vero che tale ridi­ mensionamento ha avuto caratteristiche diverse e gradi differenti in paesi creditori rispetto a paesi debitori. Fatto si è, comunque, che uno degli ultimi baluardi della sovranità nazionale (l 'autonomia della politica di bilancio) è crollato rumorosa22. L. Paolazzi, M. Sylos Labini (a cura di), L'Italia al bivio. Riforme o declino: la lezione dei paesi di successo, LUISS University Press, Roma 2013. 23. N. Gardels, Mario Monti's Depoliticized Democracy in ltaly, in "New Perspectives Quarterly", 29, 2012, 2, pp. 27-31.

L ' ITALIA E L ' INTEGRAZIONE SOVRANAZ IONALE: L ' EUROPEI ZZAZI ONE C O NTRASTATA

mente sotto la pressione della crisi finanziaria. Di nuovo, la classe politica italiana ha avuto difficoltà a fare i conti con questa storica trasformazione, a capire che non è possibile trovare una soluzione ai problemi domestici operando esclusivamente dall'interno del paese. Ma per operare in Europa occorre capire la strutturazione che quest'ultima ha acquisito con il Trattato di Lisbona. Quel Trattato ha forma­ lizzato due diverse "costituzioni", cioè due diversi assetti istituzionali e regimi decisionali. L'assetto principale è quello sovranazionale. Il Trattato di Lisbona, per tutte le materie che riguardano il mercato unico, ha strutturato un processo deci­ sionale all'interno di un quadrilatero di istituzioni: due di carattere esecutivo (il Consiglio europeo e la Commissione) e due di carattere legislativo (il Consiglio dei ministri e il Parlamento europeo). Il Consiglio europeo dei capi di Stato o di governo degli Stati membri è diventato sempre più importante nei processi deci­ sionali, un potere a sua volta bilanciato dal Parlamento europeo, che è l'altro vin­ citore del Trattato di Lisbona. Se così è, allora si comprende perché fu necessario ricorrere a un economista come Mario Monti, già commissario europeo per la concorrenza, per poter disporre di un capo di governo capace di agire adeguata­ mente all' interno del Consiglio europeo. Nello stesso tempo, però, il Trattato di Lisbona ha formalizzato una "costitu­ zione" assai intergovernativa nel campo di quelle politiche storicamente vicine al cuore della sovranità nazionale (come la politica estera e militare, le politiche sul welfare e l'occupazione e, appunto, la politica finanziaria) . Qui, le decisioni vengono prese dalle istituzioni intergovernative del Consiglio europeo e del Consiglio dei ministri (come l' ECOFIN nel campo della politica finanziaria) , con un ruolo molto limitato delle istituzioni sovranazionali, cioè della Commissione e soprattutto del Parlamento europeo. Anzi, i nuovi trattati ( ESM e Fiscal Compact) hanno acutizzato ulteriormente il carattere intergovernativo della politica finanziaria, sotto la pres­ sione della Germania e della Francia che naturalmente (in quanto Stati membri forti e grandi) sono in grado di condizionare la logica intergovernativa (ovvero di farla "girare" a loro favore). Inconsapevole di tale complessità, il governo di centro­ destra del periodo 2oo8- 1 1 agì per rafforzare la logica intergovernativa, mentre la debolezza dei nostri governi e le risorse comunque limitate di cui dispone il nostro paese avrebbero dovuto spingerlo a sostenere le istituzioni e i metodi decisionali sovranazionali. Fatto si è che l'Europa intergovernativa ha portato a un'intrusione sempre più spinta dei paesi creditori nelle scelte dei paesi debitori (come l' Italia). Questi ultimi hanno finito per subire l' Europa, piuttosto che per utilizzarla. Con l'esito che, in Italia come negli altri paesi debitori, un sentimento antieuropeo si è affermato nell'opinione pubblica. Comunque sia, è stata l'assenza di un governo (ma anche di un'opposizione) con una mentalita europea che ha reso l' Italia irrile­ vante nel processo decisionale comunitario durante la crisi dell'euro, non solo e non tanto le ambizioni egemoniche della Francia o il rigorismo finanziario della Ger. manta. 6s

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6 Tra politics e policy

Il processo di europeizzazione ha condizionato l' Italia come le altre democrazie europee. Tutti gli Stati membri dell' vE, e in particolare quelli dell'Eurozona, hanno registrato una sempre più accentuata divaricazione tra le scelte di policy (prese a livello comunitario) e il dibattito sulla politics (rimasto principalmente nazionale). Tuttavia, quella divaricazione è risultata molto più approfondita in Italia che negli altri paesi a essa comparabili. Risucchiata da una vertiginosa logica introversa, la classe politica italiana ha faticato a porsi il problema di come ridefinire i termini del rapporto tra corsi d'azione per risolvere problemi collettivi (la policy) e conflitto posizionale tra partiti e leader (la politics) . A fronte di tale difficoltà cognitiva, prima ancora che politica, la reazione principale è stata quella di trasformare l'Europa nel capro espia­ torio delle proprie incapacità. Da quando è esplosa la crisi dell'euro e fino alla for­ , , mazione del governo Monti, l Italia è stata per larga parte assente dali aspro con­ fronto europeo sulla risposta da dare alle sfide provenienti dall' integrazione monetaria e dall' interdipendenza economica. E stato con il governo tecnico di Mario Monti che l' Italia ha recuperato un ruolo di influenza nelle istituzioni comunitarie (e nel Consiglio europeo in particolare), contribuendo a modificare l'agenda delle priorità di politica economica e finanziaria attraverso la costruzione di una coalizione tra Stati membri penalizzati dalle politiche di austerità. Ma l'azione di un governo tecnico ha un tempo e uno spazio limitati. La capacità di ridurre la discrasia tra policy e politics dipende da fattori politici e istituzionalP.4, non già da soluzioni di emergenza. Eppure, la drammatica difficoltà a costruire una coalizione di governo, dopo le elezioni del 24-25 febbraio 20 13, testimonia del carat­ tere ancora introverso della classe politica italiana. In quest 'ultimo caso, si è giunti alla formazione di un nuovo governo (il governo Letta) dopo ben 61 giorni dalle elezioni e dopo la sofferta rielezione del presidente della Repubblica in carica per un altro mandato di sette anni. In realtà, nella Seconda Repubblica, è stata la Presidenza della Repubblica l'unica istituzione che ha collegato l'Italia con i suoi partner europei e internazionali. A fronte dell' introversione della classe politica parlamentare, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (come era già avvenuto con i presi­ denti Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi) si è dimostrato l'unico rappre­ sentante politico del paese consapevole delle implicazioni del processo di europeiz­ zazione sulla politica nazionale. Infatti, la scelta del presidente della Repubblica di affidare il governo al vicesegretario del maggior partito della coalizione, Enrico Letta, ...

24. Cfr. V. A. Schmidt, E. Gualmini, The Politica/ Sources of Italy's Economie Problems: Between Opportunistic Politica! Leadership and Pragmatic, Technocratic Leadership, in "Comparative European Politics", 11, 2013, 3, pp. 360-82; S. Fabbrini, Politica! and lnstitutional Constraints on Structural Rejòrms: Interpreting the ltalian Experience, in "Modern ltaly", 1 8, 2013, 4, pp. 423-36. 66

L ' I TALIA E L ' INTEGRAZIONE SOVRANAZ IONALE: L ' EUROPEI ZZAZIONE CO NTRASTATA

è andata nella direzione di favorire una continuità con il precedente capo del governo, Mario Monti. Entrambi, infatti, sono leader riconosciuti in Europa, dotati delle competenze tecniche e linguistiche per operare a livello europeo, consapevoli delle implicazioni nazionali del processo di europeizzazione. Tuttavia, le qualità personali di un primo ministro non sono sufficienti per garantire all' Italia una capacità di influenza nei processi decisionali europei. Quell'in­ fluenza, che poi significa capacità di ridurre la distanza tra policy e politics, dipende da fattori strutturali, non già contingenti. Fattori che la classe politica italiana ha sistematicamente trascurato, mantenendo il vecchio sistema istituzionale disegnato per organizzare il processo politico di una democrazia consensuale basata su una frattura ideologica, ma anche costruendo un sistema di partiti del tutto eccentrico rispetto ai sistemi partitici europei. A fronte di un processo di verticalizzazione e accelerazione dei processi decisionali, l' Italia continua a essere (nel 20 13) l'unico paese, tra le grandi democrazie europee, ad avere un bicameralismo indifferenziato, una rappresentanza parlamentare ridondante, un'organizzazione del governo poco o punto centralizzata, un ruolo dell'opposizione non istituzionalizzato�5• Se con la Seconda Repubblica il baricentro decisionale si è trasferito sull'esecutivo, tuttavia quest'ultimo non è stato attrezzato per assolvere i fondamentali compiti di decisione e implementazione delle policies�6• Allo stesso tempo, il ridimensionamento del Par­ lamento non ha condotto a una sua razionalizzazione organizzativa e istituzionale. La frammentazione partitica al suo interno si è accentuata, non sono stati introdotti meccanismi per rafforzare il ruolo delle opposizioni, i processi di qualificazione funzionale delle commissioni sono stati quanto mai timidi, la capacità del Parlamento di diventare almeno la sede del dibattito sulle grandi priorità nazionali si è rivelata scarsa o nulla�7• Per di più, con le elezioni del 24-25 febbraio 20 13, la frantumazione delle rappresentanze parlamentari ha condotto alla rinascita di logiche assembleariste all' interno del legislativo. Se l' Italia non ha riformato il proprio modello istituzionale per attrezzarsi ad affrontare le sfide dell 'europeizzazione, non ha neppure individuato un modello politico che potesse garantirle una qualche capacità di influenza a livello europeo. Infatti, se si guarda al sistema di partito che si è affermato nella Seconda Repubblica dal punto di vista della nuova governance europea, non si può non rimanere stupiti dalla sua eccentricità. Negli ultimi vent'anni, nonostante i cambiamenti colossali intervenuti con la fine della Guerra fredda, la democrazia italiana non è riuscita a dotarsi di strumenti partitici capaci di organizzare la competizione politica all'in-

25. S. Fabbrini, V. Lippolis, G. M. Salerno (a cura di), Governare le democrazie. Esecutivi, leader e sfide, numero monografìco di "TI Filangieri", Quaderno 20IO. 26. Fabbrini, The Institutional Odyssey of the ltalian Parliamentary Republic, cit. 27. G. Rizzoni, Opposizione parlamentare e democrazia deliberativa. Ordinamenti europei a con­ fronto, il Mulino, Bologna 2012.

S ERGIO FAB BRINI

terno dello spazio definito dalle necessità di quella governance europea. Il precedente sistema di partito, crollato drammaticamente all'inizio degli anni Novanta del Nove­ cento, non è stato sostituito da un nuovo sistema di partito coerentemente europeo. Il vuoto lasciato dai partiti ideologici del passato è stato riempito da partiti personali oppure da gruppi di politici alleati per conseguire il controllo dell'una o dell'altra spoglia pubblica. Se nel passato i grandi partiti di massa avevano aggregato gli inte­ ressi particolari in una prospettiva politica giustificata ideologicamente, a partire dagli anni Novanta sono stati molto più spesso gli interessi particolari a usare i partiti personali per raggiungere i propri obiettivi. La legge elettorale approvata dal centro­ destra nel 2005, e nota come Porcellum, ha portato alle estreme conseguenze questo processo di personalizzazione e parcellizzazione della politica, ma non lo ha creato in quanto tale. Così, la competizione bipolare finalmente acquisita (e che ci ha reso simili alle altre grandi democrazie europee) è stata costantemente ipotecata da una struttura­ zione incoerente e frazionata delle due principali coalizioni. Ciò ha dato vita non solamente a un bipolarismo litigioso, ma soprattutto a un bipolarismo frammen­ tato�8 . Ciò che si riteneva necessario per vincere le elezioni (mettere insieme il maggior numero di gruppi e gruppetti, di interessi funzionali e particolari) si è poi rivelato un handicap drammatico dopo le elezioni. In particolare sul versante del centro-sinistra ma anche su quello del centro-destra (nonostante il secondo, al con­ trario del primo, disponesse di un leader unificante, anche per l' imponenza delle risorse personali di cui ha potuto disporre), i governi si sono rivelati incapaci di governare. La persistenza del precedente sistema istituzionale coniugata con un sistema di partito semistrutturato ha inevitabilmente condotto a ricorrenti conflitti interni alla maggioranza (tra il capo del governo e l'uno o l'altro ministro, tra il capo del governo e il presidente della Camera dei deputati espresso dalla sua stessa mag­ gioranza, tra i vari leader dei gruppuscoli o fazioni di quest 'ultima) , più che tra governo e opposiziOne. In vent'anni, e nonostante gli incentivi (seppure contraddittori) della prima riforma elettorale maggioritaria (plurality) basata su collegi uninominali (utilizzata tra le elezioni del 1994 e quelle del 2001), il nostro sistema di partito ha continuato a rimanere incredibilmente italocentrico. Sul centro-destra, abbiamo avuto partiti in feroce contrapposizione a Roma ma membri dello stesso Partito popolare europeo a Strasburgo (dove risiede il Parlamento europeo). Oppure, sul centro-sinistra, si sono formati partiti che tenevano insieme componenti che a loro volta hanno continuato a dividersi nel sistema di partito del Parlamento europeo (tra i Liberai-democratici e i Socialisti poi divenuti Socialisti e Democratici) . Durante il primo decennio del Duemila, l'influenza italiana è stata dunque limitata non solo nel Consiglio europeo •



28. Fabbrini, Lippolis, Salerno (a cura di), Governare le democrazie, cit. 68

L ' ITALIA E L ' INTEGRAZIONE SOVRANAZ IONALE: L ' EUROPEI ZZAZI ONE C O NTRASTATA

ma anche nel Parlamento europeo, ovvero nelle istituzioni in cui si prendevano (e si continuano a prendere) le principali decisioni. Se si considera il legislativo bicamerale dell' Unione Europea basato sulla codecisione delle leggi da parte sia del Consiglio dei ministri che del Parlamento europeo, la debolezza dei nostri governi ci ha reso inevitabilmente irrilevanti nel primo e la confusione ed eccentricità del nostro sistema partitico ci ha reso poco significativi nel secondo.

7

Conclusioni

Un'europeizzazione contrastata, perché non capita né governata, ha finito per affer­ marsi come la principale discriminante nel sistema politico italiano postconsensuale. Non solamente perché, con le elezioni del 24-25 febbraio 2013, si è affermato un forte movimento di tipo populista che ha fatto dell' Europa la causa principale dei problemi italiani. Ma tale antieuropeismo ha continuato a prosperare anche all'interno delle principali coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra. Si è affermato un partito (e un sentimento) an tieuropeo nel centro-destra, così come si è affermato un partito (e un sentimento) analogo nel centro-sinistra. Coalizioni di questo tipo non pote­ vano ambire a governare l' Italia nel contesto di un'europeizzazione accentuata dalla crisi finanziaria. Infatti, la formazione del governo Letta ha condotto a una spaccatura all' interno di ognuna di quelle principali coalizioni, con l'esito che le rispettive componenti antieuropeiste si sono schierate all'opposizione di quel governo. Insomma, è stata l'esigenza di avere un governo accettabile a Bruxelles ad aver spinto il nostro sistema politico, dopo le elezioni del 24-25 febbraio, verso la formazione di una grande (seppure ufficiosa) coalizione di governo, che ha escluso gli antieuropeisti di destra e di sinistra. Un esito paradossale, ma inevitabile, dopo che le maggiori coalizioni politiche si erano consentite di pensare a sé stesse per anni a prescindere dal contesto europeo. Così, peraltro, invece di uniformarci alla logica propria delle grandi democrazie europee, che incentiva l'alternanza al governo tra partiti o coali­ zioni distinte, l' Italia è ritornata all'aggregazione al centro del passato. Come in pochi altri paesi, in Italia il processo di europeizzazione è stato contra­ stato e ha avuto effetti contraddittori. La strategia di portare l' Italia nel processo di integrazione sovranazionale e di preservarne un ruolo di influenza è stata promossa da settori minoritari della classe politica, mentre è stata subita o accettata strumen­ talmente da settori maggioritari di quest'ultima. All' interno della classe politica si è così creata una divisione tra chi ha fatto dell' Europa un necessario "vincolo esterno" e chi invece ha rifiutato quest'ultimo in nome di una presunta sovranità nazionale. Nel contesto della crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti nel 2007 e giunta in Europa due anni dopo, questa divisione si è trasferita nel sistema di partito e quindi nell'opinione pubblica del paese. Ciò ha portato a una vera e propria paralisi del

S ERGIO FAB BRINI

sistema di partito, obbligato a dare vita a coalizioni di emergenza per poter garantire un collegamento tra il paese e il sistema sovranazionale dell' Unione Europea. Se non si affermerà un' idea dell' Italia adeguata ai processi di europeizzazione che l' hanno coinvolta da tempo, allora sarà difficile costruire un legame tra la policy e la politics. E improbabile che il paese potrà uscire dallo stalla prodotto dalla crisi della Seconda Repubblica se non sarà guidato da una classe politica capace di gover­ nare le trasformazioni epocali che lo attraversano. Una classe politica che potrà essere tale solamente se sostenuta da un'idea diversa, rispetto a quella intrattenuta dalle precedenti, della relazione inestricabile che si è creata tra l' Italia e gli altri Stati membri dell'Unione Europea e dell' importanza di ridefinire radicalmente il rapporto tra la policy e la politics. L' Italia ha bisogno di una nuova infrastruttura istituzionale, politica e cognitiva per affrontare la sfida della sua europeizzazione, una sfida molto più complessa di quella per la nazionalizzazione del paese che ha dovuto affrontare tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. ...

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L'Italia nel mercato globale e nell'Europa germano-centrica di Valerio Castronovo

I

L' Italia in crisi. Un percorso a spirale che nasce dagli anni Ottanta

Da un decennio il nostro paese ha smesso di crescere e si trova ora nel mezzo di una grave recessione. La sua è una profonda crisi strutturale i cui sintomi erano peraltro già evidenti all' inizio degli anni Novanta, per l'abnorme espansione della spesa cor­ rente, l' impennata del debito pubblico, l ' indebolimento della grande industria, la perpetuazione di una larga fascia di evasione fiscale, la scarsa efficienza del settore dei servizi ancorché sempre più costosi. Questa "spirale perversà' era stata innescata originariamente da un intreccio di cause esogene e di cause endogene : da un lato, la forte instabilità dei cambi dopo il dissolvimento del sistema di Bretton Woods e due successive esplosioni dei prezzi del petrolio e di svariate materie prime, che avevano generato, in un paese come il nostro carente di combustibili e di fonti minerarie, una prolungata stagflazione; dall'altro, la persistenza di un convulso rivendicazionismo sindacale, che aveva reso ardua la gover­ nabilità delle maggiori imprese e determinato una rincorsa fra salari e prezzi. Nella seconda metà degli anni Ottanta l'economia italiana era riuscita a ripren­ dere quota mettendo a segno sino al 1991 un saggio medio di sviluppo del 3%, durante una congiuntura internazionale in ascesa. Ma avevano continuato a incidere negati­ vamente sulla produttività generale del sistema-paese troppe diseconomie esterne, dovute a una ragnatela di pastoie burocratiche, alle permanenti incertezze in materia di politica energetica, all'arroccamento di gran parte degli istituti bancari sulle ren­ dite di posizione, ai vistosi ritardi nell 'ammodernamento delle infrastrutture. Inoltre, diverse grandi imprese, anziché puntare su investimenti propulsivi in ricerca e inno­ vazione, confidavano su una domanda pubblica che garantisse loro determinate quote del mercato domestico, al riparo da un'accresciuta concorrenza estera dopo la forma­ zione del mercato unico europeo. Dal canto suo, il Pentapartito aveva premuto il pedale dell'interventismo pub­ blico con una sequela di provvedimenti assistenziali a pioggia, sia per stemperare i 71

VALERIO CASTRONOVO

conflitti sulla redistribuzione del reddito o per surrogare il mancato decollo di pro­ cessi di crescita autoctoni in numerose contrade del Mezzogiorno, sia per l'acquisi­ zione e la gestione (con l'uso del voto di scambio) del consenso sociale. A tal fine continuavano a essere generose anche le misure riguardanti il sistema previdenziale, poiché consentivano pure a quanti non erano adibiti a lavori usuranti di andare in pensione anzitempo e, quindi, di trovarsi un'altra occupazione, sovente "in nero", accrescendo così l'area dell'evasione fiscale e dell'elusione contributiva. In sostanza, se l'economia italiana s'era rimessa in marcia, lo si doveva soprattutto alle svalutazioni della lira (ancora fluttuante nell'ambito del Sistema monetario europeo) che concorrevano ad alimentare le nostre esportazioni; alla sopravvivenza (grazie alle stampelle dello Stato) di alcune aziende pubbliche altrimenti sfiancare da un fardello di passività finanziarie; e all'irruzione sulla scena di una fitta schiera di microimprese, spuntate dai meandri dell"'economia sommersa" o fiorite in seguito al decentramento di parte delle loro lavorazioni, a cui erano ricorsi vari complessi di maggiori dimensioni per ridurre i costi di manodopera e acquisire più agibilità in una situazione di forte instabilità dei prezzi e dei cambi. Quanto al sistema politico, aveva finito per reggersi - data l' impossibilità (per via del "fattore K") di un'alternanza bipolare di governo - su una trafila di negozia­ zioni e pratiche consociative, cucite e ricucite di volta in volta, per iniziativa in particolare della DC, fra la coalizione di maggioranza e il PC sulle più rilevanti deci­ sioni di spesa riguardanti Regioni, municipalità e organizzazioni di categoria. S 'era costituito in tal modo una sorta di "partito unico della spesa pubblica", speculare a un establishment finanziario-industriale, il cosiddetto "salotto buono" del capitalismo italiano, costruito da Mediobanca su patti di sindacato e "scatole cinesi", per esorciz­ zare potenziali conflitti d'interesse o per gestire incroci più o meno incestuosi fra i principali gruppi privati. In pratica, se fino ad allora si era scongiurato il pericolo di una deriva della finanza pubblica, si doveva alla Banca d' Italia, che aveva mantenuto una posizione indipen­ dente dai governi in carica dopo la decisione (concordata nel 1981 con il ministro del Tesoro Andreatta) di non assorbire più tutti i titoli di Stato rimasti invenduti sul mercato ali' atto della loro emissione. Altrimenti il debito pubblico sarebbe schizzato a vette ancora più elevate. Soltanto dopo gli impegni assunti nel febbraio 1992 con l'adesione al Trattato di Maastricht (decisa dal governo Andreotti-Carli per cercare, in forza di un vincolo esterno, di rimettere in sesto i conti dello Stato) e l'epilogo traumatico della Prima Repubblica (travolta dalle inchieste giudiziarie su Tangentopoli e dall ' irruzione sulla scena della Lega Nord), si comprese infine che non sarebbe stato più possibile segui­ tare a scaricare sul cambio e sul debito (salito frattanto al 1 19%, dall' 8 8% del PIL del 1986) le nostre numerose anomalie in fatto di ingenti deficit di bilancio, spese impro­ duttive, stridenti divari territoriali, sperperi nella sanità pubblica e nella gestione degli enti locali. Di qui la dura manovra finanziaria varata dal governo Amato, le misure 72

L ' ITALIA NEL M E RCATO G LOBALE E NELL ' EUROPA G ERMAN O - C ENTRI CA

per una riduzione del disavanzo primario avviate da quello successivo di Ciampi e l'accordo fra l'esecutivo e le parti sociali che abolì nel luglio 1993 la scala mobile e che prevedeva, all' insegna di una "politica dei redditi", una dinamica dei salari in linea con l'inflazione programmata. Ma per poter rientrare nel Sistema monetario europeo, azione che comportava un riallineamento della lira sul marco, s'era dovuto sacrificare metà delle nostre riserve valutarie. Alla fine, l' impegno di Bankitalia per contenere la crescita della base monetaria e la legge finanziaria del governo Prodi per ridurre il deficit (unitamente a un'eurotassa sui redditi da lavoro superiori a un certo livello) posero le premesse per la nostra ammissione nel 1998 (faticosamente nego­ ziata, peraltro, sino all'ultimo con Bruxelles) nell' Unione economica e monetaria europea. Ciò valse ad alleggerire gradualmente i costi di finanziamento del debito pubblico. Rimasero invece deluse in gran parte le aspettative su un cambiamento in pro­ fondità dell'economia italiana, destate dai procedimenti di liberalizzazione e priva­ tizzazione del settore bancario e assicurativo nonché di quelli dell'energia e dei tra­ sporti. È vero che, mediante una maggior dose di concorrenzialità e trasparenza (che avrebbe dovuto essere garantita da apposite Authority), si era puntato ad accrescere l'efficienza complessiva del sistema-paese, altrimenti ingessato da un tenace conser­ vatorismo, dalla riluttanza di gran parte della classe politica e dell'opinione pubblica a un mutamento di scenario e di paradigmi. Questa decisione avrebbe potuto dispie­ gare pienamente i suoi effetti se si fosse tradotta anche in concrete misure liberaliz­ zatrici per alcuni servizi pubblici municipalizzati, gli esercizi commerciali e le attività professionali. Ma un intervento del genere continuò a incontrare forti resistenze non solo delle singole lobby di categoria, ma anche di vari partiti politici, pur di diversa matrice, nonostante i reiterati moniti della Commissione di Bruxelles. Quanto alle privatizzazioni, prescindendo da quelle parziali dei cosiddetti "cam­ pioni nazionali" (come ENI, ENEL e Finmeccanica che furono blindati dalla golden share del Tesoro, in quanto considerati strategici), esse vennero gestite soprattutto con l' imperativo di far più cassa possibile, per alleggerire il deficit: senza preoccuparsi più di tanto di una riallocazione adeguata, in funzione di nuove opportunità di sviluppo, delle imprese e delle banche poste sul mercato. Alcune di esse, di proprietà o a partecipazione pubblica, furono così acquisite da multinazionali che miravano a imbastire proficui affari nel mercato italiano, senza che analoghe garanzie di recipro­ cità venissero riconosciute o rispettate in pratica dai governi dei loro paesi. Quanto alle imprese dismesse dall'IRI, quelle su cui si concentrò l'interesse dei maggiori gruppi privati italiani appartenevano per lo più alla sfera dei servizi di pubblica utilità (energia, telecomunicazioni, autostrade, trasporti), particolarmente appetibili in quanto godevano di un regime di concessioni di vario genere. Queste operazioni comportarono comunque un notevole indebitamento da parte degli acquirenti: così che il loro ricorso al credito bancario, mentre li portò a usare la lesina in nuovi investimenti, valse a rafforzare l' influenza dei circoli finanziari anziché irrobustire il 73

VALERIO CASTRONOVO

sistema produttivo. Inoltre, gli interventi della Cassa integrazione straordinaria, per far fronte al ridimensionamento degli organici delle aziende cedute dalle Partecipa­ zioni statali, caricò il bilancio pubblico di ulteriori oneri.

2

La globalizzazione e il made in Italy, i punti di forza e quelli di debolezza delle

PMI

In queste condizioni non certo ideali l' Italia si trovò ad affrontare, al volgere degli anni Novanta, gli impervi tornanti sia della globalizzazione dei mercati sia dell' inte­ grazione economica e finanziaria dell'Eurozona. In pratica, mentre la fine ( a partire dal 1995) delle "svalutazioni competitive" della lira e una più aggressiva concorrenza su scala internazionale comportavano sostanziali cambiamenti nel genere o nella qualità di offerta del nostro sistema produttivo, a sua volta la disciplina di bilancio che informava la politica economica di Eurolandia richiedeva un'opera severa e costante di risanamento dei conti pubblici. Il modello di specializzazione dell' industria italiano non era più tale da poter reggere alla lunga, con la necessaria incisività, la duplice pressione competitiva dei paesi emergenti a basso salario e di alcuni nostri concorrenti europei assai più attrez­ zati quanto a intensità di capitale e tecnologia. Da un lato, taluni articoli tipici del made in Italy ( da quelli tessili ali' abbigliamento, ali' arredo domestico ) erano produ­ ci bili o comunque imitabili, a costi di lavoro nettamente inferiori, da imprese asia­ tiche e dell 'Est europeo ; dall'altro, avevamo finito per gettare al vento o per non valorizzare dovutamente, nel corso del precedente ventennio - sia per una sostanziale indifferenza della classe politica sia per scarsa lungimiranza di alcuni gruppi di comando finanziari e industriali - alcuni importanti risultati che si erano acquisiti in settori d'avanguardia ( dall'elettronica alla biochimica, dalla meccanica pesante all' informatica) . Inoltre, dopo il referendum del 1987, avevamo rinunciato all' impiego del nucleare, ed era così cresciuta la nostra dipendenza dalle importazioni di gas e petrolio, con le conseguenti ricadute sui costi dell'energia. Per di più, la disponibilità di adeguate risorse finanziarie per un paese come l' Italia, tradizionalmente povero di capitali di rischio, dipendeva adesso in misura rilevante dalla capacità di attrarre investimenti diretti dall 'estero. Ma questa prospet­ tiva incontrava ostacoli d'ogni sorta, sia per gli eccessi di pressione fiscale sulle imprese, sia per le rigidità del mercato del lavoro, sia ancora per un' insufficiente qualità dei servizi e un quadro normativa pletorico o contraddittorio. Perciò erano piuttosto le nostre imprese a delocalizzare parte dei loro impianti all'estero, soprat­ tutto nei paesi dell'Europa centro-orientale dove non esistevano simili handicap. Di fatto, a rendere asimmetrica la struttura della nostra industria rispetto alle connotazioni dei sistemi produttivi più avanzati erano due criticità: da un lato, la 74

L ' ITALIA NEL M E RCATO G L OBALE E NELL ' EUROPA G ERMANO - C ENTRICA

scarsità di grandi gruppi, che, in quanto tali, potevano avvalersi di consistenti eco­ nomie di scala e adeguati tassi di innovazione tecnologica, ossia di una "massa cri­ tica" necessaria per agire con successo in settori a prevalente concorrenza oligopo­ listica; dall'altro, la proliferazione di una miriade di piccole e piccolissime imprese ancorché dinamiche ma sottocapitalizzate e senza adeguate reti distributive fuori d' Italia. Si trattava di un assetto che s'era venuto configurando in termini sempre più accentuati nei due precedenti decenni. Numerose grandi e medio-grandi imprese avevano badato a ridurre la loro stazza aziendale, in quanto esorbitante rispetto a un trend contrassegnato dai marosi dell' inflazione e dalle secche della stagnazione, attraverso processi dimagranti di ristrutturazione interna e di esternalizzazione per una parte delle loro produzioni, al fine di acquisire migliori condizioni operative e di redditività. Inoltre, nella chimica e nella petrolchimica erano naufragati alcuni ambiziosi progetti di riconversione a causa di vari passaggi di mano da un azionista di riferimento a un altro, e così pure processi di fusione o di aggregazione, in quanto mal gestiti e accidentati. A loro volta, diverse imprese dell'area pubblica ( dalla side­ rurgia alla cantieristica, ai trasporti marittimi ) , la cui governance era stata oggetto di lottizzazioni partitiche o di ingerenze politiche, avevano subito perdite patrimoniali e di valore, in quanto sovraccaricate di personale e di "oneri impropri". Un esercito di minuscole imprese era così divenuto il nerbo del nostro sistema industriale non solo per numero totale di occupati ma anche per volume complessivo di produzione. I loro punti di forza consistevano in certe singolari attitudini ( come l'inventiva, l' ingegnosità, una particolare perizia nel saper fare ) . Ma, per quanto sospinte da un mix di alacrità e flessibilità, esse avrebbero avuto bisogno, per affron­ tare l'urto di un'agguerrita concorrenza internazionale, di accrescere le loro dimen­ sioni e i loro asset finanziari, in modo da realizzare prodotti a più alto valore aggiunto e mettere in cantiere adeguate strategie di marketing. Sennonché i loro titolari erano riluttanti a rendere più consistente l' impianto aziendale associando nella proprietà e nella gestione dell'impresa soggetti estranei alla cerchia familiare. D'altra parte, questa idiosincrasia era dovuta non solo a un puntiglioso spirito individualistico ma anche all' intento sia di evitare i nodi scorsoi dell'indebitamento bancario sia di restare al riparo da conflitti sindacali, nonché al fatto di poter contare su una mano­ dopera per lo più abile e fidelizzata. E, per il momento, la specializzazione di tante piccole aziende ( con non più di IO o di 20 addetti ) in determinate produzioni di nicchia o per lavorazioni complementari all'attività delle maggiori imprese assicurava loro sufficienti spazi di mercato e condizioni remunerative. In complesso, a paragone dei nostri principali concorrenti, l'industria italiana presentava sia un elevato grado di frammentazione ( dato che solo il 15% delle imprese contava più di s oo addetti, tre volte meno che in Francia e quasi quattro volte in meno che in Germania e nel Regno Unito ) sia un basso tasso medio di capitalizza­ zione e di innovazione tecnologica. 75

VALERIO CASTRONOVO

Perciò la quota dei prodotti italiani nel commercio mondiale, valutata a prezzi costanti, era andata diminuendo fra il 1995 e il 20 00 dal 4,6 al 3,7%. È vero che a questa contrazione avevano concorso l' ingresso nell'arena di Cina, India e Corea del Sud, nonché una congiuntura sfavorevole in alcuni paesi dell'America Latina, nostri tradizionali mercati di sbocco, che in quegli anni erano sull'orlo della bancarotta. Ma, mentre nello stesso periodo il volume delle nostre esportazioni era cresciuto del 25%, quello in media dell'Unione Europea era aumentato del 55%. D'altronde le innovazioni introdotte frattanto dalle nostre aziende non risultavano tali da allungare sensibilmente il ciclo di vita dei loro prodotti. Tuttavia continuavamo a registrare un surplus con l'estero per i manufatti indu­ striali, grazie in particolare ai successi di uno stuolo di medie imprese con una vocazione multinazionale e ad alcune punte d'eccellenza nell'hi-tech e nell'ingegneria impianti­ stica. E come era avvenuto in altri tornanti difficili, quando s'era trattato di puntare i piedi per risalire la china, l'Italia stava dando prova di saper reagire. Tra il 1995 e il 2001 il debito pubblico era calato infatti dal 121 al 108% del PIL e la spesa pubblica primaria (al netto degli interessi sul debito) era scesa dal 43,5 del 1993 al 39,9%. Sennonché, si sarebbero poi bruciati, a causa di un'ulteriore crescita della spesa corrente (per la pressione di varie corporazioni, gli sperperi nella sanità pubblica, la lievitazione dei costi della politica a livello centrale e periferico), gli avanzi primari acquisiti con il rialzo delle tasse e soprattutto i dividendi dell'euro, ossia i notevoli risparmi ottenuti grazie alla riduzione degli interessi pagati sul finanziamento del debito pubblico (pari a più di 5 punti del P I L ) . Inoltre sarebbero rimasti in gran parte in utilizzati i fondi strutturali europei, destinati per lo più al Sud (dopo che era cessato nel 1993 l' intervento straordinario per il Mezzogiorno) , a causa di progettazioni giudicate inconsistenti a Bruxelles o istruite in modo maldestro da parte degli enti locali.

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Tra una rigida austerity europea e la nostra mancanza di riforme strutturali

Intanto, dopo che erano andati a vuoto tutti i tentativi di dar corso ad appropriate riforme istituzionali rese necessarie dalla transizione verso il bipolarismo, la nuova dirigenza politica avvicendatasi alla guida del paese non s'era emendata da certi vizi di autoreferenzialità e di misoneismo congeniti a quella che l'aveva preceduta. D'al­ tronde, mentre il centro-destra non aveva realizzato la "rivoluzione liberale" (per disboscare la foresta della burocrazia e ridare impulso al sistema economico riducendo la pressione fiscale sulle imprese, senza pregiudicare i conti pubblici) più volte pro­ messa dal suo leader, il centro-sinistra non s 'era affrancato del tutto dai condiziona-

L ' ITALIA NEL M E RCATO G L OBALE E NELL ' EUROPA G ERMANO - C ENTRICA

menti ideologici delle sue componenti massimaliste ancorché minoritarie. Per di più, la "guerra di religione", dovuta a una perenne e rissosa contrapposizione fra i due poli, seguitava a impedire un dialogo costruttivo su alcuni obiettivi economici fon­ damentali e una ricalibratura del welfare, che richiedevano una condivisione di orientamenti. L' Italia continuò così a pagare i costi di un cumulo di problemi strutturali irrisolti ereditati dal passato, e si trovò addosso un fardello di nuove ipoteche, dato che le quote sia della spesa corrente sia del debito in rapporto al P I L avevano ripreso a crescere nel corso del 20 05. Ben diverso era stato nel frattempo l'itinerario della Germania, nonostante fosse considerata, all' indomani della sua riunificazione nazionale, il "malato d'Europà' per eccellenza, in quanto alle prese con una grave infermità organica, consistente nella profonda disparità dei Liinder dell'Est (in termini di reddito, risorse e produttività) con quelli dell'Ovest. Per di più, il tasso di crescita dell'economia tedesca non era affatto brillante, mentre l'integrazione dei territori dell'ex D D R comportava un enorme salasso di risorse. Tuttavia, grazie a uno sforzo collettivo e a un modello federalista di carattere cooperativo, la Germania ce l'aveva fatta. Mentre la classe politica di diverso colore aveva dato prova di una sostanziale unità d' intenti, la mag­ gioranza dei tedeschi aveva accettato la riforma del welfare per renderlo sostenibile. Da parte loro, le principali imprese avevano accresciuto gli investimenti, dopo che i sindacati s'erano arresi alla decisione assunta nel 20 02 dal governo rosso-verde di Schroder di istituire due Commissioni tecniche che sostituirono la concertazione fra l'esecutivo e le parti sociali con un nuovo congegno, quello della "consultazione aperta" sulle misure più confacenti da assumere per il potenziamento del sistema produttivo e l'adozione di nuove forme di organizzazione del lavoro da stabilire nell'ambito della contrattazione aziendale. Ciò valse, da un lato, ad assecondare un aumento della produttività proporzionale a un aumento dei salari in coincidenza con i trend espansivi e, dall'altro, a salvaguardare i livelli occupazionali nelle fasi di ral­ lentamento dell'economia. In tal modo la Germania giunse a riconquistare il ruolo di locomotiva d' Europa, per poi diventare anche la principale potenza finanziaria del Vecchio continente. È indubbio che le conseguenze di un cambio alla pari fra il marco dell' Est e quello dell'Ovest, voluto per fini eminentemente politici da Kohl e, quindi, del rialzo del tasso d' interesse (sino al1' 8,7s%, il più elevato dal 1931) si riversarono quasi automa­ ticamente sulle altre monete innescando una congiuntura recessiva per diverse eco­ nomie europee. La Germania si accollò comunque per intero i costi della riunifica­ zione tedesca (tant'è che assorbono ancor oggi qualcosa come il 4% del suo PIL ) e seguitò ad essere il principale contribuente netto della Comunità Europea. D 'altra parte, se Kohl accettò poi di privarsi del tanto amato marco, per spianare la strada alla nascita dell'euro, fu soprattutto per le pressioni di Mitterrand, in quanto a Parigi 77

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(come pure a Londra e a Roma) si riteneva che questo fosse l'unico modo per con­ tenere in futuro le proiezioni espansive della nuova grande Germania, legandola più strettamente al carro delle istituzioni europee. Se la Francia salvaguardò così, nel quadro del tradizionale "condominio caro­ lingio", la sua leadership sul terreno politico, in compenso la Germania acquisì un ruolo centrale nella gestazione dell' Unione economica e monetaria pilotandola in modo che i paesi dell' Eurozona adottassero un comportamento, in materia di disci­ plina fiscale, conforme alla filosofia ortodossa della Bundesbank. Ma fu poi il fatto che l'introduzione dell'euro non ebbe come corollario - in seguito ai referendum olandese e francese - la formazione di un'entità politica sovranazionale a consentire in pratica alla Germania (anche perché principale azionista della Banca centrale europea) di far valere una politica finanziaria forgiata su sua misura, che concorse ad agevolare la ristrutturazione del suo apparato industriale e a neutralizzare i rischi inflattivi derivabili dalla massa di liquidità necessaria per soccorrere i Lander orientali. D 'altra parte, se la Germania assunse un ruolo guida nell 'ambito della UE, ciò avvenne anche perché l' Eurozona era nata con due difetti costitutivi: senza una debita valutazione delle forti disparità strutturali esistenti fra i diversi paesi che ne facevano parte; e senza il varo di una concreta politica comunitaria in tema di sviluppo eco­ nomico e di coesione sociale. Inoltre, il progressivo abbandono delle decisioni con­ sensuali a favore di quelle a maggioranza accrebbe la preponderanza della Germania e dei paesi del Nord finanziariamente più forti, e rese sempre più stressante per i paesi più deboli l'allineamento ai parametri di Maastricht sulle politiche di bilancio. Sarebbe stato invece interesse comune, per restare al passo con gli Stati Uniti e il Giappone, che l'Unione Europea agisse con una visione d' insieme dei problemi e un programma di interventi equamente distribuiti che valessero a liberare nuove energie e a incentivare ricerca e sviluppo. In Italia, intanto, erano venuti al pettine anche i nodi dovuti alla prolungata assenza di un'adeguata politica industriale, tale da convogliare (senza riesumare indi­ rizzi dirigistici) le risorse disponibili verso l'implementazione del sistema produttivo in fatto di energie rinnovabili, ricerca tecnico-scientifica, telecomunicazioni, forma­ zione professionale, risanamento ambientale e riqualificazione delle aree dismesse. Era mancato insomma un salto di qualità. Perciò l'economia italiana era già con il fiato corto quando sopraggiunsero, dall'autunno del 20 0 8, i pesanti contraccolpi della micidiale crisi finanziaria provo­ cata da un turbo-capitalismo affaristico lasciato a briglia sciolta dalla Federai Reserve e anzi alimentato da una politica monetaria fortemente espansiva. E ciò sulla scia di un fondamentalismo ultraliberista, secondo cui il mercato sarebbe stato capace di autoregolarsi e di garantire adeguate condizioni di stabilità e la migliore valorizza­ zione possibile delle risorse. Di fronte al peggior collasso dell'economia occidentale dopo quello del 1929, l' Italia si allineò alle istruzioni del Consiglio europeo che, per neutralizzare lo spettro

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di una recessione, consentivano inizialmente più ampi margini di manovra nelle politiche di bilancio degli Stati membri pur nel sostanziale rispetto del Patto di stabilità. Dopo aver abolito definitivamente l'Ici sulla prima casa, il IV governo Berlusconi non ravvisò peraltro la necessità di attuare in compenso una manovra correttiva per l'equilibrio dei conti pubblici. Confidava che alcuni interventi (per la salvaguardia del risparmio, per stimolare i consumi e accelerare i tempi degli investi­ menti pubblici semplificando le procedure burocratiche) potessero creare a breve scadenza le condizioni per una risalita del PIL (calato dello 0,9 % alla fine dell'anno) e ridurre così la quota percentuale del debito pubblico. Nonostante le previsioni tutt 'altro che rassicuranti della Banca d' Italia, a Palazzo Chigi si continuò in pratica a tergiversare finché nel 2010 il governo si trovò fra l' incudine del debito pubblico, precipitato dal 200 8 (per via del crollo subitaneo del PIL e, perciò, di un aumento di 16 punti del debito), e il martello della crisi, che avrebbe richiesto notevoli stanziamenti pubblici a sostegno del sistema produttivo e dell'occupazione. La situazione stava così diventando insostenibile. Mentre il finanziamento di un ingente debito comportava il pagamento di tassi d'interesse sempre più elevati (con un differenziale di rendimento dei nostri BT P di gran lunga superiore a quello dei Bund tedeschi), le nostre imprese (già gravate da un elevato carico fiscale) erano costrette a pagare, per procurarsi il denaro di cui avevano bisogno, tassi sempre più alti a tutto vantaggio delle aziende tedesche, francesi e altre ancora, che s'avvalevano di tassi d'interesse assai più bassi. Si era perciò ridotto ulteriormente il grado di competitività dell'industria manifatturiera, dopo che negli ultimi dieci anni si erano già persi 20 punti rispetto alla Germania e alla Francia (con il risultato che questo genere di spread strutturale costava all' Italia 70 miliardi di euro l'anno). Mentre negli Stati Uniti il presidente Barack Obama aveva scongiurato un aggra­ vamento della crisi con una notevole immissione di capitali pubblici (ma non a fondo perduto) per il salvataggio delle banche e il rilancio di alcuni complessi industriali, il governo di Berlino (anche perché ostaggio della sindrome ossessiva di un' iperin­ flazione come quella avvenuta ai tempi della Repubblica di Weimar) seguitò invece a sostenere nell'Eurozona l'indirizzo ultrarigorista patrocinato dalla Bundesbank. Di qui il suo ostracismo anche nei confronti della proposta, formulata nell'agosto 20 I I dall'ex presidente della Commissione europea Romano Prodi, di uno strumento come gli Eurobond (corredato da concrete e sicure garanzie reali) sia per affrontare il problema dei debiti sovrani dei paesi più in difficoltà, sia per scongiurare con adeguati ricostituenti un'anemia economica della UE. Pertanto l'Europa mediterranea, il "ventre molle" della Comunità, si trovò in balia di ulteriori scosse sismiche nel mercato dei debiti sovrani, in seguito alla con­ vinzione degli operatori internazionali che la Grecia, abbandonata a sé stessa dall'o­ stinata contrarietà della Germania e dei paesi nordici a soccorrere in qualche modo il governo di Atene, non ce l'avrebbe mai fatta a evitare il default. E il suo fallimento 79

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avrebbe perciò coinvolto numerose banche di vari paesi in possesso di una notevole quantità di titoli pubblici ellenici. Di qui anche il timore di molti investitori istitu­ zionali che pure la Spagna e l' Italia, in quanto fortemente indebitate, si sarebbero trovate pnma o po1 1n sen gua1. Dopo essere ricorso l'anno prima a una robusta manovra correttiva per cercare di arrestare la spirale del debito pubblico (riuscendo a contenerne l' incremento), il governo accantonò i progetti concepiti per rianimare l'economia, in quanto qualsiasi intervento, a presa diretta, per lo sviluppo non avrebbe potuto essere che "a costo zero,. D'altra parte, annunciò che avrebbe posto mano a una nuova manovra finan­ ziaria, in conformità al Fiscal Compact (l'accordo sulla disciplina del bilancio firmato da altri 24 paesi dell ' vE), per cui l' Italia s'era impegnata a conseguire entro il 2014 il pareggio di bilancio. A sua volta, il Consiglio europeo aveva approvato, il 24 giugno, il piano di stabilità tracciato a tal fine dal governo di Roma, raccomandan­ dogli comunque di darvi concreta e celere attuazione. Sennonché, nel corso di luglio le tensioni sui mercati si moltiplicarono, a causa sia del pericolo di un allargamento del contagio greco sia di improvvise voragini nei flussi di capitali privati e degli squilibri che ne erano derivati nella bilancia dei paga­ menti di alcuni paesi europei. Ai primi di agosto, il board della Banca centrale europea trasmise pertanto al governo italiano un memorandum con la richiesta che si proce­ desse fin da subito al completamento di alcune riforme strutturali (innanzitutto quelle del sistema previdenziale, per la sua messa in sicurezza, e del mercato del lavoro, al fine di conferirgli una maggiore flessibilità in entrata) . Inoltre la BCE (ancora guidata da Jean-Claude Trichet) stabilì che venisse anticipata di un anno la data per il pareggio di bilancio rispetto alla scadenza del 2014 (benché fosse stata fissata due mesi prima) retrocedendola quindi al 20 13. L' Italia era stata così posta in quarantena, nella condizione di un paese "sorve­ gliato speciale,. Al governo Berlusconi non rimase che recepire le pressanti sollecita­ zioni giunte da Francoforte e da Bruxelles, varando una manovra correttiva, non di 40 miliardi (come previsto), bensì di 6 5 miliardi; e il Consiglio dei ministri sotto­ scrisse l' impegno di anticipare al 20 13 il pareggio di bilancio. Ma ciò non valse a bloccare la corsa dello spread. Neppure il documento trasmesso il 26 ottobre ai presidenti della Commissione e del Consiglio europeo, con cui Roma ribadì l' im­ pegno di attuare al più presto le riforme strutturali richieste, valse a rassicurare re­ secutivo di Bruxelles né il direttivo del Fondo monetario internazionale. Dopo che dai primi di novembre il rendimento dei nostri titoli pubblici decen­ nali salì vertiginosamente sino a sfondare il muro di 575 punti, risultò evidente che le condizioni per rinnovare sul mercato il finanziamento del debito pubblico in scadenza nei mesi invernali rischiavano di diventare proibitive. D 'altronde, era ormai giunto ai minimi storici il credito in sede internazionale del governo in carica: anche perché la sua reputazione era stata minata da una trafila di scandali politici e vicende poco edificanti che avevano continuato a emergere sotto una luce impietosa. •









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L' intervento della B C E per frenare gli attacchi speculativi e il rischio del tracollo

Come è noto, l' immagine e l'affidabilità dell' Italia migliorarono in seguito all' inse­ diamento a metà novembre del 20 1 1 del governo tecnico di Mario Monti, chiamato dal Quirinale (dopo le dimissioni di Berlusconi concordate con il presidente della Repubblica, senza l'apertura formale di una crisi politica) a scongiurare il pericolo incombente di un default. Ma, nonostante le ulteriori riforme varate in merito al sistema pensionistico e al mercato del lavoro, e un forte giro di vite nella tassazione su imprese e famiglie, lo spread tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi non si ridusse in modo da rispecchiare i fondamentali economici del nostro paese. E ciò per l'effetto domino anche della Spagna (che accusava difficoltà finanziarie sempre più pesanti) e quindi per le forti incertezze diffusesi nei mercati finanziari sulla tenuta dell'euro. D'altra parte l'anticipazione del pareggio di bilancio al 20 13 aveva imposto all'I­ talia un'autentica cura da cavallo : quasi si trattasse di un paese, se non praticamente fallito come la Grecia, con un'economia debolissima come il Portogallo o con un sistema bancario disastrato come la Spagna. Tuttavia la Germania aveva seguitato a far valere in sede comunitaria una drastica politica d'austerità, senza alcun incentivo per un rilancio dell 'economia. Il nuovo governo stava cercando di usare il bisturi per tagliare le spese delle Regioni, cresciute, del resto, oltre misura anche per via di un sistema di stampo federalista inaugurato nel 2009 (in base alla riforma varata nel 20 01 del Titolo v della Costituzione) che aveva lasciato agli enti territoriali ampi spazi discrezionali nella gestione del denaro pubblico, privando le autorità centrali di un adeguato potere di controllo. Ma a questo riguardo l 'esecutivo incontrava molti ostacoli (anche perché doveva fare i conti con i partiti di opposte tendenze che s'erano impegnati tempo­ raneamente a votargli la fiducia) e così avveniva pure a proposito dei tagli alla spesa corrente. A ogni modo, sebbene la cancelliera tedesca Angela Merkel e la Commissione europea avessero trovato in Monti un interlocutore di loro fiducia, non s'era allentata la morsa dei mercati sui nostri titoli pubblici. Di qui la decisione del premier di sbloccare l'opposizione di Berlino a un intervento della BCE che valesse a contenere gli attacchi della "finanza ombrà' ai debiti sovrani, annunciando che avrebbe eserci­ tato un diritto di veto nei riguardi di un piano comunitario per la crescita (che, peraltro, si limitava a una ricollocazione di fondi della UE già esistenti), se prima non fosse stato varato uno "scudo antispread" per stabilizzare i mercati dei titoli pubblici. Questa sortita da lui compiuta il 26 giugno, al summit dell'Eurozona, trovò l'ap­ poggio determinante del nuovo presidente francese François Hollande. Spezzato in tal modo l'asse fra Parigi e Berlino dei tempi di Sarkozy, il presidente 81

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della BCE Mario Draghi (che dal novembre 20 1 1 era a capo dell' Istituto di Franco­ forte) riuscì a superare le resistenze della Bundesbank alla possibilità che l' Eurotower agisse come prestatore di ultima istanza e s'impegnasse quindi nell'acquisto, all'oc­ correnza, di titoli pubblici dei paesi più vulnerabili, al fine di bloccarne un'ulteriore ascesa. Diversamente, si sarebbe prodotta una situazione di instabilità sistemica, tale da minare le fondamenta dell'euro, a causa della frammentazione dei mercati dei capitali e di incessanti manovre speculative. Di qui la risoluzione, enunciata alla fine di agosto del 2012 dalla BCE (con il solo voto contrario del rappresentante della Bundesbank) , che avrebbe dato corso ad appositi interventi (senza limiti prestabiliti ma a determinate condizioni) per l'acquisto di obbligazioni con scadenza residua sino a tre anni. Tuttavia lo "scudo antispread" era uno strumento tecnico che poteva servire solo a scongiurare il peggio e a dar più tempo ai governi nell 'aggiustamento dei conti pubblici. Per risolvere la crisi dei debiti sovrani era pur sempre indispensabile che i paesi in sofferenza portassero a compimento incisive riforme strutturali per accrescere la loro produttività e il loro PIL. D'altra parte Draghi aveva sottolineato che il destino dell'euro sarebbe dipeso, in ultima analisi, dal passaggio di Eurolandia dall'unione monetaria a quella bancaria, quale premessa dell'unione politica. In effetti, solo una struttura federale può garantire sia una valida governance in materia di disciplina di bilancio sia una ripresa economica, assicurando così all' Unione Europea più forza e autorevolezza in un mondo multipolare. Ma c'è da chiedersi se e quando l' Europa dei 27 riuscirà a raggiungere questo traguardo. C 'è anzi il rischio di una sua retrocessione, a giudicare anche dal falli­ mento nel novembre 2012 del negoziato sul bilancio preventivo per il settennato 2014-20, a causa della spaccatura verificatasi fra quanti volevano ridur!o (come Gran Bretagna, Germania e quattro paesi nordici) e il resto dei membri della U E (compresa la Francia, non più economicamente salda sulle proprie gambe) che intendevano almeno mantenerlo invariato. D'altra parte, sta crescendo l' insofferenza verso la causa europeista. E non solo per la reviviscenza di etnocentrismi nazionali e la diffusione di movimenti populisti, ma per un' irruente ondata di tensioni sociali, che rischia di divenire esplosiva qualora le istituzioni comunitarie non adotteranno una strategia univoca ed efficace sul fronte industriale ed energetico per uscire dalla crisi, arginare la disoccupazione e dare speranze concrete di lavoro alle nuove generazioni. Altri­ menti, la moneta unica, nata per unire l' Europa, rischia, a causa di una politica finanziaria troppo rigida, di dividerla profondamente. Sino a pochi mesi fa il nostro paese, grazie all'esistenza di un patrimonio finan­ ziario e immobiliare delle famiglie italiane più consistente in media rispetto a quello dei tedeschi e dei francesi, ha mostrato una certa capacità di resistenza. Ma negli ultimi tempi, mentre è rimasta incerta la situazione politica (dopo le elezioni del febbraio 2013 e la formazione di un'eterogenea maggioranza fra PD, PDL e Scelta civica a sostegno del governo di Enrico Letta), si sono impoveriti vasti strati del ceto •



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medio, è cresciuta l'emorragia delle piccole imprese e la perdita di molti posti di lavoro nei distretti industriali del Nord e del Centro, e si è estesa notevolmente la disoccupazione giovanile. Inoltre, secondo le previsioni dell' O C S E, il P I L calerà anche nel 2014. Con l'aggravamento dell'emergenza economica e la diffusione delle aree di crisi e disagio sociale, si sono perciò moltiplicati i dilemmi sul futuro del nostro paese.

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Traiettorie del declino economico italiano di

Carlo Fumian

"Come ti sei ridotto così ?" "In due modi. A poco a poco e poi all' improvv1so . Ernest Hemingway, The Sun also Rises .

"

I

Unjìt for a global challenge? Qualche passo tra cronaca e storia

Piaccia o non piaccia, la globalizzazione è un delicato processo storico di lunga durata che possiamo definire, depurandolo di ogni aspetto valoriale, come l'esito di una - tendenzialmente - libera circolazione di uomini, merci e capitali. E di uomini, merci e capitali (ovvero, investimenti, esportazioni e immigrazioni) ci occuperemo, cercando di capire qual è il nesso tra questo processo, tutt'altro che inedito ma affermatosi in forme intense e originali negli ultimi trent 'anni, e la profonda crisi economica che attanaglia il paese, con particolare riguardo al grave problema della perdita di produttività, che rende l'economia italiana non competitiva. Assumendo un punto di vista globale, i principali assi del mutamento sembrano sostanzialmente due. In primo luogo lo spostamento tellurico del core economico dall' "economia atlanticà' (nella definizione di O' Rourke e Williamson 2005 -, ovvero lo spazio economico creatosi da metà dell'Ottocento a partire dall' integra­ zione delle economie europea e statunitense) a un'"economia pacifica" (o asiatica), destinata a ridisegnare completamente la mappa industriale e finanziaria del pianeta. Con qualche passaggio simbolico, prontamente sottolineato : ad esempio, quando la Cina ha comunicato che avrebbe iniziato a compravendere petrolio direttamente in yuan per le forniture provenienti dalla Russia (Lops, 20 12). A questo proposito, nel quadro dello spostamento della leadership economica dall'Ovest all'Est, atteso o temuto ma ampiamente previsto (e forse bisogna riconoscere che la Storia globale è la disciplina che più ci ha offerto spiegazioni e stimoli), il grave stalla in cui versa l' Italia sembra ingigantire i limiti di un più ampio Occidente (Subramanian, 20 I I ) . In uno studio previsionale (al 2030) della Goldman Sachs (Moe, Maasry, Tang, 2010, p. 5) la global equity capitalization dovrebbe passare da 43 a 1 45 trilioni (calcolati in dollari statunitensi al 2010 ) ; di questa torta la capitalizzazione dei paesi emergenti dovrebbe crescere di quasi sei volte (da 14 a 8o trilioni), con i mercati "maturi" condannati a un mero raddoppio e a perdere il primato (da 30 a 6 6 trilioni). -

ss

CARLO F UMIAN

In secondo luogo, una simile crescita esponenziale dei capitali e della circolazione finanziaria e valutaria su scala planetaria si dispiega in assenza di un "prestatore di ultima istanzà': basti ricordare che il valore delle transazioni giornaliere sui mercati valutari FX (Foreign Exchange Market), nati a partire dal 197 1 sulla base dei tassi di cambio fluttuanti seguiti alla fine degli accordi di Bretton Woods, è divenuto ormai superiore allo stock delle riserve valutarie esistenti: oggi è valutato pari a circa 4.ooo miliardi di dollari al giorno (nel 1992 era di "soli" 820 miliardi; cfr. Bank for lnterna­ tional Settlements, 2007 ) . Ora, in questa più recente fase di globalizzazione economico-finanziaria ciò che più ha pesato - e a cui l' Italia non ha saputo rispondere - è stato « il cambiamento del paradigma tecnologico, portato dalle nuove tecnologie dell' informazione e della comunicazione; [ .. . ] l ' integrazione mondiale dei mercati reali e finanziari; il processo di integrazione europea, culminato con l'introduzione della moneta unica » . Tre radicali mutamenti di scenario con una convergente conseguenza: Un forte e repentino aumento della pressione concorrenziale. Ciò è disceso sia dall'entrata massiccia sui mercati mondiali di beni e servizi a più basso costo provenienti dai paesi emer­ genti, che ha riguardato soprattutto le imprese dei settori tradizionali a più alta intensità di lavoro non qualificato, sia dalla necessità di tenere il passo delle imprese più pronte a sfrut­ tare i guadagni di efficienza consentiti dalla rivoluzione tecnologica, sia, infine, dall'allarga­ mento del mercato unico europeo e dall'impossibilità di recuperare competitività di prezzo attraverso deprezzamenti del cambio nominale (Brandolini, Bugamelli, 2009, p. 8).

Sta di fatto che negli ultimi decenni si è assistito al più grande boom economico mondiale che la storia ricordi (e a correlate rivoluzioni tecnologiche di eccezionale portata, e per certi versi ancora in fase aurorale) ; ma a differenza di altre fasi espan­ sive cui ha saputo virtuosamente agganciarsi, questa volta l' Italia è in grave ritardo, i profili del quale possono far temere legittimamente di essere entrati in una fase di declino assoluto e non relativo. Come lucidamente ha ricostruito Gianni Toniolo ( 2ou ) , ciò che va spiegato è come mai, dopo quasi aver saputo dalla fine dell'Otto­ cento in poi - salvo la parentesi dell' entre deux guerres - convergere verso lo sviluppo economico moderno, inserendosi nel flusso delle fasi espansive, anche con momenti di successo particolarmente vistoso, dagli anni Novanta a oggi l' Italia abbia invece intrapreso la strada di una drammatica divergenza, con un calo significativo - dalla metà degli anni Novanta - del reddito medio (che addirittura scende sotto la media europea, da 103 al 97% ), della quota delle esportazioni sul totale del commercio mondiale, e soprattutto della produttività (che declina in termini assoluti) . L'attenzione degli storici economici fin dall' inizio del nostro secolo si è preco­ cemente occupata del declino italiano, senza attendere la crisi del 2008 e concen­ trandosi inevitabilmente sugli ultimi vent'anni, ma non sono pochi gli osservatori che segnalano con forza come parte dei problemi ora al pettine comincino a mani­ festarsi negli anni Settanta e qualcuno perfino negli happy Sixties. Basti pensare a 86

T RAIETTORIE DEL D E C LINO ECONO M I C O ITALIANO

questo proposito alla drammatica dispersione delle enormi risorse che lo Stato mise a disposizione dell' industria privata nel 1962 a ridosso della nazionalizzazione dell'e­ nergia elettrica: evento inaugurale di alcune tendenze non sobrie né lungimiranti del capitalismo italiano ( e dei suoi incroci con la politica e lo Stato ) , e che ha probabil­ mente avuto un qualche ruolo nell'"accorciare" a metà degli anni Sessanta il miracolo italiano ( Salvati, 198 4 ) . Secondo Luciano Gallino la nazionalizzazione, con i suoi colossali indennizzi, fu semplicemente un «evento nefasto » ; « lo Stato versò infatti direttamente alle imprese nazionalizzate, non ai loro azionisti, circa 2.200 miliardi di lire, comprensivi di interessi, equivalenti a 18 miliardi di euro di oggi » . La quota maggiore andò alla Edison, circa 1.8oo miliardi. Nel ricordo di Emilio Colombo ( ministro dell' Industria al tempo della nazionalizzazione ) , si sperava «che si ripetesse l'esperienza di inizio secolo quando, a seguito della nazionalizzazione delle Ferrovie, gli indennizzi furono reinvestiti prontamente proprio nell' industria elettrica » ( Gallino, 20 03, p. 45). Di fatto, circa il so% degli indennizzi « andò disperso in iniziative che si rivelarono poco redditizie. Forse non tutti gli industriali ex elettrici avevano un'adeguata formazione per affrontare nuovi e diversificati processi produttivi in regime di mercato, poiché troppo abituati a produrre e distribuire solo energia elettrica e per di più in un regime di monopolio » (ibid. ; cfr. anche Amatori, Colli, 1999 ). Per Valerio Castronovo, con il ricavato i vertici della Edison e i principali azionisti indirizzarono parte dei nuovi investimenti « anche verso il settore alimentare e quello della distribuzione commer­ ciale » , mentre SADE e La Centrale investirono « il fiume di danaro » di cui poterono disporre verso l' industria alberghiera, la petrolchimica, le costruzioni, gli elettrodo­ mestici e l'alimentare. Triste fu la sorte di questi investimenti, in larga parte dispersi in settori non certo avanzati ( Castronovo, 20 12 ) . Inoltre, già negli anni Sessanta il modello di specializzazione italiano - pur segnato allora da un forte e benigno aumento della sua quota di export internazionale ( le esportazioni italiane crescono tra 1961 e 1973 in media del 13,7%, quelle dei paesi OE CD del 12% ) non risulta -

convergere verso quello dei paesi più avanzati. [ ... ] Si registrano inoltre la posizione di arre­ tratezza nelle categorie science based e scale intensive e il primato dell' Italia nella categoria composta da produzioni tradizionali [cioè imprese, generalmente di piccola dimensione, appartenenti a settori manifatturieri tradizionali come: alimentari e tabacco, tessile e abbiglia­ mento, cuoio e calzature, legno e mobilio, carta ecc.]. Gli anni Sessanta dunque, rappresentano un passaggio cruciale per l'affermazione e il consolidamento del modello di specializzazione commerciale che prevarrà anche nei decenni successivi ( Gomellini, 2004, p. 1 ) .

E che oggi rappresenta un bottle neck estremamente pericoloso. Si aggiunga, come opportunamente ricorda Giuseppe Berta, che alla fine degli anni Sessanta «l' Italia che scommette sull' industria come vettore fondamentale di modernità è ancora segmentata dalle divisioni, scissa in base a prescrizioni e codici di comportamento

CARLO F UMIAN

tali da impedire non solo l'aggregazione, ma il contatto e la conoscenza reciproca fra le sue parti » (Berta, 2009, p. I9 S ) . Declino, dunque. Ma esistono senilità gioiose o almeno serene, e atroci agonie. Declini relativi e, appunto, declini assoluti (Visco, 2004 ) . I dati che ho raccolto temo mi porteranno a concludere che siamo al capezzale di un'economia (dunque di una società e di una politica) assai più sofferente di quanto appaia. Forse un tratto accomuna gran parte degli osservatori che in questi anni vanno discutendo su quanto ripida sia la china discendente su cui stiamo scivolando : si parte dall 'analisi dei dati micro e macroeconomici, dai provvedimenti di politica economica, dalle curve del PIL e della produttività (ovvero dai numeri), e immanca­ bilmente si arriva (e ci si arresta) al grande enigma italiano, ossia il peso delle varia­ bili culturali, istituzionali, delle cornici legali, delle culture e degli strumenti di governo e amministrativi, della civicness piuttosto che dei comportamenti... insomma dal materiale all' immateriale: Fino a quando la qualità delle istituzioni e dei servizi pubblici sono importanti per lo svi­ luppo, specialmente in un contesto in cui bisogna fare i conti con la globalizzazione, trovarsi in posizione arretrata su questi fronti rappresenta un grave rischio [ ... ]. Istruzione, giustizia, sicurezza sono fattori di promozione dello sviluppo. La loro debolezza spiega gran parte della insoddisfacente performance dell'economia italiana (Craft, Magnani, 20 1 1, p. 27 ) .

Un percorso d'analisi che, su una ben più vasta scala temporale e spaziale, ha portato Daron Acemoglu e James Robinson a indicare nelle cattive istituzioni - o istituzioni «estrattive » - niente meno che le vere responsabili del « fallimento » delle nazioni (Acemoglu, Robinson, 20I3 ) . Allora, le cornici extraeconomiche italiane sembrano eccezionalmente negative, come dimostra la TAB . I, costruita con dati e parametri della Banca mondiale da Craft e Magnani. Anche le FIGG. I e 2 sono tratte da studi della Banca d' Italia, e offrono un confronto tra r andamento del PIL e delle esportazioni in quattro momenti di crisi: la Grande depressione degli anni Trenta, la crisi seguita allo shock petrolifero ( I974 ) , la crisi valutaria (e politica) del I992-93 e infine gli esordi della crisi finanziaria del 2007. Confrontando i diversi flussi dell'export, gli autori dello studio Le principali recessioni italiane: un confronto retrospettivo notano, commentando la FIG. 2, come la forte contrazione delle vendite all'estero nel 2oo8 ( -3,7% ) e quella ancor più marcata «prevista » per il 2009 ( -2I, S % ) costituisca non di meno « uno degli elementi di maggiore gravità della recessione in atto » (Bassanetti et al., 20 09, p. 22 ) . Sull 'andamento delle esportazioni incidono anche comportamenti e strategie della tanto esaltata - per un lungo periodo - piccola e media impresa ( PMI ) , come ognuno sa fortemente prevalente nel panorama italiano. All' inizio del XXI secolo fra le 90o.ooo imprese industriali solo 9 8.ooo (con 3 milioni di addetti) « effettuavano 88

TRAIETTORIE DEL D E C LINO ECONO M I C O ITALIANO TABELLA I Indicatori digovernance (da -2,5 a + 2,5 ) Efficacia del governo

Qualità della normativa

Controllo della coruzione

Stato di diritto

1996

Austria Belgio Danimarca Finlandia Francia Germania Grecia Irlanda Italia Norvegia Paesi Bassi Portogallo Regno Unito Spagna Svezia Svizzera

I.984 1.93 5 2.027 2.114 1.75 5 2.006 0,836 1.732 0,9I9 2.064 2.056 0,999 1.884 1.570 2.010 2.146

I. I 5 4 0,97I I.213 1.08 9 0,766 1.072 0,746 1.22 4 0,049 1.063 1.285 1.028 1.46 9 0,878 1.07 5 1.0 82

2.I20 I.350 2.222 2.221 1.353 2.134 0,51 1 1.486 o,sos 2.216 2.178 2.015 2.17 1 1.248 2.203 2.166

I.84I I.406 1.828 1.91 4 1.520 1.633 1.098 1.589 I. oso 1.928 1.734 1.276 1.6 62 1.3 54 1.763 1.946

2007

Austria Belgio Danimarca Finlandia Francia Germania Grecia Irlanda Italia Norvegia Paesi Bassi Portogallo Regno Unito Spagna Svezia Svizzera Fonte: World Bank (2oo8).

1.776 1.502 2.23 5 1.907 1.433 1.6o6 o,661 1.6 14 O,J33

1.978 1.708 0,902 1.622 0,960 1.942 1.966

1.64 9 1.3 65 1.855 1.511 1.255 1.549 o,85o 1.780 o,Sog 1.331 1.7 35 1.084 1.801 1.186 1.5 69 1.620

2.04 9 1.30 3 2.426 2.408 1.433 1.6 98 0,319 1.727 0,270 1.925 2.159 0,9 90 1.716 1.008 2.206 2.134

1.928 1.29 7 1.96 4 1.861 1.378 1.6 98 0,798 1.735 0,403 1.905 1.738 I.007 1.6 s 8 1.083 1.855 1.816

CARLO F UMIAN

I italiano in quattro recessioni del xx secolo

FIGURA

Il PIL



1,20 1,10 I,OO - - - - -

_ .,

o,So



--

t = 1974 - - - t = 1992 -- t = 2007 -Previsioni

0,7 0

o,6o

�------�--

t- 3 Indici =



t = 1929

1

t-2

t-I

t

t+2

t+ r

nell'anno di picco ciclico t ; dati in termini reali.

Fonte: Bassanetti et al (2009).

2 Le esportazioni* italiane in quattro recessioni del xx secolo FIGURA

r,s o



1, 4 0

- -

1, 3 0

- -

1,20

t = 192.9 t = 1974 t = 1992

/

t = 2.007

/ /

Previsioni

1,10 /

1,00

/

.,

/

/

/

/

/

0,90 o,So 0,70 o,6o t- 4 •

Indici =

1

t- 3

t-2

t- I

t

t+ I

t+2

t+ 3

t+ 4

nell'anno di picco ciclico t ; dati in termini reali.

Fonte: Bassanetti et al. (2oo9 )

.

esportazioni >> : la capacità di esportare diminuisce sensibilmente al diminuire della dimensione : ( Ciocca, 2007, p. 333 in nota) .

T RAI ETTORIE D E L D E C LINO ECONO M I C O ITALIANO

Troppo piccole per competere davvero sui mercati mondiali emergenti, esse inoltre innescarono un circuito in fin dei conti perverso : muovendosi in ambiti tecnologici non avanzati, quindi con una bassa richiesta di personale specializzato, attiravano giovani scarsamente qualificati, rafforzando così la propensione all'abban­ dono scolastico e alla precoce entrata nel mondo del lavoro. 2

Chi tira il freno a mano ? Alcuni flash dal presente

Come una slavina, la crisi attuale colpisce l'economia italiana dopo aver incorporato i residui di antichi errori e mali vetusti. I "mali antichi non più sostenibili", come li definisce Gianni Toniolo. Eccone alcuni segnali. Primo flash. Nell'agosto 20 12 l' Ufficio Studi di Mediobanca ha pubblicato l' in­ dagine relativa ai Dati cumulativi di 2.032 societa italiane. Lo scenario è impietoso: Nel 20 1 1 il capitale investito delle 2.0 3 2 società è diminuito dello 0,2%. La riduzione dei margini operativi ha concorso al decremento del suo rendimento [il ROI, ovvero l'indice di redditività del capitale investito, N.d.A. ] dal 9, 3 % all' 8,s % [ ... ]. Il computo della ricchezza creata o distrutta segna un valore nuovamente negativo nel 201 1 determinato dalla caduta del ROI e dal contestuale aumento del costo medio del capitale (Mediobanca, 2012).

Ovvero : il guadagno non ripaga il costo del capitale; in Italia gli investimenti industriali semplicemente non convengono, meglio acquistare buoni del tesoro, dato che il rendi­ mento netto del capitale realizzato dalle imprese italiane è insufficiente a remunerare il capitale proprio e di terzi. Scarsa la sorpresa: già prima della crisi l' Italia si dimostrava un luogo ostile ai Global Foreign Direct lnvestment (FDI), con un calo del 28% (nel 2007) rispetto a un aumento del 14,93% nell' Unione Europea, con singolari ed esotiche compagnie: Libano ( -25,5%), Romania ( -21 %), Argentina ( -39,6%), Sudan ( -38%) e Tunisia ( -69% ). Tra le rocketing economies, la Federazione Russa con un aumento di FDI del 70%, Kazakistan ( +34,4%), Brasile, Colombia e Messico (tutti sopra il 9o%). La media dell'economia mondiale è pari al +17,8% (diciamolo con la massima chiarezza, questa non e una Grande depressione, perché metà del mondo cresce impetuosamente). E nelle turbolenze dell'estate 2012 è possibile leggere un chiaro segnale: la fuga degli investi­ tori istituzionali (fondi pensione americani e inglesi, assicurazioni, fondi sovrani) dal mercato del debito europeo. In sei anni la quota del debito italiano in mani estere da oltre il so% è scesa al 37%. Si tratta in realtà di una lunga storia: il grafico nella FIG. 3 racconta con crudezza la scarsissima appetibilità dell' Italia come recipiente d'investimenti esteri: del resto, nell'edizione 2013 dell' Index ofEconomie Freedom, elaborato annualmente dalla Heri­ tage Foundation e dal "Wall Street Journal", l' Italia è solo ottantatreesima, tra Arabia Saudita e Namibia. 91

CARLO F UMIAN

3 Investimenti esteri (in miliardi di dollari USA) FIGURA

$ 3 SO B $ 3oo B United States

$ 2.50 B

China $ 2.oo B Europe &

$ ISO B

Centra! Asia

$ 1oo B ltaly 1970 $o

ti

.

1975 .

1970

.

.

.

.

1975

1980

198s

1990

1995

2.ooo

2.oos

2.011

. . . . , . , . . . . . , . . . . . . . . . , . . . . . , , . . . . 1t 1980

198s

1990

1995

2.ooo

2.oos

2.010

Fonte: dati World Bank, luglio 2.012., in http :// ipwg.blogactiv.eu/1oi2./07/02./italy-a-new-commitment-to­ growth/.

Secondo flash. L' Ufficio Studi della Confcommercio, il

19

luglio

2012

pubblica un

rapporto Sulle determinanti dell'economia sommersa. In percentuale del

la gra­

15 paesi, l' Italia è ultima, con un'economia sommersa pari al 17,5% del PIL (nel 2oo 8 ) seguita da Messico ( 12,1 ) , Spagna ( n,2 ) , Regno Unito ( 7,9 ) , Stati Uniti ( 6,2 ) , Svezia ( 4,5), Irlanda ( 4,0 ) , fino alle virtuosità di Australia ( 1,3 ) , Olanda ( 1,0 ) e Norvegia ( 0,4) . duatoria

è

PIL

umiliante (cfr. FIG.

4) :

su

In tutte le classifiche (relative all'efficienza del quadro giuridico, al tempo neces­ sario per ottenere una sentenza definitiva in materia contrattuale, al numero di procedure giudiziarie necessarie per far rispettare un contratto, alle infrastrutture, ai tempi di pagamento della pubblica amministrazione, alla "trasparenza" e funzionalità

26 paesi consi­ sui 26 paesi scelti,

delle istituzioni e ai tempi per gli adempimenti fiscali) l' Italia - su

è quasi sempre nelle ultime posizioni. Ecco alcuni esempi:

derati l' Italia

è

ultima per quanto riguarda le infrastrutture e l'efficienza del sistema giudi­

ziario ; penultima per quanto riguarda la diffusione di pagamenti irregolari e il ricorso alle tangenti; terzultima per la qualità dei servizi erogati dalla pubblica amministra­ zione (cfr. TAB.

2) .

La sequenza storica

1992-2009 ( TAB. 3 )

rende evidente la dimensione strutturale

del problema. Più attendibili dati sono forniti dalla Banca d' Italia, che misura la somma delle attività legali tenute nascoste per evitare il pagamento di imposte e contributi, con quelle illegali dell'economia criminale, pari - nel avviso)

31,1%

del

PIL

(rispettivamente,

18,5 9 2.

e

2008 - a un insostenibile (a mio 12,6% ) . Ma ciò che più colpisce è il

TRAIETTORIE DEL D E C LINO ECONO M I C O ITALIANO

4 Il sommerso economico ( in % del PIL )

FI GURA

Italia (2oo8) Messico (200 3 )

12,1

Spagna (2.ooo)

I 1, 2.

Regno Unito ( 2. 00 9) Austria ( 2. 00 4) Stati Uniti (2oos)

6, 2.

Svezia (2oos)

4,5

Irlanda ( 1 99 8)

4 ,0

Francia (2oo8)

3 ,9

Belgio (2.oo2)

3 ,5

Danimarca (200 3 )

2 ,4

Canada (2.oo8)

2,2

Australia (2001) Olanda (1 995 )

1,0

Norvegia (2 oo s) Fonte: http:/ /

.authorstream.com/Presentation/Confcommercio-I477IIS-Sulle-determinanti-dell-economia­

WW\V

sommersa/.

rapido movimento ascensionale ( "crescita esponenziale" ) dei dati: nel 2006 il dato aggregato del "sommerso globale" era pari al 24,6% del PIL, dunque con una crescita di ben 6,5 punti percentuali in un brevissimo volgere di tempo. Si tratta, è stato stimato, di una cifra pari a 490 miliardi di euro. Nel loro complesso, difficile trovare indici più eloquenti della debolezza di uno Stato. Terzo flash. Per quanto riguarda gli Indici di percezione della corruzione ( cfr. http:/ / www.transparency.it/ind_ti.asp ?idNews= 197&id=cpi ) , l' Italia, nelle stati­ stiche di Transparency lnternational, pur a prescindere dalla discusse metodologie impiegate, nel 2004 risultava 42a, a pari merito con l' Ungheria e stretta tra Malesia, 93

CARLO F UMIAN

2 Le determinanti dell'evasione fiscale e la posizione dell' Italia

TAB ELLA

Migliore

Italia

Peggiore

Svezia

Italia (25°)

Slovacchia (26°)

Tempo necessario per una sentenza Finlandia definitiva in materia contrattuale

Italia (2 3 °)

Slovenia (2 4°)

Numero di procedure giudiziarie per Irlanda fare rispettare un contratto

Italia (2 3 °)

Cipro (24°)

"Trasparenza" e funzionalità delle isti- Svezia tuzioni

Italia (2 3 °)

Messico (26°)

Efficienza del quadro giuridico

Italia (26°)

Francia

Infrastrutture

Tempi di pagamento della pubblica Finlandia amministrazione Tempi per gli adempimenti fiscali Fonte: http:/ / sommersa/ ) .

Lussemburgo

Italia (1 8°) Messico (25°)

.authorstream.com/ Presentation/ Confcommercio-I477 I I s-sulle-determinanti -dell-economia­

www

Tunisia, Costa Rica, Kuwait, Lituania e Sudafrica. Nel 20 1 1 è 6 9a, in compagnia del Ghana, della Macedonia e di Samoa. Nella classifica O ECD del 201 1, ristretta a 34 paesi, l' Italia è 32\ seguita solo dalla Grecia e dal Messico. Nel febbraio 20 I3 è 72\ tra Bosnia ed Erzegovina e Sao Tomé e Principe. Quarto flash. Il rapporto dell' O ECD (2oi2) Closing the Gender Gap racconta il divario tra uomini e donne nei 34 paesi aderenti all'organizzazione : l' Italia è 32\ punita dalla scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro ( S I % contro il 65% della media O EC D : peggio di noi solo Turchia e Messico). Le proiezioni O E CD dimo­ strano che - a parità di altre condizioni - « se nel 2030 la partecipazione femminile al lavoro raggiungesse i livelli maschili, la forza lavoro italiana crescerebbe del 7% e il PIL pro capite crescerebbe di I punto percentuale l'anno » . Quinto flash, ben noto a tutti: l'andamento del debito pubblico. Un riferimento ineludibile per la comprensione storica delle politiche economiche e delle gravi o gravissime responsabilità delle classi dirigenti italiane dagli anni Settanta a oggi, come riconoscono tutti i principali studiosi, da Ciocca a Toniolo a Salvatore Rossi. Un debito le cui proporzioni sono considerate da molti "invalidanti", perché possono - semplicemente - far perdere all' Italia l'accesso al mercato, e stroncare qualsiasi progetto di crescita : «Nessuna riforma strutturale può dare benefici in un paese che ogni anno deve pagare 8o-Ioo miliardi di euro di interessi sul suo debito » (Medio­ banca Secutities, 20 I3; cfr. FIGG. s e 6). Queste vere colline del disonore, accumulate da una classe politica irresponsabile 94

5, 2

4, 2

5,3

4·4 5,3

4· 0 5, 1

4, 1

12 , 0

I9,2

1 7, 0

2 ,4

1 99 6

5, 1

3. 8

12 ,5

20,0

1 7,7

2 ,4

3·5

1 99 7

5,0

4·4

12 ,7

Ig,o

1 6, 8

4· 0

2 ,4

1 99 8

3· 9 4· 9

5,0

1 1,2

12 ,4

Ig,I

16 ,9

3· 9

2 ,3

1 ,3

2000

3·7

12 , 6

I9,2

1 7, 0

2 ,4

1 999

5,0

4·4

12 ,4

I9,7

1 7,5

2 ,4

7· 9

1 ,3

200 1

5,0

5, 1

12 ,3

IS,6

16 , 2

2 ,4

3·5

2002

5.4

12 , 1

IS,5

16 ,7

2 ,4

2 ,4

200 3

5·4

8 ,5

0 ,4

IS,I

2 ,4

6 ,5

200 4

4·5

6,2

8 ,3

I7,S

2 ,4

2005

8,o

I7,5

2 ,3

2006

7.4

I7,2

2 ,3

200 7

8, 1

I7,5

3· 9

2, 2

2008

7· 9

200 9

*

L' Italia è presente due volte per completezza dell' informazione. L' I STAT, infatti, a partire dal 2oo6 ha rivisto ali' indietro fino all'anno 2000 la stima del sommerso economico incorporato nel P I L ufficiale, determinandosi così un salto di serie rispetto alle informazioni diffuse prima del 20o6 relativamente al periodo I992-2003. I dati in corsivo derivano da una ricostruzione della Confcommercio che ha replicato la struttura delle variazioni di quota del sommerso intercorse tra il I992 e il 2ooo. Fonte: http: l /www.authorstream.com/Presentation/ Confcommercio- I 477 I I s-sulle-determinanti-dell-economia-sommersa/.

Svezia

Stati Uniti

Spagna

Regno Unito

1 ,0

11 , 8

I9,J

1 7, 1

4, 2

2 ,5

1 99 5

Olanda

1 3, 2

IS,6

16 ,5

2,6

1 99 4

2 ,4

1 3,4

Ig,o

1 6, 8

2 ,7

199 3

Norvegia

3·7

I7,9

Italia *

Messico

1 5, 8

2 ,7

Italia

Irlanda

Francia

Danimarca

Canada

Belgio

Austria

Australia

1 99 2

3 Quota di economia non osservata per gli anni 1 99 2-200 9 (in % del P I L ) *

TAB ELLA

CARLO F UMIAN

FIGURA

5

Debito pubblico italiano (in milioni di euro; 1861-2.001) Prima

Crisi

guerra

Circolazione

dcl 19:Z.9 guerra

mondiale

16

Seconda

dell'curo

mondiale

Maastricht

14 -



Il.

u

IO

o

8

.:a · a ·-

o:=

e

-

3

6 4 l.

o

..... \D

00

.....

..... ......

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.....

00 00

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.....

0\ 00

.....

.....

o

0\

.....

..... .....

0\

.....

.........

0\

Spinelli (1989)

---

Zarnagni (1998)

o o....

0\

.....

.....

Debito amministrazioni pubbliche -

.....

..... ......

- Confalonieri-Gatti (1986) •

Salvemini-Zamagni (1993)

Fonte: http :ll rivoluzionemonetaria.wordpress.com.

6 Andamento della spesa pubblica italiana ( in % rispetto al PIL) e delle entrate fiscali (1861 e 2.001) FIGURA

70,00

Spesa pubblica ------- Entrate fiscali --

6o,oo so,oo



. . ..'

40,00

l l �-�

30,0 0

_

,

•'

,

Il '• ( . ...

'

..� - "" ,. ....... ,,

l.O,OO

IO,OO

Fonte: http :lltherebdek.onomist.blogspot.itl 2.010 l 07l il-pil-italiano-e-drogato-dalla-spesa.html

fra i tardi anni Settanta e i primi anni Novanta, sembrano rappresentare un ostacolo invalidante e quasi insormontabile, un «primario impedimento alla più intensa accumulazione di capitale e alla crescita »

( Ciocca, 2007 )

:

riducono il volume degli

investimenti pubblici in ricerca e infrastrutture, minacciano il we/fore state e la coe-

T RAIETTORIE DEL D E C LINO ECONO M I C O ITALIANO

sione sociale e in un contesto di perfetta mobilità internazionale dei capitali espon­ gono il paese a «gravi pericoli qualora si instauri nei mercati una percezione di fragilità della finanza pubblica » (Toniolo, 201 1, p. 17 ) . Agli inizi degli anni Novanta, dunque, la spesa per interessi rappresenta la prin­ cipale voce di uscita del bilancio pubblico italiano (assieme a quella previdenziale) . Con Vincenzo Visco si può aggiungere che le responsabilità furono molteplici e anche l'opposizione politica del tempo fu coinvolta nella mancata costruzione di una solida disciplina finanziaria, pur ricordando che il ricorso alla spesa pubblica - ossia all' indebitamento - fu anche uno strumento di lotta per «contenere » il più grande partito comunista dell' Occidente. Ma forse è più interessante notare che i dati disponibili dimostrano in modo inequivocabile che nel decennio degli anni ' So, e parti­ colarmente nella prima metà del periodo, sarebbe stato tecnicamente possibile, senza traumi eccessivi, riequilibrare la situazione e arrestare un processo di deterioramento progressivo di cui oggi paghiamo le conseguenze. Purtroppo la politica non fu in grado di risolvere un problema piuttosto evidente e ampiamente analizzato in sede tecnica (Visco, 200 4, p. 45).

Gli anni Ottanta racchiusero in realtà un periodo di ragguardevole crescita del reddito, ma si trattava di una crescita ottenuta a spese delle generazioni future, che spostò la resa dei conti al decennio successivo [ ... ]. Il paese aveva appena conquistato dei diritti ed era convinto che essi potessero solo estendersi. Qualunque argomento in senso contrario aveva difficoltà persino ad essere preso in conside­ razione. Malgrado tassi di crescita economica che oggi susciterebbero invidia, la percentuale del debito pubblico sul PIL crebbe così negli anni Ottanta dal 6 o al 100%, innescando un meccanismo che, in assenza di interventi radicali, portava al fallimento del paese (Amato, Graziosi, 201 3 , pp. 142 e 1 44 ).

Eppure il decennio si era aperto con l'introduzione di una riforma sostanziale, voluta dal ministro Beniamino Andreatta - in stretta collaborazione con il governatore Ciampi -, che separava la Banca d'Italia dal ministero del Tesoro, esimendo la prima dal garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal secondo, abolendo dunque l'obbligo della Banca d'Italia, in vigore dal 1975, a sottoscrivere i titoli di Stato invenduti: L' imperativo era di cambiare il regime della politica economica e lo dovevo fare in una com­ pagine ministeriale in cui non avevo alleati, ma colleghi ossessionati dall 'ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole [ ... ] . Da quel momento in avanti la vita dei ministri del Tesoro si era fatta più difficile e ad ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato (Andreatta, 1991, corsivio mio).

Se accanto al provvedimento di Andreatta si aggiunge che nel 1979 l' Italia aveva aderito allo SME, pur ottenendo una banda di oscillazione più ampia degli altri paesi 97

CARLO F UMIAN

( 6%, rispetto al 2,25% ) , segno della persistente fragilità monetaria dell'Italia (tra 1981 e 1987 si verificò una svalutazione all'anno, eccetto il 1984 ) , allora si può riconoscere un ulteriore tratto distintivo e antico di una pericolosa dicotomia, che possiamo col­ locare alle «origini del processo involutivo » : di contro a una politica monetaria estera risanatrice e attenta ai vincoli di un sistema ormai mondializzato, si continua a svi­ luppare una viziosa politica fiscale interna, incapace di coniugare e correggere spese ed entrate, cosicché « l'assunzione del vincolo estero non risulta quindi sufficiente a modificare gli abituali comportamenti interni » (Visco, 2004, p. 39 ).

3

L'enigma della produttività e il mantra della crescita

Anche in questo caso è forse opportuno partire da un' immagine, ahimè traumatica­ mente eloquente: si noti nella FIG. 7 il basso valore della crescita del PIL per ora lavorata del periodo 1995-20 0 0. Si tratta di un dato ancor più inquietante se confrontato con gli andamenti prece­ denti: tra 1975 e 1995 la produttività del settore manifatturiero italiano cresce a una velocità doppia ( +3,6% annuo) rispetto a quello statunitense ( + 1,8% annuo). Dopo il 1995 la produttività del manifatturiero diminuisce mentre la crescita accelera negli Stati Uniti ( +3,1% annuo). Tra 1995 e 2009 il PIL pro capite italiano passa dal 74 al 65% rispetto a quello statunitense, mentre il PIL per ora lavorata crolla dal 91 al 75%. Ma la differenza, oltre alle camicie di forza politiche, giuridiche, amministrative che andiamo enumerando, la fanno anche, e molto, le nuove tecnologie dell' infor­ mazione e della comunicazione ( IcT ) , in un contesto di regole opprimenti quanto inefficienti, che rendono in Italia gli indici di produttività estremamente deludenti: Even by European standards. [ ... ] We need, therefore, to confront the puzzle of why growth performance deteriorated rather than improved. There seem to be two key reasons for this. First, ltaly was relatively badly placed to exploit the opportunities of the ICT era. The diffusion of this new technology was hindered by the small size of fìrms, oppressive regulation, and shortfalls in human capital by comparison with the European leaders in the take up of ICT. In severa! respects, including the legai system, competition policy, regulation and privatization, reforms were either incomplete or inadequately implemented (Craft, Magnani, 2011, p. 20 ) .

A dimostrazione di ciò si vedano le FIGG. 8 e 9, altrettanto eloquenti di ciò che è stato definito un "orrendo scenario" di eccessiva sovraregolamentazione e di ineffi­ cienza economica, che riguardano la produttività dei servizi nel periodo 20 0 0- 10 e il mutare delle proporzioni tra i settori dell'industria, delle costruzioni (in calo), e dei servizi (in crescita) : è evidente la perdita catastrofica di competitività economica di un "sistema" la cui sezione dominante - fin dagli anni Settanta in stabile crescita brilla per inefficienza.

TRAIETTORIE D E L D E C LINO ECONOM I C O ITALIANO FIGURA 7 Crescita media annua nei paesi OECD (in % del PIL per ora lavorata) •

- lOOI-07

I 9 9S-l0 00

7

6 s 4 3 2

I



o

-I

Fonte: OECD ( 2.009 ) . FIGURA 8 Produttività del settore dei servizi (2ooo-1o) Io8

Indice --- Italia

106

- - - . Area UE

Germania ---

104 102.

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94 00

01

0 2.

03

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07

o8

09

IO

Fonte: http :/ /WWW'.docstoc.com/docs/II964I014/Barclays-Capital----Italy-Searching-for-growch-_part-I. Anche in http :/ l articles.businessinsider.coml 2.012.-04-07 l markets/ 313 o 3 3 3 8_I_service-sector-productivity-eurozone­ nations-economic-growth.

99

CARLO F UMIAN

9 Valore aggiunto lordo ( GVA ) dei principali settori (1970-2010) FIG URA

Bo 70 6o Industria Costruzioni

so

Servizi

30 20 IO

-

-

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1970 1973 19 76 1979 1 982 I 9 8 s 1988



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-

-

-

-

-

1991 1 9 9 4 1 9 97 2ooo 2003 2oo6 2009

Fonte: http :/ /www.docstoc.com/docs/II964IOI4/Barclays-Capital----Italy-Searching-for-growth-_part-I_ Anche in http:/ /articles.businessinsider.com/20I2.-04-07/markets/3I303338_I_service-sector-productivity­ eurozone-nations-economic-growth.

Il problema della produttività rimanda immediatamente alle dotazioni di capitale umano e alle risorse in campo scientifico e tecnologico. L'amara fotografia dell'esistente è facilmente rintracciabile nelle mappe EUROSTAT dedicate alle importazioni e alle esportazioni high-tech ( universo economico direttamente correlato agli investimenti in ricerca e sviluppo - R&s), ma per andare al cuore del problema è sufficiente soffermarsi brevemente sui dati relativi alle percentuali italiane delle risorse umane in campo scien­ tifico e tecnologico in rapporto alla forza lavoro totale (FIG. ro), percentuali calcolate sulla popolazione economicamente attiva nel gruppo di età tra i 25 e i 64 anni: si tratta di persone che detengono un PhD in campo scientifico o che sono impiegate in ruoli in cui un simile percorso formativo è "normalmente richiesto': Ebbene, se l'indicatore per l'Europa a 27 si attesta attorno al 42,3, nel 201 1 l'Italia registrava un valore pari al 3 4,4: dietro di lei Grecia, Bulgaria, Portogallo, Romania, Slovacchia. Un dato costante nel tempo : nel 2000 il valore medio sempre per l'Europa a 27 era del 3 4, con l' Italia a 28,8; dietro di lei solo Grecia, Polonia, Romania e Slovacchia. Ma anche qui non si dice nulla di nuovo, sono situazioni risapute e ben note ; appare più degno di nota constatare che il problema in realtà viene da lontano : già negli anni Ottanta si registrano situazioni di grave difficoltà, frutto di scelte precise e foriere di degradi e scivolamenti (cfr. TAB. 4) . 100

TRAIETTORIE DEL D E C LINO ECONO M I C O ITALIANO FIGURA IO Risorse umane in campo scientifico e tecnologico in rapporto alla forza lavoro totale (valori %; 2011)

P e si

L e gend a

a

25,8-33, 6

6

33,6 - 37,0

s

3 ?,0 -44,9

6

44,9-51,2

6

5 1, 2.-57,1

8

Fonte: http:/ /epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/mapToolClosed.do?tab=map&init= 1&plugin=1&language=en &pcode= tsco o o 2s&toolbox=types.

TABELLA 4 Principali indicatori R&S (198 7 ) Stati Uniti

Giappone Germania

Francia

Regno Unito

Italia

125,6

64,7

3 0, 3

20,5

16

9,4

Spesa pro capite (dollari USA)

515

53 0

495

368

29 3

165

Spese R&S/PIL (%)

2, 8

2,7

2,7

2 ,3

2,5

1, 3

Ricercatori nel 1985 (in migliaia)

7 62

47 3

144

102

94

64

Spese R&s per ricercatore nel 1985 (in migliaia di dollari usA)

147

78

139

1 47

1 49

109

Finanziamento pubblico in R&S (%)

51,4

19,4

3 5,8

53,1

39 , 8

51,4

Spese totali in R&s (in miliardi di dollari USA)

Fonte: Lamborgh ini, Sacchi ( 1993 ) .

101

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I99 5-99

Growth

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I995-99

Growth

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I995-99

Growth

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I995-99

Growch

Educational spendinglcap.

Education

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-

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1 999

Level

+

+

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o

1 995-99

Growth

Lifelong learning

Training

Fonte: European Commission (2003).

Notes:

investmenc level is based on standardised scores; deviation is expressed as number of standard deviations II from EU average: - - = more than I II below EU average; - = becween III and Yz�I below E U average; o = between Yz�I below and Yzii above EU average; + = becween Yz�I and III above EU average; ++ = more than III above E U average; : = data non available. Investmenc growth rate is based on average annual real growth rate (in %), deviation is expressed as che absoluce difference becween country-specific growch rate and EU average growch rate : -- = more chan 3% below EU average; - = becween 3% and I% below EU average; o = becween I% below and I% above EU average; + = becween I% and 3% above EU average; + + = more chan 3% above EU average; : = data non available. Since che indicacor on e-governmenc is not available far I995 · it could not be included in che comparison of che growth rates. Luxembourg is not included (no data far most ofindicators).

Legenda: GERD :

Gross Expendirure on Research and Developmenc (spesa lorda in ricerca e sviluppo); ++ = well above EU average; + = above EU average; o = dose co EU average; - = below EU average; - - = well below EU average.

--

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B

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FIN

++

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o

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I99 5-99

I999

I995-99

I999

DK

I999

Growth

Level

Level

Researchers per capita

Growth

New S&TPhDs per capita

Human capitai

Level

per capita

GERD

Tocal expendicure in R&D

TABELLA S Indicatori compositi relativi agli investimenti: confronto tra gli Stati membri dell'Unione Europea e la media per ciascun sub-indicatore, sia a livello del 1 999 che al tasso di crescita per il periodo 1995-99

T RA I E T T O R I E D E L D E C L I N O E C O N O M I C O I TA L I A N O

FIGURA II Spesa reale in R&s, tasso medio annuale (%; dal 1 995 sino all'anno più recente per il quale vi sono dati disponibili)* Spesa in R&S, 2.0 oo (milioni di euro correnti) .... Finlandia Grecia Portogallo Spagna Irlanda Belgio Danimarca Stati Uniti Austria Svezia Olanda Germania Europa... Giappone Francia Regno Unito Italia

-

..

Stati:

1 9 9 5-99;

815

l 1 1, 4

6,7

6.276

6,7

1.076

6,0

4.618

5,9

3·405 287.7 8 8

5,7

3·922.

s ,s 4,2

8.6o8

s ,I

7·564 s 2.074 I 64.2.2.8

3,5 3,4

1 5 3·8 52

2.,8

30. 1 5 3

2,0

2.8.7 6 6

1,8

I 1.524

1,2. 2.

4 · 4 2.3 795

1 2.,0

O

Note:

1 3 ,5

4

6

8

IO

12.

14

JP: 1 9 9 6 - 20 0 0 ; D , E, A : 1 9 9 5 · 2. 0 0 1 ; I : 1 997-9 9 ; F: 1997·2 0 0 0 ; altri inclusi nella media E U 1 5 ; ... B, DK, EL, IRL, I, NL, P, S : 1 9 9 9 ; D, E, A:

FIN, UK, US, E U 1 5 : 1 9 9 S · 2 0 0 0 ; u

i valori non sono

2001.

Fonte: European Commission (2.003).

Non sorprende che la quota di esportazioni di prodotti high-tech assuma un anda­ mento miserevole nel tempo, già tra 1970 e 1988, in confronto a paesi quali la Ger­ mania, il Regno Unito e la Francia (Lamborghini, Sacchi, 1993). Dunque un problema antico e strutturale: anche Paolo Guerrieri e Carlo Milana notavano più di vent 'anni fa come l' Italia fin dagli anni Settanta, con un'accelera­ zione negli anni Ottanta, presentasse una struttura di scambi high-tech differenziata rispetto all' insieme europeo e con una posizione di mercato assai debole. Già allora l'allarme era chiarissimo : la marginalità italiana nei mercati "dinamici" rischiava di espellere l' Italia dai nuovi - allora - circuiti globali, con un side ejfect particolarmente velenoso : l'inadeguatezza tecnologica, si profetizzava, avrebbe rapidamente indebo­ lito anche quelle produzioni in cui il paese eccelleva (ovvero i beni di consumo tradizionali e i prodotti della meccanica strumentale) . La forte dipendenza tecnolo­ gica dall'estero delle imprese italiane si sarebbe trasformata in un fattore di penaliz­ zazione generale della capacità competitiva italiana (Guerrieri, Milana, 1990). Ancora più drammatica la situazione fotografata nel 20 0 3 dalla Commissione Europea nel Third European Report on Science and Technology Indicators, pubbli­ cato nel 200 3, relativamente alla situazione della seconda metà degli anni Novanta e da cui sono tratte la TAB. s e la F I G . I I . 103

CARLO F UMIAN

Credo ogni commento sia superfluo. L' Italia, come si vede, è ultima, con una serie inquietante di primati negativi anche in altri ambienti di indicatori (ultima nel numero di ricercatori, nella proporzione di laureati s&E - ovvero scienze e inge­ gneria - nella fascia di popolazione tra i 20 e i 34 anni: l' Irlanda è prima con un indice 16,26, la media dell' Europa a 15 è 6,85, l' Italia in coda con il 3,53 ) : e questo già negli spensierati anni Novanta delle formidabili performance commerciali della terza Italia. Infine, un veloce sguardo ai brevetti ( FIG. 12), da molti considerati un termometro altamente significativo. Nel 2oo1 l' Italia su 15 paesi europei è 12 a, con 74 domande di brevetto per milione di abitanti, molto lontano dagli altri paesi: il Regno Unito a 133, la Francia a 145, la Germania a 309, il Belgio a 151, l'Austria a 174, la Danimarca a 21 1, l' Olanda a 242, la Finlandia a 337, la Svezia 366. E non basta. Un chiaro riconoscimento dell' « inef­ ficienza italiana in tema di creatività tecnologica » emerge dal dato che meno del 10% delle domande di brevetto presentate all' European Patent Office (EPO) da parte di imprese italiane nel 2000 riguardassero apparati o prodotti high-tech (Gallino, 2003; altri dati in http:/ l epp.eurostat.ec.europa.eu/ statistics_explained/images/8/88/ Patent_applications_to_the_EP O_and_patents_granted_by_the_USPT0%2C_ 2ooo-2oo8.png). Al di là della pianezza della performance italiana, la documentazione del mini­ stero dello Sviluppo economico relativa ai brevetti testimonia anche uno dei tratti più drammaticamente significativi della divergenza tra Centro-Nord e Sud: i dati consolidati del 201 1 (considerando per praticità solo la colonna delle "invenzioni" ) vedono il Centro-Nord accaparrarsi 9 · 130 brevetti, contro i 461 del Mezzogiorno (Ministero dello Sviluppo economico, 2011). Per inciso, della divergenza tra Nord e Sud in queste pagine non si è parlato, ma è evidente che essa rappresenta un potente moltiplicatore della più generale diver­ genza italiana, a cominciare dalla comprovata « incapacità delle imprese del Mezzo­ giorno a internazionalizzare la produzione » (Bugamelli, Cristadoro, Zevi, 2009 ) : sul versante del reddito pro capite le disparità regionali in Italia sono tra le più alte in Europa, e l 'unica fase in cui si assiste a una loro diminuzione (peraltro solo all' interno delle regioni del Centro-Nord) è il periodo 19 60-75; successivamente la disugua­ glianza torna a crescere, e nei primi anni Novanta la disparità di reddito tra Nord e Sud è ancora quella di quarant'anni prima (Paci, Saba, 1997 ). Inoltre, the Doing Business indicators [ . .. ], which are strictly related to the quality of public services and administration, are in the South even weaker than in che rest of ltaly, and far below che average of European countries. The factors hindering growth of the Southern economy in the last twenty years are of the same nature of those which curb the ltalian economy as whole. In the South they are, however, more powerful. In this sense, the Southern question is today more than ever the magnifying mirror of Italy's diffìculties (Craft, Magnani, 2 011, p. 26).

1 04

TRAIETTORIE D E L D E C LINO ECONO M I C O ITALIANO FIGURA 12 Brevetti ICT presentati all'EPO (%; 2007 ) o

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Fonte: http:/ lepp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ ITY_O FFPUB/ KS--GN I 1--o o 1/ EN l KS--GN I 1-o o I-EN .P D F. ..

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C A R L O F UM I A N

FIGURA 1 3 Brevetti relativi alle biotecnologie depositati presso l'EPO (% ; 2.007) o

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Fonte: http:/ lepp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ ITY_O FFPUB/ KS-GN I 1-o o I/ EN l KS-GN I 2-o o I-EN .P D F.

106

T RA I E T T O R I E D E L D E C L I N O E C O N O M I C O I TA L I A N O

FIGURA 1 4 Piramidi demografiche in Italia (1970 - 20 3 0)

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53·358.00 0

1990 1990

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2.02.0

F

F

M

M

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Fonte: http:/ l fìstfulofeuros.net/ afoe/last-days-of-pompeii/.

Tornando rapidamente ai brevetti, la sofferenza italiana è crudelmente dipinta nei due grafici relativi rispettivamente alle I C T e alle biotecnologie, riprodotti nelle F I G G . 12 e 13. L' inizio della "divergenza" italiana coincide sì con la fase di espansione più mas­ siccia e tumultuosa delle IC T, ma anche con la fine della Guerra fredda: l' Italia, questa instabile, inaffidabile, ma a suo modo cruciale terra di confine appare ora del tutto secondaria nei nuovi equilibri internazionali in formazione, e priva di nuove energie al suo interno, a cominciare dall' invecchiamento della popolazione; un cupo percorso vividamente descritto dai grafici della F I G . 14. Queste piramidi sempre più scavate e allungate avrebbero avuto bisogno di robuste iniezioni di ricostituenti demografici, ovvero di una immigrazione considerata da alcuni la "più preziosa risorsa del decennio" (Amato, Graziosi, 2013), a cui l'Italia ha sempre attinto nelle fasi di espansione: nelle regioni più ricche e ad antica industria­ lizzazione > (Dalla Zuanna, Farina, Strozza, 2009, p. 15). Ma dagli anni Ottanta

1 07

CARLO FUMIAN

alla nuova immigrazione si rispose con una ottusa - quanto cruciale - demonizzazione politica e culturale, nutrita di ossessioni identitarie - le famigerate "radici", religiose, culturali, addirittura etniche di cui tanto si è sentito discutere - frutto di una medierà culturale sinceramente strapaesana (e spensieratamente suicida).

4

Conclusioni. Quale globalizzazione ?

Dunque, più che lacci e lacciuoli sembra trattarsi di vere camicie di forza, serratesi progressivamente. Non sempre è stato così. A ben vedere, tutte le fasi di crescita dell' Italia sono legate alla sua capacità più o meno virtuosa di agganciare congiunture internazionali espansive. Ma lo fa sempre con modalità peculiari, e in forma mai pienamente "sod­ disfacente". Consideriamo quella che per comodità possiamo chiamare la prima globalizza­ zione (Fumian, 20 03), con gli occhi e gli strumenti di uno storico economico rigo­ roso, Stefano Fenoaltea, che al periodo ha dedicato un libro essenziale e a mio avviso profondamente innovativo sul piano interpretativo. Ricordiamone brevemente le conclusioni, non a caso dedicate all' Italia nel mondo ( in particolare ai movimenti ciclici e allo sviluppo di lungo periodo). Ebbene, il ciclo economico dell' Italia postunitaria «è un ciclo degli investi­ menti » , legato ai mercati finanziari internazionali: •

Gli investimenti in Italia crescono quando si riversano da noi i capitali esteri, scemano quando questi si ritirano. [ ... ] Il ciclo italiano è parte di un ciclo più ampio, mondiale, dovuto ai mutamenti della fiducia dei risparmiatori del centro inglese in tutta la periferia finanziaria: è un ciclo che l' Italia subisce, sul quale non hanno un' influenza percepibile le vicende dell' I­ talia stessa (Fenoaltea, 2.00 6, pp. 2.74 - s ).

Ma la politica eco nomica dei governi non è irrilevante : se non può alterare i movi­ menti ciclici degli investimenti stranieri, può determinare la qualità della performance. E la politica economica dei governi a influire sul tasso medio di crescita, a determinare, nel suo complesso, una trasformazione « limitata » dell 'economia: insomma, un «progresso notevole ma pur sempre deludente» (ivi, p. 274, corsivo mio) . Deludente ad esempio è il risultato della politica, emblematicamente centrale, di ferroviarizzazione dell' Italia: « Si è costruito troppo, per motivi prima strategici [ . .. ] poi banalmente elettorali: cosa più grave, si è ampiamente sprecato l' investi­ mento fatto. Le alte tariffe imposte dallo Stato scoraggiavano il traffico : le ferrovie ,

108

T RA I E T T O R I E D E L D E C L I N O E C O N O M I C O I TA L I A N O

rimasero sottoutilizzate, non unificarono il mercato nazionale » (ivi, p. 27 5 ) . E a questo proposito Fenoaltea elabora una eloquente tabella assolutamente paradig­ matica dell ' italica vocazione allo spreco (ivi, p. 205 ) . È un confronto tra le linee italiane, le linee francesi e le principali linee tedesche del 1 8 9 8, che si può riassu­ mere così: il traffico passeggeri delle linee italiane oscilla (in migliaia) tra 1 6 8 e 146 passeggeri-chilometro, contro i 321 dei Chemins de Fer du Nord e i 294 delle ferrovie prussiane. Le ferrovie italiane trasportano tra 173 e 178 migliaia di tonnel­ late-chilometro contro le 496 dei francesi e le 5 3 1 dei tedeschi. I costi di gestione (in lire per mille unità di traffico) sono 40-42 per le italiane, 28-29 per le francesi e 3 2 per le tedesche, mentre l 'occupazione (misurata in numero di addetti per milione di unità di traffico) è pari a 20 per le italiane, circa a 9 per le francesi e 10 per le tedesche. Ecco uno spread che non perdona, esempio eclatante della deludente perfor­ mance italiana. Ancora peggiori sono gli effetti delle politiche doganali, che limitano gravemente l'accesso ai mercati internazionali, condannando l' Italia - e qui il ragio­ namento di Fenoaltea suona terribilmente attuale - a industrializzarsi sviluppando settori ormai consolidati, non più d'avanguardia. [ ... ] L' Italia non sviluppa l'alta tecnologia, diventa esportatrice di cotoni di bassa qualità piuttosto che di prodotti chimici ed elettrotecnici. Le industrie nuove sono legate alle risorse umane, alla ricerca, al know-ho w specializzato del personale, e molto meno alle risorse naturali; potevano svilupparsi anche in Italia, e anche lontano dal triangolo industriale. Ma questo sviluppo più moderno, più rapido, potenzialmente squilibrato avrebbe richiesto uno stimolo adeguato, che non ci fu, da parte dello Stato (Fenoaltea, 2.0 0 6, p. 2.7 5).

Quale stimolo, conclude Fenoaltea ? Non interventi a favore di particolari settori, non commesse pubbliche né dazi, bensì la creazione dell 'humus che avrebbe con­ sentito all' industria avanzata di crescere spontaneamente : allo Stato spettava il com­ pito di in vestire fortemente nell'educazione tecnica, secondaria e superiore, moltiplicare i percorsi sussi­ diati per giovani poveri ma brillanti. [ .

] Sarebbero stati nel 1913 più numerosi e più prosperi gli italiani in Italia se lo Stato non avesse intralciato il commercio internazionale, se avesse sviluppato i politecnici, facilitato con questi l'ascesa di homines no vi: se la classe dirigente avesse voluto far progredire il paese anche al costo di rinnovarsi (Fenoaltea, 2.006, p. 2.7 6, corsivo mio). ..

Insomma, non bastano generici investimenti nel campo dell ' istruzione, sembra ricordarci Fenoaltea. Colpisce allora come Jack A. Goldstone, nel suo Perché l 'Eu­ ropa ?, pur attentissimo alla dimensione economica e tecnologica del confronto, nelle sue conclusioni sottolinei con grande forza l' importanza (l'essenzialità, oserei dire) di variabili culturali e politico-istituzionali che ci interessano molto da vicino . 109

C A R L O F U M I AN

Un grave ostacolo alla crescita economica, anzi, una delle strade verso la povertà, è «l' investimento in sistemi educativi non adatti » . Il successo dell'Occidente, scrive, è dipeso dall' istruzione diffusa, dalla libertà di pensiero, dall'educazione tecnica degli artigiani e dalla preparazione di ingegneri formati scientificamente. Sbaglia chi pensa che un qualunque tipo di istruzione superiore sia sufficiente : molti paesi hanno sperperato Immense nsorse .

.

per formare laureati nelle professioni tradizionali del diritto, dell'amministrazione, delle scienze sociali, delle arti, delle discipline umanistiche, della medicina, dell'economia conta­ bile e perfino della teologia, senza coltivare anche quei talenti ingegneristici e imprendito­ riali che avrebbero creato un'economia moderna in grado di occupare schiere di umanisti e professionisti. La conseguenza è stata un ' imponente disoccupazione di uomini e donne eccessivamente qualificati, che ha prodotto turbamento sociale più che progresso econo­ mico. Molti paesi in via di sviluppo, inoltre, hanno speso troppo nell' istruzione universitaria - che è destinata alla formazione di un 'élite privilegiata (e che spesso produce un eccesso di giovani sovraqualificati, ma disoccupati e irrequieti) - e troppo poco in quella primaria, secondaria e tecnica che consentirebbe a molte più persone di migliorare le proprie vite. Per la prospettiva della crescita, una spesa per l' istruzione ristretta e male indirizzata ha fatto probabilmente altrettanti danni dell'assenza stessa di spesa per l' istruzione (Goldstone, 20 10, pp. 244-5).

Un confronto ancora più ardito, nutrito da preoccupanti analogie e inquietanti assonanze. Sessant 'anni fa Carlo M. Cipolla scrisse un breve articolo dedicato a The Decline of ltaly: The Case ofa Fully Matured Economy. L' Italia raccontata da Cipolla era quella del XV I I secolo : all 'inizio del Seicento la penisola - o meglio, la sua parte centro-settentrionale - era ancora una delle più avanzate delle aree "industriali" dell 'Europa occidentale, segnata da « an exceptio nally high standard of living » ( Cipolla, 1 9 52). Alla fine del secolo l ' Italia era divenuta un'area econo­ micamente depressa e in posizioni di retroguardia, la sua struttura manifatturiera al collasso. Ora, tra le cause di questo « tragic change » , di questo « long and drastic decline » , Cipolla enumera la fine di due strategici vantaggi comparati. Alla base della prosperità italiana stavano due fattori: le esportazioni visibili su larga scala di manufatti ( soprattutto tessili ) , e l 'esportazione "invisibile" di « world-wide banking operations and maritime transport » . L'autore documenta i rapidi collassi di ambedue questi rami di attività, ma ciò che colpisce è il richiamo al fatto che la manifattura italiana, le cui mani erano legate da complesse regolazioni corpora­ tive, abbia in sostanza insistito caparbiamente « in the production by traditional methods of articles excellent in quality and out of date in fashion » : la concorrenza inglese, francese e olandese andava invadendo i mercati internazionali con nuovi prodotti tessili «lighter, less durable, brighter an d livelier in color » , qualitativa­ mente inferiori ma molto meno cari. Di contro, Cipolla ha ragione di credere che i costi di produzione fossero ben maggiori dei concorrenti: anche qui, in primo 110

T RA I E T T O R I E D E L D E C L I N O E C O N O M I C O I TA L I A N O

luogo il peso eccessivo del vecchio sistema delle gilde e la loro farraginosa legisla­ zione si fa determinante, mentre numerosi documenti riportano che la tassazione è ovunque eccessiva e lamentano al contempo che la produttivita degli operai e molto bassa e il numero delle festività eccessivo. Il primo risultato, si è detto, fu il rapido e "violento" declino sia nella produzione che nell'esportazione, il secondo fu « a drastic an d prolonged process of disinvestment of capitai » , con ampi fenomeni, diremmo oggi, di delocalizzazione. Marcati e devastanti "declini" si manifestano anche in altri settori, ad esempio la metallurgia e le armi, mentre le esportazioni "invisibili" sono trascinate al "completo collasso" dalla concorrenza inglese e olandese : «Thus it was that ltaly now began his career as a country at once depressed and overpopulated. [ ... ] The p ivotai poi nt around which ali ltalian misfortunes occurred, was the inability to sustain ltalian exports after the beginning of the seventeenth century. The drastic and continuous fall of foreign demand for ltalian products and services gave impetus to a long and cumulative deflation » . Amare le conclusioni, al di là di ogni effettiva sostenibilità della comparazione (si pensi alla peste e alla Guerra dei trent'anni): «lf a country is able to develop new types of production or exploit new markets, i t can, broadly speaking, maintain both his level of employment and his standard of living. Otherwise it must naturally acquiesce in a drastic reduction in its standard of living and, very probably, in its level of employment » (Cipolla, 1952). Suona familiare ? La gravità della crisi attuale appare dunque legata sia a problemi strutturali (e a errate strategie politiche) maturati - in esordio - tra gli anni Sessanta e Ottanta, sia alla miopia della pattuglia, pur generosa, dei "riformatori" che a più riprese dagli anni Novanta ha tentato di invertire la rotta, ma senza cogliere davvero che il paese si andava spegnendo. In particolar modo costoro hanno concentrato la loro attenzione su una visione europea dei circuiti economici e politici, dimenticando o sottovalu­ tando un più vasto mondo dove invece andavano accumulandosi le trasformazioni più radicali e delineandosi le sfide dei prossimi decenni. In secondo luogo, accanto al più vistoso, conclamato - e pur decisivo - deficit culturale della classe dirigente, uno degli elementi patogeni più intossicanti della malata penisola sembra essere il processo degenerativo di un tessuto essenziale : la pubblica amministrazione. Esistono analisi assai penetranti sul fenomeno cui è necessario rimandare ( Cassese, 1998; Sal­ vati, 201 1b); basti qui dire che la presenza di una pubblica amministrazione di leg­ gendaria inefficienza cui è sconosciuto il principio della responsabilita personale, dotata di una cultura formalistico-giuridica indifferente al merito e alla trasparenza, e a cui sono di massima estranee essenziali competenze economiche, finanziarie e soprat­ tutto manageriali, può rappresentare un elemento determinante di fossilizzazione e sclerotizzazione del sistema economico italiano a ogni livello. Quanto queste siano definitive, lo sapremo presto. III

T RA I E T T O R I E D E L D E C L I N O E C O N O M I C O I TA L I A N O

luogo il peso eccessivo del vecchio sistema delle gilde e la loro farraginosa legisla­ zione si fa determinante, mentre numerosi documenti riportano che la tassazione è ovunque eccessiva e lamentano al contempo che la produttivita degli operai e molto bassa e il numero delle festività eccessivo. Il primo risultato, si è detto, fu il rapido e "violento" declino sia nella produzione che nell'esportazione, il secondo fu « a drastic an d prolonged process of disinvestment of capitai » , con ampi fenomeni, diremmo oggi, di delocalizzazione. Marcati e devastanti "declini" si manifestano anche in altri settori, ad esempio la metallurgia e le armi, mentre le esportazioni "invisibili" sono trascinate al "completo collasso" dalla concorrenza inglese e olandese : «Thus it was that ltaly now began his career as a country at once depressed and overpopulated. [ ... ] The p ivotai poi nt around which ali ltalian misfortunes occurred, was the inability to sustain ltalian exports after the beginning of the seventeenth century. The drastic and continuous fall of foreign demand for ltalian products and services gave impetus to a long and cumulative deflation » . Amare le conclusioni, al di là di ogni effettiva sostenibilità della comparazione (si pensi alla peste e alla Guerra dei trent'anni): «lf a country is able to develop new types of production or exploit new markets, i t can, broadly speaking, maintain both his level of employment and his standard of living. Otherwise it must naturally acquiesce in a drastic reduction in its standard of living and, very probably, in its level of employment » (Cipolla, 1952). Suona familiare ? La gravità della crisi attuale appare dunque legata sia a problemi strutturali (e a errate strategie politiche) maturati - in esordio - tra gli anni Sessanta e Ottanta, sia alla miopia della pattuglia, pur generosa, dei "riformatori" che a più riprese dagli anni Novanta ha tentato di invertire la rotta, ma senza cogliere davvero che il paese si andava spegnendo. In particolar modo costoro hanno concentrato la loro attenzione su una visione europea dei circuiti economici e politici, dimenticando o sottovalu­ tando un più vasto mondo dove invece andavano accumulandosi le trasformazioni più radicali e delineandosi le sfide dei prossimi decenni. In secondo luogo, accanto al più vistoso, conclamato - e pur decisivo - deficit culturale della classe dirigente, uno degli elementi patogeni più intossicanti della malata penisola sembra essere il processo degenerativo di un tessuto essenziale : la pubblica amministrazione. Esistono analisi assai penetranti sul fenomeno cui è necessario rimandare ( Cassese, 1998; Sal­ vati, 201 1b); basti qui dire che la presenza di una pubblica amministrazione di leg­ gendaria inefficienza cui è sconosciuto il principio della responsabilita personale, dotata di una cultura formalistico-giuridica indifferente al merito e alla trasparenza, e a cui sono di massima estranee essenziali competenze economiche, finanziarie e soprat­ tutto manageriali, può rappresentare un elemento determinante di fossilizzazione e sclerotizzazione del sistema economico italiano a ogni livello. Quanto queste siano definitive, lo sapremo presto. III

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114

Le interpretazioni del declino economico italiano* di Roberto Arto n i

Qualsiasi tentativo d' interpretazione della più recente vicenda economica italiana deve trovare fondamento in una descrizione dei fatti ritenuti più rilevanti, a nostro giudizio sintetizzabili nelle seguenti aree tematiche : andamento macroeconomico; struttura produttiva e distribuzione del reddito; conti con l'estero e condizionamento finanziario ; finanza pubblica; presupposti culturali della politica economica.

I

Macroeconomia

In tutte le analisi il problema principale dell'economia italiana a partire dai primi anni Novanta è riconducibile al rallentamento del tasso di crescita del PIL. Da tassi di crescita del reddito pro capite ancora sostenuti nel corso degli anni Ottanta, in termini assoluti e relativi, si è passati a ritmi di sviluppo molto più contenuti, comunque in linea generale inferiori a quelli dei maggiori paesi industrializzati (TAB. 1 ) . Nel ventennio 1973-92 il tasso di crescita del PIL è stato in media pari al 2,5 %, assai più elevato di quello dei maggiori paesi europei e degli Stati Uniti. Negli ultimi anni del secolo scorso, in un contesto di generale rallentamento, il tasso di crescita si è dapprima allineato a quello dei paesi europei, per poi risultare assai inferiore nell'ultimo decennio. Nel periodo 200 3-09 il tasso di crescita medio della nostra economia è stato infatti pari allo 0,3% contro l' 1,2 della Francia e l' 1,6 della Germania, i due paesi con cui l' integrazione economica è più profonda. Il rallentamento dell'economia italiana è testimoniato anche dal dato relativo al * Ringrazio Carlo Devillanova per i suggerimenti che si inseriscono in una vecchia collaborazione

su questi temi. 115

R O B E RT O A RT O N I

TABELLA I Tassi di crescita del PIL 1983-

1993-

1 9 5 1 -7 1

1973-Bl

1991

1001

1 0 03-09

1 0 09

1010

101 1

101 1

Stati Uniti

2, 4

1,3

2, 4

2,0

1,6

- 3 .5

3 ,0

I,7

2,2

Italia

4. 6

2,8

2, 3

I, 4

0, 3

- s.s

I,8

0, 4

- 2, 3

Francia

4 ,0

2,1

I,7

I,S

I,2

-3,I

I,7

I,7

0,2

Germania

s ,I

2,0

I,8

I,I

I,6

- s ,I

3 .7

3 ,0

0,7

Regno Unito

2,3

I, 4

2,2

2,3

I,9

-4 ,0

I,8

0,8

0,0

Fonte: Banca d' Italia, Relazione Annuale. Presentata all'Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, 31 maggio .bancaditalia.it/pubblicazioni/relann/reln/relnit/. 2.012., in http :/ / www

TABELLA 2 PIL pro capite in P P S (indice EU27 = Io o ) 1995

1000

100S

1007

1 0 09

1011

UE

IOO

IOO

IOO

IOO

IOO

IOO

Italia

I 2I

II8

IO S

I0 4

I0 4

IOI

Francia

u6

IIS

IlO

IO S

I08

I07

Germania

I 29

118

116

n6

n6

I 20

Regno Unito

I l3

I l9

I22

II6

III

108

Fonte: elaborazione su dati EUROSTAT, in http :/ /epp.eurostat.ec.europa.eu/porcal/page/portal/government_ fìnance_statistics/data/ database.

reddito pro capite corretto per la parità dei poteri di acquisto. Nel 1995, posto pari a 100 il PIL medio pro capite dei 27 paesi aderenti all'Unione Europea, l'indice riferito all' Italia era pari a 121, contro il I I 6 della Francia e il 129 della Germania. Nel 20 I I lo stesso indice era pari per l'Italia a 101, contro 107 e 120, rispettivamente, di Francia e Germania (TAB. 2 ) . I dati appena richiamati, nella loro sinteticità, indicano che qualsiasi lettura della vicenda economica italiana deve porre al centro il rallentamento del ritmo di crescita dell'economia, cercando di individuarne le cause. Qui possiamo anche accennare all'andamento dell'inflazione, molto elevata nel corso degli anni Ottanta, poi progressivamente allineatasi a quella media europea. L' inflazione relativa dell' Italia deve essere letta in associazione al cambio della lira: fino all'introduzione dell'euro le scelte delle nostre autorità di politica economica sono state tendenzialmente svalutazionistiche. Nell' impossibilità di individuare un u6

L E I N T E R P R E TA Z I O N I D E L D E C L I N O E C O N O M I C O I TA L I A N O

evidente nesso causale, si può ragionevolmente sostenere che a partire dai primi anni Settanta e fino alla metà degli anni Novanta si è instaurata nel nostro sistema una spirale, per larga parte autoalimentantesi, in cui la maggiore inflazione interna era preceduta in alcuni casi, e seguita in altri casi, dalla svalutazione della lira. Sugli effetti di questa rincorsa, in cui hanno giocato sia fattori reali sia componenti speculative, torneremo in seguito nella nostra analisi della bilancia dei pagamenti e della distri­ buzione funzionale del reddito (cfr. PAR. 3.4 ).

2

La struttura produttiva

L' Italia, come tutti i paesi avanzati, è stata caratterizzata da una forte contrazione del peso del settore manifatturiero nell'occupazione e nella formazione del valore aggiunto. Qui basti ricordare che nel 1980 l'occupazione complessiva, espressa in unità di lavoro standard, era pari a 21,6 milioni, dei quali 15,2 erano dipendenti; nell'industria in senso stretto i dipendenti erano 5,3 milioni. Nel 1995, l'occupazione complessiva era salita a 22,2 milioni, ma i dipendenti nell'industria in senso stretto erano scesi al di sotto dei 4 milioni. Nel 20 1 1, nonostante il forte rallentamento del tasso di crescita e forse per effetto dei provvedimenti tendenti a fare emergere il lavoro sommerso, l'occupazione complessiva in unità standard ha superato i 24 milioni con l'occupazione dipendente nell'industria in senso stretto pari a 3,8 milioni. Nell'ipotesi, forse non del tutto fon­ data, che i dati siano comparabili, l'occupazione dell'industria si è ridotta di oltre un quarto, nonostante un tasso di crescita medio nel periodo non lontano dal 2% annuo. Sul piano occupazionale, l ' Italia continua a essere caratterizzata da un basso tasso di attività soprattutto nella componente femminile e nelle regioni meridionali, a testimonianza di una situazione economica e sociale ancora fortemente differenziata. Esistono tuttavia non pochi problemi interpretativi sull'andamento dell'occupa­ zione. Negli ultimi anni sono stati adottati provvedimenti tendenti a favorire l'emer­ sione del lavoro irregolare; da ciò è derivata nelle statistiche ufficiali una tendenza all'aumento dell'occupazione non immediatamente riconducibile all'andamento macroeconomico (e comunque in controtendenza rispetto agli altri paesi). Rimane il fatto che il tasso di disoccupazione, come rilevato dalle statistiche ufficiali, è for­ temente aumentato per effetto della crisi innescatasi a partire dal 200 8. Il ridimensionamento del settore manifatturiero in Italia è stato molto rilevante : nella formazione del valore aggiunto il settore manifatturiero nel 2009 incideva per il 16% contro il 29% del 1980. In altri paesi si sono verificate riduzioni ancora più A. Brandolini, M. Bugamelli (a cura di), Rapporto sulle tendenze nel sistema produttivo italiano, in "Questioni di Economia e Finanza': 45, 2009, p. 48, http :/ /www. bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/ quest_ecofìn_2/qf_4 s /QEF_4s .pdf I.

117

R O B E RT O A R T O N I

forti (il settore manifatturiero incide per il 1 2% in Francia e Regno Unito). Anche la Germania ha visto ridursi il peso del settore manifatturiero dal 3 1 del 1980 al 19% degli ultimi anni, dato che in ogni caso rimane relativamente elevato. È comunque garantita una significativa presenza dell'Italia nel commercio mondiale. Nella rela­ zione della Banca d' Italia sul 20 1 12 si legge che « la quota delle esportazioni italiane di beni sul commercio mondiale è scesa di un punto percentuale nel decennio 2oo220 1 1 (dal 3,9% al 2,9 ) [ ... ] . Il calo è stato più pronunciato per la quota della Francia (dal 4,8% al 3,4) , più modesto per quella della Germania (dal 9,4 all ' 8,6 ) » . Si sottolineano tuttavia elementi di preoccupazione derivanti dalle modifiche intervenute nella composizione delle nostre esportazioni a partire dal dopoguerra. Fra il 1 9 5 1 e il 1975 è drasticamente diminuito in termini di quota il ruolo dei due settori tradizionali (agroalimentare e tessile-abbigliamento); a ciò ha corrisposto un grande incremento delle esportazioni del settore meccanico (quasi la metà del totale) e di quelle del chimico e della gomma. «Nel successivo ventennio si resta invece colpiti dalla modestia dei mutamenti della struttura delle esportazioni, che non sembra evolvere verso i settori più avanzati » 3• Oggi i vantaggi competitivi dell' industria italiana sono concentrati in due raggruppamenti di settori. Il primo riguarda i beni di consumo tradizionalmente legati alla persona e alla casa, tributari di innovazioni tecnologiche generate altrove sotto forma di nuovi materiali e mac­ chinari. Il secondo settore ha per oggetto le attrezzature meccaniche e la componentistica specialistica, particolarmente legata alla produzione di beni di consumo tradizionali. Corri­ spondentemente, l' Italia mostra una sostanziale debolezza nei settori ad alta intensità di "ricerca" e "sviluppo", generatori di nuova tecnologia, e nei settori a forti economie di scala orientati a produzione di beni di consumo e intermedi4•

In questo quadro deve essere.. sottolineata la perdita progressiva di ruolo della grande impresa privata e pubblica. E stato affermato che la storia economica d' Italia deve essere giudicata come una storia di successo d' industrializzazione guidata dall'alto. Così è stato, nei decenni successivi all' Unità quando si sviluppò una rilevante indu­ stria siderurgica. Così è stato nel periodo giolittiano, quando, oltre a salvare quanto si doveva salvare o nazionalizzare alcuni dei settori sviluppatisi nei decenni prece­ denti, si cercò di rafforzare le strutture portanti della nostra economia, finanziarie e reali, prendendo nel medesimo tempo coscienza della centralità degli squilibri terri­ toriali nel nostro paese. Il riferimento essenziale è comunque costituito « da quel 2. Cfr. Banca d' Italia, Relazione Annuale, cit., p. 131, http:/ /www.bancaditalia.it/pubblicazioni/ relann/ reh1/ rel1 1 it/ economia_italiana/ reh 1_1 2_bilpag_posizione_estero.pdf. 3· M. Roccas, Le esportazioni nell'economia italiana, in P. Ciocca, G. Toniolo (a cura di ) , Storia economica d'Italia, 3· Industrie, mercati, istituzioni, Banca Intesa-Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 37-136. 4· F. Onida, Se il piccolo non cresce, il Mulino, Bologna 2004, p. 17.

u8

L E I N T E R P R E TA Z I O N I D E L D E C L I N O E C O N O M I C O I TA L I A N O

complesso militare-industriale che, fra proprietà pubblica e privata, durerà fino alla doppia crisi del petrolio e alle successive privatizzazioni di cent'anni dopo » 5• Esisteva allora, come esiste ancora oggi, un' importante componente costituita da piccole imprese, ma erano le grandi imprese che determinavano le linee fondamentali dello sviluppo dell'economia italiana. Questo ruolo è stato ulteriormente rafforzato dall'applicazione del modello for­ dista alla produzione di beni di consumo durevoli e dalla politica autarchica (di fatto favorevole alle imprese dominanti nei settori chiave). La stessa creazione dell' I RI, con il trasferimento nelle intenzioni solo temporaneo delle grandi banche e di alcune grandi imprese allo Stato, è un'ulteriore esplicitazione del ruolo centrale attribuito alle strutture economiche pubbliche, per buone e cattive ragioni. Gli storici si sono a lungo soffermati sul ruolo che grandi imprese e grandi imprenditori (oltre che grandi funzionari pubblici) hanno avuto nei primi decenni del xx secolo. E stata anche ampiamente sottolineata la continuità che si può riscontrare nel cosiddetto "boom economico" successivo alla Seconda guerra mondiale, quando si manifestò una feconda divisione di compiti fra imprese private (alcune delle quali fortemente innovative) e grandi imprese pubbliche, cui furono demandati essenziali compiti nel processo di modernizzazione del paese e nell'avvicinamento ai . . . piu avanzati paesi europei. Il meccanismo virtuoso che sembra aver guidato l'economia italiana a partire dagli anni Cinquanta, in un contesto di progressiva liberalizzazione degli scambi, pare essersi inceppato nel corso degli anni Settanta. Il deterioramento della qualità degli interventi delle imprese pubbliche, il fallimento di alcune iniziative in settori cruciali, l'incapacità generalizzata manifestatasi nelle vicende della chimica, l'inetti­ tudine imprenditoriale privata nella gestione degli indennizzi elettrici mi sembra siano i fattori ripetutamente sottolineati dagli storici. Al riguardo è stato affermato : «Il degrado dell' impresa pubblica, il ridimensio­ namento di alcune grandi realtà industriali, la diminuzione del numero stesso delle grandi imprese non potevano non portare a una restrizione complessiva della qualità del sistema manifatturiero. Il quale non doveva più riacquistare lo smalto perduto fra la ricostruzione e gli anni Settanta » 6• Le privatizzazioni degli anni Novanta non sembrano, d'altro canto, aver contribuito alla vitalità del nostro sistema produttivo, avendo anzi portato alla denazionalizzazione di fatto di alcuni settori importanti neli' attuale divisione internazionale del lavoro. A ciò si aggiunga che le politiche di svalutazione degli anni Settanta (reiterate nel 1992 e nel 1995) non potevano che orientare il sistema produttivo verso settori '

'

.

S · M. De Cecco, L'Italia grande potenza: la realta del mito, in P. Ciocca, G. Toniolo (a cura di), Storia economica d'Italia, 3· Industrie, mercati, istituzioni, 2. I vincoli e le opportunita, Banca Intesa­ Laterza, Roma-Bari 2004, p. 20. 6. G. Berta, La qualita dell 'impresa, ivi, p. 485. 119

R O B E RT O A RT O N I

in cui la competizione fra imprese si fonda sul livello dei prezzi o che sono caratte­ rizzati da estrema flessibilità organizzativa e produttiva, con le conseguenze prima evidenziate. Tutto ciò, se ha certamente consentito all'economia italiana di galleggiare sia pure parzialmente e con il concorso di altri fattori, spiega perché il tasso di crescita dell'economia italiana si sia discostato da quello medio dei paesi avanzati. La prima possibile causa, o concausa, del rallentamento del nostro processo di crescita, assoluto e relativo, potrebbe quindi essere la trasformazione del nostro appa­ rato produttivo, che si è mossa, al di là di alcuni successi settoriali certamente impor­ tanti, non in linea con le componenti più dinamiche dell 'economia mondiale. Sotto questo aspetto ci siamo allontanati dal percorso seguito nei periodi di maggiore dinamismo della nostra storia economica.

3

La distribuzione funzionale e personale del reddito

Andamento macroeconomico, funzionamento del mercato del lavoro nelle sue spe­ cificità istituzionali e modalità dell 'intervento pubblico attraverso le entrate e le spese pubbliche contribuiscono a determinare la distribuzione funzionale e personale del reddito. Per quanto riguarda la distribuzione funzionale, è stato affermato che nel 1988 i profitti avevano raggiunto il loro massimo storico7, a probabile dimostrazione dell'ir­ rilevanza - o della perversità, per quanto riguarda la quota del reddito lavoro sul valore aggiunto al costo dei fattori - dell'inflazione degli anni Ottanta: si può infatti riscon­ trare l'andamento sistematicamente decrescente a partire dal 1980 della quota del lavoro. Negli anni successivi la tendenza alla diminuzione sembra essere stata confer­ mata: la quota del reddito da lavoro - ottenuta moltiplicando la quota del reddito da lavoro dipendente sul valore aggiunto al costo dei fattori per il rapporto fra occupa­ zione totale e occupazione dipendente - è passata per il totale dell'economia dal 69% del 1989 al 6s% del 1998, mantenendosi a questi livelli per tutti gli anni successivi fino al 2007. Solo negli ultimi anni, caratterizzata da rilevanti cadute nei livelli di attività, la quota del lavoro è aumentata raggiungendo il 68% nel biennio 2010-11. Al di là della corretta interpretazione di questi dati, che riflettono, come già osservato, l'emersione del lavoro perseguita negli ultimi anni, si deve sottolineare la struttura del tutto anomala nei paragoni internazionali dell'occupazione nel nostro paese. La quota dei lavoratori autonomi è infatti pari a quasi il 25% dell'occupazione totale, quasi il doppio degli altri paesi. Le precedenti considerazioni devono essere integrate con alcune informazioni 7· S. Rossi, Aspetti della politica economica italiana dalla crisi del 1992-93 a quella del 2ooS-o9, in Id., La politica economica italiana I9 6S-2o07, Laterza, Roma-Bari 2.008, p. 6 s (2a ed.).

1 20

L E I N T E R P R E TA Z I O N I D E L D E C L I N O E C O N O M I C O I TA L I A N O

FIGURA I Indice di Gini e rapporto tra primo e ultimo decile di reddito in Italia ( p1op9o )

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4,5

0,35

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4,3



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0,31 3,9 0, 29

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0,27

3,5 3,3

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N o o r.1



o o N

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00

0,25

o o N

Gin i

Fonte: elaborazione su dati tratti da Banca d' Italia, Indagini sui bilancifamiliari.

riguardanti la distribuzione personale del reddito e della ricchezza. L' indice di Gin i è aumentato da 28,2 nel I99I a 33,7 nel 2004, denotando un forte aumento nella concentrazione della distribuzione del reddito. In Italia abbiamo poi assistito a un contenuto calo della disuguaglianza dal 2004 al 2008 (FIG. I ) , che sembra peraltro essersi arrestato nel 2009, quando il valore dell' indice è stato pari a 3 I,5 . Presumibil­ mente, la riduzione della disuguaglianza misurata con l'indice di Gini, più che da un miglioramento delle posizioni dei decili più bassi potrebbe essere derivata dagli effetti della crisi sui redditi più elevati, in particolare sui redditi di capitale. Si può quindi ragionevolmente sostenere che dal punto di vista distributivo la situazione non sia peggiorata nell'ultimo periodo, ma non sia comunque migliorata. In un confronto internazionale l' Italia ha un indice di Gini di 3 I,5 contro, ad esempio, il 29,I della Germania o il 24,1 della Svezia, e si colloca costantemente al di sopra della media EU IS. Si può inoltre ricordare che la ricchezza è distribuita in modo molto più diseguale del reddito : il Io% più ricco della popolazione detiene il 28% del reddito, ma il 42% della ricchezza totale8• Riprendendo una precedente analisi, si deve osservare che fra le cause della modesta crescita dell'economia italiana un ruolo di rilievo deve essere attribuito alla 8. OECD, Statistics Database, 200 8, in http :/ /stats.oecd.org.

1 21

L E I N T E R P R E TA Z I O N I D E L D E C L I N O E C O N O M I C O I TA L I A N O

FIGURA I Indice di Gini e rapporto tra primo e ultimo decile di reddito in Italia ( p1op9o )

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Gin i

Fonte: elaborazione su dati tratti da Banca d' Italia, Indagini sui bilancifamiliari.

riguardanti la distribuzione personale del reddito e della ricchezza. L' indice di Gin i è aumentato da 28,2 nel I99I a 33,7 nel 2004, denotando un forte aumento nella concentrazione della distribuzione del reddito. In Italia abbiamo poi assistito a un contenuto calo della disuguaglianza dal 2004 al 2008 (FIG. I ) , che sembra peraltro essersi arrestato nel 2009, quando il valore dell' indice è stato pari a 3 I,5 . Presumibil­ mente, la riduzione della disuguaglianza misurata con l'indice di Gini, più che da un miglioramento delle posizioni dei decili più bassi potrebbe essere derivata dagli effetti della crisi sui redditi più elevati, in particolare sui redditi di capitale. Si può quindi ragionevolmente sostenere che dal punto di vista distributivo la situazione non sia peggiorata nell'ultimo periodo, ma non sia comunque migliorata. In un confronto internazionale l' Italia ha un indice di Gini di 3 I,5 contro, ad esempio, il 29,I della Germania o il 24,1 della Svezia, e si colloca costantemente al di sopra della media EU IS. Si può inoltre ricordare che la ricchezza è distribuita in modo molto più diseguale del reddito : il Io% più ricco della popolazione detiene il 28% del reddito, ma il 42% della ricchezza totale8• Riprendendo una precedente analisi, si deve osservare che fra le cause della modesta crescita dell'economia italiana un ruolo di rilievo deve essere attribuito alla 8. OECD, Statistics Database, 200 8, in http :/ /stats.oecd.org.

1 21

LE INTER PRETAZI ONI D E L D E C LINO ECONO M I C O I TALIANO

FIGURA 2

Saldi del commercio con l'estero (% del PIL) e indice del prezzo in euro del petrolio (1998 s

700

4

6oo

3

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2

400

I

300

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2.00

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-2

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1998 1999 2.000 2.001 2002 2.0 03 2.004 2005 2.00 6 2.007 2.008 1009 2.010 2.0 1 1

Saldo F O B· F O B al netto dell 'energia (scala di sinistra)



Saldo F O B · F O B (scala di sinistra)

=

100)

Indice del prezzo del petrolio in euro (scala di destra)

Fonte: Banca d' Italia, Relazione Annuale, cic., p. 1 30, http:/ /www.bancaditalia.it/pubblicazioni/relann/relxi/ reh iit/economia_italiana/rehi_I2_hilpag_posizione_estero.pdf.

dell'economia nazionale. Nel periodo postbellico l'eccedenza delle importazioni sulle esportazioni è scesa dal so% nel quinquennio I9S I-SS, al 3 1 % nel 19 5s-6o, per ridursi al 14% nei decenni successivi. Rimesse degli emigrati e turismo hanno fortemente contribuito al mantenimento di un ragionevole equilibrio nei conti con l'estero. A partire dal 1998, quando è stato introdotto l'euro, il saldo commerciale al netto dell 'energia è stato sistematicamente attivo per un importo pari in media al 3% del PIL ( FIG. 2.. ) : le importazioni di prodotti energetici hanno compensato l'avanzo delle altre merci portando il saldo commerciale in sostanziale pareggio negli anni che vanno dal 2005 al 2.. 0 09; solo nel biennio 2010- I I, soprattutto per effetto del forte incremento del prezzo del petrolio in euro, la bilancia commerciale è stata negativa per 1 punto percentuale di PIL. In questi anni si è peraltro ridotto l'apporto positivo di altre voci delle partite correnti: le rimesse degli emigrati hanno cambiato di segno ; il saldo positivo del turismo si è fortemente contratto ; hanno assunto invece un peso particolarmente rilevante i redditi di capitali pagati all'estero, sia per l'aumento delle passività del nostro paese nei confronti di istituzioni finanziarie estere, sia per l'accumulazione di attività sull'estero da parte di residenti, nei limiti in cui queste sono effettivamente rilevate. Per l'effetto congiunto dei fattori richiamati, il saldo delle partite correnti è risultato sistematica­ mente negativo, collocandosi intorno al 3% del PIL nell'ultimo biennio (TAB. 3). Come già accennato, rimane aperto il problema della corretta valutazione della posizione patrimoniale dei residenti italiani nei confronti dell'estero, che potrebbe portare a scorrette interpretazioni dei nostri rapporti con il resto del mondo, sia sotto il profilo degli scambi di beni e servizi (soprattutto nelle fasi di tensioni speculative), 1 23

R O B E RT O A RT O N I

TABELLA 3 Bilancia dei pagamenti (miliardi di euro) 2007

2008

2009

2010

2. 0 1 1

- 1 9,9

- 4 4,9

-30,2

-54,7

- 5 1,5

3 ,2.

-2,1

0,8

20,9

-1 6,6

47,9

s 5 ,3

4 1,5

2.9,5

43,3

-44 ,6

- 57,5

-4 0,7

- 5 0, 4

-59,9

Servizi

-7,1

-8,6

-8, 4

-9,2

-7,0

Redditi

-1,2

-19, 4

-10, 4

- 8, 3

-1 2,0

Trasferimenti unilaterali

-1 4 ,8

-1 4 ,8

-12,2

-16, 3

-1 5 ,9

-8,4

-g,g

-7,0

-10,1

-10,4

1,8

- 0, 2

-0,1

-o,6

0,4

-o,s

-1,0

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-0,7

-0, 4

2.,3

0,9

0,5

0,2.

o,8

J,J

2,2

I, O

I,S

2,7

29,2

3 1,4

37,3

8 6,7

7 3 ,5

- 3 8,3

- 53 ,1

-0,9

-17,7

-1 3 ,1

all'estero

-7 0, 3

-45 ,7

-1 5 ,3

-2 4 ,7

- 34 ,0

in Italia

3 2.,0

-7, 4

1 4 ,5

6,9

20,9

Investimenti di portafoglio

s ,6

75 ,2

28,1

3 S ,s

- 34 , 4

azioni e fondi comuni

- 5 ,9

61,9

2,6

- 3 7,9

9,1

titoli di debito

I 1, 5

1 3 ,3

25 ,5

7 6, 4

-43 ,5

Derivati

-2,8

1,9

4 ,3

- 4 ,7

-7,s

Altri investimenti

66,2

1 3 ,0

5 ,7

7 1,8

11 4 , 4

S],O

-IS,s

-2,4

S,J

-7],2

Variazioni riserve ufficiali ( s )

- 1,5

- s ,6

0,1

-1,0

- 0, 9

Errori e om issioni

- 1 1,1

1 3 ,7

- ?, I

-3 1,5

-22,4

Voci Conto corrente

Merci Prodotti non energetici ( 3 ) Prodotti energetici ( 3 )

di cui: istituzioni dell'uE Conto capitale

Attività intangibili Trasferimenti unilaterali di cui: istituzioni dell'uE Conto finanziario

lnvestimen ti diretti

di cui: istituzionifinanziarie monetarie ( 4 )

Fonte: Banca d' Italia, Relazione Annuale, cit., p. 12.9, http :/ / .bancaditalia.it/pubblicazioni/relann/reh i/ reh 1 it/ economia_ italiana/ rel ii_I2._bUpag_posizione_estero.pdf.. www

1 24

R O B E RT O A RT O N I

TABELLA 3 Bilancia dei pagamenti (miliardi di euro) 2007

2008

2009

2010

2. 0 1 1

- 1 9,9

- 4 4,9

-30,2

-54,7

- 5 1,5

3 ,2.

-2,1

0,8

20,9

-1 6,6

47,9

s 5 ,3

4 1,5

2.9,5

43,3

-44 ,6

- 57,5

-4 0,7

- 5 0, 4

-59,9

Servizi

-7,1

-8,6

-8, 4

-9,2

-7,0

Redditi

-1,2

-19, 4

-10, 4

- 8, 3

-1 2,0

Trasferimenti unilaterali

-1 4 ,8

-1 4 ,8

-12,2

-16, 3

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-7,0

-10,1

-10,4

1,8

- 0, 2

-0,1

-o,6

0,4

-o,s

-1,0

-0,6

-0,7

-0, 4

2.,3

0,9

0,5

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o,8

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2,7

29,2

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8 6,7

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- 3 8,3

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-17,7

-1 3 ,1

all'estero

-7 0, 3

-45 ,7

-1 5 ,3

-2 4 ,7

- 34 ,0

in Italia

3 2.,0

-7, 4

1 4 ,5

6,9

20,9

Investimenti di portafoglio

s ,6

75 ,2

28,1

3 S ,s

- 34 , 4

azioni e fondi comuni

- 5 ,9

61,9

2,6

- 3 7,9

9,1

titoli di debito

I 1, 5

1 3 ,3

25 ,5

7 6, 4

-43 ,5

Derivati

-2,8

1,9

4 ,3

- 4 ,7

-7,s

Altri investimenti

66,2

1 3 ,0

5 ,7

7 1,8

11 4 , 4

S],O

-IS,s

-2,4

S,J

-7],2

Variazioni riserve ufficiali ( s )

- 1,5

- s ,6

0,1

-1,0

- 0, 9

Errori e om issioni

- 1 1,1

1 3 ,7

- ?, I

-3 1,5

-22,4

Voci Conto corrente

Merci Prodotti non energetici ( 3 ) Prodotti energetici ( 3 )

di cui: istituzioni dell'uE Conto capitale

Attività intangibili Trasferimenti unilaterali di cui: istituzioni dell'uE Conto finanziario

lnvestimen ti diretti

di cui: istituzionifinanziarie monetarie ( 4 )

Fonte: Banca d' Italia, Relazione Annuale, cit., p. 12.9, http :/ / .bancaditalia.it/pubblicazioni/relann/reh i/ reh 1 it/ economia_ italiana/ rel ii_I2._bUpag_posizione_estero.pdf.. www

1 24

R O B E RT O A RT O N I

TABELLA 4 Indicatori di fìnanza pubblica

Anno

Entrate

Spese

Spese al netto degli interessi

1 97 0

2 9,1

3 2.,3

31

1, 3

-1,9

37, 1

5,3

2,7

197 5

2.8,8

39 ,1

3 6, 3

2,9

-7, 4

56,6

-2,1

-7

1980

3 3,8

40,8

3 6, 4

4,4

- 2 ,5

56,1

3,4

- 5,8

19 85

37,5

4 9,8

4 1, 4

8, 4

-4

8o,5

2,8

4 ,5

1990

41,4

5 2,9

4 2,8

10,1

- 1,4

94,7

2,1

s

1995

45

52.,5

4 0,9

1 1,6

4 ,1

1 21,6

2,8

7

2000

4 6,2

4 5, 1

4 1,9

3,2

4 ,3

60,2

3,2

3 ,9

2005

43 , 4

47,9

43 ,2

4 ,7

0,2

105, 4

0,7

1, 3

2006

45

4 8,5

43 ,8

4 ,6

1,2

106,1

2

1,8

200 7

46

47,6

4 2,7

4 ,9

3 ,4

10 3 ,1

1,5

2, 4

2008

4 5,9

4 8,6

43 ,5

5,1

2,5

105,8

-1,3

1,2

2009

4 6, 3

51,6

47,1

4 ,5

-o,8

115,5

-5,5

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2010

45,8

50,3

4 5,9

4,4

- O, I

1 1 8,4

1,8

2,4

2011

4 6,1

49 ,9

4 5,3

4 ,6

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1 20,1

0, 4

2, 4

2012

4 8, 3

SI

4 5,6

5, 4

2,6

1 26, 3

-1,9

4 ,1

Interessi

Saldo . . pnmano

Debito

Tasso Tasso di crescita di in teresse reale reale sul debito

Fonte: elaborazioni su dati tratti da appendice statistica in P. Mauro et al , A Modern History ofFiscal Prudence and Projligacy, IMF Working Paper No. 13/5, lnternational Monetary Fund, Washington (o c) 2013.

mento dell'economia, in cui peraltro la situazione della finanza pubblica era ancora relativamente equilibrata. A una spesa pubblica pari al 32,3% del PIL corrispondevano entrate inferiori di circa 3 punti ( l'indebitamento era di fatto pari alla spesa in conto capitale ) ; il debito pubblico non raggiungeva il 40% del PIL. Anche se non ci sof­ fermiamo su questo punto, è opportuno richiamare le differenze rilevanti che esiste­ vano in quell'anno fra la nostra finanza pubblica e quella di Francia e Germania: la pressione fiscale era inferiore di circa 10 punti con una spesa pubblica minore di circa 6 punti, divario concentrato essenzialmente nella spesa sociale (TAB. 4) . Dopo dieci anni la situazione era sostanzialmente diversa e profondamente squi­ librata: la spesa pubblica, rispetto al 1970, era aumentata di circa 8 punti contro un aumento di entrate di meno di s punti. Si noti che lo squilibrio si concentrò nei 1 26

LE INTER PRETAZIONI D E L D E C LINO ECONOMICO I TALIANO

primi anni Settanta quando all'aumento della spesa riconducibile alle riforme "wel­ faristiche, introdotte in quegli anni non corrispose r attivazione di un sistema tribu­ tario capace di garantire un gettito adeguato. Entrammo quindi negli anni Ottanta con una spesa primaria pari al 36,4% del PIL, con oneri finanziari pari al 4,4% e un indebitamento annuale di 7 punti; il debito pubblico era pari al 56% del PIL. La tendenza all'incremento della spesa primaria continuò fino al 1985, con un incremento di 5 punti, compensato per circa 4 punti dall 'incremento delle entrate. Ma in quegli anni, caratterizzati da un'inflazione ancora molto sostenuta e dall' ina­ sprimento delle politiche monetarie imposto dagli Stati Uniti, le spese per interessi aumentarono fortemente, 4 punti in un quinquennio, portando l' indebitamento annuale a oltre 12 punti e lo stock di debito pubblico all' 8 o,5% (tutto ciò, come abbiamo già osservato, nonostante il buon andamento dell'economia reale). Nel decennio 1985-9 5, caratterizzato dalla crisi valutaria del 1992, si arrestò la crescita della spesa primaria, diminuita negli anni finali di questo periodo, ma già sostanzialmente stabilizzata dal 1990; si ebbe un rilevante incremento della pressione tributaria, distribuito lungo tutto il decennio ; ma gli oneri per interessi continuarono a crescere fino ad avvicinarsi al 12% del PIL nel 1995. Sebbene fin dal 1991 fosse stato raggiunto un avanzo primario, lo stock di debito pubblico aumentò in misura dram­ matica dall' 80,5 % del 1985 al 121,6% del 1995. In questa nostra sintetica descrizione, possiamo delineare a questo punto i caratteri degli anni che vanno dalla crisi valutaria nel 1995 al 2007, anno di avvio della grande recessione ancora in corso. Pur in un contesto di modesta crescita reale, la pressione fiscale è rimasta sostanzialmente invariata (dal 45% del 1995 al 46% del 2007 ), la spesa primaria è aumentata di quasi 2 punti (ma collocandosi agli stessi livelli del 1990 ), gli oneri per interessi sono caduti di oltre 6 punti per effetto della caduta dell' inflazione interna e per r impostazione più permissiva a livello mondiale delle politiche monetarie. L' indebitamento annuale è stato sempre al di sotto del livello consentito dal Trattato di Maastricht (nel 2007 l'indebitamento annuale era pari all' 1,6%). In questi anni lo stock di debito pubblico è sceso di circa 20 punti rispetto ai massimi del 1995. Nell'ultimo quinquennio gli effetti della recessione sono stati devastanti. La crescita reale è stata negativa in tre anni (e solo moderatamente positiva in altri due). La caduta dei livelli di attività ha determinato un aumento del disavanzo annuale, in Italia come in altri paesi, di circa 3 punti ( FIG. 3). Le manovre restrittive del 20 12, anche se hanno consentito la diminuzione dell' indebitamento di I solo punto, hanno contribuito in buona misura all'appesantimento dell'economia reale ; il debito pub­ blico, anche per l'aumento dei tassi d'interesse indotto dalle turbolenze dei mercati finanziari, ha ripreso a salire, superando i livelli dei primi anni Novanta. Richiamate le modalità con cui si è evoluta la finanza pubblica del nostro paese nell 'ultimo trentennio, ci dobbiamo chiedere se nella struttura che si è venuta con­ figurando possiamo individuare elementi che ci permettono di spiegare, sotto questo aspetto e sia pure parzialmente, le cause del declino relativo del nostro paese. Ovvia1 27

R O B E RT O A RT O N I

FIGURA 3 Saldi di bilancio (o/o PIL; 2007, 2010 e 2011) 1 2.

IO

8 6 4 2. o -0,2. -2.

-4

c:

(U

·-



·-

-;

-6

o

w ·-

w

......

c: (U

E .... Q)

c.,



·-

('lj

u

·-

N Q) > V)

c: (U \..i



:J o

s.o Q)



·w ·-



·w

(U

w

V)

Fonte: dati E U R O S TAT ( O E C D per gli Stati Uniti), http:/ /epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/ government_fìnance_statistics/ data/ database.

mente, un tentativo d'interpretazione richiede che ci si confronti con quanto è avvenuto nei paesi a noi più vicini per caratteristiche economiche e sociali. Il primo termine di confronto è costituito dalla spesa pubblica complessiva nei principali paesi europei e negli Stati Uniti (FIG. 4) . Al di là di differenze specifiche, possiamo osservare una tendenziale uniformità nei diversi paesi: le differenze si spiegano da un lato per la maggiore dimensione della spesa sociale nei pesi nordici e in Francia e per la presenza nei paesi anglosassoni di componenti private della spesa sociale che non rientrano nel perimetro della pubblica amministrazione. Si deve anche aggiungere che in Germania le spese per le pensioni sono in buona misura contabilizzate al netto delle imposte dirette a esse afferenti, cosa che non si verifica nel nostro paese. Le caratteristiche di fondo delle strutture di finanza pubblica sono confermate dai livelli della spesa al netto degli interessi ( in Italia superiore di 2 punti a quella dei maggiori paesi europei). La struttura del gettito tributario, considerata nelle sue componenti, indica per il nostro paese un peso delle imposte dirette relativamente elevato ( TAB . s ) . Sempre in questo contesto può essere ricordato che il cuneo fiscale ( per lavoratori singoli con reddito pari al salario medio ) era il 3 1 % in Italia, il 28 in Francia e il 40 in Germania, con salari espressi in dollari e corretti per le parità di potere di acquisto che andavano dai 36.ooo dell' Italia, ai 4 1.0 00 della Francia e ai ss.ooo della Germanta. Un termine di paragone molto importante è infine costituito dalla spesa sociale, •

1 28

LE INTERPRETAZIONI D E L D E C LINO ECONOMICO I TALIANO FIGURA 4 Spesa complessiva (% PIL; 200 7 -10) 6o

s 6,2 51

so

4 0,8

40 30 2.0 IO

o -+----Germania

Italia

Francia

Svezia

Regno

Stati

Unito

Uniti

Fonte: OECD, OECD Factbook 20II-20I2: Economie, Environmental and Social Statistics, OECD Publishing, Paris 201 2., http:/ /www.oecd-ilibrary.org/ economics/oecd-factbook-20 11-2.0 12_factbook-2.o 11-en. TABELLA S Pressione fiscale (% PIL; 2011 ) Totale

Imposte sul reddito e profitti

Imposte su beni e servizi

Contributi sociali

Altro

Italia

4 0,8

1 3 ,8

I 1, 3

1 2,7

3 ,0

Germania

37,1

1 1,0

10,8

1 4 ,3

1,0

Francia

43 ,6

10,1

II ,O

1 6,7

s,s

Svezia

44 , 5

1 5 ,7

1 2,9

10,1

s,s

Regno Unito

3 s,s

1 2,9

11,6

6,7

4 ,3

Fonte: OECD, Revenue Statistics IJ)OJ-20I2, OECD Publishing, Paris 2012, http :/ /www.oecd.orglnewsroom/taxrevenues-co ntinue-co-rise-across-the-oecd.h cm.

nella quale rientrano le erogazioni dirette delle pubbliche amministrazioni e le componenti private di fatto associate sia a oneri per le imprese sia a rilevanti age­ volazioni fiscali, tipicamente non evidenziate nei conti pubblici. Qui si può osser­ vare che il livello della spesa sociale in Italia, per il 2009, è sensibilmente inferiore a quello degli altri paesi, correggendo i dati pro capite per le parità di poteri di acquisto (FIG. s). 1 29

R O B E RT O A RT O N I

FIGURA S Spesa sociale lorda in PPP pro capite (2010) 10.000

8.891

8.893

Francia

Germania

9.000

9·2.39

7·676

8.000 7.000 6.000 s.ooo 4 .000 3.000 2..000 1.000 o Italia

Regno

Sve zia

Un ito

Nota: nei dati italiani è incluso il TFR (circa l' 1,7% del PIL ) . Fonte: http:/ l epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portai/ government_flnance_statistics/data/ database. TABELLA 6 La composizione della spesa sociale (% PIL; 200 9) Italia

Regno Unito

Francia

Germania

Svezia

Vecchiaia

I4,4 (I21J)

12,0

1 2., 4

10,0

1 2,7

Superstiti

2,6

0,2

2,0

2,2

0,6

Invalidità

1,7

3 ,0

1,9

2., 4

4 ,5

I8, 7 {I6, o)

IJ12

I 6,J

I410

IJ,8

o,s

0,7

2,2

2,1

1,8

Totale

If)12 (I 6,s)

IJ,f)

I8,5

I 6,7

If),O

Casa

0,1

1, 4

0,8

o,6

o,s

Totale

If),J (I 6,6)

IJ,J

If),J

IJ,J

201I

Totale

Disoccupazione

Nota: in parentesi è indicato il dato al netto del TFR. Fonte: Ministero dell' Economia e delle Finanze, Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitan·o. 2011, rappo rto n. 12, 15 giugno 201 1, http:/ /www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/ Attivit--i/Spesa-soci/Attivita_di_previsione_RGS/20 1 I/Le-tendenze-di-medio-lungo-periodo-del-sistemapensionistico-e-socio-sanitario-Rapporto_n. 1 2.pdf.

LE INTER PRETAZIONI D E L D E C LINO ECONOMICO I TALIANO TABELLA 7 Saldi finanziari dei maggiori paesi (% PIL; 2011 ) Germania Regno Unito Stati Uniti

Italia

Francia

Debito pubblico lordo

1 26

90

83

89

107

Debito pubblico netto

10 3

84

s8

84

84

Saldo primario

2,6

-2,2

1, 4

- s. 6

-6, s

Debito lordo famiglie

SI

67

64

99

86

Debito pubblico detenuto all'estero

46

s8

55 1

28

32

Fonte: Imernational Monetary Fund , Global Financial Stability Report, October 2012, p. 34·

Ulteriore attenzione merita la composizione della spesa per le grandi categorie fun­ zionali. Se si depura il dato della funzione vecchiaia del TFR (che non ha in quanto tale funzione previdenziale ma è salario differito ) e pur non tenendo conto della maggiore incidenza dell' imposizione diretta nelle nostre erogazioni pensionistiche, la nostra spesa è allineata a quella degli altri paesi. Di fatto, a ulteriore rafforzamento della precedente osservazione, le nostre statistiche, poi riprese dalle organizzazioni internazionali, inseriscono nella funzione "vecchiaia" spese - quali in particolare le pensioni di anzianità o le integrazioni al minimo - che in altri paesi sono diversa­ mente classificate - come disoccupazione in Germania o invalidità in Svezia o sostegno alle spese per l'abitazione nel Regno Unito ( TAB. 6). L'elemento che caratterizza, in senso negativo, il nostro paese è tuttavia costituito dal livello del debito pubblico in termini di PIL; su questo indice sembra soffermarsi l'attenzione delle istituzioni internazionali e degli operatori finanziari. I termini del problema sono sintetizzati nella TAB . 7, sulla base di dati elaborati dal FMI. Il debito lordo dell' Italia in termini di PIL nel 20 12 era pari al 126%, contro il 107% degli Stati Uniti, il 90% della Francia e l ' 83% della Germania. Se corretto per le attività finan­ ziarie detenute dalle pubbliche amministrazioni, il debito italiano scende al 103%; si deve comunque tenere presente che il debito italiano, ossia la grandezza che esprime la pressione sui mercati finanziari, è, in termini assoluti, molto vicino a quello tedesco e a quello francese (TAB. 7). Nella valutazione delle problematiche di lungo periodo del debito o della sua sostenibilità altri indicatori debbono essere presi in considerazione : l' Italia è l'unico paese, insieme alla Germania, con un saldo primario positivo ; l ' indebitamento lordo delle famiglie italiane è relativamente contenuto, di nuovo in una posizione simile a quella della Germania; il debito pubblico detenuto è pari, secondo i dati del FMI, al 46% del PIL, un valore analogo a quello degli altri paesi. Sulla base dei dati qui presentati, due interrogativi emergono : quando si è formata 131

LE INTER PRETAZIONI D E L D E C LINO ECONOMICO I TALIANO TABELLA 7 Saldi finanziari dei maggiori paesi (% PIL; 2011 ) Germania Regno Unito Stati Uniti

Italia

Francia

Debito pubblico lordo

1 26

90

83

89

107

Debito pubblico netto

10 3

84

s8

84

84

Saldo primario

2,6

-2,2

1, 4

- s. 6

-6, s

Debito lordo famiglie

SI

67

64

99

86

Debito pubblico detenuto all'estero

46

s8

55 1

28

32

Fonte: Imernational Monetary Fund , Global Financial Stability Report, October 2012, p. 34·

Ulteriore attenzione merita la composizione della spesa per le grandi categorie fun­ zionali. Se si depura il dato della funzione vecchiaia del TFR (che non ha in quanto tale funzione previdenziale ma è salario differito ) e pur non tenendo conto della maggiore incidenza dell' imposizione diretta nelle nostre erogazioni pensionistiche, la nostra spesa è allineata a quella degli altri paesi. Di fatto, a ulteriore rafforzamento della precedente osservazione, le nostre statistiche, poi riprese dalle organizzazioni internazionali, inseriscono nella funzione "vecchiaia" spese - quali in particolare le pensioni di anzianità o le integrazioni al minimo - che in altri paesi sono diversa­ mente classificate - come disoccupazione in Germania o invalidità in Svezia o sostegno alle spese per l'abitazione nel Regno Unito ( TAB. 6). L'elemento che caratterizza, in senso negativo, il nostro paese è tuttavia costituito dal livello del debito pubblico in termini di PIL; su questo indice sembra soffermarsi l'attenzione delle istituzioni internazionali e degli operatori finanziari. I termini del problema sono sintetizzati nella TAB . 7, sulla base di dati elaborati dal FMI. Il debito lordo dell' Italia in termini di PIL nel 20 12 era pari al 126%, contro il 107% degli Stati Uniti, il 90% della Francia e l ' 83% della Germania. Se corretto per le attività finan­ ziarie detenute dalle pubbliche amministrazioni, il debito italiano scende al 103%; si deve comunque tenere presente che il debito italiano, ossia la grandezza che esprime la pressione sui mercati finanziari, è, in termini assoluti, molto vicino a quello tedesco e a quello francese (TAB. 7). Nella valutazione delle problematiche di lungo periodo del debito o della sua sostenibilità altri indicatori debbono essere presi in considerazione : l' Italia è l'unico paese, insieme alla Germania, con un saldo primario positivo ; l ' indebitamento lordo delle famiglie italiane è relativamente contenuto, di nuovo in una posizione simile a quella della Germania; il debito pubblico detenuto è pari, secondo i dati del FMI, al 46% del PIL, un valore analogo a quello degli altri paesi. Sulla base dei dati qui presentati, due interrogativi emergono : quando si è formata 131

LE INTER PRETAZIONI D E L D E C LINO ECONOMICO I TALIANO

,

politica economica che ha guidato la crescita dell economia italiana fino al raggiun­ gimento di un livello di reddito paragonabile a quello dei maggiori paesi europei, sia pure fra notevoli incertezze applicative e in un quadro politico più volte caratterizzato da eventi sconvolgenti. Il modello, per cause sia esterne ( il crollo del sistema di Bretton Woods ) sia , interne ( ! indebolimento degli equilibri sociali sul fronte delle lotte sindacali, su quello degli equilibri finanziari esterni e per r impoverimento della capacità propul­ siva delle grandi imprese ) , si è deteriorato a partire dai primi anni Settanta aprendo una fase di grande incertezza politica e sociale e spesso di errori di politica economica: le ripetute svalutazio ni e la forte inflazione, in un quadro peraltro di buona crescita e di mantenimento degli equilibri distributivi, sono gli elementi che definiscono questa fase della nostra storia economica, fase in cui manca comunque un riferimento concettuale sufficientemente definito. La ridefinizione di un quadro concettuale strutturato riemerge, a nostro giudizio, , dopo la crisi finanziaria del 1992 e la successiva adozione dell euro. Per la prima volta, , , almeno nella storia dell Italia unita, si affermano principi d ispirazione fortemente liberistica. Riprendendo i temi cardine del cosiddetto Washington Consensus, a partire , , da quell anno le scelte politiche si segnalano per un estesa politica di privatizzazione, per la spinta alla liberalizzazione o alla precarizzazione dei rapporti di lavoro, per il , perseguimento dell equilibrio del bilancio pubblico - al di fuori di ogni più generale valutazione degli effetti delle politiche restrittive -, per r accettazione del principio della piena libertà di movimento dei capitali. I risultati, al di là degli effetti di breve periodo, se giudicati dagli indicatori macroeconomici cui abbiamo fatto riferimento, non sembrano essere stati partico­ larmente positivi. Si può sempre affermare, di fronte a queste evidenze, che le poli­ tiche adottate non siano state sufficientemente liberiste, e che risultati positivi nel lungo periodo potranno essere ottenuti solo con ulteriori dosi di liberismo ; in alter­ nativa, si potrebbe ritenere che i principi liberistici in quanto tali non siano corretti o piuttosto non siano applicabili a tutte le realtà, senza le necessarie mediazioni e interpretazioni, come insegna l'esperienza di molti paesi caratterizzati in questi anni , da profondi fenomeni d instabilità e di crescenti disuguaglianze. Si potrebbe in alternativa sostenere che i danni delle impostazioni liberistiche, quali sono emersi nella crisi in corso, siano stati circoscritti là dove si è voluto o potuto attenuare gli insufficienti meccanismi di autoregolamentazione dei mercati.

7

Conclusioni

Nella nostra analisi non abbiamo individuato una specifica causa del declino relativo , dell economia italiana negli ultimi tre decenni. Abbiamo invece evidenziato un certo 1 33

R O B E RT O A RT O N I

numero di concause che nel loro interagire hanno portato a un esito deludente in termini di sviluppo. Riprendendo i temi essenziali, il nostro apparato produttivo sembra essersi inde­ bolito sul piano strutturale, se facciamo riferimento alla limitata presenza di imprese importanti nei settori che determinano la vitalità di un sistema economico. Anche se gli effetti di questa ricomposizione sono stati attenuati dal rilievo assunto in altri settori, è certo che dal punto di vista dell 'accumulazione e dell 'utilizzo del capitale umano le conseguenze cominciano a manifestarsi in maniera evidente. Si aggiunga che la stessa politica di privatizzazione non ha portato alla sostituzione della classe imprenditoriale pubblica con imprenditori privati innovatori, ma piuttosto al depau­ peramento dell'economia italiana nel suo complesso. Il secondo elemento emerso riguarda la tendenza alla concentrazione nella distri­ buzione del reddito che, al di là di oscillazioni o di rallentamenti in certi anni, sembra essere stata una caratteristica di tutto il periodo. In questa evoluzione hanno giocato fattori istituzionali. In particolare, i nuovi assetti delle relazioni industriali, a partire dal 19 92, hanno oggettivamente portato a un indebolimento del potere contrattuale delle rappresentanze dei lavoratori con effetti rilevanti sulla distribuzione primaria del reddito e sulle stesse modalità d'impiego della forza lavoro : oggi, come abbiamo osservato, per l'abnorme presenza di lavoratori autonomi, la composizione della forza lavoro nel nostro paese è del tutto peculiare. Nello stesso senso ha giocato un sistema tributario che, uniformandosi alle tendenze riscontrabili in tutti i pesi sviluppati, ha di fatto concentrato il prelievo sui fattori immobili, tipicamente il lavoro, e ha invece protetto, in un contesto mondiale caratterizzato dalla libertà di movimento dei capi­ tali, i redditi di capitale. Al di là di ogni considerazione di tipo equitativo, gli effetti sulla dinamica della domanda aggregata non possono che comportare un rallenta­ mento dei processi di crescita. Il terzo fattore importante nella nostra ricostruzione riguarda i vincoli che la libertà di movimento dei capitali, sia ufficiale, sia clandestina, ha imposto alle scelte di politica economica del nostro paese. Non sappiamo se l'esportazione di capitali nelle dimensioni assunte in Italia trovi riscontro in altri paesi; sulla base delle nostre conoscenze non sembra che abbia prodotto gli stessi esiti. Al di là dei dati riguardanti la consistenza stimata delle attività sull'estero dei residenti italiani, deve essere infatti sottolineato che gli interventi restrittivi del 1992, quando ormai l'economia italiana sembrava essere indirizzata verso un sentiero di stabilizzazione, furono originati da fattori speculativi. Le stesse difficoltà di ordine finanziario dell'ultimo triennio non sembrano trovare giustificazione né nel livello del disavanzo pubblico del periodo precedente il 2008, né nei saldi dei conti con l'estero. La stessa accumulazione di debito pubblico nella forma esasperata che ha caratterizzato la fine degli anni Ottanta sembra essere stato il frutto di una politica monetaria tendente ad attrarre capitali a breve dall'estero con alti tassi, a compensazione in buona misura di uscite di capitali privati. E ovvio osservare che manovre restrittive di politica fiscale - quando la '

1 34

LE INTER PRETAZIONI D E L D E C LINO ECONOMICO I TAL IANO

dinamica dei consumi interni è fortemente vincolata dalla distribuzione del reddito nazionale o le esportazioni non possono essere sostenute, se non marginalmente, dalla crescita dell'economia mondiale - non può che produrre forti contrazioni nei livelli di attività e di occupazione. Questi effetti minacciano di essere ulteriormente esaspe­ rati nei paesi in cui le politiche economiche nazionali sono condizionate da scelte che sembrano trovare un antecedente solo nelle politiche dell'amministrazione Hoover nella crisi degli anni Trenta, come è accaduto in Europa negli ultimi anni. Nella nostra analisi non sembrano peraltro emergere anomalie evidenti nei grandi aggregati che caratterizzano le entrate e le spese pubbliche. Abbiamo certamente oneri per interessi più elevati degli altri paesi per il più alto livello relativo del nostro debito pubblico, differenza destinata a crescere in futuro, temiamo, per gli effetti asimmetrici che la crisi del debito sovrano ha prodotto all'interno dell' Unione Europea: al riguardo si deve sottolineare che la storia insegna, anche quella italiana, che il rientro da un abnorme livello di debito pubblico può avvenire solo in un contesto di crescita e di condizioni finanziare non destabilizzate. La ricerca del rie­ quilibrio con interventi esclusivamente indirizzati a entrate e spese pubbliche porta a effetti sistematicamente perversi. Se i fatti rilevanti sono quelli indicati, possiamo tentare di sintetizzare le visioni di politica economica che oggi sembrano emergere nel tentativo di ricreare le con­ dizioni per la ripresa di un accettabile processo di crescita. Da un lato, si può rico­ noscere una posizione !iberista che sul piano interno richiede un approfondimento delle politiche implicite nel Washington Consensus: ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro, sperando di trovare con la compressione dei salari incrementi nella nostra presenza sui mercati mondiali; mantenimento degli equilibri di bilancio pubblico, prescindendo dalla situazione macroeconomica, associato a riduzioni simultanee di entrate e spese pubbliche (le manovre dovrebbero essere naturalmente indirizzate al welfa re state, ignorando gli effetti che ha lo spostamento di certe attività nel settore privato, sia sul piano distributivo sia su quello dell'efficienza); altre libe­ ralizzazioni e privatizzazioni, anche nei campi in cui l'esperienza dimostra che modelli concorrenziali non sembrano produrre risultati favorevoli pure in un con­ testo di regolamentazione e trascurando i pericoli della perdita di controllo nazionale di settori strategici dell'economia. Si aggiunge poi in questo quadro un'accettazione della costruzione europea quale si è venuta configurando in questi anni, in cui i problemi di coesione sociale sono di fatto ignorati e i meccanismi di regolazione dei rapporti interstatuali sono essenzialmente affidati al sistema finanziario privato e ai vincoli quantitativi imposti dalle scelte nazionali di politica fiscale. In opposizione all' impostazione !iberista, la visione alternativa recupera i cardini fondamentali di quella che è stata la buona politica economica della storia italiana, declinandola nel nuovo contesto europeo anche attraverso la costruzione di un'Eu­ ropa effettivamente federale. Si afferma l' importanza di un adeguato grado di coesione sociale, da realizzare individuando e potenziando gli istituti e le modalità di fornitura I3S

R O B E RT O A RT O N I

dei servizi fondamentali che sono meglio capaci di garantirla, evitando perverse forme di dumping sociale. Si ritiene essenziale che venga garantita la crescita diffusa dei sistemi produttivi evitando le manifestazioni di neomercantilismo che hanno caratterizzato la politica di alcuni paesi nel periodo 20IO-II. Deve essere riconosciuto che eccessive disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza sono alla lunga incom­ patibili con la crescita economica di lungo periodo. Deve essere accettato il fatto che i mercati finanziari, se non adeguatamente controllati, possono diventare fattori di instabilità e non meccanismi di corretta allocazione delle risorse, come deve essere recepito che i saldi del bilancio pubblico non dipendono solo da scelte discrezionali, ma sono essenzialmente il riflesso dell'andamento dell'economia. In questo quadro, che implica il passaggio dalla fase "hooverianà' delle politiche procicliche a quella "roose­ veltianà' del New Deal, le politiche economiche nazionali potrebbero riprendere vigore, anche se inserite in un contesto sovranazionale.

Molto rumore per nulla : la politica economica in Italia ( 1 9 8 0-20 1 2) * di Guido M. Rey

I

Premessa

Da oltre vent'anni è palese il rallentamento dell'economia italiana, meno percepito è il rischio che in futuro l'Italia possa scivolare nella stagnazione e nella rassegnazione. Le cause sono strutturali e profonde e non possono essere semplicisticamente associate all'andamento insoddisfacente della produttività del lavoro nell'industria manifatturiera, alla netta riduzione del tasso di accumulazione e al nanismo delle imprese italiane; questi, semmai, sono esiti del ristagno economico e sociale'. Il dibattito sulle politiche econo­ miche si è concentrato su tre argomenti: 1. l 'adesione al Sistema monetario europeo ( SME) e in seguito le conseguenze economiche e sociali dell'adesione all'Unione economica e monetaria (uEM) e quindi dell'euro; 2. la riduzione del ruolo e del peso del settore pub­ blico, ritenuto fonte di sprechi e di corruzione, e la nuova costituzione economica imposta dall'Atto unico europeo (1986) e dal Trattato di Maastricht (1992); 3 · il recupero di efficienza del sistema-Italia mediante le riforme, la concorrenza, in particolare nei servizi, l'innovazione, l'investimento nelle risorse umane e nelle infrastrutture ecc. All'inizio degli anni Ottanta si scontravano due tesi di politica economica. La prima puntava sullo sviluppo e sull'accumulazione per difendere l'occupazione e il salario reale. Per raggiungere questi obiettivi i suoi sostenitori erano disposti ad accet­ tare un modesto differenziale nei prezzi relativi rispetto ai nostri partner, ma non erano chiari gli strumenti e la loro operatività. La seconda tesi suggeriva, invece, la rapida uscita dalle difficoltà economiche mediante una drastica deflazione per piegare l' infla­ zione e ridurre il potere dei sindacati, azzerando il disavanzo pubblico e fermando l'aumento del debito pubblico3• I sostenitori della seconda tesi sottovalutavano l' inevi* Desidero ringraziare il dottor Sandro Clementi per la preziosa collaborazione e Renato Filosa per

i suggerimenti e le utilissime critiche a una precedente versione. 1. P. Ciocca, G. M. Rey, Per la crescita dell'economia italiana, in "Economia Italiana� 2004, 2, pp. 333-54. 2. F. Vicarelli, Occupazione e sviluppo: un binomio inscindibile, in Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari "Luigi Einaudi" (a cura di), Oltre la crisi. Le prospettive di sviluppo dell'economia italiana e il contributo del sistema finanziario, il Mulino, Bologna 1986, pp. 3-30. 3· F. Salsano, Andreatta: Ministro del Tesoro, il Mulino, Bologna 2009. 1 37

G U I D O M . REY

tabile immediato contraccolpo sulla crescita del prodotto interno lordo (PIL) e quindi sul riequilibrio dei conti pubblici e sulla dinamica dei salari reali, per non parlare dell'inevitabile conflitto sociale proprio quando stavano affievolendosi le contestazioni ma non ancora gli attentati che avevano attraversato tutto il decennio precedente. La scarsa lungimiranza nelle scelte politico-economiche e il prevalere dei conflitti interni indussero i governi ad accettare, con poche varianti, la decisione dei partner europei di imporre all' Italia una politica di stabilizzazione, seppure con tempi legger­ mente dilazionati. In pratica, agli obiettivi di crescita e di solidarietà sociale si sosti­ tuivano quelli che avrebbero dovuto essere i vincoli (stabilità dei prezzi, pareggio della bilancia dei pagamenti, pareggio del bilancio pubblico). Erano le politiche implicite nel Trattato di Maastricht e perciò dell' uEM, delle sue istituzioni monetarie e dell'euro. La globalizzazione dei mercati reali e finanziari esponeva le economie mature agli shock provocati dalla concorrenza dei paesi emergenti e/o dall 'aggressività della specu­ lazione nelle Borse valori e merci, favorita dall'assenza di controllo sui mercati finanziari internazionali. La recente crisi finanziaria che ha colpito, più o meno duramente, le economie di tutti i paesi ha creato una difficile situazione nell' uEM per l'asimmetria degli impatti al suo interno e per il difficile coordinamento fra la politica monetaria europea e le politiche fiscali nazionali4• Il problema non ha ancora trovato una soddi­ sfacente soluzione, specie per l' Italia, che ha l'obbligo di azzerare il disavanzo pubblico e ridurre il rapporto debito-PIL. Si pensava che l'economia italiana potesse uscire dalla crisi puntando sulle esportazioni e sulla ripresa mondiale, ma la ridotta competitività dell'offerta nazionale, specie dei settori tradizionali che subivano la pressione dei B RI C (Brasile, Russia, India e Cina) e dei paesi dell'Europa orientale, segnalava che l' Italia non poteva adagiarsi su questa prospettiva esogena. Era assente la politica dell'offerta5 (politica industriale, agricola, miglioramenti nell'uso dei fattori produttivi ecc.) per motivi ideologici ma soprattutto per carenze analitiche e per la confusione istituzionale (Commissione europea, governo nazionale, Regioni, enti locali ecc.6), e questa assenza ha ostacolato l'uscita dalla crisi nonostante l'avvio della ripresa nei mercati esteri.

2

Il dibattito di politica economica7

È opportuna una premessa di metodo : il sistema economico si sviluppa mediante un

processo che presuppone l'interdipendenza ma non necessariamente l'equilibrio ex 4· L. Cavallari, Integrazione monetaria e governo dell'economia, FrancoAngeli, Milano 2006. S· L. R. Klein, Macroeconomia, econometria e politica economica, il Mulino, Bologna 2007, cap. I I . 6. G. M. Rey, Politica economica e intervento pubblico a livello locale, in "Scienze Regionali", 2004, 3, pp. 63-84. 7· Per aiutare a seguire meglio l'evoluzione delle numerose e a volte contraddittorie azioni dei

governi dell'epoca, ho ritenuto opportuno inserire una breve e quindi non esaustiva sintesi di alcuni aspetti teorici rilevanti per la politica economica.

M O LTO RUM O RE PER NULLA : LA POLI T I CA ECONOMICA IN ITALIA

(1 9 8 0 - 2. 0 1 2. )

ante fra i diversi elementi che lo compongono, ma ciò non deve impedire di avere una visione generale del suo funzionamento e delle sue relazioni con il resto del mondo. E, quindi, necessario che anche le politiche miranti alla soluzione di equilibri parziali, incluse le riforme (ad es. mercato del lavoro, abitazioni, pensioni), siano inserite in uno schema che tenga conto e valorizzi queste relazioni per evitare effetti a volte opposti a quelli attesi8• Ugualmente inefficaci sono politiche basate sul fun­ zionamento, peraltro ignoto, della scatola nera che alcuni ritengono sia in grado di simulare il funzionamento del sistema economico, mentre può solo fornire previsioni condizionate di breve periodo. Un ulteriore richiamo alla teoria evidenzia i difficili ma essenziali rapporti fra analisi economica e politica economica, poiché la prima ha l'ambizione di giungere a una rappresentazione scientifica della teoria economica e a definire comportamenti generalizzabili (a volte pomposamente chiamate "leggi"), mentre la seconda ha l'am­ bizione di risolvere i problemi economici9• Nella sua azione, la politica economica opera come un artigiano che usa gli strumenti disponibili ed è condizionato dalle istituzioni, dai comportamenti dei soggetti economici e dagli effetti attesi degli interventi annunciati e/ o effettuati dai policy makerS10• Alla fine degli anni Settanta, tramontata la breve egemonia del paradigma keyne­ siano, si è assistito alla rivincita del monetarismo11 con varianti collegate al ruolo delle aspettative più o meno razionali come risposta alle difficoltà che i modelli econome­ triei mostravano nell' individuazione delle politiche per la crescita (obiettivi, stru­ menti e analisi informativa degli errori) in presenza di cambiamenti nei parametri strutturali del sistema economico12.. La crisi recente e le notevoli difficoltà incontrate per sollecitare la ripresa delle economie hanno ridato vigore alle politiche economiche13• Sono tentativi talvolta solo accennati (Italia), altri maldestri, per i notevoli costi inflitti ai cittadini (Spagna e Irlanda), effettuati dai governi, per cercare di uscire da una situazione di crisi che molti hanno equiparato, forse esagerando, alla Grande depressione del 1929. Certo gli esiti peggiori si sono avuti con gli interventi delle organizzazioni internazionali (Fondo monetario internazionale - F M I , Unione Europea - UE, Banca centrale europea - B C E ) destinati ad aiutare i paesi in crisi con il nefasto risultato di portare '

8. J. Tinbergen, Economie Policy: Principles and Design, North-Holland, Amsterdam 1 964. 9· Klein, Macroeconomia, econometria e politica economica, cit. 10. Cfr. F. Caffè, Sistematica e tecniche della politica economica, Edizioni Ricerche, Roma 1966; G.

M. Rey, Introduzione, in Id. (a cura di), Sistematica e tecniche della politica economica, FrancoAngeli, Milano 1 9 84. 1 1. O. Blanchard, Scoprire la macroeconomia, il Mulino, Bologna 2003. 12. T. C. Koopmans , Econometria, analisi delle attivita, crescita ottima/e, il Mulino, Bologna 1 987, cap. 8. 13. J. B. DeLong, L. H. Summers, Fiscal Policy in a Depressed Area, in "Brookings Papers on Economie Activity': 2012, Spring, pp. 233-97, http :/ /www.brookings.edu/ -/media/Projects/BPEA/ Spring9ho 20 u/ 20 ua DeLong.pdf. _

139

G U I D O M . REY

un paese al collasso ( Grecia e Cipro ) , utilizzando una miscela perversa di ignoranza, prepotenza e penitenza. Migliori risultati sembrano ottenere le recenti politiche keynesiane riscoperte dalla Federai Reserve per superare la crisi occupazionale e dal Giappone per uscire dalla deflazione ma anche all'interno dell' FMI non sono mancati i primi dibattiti sul metodo. Un punto di discussione teorica e di numerose stime econometriche è l'origine e la natura dell'inflazione, dovuta ali'eccessiva creazione della moneta da parte della banca centrale, per i monetaristi, mentre per i keynesiani l 'inflazione, oltre che nell'eccesso di domanda, può avere origine anche nel conflitto distributivo fra salario e profitto, con profonde ripercussioni sulle decisioni di consumo e di investimento ; in questo secondo caso l'unica soluzione per combattere l' inflazione e difendere l'occupazione è la politica dei redditi. A questa controversia teorica, la storia econo­ mica dell' Italia ha aggiunto l'aspro conflitto distributivo fra salario, profitto e rendita che per un ventennio, a partire dalla metà degli anni Sessanta, ne ha contraddistinto la vita economica, sociale e politica; un conflitto aggravato dalla crisi esplosa nei mercati internazionali con la modifica dei prezzi relativi fra materie prime e manu­ fatti. Il risultato è stato l' inflazione, che in alcuni anni ha toccato le due cifre, con uno Stato italiano che per difendere, almeno in parte e non sempre con successo, le fasce deboli della società e l'occupazione ha dovuto impegnare notevoli risorse pub­ bliche\ Solo nel 1992 la concertazione fra le parti sociali e il governo ha portato alla politica dei redditi, rendendo così credibile l' Italia quando affermava di poter onorare gli impegni presi con la firma del Trattato di Maastricht. Era l'ultimo atto di una strategia che suggeriva la concertazione per superare le crisi distributive, soluzione non sempre accettata dalle parti interessate15• Appartiene al novero delle libertà il paradigma che considera un assioma l' inca­ pacità dello Stato di utilizzare correttamente le risorse sottratte agli operatori privati con il prelievo fiscale creando, pertanto, un ostacolo alla crescita economica e una diminuzione del benessere sociale6• Non erano ritenuti ostacoli rilevanti per il suc­ cesso delle politiche monetariste la sottoccupazione registrata in ampie zone del paese, la dimensione non trascurabile dell'economia sommersa e dell'evasione fiscale, l'evidente inefficienza nell'allocazione delle risorse produttive, in quanto consentiva la sopravvivenza di imprese submarginali. Dal lato delle imprese e dei mercati sono note la loro scarsa propensione alla concorrenza e la netta preferenza per il monopolio e per la rendita specie nei settori protetti nei confronti della concorrenza estera. •

14. A. Becchi Collidà (a cura di), L'economia italiana tra sviluppo e sussistenza, FrancoAngeli, Milano 1 978. 15. N. Acocella, R. Leoni, Social Pacts, Employment and Growth: A Reappraisal of Ezio Taran­

telli's Thought, Physica, Heidelberg-New York 2007. 1 6. J. M. Buchanan, Stato, mercato e liberta, il Mulino, Bologna 1989, cap. 2.

M O LTO RUM O RE PER NULLA : LA POLI T I CA ECONOMICA IN ITALIA

(1 9 8 0 - 2. 0 1 2. )

Avversari non meno tenaci dei modelli !iberisti ( ma anche keynesiani ) erano e sono sia la burocrazia, sia gli organi di controllo amministrativi, uniti nell'ostinata resistenza contro le indispensabili modifiche normative e istituzionali qualora si dimostrassero antagoniste dei loro interessi corporativi. Sebbene fossero evidenti questi limiti istituzionali, le uniche politiche suggerite dalle organizzazioni internazionali e comunitarie, e da cospicui gruppi di pressione nazionali, erano le riforme che dovevano completare gli interventi di riduzione e di riequilibrio della spesa pubblica e delle imposte. Le doverose riforme avrebbero con­ sentito di eliminare gli ostacoli all'efficienza allocativa e alla piena occupazione necessariamente nel medio termine. In questi trent'anni si sono avute lunghe discus­ sioni e numerose e ripetute riforme in tutti i settori, dalle università alle banche, dal mercato del lavoro alle pensioni, dal federalismo alla pubblica amministrazione, dalle autorità di vigilanza sui mercati a quelle settoriali, alle privatizzazioni, ma i risultati ottenuti non hanno portato i benefici attesi, che sovente, nella fase di attuazione, sono stati neutralizzati dalle tacite controriforme. E noto che le riforme richiedono tempi lunghi per mostrare i loro effetti17 ma nel frattempo i confusi tentativi per uscire dalla crisi dimostravano che la politica di austerità, reclamata dalla UE, dalla BCE e dai mercati finanziari, rischiava di affondare definitivamente il sistema econo­ mico italiano ma anche l'euro e la UE come soggetto politico18• '

3

Gli eventi e i fatti

(1981-2012)

L'elevato grado di apertura della nostra economia e l'appartenenza a un'area monetaria integrata richiedono una certa coerenza fra l'evoluzione delle nostre grandezze reali e monetarie e quelle dei partner europei con i quali abbiamo collegamenti, non solo economici, e insieme ai quali subiamo gli shock esterni all'area con impatti non sempre simmetricF9• Per completare il disegno istituzionale non si possono dimenticare i regolamenti comunitari, che di fatto hanno modificato implicitamente la Costituzione italiana del 1948 per le parti riguardanti gli assetti economici e le norme correlate. In particolare è cambiato il ruolo assegnato al settore pubblico e quindi il suo disegno organizzativo, è finita l'economia mista e risulta compromessa la visione sociale come guida all'azione non solo dello Stato ma anche degli altri operatori economici, inclusi i cosiddetti mercati ( per i dati citati nei PARR. 3.1, 3.2 e 3.3, cfr. TAB. 1 e F I G G . 1-6).

17. Tinbergen, Economie Policy, cit., cap. 6. 18. Cfr. S. Cesaratto, Il vecchio e il nuovo della crisi europea, in S. Cesaratto, M. Pivetti ( a cura di) , Oltre l'austerita, e-book di MicroMega, 2012, http :/ / www.micromega.net; N. Shapiro, Keynes, Steindl, and the Critique ofAusterity Economics, in "Monthly Review", 64, 2012, 3, pp. 103-14. 19. P. De Grauwe, Economia dell'unione monetaria, il Mulino, Bologna 2010. 141

CONTO RISORSE IMPIEGHI PIL Importazioni di beni e servizi Consumi privati Consumi pubblici Investimenti fissi lordi costruzionib macchine e attrezzature' Esportazioni di beni e servizi Occupazione'� Disoccupazione'�· a Investimenti fissi lordi/PILa Retribuzioni lavoro dipendente (pro capite) Redditi da lavoro dipendente/ VACFa Quota del lavoro totale/VACFa,l Produttività' Industria senso stretto Servizi di mercato CLUP Industria senso stretto Servizi di mercato 0,4 1,4 o, s 2,S 6,0 0, 4 10,6 19, 3 3 ,2 46,s

49 .S

6 3 ,8

0,8 2,9

-0,3 0,0

6,s 7. 9

1,1 2,7

-1, 3 2,4

o,s -o,s

o,s -0,4

2,0 2,1

3.3 1,1

1,3 0,2

62,7

6o,s

61,5

61,6

-I,S -2,S -1,1 -0,9 - s .4 -6,6 - s ,o -0,1 -o,s 8,4 19,1 1,7 48.7

1,3 4.7 1,1 1,6 1,4 -0,4 2,4 4 .6 0, 9 7,6 21,0 3.0

2.008-12.

46 .3

0, 4 8,0 20,1 2,6

I,S

0,0 0,9 0,0 0,7 - 1,4 -2, 3 - 1, 3

2.002.-07

47. 4

I,S

2,S s .? 2,7 2,7 2,S 1,7 4,1 3 .7 o,s 10,6 20, 3 10,2

1,6 4 .6

198 1-91 1992.-2.001 2.00 2.-12.

TABELLA I Il declino dell'economia italiana (198 1-201 2)

inizio periodo fine periodo lndebitamento netto/PIL inizio periodo fine periodo Entrate correnti/PIL inizio periodo fine periodo

(al netto degli interessi)

Importazioni/PILa BILANCIA DEI PAGAMENTI Saldo merci/PIL inizio periodo fine periodo PREZZI Deflatore implicito PIL Deflatore implicito Consumi privati Deflatore implicito Investimenti fissi lordi FINANZA PUBBLICA E MONETA Risparmio primario/PIL

-10,3 - 3 ,1 42,9 44 . 4

3 4,1 42,6

4,1 7,0 -10,9 -11,4

-1,1 4.4

2,8

3.3 3. 8

9. 4 8,9 8,2

0,1 1,4

20,7

-2,0 0,1

1 6,s

- 3 ,1 -1,6 4 3.7 46,2

43.7 47.7

s .? 7,1 - 3 ,1 - 3 ,0

s .? S,2

2,9

2,3 2,S

2,0 2, 3 2,0

0,9 -0, 3

2S,9

2.002.-07

0,9 1,2

26,s

1981-91 1992.-2.0 0 1 2.002.-12.

46,2 47.7

-2,7 - 3 ,0

6,0 S,2

0,2

1,4 1,7

-0,8 1,2

27,3

2.008-12.

d

Tasso d'interesse Ie inizio periodo

1 4 ,0

3.7 7,0

105,5 108,8

4.4 4 ,2

12,2 6,2

51,0 43.7

3 ·3

5,2 4. 8

105,7 127,1

3. 6 3. 1

5,6 5.5

43. 6 4 8,1

19 92.-2.001 2.002.-12.

3.3

7.7 8,2

105,7 10 3 ,1

3. 6 4 ,0

5,6 5,0

43. 6 44 ,1

2.002.-07

4. 6

1,6 0,7

105,8 127,1

3. 8 3,1

5,2 5. 5

4 5 .4 4 8,1

2.008-12.

g

Cambio euro/dollaro USAa, h inizio periodo fine periodo

fine periodo

Cambio lira/ marcoa, h inizio periodo

fine periodo

fine period o Cambio lira/dollaro USAa, h inizio periodo

BILANCIA DEI PAGAMENTI Saldo cotalef/PIL inizio periodo

fine periodo

fine periodo Tasso d'interesse 2e inizio periodo

h

*

*

c

5 3 2,2 759.3

0,896

*

*

9 11,3

*

-2,3 0, 4

1 3 ,3 5,2

4.3

1200,0 1 470,9 1151,1

-2, 3 -2,0

20,6 1 3 ,2

12,2

0, 94 6 1,285

0,94 6 1, 371

*

*

*

*

*

*

- 0, 3 - 1,2

5,0 4. 5

4.3

2.0 0 2.-07

*

*

- 0, 3 - 0, 4

5,0 5 .5

0,6

1 9 8 1-91 1992.-2.0 01 2.002.-12.

1, 47 1 1,285

*

*

*

*

-0, 4

-2,9

4.7 5 .5

0,6

2.008-12.

f

i

b

1

Note (ove non altrimenti specificato, per le variazioni si intende il tasso medio del periodo): a media di periodo; non residenziali; valore aggiunto al costo dei fattori (VACF ), a prezzi costanti, per addetto ; esclusi i mezzi di trasporto; e 1. EURIBOR a 3 mesi (fonte: BCE), 2. rendimento dei titoli di Stato a lungo termine (fonte: IMF) - medie annue; accreditamento ( + )/indebitamento (-) del paese nei confronti del resto del mondo; ISTAT = serie storiche ricostruite; dal 1° gennaio 1999, con l'introduzione dell'euro, il tasso di cambio è fisso con i paesi dell' UEM; M2 (aggregato monetario come definito dalla BCE) - media annua; somma dei redditi da lavoro dipendente + costo del lavoro indipendente (retribuzione unità di lavoro, ULA, dipendenti x ULA indipendenti a livello dei singoli settori); * ISTAT = serie storiche. Fonte: ISTAT, BCE, IMF.

1 9 ,6

Prestiti delle banche*

58,5 98,6

5,0 4. 8

5,1 11, 3

4 0, 3 49. 6

10,9 1 4 ,5

M2i

MONETA E BANCHE

fine periodo

Debito pubblico/PIL inizio periodo

fine periodo

Uscite in capitale/PIL inizio periodo

fine periodo

Interessi/ PIL inizio periodo

Uscite corremi/PIL inizio periodo fine periodo

1981-91

TABELLA I (segue) Il declino dell'economia italiana ( 1 9 8 1-2012 )

G U I D O M . REY

3 . 1 . D A L LO S M E A M A A S T RI C H T ( 1 9 8 1 - 9 2 )

Sino al 1985, con il protrarsi della seconda crisi petrolifera, si presentava particolar­ mente preoccupante la combinazione di inflazione, disoccupazione e stagnazione ( stagflazione ) che segnalava i limiti analitici del paradigma keynesiano (cfr. F I G G . 1, 2 e 3 ) :lo. L'adesione italiana allo SME, ossia a un sistema che prevedeva cambi relativa­ mente fissi e un pilone centrale, l'ECU ( European Currency Unit ) , metteva a nudo la fragilità del nostro sistema economico, sociale e politico. La rigorosa difesa del cambio contrastava le aspettative di svalutazione competitiva e perciò le imprese manifatturiere erano obbligate a effettuare aggiustamenti reali, aumentando la pro­ duttività e liquidando le produzioni non competitive. La riorganizzazione compor­ tava il decentramento produttivo delle forniture e dei servizi per le fasi a maggiore intensità di lavoro e a bassa creazione di valore. Con molta difficoltà si chiudeva una serie di accordi fra le parti sociali che garantivano ai salari solo il recupero parziale degli aumenti dei prezzi interni e non dell'inflazione importata. Gli sforzi fatti per ridurre l' inflazione e aumentare la com­ petitività rallentavano il costo del lavoro per unità di prodotto ( CLUP ) passato dal 17% annuo nel 1981 al 7,3% del 1985. Per allentare il vincolo della bilancia dei pagamenti era necessario non solo migliorare la competitività ma anche frenare la crescita della domanda interna, disin­ centivando, così, anche gli investimenti fissi ( 0,9 % media annua ) , con effetti negativi di tipo sia congiunturale che strutturale. Alla politica fiscale italiana si richiedeva di rinunciare all'obiettivo dello sviluppo per concentrare gli interventi sulla riduzio ne del disavanzo e del debito pubblico ma continuando a difendere, nei limiti delle risorse disponibili, le politiche sociali. L'aumento di s punti percentuali della pressione fiscale, che arrivava al 42,6% del PIL nel 1991, non bastava a compensare la spesa corrente, aumentata di 4,5 punti ( 49,6% in rapporto al PIL ) , e pertanto non si riduceva in modo significativo l'indebitamento netto. Continuava ad aumentare l'onere per gli interessi, che arrivava a toccare l' 1 1,3% del PIL a fine periodo, solo in parte compensato dall'aumento del risparmio primario di 3,5 punti percentuali rispetto al 1985. I titoli di Stato erano emessi a tassi di interesse nominale in media del 12%, che, tenuto conto dell'inflazione al 6,2%, portavano il tasso di interesse in termini reali al s% circa, un valore ben superiore a quello del tasso medio annuo di crescita del PIL reale ( 2,5% ) . In precedenza i tassi d'interesse nominale sui

20. G. M. Rey, Le grandi trasformazioni dell 'economia reale, in "Economia Italiana", 3, 1990; cfr. anche G. M. Rey, Il cammino dell'economia italiana (I979 -2009), in M. Barbato (a cura di), Il cammino dell'economia italiana. Il trentennale di Economia italiana. Indici I979-2009, Unicredit S.p.A. Roma 2011. I dati utilizzati per tutte le figure sono tratti da fonte ISTAT (http :/ /dati.istat.it/) e Banca d' Italia

(http :l / www.bancaditalia.it/ statistiche).

1 44

M O LTO RUM O RE PER N ULLA : LA POLITICA E C O NO M I CA IN I TA LIA ( 1 9 8 0-2012) FIGURA I Prodotto interno lordo (prezzi concatenati)

I.5oo,ooo I.375,ooo o

� v

1.250,000

·-

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c:: o ·":'::l

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l

1.125,ooo

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875,ooo � 00 0\ .....

Anno base

..... 0\ 0\ .....

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Anno base

.....



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o o

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o

N

N







-2 ,5 -5

l

..... 00 0\ .....

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l

'

5 2,5



'

7·5

Var.

2005

2000

FIGURA 2 Deflatore implicito del PIL (variazioni tendenziali)

21 I8 15 ·-

c:: o ·-

N (1j

·-



12 9 6

3 o

..... 00 0\ .....

� 00 0\ .....

Anno base 2000

..... 0\ 0\ .....

--

� 0\ 0\ .....

-

Anno base 2005

145

.....



N

N

o o

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..... .....

o

N

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G U I D O M . REY

FIGURA 3 Tasso di disoccupazione

1 1,0

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Vecchia rilevazione

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Nuova rilevazione

titoli di Stato avevano raggiunto punte di 20,7% sui CCT nel 1982 per ridiscendere al 13,9% nel 1985 in coerenza con la diminuzione dell'inflazione (FIG. 2 ) . L'onere elevato del debito pubblico suscitava timori sulla solvibilità dello Stato italiano e sulla tenuta del cambio della lira. In quegli anni si era modificata la strategia della Federai Reserve, che abbandonava la politica di money easing e stabiliva target che dipendevano dalle attese inflazionistiche e dall'andamento della domanda effet­ tiva. Sui mercati internazionali si combatteva la guerra dei tassi di interesse per finanziare l'unificazione della Germania e i disavanzi della bilancia dei pagamenti correnti degli Stati Uniti. Dalla metà del 1 9 8 1, il controllo sulla creazione di moneta era stato agevolato dal "divorzio" tra Banca d ' Italia e Tesoro e rafforzato da un innalzamento dei coefficienti di riserva obbligatoria. La politica monetaria italiana, per essere credibile nel con­ trollo dell 'inflazione e nella difesa del cambio all'interno dello SME, doveva aggan­ ciarsi alla politica del marco. Intendeva, così, convincere i sindacati che gli aumenti salariali dovevano essere correlati alla produttività, ma anche ammonire gli impren­ ditori che l'aumento del costo del lavoro non avrebbe trovato una politica monetaria accomodante. La politica economica italiana riceveva un ulteriore vincolo istituzionale dall'Atto unico europeo, firmato dall' Italia il 28 febbraio 1986, che all'articolo SA definiva il mercato interno come uno « spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali » e richiamava

M O LTO RUM O RE PER NULLA : LA POLI T I CA ECONOMICA IN ITALIA

(1 9 8 0 - 2. 0 1 2. )

la necessità di realizzare la convergenza delle politiche economiche e monetarie dei diversi paesi membri. Fra gli obblighi imposti dall'Atto unico europeo vi era il divieto di erogare aiuti di Stato per gli effetti negativi che avrebbero potuto avere sulla con­ correnza all 'interno dell' Unione e iniziò così in Italia il processo per giungere alla privatizzazione delle imprese pubbliche e delle partecipazioni statali. Si impostò l'ennesima riforma della pubblica amministrazione e in un ambito intermedio fra la revisione del ruolo dello Stato e i problemi di finanziamento del debito pubblico riprese vigore il dibattito sulla riforma del sistema previdenziale. In campo finanziario vennero eliminati i vincoli alla libera circolazione dei capitali, ma senza raggiungere un accordo in sede comunitaria sulla tassazione dei redditi deri­ vanti dalle attività finanziarie. Potenti gruppi italiani approfittarono dell'opportunità per puntare sulla svalutazione della lira, effettuando rilevanti uscite di capitali nono­ stante gli alti tassi di interesse italiani e la strenua difesa del cambio da parte della Banca d ' Italia. Questo periodo terminava con la firma del Trattato sull' Unione Europea (più noto come Trattato di Maastricht) firmato dall' Italia il 7 febbraio 1992. 3 . 2 . V E R S O L ' EU RO : L 'ATT ESA D E L B EN E S S E R E ( 1 9 9 2-2 0 0 1 )

La crisi latente dello SME costrinse i sindacati italiani ad accettare la politica dei redditi collegata all'inflazione programmata in cambio della difesa dell'occupazione e dell'im­ pegno, purtroppo disatteso, di aumentare gli investimenti produttivi. Nell'estate del 1992, si registrò la crisi finale che coinvolse tutte le economie occidentali e sancì la fine, anche se non formale, dello SME. All' Italia, che in quell'anno registrava un deficit esterno pari al 2,3% del PIL, fu consentita una svalutazione competitiva della lira che nell'arco di due anni fu superiore al 40% nei confronti del marco. Il deprezzamento della lira (si è parlato di valuta dumping) procurò l'anno dopo un avanzo di bilancia dei pagamenti correnti di circa l' 1% del PIL, senza le temute drammatiche conseguenze inflazionistiche (4,6% nel 1992) e con una sopportabile caduta del PIL ( -0,9%), poiché la svalutazione fu accompagnata da un severo contenimento della domanda interna. La politica economica italiana era vincolata dai parametri imposti dal Trattato di Maastriche1 e, quindi, si concentrava sulla riduzione del disavanzo e del debito pubblico, in questo accompagnata dalla riduzione dei tassi di interesse per il con­ solidamento delle aspettative di adesione dell ' Italia all' uEM. Nella nuova situa­ zione di cambi sostanzialmente fissi all ' interno della UE, il futuro dell' industria

21. 1. Rapporto tra deficit pubblico e PIL non superiore al 3%; rapporto tra debito pubblico e PIL non superiore al 6o% (Belgio e Italia furono esentati). 2. Tasso d' inflazione non superiore dell ' I,S%

rispetto a quello dei tre paesi più virtuosi. 3· Tasso d' interesse a lungo termine non superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre paesi. 4· Permanenza negli ultimi 2 anni nello SME senza fluttuazioni della moneta nazionale. 147

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manifatturiera italiana stava nella sua competitività, ossia negli investimenti e nell' innovazione. Era una strategia obbligata poiché la crescita e la competitività dei paesi emergenti incidono negativamente sulle quote di mercato italiane, sia all' interno, sia all'esterno della UE, con evidenti effetti negativi sull 'ormai logoro e inutilizzabile modello di sviluppo italiano basato sulla svalutazione del cambio e sulla dinamica dell'export, che avrebbe dovuto compensare la domanda interna tenuta sotto controllo dalla politica fiscale. Purtroppo questo indirizzo strategico non fu recepito dall' industria, e l'avanzo della bilancia dei pagamenti correnti, per effetto della svalutazione, è cresciuto sino al 1998 con punte del 4,7% del PIL nel 1996, per poi azzerarsi nel 20 0 5 . Ma già nel 2001 si era azzerato il saldo per i beni e i servizi, il cui export era cresciuto al tasso medio annuo del 6% contro un aumento del 4,6% dell' import, mentre la produttività del lavoro cresceva del 2% all'anno e il CLUP era stazionario. Questi dati confermano, se fosse necessario, che la strategia basata sull'export, in regime di cambi fissi, ha effetti positivi solo se accompagnata da un aumento della competitività in termini di CLUP del sistema produttivo nel suo complesso (cfr. FIG. 4) . Le politiche deflazionistiche rallentavano la domanda interna ( 1,5% annuo) e gli investimenti fissi ( 1,4% annuo), a fronte di un aumento dell ' 1,6 % del PIL. Pre­ occupante era il tasso di accumulazione reale ( 1 8,1% il rapporto investimenti sul PIL nel 1994, risalito di soli due punti nel 20 0 1 ), nonostante l'andamento favore­ vole dei profitti, che alimentavano, invece, l'uscita di ingenti capitali, giustificata dagli imprenditori italiani con la mancanza di adeguate prospettive di crescita domestica. Per poter essere nel gruppo iniziale dei paesi dell ' uEM, l' Italia ha compiuto uno sforzo considerevole per incrementare il risparmio primario delle amministra­ zioni pubbliche (7% del PIL nel 2o o 1 ) , soprattutto grazie all 'aumento delle entrate di 1,5 punti e alla riduzione di circa 6 punti della spesa per interessi, era diminuita solo di un punto percentuale (37,5 % del PIL) nel 2001 e l ' indebitamento netto era stato ridotto dal - 10,3% del PIL nel 199 2 al -3,1 % nel 20 0 1 (cfr. FIGG. 5 e 6). La propensione media del risparmio delle famiglie è passata da 0,25 del 1 9 9 2 a 0,10 del 2001, quando l'indebitamento netto pubblico era praticamente azzerato. Effetto collaterale, non trascurabile, della manovra fiscale fu la stasi prolungata della spesa pubblica per investimenti, con un conseguente ulteriore depauperamento del capitale sociale. Un intervento di finanza straordinaria mirava a ridurre il rapporto debito pubblico-PIL e prevedeva la privatizzazione delle imprese pubbliche e delle società a partecipazione statale con il duplice obiettivo di ridurre i trasferimenti pubblici a copertura delle loro perdite e di portare a riduzione del debito pubblico le cospicue entrate derivanti da questa finanza straordinaria. La privatizzazione delle imprese pubbliche ha fornito risorse aggiuntive e rallentato la dinamica del debito pubblico, che nel 20 0 1 si commisurava al 108,8% del PIL, di oltre tredici punti infe­ riore al dato del 1994. Fu necessario approvare un nuovo ordinamento dei monopoli

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FIGURA 4 Transazioni internazionali (saldi in % del PIL, saldo beni e servizi e indebitamento) 6

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M. REY

FIGURA 6

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legali, a suo tempo assegnati alle imprese pubbliche (telecomunicazioni, elettricità, energia, autostrade ecc.), affinché con la loro privatizzazione non si creassero mono­ poli privati non regolamentari. Furono quindi create le autorità indipendenti di settore, aventi lo scopo di tutelare la concorrenza e i diritti dei consumatori nei settori dell'energia e delle telecomunicazioni, ma l'aspettativa di una riduzione delle tariffe andò delusa salvo che per le

ICT,

che continuano a registrare un tumultuoso

e continuo progresso tecnologico. Le privatizzazioni delle imprese a partecipazione statale e delle imprese pubbliche non furono, purtroppo, l'occasione per impostare una nuova politica industriale e si assegnò l' intera operazione al Tesoro, che mirava unicamente agli aspetti finanziari, alla velocità di esecuzione del processo e alla tutela dell'interesse pubblico solo nei settori strategici (energia e trasporti). Per garantire la corretta allocazione delle risorse finanziarie e per allargare le scelte di portafoglio dei privati, in precedenza largamente indirizzate verso l'acquisto dei titoli di Stato, si attuarono alcune riforme concernenti il sistema pensionistico pri­ vato, il mercato borsistico, la legge bancaria e la regolazione degli intermediari finan­ ziari, per citare solo le principali. Con la legge Amato del 1990, che privatizzava le banche e istituiva le fondazioni bancarie, si era cercato di migliorare l'efficienza del sistema bancario e di ridurre il differenziale fra tassi attivi e costo della raccolta.

ISO

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La ricerca dell'efficienza coinvolgeva anche le amministrazioni pubbliche poiché si asseriva che i gravami amministrativi sulle imprese erano insopportabili, danneg­ giavano la competitività ed erano un ostacolo all'insediamento di imprese estere. Furono emanate due successive riforme del pubblico impiego con l'obiettivo di: a) introdurre nuove regole privatistiche di gestione ; b) privatizzare gradualmente il pubblico impiego; c) separare le funzioni di indirizzo e controllo da quelle gestionali, assegnando le prime ai ministri e le seconde all'alta dirigenza. Furono create anche autorità di settore come l'Autorità per l'informatica pubblica, il Garante della privacy e l'Autorità di controllo sugli investimenti pubblici. Una riforma molto sentita e appoggiata dall' vE concerneva il mercato del lavoro e in particolare la riqualificazione dell'offerta di lavoro nella convinzione, in parte corretta, che le nuove tecnologie generassero una discriminazione professionale che impediva l'assorbimento della forza lavoro non qualificata. Si asseriva che la conse­ guente disoccupazione non era, quindi, congiunturale ma dovuta al mismatching fra domanda e offerta di lavoro. Un 'ulteriore riforma aveva come obiettivo la modifica dei contratti per favorire la diffusione del lavoro a tempo determinato e/ o a orario flessibile (lavoro precario), con l'attesa di un'emersione, almeno parziale, delle attività sommerse e con un'ulteriore spinta all'utilizzo di manodopera, sovente meno strut­ turato, mentre scarso successo aveva il telelavoro. L' insieme di questi interventi ridusse di oltre un punto percentuale il tasso di disoccupazione fra il 1993 e il 200I apparentemente a scapito della produttività negli anni successivi. L'attuazione dell ' uEM ha richiesto l' istituzione della BCE e del Sistema europeo delle banche centrali (sEBC). Infine, il 3 maggio I 9 9 8, il Consiglio dell' vE verificò che i paesi candidati all' uEM avessero rispettato le condizioni previste per adottare, dal I 0 gennaio I999, la moneta unica. Non tutti i paesi aderenti all' uEM erano favorevoli all ' inserimento dell ' Italia nel gruppo iniziale poiché temevano potesse essere l'anello debole dell'area dell'euro e fonte di contagio. Gli italiani, a loro volta, erano divisi fra coloro che confidavano nella stabilità dei prezzi, nella maggiore concorrenza dei mercati interni, nella competitività delle nostre imprese, in sintesi in un benessere crescente e diffuso, e una minoranza preoccupata per l'austerità e per le difficoltà che avrebbe incontrato il sistema produttivo italiano. 3·3· F I NALM EN T E L ' EU RO : LU C I E O M B R E ( 2 0 0 2 - 1 2 )

Il I0 gennaio 2 0 0 2 inizia la circolazione dell'euro nell' uEM e questo facilita i confronti fra le grandezze economiche dei paesi membri e rende più stringenti i legami e gli obblighi nei confronti dei partner. L'economia italiana avrebbe dovuto adeguarsi alla nuova situazione economica, monetaria e istituzionale con aggiustamenti reali delle imprese, ad esempio incenti­ vando l'aumento della loro dimensione media e disincentivando quelle submarginali, spesso appartenenti all'economia sommersa. Analogo sforzo avrebbero dovuto fare ISI

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le istituzioni e le banche per aiutare le imprese italiane a sfruttare le opportunità derivanti dalla crescita vivace dell'economia mondiale, migliorando così l' integra­ zione con i partner dell' uEM e fronteggiando efficacemente la concorrenza dei BRI C . L'intero periodo 2002-12 si può suddividere in due sottoperiodi, il primo sino al 2007, che può essere definito di adattamento all'euro, mentre il secondo, sino al 2012, analizza le conseguenze della crisi finanziaria e reale per l'economia italiana (cfr. TAB. 1). Nel primo sottoperiodo il dibattito era centrato sulle perduranti difficoltà di crescita dell'economia italiana e sul confronto con la situazione, peraltro non entusiasmante, degli altri paesi dell' uEM. Rallentavano a prezzi costanti il PIL ( 1,3% annuo), i consumi privati (1,1%) e gli investimenti fissi lordi (1,4% annuo), quelli in costruzioni addirittura diminuivano. Continuava la crescita dell'interscambio con l'estero, e sia l'import sia l'export registravano un aumento leggermente superiore al 4%, evidenziando così una tendenza positiva verso il riequilibrio della bilancia commerciale. L'effetto combinato di stazionarietà della produzione e di insufficienti investimenti produttivi aveva rallentato la dinamica della produttività dell'industria e dei servizi ( 1,3% e o,s% annuo rispettiva­ mente), che avevano registrato la crescita occupazionale in prevalenza precaria; aumen­ tava, perciò, il CLUP dei servizi mentre era stabile quello del manifatturiero. Nel com­ plesso l'aumento medio dei salari monetari era stato del 2,7% a fronte di un aumento dei prezzi al consumo del 2,2% e pertanto cresceva la quota dei redditi da lavoro sul valore aggiunto, invertendo una tendenza che durava da oltre venticinque anni. Era la conferma che in regime di cambi fissi la concorrenza estera mette i profitti in sofferenza, inclusi quelli dei settori protetti, e solo migliorando la competitività si può modificare questa distribuzione del valore aggiunto e quindi favorire gli investimenti produttivi. Timidi tentativi di politica della domanda furono compiuti nei primi anni della circolazione dell'euro con modesti effetti sulla crescita, ma l'obiettivo restava la ridu­ zione dell'indebitamento pubblico (diminuito di quasi 2 punti percentuali) . I conti pubblici mostravano una tendenza preoccupante, poiché il loro riequilibrio continuava a essere ottenuto con l'aumento delle entrate (46,2% ossia +2,5 punti rispetto al 2002), ma anche la spesa al netto degli interessi era cresciuta di oltre un punto (39,1%) . Per quanto riguarda la politica monetaria, l'aggregato M2 cresceva al tasso medio annuo del 7,7% e i prestiti dell' 8,2%, ossia a tassi di aumento quasi doppi rispetto alla dinamica del PIL a prezzi correnti. In quegli anni i prestiti s'indirizzavano in prevalenza verso le medie e grandi imprese e si riduceva la disponibilità del credito alle piccole e microimprese locali. La novità era l'aumento della domanda di credito delle famiglie, per finanziare le spese straordinarie (ad es. acquisto di beni durevoli, vacanze) e controbilan­ ciare la caduta del reddito disponibile, aumentando così la propensione al consumo. Alla fine del 20 07 cominciavano a manifestarsi negli USA i primi segnali della crisi finanziaria che in seguito contagerà le economie di tutti i paesi con pesanti conse­ guenze reali. La causa scatenante era stata l'espansione di nuovi strumenti finanziari, i cosiddetti "derivati", ossia strumenti con i quali si costruivano titoli compositi che incorporavano tipologie di titoli emessi da debitori istituzionali diversi e soggetti a 152

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rischi diversificati; strumenti, quindi, con una componente assicurativa ma con rischi molto simili ai giochi d' azzardo2.l. Elemento centrale di questa composizione dei rischi erano i mutui immobiliari accesi con le famiglie statunitensi, e quindi in teoria dotati di garanzie collaterali che sarebbero evaporate con la crisi del settore. Quando la congiuntura negli USA ha cominciato a risentire della crisi finanziaria e a coinvolgere l'economia reale, si chiarivano le conseguenze non tutte positive, per l'economia mondiale, dell'espansione dei BRIC: eccesso di offerta sui mercati inter­ nazionali dei manufatti, squilibrio nei prezzi relativi fra materie prime e manufatti, turbolenze nei mercati delle valute per la debolezza del dollaro e per la politica mercantilista della Cina, ma anche della Germania �\ Dopo oltre dieci anni dalla sua fissazione, il cambio dell'euro era sottovalutato in termini reali nel caso della Germania e dei suoi satelliti, ed era sopravvalutato per l' Italia e per gli altri paesi deboli, come risulta dalla persistente situazione delle rispettive bilance dei pagamenti correnti e della domanda interna. Come ha mostrato l'esperienza degli accordi di Bretton Woods, il riequilibrio esterno, e necessariamente quello interno, di fatto gravava sui paesi in deficit, cui spettava l 'obbligo di accrescere la loro competitività aumentando l'efficienza e diminuendo l'assorbimento interno (domanda interna) . In quel sistema, i paesi in difficoltà potevano svalutare la loro moneta seppure accompagnata da interventi di riequilibrio interno. Fra il 2008 e il 2009 in quasi tutti i paesi - pressoché simultaneamente, anche se con indubbie differenze di intensità - erano crollati: il commercio estero, i mercati immobiliari, i mercati azionari, l'industria manifatturiera; ed erano aumentati la disoccupazione, le sofferenze della popolazione e i prestiti bancari incagliati. Come in tutte le situazioni di contagio i contraccolpi più pesanti li subivano le economie più deboli e non hanno fatto eccezione i paesi dell ' uEM. Si chiedeva, perciò, ai paesi in deficit di ridurre l ' indebitamento netto del settore pubblico e il rapporto debito pubblico-PIL, provocando così un processo deflattivo che rallentava il PIL e necessa­ riamente, con un breve lag, anche le entrate fiscali. Superata la fase acuta della crisi finanziaria, i grandi operatori finanziari americani ed europei, salvati dall 'intervento dei rispettivi governi perché too big to fail, impo­ starono una decisa speculazione sui titoli di Stato di Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e in seguito Italia, ossia i paesi che per varie ragioni avevano subito i maggiori contraccolpi dalla crisi. Probabilmente l'obiettivo era l 'euro e l' uEM, come dimostrerà chiaramente il deciso intervento del presidente Draghi (Londra, luglio 2012), che porrà uno stop alla speculazione mettendo al riparo dagli attacchi l'euro e i debiti sovrani dei paesi individuati come più fragili. Per evitare che i dati medi nascondano situazioni profondamente diverse, nel 22.

D. Salvatore, La finanza internazionale sulfinire del secolo, Banca popolare dell ' Etruria e del

Lazio, Arezzo 1998. 23. Cesaratto, Il vecchio e il nuo vo della crisi europea, cit. 153

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caso dell' Italia il periodo 2008-12 è stato ripartito in un primo biennio di crisi pro­ fonda, seguito poi da una fragile ripresa. Tale ripresa in molti paesi ha quasi intera­ mente recuperato la precedente diminuzione, mentre per l' Italia il recupero è stato solo parziale e nel 2010 la sua economia è nuovamente entrata nella spirale deflazio­ nistica imposta dalle politiche suggerite dalla UE e dalla BCE, in sintesi: riduzione dell' indebitamento pubblico e riforma del mercato del lavoro come condizione per un recupero di competitività. L' insieme di fattori interni ed esterni ha creato le condizioni per la caduta del PIL ( - 1,5% in media annua), una media che nasconde il -s,s% del 20 09 e il -2,5% del 2012. E venuta a mancare la domanda interna a cominciare dai consumi ( -1%) e più pesante è stata la diminuzione degli investimenti fissi ( -5,4%), e pertanto il tasso di accumulazione in questo periodo ha toccato il valore più basso degli ultimi trent'anni ( 17,6%), con una riduzione di quasi 4 punti rispetto al 2007. L'andamento della domanda interna ha condizionato negativamente anche le importazioni ( - 1,5 % annuo), mentre la ripresa dell'economia mondiale non è riuscita a trascinare in terreno positivo le esportazioni italiane, che sono invece leggermente diminuite ( -0,1% annuo). Segnali positivi sono giunti solo dalle imprese che hanno saputo vincere la concorrenza estera e resistere sui mercati internazionali, e quindi hanno indicato il sentiero corretto da percorrere per uscire dalla crisP4• La bilancia commerciale nel 2012 era in attivo ( + 1,2% del PIL) ma non la bilancia dei pagamenti correnti, ancora nega­ tiva e pari al -0,4 % del PIL, sebbene con un recupero di 2,5 punti rispetto al 2008. Il dibattito sugli interventi era sterile ed era centrato sulla riduzione dell'indebi­ tamento pubblico intorno al 3% del PIL, dopo una punta di oltre il s% nel 2009 per la contemporanea diminuzione del PIL e l'aumento dell' indebitamento. Sotto accusa era la spesa pubblica corrente, cresciuta di quasi tre punti (48,1 % del PIL), mentre la spesa per interessi era rimasta stabile intorno al s% nonostante gli attacchi della speculazione. In mancanza della riduzione della spesa era indispensabile aumentare le entrate e così è avvenuto (47,7 % del PIL) . Un prelievo considerato ingiustificato e non più sopportabile né dalle famiglie, che vedevano ridursi il loro reddito disponi­ bile, né dalle imprese, schiacciate nella morsa della scarsa competitività e della pres­ sione burocratica, e senza poter contare sui prestiti bancari o sull'incasso dei crediti nei confronti delle amministrazioni pubbliche. Nonostante gli annunci, la politica di riduzione della spesa non ha avuto concrete applicazioni, perché avrebbe richiesto una decisione politica su quali servizi pubblici ridurre/sospendere oppure a quali costi fornirli all'utente. Se si analizzano i servizi, si nota che sono di gran lunga preminenti le spese per sanità e istruzione, in netta prevalenza a carico degli enti locali, che, per rispettare il patto di stabilità, sono stati costretti ad aumentare le aliquote delle sovraimposte e le tariffe dei servizi locali, '

R. Monducci et al. (a cura di), Crisi e ripresa del sistema industriale italiano: tendenze aggre­ gate ed eterogeneita delle imprese, in "Economia e Politica Industriale", 37, 2010, 3 , pp. 93 -116. 24.

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nonché ad adottare ticket regionalmente differenziati. L'unico settore nel quale si sono realizzati modesti risparmi è stato quello previdenziale, posticipando l 'uscita dal lavoro ma con conseguenze negative sull 'occupazione giovanile. Più preoccupante è stato l'aumento di quasi quindici punti del rapporto debito pubblico-PIL (da 105,8 nel 2o o8 a 127,1 nel 20 12) per il duplice effetto della riduzione dello stesso PIL e per l'aumento dell'indebitamento netto. Questa difficile situazione della finanza pubblica ha indotto gli speculatori a concentrare la loro attenzione anche sul debito pubblico italiano, che nel secondo semestre del 2ou ha cominciato a incontrare difficoltà sul mercato secondario dei titoli di Stato, mentre minori difficoltà incontravano le nuove emissioni a tassi leg­ germente crescenti. I tassi sono cresciuti di circa 1,5 punti, ma con effetti modesti sull'onere del debito italiano. La politica monetaria ha mantenuto i tassi di interesse a breve su livelli contenuti, poiché le banche centrali dei maggiori paesi industrializzati, inclusa la BCE, hanno fornito liquidità con operazioni di mercato aperto sui titoli di Stato, anche a rischio, finora evitato, di creare inflazione. Grazie alla politica di moneta facile, i tassi di interesse a breve sono passati dal 4,6% medio del 2008 allo o,6% medio del 20I2, mentre i tassi medi annui sui BTP italiani sono aumentati di pochi decimali dal 4,7 al s,s%, segnalando l'incertezza sul futuro dell'economia italiana ma anche la solidità della struttura del debito pubblico italiano. Più complesso è il giudizio sull 'andamento dei prestiti bancari, poiché si è arrestata l'erogazione di nuovi prestiti (o,6% all'anno), negli ultimi anni in questo giustificati dal rischio di insolvenza dei clienti in difficoltà. Ai comportamenti macroprudenziali delle autorità di vigilanza e ai vincoli insiti nella normativa sui prestiti si è aggiunta la preoccupazione per i rischi di insolvenza delle stesse banche, e perciò si è drastica­ mente ridotto anche il mercato dei prestiti interbancari. In un momento di difficoltà della Borsa italiana, sia le regole imposte da Basilea 2 e 3, sia le raccomandazioni emesse dalle autorità europee vigilanti sulla prevenzione di crisi sistemiche imponevano una ricapitalizzazione delle banche. In questo ambito l'unico intervento del governo ita­ liano, tuttavia poco utilizzato, è stato pensato per ricapitalizzare le banche e aiutarle, così, a superare le difficoltà dovute all'insufficienza di fondi propri e consentire loro di ripulire i bilanci dalle sofferenze e dalle partite incagliate.

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Conflitti, accordi e politiche economiche settoriali

4 . 1 . C O N F L I T T I F R A R EN D I TA E R E D D I T I

La rassegna delle politiche economiche attuate nel trentennio sarebbe parziale se si limitasse a ricordare la politica fiscale e la politica monetaria (peraltro ormai esogena) I SS

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senza almeno un accenno alle principali politiche settoriali e ai conflitti che hanno caratterizzato le relazioni fra i settori e fra gli operatori. Alcuni conflitti sono stati richiamati in precedenza, ma la lista è lunga. I più comuni riguardano la ripartizione delle risorse provenienti dai bilanci delle amministrazioni pubbliche, ad esempio Nord-Sud, giovani-anziani, industria-servizi. Un altro conflitto distributivo ha coinvolto proprietari e inquilini, poiché a favore dei primi c 'era l'inflazione e la rendita fondiaria, e a favore degli inquilini vi era la legislazione sull'equo canone e il blocco degli sfratti, al fine di tutelare le famiglie meno abbienti. A metà degli anni Ottanta è stato abolito, dopo oltre quarant'anni, il blocco degli affitti, nella speranza di rivitalizzare il settore delle costruzioni. L' au­ mento degli investimenti in abitazioni alla fine del secolo scorso, in sintonia con quanto è avvenuto negli altri paesi, dimostra che quel conflitto è stato risolto e ne hanno tratto vantaggio il settore delle costruzioni, ma anche il PIL e le entrate fiscali, certo non la spesa pubblica e i trasferimenti a favore delle famiglie meno abbienti. 4.2.

A S P ET T I M I C RO E M A C RO D E L S ETTO R E P U B B L I C O

Gli accordi che portarono alla creazione dello SME, alla firma del successivo Atto unico europeo e infine al Trattato di Maastricht segnarono la fine della politica della spesa pubblica per attivare il consenso e scaricare sul bilancio pubblico i rischi dei cittadini, a cominciare dalla sanità e dalla previdenza. Portarono a questo cambiamento sia ragioni economiche e istituzionali sia le pressioni esercitate dagli altri membri della UEM. A questa conclusione si giunse senza analizzare il funzionamento degli apparati pubblici, senza avere un indicatore di efficienza aziendale, senza verificare le conse­ guenze della disorganizzazione esistente in alcune amministrazioni centrali e locali, e della confusione nella normativa. Il risultato è stato solo un rallentamento della spesa. Contribuisce ali' inefficacia delle politiche di riduzione della spesa la burocrazia, che sfruttando l'asimmetria informativa nei confronti dei politici e la mancanza delle tec­ nologie dell'informazione alimenta una rincorsa alla crescita delle risorse a disposizione, ma non fornisce alcun riscontro sul loro uso efficiente. La burocrazia risulta, così, poco controllabile socialmente e più esposta al rischio della corruzione e della concussione5• In compenso, negli ultimi trent 'anni, le leggi finanziarie e assimilate che defini­ scono le linee di politica fiscale nel triennio successivo assegnano cifre cervellotiche alla riduzione degli sprechi, ai risparmi negli acquisti, al blocco delle assunzioni, alla razionalizzazione delle scorte monetarie di tesoreria ecc. Con esiti pressoché nulli a posteriori. Infine, il decentramento istituzionale e operativo ha di fatto quasi annullato lo strumento anticongiunturale della spesa pubblica, poiché solo un terzo della spesa è nella competenza diretta del governo centrale, l'altro terzo è gestito dagli enti locali G. M. Rey, Informazione e politiche pubbliche: non e mai troppo tardi, in N. Acocella, G. M. Rey, M. Tiberi (a cura di), Saggi di politica economica in onore di Federico Caffè, vol. III, FrancoAngeli, Milano 1999, pp. 130-70. 25.

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e il restante 40% è di competenza degli enti previdenziali, mentre le spese per inve­ stimenti fissi sono effettuate per oltre due terzi del totale dagli enti locali. In sintesi, senza un'attenta valutazione degli effetti diretti e indiretti delle riforme istituzionali, si registra a posteriori un impatto negativo sull'efficacia e soprattutto sull'efficienza della politica fiscale, e maggiori conflitti fra amministrazioni centrali e locali. 4·3·

S T RU T T U RA P R O D U TT IVA E P O L I T I C H E S ET T O R I A L I

Il progresso tecnologico, l'aumento del reddito, la conseguente riallocazione dei con­ sumi dai beni ai servizi e la concorrenza dei paesi emergenti hanno modificato la struttura produttiva dell' Italia e degli altri paesi di prima industrializzazione a favore del terziario. L'apertura dei mercati richiedeva una crescita sostenuta della produttività, ma il terziario, a parità di aumenti salariali, aveva una dinamica della produttività più lenta e ne conseguiva l'aumento dei prezzi relativi a suo favore. La svalutazione della lira riequilibrava i rapporti, ma a partire dalla metà degli anni Novanta questo riequi­ librio non si poteva più realizzare ed è quindi entrato in crisi il settore manifatturiero, che vedeva diminuire la sua domanda sia interna sia estera, e quindi la sua produttività e i suoi profitti con conseguenze negative sui processi di innovazione e con la tentazione per i proprietari di spostare le risorse verso il settore protetto, i servizi; tentazione a cui hanno ceduto numerosi grandi gruppi italiani. Inoltre l'aumento della distanza dai mercati di sbocco colpiva la piccola impresa italiana, che, in molti casi, si trovava anche in un delicato momento di cambio generazionale ai vertici dell'azienda. Non meno delicata era la situazione delle grandi imprese alle prese con il pro­ blema, sostanzialmente irrisolto, della loro governance, nonostante le numerose leggi che ne hanno dettato la disciplina e le diverse autorità che dovrebbero vigilare sulla loro applicazione. Un momento delicato di trasformazione e di crisi nelle grandi aziende si è verificato all'inizio degli anni Ottanta, quando l'aumento dei tassi di interesse reali modificò la ripartizione del margine operativo fra il capitale produttivo e il capitale finanziario. Le società erano in rosso nelle attività produttive e gli utili venivano dal differenziale fra tassi attivi e tassi passivi, dalla gestione oculata del capitale circolante, dalla corretta gestione del rischio e delle scadenze. Gli alti tassi di interesse e la possibilità di inter­ venire nei mercati finanziari internazionali globalizzati avevano assegnato un ruolo strategico alla funzione finanziaria aziendale all'interno delle grandi imprese. Il cam­ biamento nell'allocazione delle risorse e dei poteri dal capitale produttivo al capitale finanziario portò con sé la riduzione dell'orizzonte temporale degli investimenti e la modifica del rischio aziendale. Si verificò un'alleanza-concorrenza fra banca e finanza, e la privatizzazione delle imprese pubbliche consentì a investitori privi di capitali, ma dotati di ottime relazioni con le banche, di acquisire ingenti capitali azionari, con il duplice effetto negativo di alimentare il potere sia della funzione finanziaria aziendale sia delle banche, che si esponevano, anch'esse, al duplice rischio, industriale e finan157

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ziario, come è emerso durante la recente crisi finanziaria. Le grandi imprese attive potevano finanziarsi direttamente o tramite le banche sui mercati finanziari mondiali, e in alcuni casi hanno verificato la convenienza a trasferire in tutto o in parte le sedi aziendali nei paesi che godono di un vantaggio nel rating e in molti casi anche di un vantaggio fiscale ( ad es. il Belgio e i Paesi Bassi, all'interno dell' UEM ) . La crisi finanziaria ha evidenziato il conflitto fra grandi imprese e piccole e medie imprese nell'accesso al credito bancario, poiché la creazione dei grandi gruppi bancari, come esito della riforma della legge bancaria del 1936, ha in sostanza discriminato le piccole e medie imprese nelle operazioni di prestito, e la riduzione del risparmio fami­ liare ha ridotto la convenienza nella sua raccolta allo sportello. Vi è stata una rialloca­ zione delle finanze private basate sull'aspettativa di guadagni, peraltro più rischiosi. Le conseguenze sono state le risorse pubbliche destinate al sostegno dell'occupazione per le imprese italiane in crisi, ma anche di alcune banche poco attente al rischio. Una stretta monetaria e/ o una crisi economica sistemica, oppure settoriale, penalizzano le nostre medie e piccole imprese e i loro progetti innovativi, limitando la concessione di prestiti bancari anche per le pesanti regole di Basilea 1, 2, 3 ecc. Il ricorso alla regolamentazione come alternativa oggettiva alla discrezionalità delle banche centrali e delle istituzioni di vigilanza probabilmente ridurrà il rischio di insolvenza delle banche e soprattutto il rischio sistemico difficilmente affrontabile senza un'operazione di vigilanza internazionale. L'esperienza insegna che la creati­ vità della finanza si è rivelata inesauribile : la Cina, ad esempio, ha mostrato l'esi­ stenza di un sistema bancario non ufficiale parallelo. Per quanto riguarda il risparmio, la crisi e il consolidamento fiscale hanno ridotto il reddito disponibile e minato la propensione al risparmio delle famiglie - tradizionale punto di forza dell'economia italiana. Tuttavia il differenziale fra mercato dei titoli di Stato all'e­ missione e mercato secondario dimostrano che i risparmiatori italiani sono tornati a comprare titoli pubblici, apprezzati in modo particolare perché ritenuti meno rischiosi. Ugualmente le banche hanno ritenuto conveniente acquistare titoli di Stato italiani, che grazie alla politica monetaria della B C E sono da considerare liquidi e quindi non richiedono onerosi accantonamenti per aumentare i fondi propri delle banche, per il momento.

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Conclusioni

La crisi recente e le difficoltà dell'econom ia italiana e dell'euro hanno sollecitato un bilancio del processo di integrazione monetaria, da cui risulta che in questi anni l' Italia ha ridotto la rigidità del mercato del lavoro ma con effetti discutibili sulla qualità del lavoro e sulla sua produttività, ed è aumentata la flessibilità del sistema produttivo con il decentramento delle fasi più labour intensive e a basso contenuto

M O LTO RUM O RE PER NULLA : LA POLI T I CA ECONOMICA IN ITALIA

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di valore. Si sono ottenuti limitati miglioramenti nell'efficienza del settore terziario per l'aumento, peraltro modesto, della concorrenza nelle reti fornitrici di energia, nei trasporti e nelle ICT. Soprattutto si è ottenuto un efficace controllo dell' inflazione dovuto alla strategia della BCE, al comportamento prudente delle parti sociali e alla protezione svolta dall'euro nei confronti dei prezzi delle materie prime quotate in dollari. Con le privatizzazioni è stata ridotta la presenza del settore pubblico in alcuni settori strategici (sistema bancario, industria manifatturiera, I C T ) . Contrastanti sono i giudizi sui risultati ottenuti poiché, esauriti gli effetti della svalu� tazione della lira, l'Italia continuava a perdere quote di mercato all'esportazione e a rimanere in una situazione economica stazionaria. Non sono mancate le critiche per la sopravvalutazione dell'euro e per la mancanza di una politica a favore delle imprese esportatrici per contrastare la concorrenza e i flussi commerciali dei paesi emergenti sui nostri mercati di sbocco e sul mercato interno. Si è tentato di ridurre il divario di com­ petitività con i nostri concorrenti riducendo il costo del lavoro, ma era l'illusorio tentativo di scaricare sul costo del lavoro l'assenza di innovazione e di investimenti produttivi. La grande impresa, il cui numero e peso economico continuano ad assottigliarsi, ma non il suo potere nei mass media, non condivide, nei fatti, la strategia di riqualifi­ cazione dell'offerta, e, poiché non prevede un aumento della domanda effettiva italiana, si limita a chiedere la riduzione delle imposte per le imprese e per i consumatori. Le grandi imprese più innovative, invece, cercano alleanze all'estero per partecipare ai processi di innovazione (ad es. automotive) e alla segmentazione dei mercati di sbocco. Purtroppo i governi pro tempore non hanno ritenuto praticabile una politica di sviluppo basata sulla riqualificazione dell'offerta oppure su un'efficace politica setto­ riale finalizzata all 'aumento della produttività. L'innovazione richiesta alle imprese per migliorare la competitività avrebbe dovuto essere applicata anche alle ammini­ strazioni pubbliche, alla loro organizzazione e ai servizi forniti, in particolare a quelli destinati alle imprese. In effetti, vi è stato uno sforzo in questa direzione e vi sono amministrazioni che forniscono e ricevono servizi in rete ( INPS, Agenzia delle entrate, dogane ecc.) , ma raramente hanno fatto anche uno sforzo organizzativo e continuano invece ad avvalersi di intermediari informatizzati ( CAF, commercialisti, geometri) nei loro rapporti con i cittadini e con le imprese. E indispensabile migliorare il funzionamento delle istituzioni (mercati, imprese private e pubbliche, amministrazioni pubbliche, regole, diritti di proprietà, controlli, giustizia) al fine di ridurre i costi di transazione e aiutare lo sviluppo economico e sociale. Per ottenere questi risultati non sono necessarie riforme ma solo una corretta applicazione delle norme esistenti e l'utilizzo diffuso delle I C T nelle amministrazioni, nelle piccole e medie imprese e nelle famiglie, evitando di pensare che basti una legge . per Innovare. Le attuali difficoltà avranno, come esito auspicabile, l'aumento dell'efficienza e l'uscita dal mercato delle imprese marginali. Aumenterà quindi temporaneamente la disoccupazione, si ridurranno i redditi da lavoro, i consumi privati. Senza una sostan'

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ziale modifica nelle politiche e nei comportamenti delle imprese e delle banche si realizzerà l'aspettativa di chi considera l' Italia destinata alla stagnazione per ragioni demografiche, per mancanza di capitali, per le resistenze all 'aumento della dimen­ sione media di impresa, per la continua diminuzione del numero delle grandi imprese6• Resistono le medie e piccole imprese che hanno saputo innovare nelle tecnologie, nei prodotti e nell'organizzazione. La crisi economica e il consolidamento fiscale, inclusa la lotta all'evasione, hanno agito sul risparmio, tradizionale punto di forza dell'economia italiana, poiché la riduzione del reddito disponibile delle famiglie ha avuto effetti negativi anche sulla propensione al risparmio. L'insieme di questi fattori fornisce una spiegazione ma non giustifica l'assenza di chiare strategie di sviluppo per l' Italia e il rallentamento registrato nel processo di accumulazione reale. Finalmente gli economisti del principe e i governi nutrono il dubbio che l'austerità non sia sinonimo di crescita economica e che vi sia spazio per una politica fiscale più articolata del Fiscal Compact. I trattati che hanno innovato nelle regole e negli obiettivi dell' Unione hanno sempre richiamato l'esigenza di favorire la crescita, l ' innovazione e la solidarietà sociale. La teoria della politica economica ammonisce che è indispensabile collegare gli obiettivi agli strumenti, e questi ultimi devono essere efficaci ed efficienti, ma soprattutto è indispensabile individuare i responsabili delle politiche, che devono essere chiaramente identificati. In questo ambito, la posizione delle istituzioni comu­ nitarie è stata sovente ambigua e oscillante fra gli organismi dell ' Unione, i governi nazionali e i governi regionali. Esiste una contraddizione fra l'autonomia ammini­ strativa e normativa dei paesi membri e l'uniformità nelle politiche economiche suggerite, come se le due componenti fossero indipendenti, non riflettendo, invece, che Stato e mercato sono come due lame di una forbice. Su questi aspetti sta cre­ scendo una certa consapevolezza nei governi, speriamo solo che questi sappiano essere lungimiranti come lo furono i padri della Comunità economica europea.

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P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica dell'Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 1 60

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ziale modifica nelle politiche e nei comportamenti delle imprese e delle banche si realizzerà l'aspettativa di chi considera l' Italia destinata alla stagnazione per ragioni demografiche, per mancanza di capitali, per le resistenze all 'aumento della dimen­ sione media di impresa, per la continua diminuzione del numero delle grandi imprese6• Resistono le medie e piccole imprese che hanno saputo innovare nelle tecnologie, nei prodotti e nell'organizzazione. La crisi economica e il consolidamento fiscale, inclusa la lotta all'evasione, hanno agito sul risparmio, tradizionale punto di forza dell'economia italiana, poiché la riduzione del reddito disponibile delle famiglie ha avuto effetti negativi anche sulla propensione al risparmio. L'insieme di questi fattori fornisce una spiegazione ma non giustifica l'assenza di chiare strategie di sviluppo per l' Italia e il rallentamento registrato nel processo di accumulazione reale. Finalmente gli economisti del principe e i governi nutrono il dubbio che l'austerità non sia sinonimo di crescita economica e che vi sia spazio per una politica fiscale più articolata del Fiscal Compact. I trattati che hanno innovato nelle regole e negli obiettivi dell' Unione hanno sempre richiamato l'esigenza di favorire la crescita, l ' innovazione e la solidarietà sociale. La teoria della politica economica ammonisce che è indispensabile collegare gli obiettivi agli strumenti, e questi ultimi devono essere efficaci ed efficienti, ma soprattutto è indispensabile individuare i responsabili delle politiche, che devono essere chiaramente identificati. In questo ambito, la posizione delle istituzioni comu­ nitarie è stata sovente ambigua e oscillante fra gli organismi dell ' Unione, i governi nazionali e i governi regionali. Esiste una contraddizione fra l'autonomia ammini­ strativa e normativa dei paesi membri e l'uniformità nelle politiche economiche suggerite, come se le due componenti fossero indipendenti, non riflettendo, invece, che Stato e mercato sono come due lame di una forbice. Su questi aspetti sta cre­ scendo una certa consapevolezza nei governi, speriamo solo che questi sappiano essere lungimiranti come lo furono i padri della Comunità economica europea.

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economie tra loro maggiormente integrate si sono determinati meccanismi di sviluppo similari che hanno avvicinato i singoli comparti produttivi sul piano delle tecnologie utilizzate, delle politiche economiche e sociali, dei rapporti con il mercato degli input e dei prodotti, della ricerca di nuovi modi di uso delle risorse naturali. La gran parte delle agricolture più sviluppate del pianeta e, tra esse, l'agricoltura italiana è stata pienamente partecipe di questo processo di trasformazioni convergenti sul quale hanno esercitato un'azione particolarmente importante quattro "fattori di contesto": a ) le caratteristiche delle nuove tecnologie disponibili; b) il completamento del passaggio dell'agricoltura da settore economico distinto a segmento integrato nel sistema agroindustriale; c) l'evoluzione dell 'assetto mondiale del sistema agroalimentare contemporaneo; d) la crisi del modello produttivo dell'agricoltura e la revisione dell' intervento di sostegno per il settore. Le direzioni in cui hanno agito questi fattori possono essere sinteticamente indi­ cate nei termini seguenti. a ) Il flusso di progresso tecnologico che la globalizzazione ha reso disponibile in maniera diffusa nell'ultimo trentennio ha avuto la caratteristica intrinseca di essere in larga misura non condizionato dalle barriere strutturali e protezionistiche che per lungo tempo erano state di ostacolo alla sua applicazione. Nel passato, infatti, quella che è stata la forma per eccellenza assunta dall' innovazione tecnologica in agricoltura - la meccanizzazione - ha richiesto lunghi tempi di introduzione e di adattamento prima di raggiungere un livello generalizzato e articolato di adozione. Negli anni presi in considerazione, invece, il progresso tecnologico ha fatto registrare una for­ midabile accelerazione nei tempi di applicazione, trattandosi di innovazioni - come ad esempio quelle di natura informatica, biochimica, genetica, organizzativa - carat­ terizzate da possibilità di utilizzazione scarsamente condizionate dalla scala di dimen­ sione economica delle aziende o dalla resistenza di una poco recettiva imprenditoria agricola, anch'essa decisamente affrancata dai comportamenti tradizionali del passato. Lo stesso crescente intervento delle multinazionali nella produzione delle nuove tecnologie, con tutte le sue pesanti e discusse implicazioni, ha giocato un ruolo importante nel renderle pervasive e applicabili su scala mondiale ad ampie aree, con il risultato di avvicinare il livello medio di produttività di sistemi agricoli anche tra loro molto diversi. b) Il definitivo superamento della dimensione settoriale del processo organizzativo e produttivo dell 'agricoltura ha caratterizzato la vicenda economica recente di tutte le economie avanzate. Nel periodo considerato il completamento e l ' intensificazione del passaggio - in alcuni casi già avanzato - da settore economico distinto, a segmento di un'economia di sistema, hanno modificato alla base le relazioni dell 'agricoltura con il contesto economico complessivo e le sue diverse componenti. All'evoluzione strutturale e tecnologica del settore primario, infatti, in misura molto maggiore che nel passato, si è accompagnata la progressiva disintegrazione verticale di un numero

L 'AGRIC O LTURA : DALLA MARGINALITÀ ALLA GLO BALIZZAZIONE

crescente di funzioni tradizionalmente svolte da unità produttive interne o struttu­ ralmente vicine all'agricoltura, con il loro successivo trasferimento a imprese esterne al settore primario. In questo modo si sono definite attività sempre più specializzate e di carattere industriale che sono andate a costituire gli anelli di una lunga catena attraverso la quale il prodotto primario raggiunge per vari stadi, e con successive aggiunte di valore, la forma e la qualità di prodotto alimentare da collocare sul mer­ cato di consumo finale3• Con particolare intensità nel corso degli ultimi trent'anni, queste trasformazioni tecnologiche e organizzative, e i vari e distinti percorsi specia­ listici produttivi o di servizio, si sono gradualmente ricomposti in una configurazione di sistema agroalimentare nel cui ambito l'agricoltura ha articolato la sua attività attraverso un'ampia interazione con tutte le altre componenti produttive. Un sistema costituito, da un lato, dai vari settori a monte ( meccanico, chimico, biotecnologico, informatico, energetico, finanziario ecc. ) che producono input intermedi e beni capitali per attivare il processo produttivo primario ; e, dall'altro, dall' insieme artico­ lato dei settori a valle, comprendente l'industria di trasformazione alimentare, la logistica e, soprattutto, i servizi di imballaggio e trasporto, la distribuzione all'in­ grosso e quella al dettaglio. A questi si aggiungono, con sempre maggiore importanza, il settore della ristorazione, quello agrituristico, quello pubblicitario. Attraverso il progressivo consolidamento di complessi sistemi agroalimentari, le agricolture delle economie avanzate, nonostante la presenza di caratteri strutturali differenziati, hanno raggiunto livelli molto spinti di integrazione e interrelazione con i relativi sistemi economici di appartenenza, modificando il ruolo svolto in passato in condizioni di tradizionale separatezza e realizzando una più diretta partecipazione alle generali politiche economiche, sociali, monetarie e di rapporti internazionali. Inoltre, negli anni più recenti, nella generalità delle stesse economie avanzate, accanto allo sviluppo del sistema agroalimentare mainstream - necessariamente basato sulla produzione alimentare di massa, anche di qualità - ha trovato spazio crescente la formazione di mercati fondati su produzioni locali trasformate nelle aziende agricole e da esse direttamente vendute, con spiccate e particolari caratteristiche di qualità, freschezza, basso impatto ambientale, rispondenza alla cultura e alle tradizioni alimentari terri­ toriali. Un'agricoltura che si potrebbe definire postmoderna e la cui presenza è divenuta ampio oggetto di analisi e attenzione4 in quanto costituisce un fenomeno, come si vedrà più avanti, che tende a intensificarsi e a introdurre ulteriori e impor3· L. Malassis, Economie agro-alimentaire, I. Economie de la consommation et de la production agro­ alimentaire, Cujas, Paris 1979; P. De Muro, Sul concetto difiliera, in "La Questione Agraria", I992, 46, pp. IS-79· 4· S. Martinez et al , Local Food Systems: Concepts, Impacts, and Issues, USDA, Economie Research Report, n. 97, May 20IO, http :// www.ers.usda.gov/media/I22868/err97 _I_.pdf; USDA Agricultural Projections to 202I, Long Term Projections Report OCE-20I2-I, February 20I2 http :// www.usda.gov/ oce/ commodityl archive_projections/ USD AAgriculcuralProjections2o 2 I.pdf; IN EA, Rapporto sullo stato dell'agricoltura 20I3, a cura di A. Pesce, http :/ l dspace.inea.it/handle/inea/ 637.

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tanti elementi innovativi nella molteplicità delle funzioni che il settore è chiamato a svolgere nella società contemporanea. c) Il terzo elemento che ha partecipato a definire il contesto al cui interno si deve vedere inserita l'evoluzione dell'agricoltura italiana fa riferimento all'assetto che nell'ultimo trentennio è venuto assumendo il sistema agroalimentare mondiale. Si tratta di un assetto molto diverso da quello maturato negli anni Settanta e che, anziché per agricolture nazionali distinte, si è configurato come un insieme di aree agricole sovranazionali tra loro molto competitive e fortemente integrate al proprio interno sul piano produttivo e commerciale. In questa direzione un ruolo da protagonista è stato svolto dall'agricoltura europea. Essa, partendo dal consolidamento del nucleo iniziale e ricomponendo le vecchie divisioni continentali, soprattutto dopo la crisi delle economie socialiste, si è ulteriormente ampliata raggiungendo dimensioni rile­ vantissime e crescenti, con possibili propaggini nel bacino del Mediterraneo. Gli USA, d'altra parte, che dagli anni Ottanta hanno visto mettere in discussione il loro ruolo egemonico svolto nel passato, con il North American Free Trade Agreement ( NAFTA ) hanno promosso il consolidamento di un'ampia area economica di libero scambio (con Canada e Messico) dove il settore agricolo ha assunto un ruolo assolutamente importante e nell'insieme di grande peso specifico a livello mondiale. In America Latina, ancora, il MERC O SUR si è esteso dai paesi iniziali (Brasile, Uruguay, Argentina, Paraguay) alla maggior parte delle altre economie dell'area, tutte con un rilevante e dinamico settore agricolo. Sul fronte asiatico, infine, si è venuta formando un'area particolarmente aggressiva sul piano economico generale, con enormi potenzialità di sviluppo agricolo. In questa regione, negli ultimi venti-trenta anni, prima la Cina e poi anche l' India, ambedue sulla spinta di una straordinaria esperienza di intenso e continuo sviluppo economico, hanno avviato una sensibile crescita del settore agricolo. In questo modo, nonostante la permanenza di quote notevoli di povertà rurale e di squilibri territoriali, la frontiera tecnologica e produttiva delle relative agricolture è stata spostata decisamente in avanti, consentendo a questi due giganti economici di giocare un ruolo significativo a livello di sistema agroalimentare mondiale. Ma questo è un discorso che vale per tutte le economie dei paesi BRI C S (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) le quali, soprattutto nell'ultimo decennio, hanno teso a tenersi tra loro collegate, a dare una particolare attenzione ai propri sistemi agroalimentari e a cercare anche di coordinarsi nelle sedi (ad es. World Trade Organization) in cui ven­ gono discussi gli accordi internazionali in materia agricola. Tutto ciò, senza contare l'accresciuto peso di paesi produttori agricoli con grandi disponibilità di risorse come Australia e Oceania e i progressi verificatisi anche nelle altre economie asiatiche o in Sudafrica. Solo una parte grande dell'Africa povera e affamata è rimasta isolata e poco organizzata sul piano della riorganizzazione del settore agricolo, associata alle tante altre sezioni sparse sul pianeta in cui persiste - nonostante qualche significativo segno di cambiamento in atto - la condizione di difficile accesso alle disponibilità alimentari nazionali e internazionali.

L 'AGRIC O LTURA : DALLA MARGINALITÀ ALLA GLO BALIZZAZIONE

A livello internazionale, quindi, anche dal punto di vista agricolo, in questi trent 'anni si è assistito a un insieme di realtà in movimento che ha determinato la condizione di transizione che sta tuttora vivendo l'intero assetto del sistema agroa­ limentare mondiale5• Da qui si sono generate pesanti ripercussioni sulle agricolture delle cosiddette economie avanzate - quella statunitense e quelle europee, in primo luogo - verosimilmente vicine alla perdita dell'egemonia mondiale finora esercitata, e costrette a competere in uno scenario denso di variabili di difficilissimo controllo (i tre nd della domanda alimentare, le diversificate potenzialità di offerta, l'incertezza e la volatilità dei prezzi, la competitività delle produzioni di carattere non alimentare, ad esempio il biofuel). d) La crisi del modello produttivo tradizionale di agricoltura e le tendenze verso un nuovo paradigma di politiche agrarie costituiscono congiuntamente il quarto "fattore di contesto" che ha agito in questo periodo. Il rischio collegato alla possibilità di mantenere in forme inalterate, se non addirittura intensificate, i caratteri e le moda­ lità assunti negli anni precedenti dal processo produttivo agricolo è divenuto un problema reale e diffuso per tutte le economie industrialmente avanzate. Il modello di sviluppo del settore generalmente adottato è stato eccessivamente intensivo e consumatore di risorse (non solo finanziarie) . Risorse come la terra, l'acqua, l'energia da materie prime non rinnovabili non sono più disponibili in quantità illimitate e i loro prezzi hanno teso progressivamente a salire, mutando consolidati rapporti di convenienza. L'erosione dei suoli, l'inquinamento delle acque e dell'aria, la diminu­ zione delle falde acquifere, il peggioramento dell'habitat naturale sono stati effetti drammatici di uno sviluppo eccessivamente intensivo. Sul processo produttivo si è esercitata la pressione di un continuo e intenso flusso tecnologico che l'ha reso dipendente quasi totalmente da input materiali e di servizio costosi, complessi e sofisticati che hanno intaccato in maniera dirompente la vulnerabilità delle risorse naturali, avvicinandosi pericolosamente al raggiungimento (o al superamento ?) della soglia dello "sviluppo sostenibile". Indistintamente tutte le agricolture del pianeta stanno sperimentando un'inedita e difficilissima interazione con vincoli che prima non avevano assolutamente conosciuto, alla ricerca degli strumenti d'intervento adeguati a far sì che la dimensione ambientale - divenuta componente imprescindi­ bile nella funzione di benessere della collettività - sia assunta come endogena al processo produttivo agricolo e nello stesso tempo resa compatibile con il manteni­ mento del livello di offerta alimentare richiesto6• Quest'esigenza si coniuga con la consapevolezza progressivamente maturata, proprio a cominciare dagli anni Ottanta, e in primo luogo nei paesi industrializzati,



P. Conforti (ed.), Looking Ahead in World Food and Agriculture: Perspectives to 2050, FAO, Rome

20II. 6. M. De Benedictis, F. De Filippis, L'intervento pubblico in agricoltura tra vecchio e nuovo para­ digma: il caso dell'Unione Europea, in " QA Rivista dell 'Associazione Rossi-Doria", 7 I, I998, pp. 7-65. x 6s

GUIDO FAB IANI

di non poter ulteriormente rimandare l'avvio di una profonda revisione delle tradi­ zionali e costose politiche operanti a tutela del settore e attivate unicamente in funzione delle quantità prodotte. Ciò, tra l'altro, corrisponde anche al mutamento sociale che ha visto drasticamente ridimensionarsi le forze rappresentative degli inte­ ressi agricoli che avevano giocato un ruolo rilevantissimo per l'affermazione iniziale del modello di sviluppo e per le relative politiche agricole. E significativo che negli USA i pochi agricoltori che sono rimasti a reggere le sorti del settore primario con­ temporaneo siano stati definiti "una nuova minoranza"7• Ma è noto che in precedenza già altri avevano parlato della "fine dei contadini"8 come risultato di un processo storico che nella sua evoluzione e nelle sue motivazioni è stato ben descritto da De Benedictis9• Qui bisogna ricordare che quelle politiche, riprese dall'esperienza del New Dea!, alla fine degli anni Cinquanta furono importate nel contesto agricolo comunitario europeo, di cui faceva parte integrante l'agricoltura italiana. Di quelle politiche le principali agricolture dell'Europa si sono servite in misura importante per accompa­ gnare e favorire il proprio sviluppo attraverso un forte cambiamento nelle strutture e nei processi produttivi. Di conseguenza, l'azione intrapresa negli ultimi anni a livello di U E al fine di un loro completo superamento sta comportando un notevole sconvolgimento in realtà che si erano ben consolidate in tutta l'agricoltura europea, compresa quella italiana. Realtà che ora debbono confrontarsi, da un lato, con il progressivo ridimensionamento delle risorse finanziarie attribuite al sostegno diretto delle produzioni e, dall'altro, con l'assunzione dello spazio rurale come sede di un insieme di attività economiche, non più solo strettamente agricole. Con un inter­ vento, perciò, maggiormente orientato verso obiettivi di natura qualitativa e ambien­ tale e mirato al sostegno di finalità produttive inserite in una dimensione multifun­ zionale dell'azienda agraria10• '

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Gli anni Ottanta: un p eriodo di discontinuità nello sviluppo dell 'agricoltura italiana

L' insieme delle azioni messe in moto da questi diversi "fattori di contesto" ha piena­ mente coinvolto l'agricoltura italiana. Da questo, perciò, non si può prescindere per comprendere e raccontare la gran parte delle straordinarie trasformazioni che in questi ultimi trent'anni le hanno dato dimensioni e funzioni completamente nuove condu7· G. C. Fite, American Farmers: The New Minority, Indiana University Press, Bloomington I98I. 8. H. Mendras, La fin des paysans, SEDEIS, Paris I967. 9· M. De Benedictis, La questione contadina: ieri e oggi, Lezione Rossi-Doria, Roma 2008. IO. OECD, The Future ofRural Policy: From Sectoral to Place-Based Policies in Rural Areas, OECD, Paris 2003; Id., The New Rural Paradigm: Policies and Government, OECD, Paris 2006.

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L 'AGRIC O LTURA : DALLA MARGINALITÀ ALLA GLO BALIZZAZIONE

cendo al superamento delle vecchie categorie, come la "questione agrarià' o quella "meridionale': attraverso le quali ci si era abituati a guardarla e a interpretarne la storia. L'agricoltura italiana in questo periodo ha cambiato pelle. Non può più essere considerata un settore isolato, arretrato e marginale, o la sede di specifici contrasti sociali: condizioni che nel passato avevano insieme frenato lo sviluppo del paese. Essa è da tempo inserita in un percorso di modernizzazione che la costringe a misurarsi con problemi economici, ambientali e sociali di dimensioni e qualità che riflettono da vicino i cambiamenti e le difficoltà che sull 'onda della globalizzazione hanno interessato ogni segmento dell'intera struttura dell'economia e del sistema sociale e culturale del paese. Ancora negli anni Settanta si discuteva della contrapposizione tra le forme contadine e capitaliste delle aziende agricole, come se dalla prevalenza delle une sulle altre, o viceversa, dovesse dipendere la maggiore o minore funzionalità del settore primario allo sviluppo economico e sociale complessivo11• Va detto che questo dibattito è diventato con il tempo sempre meno rilevante, giacché in questi ultimi trent'anni l'organizzazione e il funzionamento del settore agricolo in Italia ha dovuto collocarsi in una prospettiva globale dello sviluppo, superando la visione dei problemi limitata alla stretta dimensione nazionale. In questo periodo, in sostanza, ha prevalso la spinta verso l'allineamento ai trend che si erano e si sono nel frattempo imposti su scala globale. E nella chiave della globalizzazione, quindi, che vanno prevalentemente interpretate le trasformazioni che hanno interessato l'agricoltura ita­ liana nell'ultimo trentennio. È noto che caratteri originari e squilibri di vario tipo (tra i quali il processo risorgimentale dell'unificazione, un' industrializzazione fortemente accelerata, un quadro politico bloccato dalla Guerra fredda e da una divisiva contrapposizione politico-sindacale) hanno creato le condizioni di una duratura e generale arretratezza dell'economia agricola italiana, frenandone nel tempo lo sviluppo diffuso e compiuto. Oggi si può al contrario sostenere che gli ultimi trent'anni siano stati testimoni di una trasformazione accelerata, esterna e interna al settore, che ha lasciato alle spalle molti di quei caratteri, costituendo una vera svolta rispetto alle modalità e ai ritmi del percorso di cambiamento che pure si era realizzato fino agli anni Settanta. Riflet­ tendo in una visione di lungo periodo, il 1980 rappresenta realmente una data di cesura tra due fasi di diverso sviluppo dell 'agricoltura italiana. Nella prima, hanno agito varie spinte: in primo luogo la riforma agraria, poi il miracolo economico che ha sollecitato dinamicamente tutto il sistema-paese, infine l 'entrata nella CEE e l'at­ tivazione di una politica comune alle sei agricolture più sviluppate del vecchio con'

I I. C. Barberis, V. Siesto, Produzione agricola e strati sociali, FrancoAngeli, Milano I974; G. Fabiani, M. Gorgoni, Un 'analisi delle strutture dell'agricoltura italiana, in "Rivista di Economia Agraria", XXVIII, 1 973, 6, pp. 6 s-n8; M. De Benedictis, V. Cosentino, Economia dell'azienda agraria, il Mulino, Bologna 1 979; V. Cosentino, R. Fanfani, M. Gorgoni, Alcuni aspetti dello sviluppo dell'agricoltura del Mezzo­ giorno, in A. Graziani, E. Pugliese (a cura di), Investimenti e disoccupazione nel Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1979.

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tinentel. Grazie a tutto ciò l'agricoltura italiana si è innanzi tutto svecchiata mettendo definitivamente da parte latifondo e rendita parassitaria, poi ha cominciato a inten­ sificare il processo produttivo, a utilizzare irrigazione, macchine e fertilizzanti, ha imparato a sentire il fiato della competizione d'oltralpe, si è data forme organizzative di mercato, e ha fatto sicuramente tant 'altro, distaccandosi in buona parte dai pro­ blemi e dallo stato di arretratezza iniziali. Ma a nessuno può sfuggire che nell'arco di tempo della prima fase, lo sviluppo del settore sia rimasto in qualche modo frenato, non assimilabile a quanto stava avvenendo nelle altre economie agricole europee. Alla fine degli anni Settanta, l'agricoltura italiana si presentava ancora con un carico di forza lavoro in eccesso rispetto alle esigenze (3 milioni di occupati, quasi pari al 14% dell'occupazione totale, contro 1' 8,5 e il s,s% dell'agricoltura francese e tedesca) e con una struttura aziendale caratterizzata dalla prevalenza assoluta e condizionante di unità di piccolissime dimensioni ( oltre 1,2 milioni di aziende sotto un ettaro di dimensione ! ) . Senza contare che la presenza di molti elementi di arretratezza, in particolare nell'agricoltura del Mezzogiorno, costituiva parte integrante del perma­ nente dualismo economico tra il Nord e il Sud del paese. Con una certa dose di schematismo interpretativo, si potrebbe sostenere che lo sviluppo, pur importante, che ha interessato l'agricoltura italiana dal dopoguerra fino al 1980 sia stato il frutto di un lento processo di adattamento delle strutture produt­ tive ( quelle emerse dallo scosso ne della riforma agraria e dalle sollecitazioni del miracolo economico ) alla condizione di settore tutelato e protetto in tutte le sue componenti dall'ombrello della politica comunitaria, che allora assicurava prezzi sostenuti e sbocchi garantiti. Uno sviluppo realizzatosi con aggiustamenti progressivi di quella politica e senza traumi strutturali significativi, quasi impostato a dover garantire il mantenimento di una sorta di continuita sociale nel settore. E non è un caso che nell 'analisi del settore agricolo di quegli anni venisse usata molto spesso ( forse con qualche esagerazione ) la categoria della marginalita, per definirne se non l'estraneità, certamente la limitata partecipazione ai processi di sviluppo complessivi del paese. In altra sede, riferendosi alla situazione dell'agricoltura italiana tra la fine degli anni Settanta e l' inizio del decennio successivo si sosteneva: Durante questa fase i cambiamenti hanno inciso maggiormente sul modo di organizzarsi interno delle aziende, sugli ordinamenti produttivi, sul rapporto tra lavoro e terra, lavoro e capitale, capitale e terra, tra forme di lavoro diverse, ma non hanno intaccato le strutture aziendali [ ... ]. Sono state le convenienze di mercato, il flusso delle innovazioni e le spinte provenienti dall'andamento generale dell'economia a essere determinanti. Non vi sono stati, infatti, interventi di carattere strutturale mentre il controllo del settore ha continuato a essere esercitato quasi esclusivamente attraverso le regolamentazioni dei prezzi dei prodotti'3•

12. M. Rossi-Doria, L 'agricoltura e l'Europa, in "La Rivista Trimestrale", 1964, u-12, pp. 5 82-607. 13. G. Fabiani, L 'agricoltura italiana tra sviluppo e crisi, 1945-19Ss, il Mul ino, Bologna 1986, p. 347· 168

L 'AGRIC O LTURA : DALLA MARGINALITÀ ALLA GLO BALIZZAZIONE '

E stata la tutela protezionistica esercitata dall'intervento europeo a costituire il principale fattore di accompagnamento dello sviluppo dell'agricoltura europea e di quella italiana, traducendosi essenzialmente in un aumento della produzione4• L' O ECD ha calcolato che nel 1986 il valore monetario dei trasferimenti a vantaggio dei produttori agricoli europei (con un corrispondente sostegno dei redditi di questa fascia sociale) avesse raggiunto il 40% della produzione settoriale sulla base di un livello dei prezzi agricoli interni maggiore del 76% rispetto al mercato mondiale15• Le cose, invece, sono cominciate a cambiare verso la fine degli anni Ottanta quando, partendo dal rafforzamento economico del settore e delle componenti agri­ cole cresciute al riparo dell'intervento europeo, le discontinuità con il passato sono andate facendosi numerose a tutti i livelli. Questo non è stato un processo che ha interessato solo l'agricoltura europea, perché le dinamiche economiche, finanziarie e tecnologiche caratterizzanti i nuovi equilibri mondiali hanno posto oggettivamente l'esigenza di cambiamenti sostanziali e inediti nelle politiche settoriali, con inevitabili ripercussioni sulle singole agricolture delle economie nazionali. E in questo senso che i "fattori di contesto, prima richiamati - tutti interni al processo generale di globa­ lizzazione -, determinando una soluzione di continuità rispetto agli anni precedenti, hanno inciso nel corpo vivo dell'agricoltura italiana cambiandone in profondità i connotati tradizionali e costringendola ad adeguarsi a nuovi standard strutturali e produttivi. Il cambiamento, però, non è stato un processo lineare e omogeneo, ed è andato avanti con fasi di varia intensità; ma ha avuto una particolare accentuazione nell'ultimo decennio. Come si vedrà analizzando gli aspetti che maggiormente carat­ terizzano il quadro socioeconomico contemporaneo del settore, lo sviluppo che ne è risultato ha toccato in misura diversa le varie realtà territoriali, facendo sì che molte delle forti differenze del pas interpretabile sato si siano parzialmente ricomposte in una configurazione di certo non più secondo i parametri dettati dagli storici dualismi industria/ agricoltura, Nord/Mezzogiorno. Si è prodotta, in sostanza, un'articola­ zione dell'agricoltura riconducibile al comportamento di un settore che, alla pari delle altre componenti del sistema economico, si è trovato esposto ai passaggi incerti e difficili della riorganizzazione in atto n eli'assetto mondiale della produzione ali­ mentare, agli andamenti dei mercati e della finanza globali, ali ' incidenza nuova dei problemi ambientali, al peso condizionante delle moderne innovazioni tecnologiche. I cambiamenti che hanno riguardato in profondità le tendenze macroecono­ miche, le strutture aziendali, l'organizzazione della produzione e la sua base sociale, '

I4. L'aumento della produzione, collocandosi tra l' I,S e il 2% all'anno, si è contrapposto a un incremento dei consumi alimentari solo dello o,s % (cfr. R. Fanfani, Lo sviluppo della politica agricola comunitaria, Carocci, Roma I990, pp. I2-3 ) . IS. OECD, Agricultural Policies in OECD Countries: Monitoring and Evaluation, OECD, Paris 2009. Si tratta di due degli indicatori elaborati dall ' oECD per stimare la misura del sostegno all 'agricoltura, denominati rispettivamente con la sigla PSE (Producer Support Estimate) e NPC (Nominai Protection Coefficient ).

G U I D O FA B I A N I

i collegamenti con il resto dell'economia nazionale e internazionale dimostreranno, inoltre, come l'agricoltura italiana contemporanea, esattamente come qualsiasi altro settore dell'economia nazionale, abbia risposto alle sollecitazioni esterne non omo­ geneamente, ma sulla base della dinamicità delle sue singole componenti aziendali e/ o geografiche, e con risultati differenziati a seconda se queste stesse realtà fossero partecipi, o meno, di solidi sistemi economici territoriali o di più o meno affermati canali di inserimento nei mercati internazionali. E si comprenderà come lo sviluppo di questi anni abbia sancito l' impossibilità di considerare ancora l'agricoltura come settore marginale dell'economia e della società del paese. Lo sviluppo contempo­ raneo, infatti, ha favorito il formarsi sul territorio nazionale di molteplici realtà agricole, capaci d'integrarsi efficacemente nell' insieme del sistema economico agro­ alimentare, ponendo, conseguentemente, l'esigenza di rivedere in profondità le ina­ deguate e costose tutele del settore costruite nel passato. Procedendo all'analisi delle principali variabili economiche per il periodo 198o2010, si mette bene in evidenza quanto i nuovi caratteri impressi dallo sviluppo all'a­ gricoltura del paese corrispondano al percorso seguito dall' insieme delle agricolture delle economie avanzate contemporanee, in particolare per quanto riguarda: a) l' anda­ mento delle variabili macroeconomiche attinenti alla struttura generale dell'economia, la nuova collocazione al suo interno del settore primario e i collegamenti di quest'ul­ timo con il resto dell'economia nazionale e internazionale; b) i processi endogeni di modernizzazione settoriale che hanno riguardato, anche nella dimensione territoriale, l'organizzazione aziendale, la base sociale e l'impiego di lavoro ; c) i nuovi scenari in cui tendono a collocarsi le funzioni dell'attività agricola contemporanea.

3

Le trasformazioni macroeconomiche dell 'economia agricola italiana

A livello macroeconomico negli ultimi trent 'anni l'intero sistema economico del paese ha accentuato le tendenze al cambiamento - che già avevano cominciato a evidenziarsi in varia misura - nella struttura produttiva e sociale e nei rapporti tra le varie componenti settoriali. Questo ha significato anche per l'agricoltura una diversa collocazione nella formazione della ricchezza nazionale e nell' impiego di forza lavoro, oltre che notevoli cambiamenti nel rapporto con gli altri settori e, infine, con il mercato internazionale.

a) Il ((declino" settoriale nella partecipazione alla formazione del PIL e dell'occupazione. Per quanto riguarda la collocazione dell'agricoltura nella formazione della ricchezza nazionale, analizzando il trend relativo appare evidente come il settore abbia ulterior­ mente ridotto la sua partecipazione al PIL che è arrivata a incidere per poco meno del 2% nel 2009, contro il 6% (pari quindi al triplo) di tre decenni addietro ( TAB. 1 ) . 170

L 'AGRI C O LTURA : DALLA MARGINALITÀ ALLA GLO BALIZZAZIONE TABELLA I Partecipazione dei settori alla formazione del PIL (prezzi correnti; valori %) Anni

Agricoltura

Industria totale

Industria senso stretto

S ervizi

Totale

1970

8,8

39,2

J O,O

52

100,0

1980

6,0

3 8,1

J O,I

ss. 9

100,0

1990

3 ·4

32,2

25,!J

64 . 4

100,0

20 0 0

2,8

28,4

2],4

68,8

100,0

2009

1,8

25,0

IS,J

73,2

100,0

Fonte: ISTAT, L'Italia in 150 anni. Sommario di statistiche storiche I86I-20IO, ISTAT, Roma 20 11 , http:/ /

www

3.

istat.it/ dati/ catalogo/ 201201 18_ o o/.

Questo è un processo di lungo periodo tipico e generalizzato per tutte le economie che, anche nel caso italiano, si inserisce in un contesto di fortissimo ridimensiona­ mento della componente materiale nella formazione del reddito nazionale a favore dei settori terziari. I dati, infatti, testimoniano non solo la partecipazione al feno­ meno da parte dell'agricoltura, ma anche l'assimilazione del suo comportamento a quello dell' industria in senso stretto : il settore dei servizi nel suo insieme è arrivato a rappresentare quasi i tre quarti dell'intero PIL (73,2% contro il 55,9% del I98o), l'industria in senso stretto ha perso circa I2 punti percentuali nello stesso periodo collocandosi a un'incidenza inferiore al I9% e l'agricoltura, come si è visto, è dimi­ nuita di oltre 4 punti percentuali, stabilizzando la propria quota tra l ' I e il 2% del PIL, seguendo la tendenza propria della maggior parte delle economie avanzate. E importante, però, mettere in rilievo che, a fronte del continuativo processo di "declino relativo", il settore ha fatto registrare per l'intero periodo una crescita quantitativa pari al 36% del valore aggiunto in termini reali ( F I G . I ) . Un dato che è il risultato di un significativo incremento fino al 2000 e poi di un parziale rallentamento succes­ sivo : assumendo, ancora una volta, un comportamento tendenzialmente simile a quello dell' industria in senso stretto, ma distante da quello dell'insieme dell'eco­ nomia (+so%), trainata dal settore dei servizi ( +67%). In tutto questo va ricordato che l'agricoltura italiana ha mantenuto e consolidato la propria posizione anche all'interno dell'Europa a 27 : in termini di produzione finale, essa detiene il secondo posto con il I3,2%, dopo la Francia con il I8,6% 1 6 • Una posizione di tutto rilievo nell'ambito dell'area agricola che ancora rimane tra quelle più sviluppate del mondo. '

I6. R. Fanfani, Il sistema agroalimentare in Italia. I grandi cambiamenti e le tendenze recenti, Edagricole-ll Sole 2 4 Ore, Milano 2009. 171

G U I D O FA B I A N I

FIGURA I Andamento del valore aggiunto (indici; 1980

=

1oo)

180 170 160

ISO 140 1 30 1 20

IIO

--.- Agricoltura, silvicoltura, pesca

IOO

� Industria

90

------ Totale

Bo o

00 0\ �

+ 00 0\ �

00 00 0\

o o o



N

+

00

N

N

o o

o o

Fonte: I S TAT, L,Italia in 150 anni, cit.

Il trend riduttivo del peso dell'agricoltura nell'economia si ripete in completa analogia quando si esaminano i dati occupazionali. In questo caso, ovviamente, la riduzione non è solo percentuale ma anche consistentemente quantitativa (FIG. 2 e TAB. 2 ) , oltre che qualitativa. Gli occupati in agricoltura sono diventati poco meno di 1 milione e rappresentano il 3,9% dell'occupazione totale, con una perdita, rispetto al 1980, di circa 2 milioni di unità (pari a -6o% ! ) . Per stabilire un utile confronto va considerato che, parallelamente, l'occupazione industriale in senso stretto ha subito nello stesso periodo una riduzione di circa il 20%, corrispondente a circa 1,5 milioni di occupati in meno, mentre i servizi (soprattutto l' intermediazione finanziaria e le attività immo­ biliari) hanno visto un aumento di più di 6 milioni di occupati. Questi dati concorrono a dimostrare la distanza siderale in cui si colloca l'agri­ coltura odierna rispetto a quella del 1980 ( 13,4% dell'occupazione totale) e ancor più a quella degli anni Settanta, quando nell'attività agricola erano occupati ben 4 milioni di unità, pari a un quinto dell'occupazione totale. Si è avuto, quindi, il ridi­ mensionamento drastico e definitivo di uno strato sociale le cui vicende hanno segnato una parte importante della storia contemporanea del paese. Un ridimensio­ namento che rappresenta un indice di modernizzazione indiscutibile, perché oggi poco meno di 1 milione di occupati agricoli producono il 3 6 % in più di quanto producevano 3 milioni di contadini nel 1980. Il che, non solo porta a considerare quanto debba essersi modificata la struttura del processo produttivo del settore, ma dimostra anche che nel trentennio l'agricoltura non è stata ai margini del processo 17 2

L 'AGRI C O LTURA : DALLA MARG INALITÀ ALLA GLO BALIZZAZIONE FIGURA 2. Occupazione (1980 = anno base ; valori %) 170 1 60

I SO 140 130 1 2.0

IIO IOO 90

----. a.-a.. ____ --� l

Bo

•- .







l

70





6o so

40 30 2.0

IO

-.- Agricoltura, silvicoltura, pesca _._ __,.._

Industria Totale

o +-��--����---� 00 00 o o v 00 00 o o o C\ C\ o o o ..-.4 ..-.4

N

N

N

Fonte: I S TAT, L,Italia in ISO anni, cit. TABELLA 2 Ripartizione (%) deli'occupazione totale tra i settori deli'economia Anni

Agricoltura

Industria totale

Industria senso stretto

Servizi

Totale

1970

20,1

38, 4

28,5

41,5

1 00,0

1980

13,4

3 8,0

JO,O

4 8,6

1 00,0

1990

7,5

3 2, 4

25,7

6o,1

1 00,0

20 0 0

4,8

2.9,4

22,6

6 s ,s

1 00,0

20 09

3,9

27,7

I9,9

68,4

1 00,0

Fonte: I S TAT, L,Italia in ISO anni, cit.

di sviluppo del paese, e ha invece contribuito all'aumento di produttività dell' intero sistema economico in misura relativamente maggiore dell' industria in senso stretto (considerate le diverse dimensioni dei due settori) . La drastica diminuzione intervenuta nell'occupazione agricola ha significato un profondo mutamento nella tradizionale base sociale del settore. La caduta di circa 2 milioni di unità, infatti, ha avuto pesanti riflessi nella sua composizione. In primo luogo perché ha interessato in particolare i lavoratori indipendenti, i quali sono dimi­ nuiti di 1,3 milioni di unità e non rappresentano più la maggioranza dei lavoratori agricoli, ma meno della metà: erano il 62% nel 1980 e oggi sono solo il 46%. Questo 173

G U I D O FA B I A N I

significa che hanno definitivamente lasciato il settore numerosi contadini e anziani conduttori di tantissime piccole aziende che, vivendo in condizioni di marginalità sociale ed economica, imprimevano all'intero settore un complessivo carattere di arretratezza. Ma è contemporaneamente rilevante che a fronte di ciò si siano eviden­ ziati fenomeni che indicano la presenza diffusa di nuove figure economiche, di qua­ lificazione e competenze più elevate che nel passato, con un' importante evoluzione nella gestione delle aziende agrarie. Rispetto al ridimensionamento numerico delle aziende individuali, infatti, si è registrata la crescita di aziende gestite da forme socie­ tarie di persone, di capitali e di cooperative, con un maggiore ricorso alla gestione congiunta in proprietà con quella in affitto così come all'utilizzazione di servizi esterni quali il contoterzismo. Senza contare che è cresciuto il peso dei... conduttori con meno di 45 anni, arrivati a rappresentare oltre il 20% delle aziende. E ringiovanita la classe mediana dei conduttori, che si stabilisce a so-59 anni, mentre in passato era a 6o-64 . ... E aumentata la presenza di conduttrici donne. Si è evidenziato un miglioramento del livello di istruzione nel settore, attraverso la diminuzione della percentuale dei con­ duttori senza titolo di studio o con titolo elementare e l'aumento della quota di conduttori con titolo di scuola media, diplomati e laureati17• Tutti questi sono stati cambiamenti che hanno avuto riflessi prima impensabili sull'organizzazione dei pro­ cessi produttivi e sui rapporti della produzione agricola con la finanza, i canali distri­ butivi e i mercati. Sul versante del lavoro dipendente, infine, nonostante la diminuzione di sso.ooo unità, esso rappresenta oggi la quota maggioritaria dell'occupazione agricola ( il 54% contro il 38% del 1980 ), facendo anche registrare un' importante novità, in una pro­ spettiva densa di significative implicazioni: la presenza crescente di lavoro immigrato. A questo riguardo, una recente indagine18 ha messo in evidenza che nel 2010, con 19o.o oo cittadini stranieri (extracomunitari e, in maggior misura, neocomunitari) , l'immigrazione rappresenta in agricoltura ben il 21% del totale degli occupati dipen­ denti: un' incidenza che non ha pari negli altri settori produttivi. Questa quota raggiunge quasi il 30% nelle regioni del Nord ed è molto bassa nelle isole (forse a causa del maggiore ricorso al lavoro nero) . È ovvio che la presenza di carattere sempre più strutturale (anche se ad alto tasso di turnover) di un numero così elevato di lavoratori immigrati sia dall' Unione Europea ( uE ) che da altri paesi lascia presumere che si sia alla vigilia di un consistente processo di progressiva integrazione sociale, con un possibile aumento della nascita (per ora ancora ridotta, ma non indifferente) di attività agricole condotte in proprio da imprenditori immigrati e, quindi, di un ulteriore cambiamento della base sociale agricola, anch'esso del tutto imprevedibile pochi anni addietro. 17. INEA, Annuario dell'agricoltura italiana - 20IO, vol. LXIV, INEA, Roma 2011. 1 8. INEA, Indagine sull'impiego degli immigrati in agricoltura in Italia 20IO, a cura di M. Cicerchia, Roma 2012, http:/ / www.inea.it/ -/indagine-sull-impiego-degli-immigrati-in-agricoltura-in-italia-2010. 1 74

L 'AGRIC O LTURA : DALLA MARGINALITÀ ALLA GLO BALIZZAZIONE

b) La formazione di un sistema agroalimentare. Per quanto riguarda il mutamento nel rapporto con gli altri settori produttivi, come si diceva all'inizio, la vicenda economica dell'agricoltura negli ultimi trent'anni è stata caratterizzata, tra l'altro, dal progressivo inserimento di quest'ultima in un articolato sistema agroindustriale. La fitta rete di relazioni che ha così dovuto intrecciare il settore primario ha indotto incisive trasformazioni nell 'organizzazione del processo produttivo orientandone lo sviluppo in direzione della concentrazione territoriale della produzione'9 e della specializzazione delle varie fasi produttive, con una stretta interdipendenza dell 'una dall 'altra. Ciò ha comportato l'adozione di nuove tecnologie, l' impegno di una componente crescente di lavoro qualificato e, in ognuna delle fasi dell'attività pro­ duttiva, l'attenzione all'evoluzione dei consumi e ai problem i della sanità e della qualità dei prodotti. Ma ha significato anche, e soprattutto, l' inserimento dell'atti­ vità agricola in un' economia di sistema al cui interno, nonostante il basso peso relativo, essa svolge una funzione basica e imprescindibile nel sostenere l' insieme di attività economiche che convergono sulla catena che va dalla produzione al consumo finale e arrivano a rappresentare intorno al I7- I8% dell'intero PIL nazionale. Gli ultimi dati disponibili ( 20 1 1 ) valutano a 267 miliardi di euro il valore aggiunto totale prodotto dal sistema agroalimentare italiano, con le principali componenti costituite da: agricoltura (26,7 miliardi ) , consumi intermedi per la produzione agricola (24,2 miliardi ) , investimenti agroindustriali ( I 7,9 miliardi ) , industria alimentare (25 miliardi ) , servizi di ristorazione (43,9 miliardi ) , commercializzazione e distribu­ zione ( Io9 miliardi ) . Un quadro d' insieme che mette in evidenza come la produ­ zione di 26,7 miliardi di valore aggiunto agricolo metta in moto nell ' intera eco­ nomia la realizzazione di una ricchezza di ben IO volte superiore ( 240 miliardi di euro ) . Senza contare che l' industria alimentare, l'attività più direttamente collegata all'agricoltura, con 43o.o o o occupati ( pari alla metà di quelli agricoli ) rappresenta un segmento economico di grande rilievo, con 1 ' 11% del valore aggiunto dell ' indu­ stria manifatturiera nazionale e oltre il I 2% di quello dell ' industria alimentare europea �0• La stessa industria alimentare, inoltre, ha mostrato un particolare dina­ mismo produttivo anche in tempo di crisi ( trainato soprattutto dalle esportazioni e non dalla domanda interna ) , distinguendosi dal trend negativo dell' industria manifatturiera totale. L' indice I STAT della produzione della prima, infatti, nel periodo 2o oo-o5 ha mostrato un incremento del 9% ( a fronte del -6,I% del mani­ fatturiero totale ) , rimanendo comunque positivo ( +2,9% contro - 1 1,5 % del mani­ fatturiero ) anche nel più difficile periodo 2005-Io. In molti casi il volume delle singole produzioni si concentra in non più di 5 province, differenti a seconda delle produzioni considerate. Così avviene per il latte, i suini, le produzioni avicole, i diversi tipi di frutta, la vite e l 'ulivo, il florovivaismo, il pomodoro (cfr. R. Fanfani, Il sistema agroalimentare in Italia, Edagricole, Milano 2009, p. 6). 20. INEA, L'agricoltura italiana conta 20I2, INEA, Roma 20 I 2. I 9.

175

G U I D O FA B I A N I

La configurazione di sistema ha rappresentato, quindi, in primo luogo la modalità con cui l'agricoltura è venuta a svolgere una funzione essenziale nell'ammodernamento dell' intera economia del paese, e che le ha permesso definitivamente - nonostante la ridotta incidenza in termini di valore aggiunto - di superare la condizione di margi­ nalità che l'aveva caratterizzata nel passato. Ma, allo stesso tempo e in particolare negli ultimi due decenni, l'acquisizione della configurazione di sistema ha costituito il fattore che ha permesso il consolidamento, l'affermazione e l' importanza crescente del ruolo delle produzioni agroalimentari nel commercio internazionale. A questo riguardo è da sottolineare che agricoltura e industria alimentare sostengono la presenza italiana sui mercati internazionali in maniera inversamente proporzionale al loro peso in termini di valore aggiunto : i due settori rappresentano insieme circa il 4% del valore aggiunto dell'economia e generano, invece, 1'8% del valore delle esportazioni totali contro il 6,5% del 20 00. Le importazioni agroalimentari si sono attestate tra il 9 e il 10% del totale, ma va evidenziato come si sia realizzato un mutamento quasi di portata strutturale nell'andamento del saldo normalizzato del settore, determinando un miglioramento radicale del tradizionale e pesante livello di dipendenza alimentare dell'economia italiana: infatti, alla fine degli anni Ottanta il valore di questo indica­ tore � � era pari a -42,0, mentre è passato a - 1 6,6 nel 2003n, per raggiungere il livello - 13,0 nel 201 1�3• A ciò si aggiunga che negli ultimi dieci anni il saldo normalizzato del sistema agroalimentare ha viaggiato in netta controtendenza rispetto al saldo totale nazionale il quale, al contrario, ha fatto registrare un costante peggioramento della dipendenza dall'estero dell' intera economia. E sempre nell'ultimo decennio il grado di copertura commerciale ( il rapporto tra esportazioni e importazioni ) dello stesso sistema agro­ alimentare è passato da 66,5 a 77,0, dimostrando - seppure in presenza di un deficit ­ un buon recupero del valore delle esportazioni rispetto alle importazioni. Il paese ha così acquisito a livello mondiale il quinto posto come esportatore di prodotti agro­ alimentari, la cui reputazione di qualità è ormai unanimemente riconosciuta� 4• In sostanza, il settore agroalimentare con il suo dinamismo ha svolto un' importante funzione anticiclica attraverso il sostegno delle esportazioni e, producendo la valo­ rizzazione della qualità del cibo made in Italy, si è messo in condizioni di rispondere positivamente allo spostamento della domanda internazionale di consumo alimentare verso i prodotti più ricchi ( l'incidenza dei prodotti alimentari trasformati ha rag­ giunto l' 8o% ) e in parte di riorientare gli scambi, posizionando meglio le esportazioni 21. Si ricorda che il saldo normalizzato può variare dal valore -100 (totale assenza di esportazioni) a +100 (totale assenza di importazioni), ed è uguale a o nel caso di commercio in pareggio. 22. R. Henke, A. Antimiani, Il commercio con l'estero dei prodotti agroalimentari. Anticipazione Rapporto 2003, http:/ / www.inea.it/documents/ Ioi79h33862/2oo3.pdf. 23. INEA, Annuario dell'agricoltura italiana, vol. LXV: 20II, ESI, Napoli 2012. 24. Business Monitor International, Italy Agribusiness Report, BMO, London 2013.

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italiane sui mercati dei paesi emergenti (Asia e paesi del Centro e Sud America, in particolare) per compensare il rallentamento della domanda registratosi a causa della crisi nelle economie dell ' uE �5•

4

Un inedito processo di ristrutturazione aziendale

La trasformazione strutturale più importante, ovvero il cambiamento di maggiore significato che nel corso dell'ultimo trentennio ha interessato l'agricoltura italiana, ha riguardato l'assetto dimensionale delle sue strutture aziendali. La significatività del fenomeno sta nel fatto che una dimensione aziendale media, non solo molto ridotta, ma anche decisamente stabile nel tempo lungo, è stata una delle caratteristiche quasi identitarie dell'agricoltura italiana. Dopo il fascismo, sulla spinta della riforma agraria si era portata a compimento una trasformazione epocale della struttura aziendale della nostra agricoltura, segnata dalla scomparsa del latifondo nel Mezzogiorno e da un diffuso processo di accesso alla terra di larghe masse contadine6• Negli anni Sessanta­ Settanta, pertanto, accanto alla progressiva riduzione della mezzadria nell'area centro­ settentrionale, si era assistito ovunque al consolidamento dell'azienda piccolo-conta­ dina da un lato e, dall'altro, alla formazione di un'area di aziende di dimensioni medie (ma lontane dagli standard europei) orientate al mercato, alcune a conduzione fami­ liare, altre organizzate in forme più specificamente capitalistiche per il diffuso ricorso a manodopera salariata. Accanto a queste due realtà, che costituivano la componente produttiva principale dell'agricoltura italiana, grazie a varie forme di sussidi sociali e di lavoro part-time, nel tempo era anche riuscito a crescere e a rimanere in attività un corpo numericamente grosso, ma di scarso peso produttivo, formato da una miriade di appezzamenti (difficilmente considerabili come aziende) di piccolissime dimensioni condotti per lo più da lavoratori part-time, precari, anziani e pensionati. Quest'ultima realtà ha pesato moltissimo nel determinare i caratteri economici oltre che il ruolo sociale del settore primario del paese, fornendo, anche strumentalmente, molti motivi alla finalità assistenziale degli interventi. E, soprattutto, è stata la sua permanenza negli anni a contribuire nel tenere a lungo ferma la dimensione media delle aziende. Solo con il censimento del 20 12 si è riscontrato un drastico ridimensionamento del numero delle piccolissime aziende : per la prima volta la stabilità della dimensione media aziendale italiana è stata decisamente intaccata, segnalando l'avvio di un processo destinato probabilmente a estendersi e a continuare nel futuro, imprimendo un aspetto di dinamicità prima sconosciuto. 25. F. De Filippis ( a cura di ) , L 'agroalimentare italiano nel commercio mondiale, Tellus, Roma 2012. 26. G. Barbero, La rifòrma agraria in Italia: risultati e prospettive, Feltrinelli, Milano I96o; G. E. Marciani, L'esperienza di rifòrma agraria in Italia, Giuffrè, Milano I966. 177

G U I D O FA B I A N I

Per meglio comprendere il significato dell'evoluzione della struttura aziendale, essa va prima analizzata nell' insieme settoriale e successivamente nella sua dimensione territoriale (cfr. TAB. 3). Procedendo al primo livello di analisi, si può notare che in trent'anni si è realizzato il dimezzamento del numero totale delle aziende agricole del paese, passato dai quasi 3,2 milioni del I982 a I,6 milioni di unità del 20I2: uno straordinario ridimensionamento numerico delle strutture produttive del settore. Come spiegarlo ? In primo luogo esso è il risultato del calo delle aziende di ampiezza minore (fino a s ettari), le quali hanno partecipato con una riduzione specifica di ben I,3 milioni di unità, pari all ' S I % della diminuzione totale, inducendo aritmeti­ camente un aumento della superficie media aziendale. In secondo luogo, il ridimensionamento in questione è il prodotto di una discontinuità che ha caratterizzato diversamente il processo di ristrutturazione aziendale dei primi vent 'anni rispetto agli ultimi dieci. Dal I 9 82 al 2000, cioè, la riduzione delle aziende ha interessato contemporaneamente il numero e la super­ ficie agraria utile ( sAu ) di tutte le classi di dimensione, anche le più grandi, nessuna esclusa, con la scomparsa di 2,7 milioni di ettari di superficie e di 737.0 00 unità aziendali: come a dire che nei primi vent'anni si è semplicemente amputato il settore di una componente numericamente rilevante di aziende e di corrispondente superficie. Fino al 2000, cioè, si è verificato un ridimensionamento generalizzato dell 'attività agricola nazionale senza che si sia generato alcun processo di redistri­ buzione della superficie e di ristrutturazione delle aziende. Nell'ultimo decennio, invece, c 'è stato un comportamento completamente differente. Intanto, si è avuto in soli dieci anni il calo percentuale di aziende più elevato realizzatosi nella storia dei censimenti dell 'agricoltura italiana: - 3 2,4%, corrispondente alla scomparsa di circa 70o.o oo unità ( 7o.o oo ogni anno !). Ma - è qui la differenza dell'ultimo decennio rispetto al precedente ventennio - le classi di ampiezza inferiore hanno registrato una riduzione numerica di 788.o oo unità e, contrariamente a quanto successo negli anni addietro, oltre il 70% della terra da loro abbandonata (in totale più di I milione di ettari) è andato a impinguare la superficie di quelle di dimen­ sioni maggiori (sopra i 20 e sopra i so ettari) che è cresciuta esattamente di 75 2.ooo ettari. Non si è persa, quindi, come negli anni precedenti, terra appartenente alle aziende di dimensioni minori, se non per una piccola parte, ma questa volta la terra è passata di mano, dando luogo a un reale e inedito processo di ristruttura­ zione che ha reso possibile per la prima volta in cinquant'anni di intaccare la sostanziale stabilità della dimensione media delle aziende. Quest'ultima in termini di superficie totale ( sAT ) negli ultimi dieci anni è passata a I o,s ettari, mentre nei quaranta anni precedenti (dal I96I al 20 00) si era mossa solo dai 6,2 ai 7,8 ettari. Ugualmente, in termini di SAU, la dimensione media aziendale è oggi di circa 8 ettari, mentre si è mantenuta per un lunghissimo periodo costantemente intorno a1 s ettan. •



L 'AGRI C O LTURA : DALLA MARGINALITÀ ALLA GLO BALIZZAZIONE TABELLA 3 Aziende e superficie (1982-2010)

Anni (censimenti)

Numero (migliaia)

SAU

SAT

Aziende

Variazione %

Ettari (migliaia)

Variazione %

22.398

Ettari (migliaia)

Ampiezza media

Variazione %

15-973

SAU

SAT

5,1

7,1

1982

3-133

1990

3-0 23

-3.5

22.7 02

1,4

15.046

-5,8

5

7·5

2000

2-3 96

-20,7

18.7 67

- 17,3

13.182

-12, 4

5 .5

7. 8

2010

1.621

-32, 4

1 7.0 8 1

-9

1 2.8 56

-2,5

7·9

10,5

Fonte: R. Fanfani, L. Spinelli, L'evoluzione delle aziende agricole italiane attraverso so anni di censimenti (19012010) , in "agriregionieuropa", 8, 2 0 1 2, 31.

Il processo di riorganizzazione aziendale messo in atto in quest 'ultimo decennio ha quindi determinato : un aumento significativo della dimensione media aziendale, che è rimasta comunque distante dalla corrispondente media europea; una sostanziale riduzione dell'agricoltura di sussistenza costituita da micro­ aziende per lo più localizzate in zone marginali, di dimensioni insostenibili per lo svolgimento sia di funzioni produttive che di efficace presidio del territorio ; un aumento dell ' incidenza delle aziende di dimensioni maggiori le quali si affermano come il nucleo forte dell 'agricoltura italiana e, pure se solo in 133.o o o, posseggono il 63% della superficie utile ( dal 49 % del 1980) e contribuiscono alla maggior parte della produzione totale del settore ( presumibilmente intorno al 70%); il consolidamento della presenza di un'area di aziende di piccola dimensione ( in media di 2,3 ettari di SAU ) che in zone di pianura irrigua e di bassa collina possono assumere un ruolo importante in termini di produzioni di qualità. In sintesi, i dati dell'ultimo censimento dimostrano inconfutabilmente che si è oggi realmente di fronte a un'agricoltura strutturalmente molto diversa dal passato.

s

Un quadro territorialmente articolato di differenziazioni e squilibri

Il sommovimento che ha investito le strutture produttive dell 'agricoltura, se ha gene­ rato per le aziende mutamenti nella disponibilità del fattore terra che appaiono, come 179

G U I D O FA B I A N I

si è appena visto, ben significativi a livello aggregato, si rivela ancora più incisivo qualora l'analisi venga condotta a livello territoriale, mettendo in rilievo due aspetti altrettanto importanti, e cioè: l'evidenziarsi di preoccupanti problematiche ambientali che rischiano di divenire strutturali nelle diverse aree territoriali, in mancanza di un attento governo del rile­ vante ridimensionamento della SAU; il persistere di forti distanze tra i livelli territoriali di sviluppo, nonostante che da parte dell'agricoltura delle aree tradizionalmente più svantaggiate si sia realizzato un deciso allontanamento dalle precedenti condizioni di generale arretratezza. Per quanto riguarda il primo aspetto, la dimensione che ha assunto la riduzione di suolo destinato all'attività agricola ( - 20% in totale) , se analizzata per zone altimetriche, in alcuni casi ha raggiunto livelli straordinariamente elevati, ponendo pesanti interrogativi sulla tenuta ambientale delle aree interessate dal fenomeno. Del totale di 3 milioni di ettari di SAU scomparsa dalla metà degli anni Ottanta, infatti, ben 2,5 milioni si sono concentrati nelle zone di montagna e collina, accom­ pagnati dalla scomparsa di oltre I,I milioni di aziende. Le punte più rilevanti si sono evidenziate nella montagna delle regioni del Nord- Ovest, con una perdita pari a oltre il 44,6 % della SAU della zona e al 74,5 % delle aziende : realmente cam­ biamenti di dimensione straordinaria. La riduzione della SAU collinare si è con­ centrata, invece, nelle regioni del Centro, del Sud e delle isole, con la scomparsa di 1,2 milioni di ettari e 45o.ooo aziende. Che significato dare a tutto questo ? E ovvio che per certi aspetti si tratta del raggiungimento di un nuovo equilibrio dell 'assetto strutturale dell'agricoltura di queste aree, con l'espulsione dal processo produttivo delle aziende e delle terre marginali e con il raggiungimento di una dimensione aziendale media sicuramente più adeguata. Ma, data la misura assolu­ tamente ampia del fenomeno e la totale mancanza di governo del suo procedere, come non ritenere che, all 'uscita dal processo produttivo di buona parte di questi terreni, non abbia corrisposto il loro abbandono ali' incuria e al degrado ambien­ tale ? Certamente, tanta parte di questi terreni è andata ad accrescere la già gigan­ tesca dimensione dei problemi idrogeologici che affliggono il territorio nazionale, con gravi costi e ferite per la collettività. Un analogo problema, d'altra parte, si pone anche per le aree di pianura, pure se qui la riduzione di SAU è stata mediamente più ridotta rispetto a quella di montagna e collina ( - Io% ) . Ma va detto che quella riduzione si è concentrata per gran parte nelle regioni meridionali e insulari, dove sono scomparsi ben 3 1 8.oo o ettari, corrispondenti al 70% di tutta la superficie di pianura persa in Italia. Qui è più difficile presumere che siano uscite dalla produzione terre marginali. E più verosimile ritenere che nel Mezzogiorno il disordinato sviluppo urbano si sia rea­ lizzato a svantaggio delle aree rurali e abbia penalizzato in maniera irreversibile una delle agricolture tra le più vocate dal punto di vista della produzione agricola di qualità, togliendo così importanti opportunità all'economia di quelle zone, per '

'

180

L 'AGRIC O LTURA : DALLA MARGINALITÀ ALLA GLO BALIZZAZIONE

favorire una disordinata crescita urbana e accrescerne il distacco con la più ricca agricoltura di pianura del Nord. Insomma, se si guarda alle dimensioni complessive del fenomeno, tra montagna, collina e pianura, in trent'anni la superficie utilizzata per l'attività agricola del paese è diminuita di un'area superiore alla superficie territoriale della Lombardia e del Piemonte messi insieme. Cifre di tali ordini di grandezza richiamano la necessità di un governo continuo e attento del territorio, come presupposto di una modernizza­ zione sostenibile del paese. Per quanto riguarda il secondo aspetto, esso fa riferimento alla configurazione territorialmente molto più articolata assunta dallo sviluppo agricolo, il quale, mentre è stato particolarmente intenso nelle zone già più avanzate, nello stesso tempo ha sicuramente interessato anche le aree agricole più svantaggiate, soprattutto quelle meridionali, determinando in esse un processo di progressivo allontanamento dalle condizioni di spinta arretratezza2.7• E infatti incontestabile che le strutture produttive dell'agricoltura delle regioni settentrionali si siano evolute con ritmi decisamente più elevati rispetto a quelle del Mezzogiorno nel suo complesso. Nel trentennio considerato, la superficie media aziendale dell'agricoltura del Nord si è modificata con una dinamica più intensa che nel complesso del paese, passando da 5,84 a 14,44 ettari nelle regioni nord-occiden­ tali, e da 5,47 a 9,8 1 ettari in quelle del Nord-Est, mentre in quelle meridionali si è spostata solo da 4,04 a 5,14 ettari. L'agricoltura meridionale, cioè, è rimasta con una maglia aziendale di dimensioni significativamente inferiori rispetto alla media nazionale ( 7,9 ettari ) dimostrandosi di gran lunga più ferma nel tempo, e oggi più distante di trent'anni fa rispetto a quella settentrionale in termini di dimensioni medie della scala di produzione. Ma le diffe­ renze tra Nord e Sud nella dinamica delle strutture aziendali sono ancora più rilevanti qualora si confrontino i dati per le rispettive pianure, le aree agricole più suscettibili di sviluppo. Come si vede, nella pianura padana la superficie media si è collocata a livelli decisamente europei, raggiungendo la dimensione di 23,25 ettari contro i soli 4,03 ettari della pianura meridionale. Nel 1982 le rispettive dimensioni erano di 9,88 e di 3,54 ettari. Da questo punto di vista, quindi, è molto evidente la maggiore inten­ sità che ha caratterizzato il processo di razionalizzazione aziendale nella pianura Padana, con una accentuazione della posizione di vantaggio di quest'area. La maggiore dimensione aziendale, inoltre, si è associata nel Nord anche a una più alta dinamica della produttività della terra, come riflesso di un uso più intenso di progresso tecno­ logico, il che ha consentito di portare a oltre 5.ooo euro il valore della produzione per ettaro, contro i 2.6oo del Mezzogiorno : ancora un rapporto di 1 a 2 tra le due aree, anche se i tassi di crescita nel Sud sono stati spesso più intensi. '

M. De Benedictis, La modernizzazione dell'agricoltura meridionale: fasi evolutive, in SVIMEZ, Nord e Sud a ISO anni dall'Unita d'Italia, SVIMEZ, Roma 20I2. 27.

181

G U I D O FA B I A N I

Tutto ciò spinge a ritenere che l'agricoltura meridionale sia rimasta parte inte­ grante dei noti ritardi che continua a denunciare l'economia del Mezzogiorno e che con essa abbia sperimentato l'effetto di freno allo sviluppo costituito dal disordine economico, istituzionale e sociale, che rimangono fattori caratterizzanti dell'intera area. Tuttavia, così come è profondamente mutato il sistema economico e sociale del Mezzogiorno �8, le importanti differenze che permangono rispetto a quelle del Nord non possono far sottovalutare i processi di sviluppo che si sono comunque diffusi nelle aree agricole meridionali. Il miglior uso d eli' irrigazione, l'adozione di progresso tecnologico, la configurazione di sistema agroalimentare, i rapporti con i mercati internazionali, la diffusione di punti di eccellenza qualitativa delle produ­ zioni, l'affermazione di marchi e territori sono stati anche qui processi e segnali importanti di sviluppo. Così come non si può sottovalutare che quest 'agricoltura, tradizionalmente caratterizzata da una forte eccedenza di forza lavoro, abbia fatto registrare tra il 1982 e il 2010 un tasso di diminuzione dell'occupazione di gran lunga più elevato rispetto a quella settentrionale ( -59,9% contro il -45,1 % ) , portan­ dosi in posizione di vantaggio anche in termini di disponibilità di terra per lavora­ tore ( 14,8 contro 1 3,8 ettari di SAU ) . Non solo, ma la stessa produttività del lavoro agricola (pur rimanendo inferiore come livello assoluto) è cresciuta più rapidamente nel Sud che nel Nord. Nel con­ fronto con l'agricoltura dell' Italia settentrionale, quindi, si sono accresciute soprat­ tutto le distanze tra le situazioni di punta, ma per altri aspetti si sono manifestati significativi processi di avvicinamento. Sempre, peraltro, considerando che l' agricol­ tura delle regioni del Nord Italia è una delle più sviluppate a livello internazionale. E senza, ancora, dimenticare il peso del tutto considerevole che mantiene quella del Mezzogiorno nell'ambito dell'agricoltura UE a 27, con una produzione lorda che, in valore, è pari alla somma di quella greca e irlandese insieme, è superiore di quasi tre volte a quella del Portogallo, non è lontana da quella polacca, per non parlare di quella svedese, danese ecc. Bisogna allora considerare che i numerosi e visibili dati di cambiamento fin qui osservati e che hanno riguardato le dimensioni aziendali, la crescita della produttività, il mutamento della base sociale, il raggiungimento di una piena configurazione di sistema, la collocazione europea, i successi nel commercio internazionale, anche se in misura molto diversa, hanno coinvolto sia l'agricoltura del Nord che quella meri­ dionale. Ambedue, pertanto, vanno insieme considerate come componenti di un'u­ nica realtà economico-sociale, non duale, ma normalmente articolata e complessa, che ha intrapreso nel suo insieme il percorso verso una nuova prospettiva economica e sociale.

28. SVIMEZ, Nord e Sud, cit.

L 'AGRIC O LTURA : DALLA MARGINALITÀ ALLA GLO BALIZZAZIONE

6 Le funzioni dell 'agricoltura contemporanea : un nuovo rapporto citta-campagna .

'

Sono molto numerosi i segnali che indicano una nuova prospettiva economica e sociale per l'agricoltura. Essa si sta facendo strada sia nella considerazione dell 'o­ pinione pubblica, sia dietro la spinta del progressivo affermarsi, anche negli ambienti istituzionali internazionali, del perseguimento degli obiettivi di sosteni­ bilità ambientale e sociale nei processi economici. Gli stessi fenomeni di adatta­ mento del sistema agroalimentare alle tendenze globali fin qui analizzati vanno infatti collegati ai nuovi scenari nei quali la collettività dimostra di veder collocate le funzioni attuali dell'attività agricola. Questi scenari hanno una dimensione che trascende i confini nazionali e in Italia hanno già inciso in profondità sul rapporto città-campagna : la netta separazione tra due mondi che ha segnato la storia del paese e che ha riguardato le funzioni sociali, gli stili di vita, le tendenze nei consumi alimentari e non, le modalità di utilizzazione delle risorse, l'uso e l'assetto dello spazio. Da parte di molte generazioni, a cominciare dal secondo dopoguerra e per lungo tempo, seguendo la funzione di traino esercitata dall' industria, la campagna è stata considerata il mondo da cui allontanarsi per raggiungere il modello di rife­ rimento costituito dalla vita e dall'economia urbana. Solo qualche decennio addietro, analizzare e discutere del settore agricolo significava ancora affrontare i temi della riforma agraria, trattare le problematiche dell'ascesa sociale del ceto contadino tenuto da sempre in condizioni di emarginazione ; significava confron­ tarsi con la sottoccupazione dilagante nelle campagne, con il dramma dell'esodo e dell'emigrazione, con un diffusissimo stato di arretratezza sociale, economica e tecnologica: fenomeni che hanno diviso verticalmente e con nettezza la società nazionale, anche territorialmente. Da qualche anno non è più così. Alle campagne di oggi si guarda con una visione d' insieme molto diversa dal passato e si applicano - anche se con pesi diversi - le stesse chiavi interpretative dell'analisi sociale ed economica utilizzate per le aree urbane: ad esempio, il livello del disagio sociale di fronte alle difficili prospettive di sviluppo, l' incerto futuro dei giovani, l' impatto del progresso tecnologico sull'ambiente, sulla salute e sulla qualità della vita, gli effetti delle nuove forme di comunicazione. Il cambiamento realizzatosi nel corpo dell'agricoltura italiana, infatti, è andato ben oltre quello, già rilevante, che raccontano i dati macroeconomici fin qui ana­ lizzati. Il settore agricolo in Italia, soprattutto in questi ultimi anni, si è caratte­ rizzato per una vitalità di innovazioni per molti aspetti sorprendenti e in continua evoluzione. L'agricoltura italiana, ad esempio, ha acquisito il primato comunitario per le produzioni certificate di qualità, il che le attribuisce un carattere distintivo rispetto a tutte le altre europee. E prima per la superficie dedicata alle produzio ni biologiche ( 1 milione di ettari: pari all ' S,s% della SAU). Enumera 76.oo o aziende ...

GUIDO

FA B I A N I

(quasi il s% del totale) con attività complementari a quella agricola (trasforma­ zione e prima lavorazione dei prodo tti, manutenzione del territorio, contoter­ zismo ) . Sui terreni confiscati alla criminalità si stanno moltiplicando, e sono arrivate a 2.Ioo unità, le aziende a carattere sociale e le fattorie didattiche ed educativo- assistenziali che danno vita a iniziative rivolte ali ' infanzia e ali ' inclu­ sione sociale dei disabili e delle fasce deboli della popolazione. Le aziende che producono varie forme di energia rinnovabile hanno superato le 2.ooo unità mentre erano solo 233 dieci anni addietro �9• L'agriturismo (con 21.0 0 0 aziende) richiama nelle campagne oltre 2 milioni di persone ogni anno. Infine, si è molto diffusa e generalizzata la consapevolezza che l'agri col tura i tali an a racchiuda, e per molti aspetti conservi, importanti radici della cultura e delle tradizioni del paese; che custodisca un patrimonio unico di bellezze naturali, frutto dell 'accumulazione del lavoro dell'uomo che, co n il contributo della tecnica e della scienza, ha pla­ smato territori, paesaggi, specie vegetali e animali (a questo riguardo come non andare con il pensiero ai lavori più pregiati e colti di Emilio Sereni ?). Nel loro insieme, tutti questi nuovi fenomeni accrescono il significato dei più generali cambiamenti macroeconomici e strutturali prima analizzati e rivelano un settore che viene sempre più percepito come una realtà che tende alla conquista di fun­ zioni diversificate rispetto a quelle produttive tradizionali e più rispondenti ai bisogni della società contemporanea. In questa direzione, d'altra parte, si muovo no anche le politiche che si stanno progressivamente affermando nelle istituzioni internazionali e che tendono a giustificare forme nuove di sostegno al settore agricolo, secondo un approccio territoriale e rurale degli interventi e una conce­ zione dell'azienda agricola come entità di carattere multifunzionale30• Una que­ stione, quest'ultima, diffusamente dibattuta a livello internazio nale, favorita dall'onda pervasiva della globalizzazione che ha ridotto le differenze tra le moda­ lità organizzative e funzionali assunte nei più distanti e diversi luoghi dall'attività primaria. L'approccio territoriale e multifunzionale, infatti, sta già avendo, e avrà in misura sempre maggiore, riflessi sulla politica agricola dell ' vE e sulle politiche agricole nazionali, compresa quella italiana31•

29. E. Giovannini, Il volto dell'agricoltura tra complessita e cambiamento, in "agriregionieuropa", VIII, dicembre 20I2, 3I, http :/ /www.agriregion ieuropa.univpm.it/dettart.php ?id_articolo= 988. 30. R. Henke, C. Salvioni, Multifunzionalita in agricoltura: sviluppi teorici ed evidenze empiriche, in "Rivista di Economia Agraria': LXIII, 2008, I, pp. s -34· Per alcune riflessioni sulla crisi e la multi­ funzionalità in agricoltura cfr. F. De FUippis, D. Romano, Crisi economica e agricoltura, Quaderni del Gruppo 201 3-Coldiretti, Tellus, Roma 20IO. 3 I. Cfr. ad esempio F. De FUippis (a cura di), Oltre il 2013. Il futuro delle politiche dell 'Unione europea per l'agricoltura e le aree rurali, Tellus, Roma 2007; e, in precedenza, De Benedictis, De FUippis, L'intervento pubblico in agricoltura tra vecchio e nuovo paradigma, cit.

L 'AGRI C O LTURA : DALLA MARGINALITÀ ALLA GLO BALIZZAZIONE 7

Brevi considerazioni conclusive e alcuni interrogativi Il riferimento temporale iniziale che ha accomunato tutte le analisi del volume è costituito dagli anni Ottanta. Per quanto riguarda il tema trattato in queste pagine, va ancora una volta sottolineato quanto questo riferimento abbia un significato par­ ticolare nel percorso evolutivo dell'agricoltura nazionale. Il 1980 può essere conside­ rato lo spartiacque tra due trentenni che sono differentemente caratterizzati in relazione alle modalità assunte dallo sviluppo agricolo e dai fattori che lo hanno determinato : 195o-8o/ 1980-20 10. Non si deve dimenticare, infatti, che il 1982 è stato l'anno di completamento della riforma agraria in Italia, quando per i contadini assegnatari è scattato il diritto alla proprietà della terra concessa in enfiteusi nel 195032.. Nel primo scorcio degli anni Ottanta, cioè, si è decretata la chiusura di una fase che aveva accompagnato il paese nel portare a compimento il passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale, consegnando all' industria la funzione di traino dello sviluppo. Il primo trentennio ha visto l'intreccio e il succedersi tumultuoso e contradditorio di diversi processi. È stato prima testimone, con una parziale ma significativa riforma agraria, del prota­ gonismo sociale del mondo dei braccianti e dei contadini che ha spinto per l'accesso generalizzato alla terra come condizione irrinunciabile per superare la storica situa­ zione di emarginazione, sottoccupazione e subalternità delle campagne. Ha poi sperimentato l'azione di rinnovamento tecnologico dell' intero settore agricolo, e non solo della parte più arretrata, per agganciare un contesto europeo che si stava rimet­ tendo in pieno movimento, in un nuovo quadro di equilibri internazionali. Ha assistito al processo di pieno inserimento nella complessa realtà agricola europea e nelle sue politiche. E tutto ciò mentre continuava l'esodo dalle campagne, s'intensi­ ficava il progresso tecnologico e, soprattutto, procedeva il consolidamento della diffusione territoriale della piccola e media industria, con un totale cambiamento degli stili di vita della società. Dall' insieme di queste azioni e processi è nata l'agri­ coltura consegnata al trentennio 19 80-2010, che ha costituito una realtà indubbia­ mente rafforzatasi attraverso varie vicende del periodo precedente, affrancata dai residui del passato ma rimasta fragile e profondamente differenziata. A partire da queste condizioni, l'agricoltura italiana nella nuova fase è stata costretta a un veloce adeguamento ai dettati della globalizzazione e agli sviluppi dello scenario internazio­ nale. Nel secondo trentennio, come si è visto, essa ha attraversato un intensissimo processo di modernizzazione produttiva e strutturale, il quale, a differenza che nel passato, ha contemporaneamente comportato lo svuotamento progressivo dell 'agri­ coltura stessa come sede di processi strategici rilevanti per il suo funzionamento, e

32.

INSOR, La riforma fondiaria trenta anni dopo, FrancoAngeli, Milano 1979.

G U I D O FA B I A N I

l'emergere e il consolidarsi, anche a scala internazionale, del sistema agroalimentare come luogo specifico di tali processi33• Nel corso del periodo da noi analizzato, quindi, lo sviluppo agricolo si è in pre­ valenza realizzato grazie a, e all' interno di, un'economia di sistema agroalimentare, e attraverso una ancora più decisa collocazione nel contesto europeo e internazionale. Ma non basta, perché, come si è detto, negli ultimi anni si è andati anche oltre. Da un lato, infatti, l'agricoltura, come insieme produttivo, si è in buona parte omologata nel suo funzionamento e nella sua organizzazione con il resto dell'economia ed è divenuta, in quanto parte del sistema agroalimentare, soggetto partecipe delle per­ formance dell'intera economia. Dall'altro lato, quasi a contrastare o almeno a miti­ gare gli effetti omologanti della globalizzazione, soprattutto nell'ultimo decennio, si sono affermati intensi e ben organizzati fenomeni che hanno teso a valorizzare - con una significativa risposta dei mercati - le identità territoriali produttive e tradizionali delle agricolture locali: la dimensione glocal, in sostanza, ha interessato in maniera rilevante anche l'agricoltura italiana, riuscendo a rendere fattore di competitività la ripresa della tradizione e della qualità territoriale, elementi che la pongono nei mer­ cati in una condizione di quasi unicita. Da qualche anno, infine, come dato assolutamente innovativo e foriero di radicali cambiamenti, si è imposta un'attenzione crescente della società ai servizi, alle ester­ nalità e ai beni collettivi non diretti al mercato che l'agricoltura per propria natura può fornire. In questa direzione, sia pure timidamente e con molte contraddizioni, recentemente si sta muovendo anche la politica agricola dell' uE. In molti documenti di studiosi e delle istituzioni internazionali il processo produttivo agricolo viene, infatti, sempre più strettamente associato alla salvaguardia del paesaggio, al presidio umano delle zone di difficile insediamento, al mantenimento dei livelli occupazionali, alla protezione dell'ambiente, alla garanzia della qualità e sanità degli alimenti, all'uso razionale delle risorse naturali, ali'esigenza di controllo del rischio climatico. Si tratta di segnali importanti che rendono meno irrealistico prevedere che in un futuro non lontano le politiche per il settore possano essere concepite anche in funzione di un'agricoltura intesa come bene pubblico. Non ci si deve nascondere, però, che gli interrogativi posti dagli scenari di mag­ giore realizzabilità, da un lato, e dalle prospettive più suggestive, dall'altro, sono in realtà molto complessi. Di interrogativi di fondo se ne possono elencare almeno tre da offrire a una ulteriore riflessione. Le trasformazioni che hanno interessato, a livello generale e nella loro articola­ zione territoriale, l'agricoltura nazionale, sono sufficientemente solide da metterla in condizioni di affrontare i passaggi incerti e difficili che, in un contesto di intensa 33· M. Gorgoni, Agricoltura contadina e questione alimentare nell'internazionalizzazione delle economie periferiche, in M. Gorgoni, A. Zezza (a cura di) , Scarsita e sovrapproduzione nell'economia

agroalimentare mondiale, collana Studi e Ricerche INEA, il Mulino, Bologna 1990.

186

L 'AGRI C O LTURA : DALLA MARGINALITÀ ALLA GLO BALIZZAZIONE

competizione, caratterizzeranno l'evoluzione del sistema agroalimentare mondiale contemporaneo ? Come conciliare tra loro le esigenze di politiche ( nazionali e europee ) che dovranno essere, insieme, coerenti e diversamente finalizzate per rispon­ dere alle tendenze dello sviluppo recente dell'agricoltura, e cioè: la collocazione del settore nella dimensione di sistema agroalimentare, l 'affermazione della dimensione multifunzionale, la spinta verso la dimensione di bene pubblico? Come favorire, infine, la partecipazione di nuove forze sociali, nuove generazioni e nuove competenze alla costruzione della nuova agricoltura, in un contesto che non è più solo nazionale ? Nella storia del paese ci sono stati due momenti di grande transizione ai quali converrebbe ispirarsi. Il primo si è avuto agli albori dell' Unità, quando personaggi come Cosimo Ridolfi e Carlo Cattaneo, tra gli altri, avviarono la formazione di una generazione di tecnici agronomici cui consegnare le chiavi dello sviluppo dell'agri­ coltura moderna che avrebbe sostenuto la vicenda unitaria34• Il secondo ai tempi della riforma agraria, quando persone come Dorso, Rossi-Doria, Sereni e Saraceno diven­ nero guide e riferimenti della generazione di tecnici ed economisti che seppe portare l'agricoltura fuori dall'autarchia e, soprattutto, cogliere l'ansia di ascesa sociale del mondo contadino per innestarla sul percorso dello sviluppo economico complessivo del paese. Le sfide che si appresta ad affrontare l'agricoltura contemporanea nella sua nuova transizione, per porsi ali' altezza dello scenario globale, richiederebbero lo stesso respiro innovativo e la stessa carica civile.

L. D 'Antone, L'intelligenza dell 'agricoltura. Istruzione superiore, profdi intellettuali e identita professionali, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell 'agricoltura italiana in eta contemporanea, 3· Mercati e istituzioni, Marsilio, Venezia I991; G. Fabiani, Scuola di Economia agraria, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Economia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012. 34·

Il riscaldamento globale di Saverio Luzzi

Dopo avergli esposto quanto si aspettava di leggere sul rapporto della C I C C , Aldous ricordò a Beard - era la quindicesima persona a farlo nell'arco di dodici mesi - che dieci su dieci, o forse nove su dieci anni dell'ultimo decennio del ventesimo secolo erano stati i più caldi mai registrati. Prese poi a riflettere sulla sensibilità climatica, sull'aumento delle temperature dovuto a un'emissione di co2. doppia rispetto ai livelli dell'era preindustriale. lan McEwan, Solar1

I

Cambiamenti climatici nella storia

Con l'espressione "riscaldamento globale" ( in inglese global warming, GW) si è soliti definire il contributo fornito dalla specie umana e dalle sue attività economico­ produttive all'evoluzione del naturale andamento della temperatura terrestre. Il fenomeno è considerato l'aspetto più pericoloso per l'equilibrio dell 'ecosistema di tutto l'insieme di elementi di nocività ambientale che siamo soliti racchiudere sotto il nome di inquinamento. Occorre tuttavia affrontare il tema in modo scientifico, sgomberando il campo da interpretazioni semplicistiche. La temperatura della superficie terrestre non è stabile, ma si caratterizza per un andamento fluttuante fisiologico. Nel Pleistocene vi furono almeno cinque periodi glaciali2.. Non solo : quello che stiamo vivendo non è il periodo più caldo mai attraversato dal pianeta, poiché tra una glaciazione e l'altra le tempera­ ture terrestri pare abbiano toccato picchi più alti di quelli odierni. Dal 900 a.C. a oggi i climatologi individuano undici fasi climatiche caratterizzanti ( TAB. I). Nella storia dell'umanità si è dunque assistito a fenomeni climatici di forte impatto ambientale, di breve e lungo periodo, non imputabili all'azione antropica. Dal 7SO al I200 si ebbe il cosiddetto optimum climatico medievale, con temperature probabilmente superiori di I- I,S oc rispetto a quelle di fine xx secolo. Il periodo che va dal ISSO al ISso è ritenuto dai climatologi una piccola era glaciale, tanto si abbassarono le temperature medie. Durante tale epoca si ebbe l'inverno più freddo degli ultimi cinquecento anni, 1. Einaudi, Torino 2 0 12, p. 44· 2. M. Pinna, Le variazioni del clima. Dal! 'ultima grande glaciazione alle prospettive per il XXI secolo, FrancoAngeli, Milano 1996. Pinna già allora ricordava un' ipotesi che negli anni si è fatta strada, vale a dire che le glaciazioni pleistoceniche furono in realtà sei.

SAVE RIO LUZZI

I Andamento climatico planetario dal 9 oo a.C. a oggi TAB ELLA

Arco cronologico

Tipo di clima

9 0 0 a.C. - 3 0 0 a.C.

Freddo ( fresco )

3 00 a.C. - Ioo a.C.

Mite

Ioo a.C. - 4 oo d.C.

Caldo e arido

4 00 d.C. - 7 s o d.C.

Freddo

7 s o d.C. - I 2oo d.C.

Caldo

I 2oo d.C. - I 3 s o d.C.

Freddo

I 3S O d.C. - I SS O d.C.

Fresco

I SS O d.C . - I S s o d.C.

Forte freddo

I S s o d.C. - I9S O d.C.

Ciclo caldo

I9S O d.C. - I97S d.C.

Episodio freddo

I97S d.C. - ...

Ripresa del ciclo caldo

Fonte: Pinna, Le variazioni del clima, cit., p. u8.

quello del 1709, nei cui mesi di gennaio e febbraio la temperatura scese a lungo sotto i -20 oc anche in zone dal clima mediterraneo, gelando perfino la laguna di Venezia3• Nell'approcciarsi ad argomenti come il GW occorre perciò estrema cautela, per non correre il rischio di diventare, per dirla con Emmanuel Le Roy Ladurie, dei « romanzieri del clima » autori di « ricostruzioni affrettate » 4 che poco o nulla ci consentono di comprendere del tema analizzato.

2

Andamento altalenante : global cooling o global warming?

Più o meno a partire dalla metà del XIX secolo, dunque, la Terra è entrata in una fase di incremento naturale della sua temperatura media superficiale. Si tratta di un pro3 · E. Guidoboni, A. Navarra, E. Boschi, Nella spirale del clima. Culture e societa mediterranee di fronte ai mutamenti climatici, Bononia University Press, Bologna 2010, pp. 219-21. 4· E. Le Roy Ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall'anno Mille, Einaudi, Torino 1982, p. I3.

IL RISCA LDAM ENTO GLOBALE

cesso ancora in corso, la cui durata non è preventivabile. Tale fluttuazione di lungo periodo non si è rivelata perfettamente continuativa, dal momento che gli anni suc­ cessivi alla fine della Seconda guerra mondiale - specie gli anni Settanta del Novecento - si sono caratterizzati per un decremento della temperatura media. Allora da più parti si parlò di un global cooling. «Dovremo abituarci a temperature basse » , scrisse il meteorologo Andrea Baroni commentando una primavera, quella del 1978, piovosa e instabile5• Will Dansgaard dedusse da un'analisi dei ghiacci della Groenlandia che il raffreddamento planetario sarebbe durato fino al 20506• Prima ancora, nell'agosto 1974, la CIA realizzò una ricerca che, basandosi su studi dell' Università del Wisconsin, ipotizzava l'avvento di un periodo climatico simile a quello del 16oo-185o, il quale avrebbe potuto comportare disordini ambientali, sociali e politici!. Il documento divenne di dominio pubblico nel marzo del 1975 e Vittorio Zucconi ne sottolineò le «prospettive agghiaccianti »8: la CIA prevedeva che la produzione granaria mondiale sarebbe calata in seguito all'arrivo di una piccola glaciazione e che gli USA avrebbero potuto disporre di un enorme potere politico-economico, potendo decidere a loro piacimento a chi destinare le proprie eccedenze cerealicole. La previsione di un raffreddamento globale planetario risultò un mantra negli studi climatologici del decennio9• La principale causa del global cooling fu individuata nell'eccessivo impiego delle sostanze propellenti presenti nelle bombole spray. Nel 1971 Stephen Schneider pubblicò uno studio in cui venne ritenuta plausibile, pur se con molte cautele, una diminuzione della temperatura media planetaria di 3,5 oc in caso di un marcato incremento della concentrazione di aerosol nell'atmosfera10• Altri addussero invece diverse motivazioni per il fenomeno, sfociando anche nel folklori­ stico11. Era molto minoritaria la posizione di chi prevedeva che l'ondata di freddo si sarebbe chiusa con la fine del decennio. s . L'articolo è in "La Stampà', I 0 maggio I978, p. 4· Pochi giorni prima, il 14 aprile, a p. 15 di "Stampa Serà' vi era l 'articolo non firmato Aiuto, arriva un 'era glaciale. 6. Cfr. Siria, Il clima si raffreddera sino a dopo il Duemila ?, in "l' Unità", 22 gennaio I979, p. 4· 7· li documento si intitola A Study of Climatologica! Research as it Pertains to Intelligence Problems ed è visionabile in http:/ /wattsupwiththat.com/ 201 2/ o s / 2 S /the-cia-documents-the-global-cooling­ research-of-the-I970s/. 8. V. Zucconi, Rapporto Cia: torna la glaciazione e ilgrano sara ((l 'arma delfuturo", in "La Stampa", I8 marzo I97 S· p. I6. 9· Cfr. H. de Blij, Why Geography Matters. Three Challenges Facing America: Climate Change, the Rise of China, and Global Terrorism, Oxford University Press, New York 2005, p. 8 s . IO. Cfr. S. Schneider, Athmospheric Carbon Dioxide and Aerosols: E./Jects of Large lncreases on Global Climate, in "Science': I73· July I97I, pp. I3 8-4I. Esso è stato interpretato in modo spesso stru­ mentale, anche in considerazione del fatto che Schneider dagli anni Ottanta e fino alla morte (avvenuta nel 20IO) fu un convinto sostenitore del GW. Ciò ha comportato attacchi - molto ingenerosi - allo stesso Schneider e alla sua attendibilità. 1 1. Cfr. U. Oddone, La faraonica diga sul Nilo ci ha rubato la primavera?, in "La Stampà: I9 dicembre I978, p. I I. Pare che un non meglio citato studioso milanese abbia elaborato una teoria secondo cui la diga di Assuan avrebbe provocato modifìcazioni climatiche nel bacino del Mediterraneo. 1 91

SAVE RIO LUZZI 3

La crescita verticale del riscaldamento globale negli ultimi trent 'anni

Negli anni Ottanta la temperatura superficiale del pianeta riprese a salire, re­ innestandosi nella direzione intrapresa alla metà del XVI I I secolo. L' idea di un raffreddamento climatico rimase nell ' immaginario collettivo solo in relazione a un possibile inverno nucleare dovuto a una guerra o a un incidente atomico. Ne sono testimonianza, tra i tanti, il brano London Calling dei Clash, presente nell'album omonimo della punk-band inglese pubblicato alla fine del 19791\ gli articoli di Alberto Moravia sulla questione nucleare scritti nella prima metà degli anni Ottanta13, film di grande successo come The Day After ( 1984 ) , diretto da Nicholas Meyer. Il mondo scientifico iniziò a occuparsi con sempre maggior interesse della que­ stione e il Programma ONU per l'ambiente ( United Nations Environment Programme, UNEP, fondato nel 1972 ) organizzò la prima conferenza internazionale sul clima, tenutasi a Ginevra dal 12 al 23 febbraio 1979. Il consesso, cui parteciparono ottanta studiosi, servì a fare il punto sulle conoscenze climatiche. Alla sua conclusione fu approvato un documento in cui venne sottolineata l' importanza del clima quale risorsa naturale imprescindibile e in cui si chiese ai governi di tutto il mondo di adoperarsi per prevenire ogni possibile interferenza antropica sull'andamento natu­ rale del clima stesso. La conferenza ginevrina pose le basi per la nascita, avvenuta nel 1980, del Programma mondiale di ricerche sul clima ( "World Climate Research Programme, WC RP ) 14• La prima parte degli anni Ottanta si caratterizzò anche per un paio di eventi che attirarono l'attenzione popolare sul GW. Il primo di essi fu l'arrivo, nel 19 82-83, del fenomeno meteorologico a cadenza non predeterminata noto con il nome di El Ni.fio. Tra il 1950 e il 1976 El Ni.fio si era manifestato per sei volte, senza causare conseguenze di particolare gravità. Il suo materializzarsi nel 1982 non venne previsto. Nel 1983 il settore ittico peruviano perse il 95% del pescato rispetto al 1970 a causa del fortissimo aumento delle temperature oceaniche. Violentissime alterazioni climatiche interessa­ rono - oltre al Pen1 - Salvador, Messico, Florida, Polinesia e Australia. Sono da ritenersi plausibili 2.100 morti e 13 miliardi di dollari di danni in tutto il mondo per

I2. li brano venne composto da Joe Strummer e Mick Jones. I3. Cfr. A. Moravia, L'inverno nucleare, Bompiani, Milano I986. I4. Su di esso cfr. WCRP, The "World Climate Research Programme Strategie Framework 2oos-2ois: Coordinated Observation and Prediction ojthe Earth System (coPES), World Meteorologica! Organiza­ tion, Geneva 2005. Utile anche G. Maracchi, S. Orlandini, Cambiamenti climatici: problemi e prospet­ tive, in A. Dalla Marta, S. Orlandini (a cura di), Convegno nazionale clima e salute. L'ambiente atmo­ sferico, s.n., s.l. 2000, vol. I, pp. I-12. 192

IL RISCA LDAM ENTO GLOBALE

quello che venne definito "El Nifio del secolo", tanta fu la sua violenza15. Nel 19 97-9 8 esso si ripeté con effetti non meno gravi. L'altro evento - ufficializzato nel 1995 - fu la scoperta del buco dell'ozono sui cieli dell'Antartide per opera della British Antarctic Survey. Da allora i quotidiani italiani iniziarono a riempirsi di notizie sul tema, con toni preoccupati e contraddit­ tori16, informando la popolazione dei rischi derivanti per la salute da un eccesso di esposizione al sole : durante un incontro con la stampa, i medici dell ' Istituto per la ricerca sul cancro di Genova riferirono che dal 1930 l' incidenza dei tumori epiteliali in Italia era aumentata del 9oo% e che entro una ventina d'anni sarebbe letteralmente esplosa17. Our Common Future, il rapporto della Commissione mondiale sull' am­ biente e lo sviluppo (World Commission o n Environment and Development, WC ED ) dell' ONU affermò che negli USA il rischio di contrarre il melanoma era aumentato di dieci volte rispetto agli anni Trenta del Novecento e che nell' immediato futuro uno statunitense su 150 avrebbe sviluppato la malattia18. Il nesso tra i clorofluorocar­ buri ( c F c ) e la riduzione dello strato di ozono, di cui già nel 1974 avevano parlato Frank Sherwood Rowland e Mario José Molina in un loro studio, era dunque incon­ futabile19. Contro l'emergenza legata al calo dello strato di ozono vennero approvati la Convenzione di Vienna (22 marzo 1985, resa esecutiva in Italia con la legge 4 luglio 1988, n. 277 ) e - dopo un paio di anni di trattative - il Protocollo di Montreal ( 1 6 settembre 1987), un accordo che prevedeva la progressiva messa al bando dei C F C da ultimarsi entro il 20 30. Arrivare alla stipula di tale convenzione non fu facile: Francia, Regno Unito e Italia opposero resistenzelO. In Italia, poi, a causa dei tempi lunghi e della poca efficacia del Parlamento, passò quasi un anno prima che il Pro,

IS . Cfr. G. Dalù, El Nifio e la luna, AIPSA, Cagliari 2002, pp. I7-28; W. Sullivan, Il terribile ((Nifio" che sconvolge il clima del pianeta, in "Tuttoscienze� IOI, 30 novembre I983, p. I. 16. Cfr. F. Prattico, Attenzione sul Polo Sud, il manto d'ozono e bucato, e Lassu l'ozono e scomparso, ma non e colpa dell'uomo, in "la Repubblica", rispettivamente 29 giugno I986, p. I2, e 3 dicembre I9 86, p. I 8. I7. F. Michelini, Un nuo vo nemico, il sole, in "l' Unità", 23 luglio I986, p. S · I 8. Cfr. A. Cianciullo, Dall'oNU un grido d'allarme per l'apocalisse ambientale, in "la Repubblica", 29 ottobre I987, p. 23. Our Common Future è conosciuto come Rapporto Brunddand, dal nome di Gro Harlem Brunddand , allora presidentessa della WCED e coordinatrice dello studio. Sul nesso tra inquinamento e melanomi cfr. S. Luzzi, Il virus del benessere. Ambiente, salute e sviluppo nell'Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 2I7-9· I9. Frank Sherwood Rowland (I927-20I2) e Mario José Molina (I943) insieme con Paul Jozef Crutzen (I9 33) vennero insigniti del premio Nobel per la chimica nel I99 S per i loro studi sulla for­ mazione e decomposizione dell'ozono. Lo studio citato nel testo è Stratospheric Sink for Chlorojluoro­ methanes: Chlorine Atom-catalysed Destruction of Ozone, in "Nature", 249, 28 rh June I974• pp. 810-2 e venne accolto con estremo scetticismo dalla comunità scientifica. Cfr. M. Brooks, Radicali liberi. Elogio della scienza anarchica, Dedalo, Bari 20I2, pp. 232-6. Cfr. anche P. Gagliardo, F. Sirimarco, Per capire l'eftfe to serra, FrancoAngeli, Milano I994· pp. 30-46. 20. Cfr. R. Bassoli, Ozono, l'Europa sabota, in "l ' Unità", I2 settembre I987, p. I2. In un convegno di studio tenutosi il 1° giugno 1988, la DC sollecitò tuttavia una rapida approvazione del Protocollo di

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tocollo fosse reso esecutivo ( con legge 23 agosto 19 88, n. 393). In questo periodo il titolare del dicastero dell'Ambiente, Giorgio Ruffolol', sollecitò più volte i presidenti di Camera, Senato, e del Consiglio a operare in modo fattivo per consentire la rati­ fica della norma in questionell. Negli anni, il Protocollo fu più volte rivisto adottando criteri via via più restrit­ tivi. Nella sua versione iniziale esso era ritenuto infatti insufficiente al raggiungimento degli obiettivi auspicati. Gianfranco Bologna, all'epoca vicedirettore del WWF Italia, affermò: « Il protocollo di Montreal è un importante segnale di buona volontà, ma un segnale insufficiente : è come pretendere di curare una broncopolmonite con l'Aspirina » l3• Non a caso il Partito radicale, Legambiente e lo stesso WWF promossero una petizione per chiedere l'adozione di provvedimenti più severi, raccogliendo il consenso di circa 8o.ooo italiani. Malgrado le difficoltà iniziali, il Protocollo di Montreal il 17 settembre 2012 è stato firmato da 193 nazioni e da più parti esso è ritenuto uno dei più grandi successi della politica di cooperazione globalel4•

4

Gli effetti dell ' inquinamento

È ormai evidente che diossido di carbonio e altri gas prodotti dalle attività industriali

stanno intrappolando il calore all'interno dell'atmosfera terrestre. Le temperature sono andate aumentando durante tutto il xx secolo ; ma l 'impennata avvenuta negli anni Ottanta, sono in molti a pensarlo, è un segnale ben preciso : l' inizio di un'era di "riscaldamento globale", provocato dall 'umanità stessa, e che sull'umanità sta per ritorcersi lS. A detta degli osservatori coevi, il 1987 fu l'anno più caldo del Novecento. Con­ siderato che il 10 febbraio dell'anno precedente su Roma caddero 30 cm di neve, fu

Montreal. Cfr. il non firmato Azioni piu decise in difesa dellafascia di ozono, in "la Repubblica", 2 giugno 1988, p. 23. 21. Giorgio Ruffolo, socialista, fu titolare del ministero dell 'Ambiente (istituito con la legge 8 luglio 1986, n. 349 ) dal 28 luglio 1987 al 2 febbraio 1992 e lo organizzò dandogli capacità funzionale e credibilità scientifica. Cfr. il suo Il libro dei sogni. Una vita a sinistra raccontata a Vtmessa Roghi, Donzelli, Roma 2007, pp. 103-14. 22. Cfr. A. D 'Amico, Allarme dal pianeta Terra, in "la Repubblica", 24 aprile 1988, p. 19. 23. A. Cianciullo, Ora l'Italia s'e decisa a difendere l'ozono, ivi, 4 agosto 1988, p. 6. 24. Sui cieli dell'Antartide lo strato di ozono si è ampiamente rafforzato in questi anni (cfr. G. Visconti, È migliorata la salute del! 'ozono antartico, in "Corriere della Sera", 28 giugno 2011, p. 29 ) , diminuendo tuttavia sui cieli artici (Id., Ipossibili rischi per il buco dell'ozono sul Polo Nord, ivi, 4 ottobre 2011, p. 35 ) . 25. M. L. Rodotà, Effitto serra: I9S7, anno piu caldo della storia, in "l' Un ità", 30 marzo 1988, p. 18.

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un salto non da poco. Al 1987 - lo vedremo poi - sarebbero seguiti anni ancor più torridi. Il concetto di GW entrò così nell'immaginario collettivo . Beniamino Placido scrisse che ormai gli italiani leggevano i bollettini meteo con il medesimo perverso gusto del potere con cui seguivano la politica. Non ci basta sapere che là dove noi ci siamo rifugiati in montagna o al mare per sopravvivere al caldo cittadino, fa relativamente fresco. Abbiamo assolutamente bisogno di sapere anche che nei posti da cui siamo fuggiti [ ... ] fa disperatamente caldo. Perché questo esalta il nostro gusto della sopravvivenza. E sopravvivenza è potere. Lo diceva nientedimeno che Elias Canetti. Inoltre, cerchiamo di soddisfare anche attraverso la meteorologia quel nostro ine­ stinguibile bisogno di un nemico di cui ha parlato Cari Schmitt. Non ci basta sapere che fa tanto caldo. Abbiamo anche bisogno di sentirei dire che questo caldo è stato provocato da un attentato (ieri, lo scoppio della prima atomica, oggi l'effetto serra, il buco nell'ozono) . E che questo attentato è opera di un nemico : magari nascosto proprio fra di noi; ma un nemico, comunque. Del caldo puro e semplice, del caldo normalmente ricorrente ogni anno, non sappiamo cosa farcene6•

Ieri come oggi, la spettacolarizzazione mediatica crea un' iperrealtà di stampo bau­ drillardiano. Maria Inglisa, la quale ha studiato modi e forme della rappresentazione mediatica dei cambiamenti climatici tra il 1997 e il 2007, ha notato come negli anni lo spazio dedicato dai principali quotidiani nazionali al GW sia sensibilmente aumen­ tato e abbia teso a occupare spazi aventi una visibilità maggiore, aggiungendo tra l'altro : La drammatizzazione della rappresentazione non si realizza tanto nei toni usati dai soggetti che vengono coinvolti negli articoli e nei servizi [ma] si realizza piuttosto a livello dei con­ tenuti tramite la loro polarizzazione e l'esaltazione degli aspetti più tragici a discapito della trasmissione di informazioni precise ed esatte. Se la carta stampata ha quindi un atteggia­ mento più documentato e analitico, continuativo, la TV presenta un'enfasi dai tratti disin­ formativi. Tuttavia, in generale le notizie fornite assai raramente analizzano il tipo e la gravità delle conseguenze, le quali sono descritte nel dettaglio solo nel 35% dei casi (giornali) e nel 3 6 % (servizi Tv)�7•

Paolo Riva ha invece posto in risalto come negli ultimi vent 'anni il concetto di riscaldamento globale in termini di popolarità sia diventato patrimonio comune nel mondo occidentale, mentre risulta praticamente sconosciuto in nazioni come l' In­ donesia, il Pakistan, l' Egitto e la Nigeria. La grande popolarità non vuol dire tuttavia conoscenza puntuale delle cause e degli effetti del fenomeno, né presuppone sempre 26. B. Placido, Sulle Poste nuvole e nembi, dice il Tg, in "la Repubblica", I S luglio I988, p. 29. 27. M. lnglisa, La rappresentazione dei cambiamenti climatici nei media italiani. Rapporto di ricerca: analisi dei principali quotidiani nazionali e dei telegiornali di prima serata Rai e Mediaset, Ibis, Como-Pavia 2008, pp. IOO - I.

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una buona coscienza ambientalista. Assai modeste, infatti, risultano essere le percen­ tuali di chi, pur di abbassare la quantità di gas serra presenti in atmosfera, si dichiara disposto a modificare in modo radicale il proprio stile di vita, ricorrendo esclusiva­ mente a energia prodotta da fonti alternative o adottando forme di mobilità diverse da quella automobilistica�8• Accennato alle distorsioni dei media e a quelle relative ai comportamenti collet­ tivi, non si può però tacere la presenza di elementi numerosi e tangibili che indica­ vano lo svilupparsi di una situazione realmente critica. Il rapporto redatto proprio nel 1987 dal Worldwatch lnstitute affermò che l' incremento costante della CO � nell'atmosfera aveva dato il via al GW del pianeta� 9• Guido Visconti affermò che in quel momento in atmosfera vi erano 345 milioni di particelle di CO contro i � 270 milioni del 18so, aggiungendo che erano state la rivoluzione industriale, la distru­ zione delle foreste e la produzione forsennata di energia a rendere possibile tale disastro ambientale30• Dal 1950 al 1990 in Italia le emissioni di CO nel settore � energetico sono aumentate da o,88 a 6,86 Mt pro capite, mentre quelle complessive nazionali sono passate da 42 a 396 Mt31• A livello mondiale, le emissioni di CO sono � invece cresciute del 3 8 % dal 1990 al 20 09. Ciò non poteva e non può non avere conseguenze anche sul sempre più frequente distacco di iceberg dai poli. Nell'au­ tunno del 1987 se ne staccò uno dall'Antartide3 � di 48 x 158 km e negli anni succes­ sivi i giornali si riempirono di notizie analoghe. Nel 1988, per iniziativa della World Meteorologica! Organization (wMo) e dell' uNEP venne fondato l' Intergovernmental Panel on Climate Change (IPcc). Il suo compito iniziale, in base alla risoluzione 6 dicembre 1988, n. 43l 53, dell'Assem­ blea generale dell' ONU, era di lavorare a una revisione dello stato delle conoscenze sul clima e sui suoi cambiamenti, fornendo al contempo le possibili strategie di nsposta. Al Festival di Sanremo del 1989, eseguendo Cosa restera degli anni 'So, Raf cantò, tra gli altri, i versi « Anni come giorni son volati via l brevi fotogrammi o treni in galleria. l E un effetto serra che scioglie la felicità l delle nostre voglie e dei nostri jeans che cosa resterà? » 33• Si entrava negli anni Novanta. •

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28. P. Riva, La percezione sociale del cambiamento climatico, in M. Migliavacca, L. Rigamonti (a cura di), Cambiamenti climatici. Un approccio interdisciplinare per capire un Pianeta in trasformazione, il Mulino, Bologna 20IO, pp. I6 9-2I4. 29. Cfr. Worldwatch lnstitute, State of the World I9S7: A Worldwatch Institute Report on Progress toward a Sustainable Society, Norton & Co., New York-London I987. 30. R. Bassoli, Nel tunnel del grande caldo, in "l' Unità", I 0 novembre I987, p. I4. 3I. Dati presenti in A. Malocchi (a cura di), La scommessa di Kyoto. Politiche di protezione del clima e sviluppo sostenibile, FrancoAngeli, Milano I998, pp. 44-6. 32. A. D 'Amico, Un 'isola di ghiaccio va alla deriva, in "la Repubblica� 7 novembre I987, p. 7· 33· li testo della canzone è di Giancarlo Bigazzi, la musica di Giuseppe Dati e dello stesso Raf.

IL RISCA LDAM ENTO GLOBALE s

Decisioni e accordi internazionali

Dal 29 ottobre al 7 novembre 1990 si tenne a Ginevra la seconda Conferenza mon­ diale sul clima. Al centro del dibattito vi fu il GW, per la cui risoluzione vennero avanzate anche proposte ben poco scientifiche34• A Ginevra, dove erano presenti scienziati e politici, si fronteggiarono due posizioni: chi chiedeva interventi imme­ diati contro l'effetto serra e chi, invece, si attestava su posizioni più attendiste e scettiche. Dal punto di vista politico, capofila degli scettici erano gli USA, nel pieno della presidenza di George Bush sr (1988-92). Le conclusioni della conferenza furono interlocutorie: i Paesi CEE, quelli scandi­ navi, il Giappone e l'Australia (più "interventisti" rispetto agli usA ) si impegnarono a stabilizzare le emissioni di CO entro il 200035, mentre USA e URSS non presero impegni vincolanti. La C EE fissò detto obiettivo nel momento in cui era l' Italia ad averne il turno di presidenza. Il già citato ministro italiano dell'Ambiente, Giorgio Ruffolo, fu molto attivo su questo fronte, mantenendo un certo realismo pragmatista. Egli disse che non ci si poteva aspettare che un modello di sviluppo così radicato potesse essere cambiato da un giorno all'altro e che comunque i risultati erano da valutarsi in modo positivo anche se la comunità scientifica proponeva un taglio immediato del 6o% delle emissioni di CO 36• A Ginevra l' IPCC presentò il suo Primo rapporto, che evidenziava il nesso tra attività antropiche e andamento climatico, affermando che la temperatura media del pianeta poteva crescere nel XXI secolo di 0, 2-o , s oc al decennio. Il meteorologo Edmondo Bernacca parlò di « fosche previsioni » 37• Tappa successiva fu la Conferenza O N U sull'ambiente e lo sviluppo (United Nations Conference o n Environment and Development, UN CED ), tenutasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 199 2, cui parteciparono 183 nazioni. Si trattò di un evento dalla risonanza vastissima. George Bush sr affermò in quella sede che il modello di vita degli USA non poteva essere oggetto di negoziato. L ' uN C ED produsse la Con­ venzione quadro dell' ONU sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention o n Climate Change, UNFCCC ), che fu il prodromo politico-scientifico del Protocollo di Kyoto, firmato l' n dicembre 1997. L' Italia ratificò l ' uN FCCC con l

l

34· L'egiziano Mohamed El Kassas propose di realizzare due grandi dighe sullo stretto di Gibil­ terra e a Bab-El-Mandeb con cui regolare il livello del Mediterraneo ed evitare il probabile innalza­ mento delle acque dovuto al GW. Cfr. "Tappate il Mediterraneo", in "La Stampa", 3 novembre I990, P· I I. 35· Vi furono tuttavia forti perplessità da parte del Regno Unito. 36. Cfr. ad esempio gli articoli dell' 8 novembre I990: M. G. Bruzzone, Ejjètto serra, l'Europa raccoglie pochi alleati, in "La Stampa", p. IS; A. Cianciullo, Una polizza per ilpianeta, in "la Repubblica", p. I6. 37· E. Bernacca, Il tempo domani. Dagli influssi lunari all'effetto serra, Giunti, Firenze I99I, p. I96. 1 97

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la legge 15 gennaio 1994, n. 65, e il 25 febbraio dello stesso anno il Comitato inter­ ministeriale per la programmazione economica ( C I PE ) approvò il Programma nazio­ nale per il contenimento dell'anidride carbonica. Il 16 gennaio 1995 il governo tra­ smise all ' Unione Europea la Prima comunicazione nazionale dell'Italia alla convenzione-quadro sui cambiamenti climatici38 e nel novembre 1997 presentò la Seconda comunicazione, ben più corposa rispetto alla precedente39• A Kyoto il dibattito fra i delegati di 170 nazioni fu aspro. Si doveva passare da una dichiarazione di intenti a un documento vincolante, e tale risultato fu raggiunto con difficoltà. Il documento finale previde l'obbligo, per i Paesi firmatari, di ridurre entro il 2008-12 le emissioni di gas serra in media del 5,2% rispetto a quelle registrate nel 1990. L'entrata in vigore del protocollo venne fissata per il novantesimo giorno successivo al momento in cui non meno di 55 nazioni - produttrici di almeno il 55% delle emissioni mondiali di gas serra - avessero ratificato il protocollo stesso. Il neo­ eletto presidente degli USA, George Bush jr, affermò che il suo paese non poteva convalidare il protocollo poiché imponeva limiti inaccettabili per lo sviluppo statu­ nitense40 e anche in altre nazioni l'accettazione parlamentare andò per le lunghe. In Italia essa avvenne solo con la legge 1° giugno 200 2, n. 120 4 1. Il I I governo Berlusconi, entrato in carica dopo la vittoria elettorale del 13 maggio 20 0 1, tentò di frenare la ratifica dell'accordo, avvicinandosi alla posizione degli USA4\ ma poi preferì non distaccarsi dall' Unione Europea. L'entrata in vigore del protocollo avvenne solo il 16 febbraio 2005, tre mesi dopo la ratifica del Parlamento russo. Va aggiunto che l'ac­ cordo impose a ogni nazione di diminuire di una percentuale diversa le proprie emissioni (India e Cina furono esentate da ogni obbligo di riduzione), consentendo di vendere a Stati meno virtuosi le eventuali quote di "sovraribasso" delle emissioni stesse, delle quali si creò un mercato discutibile. Gli ambientalisti chiedevano impegni ben più vincolanti43. In quegli anni, l'attenzione collettiva nei confronti del GW crebbe. In un con­ vegno tenutosi il 5 giugno 1991, Giorgio Fiocco lamentò l'estrema limitatezza e le « modalità relativamente aspecifiche » che caratterizzavano il finanziamento delle ricerche italiane sull'effetto serra44• Nella stessa sede, Romano Gellini ed Elena Pao38. Il cui autore ed editore fu il Ministero dell'Ambiente. 39· Ministero dell 'Ambiente, Seconda comunicazione nazionale dell'Italia alla convenzione-quadro sui cambiamenti climatici, Ministero dell'Ambiente, Roma 1998. 40. M. Molinari, Bush: ':A Genova chi protesta danneggia i poveri", in "La Stampa", 1 8 lugl io 2001, pp. 2-3· 41. La legge prevedeva che il nostro paese riducesse le emissioni di gas serra del 6, s % rispetto al 1990. 42. M. Molinari, Intesa tra USA e Italia per lo studio del clima, in "La Stampa", 20 luglio 2001, p. 7· 43· Antonio Navarra e Andrea Pinchera, nel loro Il clima, Laterza, Roma-Bari 20 00, alle pp. 191-5 hanno parlato, provocatoriamente, di « aria fritta » in riferimento al Protocollo di Kyoto. 44· G. Fiocco, Ricerca italiana sul clima regionale e globale. Problemi di crescita, in Cambiamento globale del clima: stato della ricerca italiana. IXgiornata dell'ambiente (Roma, 5 giugno I99I), Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1992, pp. 23-38 ( la citazione è tratta da p. 27 ) .

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letti esposero una relazione dove ricordarono che la Società botanica italiana aveva redatto una "lista rossa" con circa 450 specie vegetali le quali, sul territorio italiano, erano a forte rischio di sopravvivenza. Il leccio - pianta sempreverde - scontava un eccesso di fioritura e una rilevante abscissione delle foglie; abete bianco, robinia, cipresso, carpino e altre specie arboree italiane facevano riscontrare anomalie nelle fioriture. Il Colchicum autumnale, la Ca/luna vulgaris, la Solidago virgaurea e il Cyclamen neapolitanum, specie a fioritura tardoagostana e settembrina, avevano progressivamente anticipato la fioritura stessa di un paio di settimane o più. Erano poi stati condotti studi sulle foglie di faggio presenti negli erbari universitari di Roma e Firenze, e da essi era emerso che le foglie databili attorno al 1715 avevano circa il 55% in più di storni rispetto a quelle dell ' inizio degli anni Novanta del xx secolo, mentre per quelle del 18 oo la differenza era pari a +45% circa. Non solo: pur se gli storni antichi erano stati trattati con sostanze conservanti, non mostravano le aber­ razioni riscontrabili in quelle contemporanee. Risultati non dissimili si erano ottenuti sulle foglie di castagno e di quercia45• Emerse il problema dello scioglimento dei ghiacciai e dei distacchi di rocce sulle Alpi. Dal raffronto tra il catasto dei ghiacciai italiani del 1958 e quello del 1990 si notò che nel primo ne erano censiti 1.036 (di cui 20 1 estinti; 9 0 con superficie minore a 5 ettari; 745 con superficie superiore a 5 ettari), mentre nel secondo i ghiacciai erano 1.114 (di cui 307 estinti; 101 con superficie inferiore a 5 ettari; 706 con super­ ficie superiore a s ettari). A detta degli esperti, l'arretramento e la frammentazione dei ghiacciai non era solo conseguenza della naturale fluttuazione climatica, ma aveva anche cause antropiche46• Fenomeni di termoclastismo furono alla base della frana della cresta rocciosa granitica soprastante il ghiacciaio della Brenva, avvenuta il 18 gennaio 199�7• Augusto Bianconi affermò che fatti simili erano favoriti dall'effetto serra in quanto da un decennio il clima era spietato: l'innalzamento della temperatura liberava le rocce dalla pressione dei ghiacciai e ne favoriva l'espansione volumetrica, con conseguenti frat­ ture irreparabili48• Al convegno Nivologia e glaciologia. Stato dell'arte alla fine del xx secolo tenutosi a Grenoble, si affermò che nell'ultimo cinquantennio vi erano state variazioni della temperatura media valutabili in circa 7 °C49, e questo non poteva non avere conseguenze anche sulla stabilità delle vette alpine. Il 18 settembre 2004 45· Cfr. R. Gellini, E. Paoletti, Alterazioni delle piante indotte da possibili cambiamenti climatici, ivi, pp. 87-93. 46. Tutti i ghiacciai erano situati sulle Alpi, ad eccezione del Calderone, situato sul Gran Sasso. Cfr. Club alpino italiano-Comitato scientifico ligure-piemontese-valdostano, Archivi glaciali. Le varia­ zioni climatiche ed i ghiacciai. Atti dell'Incontro di Courmayeur, 2-3 settembre I995· s.n., Vercelli I997, spec. pp. 9-28 e 29-50. 47· A. Buzzolan, A. Custodero, Crolla il ghiacciaio del Bianco, in "la Repubblica", I9 gennaio I997, P· I5. 48. Cfr. A. Biancotti, Il risveglio dei ghiacciai, in "La Stampa", 5 febbraio I997, p. 2. 49· L. Mercalli, In cinquant 'anni sette gradi in piu, in "Tuttoscienze", I0 marzo I997, p. 3 ·

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dalla Cima Thurwieser, in Val Zebrù, e il 12 ottobre 2007 dalla Cima Una, in Val Fiscalina, vi furono due grandi distacchi rocciosi50: si trattò dei fenomeni più eclatanti di un processo erosivo accentuato che gli studiosi del settore attribuirono in buona parte al GW51•

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The Day after Tomorrow: arriva l 'emergenza climatica

Nel gennaio 1999, i dati dei principali centri di ricerca sul clima rivelano quello che è ormai il segreto di Pulcinella: il 1998 è l'anno più caldo nella storia della meteorologia5 � . A onor del vero, all'inizio dell'anno precedente si diceva la medesima cosa del 199753• Lo stesso più o meno si disse anche alla fine del 1992 e del 1995. D'altronde, il decennio 1990-99 fu il più caldo dalla metà del XIX secolo54• In ogni caso, il 1998 fu un anno climaticamente intenso, innanzitutto per il ripresentarsi di El Ni.fio, il quale tornò a mostrare tutta la sua violenza in Cile, Pen1, Uruguay, Messico, Florida, Indonesia e Australia55• L'allora vicepresidente degli USA, Al Gore, tenne un discorso alla Casa Bianca in cui si rivolse al Congresso chiedendogli di preoccuparsi dell'ef­ fetto serra così come si era preoccupato, fino a pochi anni prima, dell'espansionismo sovietico56• Dal canto suo il rapporto 1999 del Worldwatch lnstitute dava notizia, tra le tante, di estinzioni di specie animali imputabili al riscaldamento climatico57• Dall'inizio di giugno si ebbe una Grande ondata di afa sull'Italia58• A colpire l'opinione pubblica fu poi la violenza dell 'uragano Mitch, che si abbatté su Guate­ mala, Honduras e Nicaragua tra l'ottobre e il novembre del 1998, provocando quasi 2o.ooo vittime. Il GW divenne ancor più argomento accettato dagli studiosi del

s o. Plausibilmente dalla Cima Una si staccarono oltre IOo.ooo m1 di roccia. SI. Cfr. l'intervista di Luca Mercalli a Giovanni Mortara, Alpi, ecco le vette a rischio, in "la Repub­ blica", I4 ottobre 2007, p. 24. 52. Navarra, Pinchera, Il clima, cit., p. 3 I. 53· Cfr. G. Caprara, Il I997 anno piu caldo della storia, ma in America e emergenza per ilfreddo, in "Corriere della Sera", 1 1 gennaio I998, p. I2. 54· Cfr. M. Maugeri, Cambiamenti climatici e global warming, in L. Bonardi (a cura di), Che tempo foceva? variazioni sul clima e conseguenze sul popolamento umano. Fonti, metodologie e prospettive, Fran­ coAngeli, Milano 2004, pp. 6I-6. n I998 fece registrare una temperatura media di o.s ? oc superiore alla media del I96 I-90. SS · Cfr. A. Navarra, El Nino. Realta e leggende del fono meno climatico del secolo, Avverbi, Roma I998, pp. 8I-8. s 6. Cfr. E. Caretto, La Casa Bianca: e emergenza clima, in "Corriere della Serà: 9 giugno I998, p. I4. 57· Cfr. L. R. Brown, State of the World I999· Stato del mondo e sostenibilita. Rapporto annuale. Edizioni Ambiente, Milano I999· Sul tema cfr. anche D. Godrej, I cambiamenti climatici, Carocci, Roma 2003, pp. 77-9I. s 8. Questo il titolo dell'articolo di F. Foresta Martin, in "Corriere della Sera� 6 giugno I998, p. I7. 200

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settore e da intellettuali di altri ambiti. Il I5 agosto 2002, sulla prima pagina del "Corriere della Sera", Giovanni Sartori firmò l'editoriale Abbiamo sconvolto il nostro clima, in cui disse che c 'erano fondati motivi di allarme. Il caldo che si stava vivendo non era frutto di bizzarrie momentanee, bensì effetto di un'azione antropica che andava subito arrestata. Sartori basò la sua analisi sui contenuti dei quattro volumi del Terzo rapporto dell' IPCC, pubblicato nel 20 0I, i quali previdero, in caso di assenza di interventi volti a limitare il fenomeno, un incremento della temperatura superfi­ ciale media planetaria compresa tra I,4 e 5,8 oc per il 2Ioo59• Egli fu buon vaticina­ tore, in quanto il 20 0 3 e il 2005 furono due anni analoghi al I998. Specie l'estate del 200 3 si caratterizzò per i grandi effetti sulla salute pubblica: l 'ondata di calore che si ebbe dal I0 giugno al 3 I agosto pare abbia causato nel nostro paese un eccesso di mortalità pari a 3·I34 persone rispetto allo stesso periodo del 20 o260• Il 5 agosto a Milano vennero percepiti 46 oc e a Firenze 4561• Paolo Rumiz salì sull'Altopiano di Asiago per incontrare Mario Rigoni Stern: Andiamo a camminare. Mario mette gli scarponi, ha ancora il diavolo in corpo. [ ... ] Del bosco sa ogni segreto, è una cosa vivente che gli serve a misurare la febbre della Terra. Quest'anno caldo, racconta, gli abeti sono in esuberanza, « guarda lassù come son pieni di stròbili e polline » . Le allodole sono salite sopra i I.s o o metri, lo senti dal trillo dell 'alba che non c 'è più, attorno al paese. Le zecche sono sparite, le vespe germaniche pure. I funghi pochi, le vipere tan te62•

In Francia gli effetti furono ancora più gravi: i decessi dovuti al caldo furono non meno di I5.ooo nel solo mese di agosto63, quando le temperature massime transalpine per una decina di giorni superarono la media stagionale di oltre IO °C64• L'anno successivo l'allora ministro della Salute, Girolamo Sirchia, rivolse reiteratamente un invito agli anziani: recarsi a trascorrere le giornate all' interno dei centri commerciali dotati di aria condizionata per non subire gli effetti del terribile caldo65• Le parole del ministro destarono polemiche. Esse sembrano sancire l'adozione di un modello che rinuncia al we/fare state per abbracciare un liberismo di stampo statunitense e 59· n Secondo rapporto dell'IPCC, pubblicato nel I995· aveva invece previsto un incremento della temperatura superficiale planetaria media compreso tra I,o e 3,5 oc. 6o. S. Conti et al , Epidemiologie Study ofMortality during the Summer 2003 Heat Jtave in Italy, in "Environmental Research", 98 ( 3 ) , July 2005, pp. 390-9. 6I. C. Lazzaro, Il caldo aumenta ancora. Roghi, allarme in Liguria, in "Corriere della Sera': 6 agosto 2003, p. 5· 62. P. Rumiz, La scala del grande vecchio, in "la Repubblica", IO agosto 2003, p. 28. 63. F. Canou'i-Poitrine et al , Excess Deaths during the August 2003 Heat Jtave in Paris, France, in "Revue d'épidémiologie et de santé publique': 54, 2, Avril 2006, pp. I27-35· 64. A. Fouillet et al , Excess Mortality Related to the August 2003 Heat JtVt:zve in France, in "Inter­ national Archives of Occupational and Environmental Health", So, I, October 2006, pp. I 6-24. 65. M. De Bac, Sirchia: alla fine solo i fragili nelle liste. lo? Ho 7I anni, ma sto bene e non ci saro, in "Corriere della Sera", I8 giugno 2004, p. I6. 201

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che, simbolicamente, rimuove la malattia e la morte grazie all'abbraccio con la moder­ nità66, senza tuttavia risolvere i problemi sul tappeto. Peraltro, non va dimenticato che gli apparecchi per il condizionamento dell 'aria, per i loro meccanismi di funzio­ namento, sono corresponsabili dell'effetto serra e che il loro uso smodato ha fatto sì che nel 20 06 il consumo di energia elettrica estivo in Italia superasse per la prima volta quello invernale. Dal 2000 al 2005 sono stati venduti in Italia circa 8 milioni di condizionatori, i quali emettono circa sei Mt annue di CO 67. 1 In seguito, toccò prima al 2005 e poi al 2010 il primato di anni più caldi dalla metà dell'Ottocento a oggi68, mentre il decennio 20 01-10 è stato considerato - sempre in rapporto al medesimo arco cronologico - il più torrido69, superando quello che lo aveva preceduto. Nel 2004, intanto, riscosse un grande successo di pubblico la pellicola fantascientifica The Day after Tomorrow, diretta e sceneggiata da Roland Emmerich, avente come tema una possibile apocalisse dovuta al GW.

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Pareri e visioni discordanti

Dopo i risultati conseguiti nell'ultimo decennio del Novecento, per alcuni versi l'attività volta a ridurre le conseguenze dell'azione antropica sulla Terra sembra aver conosciuto una minor brillantezza in questo scorcio di XXI secolo. Gli otto anni di presidenza statunitense di George Bush jr si sono caratterizzati per una totale disat­ tenzione rispetto ai problemi ambientali: ciò è stato la causa del sostanziale fallimento del vertice ONU di Johannesburg ( World Summit on Sustainable Development, 26 agosto-4 settembre 2002 ) , conclusosi senza risultati di rilievo (gli USA ufficialmente nemmeno vi hanno partecipato )70. Tuttavia, anche i Paesi in via di sviluppo hanno mostrato reticenze nel momento in cui si è cercato di stringere accordi vincolanti sulla riduzione delle emissioni di gas serra. Il vertice ONU di Copenhagen sui cam­ biamenti climatici tenutosi nel dicembre 2009 si è concluso senza impegni scritti, ma solo con dichiarazioni di intenti da parte di UE, USA, Brasile, Cina, Giappone, India, Australia e Sudafrica per contenere l'eventuale aumento di temperatura in meno di 2 oc entro il 2050.

66. Sul tema cfr. le considerazioni di M. Belpoliti, Il corpo del Capo, Guanda, Parma 2009, pp. I3 I-42. 67. D. Gaudioso, A. Masullo, Impatti dei cambiamenti climatici sul settore energetico, in S. Castel­ lari, V. Arcale ( a cura di) , I cambiamenti climatici in Italia. Evidenze, vulnerabilita e impatti, Bononia University Press, Bologna 2009, pp. 5 25-34. 68. Cfr. Il 2o1o e stato l'anno piu caldo di sempre, in "Corriere della Sera", 20 gennaio 201 1. 69. Cfr. Il decennio piu caldo dal ISso. ({Rischio cambi irreversibili", in "la Repubblica� 29 novembre 200I. 70. Giovanni Sartori, nel suo L'ejjètto serra delle idee confuse, in "Corriere della Sera", 8 settembre 2002, p. I, parlò di un vero e proprio fiasco. 20 2

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Se i risultati politici si sono rivelati inferiori alle aspettative, altrettanto non può dirsi dell'attenzione collettiva verso il GW. Nel 2007 l' IPCC e Al Gore sono stati insigniti del premio Nobel per la pace per il loro impegno contro il riscalda­ mento climatico71• Gore ha vinto anche l ' Oscar dello stesso anno per il documen­ tario An Inconvenient Truth, incentrato sulle conseguenze del GW. Sempre nel 2007, l' IPCC ha diffuso il suo Quarto rapporto, in cui si è ritenuto plausibile un incre­ mento della temperatura superficiale planetaria media compreso tra 1,1 e 6,4 oc. Nello stesso arco di tempo si fecero sentire anche voci critiche, su tutte quella dello statistico danese Bj0rn Lomborg, il quale nel suo L 'ambientalista scettico. Non e vero che la Terra e in pericolo7 2. dedicò un capitolo alla questione del GW. Lomborg non negò né il fenomeno né l 'esistenza di una componente antropica, ma disse che i modelli previsionali che prevedevano un aumento delle temperatura media del Pianeta di 6 oc entro il 2100 erano del tutto errati nelle proporzioni e presentavano alla collettività ipotesi distorte e inattendibili. Lomborg ricordò che la CO 2. non è l'unico gas serra presente in atmosfera e che se tutto lasciava presagire un aumento della CO nel XXI secolo, lo stesso non poteva dirsi per gli altri gas serra, la cui presumibile diminuzione futura potrebbe bilanciare gli effetti sul GW. Egli affermò di riporre grande fiducia nel progresso tecnologico e quindi nella possibilità di ridurre le emissioni di gas serra. Non solo : per Lomborg, un forte incremento della temperatura planetaria comporterebbe un vantaggio per l'agricoltura dei Paesi ricchi poiché varie specie vegetali (dal grano al riso) a suo dire crescerebbero meglio in presenza di maggiori quantità di concentrazione di gas serra. Un eventuale innalzamento del livello del mare sarebbe facilmente gestito dai Paesi ricchi e lo stesso dicasi per l'eventuale diffusione di malattie tropicali nel mondo occidentale, mentre l'aumento congiunto della CO delle precipitazioni e della temperatura avrebbe vari risvolti positivi: la Terra sarebbe più fertile e diminuirebbero i costi del riscaldamento, per portare solo due esempi. A detta di Lomborg l'adozione di misure contro il GW avrebbe un'utilità limitata e un costo sproporzio nato , e sarebbe ben più opportuno investire un simile capitale per consentire ai Paesi più poveri di iniziare un processo di sviluppo che consenta loro di emanciparsi dalla povertà, la quale, per lo studioso, è la vera causa dei guasti ambientali cui assistiamo. Lomborg ha ancor meglio approfondito le sue tesi in Stiamo freschi. Perché non dobbiamo preoccuparci troppo del riscalda­ mento globale73, libro che, come il precedente, ha ottenuto un ottimo riscontro di pubblico. Antonino Zichichi è sempre stato decisamente scettico rispetto al GW. Nel 2003, 2.

2. '

7I. Gore, vicepresidente statunitense dal I 9 9 2 al 2000, è stato autore di saggi divulgativi come Una scomoda verita. Come salvare la Terra dal riscaldamento globale, Rizzoli, Milano 2006. 72. Mondadori, Milano 2003. 73· Mondadori, Milano 2008. 20 3

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nell'ambito dell'annuale seminario da lui organizzato presso la Fondazione Ettore Majorana di Erice?\ egli ospitò il climatologo israeliano Mir Shaviv, secondo il quale l'andamento climatico del nostro Pianeta sarebbe influenzato assai più dal ciclico afflusso dei raggi cosmici che da fattori antropici75• Nel 20 09 Zichichi, assieme ad altri I I3 studiosi di 13 nazioni, firmò un documento pubblicato dal "New York Times" in cui si affermava che il GW non era affatto un'emergenza planetaria76 e, ancor più recentemente, ha dichiarato : Ogn i volta che chiedo [ai climatologi che propugnano la teoria del G W] di esporre dei modelli matematici adeguati che sostengano la [loro] teoria (e comunque oltre ai modelli servirebbero degli esperimenti) non sono in grado di farlo. Serve un gruppo di matematici che controlli i modelli esistenti e dia dei responsi di attendibilità77•

Il fisico Franco Battaglia, nel chiedere di sopprimere il cosiddetto principio di precauzione per manifesta vacuità e nel mostrare profondo scetticismo verso la teoria del GW, ha affermato che misure come quelle previste dal Protocollo di Kyoto avrebbero l'unico effetto di mettere in ginocchio l'economia dei Paesi industria­ lizzati?8. Ancor più di lui, l 'economista Carlo Stagnaro ha sollevato varie obiezioni di metodo : a suo dire le rilevazioni dell' I PCC sarebbero inesatte poiché effettuate in via quasi esclusiva sulla terraferma e a ridosso dei grandi centri urbani. Stagnaro ha affermato che non ci sono prove relativamente all 'aumento della temperatura media atmosferica, ma solo per quella superficiale, basandosi sulle analisi del cli­ matologo statunitense John Christy, e ha ribadito - accentuandoli - vari convin­ cimenti di Lomborg sull' insostenibilità dei costi del Protocollo per le varie eco ­ nomie nazionali79• Ancora diversa è la posizione di Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari, i quali hanno definito l'IPCC un 'istituzione che ha poco di scientifico e molto di politico. Per loro, il GW è sostanzialmente un complotto : Il passaggio decisivo per l' ingresso del riscaldamento globale nell'agenda politica internazio­ nale arriva ali' inizio degli anni Ottanta con il primo ministro britannico Margaret Thatcher,

74· Zichichi è il presidente della Fondazione, della quale, nel 1962, è stato cofondatore. 75· Cfr. F. Foresta Martin, Caldo per milioni di anni. Colpa dei cicli astronomici, in "Corriere della Sera", 20 agosto 2003, p. 18. 76. F. Porciani, Ma i tcn egazionisti" insistono: l'effetto serra non c 'e, ivi, 15 giugno 2009, p. 13. 77· M. Sacchi, Il riscaldamento globale? Una bufala {troppo) costosa, in "li Giornale", 22 agosto 2012, ora in http:/ / www. ilgiornale. it/ news/ cultura/ riscaldamento-globale-bufala-troppo-costosa83II 66.html. Il contenuto tra le parentesi tonde è nel testo originale. 78. F. Battaglia, Il principio di precauzione, in R. Irsuti ( a cura di) , Global Report 2004. Lo stato del Pianeta tra preoccupazioni etiche e miti ambientalisti, 21mo secolo, Milano 2004, pp. 35-44. 79· Cfr. C. Stagnaro, Riscaldamento globale e sostenibilita energetica: la via maestra non passa da Kyoto, ivi, pp. 311-24. 204

IL RISCA LDAM ENTO GLOBALE che scopre in questa teoria la possibilità di risolvere a suo vantaggio alcune questioni interne e internazionali che con il clima non hanno nulla a che fare80•

La Thatcher doveva acquisire credibilità a livello internazionale e, sul piano interno, doveva vincere la resistenza del potente National Union of Mineworkers. Nulla, a detta dei due studiosi, si rivelò più adatto ai suoi obiettivi della teoria del GW. Come interpretare queste posizioni ? Vari spunti proposti da Lomborg sono stimolanti: i modelli previsionali difficilmente si rivelano esatti e quelli dell ' IPCC non possono fare eccezione, ma non per questo le linee di tendenza da essi indicate sono da ritenersi sbagliate. Allo stesso modo, molte critiche rivolte ad Al Gore per l'enfasi e una certa disinvoltura nelle affermazioni fatte nel documentario che gli è valso l' Oscar sono fondate, ma ciò non significa che la sostanza del suo discorso sia complessivamente inattendibile. Sembra invece sensato sostenere che larga parte di quanto sostenuto da chi nega il GW appartenga a un ambito della conoscenza minoritario e qualitativamente approssimativo, di attendibilità scientifica assai limitata81•

8 Conseguenze del riscaldamento globale e scenari prevedibili

La temperatura superficiale planetaria è soggetta a fluttuazioni di breve e lungo periodo che prescindono dalle attività dell'uomo. Risulta però attendibile il fatto che il GW esista e possa essere definito come un elemento di alterazione della temperatura, nonché della frequenza e dell'intensità di vari fenomeni climatici terrestri. Pasca! Acot nota che su tali temi la comunità scientifica non nutre dubbi sostanziali8 � . Nell'attuale periodo, il GW determina un sovrappiù di aumento della temperatura superficiale media del Pianeta. E ancora impossibile dire con esattezza quanto le attività umane faranno sovraincrementare la temperatura planetaria nei prossimi anni: la forbice delle previsioni dell' IPCC, come visto, è ampia e non offre certezze assolute. Tuttavia, anche se si avverasse uno scenario ottimista - un sovra-aumento di I,o oc dovuto alle sole cause antropiche -, gli effetti per la Terra sarebbero molto '

8o. R. Cascioli, A. Gaspari, Che tempo fara. Falsi allarmi e menzogne sul clima, Piemme, Casale Monferrato 2008, p. 87. 8 I. In più occasioni, e fondatamente, l' inattendibilità di chi nega il GW è stata sollevata alla luce del legame intercorrente tra queste persone e mondo dell ' industria petrolifera, del più retrivo estre­ mismo di destra o del fondamentalismo cattolico, nonché sul fatto che le pubblicazioni dei cosiddetti negazionisti del GW non avvengono mai su riviste scientifiche quotate. Sul tema, A. Pinchera, Ci salveremo dal riscaldamento globale?, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 62-92. 82. P. Acot, Storia del clima. Dal Big Bang alle catastrofi climatiche, Donzelli, Roma 2004, p. 209. 205

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gravi: l'uomo modificherebbe come mai prima le condizioni di vita sul Pianeta, sancendo l'ingresso definitivo nell 'Antropocene83• Quali sarebbero le conseguenze sull'Italia ? Il nostro è un paese geologicamente fragilissimo e risente di fenomeni che ne evidenziano la vulnerabilità. Negli anni è venuta estendendosi la desertificazione, la quale oramai interessa parti non irrilevanti del territorio di Sicilia, Sardegna, Calabria, Campania, Puglia. La naturale aridità di molti terreni è stata accentuata da regimi pluviometrici sempre più irregolari, tanto che oggi la percentuale del territorio nazionale altamente sensibile a processi di desertificazione è pari al 3,07%, mentre quella mediamente sensibile ammonta al 32,15%. Su base regionale, la vulnerabilità territoriale a tale processo è aumentata dal 1961-90 al 197 1-2000 da un minimo del 3,6% (Friuli-Venezia Giulia) a un massimo del 13,1% (Calabria)84• Nel periodo 195 1-60 le ondate di calore in Italia hanno avuto una durata complessiva di 66 giorni, saliti nel decennio 199 1-2000 a 187, mentre gli eventi siccitosi sono aumentati in modo significativo, specie nel Mezzogiorno. Nel 2005 il patrimonio boschivo italiano ammontava a 10.673.589 ettari (circa il 35% del territorio nazionale) ed è possibile che, a causa dell' incremento di temperatura pre­ visto dai modelli dell 'IPCC, gli attuali boschi a predominanza di pini, abeti rossi e bianchi (che ammontano a circa il 30% del patrimonio arboreo italiano) possano lasciare il posto ad altre varietà boschive poiché il clima non sarebbe più adatto alla loro esistenza. I 1.681 km di costa attualmente interessati dal fenomeno dell'erosione potrebbero subire processi ancor più accentuati, e allo stesso modo potrebbero aumentare i movimenti franosi (dal 1991 al 2003 ve ne sono stati circa 12.0 00 e i 13 più rilevanti hanno provocato 2.584 decessi) . Difficoltà potrebbero aversi anche per gli approvvigionamenti energetici: tra il 20 01 e il 2006 la produzione di energia idroelettrica è diminuita di quasi il 21% anche a causa della riduzione degli apporti nivo-glaciali85• Considerazione particolare meritano poi i rischi derivanti per la salute pubblica. Negli ultimi 15-20 anni si è assistito in Italia alla diffusione della cosiddetta zanzara tigre, specie tipica di aree tropicali e subtropicali e vettore di affezioni estranee alla patocenosi europea. Nel 20 07, nel Ravennate, vi è stata un'ondata di chikungunya - la prima della storia d' Europa - virus tropicale che ha colpito circa 29 0 persone. In aumento è anche la morbilità da malattia del Nilo occidentale, leishmaniosi e febbre bottonosa. L'ondata di caldo del 2003 pare abbia favorito la diffusione dell'a­ flatossina nel mais, obbligando gli operatori del settore a distruggere varie tonnellate di raccolto a causa dell'eccessivo livello di tossine ivi presenti. Infine, una maggiore

83. Cfr. P. ]. Crutzen, Benvenuti nell'Antropocene. L 'uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Mondadori, MUano 2005. 84. Cfr. M. !annetta, La desertificazione in Italia e il progetto RIADE, Enea, Roma 2006, pp. 35-45. 8 s . Tutti questi dati sono tratti dai 19 saggi del volume di Castellari, Arcale (a cura di), I cambia­ menti climatici in Italia, cit.

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IL RISCA LDAM ENTO GLOBALE

concentrazione di C O nell'atmosfera non potrebbe che incrementare la diffusione di patologie legate all'apparato respiratorio86. Il GW avrebbe anche conseguenze economiche. E stato calcolato che l'ondata di calore del mese di luglio 2003 sia costata, nella sola città di Roma, I.o67.1 23.077 di euro ; le 28 più grandi inondazioni verificatesi in Italia dal 1939 al 2004 hanno cau­ sato la morte di 694 persone e 23,7 miliardi di dollari di danni; l'eventuale deserti­ ficazione dei 16.soo kml più vulnerabili ci costerebbe invece tra i 6o e i 412 milioni di dollari l'anno. Globalmente, se da oggi al 2050 la temperatura media salisse di 1,2 oc in Italia ci sarebbe un danno di circa 20-30 miliardi di euro a prezzi correnti87. Nessuno deve suscitare allarmismi. Come accennato in precedenza, è palese che i modelli previsionali - pur se scientifici - presentino elementi molto aleatori88. Esistono però delle certezze che si riferiscono al passato : esse ci dicono che dal 1865 a oggi la temperatura media in Italia è cresciuta di 1 oc ogni secolo e che sono soprattutto le estati e le primavere a rivelarsi più calde, mentre la pur incontestabile diminuzione delle precipitazioni non ha grande rilevanza statistica se non al Mezzo­ giorno89. Ciò dipende da una fluttuazione naturale, certo, aggravata però da un ele­ mento antropico non disconoscibile. Il GW da diversi anni è una questione di cruciale importanza e tale rimarrà in futuro. Ad avviso di chi scrive, la sua sottovalutazione costituirebbe un errore imper­ donabile. 1

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86. L. Sinisi, Cambiamenti climatici e determinanti ambientali di salute, ivi, pp. 474-5 11. 87. C. Carraro, J. Crimi, A. Sgobbi, Gli impatti dei cambiamenti climatici in Italia. Una valutaztone economtca, lVI, pp. 557-90. 8 8. Sul tema cfr. G. Visconti, Clima estremo. Un 'introduzione al tempo che ci aspetta, Boroli, Milano 2005, pp. I34-62. 89. Cfr. M. Brunetti et al , Temperature and Precipitation Variability in Italy in the Last Two Centuries from Homogenised lnstrumental Time Series, in "lnternational Journal of Climatology� 26, 3 . 2006, pp. 345-8 1. .

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Dalla caduta del Muro di Berlino a Tangentopoli : la dimensione internazionale della crisi della Prima Repubblica* di Antonio Vt1rsori

I

L ' immagine internazionale dell ' Italia alla fine di un decennio di espansione

Dopo un periodo di incertezza e di forti contrapposizioni all 'interno della maggioranza di Pentapartito, nell'estate del 1989 Giulio Andreotti, che nei precedenti sei anni aveva svolto ininterrottamente il ruolo di ministro degli Affari esteri\ formava il suo VI ese­ cutivo, il quale si fondava su una rinnovata alleanza fra i cinque partiti che sin dai primi anni Ottanta avevano avviato un rapporto di collaborazione in ambito governativo � . In politica estera l' Italia appariva ancora risentire di una fase positiva poiché, nel corso del decennio, soprattutto i gabinetti Spadolini e Craxi avevano cercato di ridare slancio al ruolo internazionale del paese con risultati in apparenza positivi, dall'ambito atlantico a quello mediterraneo, dal contesto comunitario al rapporto con gli Stati Uniti. Era infatti possibile ricordare episodi quali: la partecipazione italiana alla missione di pace in Libano nel 1982-83, la fermezza mostrata sulla questione degli euromissili, le decisioni prese al vertice europeo di Milano del giugno 1985, la crisi di Sigonella3• L'immagine proiettata dall' Italia all'estero era risultata ben diversa da quella del paese "malato" e in * Questo contributo rappresenta la sintesi di una più ampia ricerca i cui risultati sono apparsi nel

volume L'Italia e la fine della Guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (1989-1992), il Mulino, Bologna 2013. Tale ricerca è stata in larga misura resa possibile dalla consultazione delle carte presenti nell'archivio di Giulio Andreotti, depositato presso l ' Istituto Luigi Sturzo di Roma. A questo proposito si ritiene doveroso ricordare la liberalità mostrata, prima della sua scomparsa, dal senatore Giulio Andreotti. Si esprime quindi un ringraziamento alla dottoressa Flavia Nardelli, segretario gene­ rale dell ' Istituto, e alla dottoressa Luciana Devoti, ordinatrice dell 'Archivio Giulio Andreotti per il prezioso aiuto fornito e senza il quale non sarebbe stato possibile condurre a compimento questo studio. 1. Sulla personalità di Giulio Andreotti, cfr. le biografie di M. Franco, Andreotti, la vita di un uomo politico, la storia di un 'epoca, Mondadori, Milano 2008 e di M. Barone, E. Di Nolfo (a cura di), Giulio Andreotti. L 'uomo, il cattolico, lo statista, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2010. 2. Sulle vicende interne cfr. ad esempio P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, TEA, Milano 1996. 3· Sulla politica estera italiana negli anni Ottanta cfr. E. Di Nolfo (a cura di), La politica estera italiana negli anni Ottanta, Lacaita, Manduria (TA)-Roma-Bari 2003; S. Colarizi et al (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004. 209

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preda al caos, caratteristica degli anni Settanta\ e a tale percezione si era sostituita quella di una nazione sicura di sé, in grado di far ripartire la propria economia, caratterizzata dalla presenza di una nuova generazione di statisti moderni ed efficienti e di audaci "condottieri" dell'industria e della finanza5• Tuttavia, sul finire del decennio questa spinta modernizzatrice ed efficientista aveva perso parte del suo smalto e della sua spinta propulsiva. L' Italia sembrava stentare a trovare una propria precisa funzione nel contesto di un periodo che appariva portatore di grandi cambiamenti nelle relazioni internazio­ nali: da un nuovo rapporto fra Est e Ovest ispirato alla pace e alla collaborazione, al sempre più rapido affermarsi dell'"era informaticà', ai sintomi di una globalizzazione economica che vedeva il trionfare delle teorie neoliberiste. Nonostante ciò, il nuovo governo ambiva a svolgere un ruolo internazionale di primo piano e a sfruttare le nuove dinamiche che in particolare la distensione e la politica gorbaceviana aprivano in Europa. Significativa in questo senso era la scelta di nominare alla guida della Farnesina il socialista Gianni De Michelis, uno dei maggiori e più attivi leader del PSI6• Le aspi­ razioni del nuovo esecutivo trovavano espressione nelle dichiarazioni programmatiche fatte dal neoministro degli Esteri alla Camera nell'estate del 1989. In particolare De Michelis indicava come, grazie alla nuova distensione, all'Italia si presentasse la prospet­ tiva di riaprire una tradizionale direttrice della politica estera nazionale verso l' Europa centrale. L'attenzione di De Michelis, che traeva anche origine dal suo ruolo di politico nato e formatosi nel Nord-Est, un'area che si stava imponendo all'attenzione del paese per il suo crescente attivismo economico, si concentrava su nazioni quali la Jugoslavia, l' Ungheria, l'Austria, senza trascurare la Polonia e la Cecoslovacchia7• Non è un caso che le prime iniziative di De Michelis furono alcuni incontri con i leader jugoslavi, il lancio del progetto di accordo di cooperazione "quadrangolare", che avrebbe compreso l'Italia, l'Austria, l' Ungheria e la Jugoslavia - in seguito "pentagonale" e quindi "esago­ nale", con il coinvolgimento della Cecoslovacchia e della Polonia -; nonché l'elabora­ zione con Belgrado di un piano di forte collaborazione bilaterale, la cosiddetta "Inizia­ tiva adriaticà', che avrebbe potuto estendersi all'Albania. Era infatti convinzione di De Michelis che i radicali cambiamenti politici in corso in paesi quali l'Ungheria e la Polonia avrebbero offerto all' Italia l'opportunità di estendere la propria influenza, Sugli anni Settanta cfr. AA.VV., L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, 4 voll., Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2003. S · Sulla spinta modernizzatrice degli anni Ottanta cfr. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010. Per un' interpretazione radicalmente diversa e fortemente critica cfr. G. Crainz, Il Paese reale. Dall'assassinio di Moro all 'Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012. 6. Cfr. G. De Michelis, La lunga ombra di Yalta. La speciflcita della politica italiana, Marsilio, Venezia 2003. Sul PSI in questi anni cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2005. 7· Sull ' interesse italiano verso l 'Europa centrale tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta cfr. S. Tavani, L'Ostpolitik italiana nella politica estera di Andreotti, in Barone, Di Nolfo ( a cura di ) , Giulio Andreotti, cit., pp. 243-304. 4·

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preda al caos, caratteristica degli anni Settanta\ e a tale percezione si era sostituita quella di una nazione sicura di sé, in grado di far ripartire la propria economia, caratterizzata dalla presenza di una nuova generazione di statisti moderni ed efficienti e di audaci "condottieri" dell'industria e della finanza5• Tuttavia, sul finire del decennio questa spinta modernizzatrice ed efficientista aveva perso parte del suo smalto e della sua spinta propulsiva. L' Italia sembrava stentare a trovare una propria precisa funzione nel contesto di un periodo che appariva portatore di grandi cambiamenti nelle relazioni internazio­ nali: da un nuovo rapporto fra Est e Ovest ispirato alla pace e alla collaborazione, al sempre più rapido affermarsi dell'"era informaticà', ai sintomi di una globalizzazione economica che vedeva il trionfare delle teorie neoliberiste. Nonostante ciò, il nuovo governo ambiva a svolgere un ruolo internazionale di primo piano e a sfruttare le nuove dinamiche che in particolare la distensione e la politica gorbaceviana aprivano in Europa. Significativa in questo senso era la scelta di nominare alla guida della Farnesina il socialista Gianni De Michelis, uno dei maggiori e più attivi leader del PSI6• Le aspi­ razioni del nuovo esecutivo trovavano espressione nelle dichiarazioni programmatiche fatte dal neoministro degli Esteri alla Camera nell'estate del 1989. In particolare De Michelis indicava come, grazie alla nuova distensione, all'Italia si presentasse la prospet­ tiva di riaprire una tradizionale direttrice della politica estera nazionale verso l' Europa centrale. L'attenzione di De Michelis, che traeva anche origine dal suo ruolo di politico nato e formatosi nel Nord-Est, un'area che si stava imponendo all'attenzione del paese per il suo crescente attivismo economico, si concentrava su nazioni quali la Jugoslavia, l' Ungheria, l'Austria, senza trascurare la Polonia e la Cecoslovacchia7• Non è un caso che le prime iniziative di De Michelis furono alcuni incontri con i leader jugoslavi, il lancio del progetto di accordo di cooperazione "quadrangolare", che avrebbe compreso l'Italia, l'Austria, l' Ungheria e la Jugoslavia - in seguito "pentagonale" e quindi "esago­ nale", con il coinvolgimento della Cecoslovacchia e della Polonia -; nonché l'elabora­ zione con Belgrado di un piano di forte collaborazione bilaterale, la cosiddetta "Inizia­ tiva adriaticà', che avrebbe potuto estendersi all'Albania. Era infatti convinzione di De Michelis che i radicali cambiamenti politici in corso in paesi quali l'Ungheria e la Polonia avrebbero offerto all' Italia l'opportunità di estendere la propria influenza, Sugli anni Settanta cfr. AA.VV., L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, 4 voll., Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2003. S · Sulla spinta modernizzatrice degli anni Ottanta cfr. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010. Per un' interpretazione radicalmente diversa e fortemente critica cfr. G. Crainz, Il Paese reale. Dall'assassinio di Moro all 'Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012. 6. Cfr. G. De Michelis, La lunga ombra di Yalta. La speciflcita della politica italiana, Marsilio, Venezia 2003. Sul PSI in questi anni cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2005. 7· Sull ' interesse italiano verso l 'Europa centrale tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta cfr. S. Tavani, L'Ostpolitik italiana nella politica estera di Andreotti, in Barone, Di Nolfo ( a cura di ) , Giulio Andreotti, cit., pp. 243-304. 4·

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mente, le autorità italiane, tenendo anche conto dell'opinione pubblica interna - in larga misura favorevole alla riunificazione, interpretata come la fine della Guerra fredda e dell'"equilibrio del terrore" -, ritennero di adeguarsi alla realtà che si stava manife­ stando. Due erano le condizioni che, a giudizio della leadership politica e diplomatica italiana, sarebbero dovute risultare soddisfatte per poter accettare senza opposizioni una rapida riunificazione della Germania: da un lato, il mantenimento in vita dell'Al­ leanza atlantica, in particolare della presenza militare - e politica - statunitense in territorio europeo; dall'altro, l'avvio di un processo di ulteriore integrazione politica che legasse la Germania alla sorte dei propri partner comunitari, evitando così la cosiddetta via speciale tedesca� � . In proposito, la corrente vulgata interpretativa circa l'atteggiamento italiano nei confronti della riunificazione propone l'immagine di un' Italia frustrata nelle proprie aspettative di coinvolgimento nel processo diplomatico che avrebbe condotto alla rinascita della nazione tedesca. Si ricorda soprattutto il noto episodio della brutale risposta del ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Gen­ scher a De Michelis - «You are no t part of the game » -, in occasione del Consiglio atlantico di Ottawa di fronte alla prospettiva che l'unificazione tedesca si realizzasse attraverso il negoziato fra le due Germanie e i vincitori della Seconda guerra mondiale, il noto " 2 più 4"13. Se l'episodio è vero e - va sottolineato - questo fu l'aspetto più importante per la stampa italiana, le carte Andreotti ci rivelano aspetti in parte igno­ rati. Pochi giorni dopo lo scontro verbale De Michelis-Genscher, il segretario di Stato americano James Baker fece pervenire a De Michelis un messaggio personale e riser­ vato, nel quale, pur notando come l' Italia per ovvie ragioni non avrebbe potuto pren­ dere parte alla trattativa " 2 più 4", si sottolineava l' importanza della NATO per l'attua­ zione della riunificazione tedesca e si ricordava il ruolo fondamentale svolto dall'Italia nell 'Alleanza atlantica14• Era chiara l' intenzione statunitense di far piacere all'alleato italiano e di rassicurarlo circa la futura funzione della penisola nell'Europa post-Guerra fredda e all'interno della NATO. Questo aspetto concorre a spiegare la nota dichiara­ zione angloitaliana dell'anno successivo circa il mantenimento del ruolo dell'Alleanza atlantica in Europa. Numerose furono d'altronde le rassicurazioni date in quegli stessi mesi ad Andreotti e a De Michelis da Kohl e Genscher15• Quanto alla costruzione europea, pur non trascurando l'importante negoziato froide et l'unification allemande. De Yalta a Maastricht, Odile Jacob, Paris 2005. Cfr. anche De Michelis, La lunga ombra di Yalta, cit. 12. Cfr. ad esempio le affermazioni di De Michelis in sede di Consiglio dei ministri nel dicembre del 1989, in ASILS, AGA, Governi, Consiglio dei ministri, b. 962, verbale del Consiglio dei ministri tenutosi il 15 dicembre 1 989. 13. L'episodio è documentato in maniera precisa in M. Vaisse, C. Wenkel (éds.), La diplomatie française foce a l'unification allemande, Tallandier, Paris 201 1, doc. 3 8, p. 220. 14. Lettera di J. Baker a G. De Michelis, 20 febbraio 1990, e lettera di G. De Michelis a J. Baker, 24 febbraio 1990, in ASILS, AGA, Germania, b. 458. 15. Importante in questo senso fu il colloquio avuto a Pisa da Andreotti con Kohl in occasione di una conferenza dei leader democristiani europei; cfr. lettera di G. Andreotti a F. Cossiga, 19 febbraio 1 990, lVI.

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sulla realizzazione dell' Unione economica e monetaria ( uEM ) , traendo profitto dal fatto che nel secondo semestre del 1990 l' Italia avrebbe avuto la guida della Comu­ nità, Roma puntò in maniera forte sulla convocazione di una Conferenza intergo­ vernativa ( C I G ) che si sarebbe caratterizzata per la soluzione della questione politica del processo di integrazione, iniziativa, questa, che ebbe in qualche modo successo con la convocazione di una seconda C I G , che si sarebbe affiancata a quella sulla UEM16• La fortuna stava però abbandonando rapidamente il governo Andreotti nel contesto internazionale. Lo stesso apparente successo circa la C I G sulla costruzione politica europea, conseguita durante il secondo semestre del 1990, venne rapida­ mente meno, soprattutto nella valutazione dell 'opinione pubblica più che nella realtà dei fatti. Singolare in questo caso fu l'azione della stampa inglese, sino al punto di spingere Andreotti a far preparare dai suoi collaboratori un dossier che faceva riferimento a un'apparente campagna, che sembrò quasi orchestrata ai danni dell' Italia e che venne ovviamente ripresa dai media nazionali. Attacchi virulenti con accuse di pressapochismo, di confusione, di inefficacia vennero rivolti da vari organi inglesi: dall' "autobus guidato dai fratelli Marx" al confronto con l'azione condotta in ambito comunitario dalla Spagna, comparazione ovviamente risolta a favore del governo di Madrid17• Ci si può chiedere quali fossero le ragioni di queste critiche molto dure. Al di là dei facili stereotipi sull' Italia e sui "caratteri nazionali", comunque tradizionalmente ricorrenti nella stampa internazionale, è probabile che sull 'atteggiamento della stampa inglese pesasse il precedente rappresentato dal ruolo avuto da Craxi e Andreotti al vertice europeo di Milano del 1985 - solo quattro anni prima -, nonché il timore per qualsiasi sviluppo all' interno della Comunità di natura sovranazionale, come al contrario auspicato dall' ltalia18• Se le autorità italiane nel corso del 1990 riuscirono a far passare l' ipotesi di una C I G sugli aspetti politici della costruzione europea, non fu loro possibile concentrare per troppo tempo l'attenzione su questo tema. Nell 'agosto 1990 si apriva in Medio Oriente una grave crisi determinata dall' in­ vasione del Kuwait da parte dell' Iraq di Saddam Hussein. Negli anni precedenti l' Italia aveva in tessuto con il governo di Baghdad relazioni strette anche sul piano economico . D 'altronde, le carte Andreotti mostrano con chiarezza come molte nazioni occidentali avessero fatto altrettanto, considerando Saddam Hussein un utile contrappeso nei confronti dell' Iran di KhomeinP9• La crisi del Golfo pose dunque al governo italiano una serie di non facili problemi. Sebbene l'esecutivo 1 6. Per una ricostruzione della politica europea dell ' Italia cfr. A. Varsori, La Cenerentola d'Europa? L'Italia e l'integrazione europea dal I947 a oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2010, pp. 35 3-74. 17. Cfr. in particolare l 'articolo When in Rome, in "The Economist", 20 ottobre 1990. 1 8. Nelle sue memorie Margaret Thatcher commentava così la CIG di Roma: «As always with the Ital ians it was diffìcult throughout to distinguish confusion from guile, but plenty of both was evident »: M. Thatcher, The Downing Street Years, HarperCollins, London 1995, p. 765. 19. Cfr. la documentazione in ASILS, AGA, Iraq, bb. 1264 e 1266. 21 3

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avesse finito con l'allinearsi alle posizioni statunitensi, decidendo tra l 'altro l ' invio nel quadro del! 'operazione Desert Shield (Scudo nel deserto) di una piccola squadra navale e di alcuni cacciabombardieri Tornado, Roma si mostrò molto cauta circa un'opzione di carattere militare e parve ritenere possibile sino quasi all'ultimo momento una soluzione di carattere diplomatico. Varie erano le ragioni dell ' incer­ tezza governativa: oltre ai legami economici con l' Iraq, comunque rilevanti e a volte dai contorni oscuri, tra la fine del 1990 e le prime settimane del 199 1 si sviluppò nel paese un forte sentimento pacifista, che venne sfruttato abilmente dal PCI-PDS quale elemento per superare il proprio travaglio interno derivante dalla fine del comunismo e dal cambio di nome del partito. In realtà, il movimento ostile al conflitto trovava alimento, oltre che negli ambienti comunisti, soprattutto nel mondo cattolico, favorito dalle posizioni di totale rifiuto della guerra prese dal pontefice Giovanni Paolo 1 1 . Significative erano le iniziative di personalità di spicco della ne quali Roberto Formigoni, allora tra l'altro vicepresidente del Parlamento europeo, che, in contrasto con le posizioni del governo, si recò in missione a Baghdad per favorire la liberazione dei cittadini italiani presi in ostaggio dal regime di Saddam Husseinlo, nonché le dichiarazioni del direttore dell "'Osservatore Romano", Agnes, ostili alla prospettiva di un conflittol1• A ciò si aggiunsero affer­ mazioni in apparenza non coerenti con le scelte statunitensi e dello stesso governo italiano rilasciate alla stampa dal responsabile delle unità navali italiane del Golfo, contrammiraglio Mario Buracchia, che fu poi costretto a lasciare il suo incaricoll. Persino in settori della Farnesina qualche diplomatico faceva giungere ad Andreotti valutazioni duramente e polemicamente critiche nei confronti della strategia ame­ ricana, sottolineando le possibili catastrofiche ripercussioni di un conflitto armato in Medio Oriente sugli equilibri locali, nonché sugli interessi italiani nel! ' areal\ Infine, la questione di un possibile conflitto contribuì a sottolineare una divergenza di opinioni fra i vertici dello Stato, visto che il presidente della Repubblica Cossiga intese sollevare con forza la questione delle competenze del Quirinale in caso di 20. Sulla vicenda degli ostaggi, oltre alla documentazione presente nell'archivio di Giulio Andre­ otti, cfr. il volume di memorie di F. Tempesta, Ostaggi e venti di guerra a Bagdad, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2006. Tempesta era ambasciatore a Baghdad nel periodo della crisi kuwaitiana e della Guerra del Golfo. 21. Acta diurna. ''La guerra e una sconfitta': Non si puo camminare a ritroso nella storia, in "L'Os­ servatore Romano': 19 gennaio 1991. 22. Sull'episodio cfr. la documentazione giornalistica presente in ASILS, AGA, Iraq, b. 1270. Seb­ bene Buracchia smentisse le affermazioni rilasciate a un giornalista di "Famiglia Cristiana" circa la sostanziale inutilità di un intervento armato, egli fìnì con il lasciare l ' incarico ricoperto. 23. Significative in tal senso erano le analisi fatte giungere ad Andreotti dal diplomatico Torquato Cardilli, decisamente ostile all 'intervento occidentale e favorevole a una soluzione diplomatica imper­ niata sul ruolo dell 'oNu e della Comunità Europea in stretta collaborazione con il mondo arabo. Per le posizioni di Cardilli cfr. ad es. lettera s.f. a B. Bottai, 7 agosto 1990, riservato, allegata a una lettera del capo della segreteria del presidente del Consiglio dei ministri a G. Andreotti, 7 agosto 1990, in ASILS, AGA, Iraq, b. 1270. 214

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guerra, con il coinvolgimento di noti costituzionalisti chiamati a esprimersi in meritol4• Non vi è quindi da stupirsi se l'atteggiamento del governo parve a volte oscillante, se non addirittura ambiguo. Fra le carte di Andreotti vi è ad esempio un breve appunto fatto giungere a un'alta personalità della curia vaticana con il testo di un possibile appello alla pace di cui si sarebbe dovuto fare portavoce il pontefice, posizione singolare visto che in quel periodo l' Italia aveva già provveduto a posi­ zionare le proprie forze nel Golfol5• Avviate le operazioni militari, le preoccupazioni governative non parvero diminuire soprattutto o ve si tenga conto dell ' intensificarsi della propaganda pacifista, delle posizioni del Vaticano, acutamente analizzate dall 'ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Scammacca, e dalla convinzione diffusa anche dai media che la prima fase della campagna aerea non avesse indebo­ lito in maniera sensibile le difese irachenel6• L' Italia, che già nei mesi precedenti aveva mostrato forte interesse verso la cauta posizione dell' Unione Sovietica sulla crisi del Golfo, sembrò dunque considerare con favore un' iniziativa di pace lanciata da Gorbacev in febbraio. Questa manovra fu però immediatamente superata dalla decisione di Washington di dare avvio alla campagna terrestre e dalla rapida quanto in parte inaspettata vittoria su Saddam Husseinl7• Per quanto tale episodio non debba essere sopravvalutato, è probabile che esso provocasse qualche irritazione a Washington e soprattutto contribuisse a ridimensionare la funzione giocata dall ' I­ talia nel Mediterraneo e nel Medio Oriente agli occhi dei responsabili americani. Negli anni precedenti, d'altronde, le autorità italiane, in particolare Andreotti, avevano puntato al rafforzamento delle relazioni tra Roma e l ' O LP di Yasser Arafat allo scopo di moderare le posizioni del movimento palestinese e di trasformarlo in un interlocutore accettato da Washington in un possibile processo di pace. Alla vigilia della Guerra del Golfo l' Italia aveva conseguito alcuni significativi risultati in questo ambito, suscitando l' interesse delle autorità americanel8• L'adesione di Arafat alle posizioni di Saddam Hussein nella crisi kuwaitiana parve disperdere gran parte del capitale di legittimità internazionale guadagnato dall' O LP, alla cui forma-

24. Lettera di F. Cossiga a G. Andreotti, 20 agosto 1990, ivi, b. 1265. Nello stesso fondo è repe­ ribile anche il testo di una lettera di Andreotti a Saddam Hussein, sebbene non sia stato possibile appurare l' invio di tale missiva. 25. Lettera di G. Andreotti a monsignor A. Sodano, 30 ottobre I990, ivi. 26. Cfr. ad es. E. Scammacca (Santa Sede) al ministero degli Affari esteri, 21 gennaio I99I , tel. 17, urgente, riservato, ivi, b. 127 I. 27. Per l ' interesse italiano verso Mosca, al quale d'altronde corrispose un'evidente attenzione sovietica per la posizione del governo Andreotti cfr. ad es. verbale dell' incontro tra il presidente del Consiglio Andreotti e il primo ministro sovietico Evgenij Maksimovic Primakov, 16 ottobre I990, ivi. Alcune interessanti osservazioni sono reperibili anche nel volume di memorie di E. M. Primakov, Missione a Bagdad. La guerra del Golfo si poteva evitare?, Ponte alle Grazie, Firenze I99I. 28. Sui rapporti tra l ' Italia e l'oLP negli anni Ottanta si rinvia all'interessante documentazione in ASILS, AGA, Israele. OLP, bb. 480, 483, 484, 491, 492, nonché al capitolo dedicato a questo tema nel volume: Varsori, L'Italia e la fine della Guerra fredda, cit. 215

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zio ne l ' Italia aveva contribuito. Alla conclusione del conflitto con l' Iraq gli Stati Uniti uscivano d'altronde come i maggiori attori delle vicende medio-orientali, avendo tra l'altro emarginato I' uRSS, e avrebbero tentato di gestire autonomamente l'avvio di un processo di pace attraverso la convocazione di una conferenza inter­ nazionale che si sarebbe tenuta a Madrid. L' Italia finiva così ai margini di una dinamica importante e che riguardava uno scacchiere in cui aveva tradizionalmente cercato di svolgere un ruolo di primo piano2.9•

3

Le crisi nei Balcani

Non era neppure concluso il conflitto iracheno che il governo Andreotti dovette rivolgere l'attenzione a due crisi che si manifestarono ai confini dell' Italia. Come ricordato, De Michelis aveva mirato sin dal 1989 a rafforzare la presenza italiana nell'area balcanica, tra l'altro con la speranza di impedire la disgregazione della Jugoslavia. Le aspirazioni italiane di poter coinvolgere la Comunità in questa politica si erano però rapidamente infrante di fronte all' interesse di segno inverso di alcuni partner europei e alla volontà della Germania da poco riunificata di far sentire il proprio più forte ruolo internazionale attraverso il rapido riconoscimento diploma­ tico dell' indipendenza della Slovenia e della Croazia. Alle ambizioni tedesche si erano aggiunte le pressioni di ambienti vaticani favorevoli alle nuove repubbliche cattoliche30• Significativo e influente nel porre in difficoltà l 'azione del governo Andreotti fu l 'atteggiamento dei media italiani - gran parte della stampa e dell 'in­ formazione televisiva - e dell'opinione pubblica, che, con qualche rara eccezione, si mostravano pienamente favorevoli all'indipendenza della Croazia e della Slovenia, percepite come elemento di novità, di democrazia e di occidentalizzazione in contrasto con una Serbia conservatrice e veterocomunista. E singolare come questa visione accomunasse destra e sinistra, cattolici ed ex comunisti; particolarmente sensibile a queste posizioni appariva la leadership politica del Nord-Est, di cui lo stesso De Michelis avrebbe dovuto essere l'interprete. Nel gennaio 1992 all' interno del Parlamento un folto gruppo di deputati, fra i quali numerosi esponenti di spicco della stessa DC, si espressero affinché l' Italia procedesse all'immediato riconosci,

Tale emarginazione riguardava comunque tutta l ' Europa comunitaria. In generale, cfr. R. Miller, lnglorious Disarray: Europe, Israel and the Palestinians since I9 07, Hurst & Co., London 29.

20 1 1 .

Per un 'analisi della disgregazione della federazione jugoslava che offre alcuni utili spunti sulla posizione dell ' Italia cfr. J. Pirjevec, Le guerre jugoslave (z99I-I999), Einaudi, Torino 20 0 1 ; cfr. inoltre G. Meyr, ltaly and the Dissolution ofYugoslavia up to the European Recognition oJCroatia and Slovenia (z9S9-I992), in "Journal of European Integration History", 2004, 10, pp. 16 9-7 8. 30.

216

DALLA CAD UTA DEL MURO D I B E RLINO A TANGENTO POLI

mento dell' indipendenza di Lubiana e Zagabria3'. Nel volgere di poche settimane, tutti gli sforzi della diplomazia italiana e l' impegno dello stesso ministro De Michelis risultarono così vanificati, non solo a causa delle pressioni della Germania e della Santa Sede, ma anche per un ennesimo voltafaccia dell'opinione pubblica e di impor­ tanti settori della stessa maggioranza di governo, confermando il crescente divario tra il paese e la leadership politica intorno all' interpretazione da dare delle conse­ guenze sugli equilibri internazionali e sulla politica estera del paese derivanti dalla fine della Guerra fredda. La crisi del comunismo nell'Europa balcanica coinvolse anche un paese che sino alla Seconda guerra mondiale era stato parte della sfera di influenza italiana, ma che durante il cinquantennio di esperienza comunista si era isolato dal resto dell' Europa, l'Albania32.. Tra il 1989 e il 1990 il governo Andreotti non aveva trascurato la lenta e contraddittoria evoluzione di Ti rana verso la democrazia, ma era prevalsa l'attenzione nei confronti della Jugoslavia e l'azione italiana verso Tirana era parsa subordinata alla possibile soluzione della crisi jugoslava. L' improvviso acuirsi delle difficoltà politiche e sociali dell'Albania agli inizi del 1 9 9 1 parve cogliere di sorpresa il governo di Roma. Nel febbraio-marzo il primo afflusso di cittadini albanesi venne affrontato sulla base del principio di considerare tali rifugiati come oppositori richiedenti asilo politico. La posizione del governo fu probabilmente influenzata dall 'atteggiamento dell'opinione pubblica in Puglia e nel resto del paese e dalle posizioni dei media, che, condizionati dalle vicende e dalle immagini del 1 9 8 9 in Germania, reagirono in maniera posi tiva all'arri vo dei profughi. Da parte italiana si cercò di correre ai ripari avviando una politica di aiuti a Tirana e cercando di favorire un'ulteriore evoluzione in senso democratico del paese. Ma la situazione albanese era destinata ad aggravarsi ulteriormente e lo Stato balcanico entrava in una fase di disgregazione. Nell'agosto ciò conduceva a una nuova ondata di circa 1s.o o o-2o.o oo profughi giunti sulle coste pugliesi nel volgere di poche ore, il cui caso più noto fu quello della motonave Vlora, le cui immagini vennero proposte dalle televisioni di tutta Europa. Come è noto, dopo aver concentrato i profughi albanesi nello stadio di Bari, questi furono dapprima convinti a uscire, smistati in varie parti della penisola e poi quasi tutti rimpatriati nel volgere di qualche giorno. L' immagine del governo italiano, in particolare a causa dell'episodio relativo allo stadio di calcio di Bari e ai disordini scoppiati con le forze dell 'ordine, ne risultò colpita negativamente con ovvie accuse di razzismo e di inefficienza. 3 1. Testo dell 'appello di oltre ISO deputati per il riconoscimento immediato della Croazia, in ASILS, AGA, jugoslavia, Croazia, b. 548. Fra i firmatari vi erano personalità democristiane di spicco quali Formigoni, Fracanzani, Fumagalli Canùli, Piccoli, Pisanu, Segni e Zamberletti. A riguardo della posizione italiana sulla crisi jugoslava cfr. la documentazione ivi, b. S44· 32. La politica del governo Andreotti verso la crisi albanese è analizzata in A. Varsori, ltaly and the End of Communism in Albania (I9S9-9I), in "Cold War History", 12, 20 12, 4, pp. 615-35· 217

A N T O N I O VA R S O R I

La documentazione presente nelle carte Andreotti racconta una vicenda in qualche misura diversa. Fu il governo albanese a esercitare forti pressioni affinché vi fosse un rapido rimpatrio, con l'argomentazione che, in caso contrario, quanto restava dello Stato albanese avrebbe perso qualsiasi legittimità e credibilità; una valutazione, questa, condivisa dalle autorità italiane, timorose che l'esempio albanese potesse essere seguito da migliaia di jugoslavi di fronte all'incipiente guerra civile. Inoltre vi era da parte del governo di Roma la convinzione che nello stadio di Bari oltre a comuni cittadini desiderosi di trovare un futuro migliore si celassero numerosi pro­ vocatori, il cui obiettivo era proprio quello di suscitare disordini33• Va infine notato come nel volgere di pochi mesi sia l 'atteggiamento dell'opi­ nione pubblica, sia quello dei media italiani nei confronti dell 'Albania e degli albanesi fosse mutato radicalmente in senso fortemente negativo : da "profughi" da accogliere a potenziali "criminali" da respingere34• All 'uso dello strumento del rim­ patrio il governo Andreotti cercò di affiancare un più forte sostegno al governo albanese anche grazie ad aiuti economici e al lancio della cosiddetta operazione Pellicano. Al di là dei risultati di questa iniziativa, le carte Andreotti danno il senso delle difficoltà incontrate dalle autorità italiane nel dispiegare un'efficace azione di sostegno al governo di Tirana, a causa sia dell'inefficienza delle autorità locali, sia della carenza di risorse finanziarie da stanziare in tempi brevi per la ricostruzione dalle fondamenta dello Stato albanese. L'episodio della nave Vlora, dopo quello della Guerra del Golfo e della crisi jugoslava confermava il progressivo scollamento tra un governo che in teoria avrebbe dovuto contare su una salda maggioranza in Parlamento e su un ampio consenso nell'elettorato e settori importanti dell'opinione pubblica. Ancora una volta, inoltre, le autorità locali si ponevano in netta contrap­ posizione nei confronti del governo centrale, accusato di inefficienza e di non aver saputo coordinare l'azione di aiuto . Significativo poi era l 'atteggiamento dei media, costantemente critici nei riguardi delle scelte governative e, infine, importante era il distacco di ambienti influenti del mondo cattolico dall'esecutivo, sebbene questo fosse guidato da un leader democristiano, notoriamente vicino alla curia. In propo­ sito va ricordato l'articolo di fondo scritto dal direttore dell"'Osservatore Romano", Agnes, sulla questione dell'emigrazione albanese, al quale Andreotti si sentì in dovere di rispondere con una lettera dai toni singolarmente duri: la posizione di Agnes veniva infatti definita dal presidente del Consiglio « sbagliata » e « non leale » 35• 33· Sulla vicenda della nave Vlora cfr. la documentazione in ASILS, AGA, Albania, b. 329. 34· Sull 'atteggiamento dell'opinione pubblica italiana cfr. R. Palomba, A. Righi, Quel giorno che gli albanesi invasero l'Italia, IRP, Roma 1993 e A. Vehblu, R. Devole, La scoperta deltAlbania. Gli albanesi secondo i mass media, Paoline, Milano 1996. 35· Lettera di G. Andreotti a M. Agnes, 17 marzo 1991, in ASILS, AGA, Albania, b. 329. Per le polemiche con le autorità locali cfr. la lettera di D. Mennitti, sindaco di Brindisi, a G. Andreotti, ivi, IO marzo 1991. 21 8

DALLA CAD UTA DEL MURO D I B E RLINO A TANGENTO POLI 4

L' Italia alla prova del Trattato di Maastricht

Nel corso del 199 1, d'altronde, si inaspriva lo scontro istituzionale che vedeva coin­ volto da un lato il presidente della Repubblica Cossiga, dali' altro il presidente del Consiglio Andreotti, in particolare su un tema quale Gladio che coinvolgeva una delle scelte fondamentali della politica estera italiana, l'allineamento all'alleanza occiden­ tale, tra l'altro offrendo a un P C I-PDS in teoria in crisi l'opportunità di esprimere forti critiche su un importante aspetto della collocazione internazionale del paese36• In realtà gli aspetti internazionali più importanti e che avrebbero avuto maggiore influenza sul futuro del paese si stavano svolgendo in ambito europeo di fronte a un'opinione pubblica e a un mondo politico in parte distratti da questioni che appa­ rivano più drammatiche, quali l'avvio delle guerre jugoslave o il conflitto del Golfo. Se poniamo da parte il negoziato politico sull' uE, nel cui ambito l' Italia riuscì in parte a far valere la sua tradizionale posizione europeista, centrale fu in realtà la trattativa sulla piena attuazione dell' UEM, dove fondamentale fu il ruolo svolto dal ministro del Tesoro Guido Cadi e dal governatore della Banca d' Italia, Carlo Azeglio CiampP7• L' Italia avrebbe finito con l'accettare i cosiddetti parametri di Maastricht con qualche concessione da parte tedesca relativa ali ' interpretazione "dinamica" e non "statica" dei cinque indicatori, nella convinzione che come nel 1978-79, in occa­ sione dell'adesione italiana allo SME, questa scelta avrebbe consentito di applicare un "vincolo esterno" che avrebbe permesso alla classe dirigente di imporre al paese scelte economiche di rigore, considerate da molti come improrogabili38• Le serie implicazioni del Trattato di Maastricht erano comprese, non solo da Cadi o dai vertici della Banca d'Italia, ma anche da alcuni leader di governo, fra cui lo stesso Andreotti che, fin dal 1990, aveva dichiarato esplicitamente ai vertici della ne che se il Trattato fosse entrato immediatamente in vigore l' Italia, a causa della sua precaria situazione economica, avrebbe fatto fallire l'intero impianto di Maastricht39• Tra il 1990 e il 1991 la posizione negoziale dell' Italia nei confronti dei partner europei, soprattutto della Germania, tese a indebolirsi fortemente. Cadi, con il costante sostegno di Andreotti, fece il possibile per spingere il governo e soprattutto il Parla­ mento a varare quelle iniziative virtuose che avrebbero consentito il risanamento delle 36. Sulla posizione di Francesco Cossiga cfr. R. Farina, Cossiga mi ha detto. Il testamento politico di un protagonista della storia italiana del Novecento, Marsilio, Venezia 2011. 37· Sulla posizione di Cadi e di Ciampi cfr. in particolare G. Cadi, Cinquant 'anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari 1 993; P. Craveri ( a cura di) , Guido Carli senatore e ministro del Tesoro I9S3-I992, Bollati Boringhieri, Torino 2009 e K. Dyson, K. Featherstone, The Road to Maastricht: Negotiating Economie and Monetary Union, Oxford University Press, Oxford 1999. 38. Varsori, La Cenerentola d'Europa?, cit., pp. 3 14-30. Sul concetto di vincolo esterno cfr. R. Gual­ tieri, L'Europa come vincolo esterno, in P. Craveri, A. Varsori ( a cura di ) , L'Italia nella costruzione europea. Un bilancio storico {I957-2007) , FrancoAngeli, Milano 2009. 39· Varsori, La Cenerentola d'Europa?, cit., p. 370. 219

A N T O N I O VA R S O R I

finanze pubbliche, ma si scontrò con remore e ostacoli provenienti da importanti settori governativi e dalle lobbies interessate a conservare consolidate "rendite di posizione". Dall'altro lato i sostenitori della scelta europea, un fronte variegato che andava dalla Banca d' Italia ad alcuni settori della stampa d'opinione, in particolare "la Repubblica", il "Corriere della Sera" e "Il Sole 24 Ore", nonché della Confindustria, espressero spesso forti riserve sulle scelte del ministro del Tesoro, ritenute inadeguate di fronte ai compiti che attendevano il paese al fine di favorire il risanamento della finanza pubblica40, Sin dal 1991, inoltre, i partner dell' Italia cominciarono a temere che quest 'ultima potesse rappresentare un fattore di contagio e di disordine nel futuro delicato meccanismo che avrebbe condotto alla nascita della moneta unica. I segnali in tal senso erano d'altronde numerosi: dai richiami della Commissione europea al declassamento dell'economia italiana a opera dell'agenzia di rating Moo­ dy 's, agli avvertimenti del Fondo monetario internazionale4'. Ciò nonostante il Trattato venne accettato e firmato, probabilmente nella con­ vinzione che la classe politica del Pentapartito avrebbe avuto a disposizione il tempo necessario per assumere quelle scelte di politica economica che venivano auspicate da tempo dai vertici della Banca d' Italia. Molti non compresero che sin dal 1990 con l'adesione dell' Italia alla prima fase della UEM, in particolare con il passaggio della lira alla banda stretta dello SME e la piena liberalizzazione del movimento dei capitali, l'economia italiana aveva accettato di confrontarsi con le incipienti dinamiche della globalizzazione, un fenomeno che, unito alla nascita dell' Unione economica e mone­ taria, confliggeva con un sistema economico e finanziario non solo frenato da inef­ ficienze, clientelismo e corruzione, ma caratterizzato da decenni di presenza dello Stato, ormai divenuta incompatibile con la nuova realtà economica internazionale del dopo Guerra fredda. Non si trattava dunque solo di limitare la spesa pubblica, ma di dare anche avvio allo smantellamento della presenza della "mano pubblica" nell'industria e nel sistema creditizio, attraverso un audace processo di privatizza­ zioni, prospettiva vista con scarso favore da gran parte dei partiti, ma considerata con grande interesse da vari ambienti economici e finanziari4 1 •

s

La fine della Prima Repubblica

Le elezioni del 1992 esprimevano le crescenti contraddizioni politiche presenti nel paese, sottolineate dali' avvio dell' inchiesta milanese di Mani pulite. Con la fine del governo Andreotti e la nomina del governo guidato da Giuliano Amato si apriva Cfr. la documentazione in ASILS, AGA, Europa, bb. 386 e 387. 41. Su questi episodi si rinvia alla documentazione in ASILS, AGA, Guido Carli, b. 995· Cfr. inoltre Craveri (a cura di), Guido Carli senatore e ministro del Tesoro, cit., passim. 42. Cfr. le interessanti valutazioni ivi, passim, nonché in G. Guarino, Verso l'Europa. Ovvero la fine della politica, Mondadori, Milano 1997. 40.

220

DA LLA CADUTA DEL MURO D I B E RLINO A TANG ENTO P O LI

quella convulsa fase politica che avrebbe rappresentato la crisi e la fine della Prima Repubblica43• In apparenza si trattava di una questione di carattere interno con scarsi legami con le vicende internazionali. In realtà, anche questa sintetica analisi del ruolo internazionale dell' Italia durante gli ultimi governi Andreotti conferma la crescente crisi del sistema politico e di una coalizione di governo che, al contrario, anche grazie alla fine della Guerra fredda e alla crisi del comunismo, avrebbe dovuto godere di una posizione di forza di fronte alle evidenti difficoltà del PCI. Nonostante le buone inten­ zioni e le ambizioni iniziali - dalla riunificazione tedesca alla crisi del Golfo, dalle vicende jugoslave all'emigrazione albanese, all'adesione al Trattato di Maastricht -, il governo Andreotti dovette confrontarsi con un crescente divario fra l 'azione dell'e­ secutivo e l'atteggiamento dell'opinione pubblica e di settori delle autorità locali, con una continua dura critica da parte dei media, con un venire meno del rapporto di collaborazione con il mondo cattolico e in alcuni casi con lo stesso Vaticano, e, infine, con laceranti dissidi di natura istituzionale. La politica estera non faceva dunque che interpretare la crisi del sistema politico, destinata a manifestarsi nel volgere di breve tempo con Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica. Le vicende italiane connesse al passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica non risulterebbero quindi pienamente comprensibili se non si tenesse conto delle più generali vicende europee che seguirono la fine della Guerra fredda. L' Italia è stato l'unico paese dell'Europa occidentale a vivere dopo il crollo del comunismo un'evo­ luzione interna simile ai paesi dell'Europa centro-orientale. Come negli Stati sotto­ posti al regime comunista, la fine della Guerra fredda condusse alla crisi e alla distruzione del sistema politico, all'eliminazione e alla sostituzione di un'intera classe dirigente. Si potrebbe aggiungere, ma forse sarebbe correre troppo, che come in Europa centro-orientale anche in Italia si vide un leader ex comunista o postcomu­ nista andare alla guida del paese e il permanere nel discorso politico corrente della contrapposizione comunismo-anticomunismo. Come spiegare questa anomalia o, se si preferisce, questa eccezionalità italiana ? Possiamo pensare che l' Italia, pur appar­ tenendo politicamente e dal punto di vista della collocazione internazionale al sistema occidentale fosse anche almeno parzialmente un paese del blocco orientale ? Certo possiamo far riferimento alla presenza di una democrazia bloccata e della possibilità per l'elettorato moderato, manifestatasi dopo il crollo del Muro di Berlino, di non votare più per i partiti tradizionali sulla mera base di un voto "contro" piuttosto che di un voto a favore. Se queste considerazioni sono certamente valide, si potrebbe però aggiungere che l' Italia era caratterizzata - caso forse unico nel mondo occidentale - da una sorta di doppio Stato, di duplice lealtà, in un senso diverso da quello abitualmente utilizzato 43 · Sulle vicende connesse alla crisi della Prima Repubblica e alla nascita della Seconda, cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (19S9-2011), Laterza, Roma-Bari 2. 01 2., pp. 3-47. 2. 21

A N T O N I O YA R S O R I

per questi termini: uno Stato ufficiale occidentale e uno Stato ufficioso, ma non meno importante, in qualche modo schierato in un campo diverso. Sebbene ci si renda conto dell'eccessiva semplificazione proposta, se la fine della Guerra fredda si identificò per la Germania con il crollo del Muro e con un processo di riunificazione più complesso e difficile di quanto non si ritenesse nei giorni del novembre 19 89, la fine del comunismo si tradusse anche in Italia nel crollo di un muro, non fisico, bensì psicologico, ma non per questo meno reale e importante e che per cinquant'anni aveva diviso il paese e ne aveva dettato l'agenda politica ed economica. A ciò si aggiunse l' incapacità di gran parte della leadership politica di comprendere non solo le implicazioni per gli equilibri interni della fine della Guerra fredda, ma anche come questo evento mutasse in maniera radicale gli equilibri di forza sul piano internazio­ nale, diminuendo l'interesse americano per il tradizionale "alleato" italiano e trasfor­ mando il ruolo della Germania. Soprattutto nel contesto europeo la classe dirigente italiana non intuì che i rapporti di forza all'interno della Comunità stavano rapida­ mente cambiando, non a vantaggio degli organi sovranazionali, ma a beneficio della Germania, che avrebbe imposto tramite l' UEM la propria visione economica ai partner europei. Né i politici della Prima Repubblica capirono che l'attuazione dell' uEM era lo strumento con cui l' Europa comunitaria stava tentando di fronteg­ giare il processo di globalizzazione. Questo imponeva agli Stati membri, non solo rigore nelle politiche di bilancio, ma anche una vera apertura dei sistemi economici e la fine, o quanto meno il forte ridimensionamento, della presenza dello Stato nell'economia. Si trattava dunque di spezzare quei legami che erano stati caratteristici dell' Italia repubblicana fra Stato ed economia, nonché tra partiti e "mano pubblica" nelle industrie e nelle banche con i suoi corollari di clientelismo e corruzione. Come nel domino, la caduta della tessera rappresentata del Muro di Berlino condusse al crollo di una serie di altre tessere, rappresentate dai paesi del blocco sovietico e dalla stessa URS S . La Prima Repubblica e la sua classe politica finirono con l'essere due delle tessere la cui caduta ebbe inizio con gli eventi del novembre del 1989.

222

Andreotti di nuovo a Palazzo Chigi: la politica estera italiana e il Medio Oriente fino alla Guerra del Golfo ( 1 9 8 9 - 9 0 ) di Luca Riccardi

I

Il dialogo Israele- OLP

Il ritorno di Giulio Andreotti alla guida del governo italiano era stato il prodotto di uno dei tradizionali ribaltamenti di maggioranza interni alle componenti della Demo­ crazia cristiana. L'esclusione di Ciriaco De Mita, prima dalla guida del partito e poi da Palazzo Chigi, nel corso del 19 89, aveva portato a un nuovo assetto politico dell'area del cosiddetto Pentapartito. Il nuovo segretario politico della DC, Forlani, era il garante di un patto di governo maggiormente incentrato su un rapporto di collaborazione con il leader socialista, Bettino Craxi. Quest 'ultimo, dopo la quadrien­ nale esperienza alla guida del governo nella legislatura precedente, con Andreotti agli Esteri, appariva essere diventato il centro del nuovo equilibrio politico. Ciò era avve­ nuto sia per i buoni risultati ottenuti dal P S I nelle diverse tornate elettorali sia, al di fuori del perimetro della maggioranza, per le crescenti difficoltà incontrate dal PCI 1 • La riproposizione del politico romano alla guida dell'esecutivo confermò il peso che le questioni mediorientali e, più generalmente, mediterranee ebbero nella strategia internazionale del governo italiano2.. Su questo tema, sin dai tempi della loro colla­ borazione governativa, si era sempre registrata una certa convergenza tra Andreotti e Craxi, cementata definitivamente dalla temperie della crisi dell'Achille Lauro nel 19 853• 1. Cfr. A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Laterza, Roma­ Bari 1996, spec. pp. 242-8; un quadro generale della situazione politica italiana del periodo in P. Craveri, La Repubblica dal 195S al 1992, in Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, vol. XXIV, UTET, Torino 1995, pp. 959-80; sulla nascita del VI governo Andreotti cfr. anche M. Pini, Craxi. Una vita, un 'era politica, Mondadori, Milano 2006, pp. 392-7; S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 224-8: E. Macaluso, I rap­ porti con la sinistra, in M. Barone, E. Di Nolfo ( a cura di ) , Giulio Andreotti. L'uomo, il cattolico, lo statista, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2010, pp. 69-70. Sul PCI cfr. anche G. Napolitano, Dal PCI al socialismo europeo. Un 'autobiografia politica, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 234-8: sulla DC anche G. Sangiorgi, Piazza del Gesù. La Democrazia Cristiana negli anni Ottanta: un diario politico, Mondadori, Milano 2005, spec. pp. 656-741. 2. G. Romeo, La politica estera italiana nell 'era Andreotti (1972-1992), Rubbettino, Soveria Man­ nelli ( cz) 2ooo, pp. 155-6. 3· Sul sequestro della motonave Achille Lauro cfr., tra gli altri, E. Primiceri, Il sequestro dell' ':Achille Lauro" e il governo Craxi. Relazioni internazionali e dibattito politico in Italia, Lacaita, Manduria ( TA ) 223

L U C A RI C C A R D I

Nell 'ultimo scorcio del decennio la situazione del Medio Oriente, in particolar modo del conflitto israelo-palestinese, aveva conosciuto fasi contraddittorie. Lo scoppio dell' lntifada palestinese, alla fine del 1987, aveva inizialmente radicalizzato le posizioni del governo israeliano. Quest'ultimo reagì con una politica repressiva sostenuta sia dal premier Shamir sia dal ministro della Difesa, il laburista Rabin4• La reazione della comunità internazionale fu di segno diverso. Nell 'opinione pubblica americana, la più vicina a Israele, cominciarono ad affermarsi correnti di pensiero più aperte verso le aspirazioni palestinesi5• Le scelte che Arafat fece nel corso del 1988 condussero a un cambio di strategia dell' oLP. L'accettazione dei deliberati dell' oNU in merito alla Palestina, ma soprattutto la ripulsa pubblica del terrorismo indussero il governo americano, a sua volta, a cambiare atteggiamento. Uno degli ultimi atti dell'amministrazione Reagan in campo internazionale fu quello di dichiarare, par­ tendo da questi presupposti, la propria disponibilità a intavolare un dialogo con l'Organizzazione palestinesé. L'evoluzione della posizione di Washington, che non fu smentita dalla nuova amministrazione Bush, costrinse il governo di Tel Aviv a prendere una qualche ini­ ziativa. Nel maggio 1989 il premier Shamir lanciò un suo piano. In cambio dell'in­ terruzione dell' lntifada avrebbe accordato la possibilità di celebrare elezioni nei Territori per far emergere una nuova classe dirigente palestinese, distinta dall' OLP, con la quale negoziare un accordo sull'autogoverno. Tutto ciò, naturalmente, esclu­ deva la possibilità della creazione di uno Stato palestinese indipendente. La parzial­ mente positiva reazione del nuovo segretario di Stato USA, Baker, si accompagnò al rifiuto di Arafat e dal manifesto dissenso, per ragioni opposte, di una buona parte del partito Likud capeggiata da Sharon. Quest 'ultimo aspetto fu decisivo. La "ribel­ lione" dei compagni di partito metteva a rischio la sopravvivenza del governo e costrinse il leader israeliano a "mettere molta acqua nel vino" della sua proposta8• Il presidente egiziano Mubarak ritenne venuto il momento di rafforzare la prospettiva di un negoziato. Il 15 settembre 1989 presentò un piano articolato in dieci punti su cui incardinare il processo di pace. Era un tentativo di avvicinare le posizioni israeRoma-Bari 2005; M. Gerlini, I rapporti con gli Stati Uniti: la crisi di Sigonella e l'abolizione del G5, in E. Di Nolfo (a cura di), La politica estera italiana negli anni Ottanta, Lacaita, Manduria (TA)-Roma­ Bari 2003, pp. 91-1 10. Per il contesto generale A. Varsori, L'Italia nelle relazioni internazionali dal I943 al I992, Laterza, Roma-Bari 1998, spec. pp. 220-3. 4· Cfr. B. Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista (I88I-2ooo), Rizzoli, Milano 2001, pp. 728-37· 5· A. Shlaim, Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo, n Ponte, Bologna 2003, p. 502. 6. A. Kapeliouk, Arafot. L'irriducibile, Ponte alle Grazie, Firenze 2004, pp. 238-9; Shlaim, Il muro di ferro, cit., p. 5 1 4· 7· lvi, P· 516. n testo in Ministero degli Affari esteri, Il conflitto arabo-israeliano. Documentazione essenziale {I987-I990) (d'ora in avanti D E), Istituto Poligrafìco e Zecca dello Stato, Roma 1993, doc. 18, pp. 136-45· 8. Morris, Vittime, cit., p. 757· 22 4

ANDREOTTI D I NUOVO A PA LAZZO C H IGI

liane con quelle palestinesi che ritenevano il Piano Shamir un mero strumento per evitare di «porre fine all'occupazione » e negare « il diritto all'autodeterminazione » dei palestinesi. Elezioni « libere » , secondo il leader di al-Fatai)., si sarebbero potute svolgere, ma non « sotto le minacce dei fucili dei soldati occupanti » 9• Sette dei dieci punti del piano egiziano regolamentavano, in maniera restrittiva, la presenza israeliana all' interno dei Territori durante lo svolgimento della consulta­ zione. A ciò si aggiungeva l'interruzione della costruzione di insediamenti ebraici e la partecipazione alle elezioni anche degli arabi di Gerusalemme Est che, invece, era esclusa da Tel Aviv. Il piano si ispirava alla "dottrinà' americana del momento : "ter­ ritori contro pace", sicurezza per tutti gli Stati della regione, applicazione delle riso­ luzioni dell' ONU, diritti politici per i palestinesi10• Le divisioni interne al gabinetto di unità nazionale israeliano portarono a un sostanziale rifiuto della proposta egi­ ziana. Anche la successiva iniziativa di Baker - i "cinque punti"u - che riprendeva in parte i contenuti del Piano Shamir, si infranse contro il dissenso tra laburisti e conservatori. L'accettazione "condizionata" che ne fu fatta dalle parti in causa non produsse in realtà risultati tangibili. Il più importante effetto di questo succedersi di proposte senza risultati fu la fine della coalizione tra le maggiori forze politiche israeliane. Nel giugno 1990, dopo una crisi di governo durata tre mesi, Shamir dette vita a un esecutivo di destra che si avvaleva dell'appoggio determinante della galassia dei partiti religiosi e nazionalisti presenti nella Knesset12• Nella fase di passaggio dal governo De Mita a quello Andreotti la diplomazia italiana osservò con preoccupazione gli avvenimenti. I passi compiuti da Arafat nel corso del 1988 avevano soddisfatto profondamente il governo italiano. Le scelte che ne erano derivate apparivano co ndotte «co n grande coerenza e senso di responsabilità » 13• La leadership dell' OLP aveva accolto definitivamente la prospettiva diplomatica del dialogo con gli israeliani. La sostanziale accettazione del Piano Mubarak quanto - sia pure con riserva - delle proposte di Baker facevano dell'organizzazione palestinese un interlocutore credibile. Per Roma il rapporto di collaborazione che si era stabilito tra Tunisi e Il Cairo era il perno della nuova combinazione diplomatica. Il governo egi­ ziano aveva svolto un' « azione di persuasione » che aveva prodotto alcuni risultati. Primo fra tutti, appunto, l'adesione alle proposte egiziane nonostante diversi esponenti 9· Arafat a De Mita, IO maggio I989 ali. a Vattani a Bottai, 22 maggio I9 89, in Archivio storico Istituto Luigi Sturzo (d'ora in avanti ASILS ) , Archivio Giulio Andreotti (d'ora in avanti AGA ) , Israele, pratica 4I2/ 4, b. 484. Per il Piano Mubarak cfr. DE, doc. 23, pp. I62-5; Shlaim, IL muro di jèrro, cit., P· 5 I 8. IO. Cfr. X. Baron, I palestinesi. Genesi di una nazione, Baldini&Castoldi, Milano 2002, p. 489. Il. ll testo in DE, doc. 25, pp. I6 8-9. I2. Shlaim, IL muro di jèrro, cit., p. 5 I9. I3. Organizzazione per La Liberazione della Palestina, appunto del ministero degli Affari esteri (d'ora in avanti MAE ) , s.d (ma è della prima metà del I990 ) , in ASILS, AGA, Israele, pratica 4I2/ 4, b. 483. Su questo cfr. anche A. La Volpe, Diario segreto di Nemer Hammad ambasciatore di Arafot in Italia, Editori Riuniti, Roma 2002, p. I38. 2 25

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dell' O LP ritenessero che esse fossero un « ritocco cosmetico » al Piano Shamir14• Il «prevalere dell'opzione politica » nella strategia palestinese rimaneva, quindi, uno degli sviluppi più interessanti. Per il governo italiano il suo consolidamento era un' « assoluta priorità » 15• Maggiore incertezza provocava la politica israeliana. Il Piano Shamir era stato guardato con attenzione. La proposta di convocare elezioni nei Territori sarebbe potuta divenire un « catalizzatore » 16 del dialogo. Anche se, come Andreotti non fece mancare di far notare a Mubarak, il 3 ottobre 1989, non era priva di « ambiguità » 17• La preoccupazione maggiore, però, era che anche questa esile prospettiva negoziale potesse dissolversi. L'azione della destra, infatti, avrebbe potuto mettere a repentaglio lo sbilanciamento del premier. I pesanti condizionamenti che essa cercò di esercitare erano guardati con timore. Tradizionalmente a Roma si riteneva l'intransigenza di alcuni settori del mondo politico israeliano uno dei principali ostacoli sulla strada del negoziato. Il dibattito che ebbe luogo all' interno del Likud confermò queste preoccupazioni. Shamir, sottoposto alle pressioni di Sharon, apparve alla diplomazia italiana «costretto » ad accettare le « limitazioni » 18 che gli venivano imposte. Lo stesso ministro degli Esteri israeliano, Arens, si rese conto delle perplessità che il dibattito interno al principale partito di governo aveva sollevato in gran parte della comunità internazionale. Per dissipare tale sensazione volle personalmente rassicurare sia l'ambasciatore egiziano che i rappresentanti dei paesi del G7 che nulla era cam­ biato. Il compromesso raggiunto all' interno del Likud, approvato all'unanimità dai membri del Comitato centrale, avrebbe rafforzato gli indirizzi espressi con chiarezza nel piano israeliano19• Non di meno la reazione laburista, per bocca del suo leader, Peres, era tutt 'altro che incoraggiante. Egli aveva parlato di «capitolazione » 10 del primo ministro e sembrava preludere alla fine della collaborazione tra i due partiti. Il governo italiano, nonostante le differenze dalla linea di Tel Aviv, si sforzò di comprenderne le ragioni. Il ministro degli Esteri, De Michelis, intuiva che le difficoltà di Israele consistevano soprattutto nel fatto di trovarsi in una situazione inedita in cui la scelta per la pace non apparisse un cedimento dei tradizionali valori che avevano animato la nascita dello Stato ebraico. La maggioranza della sua opinione pubblica temeva un « salto nel buio » che avrebbe potuto portare Israele a essere « sopraffatt[o] 14. Mazzotta al MA E, 15 settembre 1989, tel. 582, in ASILS, AGA, Mubarak, pratica 308/I s . Il diplomatico italiano riteneva che, in quella fase, fosse in corso all ' interno del gruppo dirigente dell'oLP una «logomachia » che aveva come obiettivo di rafforzare le proprie posizioni negoziali verso gli Stati Uniti e Israele. 15. Appunto anonimo su carta intestata della Camera dei deputati, s.d., ivi, Israele, pratica 3 12/2. 16. De Michelis ad Arens, 12 dicembre 1989, tel. ris. 290, ivi, pratica 3 12/ s , b. 493· 17. Perlot a molte sedi all 'estero, 7 ottobre 1989, tel. ris. 1 8o4o/C, ivi, Mubarak, pratica 308/I s . 18. Leoncini Bartoli al MAE, 6 luglio 1989, tel. 388, ivi, Israele, pratica 3 12/3. 19. Leoncini Bartol i al MAE, 7 luglio 1989, tel. 391, ivi. Il premier rivolse la medesima rassicurazione personalmente all'ambasciatore americano. 20. Leoncini Bartoli al MAE, 6 luglio 1989, cit. 2 26

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dagli Stati arabi da cui è circondato » . Per questo era necessario offrire una «contro­ assicurazione » 2.1. Su questo l'accordo con Andreotti era pieno. Fu lo stesso presidente del Consiglio che individuò il primo campo in cui dare questa, ancorché provvisoria, rassicurazione. Nell' imminenza dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite si sarebbe potuta cogliere « l'opportunità di citare nel discorso all' ONU la necessità di annullare [ ... ] l'equiparazione razzismo-sionismo. È una carta psicologica che forse potrebbe indurre Shamir a una apertura. [ . . . ] Poiché il nostro impegno per i palesti­ nesi è noto, dobbiamo noi fare un passo in quella direzione » 2.2.. E noto come l'Assemblea generale dell' ONU, il IO novembre 1975, sotto la spinta dei paesi arabi e non allineati, avesse approvato una risoluzione nella quale si invita­ vano tutti i membri a opporsi al sionismo in quanto ideologia razzista e imperialista2.3• Il governo italiano aveva votato contro e la sua scelta era stata appoggiata da tutti i partiti sia di maggioranza sia di opposizione, anche se con motivazioni diverse4• De Michelis raccolse l'indicazione del capo del governo. Nel suo discorso di fronte all 'Assemblea generale, il 27 settembre 1989, disse che la risoluzione, adottata « in un clima diverso » , contraddiceva la « graduale integrazione » verso cui il mondo stava tendendo: dunque andava annullata2.5• L'operazione, condotta in pieno accordo con gli Stati Uniti, non arrivò ad alcun risultato. La stessa Unione Sovietica, la cui politica estera era condotta da Gorbacev con un indirizzo di crescente collaborazione con gli U SA, si oppose. E chiarì che anche nella sessione del 1990 avrebbe ostacolato qualsiasi tentativo in questo campo. Così Mosca avrebbe potuto cercare di arginare l'emorragia di consensi che, già da qualche tempo, subiva nelle relazioni con il mondo arabo2.6• In questo tentativo si possono riconoscere alcuni tratti distintivi che caratterizzarono la politica italiana verso il Medio Oriente da quando questa era guidata da Andreotti. Evitare ogni « velleitarismo » , ritenuto « sterile e anche pericoloso » , procedendo con passi misurati alla ricerca di «punti di convergenza » tra gli opposti avendo per obiettivo la stabilità della regione mediterranea. E tutto ciò, trattandosi soprattutto di Israele, non si poteva fare se non in stretto collegamento con gli Stati Uniti2.7• '

21. G. De Michelis, La lunga ombra di Yalta. La specificità della politica italiana, Marsilio, Venezia 2003, p. 100. 22. Andreotti a De Michelis, 1 3 settembre 1989, in ASILS, AGA, Israele, pratica 3 12/5/ A, b. 493· 23. A. Polsi, Storia dell'Gnu, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 120. 24. Cfr. L. V. Ferraris, Manuale della politica estera italiana (I947-I993), Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 276-7. 25. Discorso di Gianni De Michelis, 27 settembre 1989, in L. Tosi (a cura di), Sulla scena del mondo. L'Italia all'Assemblea generale delle Nazioni Unite (I955-2oog), Editoriale scientifica, Napoli 2010, doc. 58, spec. p. 378. Cfr. anche L. Riccardi, L'Italia e l'oNU. Alcuni elementi per una riflessione sulla politica estera italiana (I95J-Ig3g), in "Nuova Storia Contemporanea� 201 1, 3, pp. 135-60, spec. p. 154. 26. Traxler al MAE, 1 8 dicembre 1989, tel. 1560, in ASILS, AGA, Israele, pratica 312/5 b. 493· Per i precedenti cfr. G. Golan, Soviet Policies in the Middle East: From World liVt:zr Two to Gorbachev, Cam­ bridge University Press, Cambridge 1990. 27. Un approfondimento in L. Guidobono Cavalchini, I rapporti con il mondo arabo, in Barone, Di Nolfo (a cura di), Giulio Andreotti, cit., pp. 10 5-44• spec. p. 1 40. 2 27

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Tuttavia, il governo italiano non rinunciò a un'azione diretta sui protagonisti della regione per dare ampio sostegno alla politica svolta da Mubarak con la sua proposta. Ciò avvenne anche nei confronti dello Stato ebraico. De Michelis ebbe l'occasione di farlo in un colloquio con il suo omologo di Tel Aviv, il 25 settembre, a New York. «Al di là di quelle che [erano] le posizioni sostenute da Italia e Israele » , il ministro socialista sottolineò quale fosse l'obiettivo finale del governo di Roma: arrivare a una soluzione politica tramite una conferenza internazionale. Arens ribadì la posizione del suo governo : una soluzione imperniata sulla proposta Shamir sulla quale si sarebbe voluta una stretta concertazione con Mubarak. Quest 'ultimo, invece, si era dimostrato « reticente » e aveva preferito « lanciare le sue idee » senza alcuna consultazione preventiva con il governo israeliano. De Michelis replicò che, nella prospettiva di una soluzione politica, l' Italia non escludeva altre vie purché fossero « in grado di far avanzare il processo di pace » . In questo senso non si intravedevano « contrapposizioni insormontabili » tra le proposte egiziane e quelle israeliane. Le elezioni nei Territori avrebbero potuto essere celebrate se fossero state una delle premesse per arrivare a «dialoghi diretti » . L' Italia valorizzava profondamente lo sforzo che aveva compiuto il presidente egiziano. L' Egitto aveva pagato un «pesante prezzo politico in termini di emarginazione » pur di arrivare a una pace con Israele. Il ruolo del Cairo era fondamentale alla luce dei mutamenti che si stavano affermando nel campo arabo. Le sue proposte, infatti, potevano essere il punto di una «più larga aggregazione » di consensi tra gli arabi moderati di fronte alla minaccia del radica­ lismo del fondamentalismo islamico �8• Nelle settimane successive, dopo un altro incontro che ebbe con Arens a Roma, il 23 novembre, il ministro italiano definì quale sarebbe stata la posizione italiana in merito alle proposte israeliane : «Favorevole all'avvio di un dialogo israelo-palestinese come passo necessario verso una soluzione globale [ .. ] che trova[va] nella questione palestinese il suo nodo centrale. [ .. ] La proposta israeliana di elezioni nei territori occupati [sarebbe potuta] servire come catalizzatore di tale dialogo » �9• Tutto ciò era condizionato, però, alla richiesta che venissero «deposti atteggia­ menti pregiudiziali di intransigenza » 30• Il riferimento era alla netta posizione che il governo israeliano, da sempre, aveva espresso in merito a un negoziato diretto con i rappresentanti dell' OLP. Per De Michelis, invece, a quest 'ultima andava riconosciuto un « ruolo legittimo » determinato dalla maturazione, nel corso dell'ultimo anno, dalla « svolta moderata » che era stata «coerentemente perseguita » dalla sua leadership31• Le distanze con il pensiero di Tel Aviv erano evidenti. Shamir non aveva nascosto ali' ambasciatore italiano, nell'ottobre, in risposta alle pressioni che gli erano diretta.

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28. Scialoja al MAE, 26 settembre 1989, tel. 963, in ASILS, AGA, Israele, pratica 3 12/r. 29. De Michelis ad Arens, 8 dicembre 1989, tel. 290/50579 . ivi, pratica 312/ s. b. 493· 30. Ibid. 31. Ibid. 228

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mente pervenute da Palazzo Chigi, che la sua strategia di dialogo con i palestinesi era univocamente « alternativa all'oLP » . La politica israeliana andava interpretata nel solco di Camp David. L'eventuale partecipazione dei palestinesi al negoziato, dunque, avrebbe dovuto essere inserita nelle più vaste delegazioni egiziana e giordana e limitata a coloro che sarebbero stati l'espressione della volontà manifestata dalle elezionP2.. La posizione intransigente di Shamir era, agli occhi degli arabi "moderati", il principale ostacolo all'avvio di un dialogo. Ciò fu riscontrato direttamente da Andreotti nel corso dei colloqui che ebbe a Roma con Mubarak e re Hussein di Giordania nei primi giorni dell'ottobre 1989. Il presidente egiziano tornava da New York con un risultato importante : il sostanziale appoggio degli Stati Uniti ai suoi dieci punti. Il 3 ottobre non nascose la sua stanchezza per l'atteggiamento della lea­ dership dello Stato ebraico. Durante l 'Assemblea delle Nazioni Unite aveva detto ad Arens e Rabin di essere disposto a incontrare Shamir purché vi fosse « una prospet­ tiva di risultati » 33• Il suo piano era stato concepito in modo che non urtasse « la sensibilità delle parti, soprattutto quella israeliana » . Andreotti espresse il suo appoggio all' iniziativa egiziana aderendo in pieno a questa impostazione che « cont [eneva] le potenzialità per facilitare l 'avvio di un dialogo » 34• Il governo italiano ne sottolineava alcuni pregi: era un «contributo che consent[iva] di colmare il divario esistente » tra le posizioni israeliane e le «pre-condizioni » dei palestinesi; non si presentava un piano globale, ma si realizzava un « esercizio limitato » , in qualche modo «complementare >> al progetto israeliano35• Il problema, però, secondo lo statista italiano, rimaneva sempre la disponibilità ad accettare « il principio "pace contro territori" » . In questo si potevano rintracciare le menzionate « ambiguità » del Piano Shamir: era stata una risposta al mutamento di indirizzi dell ' OLP, ma non un effettivo cambiamento di prospettiva negoziale. Sul pericolo di un mancato sviluppo di questa iniziativa il presidente del Consiglio italiano lanciava un allarme. Esso, infatti avrebbe potuto pregiudicare il quadro d ' insieme che, per il momento, diciamo noi, manteneva aspetti ancora positivi. L' lntifada, in man­ canza di concreti risultati, avrebbe potuto « avviarsi verso la disperazione » ; mentre la posizione di Arafat si sarebbe potuta rapidamente indebolire rischiando di essere messa in discussione da coloro che, tra i palestinesi, l'avevano ostacolata. A questo fine bisognava fare pressione in qualsiasi modo sugli israeliani, anche utilizzando « gruppi ebraici americani» che sembravano mostrare una maggiore disponibilità. 32. Leoncini Bartoli al MAE, 19 ottobre 1989, tel. ris. 6o8, ivi. Shamir specificava di non volere nemmeno palestinesi provenienti dalla « diaspora » poiché in tale maniera si sarebbe legittimato il « diritto al ritorno» dei profughi che, per il governo israeliano, sarebbe equivalso all ' « annientamento dello Stato ebraico». 33· Perlot a molte sedi all 'estero, 7 ottobre 1989, tel. ris. 1804o/C, cit. 34· lbid. 35· Ibid. Cfr. Controversia arabo-israeliana. Ultimi sviluppi: ((Piano Mubarak", all. a Vattani ad Andreotti, 21 settembre 19 89, ivi, Mubarak, pratica 308/I s . 229

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Dello stesso tenore fu il colloquio con Hussein che ebbe luogo, sempre a Roma, il 9 ottobre successivo. Il sovrano hascemita era convinto che l' O LP non potesse andare oltre sulla strada delle concessioni. A questi - la cui politica estera era giudi­ cata « caratterizzata da equilibrio e moderazione » 36 - Andreotti ripeté i concetti che aveva esposto a Mubarak: bisognava premere su Israele per evitare il deterioramento del quadro d' insieme della situazione. Ma l'ostacolo era sempre lo stesso : l' intransi­ genza di Israele37• Per questo il governo italiano, facendo l'ennesimo tentativo di smuovere Tel Aviv dalle sue posizioni, si disse interprete di un sentimento diffuso sul piano internazionale che si era potuto constatare non solo nei colloqui con gli arabi, ma che era il prodotto di « assidua concertazione nell 'ambito europeo » 38• In questa situazione di difficoltà anche l'intervento diretto degli Stati Uniti non aveva prodotto grandi cambiamenti. I ricordati "cinque punti" di Baker, che preve­ devano un impegno americano simile a quello tenuto per gli accordi di Camp David del 1978, sollevarono più perplessità che risultati. I palestinesi, pur accettandoli con qualche condizione, contestavano agli americani di voler dare ali' OLP un « ruolo "invisibile" » 39 per indurre Israele alla trattativa. Il governo di quest'ultimo, dopo aver ufficialmente aderito alla mediazione americana, cominciò a risentire delle pressioni della destra del Likud e iniziò a vacillare40• Non di meno, Andreotti era convinto che non si potesse indurre scoraggiamento nella volontà di trattativa degli arabi. Ad Arafat mostrò quanto il governo italiano stesse apprezzando gli sforzi che il leader stava compiendo per dare attuazione ai cambiamenti di linea imposti all' OLP. A causa di questi non «poteva più essere emarginata dal ruolo di interlocutore valido nel processo di pace » 4 ' . Ma soprattutto faceva notare come il negoziato con Israele si inserisse in un clima politico che stava maturando sul piano generale. Esso era carat­ terizzato dai profondi cambiamenti in atto in Europa orientale e dalla « favorevole disposizione » di USA e URSS a una cooperazione globale. L' impegno italiano, oltre alle pressioni su Israele, si sarebbe svolto soprattutto in ambito europeo anche per ciò che riguardava gli aiuti umanitari alla popolazione palestinese4 1 • L'altro tassello delicato della trattativa era, naturalmente, l'Egitto. Era proprio al Cairo, infatti, che Baker aveva proposto si svolgessero i colloqui. Ed era al governo di quel paese che il segretario di Stato aveva affidato il ruolo di difensore degli inte­ ressi palestinesi nella fase preliminare del previsto negoziato. Proprio per il suo ruolo « autorevole » andava incoraggiato a perseverare sulla strada della trattativa. Andreotti 36. De Courten al MAE, 1 9 settembre 1989, tel. ris.mo 526, ivi, Giordania, pratica 1276/12. 37· Perlot a molte sedi all 'estero, 14 ottobre 1989, tel. ris. 1276, ivi, Mubarak, pratica 308/r s , b. 401. 38. De Michelis ad Arens, 8 dicembre 1989, cit. 39· Arafat ad Andreotti, 2 marzo 1990, ivi, Israele, pratica 412/4, b. 483. 40. Shlaim, Il muro di ferro, cit., p. s r 8. 41. Andreotti ad Arafat, 6 dicembre 1989, in Perlot a Mazzotta, 12 dicembre 1 989, tel. ris. 45 1/ 50790, in ASILS, AGA, Israele, pratica 412/4, b. 484. 42. Ibid.

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riconosceva i « termini rigidi » della posizione israeliana. Ma bisognava considerare alcuni elementi che promettevano sviluppi positivi: l'accettazione di Shamir del Piano Baker e la disponibilità di Arafat. Anche se il presidente del Consiglio italiano era costretto ad affidarsi soprattutto alle speranze : la « forza obiettiva degli argomenti » 43 con cui si stava facendo pressione su Tel Aviv avrebbe, prima o poi, dato frutti. La paralisi imposta alla trattativa dalle contrapposizioni interne del gabinetto israeliano produssero « frustrazione » 44 a Washington. Di ciò si resero conto perfet­ tamente Andreotti e De Michelis quando, il 7 marzo 1990, si recarono alla Casa Bianca per incontrare il presidente Bush. Questi, infatti, a oltre cinque mesi dalle proposte di Baker, si trovò ancora a discutere dell'urgenza di compiere il «primo passo » , cioè « far parlare gli israeliani coi palestinesi » 45• Tra le due parti non emer­ sero importanti differenze di valutazione sulla situazione. Il presidente del Consiglio italiano sottolineò i rischi di un'esclusione totale dell' OLP dal negoziato. Ci sarebbe stata la possibilità di un ritorno alle « condizioni di violenza pre-Algeri » 46• Inoltre sottolineò l' « incongruenza » della posizione israeliana in merito all' lntifada: mentre si attribuiva ad Arafat « la capacità di alimentarla o farla cessare » contestualmente non gli si riconosceva il diritto di «essere parte nel processo di pace » 47• Nel complesso gli italiani poterono saggiare l' «impostazione pragmatica » 48 della politica dell'amministrazione Bush. Gli Stati Uniti erano determinati nel proseguire i contatti con l'organizzazione palestinese e incoraggiavano Israele a fare altrettanto. Nel corso della conversazione, però, lo stesso Baker mostrò quanto si fosse ancora lontani da questo obiettivo. Il problema, infatti, non era il « dialogo diretto lsraele­ OLP » , ma « far sì che Israele parl [asse] ai palestinesi, accantonando per il momento ogni simbolismo » 49•

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Il Libano

Nel 1989 la guerra civile libanese appariva ancora un puzzle irrisolvibile. La Lega araba, approfittando anche del nuovo clima internazionale che si era stabilito grazie al nuovo rapporto tra Washington e Mosca, decise di cercare di prendere in mano la situazione. Nel corso del vertice di Casablanca, nel maggio, affidò a un comitato 43· Andreotti a Mubarak, 12 gennaio 1990, ivi, Mubarak, pratica 308/15. 44· Shlaim, Il muro di jèrro, cit., p. 518. 45· Petrignani al MAE, 7 marzo 1990 tel. ris. 468, in ASILS, AGA, Mubarak, pratica 308/15. 46. Ibid. Andreotti disse che questa valutazione era condivisa da numerosi Stati arabi. 47· Ibid. 48. Documento Baker in s punti. Alcune valutazioni, appunto, all. a Vattani ad Andreotti, 26 ottobre 1989, ivi, Israele, pratica 3 12/5 b. 493· 49· Petrignani al MAE, 7 marzo 1990, cit. 23 1

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- composto da Arabia Saudita, Marocco e Algeria - la ricerca di una via d'uscita dalla crisP0• I nodi irrisolti erano rappresentati da diverse questioni. lnnanzitutto dai rapporti tra le "nazioni" libanesi: l'antico ordine, fondato sul Patto nazionale del 1943, era considerato dai non cristiani non più accettabile. La realtà demografica e politica del Libano richiedeva un cambiamento degli equilibri. Inoltre vi era il problema dei rapporti con la Siria. Un mutamento dell'or­ dine interno libanese avrebbe coinvolto anche il ruolo politico esercitato da Damasco sul suo vicino. Da ciò dipendeva la decisione di ritirare le sue truppe che, in quel momento, occupavano circa i due terzi del territorio. Andreotti portò con sé a Palazzo Chigi anche il tradizionale interesse per il Libano che aveva caratterizzato gli anni in cui aveva guidato la Farnesina51• Il suo impegno per una soluzione della guerra civile, utilizzando anche i suoi contatti con la Siria, lo avevano reso molto popolare, soprattutto tra i dirigenti delle fazioni cri­ stiane. Non fece nemmeno in tempo a prendere possesso del suo nuovo ufficio a Palazzo Chigi che, immediatamente, gli pervennero le congratulazioni dai tre più importanti esponenti maroniti del Libano : Michel Aoun, primo ministro ad interim, George Saade, capo del partito Kataeb e Samir Geagea, comandante in capo delle Forces libanaises52.. Sin dall' inizio del suo mandato, il governo italiano si distinse per l'appoggio dato al tentativo arabo di pacificazione. Il presidente del Consiglio era convinto che qual­ siasi soluzione non potesse essere trovata senza la partecipazione della Siria. Le sue pressioni sul presidente Assad erano indirizzate soprattutto affinché questi si unisse « agli altri tre paesi arabi che sta[vano] cercando di stabilire la pace in Libano » 53• La « soluzione politica » - che mettesse fine anche allo scontro militare tra fazioni che paralizzava Beirut - fu oggetto di uno scambio di messaggi tra il capo del governo italiano e lo stesso leader siriano54• Contestualmente De Michelis svolse una certa azione sul versante europeo. Il 16 agosto sollecitò con energia la convocazione di una riunione della Cooperazione politica europea per poter dibattere della situazione libanese che ebbe luogo il successivo 21 agosto. Il quadro che uscì dall'incontro, pur essendo tutt 'altro che confortante, non sembrava completamente negativo. I contatti avuti dalla troika europea mostravano che all' interno della Lega araba si stesse cercando di uscire dalla passività in cui era ricaduta nelle settimane precedenti. Le notizie migliori, però, venivano proprio dalla Siria. Quest 'ultima, infatti, aveva mantenuto un atteggiamento di appoggio allo s o. Per i precedenti della crisi libanese cfr. tra l'altro M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 191S al 1991, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 298-305. 5 1. Ferraris, Manuale della politica estera italiana, cit., pp. 38 s -6. 52. Cfr. Aoun ad Andreotti, 17 luglio 1989; Saade ad Andreotti, 17 luglio 1989; Geagea ad Andreotti, 17 luglio 1989, ASILS, AGA, Libano, pratica 1357 /Iv. 53· Farinelli al MAE, 22 settembre 1989, tel. 678, ivi. 54· Perlot a diverse sedi all'estero, 23 agosto 1989, tel. ris. 15027/C, ivi.

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sforzo mediatore dei tre inviati arabi. Tale incoraggiante mutamento era dovuto, secondo la presidenza francese, alla «pressione intenzionale » e a «passi come quello effettuato da parte italiana » 55• Il governo di Assad, inoltre, mostrava di esitare a intervenire direttamente nello scontro armato in corso a Beirut nonostante le richieste che gli venivano dai musulmani libanesi. Lo stesso De Michelis, nel frat­ tempo, non era rimasto con le mani in mano : il 10 agosto si era rivolto direttamente al patriarca maronita, Nasrallah Sfeir, per spingerlo ancor di più a svolgere un 'azione di «contatti e intese » che favorisse il ristabilimento della pace56• Il 18 agosto, inoltre, si era rivolto direttamente al suo omologo siriano chiedendo di fare « tutto ciò che [era] in suo potere per l 'applicazione immediata del cessate il fuoco » 57 nella capitale libanese. Il capo della diplomazia italiana propose una dichiarazione dei Dodici sul Liba­ no i cui contenuti, pur essendo scontati, apparivano l'unica via d'uscita: cessate il fuoco, «rinnovato e marcato sostegno » all'azione della Lega araba, appoggio all'ap­ plicazione delle dichiarazioni del Consiglio di sicurezza sul Libano, aiuto umanitario urgente alle popolazioni58• Andreotti, mostrando anche quale fosse la percezione dei limiti dell'azione del governo italiano, ebbe a dire: «Abbiamo fatto quello che potevamo » 59• In questo quadro l'appoggio espresso direttamente ali' azione saudita era parte integrante della politica italiana. A Riyad si era grati del sostegno di Roma anche se non si nascondevano le difficoltà che ancora impedivano il successo della mediazione. Gli «ostacoli di fondo » erano soprattutto due : ritiro delle truppe siriane e sovranità del nuovo governo libanese. Su questi temi si erano polarizzate le « rigidità negoziali » della Siria e dei cristiani maroniti. Per attenuare queste posizioni l 'Arabia Saudita chiedeva all ' Italia, anche se con un « generico invito » , di premere in questo senso60• Il quadro rimaneva complicato e lo stesso sovrano saudita, Fahad, non appariva con­ vinto di arrivare a un risultato che superasse un semplice cessate il fuoco tra le parti. In realtà l'azione della Lega araba colse un risultato importante. Nell'ottobre ottenne il consenso delle parti a convocare una riunione di ciò che rimaneva del Parlamento libanese - eletto l'ultima volta nel 1972 - nella città saudita di Taif61• L'obiettivo era stipulare un nuovo Patto costituzionale su cui fondare la riconcilia­ zione nazionale e dare vita a nuovi rapporti con la Siria. Le riforme avrebbero dovuto Ibid. s 6. Sfeir a De Michelis in Mancini al MAE, 7 settembre 1989, tel. ris. 493, ivi. S 7· Ibid. s 8. Ibid. L' Italia si sarebbe impegnata sia neli ' invio urgente di beni di prima necessità sia in un programma di sviluppo « di più lungo periodo» per il quale aveva fatto una previsione di spesa di quaranta miliardi di lire. S 9· Farinelli al MAE, 22 settembre 19 89, cit. 6o. Maiolini al MAE, 7 settembre 1989, tel. ris. 404, in ASILS, AGA, Libano, pratica 1357 /Iv. 61. Emiliani, Medio Oriente, cit., pp. 306-7. S S·

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essere la base costituzionale con la quale celebrare le nuove elezioni presidenziali e cercare di procedere alla riunificazione del paese. In questo senso il ritiro delle truppe siriane rimaneva un interrogativo irrisolto anche perché connesso al ruolo che le forze armate israeliane avrebbero giocato sul futuro del Libano. L' Italia vide nella riunione dei parlamentari libanesi a Taif un importante passo avanti. Andreotti manifestò sia a Mubarak che a re Hussein, nel corso dei loro ricor­ dati passaggi a Roma, il pieno sostegno a questo tentativo. Nonostante ciò, trattan­ dosi appunto di Libano, rimanevano ancora numerose incognite. La più importante era la decisione che avrebbe assunto il governo di Damasco in merito alle sue truppe presenti sul suolo libanese. Il capo del governo italiano ricordò come una delle for­ mule possibili fosse quella di procedere al ritiro due anni dopo l'attuazione delle disposizioni adottate dalla conferenza di Taif, ove questa avesse raggiunto un risultato positivo62• Il problema vero rimaneva la « volontà politica » di Assad63. Proprio per questo il risultato dell'incontro dei parlamentari libanesi era determinante: il ritiro delle truppe di occupazione, per non «essere impossibile » 64, avrebbe dovuto essere coordinato con effettive riforme costituzionali che, in qualche modo, garantissero i siriani sui futuri sviluppi degli assetti politici libanesi. In questo senso, forse anche inaspettatamente, a Taif si raggiunse un accordo. Il Patto nazionale non fu abrogato, ma gli furono imposti importanti correttivi. La rappresen­ tanza parlamentare sarebbe stata uguale per cristiani e musulmani; contestualmente il presidente della Repubblica, pur rimanendo de lege un maronita, subiva una certa ridu­ zione dei suoi poteri in favore del Parlamento. Si disponeva, inoltre, lo scioglimento delle milizie confessionali e la ricostituzione effettiva dell'Armée libanaise. Il nodo politico era rappresentato dal rapporto con la Siria. L'accordo era molto esplicito nel richiedere il ritiro delle truppe israeliane dal Sud del paese; la presenza militare siriana, invece, era politicamente interpretata attraverso la dichiarazione che i parlamentari libanesi fecero a proposito dell'esistenza di relazioni privilegiate tra Damasco e Beirut. In questo senso si consentiva lo stazionamento siriano per un ulteriore periodo di due anni; dopodiché sarebbero potuti rimanere nella valle della Bekaa « solo in caso di necessità » 65• In buona sostanza si concedevano alla Siria tutte le garanzie politiche che non avrebbe perduto la sua influenza sul piccolo Stato confinante. Quest'ultima evolu­ zione sarebbe stata sancita dall'Accordo di fraternità stipulato dai due governi nel 1991. n 4 novembre il Parlamento libanese, questa volta in patria, approvò le intese di Taif ed elesse, dopo oltre un anno di vacanza, René Moawad alla presidenza. Ma la norma­ lizzazione era ancora lontana. n 22 novembre il nuovo presidente fu ucciso in un atten­ tato; fu prontamente sostituito con un altro esponente della comunità maronita, Elias 62. Perlot a molte sedi all'estero, 7 ottobre 1989, cit. 63. Perlot a molte sedi all 'estero, 14 ottobre 1989, cit. 64. Ibid. 6s. Emiliani, Medio Oriente, cit., p. 307.

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Hrawi, «ritenuto più filo-siriano del predecessore » 66• Un equilibrio così spostato in favore della Siria provocò la reazione armata del generale Aoun che, sostenuto da buona parte dei cristiani, si oppose all'applicazione dell'accordo di Taif. Il nuovo presidente, però, proseguì sulla linea stabilita. Formò un nuovo esecutivo, guidato dal sunnita Selim al-Hoss e minacciò di chiedere l'intervento delle truppe siriane. La radicalizzazione dello scontro portò, perlomeno fino alla fine del 19 89, a un ricompattamento delle diverse correnti in cui erano divisi i maroniti con l'obiettivo comune di opporsi a una possibile invasione totale del territorio nazionale da parte delle armate di Damasco. La resistenza, nonostante la progressiva dissoluzione della residua compattezza del fronte unitario cristiano, si protrasse fino all'ottobre 1990; in quella data Aoun, sconfitto sul campo, si rifugiò presso l'ambasciata francese a Beirut. Questo scorcio di guerra civile costò la vita a migliaia di civili67• Per il governo libanese la vera sfida, da quel momento, sarebbe stata arrivare a uno scioglimento di tutte le milizie armaté8• Il governo italiano disapprovò la ribellione di Aoun. A Roma si riteneva che, per uscire dalla guerra civile, l'unica strada fosse l'applicazione degli accordi di Taif. Il generale cristiano, dunque, difendeva le sue posizioni «certamente a torto » 69• In quest 'ultima fase della crisi il governo italiano non rinunciò a una qualche attività. Come manifestazione di sostegno alla soluzione "arabà', Andreotti ricevette a Palazzo Chigi, il 12 dicembre 1989, i ministri degli Esteri di Arabia Saudita, Marocco e Algeria - la troika araba che aveva preparato le intese sul Libano70• Conseguente­ mente a tale colloquio si impegnò, soprattutto in campo multilaterale, a sostenerne l'azione. In sede di Cooperazione politica europea il rappresentante italiano insistette che « fosse delineata con maggiore chiarezza la posizione negativa dei Dodici sull' at­ teggiamento del generale Aoun » . A questo proposito fu svolta anche una pressione sulla presidenza di turno francese, in particolare sul ministro degli Esteri, Dumas. La risposta di quest'ultimo fu meno incisiva di quanto ci si aspettasse a Roma. Comunque, in occasione della conferenza euro-araba di Parigi, sempre nel dicembre del 1989, ribadì « il perdurante appoggio dei Dodici alle intese di Taif» ; cioè il riconoscimento del « solo governo legittimo libanese » 71• Anche le Nazioni Unite furono teatro di una certa attività italiana. Il rappresen­ tante permanente, Traxler, su indicazione della Farnesina, chiese, tramite il collega francese, di far presente al segretario generale l'esigenza di una convocazione del Consiglio di sicurezza che affrontasse il problema del Libano « nel senso auspicato 66. Crisi libanese. Ultimi sviluppi, appunto MAE, s.d. ( ma è dei primi del 1 990 ) , in AS1LS, AGA, Libano, pratica 1357/Iv. 67. Emiliani, Medio Oriente, cit., p. 308. 68. Rapporto valutativo del S1SM1, 17 ottobre 1990, riservato, AS1LS, AGA, Libano, pratica 1357 /Iv. 69. De Michelis al MAE, 1 3 ottobre 1990, tel. ris. 28, Aoun, ivi. L'ambasciatore a Beirut, Giuseppe

De Michelis, era omonimo del ministro degli Esteri. 70. Crisi libanese-lniziative italiane, appunto MAE, s.d. ( ma diffuso il 2 3 dicembre 1989), ivi. 7 1. Ibid.

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dai tre ministri del Comitato tripartito » . Su questo, però, Pérez de Quéllar non si mostrò « ricettivo » 7 1 • Nonostante ciò, il rappresentante italiano si tenne in stretto contatto con i rappresentanti dei tre paesi arabi a New York i quali espressero un « vivo apprezzamento » per l 'azione del governo di Roma. Parallelamente a ciò gli Stati Uniti proposero una dichiarazione del presidente del Consiglio di sicurezza - meno impegnativa di una risoluzione, come aveva auspicato l' Italia - che espri­ messe l'appoggio all'azione della Lega araba per il Libano73. Un grado maggiore di complessità riservò il tentativo fatto nei confronti della Santa Sede. La Farnesina aveva percepito che Ol tre tevere, perlomeno nella sua fase iniziale, la resistenza di Aoun aveva sollevato aspettative in ordine alla difesa dell' indipendenza effettiva del Libano, il ritiro delle truppe straniere e il ritorno alla convivenza tra le componenti etnico-religiose. In buona sostanza l'azione del generale cristiano avrebbe potuto restituire dignità al Libano. A questo proposito la Segreteria di Stato era critica nei confronti degli accordi di Taif poiché, a suo parere, non garantivano gli obiettivi sopra menzionati che erano la base della "politica libanese" della Santa Sede74• I sauditi soprattutto si mostrarono molto infastiditi da questa posizione. La loro irritazione crebbe quando, alla fine del novembre 1989, non si rispose positivamente alla richiesta della troika della Lega araba, di passaggio a Roma, di essere ricevuti sia da Giovanni Paolo I I quanto dal cardinal Casaroli75• Per appianare la situazione Andreotti fece intervenire la diplomazia italiana. Il segretario generale della Farne­ sina, Bruno Bottai, fece un passo specifico presso l'incaricato della prima sezione della Segreteria di Stato, monsignor Sodano, per persuaderlo dell'opportunità di fare un gesto nei confronti dei ministri arabF6• Bottai, in seguito, cercò di ridimensionare la questione dicendo all'ambasciatore di Riyad, al-Torki, che essa era stata complicata da « una certa dose di equivoco » . In realtà il diplomatico saudita rimase poco con­ vinto ; in Vaticano non aveva trovato «piena disponibilità e collaborazione » . Lì, infatti, si era insistito soltanto sull'incontro con Casaroli, cercando di evitare l'u­ dienza papale. Il rifiuto categorico del diplomatico al-Torki, insieme ad altre pressioni italiane, spinse la diplomazia vaticana ad accettare la richiesta. Il 23 dicembre 1989, Giovanni Paolo n ricevette i ministri degli Esteri di Arabia Saudita, Marocco e Algeria che gli consegnarono un messaggio dei loro capi di Stato dove si chiedeva

72. Ibid. In realtà anche U rappresentante francese si mostrò poco entusiasta della proposta italiana

a causa della possibile sovrapposizione della Cooperazione politica europea. 73· Ibid. In questo caso le difficoltà insorsero perché lo schema di dichiarazione proposto dagli USA non faceva menzione della necessità che fossero ritirate, insieme alle truppe siriane, anche quelle israeliane. 74· Scammacca al MAE, 1 8 ottobre 19 90, tel. ris.mo 196, ASILS, AGA, Libano, pratica 1357 /Iv. Una ricostruzione della posizione vaticana, vista dalla diplomazia italiana, anche in Scammacca al MAE, 30 marzo 1990, telespresso s.n., ivi, Israele, pratica 3 1 2/8, b. 498. 7S· Appunto per il presidente del Consiglio, di Bottai, 1 4 dicembre 1989, ivi, pratica 13 57 /Iv. 76. Ibid. ; cfr. anche Crisi libanese-/niziative italiane, cit.

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appoggio alla loro azione per il ristabilimento della pace in Libano77• Nei mesi suc­ cessivi le difficoltà della Santa Sede riguardo al Libano non sarebbero diminuite. Il comportamento del generale Aoun - ritenuto eccessivamente protagonista e belli­ coso - unicamente alla dissoluzione del fronte cristiano determinò una sua «posizione difficile, se non imbarazzante » 78• Essa, comunque rimaneva « molto specifica » e sostanzialmente «differente » da quella italiana e della Comunità Europea79•

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Tra Israele e Arafat

Gli sviluppi dell' Intifada e la prosecuzione dello stallo diplomatico misero alla prova la linea di Andreotti sulla crisi mediorientale. Essa rimaneva sempre la stessa: «La ricerca di una soluzione politica globale che contemperasse l'esistenza e la sicurezza dello Stato ebraico con la tutela dei diritti politici fondamentali del popolo palesti­ nese cercando di facilitare con il concorso di tutte le parti in causa, l'avvio in tempi brevi del dialogo diretto tra Israele ed i palestinesi » sa . Il percorso disegnato dai "cinque punti" di Baker, all' inizio del 1990, continuava a fare fatica a prendere corpo. Il governo italiano registrava la « frustrazione » e l' « insoddisfazione » del segretario di Stato americano per la « riluttanza » 81 con cui Egitto e Israele si stavano impegnando per gettare le basi del dialogo. L' incontro trilaterale fra i tre ministri degli Esteri, infatti, avrebbe dovuto essere il passo preli­ minare per arrivare a un dialogo diretto tra una delegazione palestinese e una dello Stato ebraico da svolgersi, come detto, al Cairo. Ma entrambi gli interlocutori esita­ vano a prendere una posizione ben definita. Gli egiziani non producevano, come si erano impegnati, la lista dei membri della delegazione palestinese che avrebbe dovuto essere accettata da Israele. Quest 'ultimo, forse anche a causa dei contrasti interni, non esprimeva un chiaro indirizzo. Tutto ciò mal deponeva per il raggiungimento dell'auspicato «compromesso » che avrebbe dovuto essere, secondo il dipartimento di Stato, alla base di qualsiasi soluzione politica. Ciò accresceva le incertezze di Washington. L'enorme mole di lavoro che stavano producendo i rapidi cambiamenti in Europa, inoltre, rendeva Baker esitante, diversamente da come si era mostrato nel dicembre 1989, nell' impegnarsi personalmente in un negoziato che, alla fine, avrebbe potuto rivelarsi senza sbocchi concreti8 � . 77· Ibid. 7 8. Scammacca al

MAE, 30 marzo 1990, cit. Su Giovanni Paolo II e il Libano cfr. A. Riccardi, Giovanni Paolo II. La biografia, San Paolo, Cinisello Balsamo ( MI ) 201 1, pp. 455-8. 79· Scammacca al MAE, 1 8 ottobre 1 990, cit. 8o. Leoncini Bartoli al MAE, 4 aprile 1990, tel. ris. 214, ivi, Israele, pratica 412/4, b. 483. 8 1. Petrignani al MAE, 11 gennaio 1 990, tel. ris. 59, ivi, b. 493· 82. Ibid.

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Nel corso delle settimane successive la situazione mostrò ulteriori segni di irrigi­ dimento. Le diverse istituzioni europee accentuarono la tendenza a manifestare il proprio appoggio alla battaglia per i diritti nazionali dei palestinesi. Il 17 gennaio il Parlamento europeo votò una risoluzione con la quale si chiedeva l'interruzione della cooperazione scientifica con Israele. La Commissione, non potendo completamente tenere in non cale l 'opinione dell'assemblea, cominciò a esaminare la possibilità di compiere questo passo83• Tale ipotesi preoccupò il governo di Tel Aviv, non tanto per il contenuto quanto per il metodo scelto . L' Europa comunitaria, infatti, agiva seguendo la strada delle « sanzioni » che sarebbero potute divenire un «elemento di turbativa » 84 nelle relazioni bilaterali. L' « atmosfera assai tesa » che questa proposta rivelava fu confermata anche dalle successive iniziative nei diversi ambiti europei, nei quali l' Italia era parte importante. Anche per questo Shamir, appena costituito il nuovo governo, nel giugno 1990, decise di rivolgersi direttamente ai leader europei per cercare di influenzarne in qualche modo le decisioni. Insieme a una missiva rivolta al presidente uscente del Consiglio europeo, l' irlandese Haughey, scrisse anche a quello entrante, Andreotti. Il primo ministro israeliano ribadì la volontà di pace del suo governo. Questo era con­ fermato dalle reiterate richieste che aveva rivolto ai governi arabi, in particolar modo quello siriano, di venire in Israele per « unirsi a noi nei negoziati di pace » . Il leader del Likud chiedeva ai leader europei di agire perché si calmasse « la tensione » che era stata « artificialmente generata » in Medio Oriente. La strada verso una soluzione pacifica, a suo parere, incontrava ancora un ostacolo nel terrorismo. In questo senso ribadiva la netta contrarietà al coinvolgimento dell' OLP nel processo di pace in quanto tale scelta avrebbe rafforzato « la sua convinzione che dietro la facciata ragionevole [avrebbe potuto] continuare ad impegnarsi in violenza e terrorismo contro Israele » 85. A testimonianza della sua buona fede ricordava che anche per ciò che riguardava l, immigrazione ebraica di provenienza sovietica - un tema che negli ultimi mesi aveva fortemente agitato il mondo arabo - il suo arrivo non avrebbe «pregiudi [cato] la posizione di nessun altro abitante » né tantomeno provocato alcun sradicamento86• L' Europa non trovò nelle parole di Shamir le novità che si aspettava. Non a caso, nella dichiarazione sul Medio Oriente rilasciata dal Consiglio europeo di Dublino, il 26 giugno, si prese atto delle intenzioni di Israele, ma che tale impegno per la pace fosse « messo in pratica » apparteneva ancora alla categoria delle speranze87• La strada verso la « soluzione globale » rimaneva sempre la stessa: un dialogo diretto tra Israele e i palestinesi. Anche sulla politica degli insediamenti dava indirettamente una 83. Roberto al MAE, tel. ris. 338, 24 gennaio 1 990, ivi, pratica 3 12/r. 84. Appunto per il presidente del Consiglio, 31 gennaio 1990, di Vattani, ivi. 8s. Shamir ad Andreotti, 21 giugno 19 90, ivi, Israele, pratica 3 1 2/9, b. 497· Sull 'azione del nuovo governo Shamir cfr. anche Leoncini Bartoli al MAE, 27 luglio 1 990, tel. 5 46, ivi, pratica 3 1 2/4, b. 492. 8 6. Ibid. 87. Il testo in DE, doc. 3 1, pp. r8s-9.

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risposta molto chiara: essi erano da considerarsi « illegali » se realizzati nei Territori occupati e a Gerusalemme Est; e comunque sarebbero stati un grave ostacolo al conseguimento di un compromesso territoriale che avrebbe dovuto essere il fonda­ mento della soluzione politica della crisi88• Non si intendeva contestare il diritto degli ebrei sovietici a emigrare; ma ciò non sarebbe dovuto avvenire a detrimento dei diritti dei palestinesi. La situazione dei Territori, per giunta, era ritenuta « insostenibile » . E Israele aveva «palesemente disatteso » l'obbligo di proteggere i residenti palestinesi ai sensi delle disposizioni della Convenzione di Ginevra in materia di popolazioni civili nei territori sottoposti a occupazione militare. Da che parte stesse l'Europa comunitaria fu evidente sin dal giorno dopo la conclusione del vertice di Dublino. Il 27 giugno arrivò a Tunisi, per visitare Arafat, il presidente del Parlamento europeo, lo spagnolo Baro n Crespo. L'ambasciatore italiano, Mareno, che lo accompagnava, consegnò direttamente al leader palestinese il testo della dichiarazione di Dublino che incontrò la sua piena « soddisfazione » 89• Nella prima metà del 1990, dunque, il sostegno ad Arafat continuò a essere un aspetto importante dell'azione mediorientale del governo italiano. Questo impegno avrebbe dovuto avere una certa risonanza anche nel quadro dell'assunzione della presidenza del Consiglio europeo nella seconda parte dell'anno90• Proprio nel segno dell' imminente presidenza italiana avvenne la visita di Arafat a Roma, il s-6 aprile. Il programma fu quello di una « vera e propria visita di Stato » , come ebbe a lamen­ tarsi l'ambasciatore israeliano in Italia, Drory91• Alla parte "protocollare" del sog­ giorno si aggiunse un "bagno di folla" a Perugia, città dove la presenza di studenti arabi era alquanto numerosa, sotto l'attenta regia del PCI e del PSI9l. I colloqui con i più alti esponenti del governo italiano ebbero soprattutto come oggetto l'Europa cui Arafat guardava con un certo interesse nella speranza che costituisse un'alternativa occidentale alla politica degli Stati Uniti. Nonostante l'attività italiana, alla delega­ zione palestinese la posizione europea apparve ancora in « una situazione di stalla » ; la Comunità era ancora «divisa, impacciata » e non riusciva ad andare oltre l'intensa produzione di comunicati stampa dal contenuto filopalestinese93• Uno dei temi su cui l' OLP - e la Lega araba - chiedeva un immediato appoggio, come già ricordato, 8 8. Ibid. 8 9. Moreno al MAE, 27 giugno I990, tel. 404, in ASILS, AGA, Israele, pratica 4I2/ 4, b. 483. 90. Alcuni elementi di carattere generale in A. Varsori, La Cenerentola d'Europa? L'Italia e l'in­ tegrazione europea dal I947 a oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli (cz) 20IO, pp. 364-6; Ferraris, Manuale della politica estera italiana, cit., pp. 404-7. 9I. Appunto di Perlot, 2 aprile I990, in ASILS, AGA, Israele, pratica 412/4, b. 483. 92. M. Mentali, Arafot ad Assisi e Perugia. Un grande incontro di pace, in "l ' Unità", 7 aprile I990, p. IO. L'attenzione per il ruolo universale della Chiesa cattolica fu sottol ineata dallo stesso leader palestinese, oltre che con la visita al Sacro Convento di Assisi, anche dall 'udienza privata che Giovanni Paolo II gli concesse in Vaticano da cui uscì « molto soddisfatto»; cfr. Scammacca al MAE, 7 aprile I 990, tel. 64, in ASILS, AGA, Israele, pratica 4I2/ 4, b. 483. 93· La Volpe, Diario segreto di Nemer Hammad, cit., pp. I37-8.

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era quello dell' immigrazione degli ebrei dall ' Unione Sovietica. Essa richiedeva una risposta ancor più incisiva, oltre le dichiarazioni già rilasciate, poiché metteva in pericolo « la struttura demografica della regione » 94• Non c 'è dubbio che l' Italia e l'Europa scontassero una «ristrettezza di spazi di intervento » 95• Ciò fu accentuato, nel corso della primavera, dal progressivo cambia­ mento delle posizioni degli Stati Uniti verso l' OLP. Il ripetersi di azioni terroristiche contro civili israeliani - tra cui un tentativo di sbarco sulla spiaggia di Tel Aviv, il 30 maggio, da parte di un commando di palestinesi di Abu Abbas - raffreddò lo slancio di Washington verso la ricerca di una soluzione negoziata96• A questo contribuì anche il permanere di forti perplessità sulla politica di Bush all' interno del Senato dove non si approvava la sua presa di posizione riguardo il futuro di Gerusalemme. Per il presidente lo status della città, infatti, avrebbe dovuto essere determinato « attraverso negoziati » e comunque sarebbe dovuta rimanere unita. Il 28 marzo 1990, la maggio­ ranza dei senatori votò una risoluzione con la quale si riconosceva che Gerusalemme era e sarebbe dovuta «rimanere la Capitale dello Stato di Israele » . In questa maniera si apriva una palese «divaricazione » 97 con gli intenti dell'esecutivo, con il conse­ guente incremento di attrito con il mondo arabo. Lo sbarco sulla spiaggia della grande città israeliana, però, fu l'episodio determi­ nante. Nonostante Arafat ribadisse l 'estraneità dell' OLP a questi attentati e il ripudio di « tutte le forme di terrorismo e di violenza rivolte contro i civili » 98, Washington mostrava di non fidarsi più di lui. Riteneva le prese di distanza dalla pratica terrori­ stica non più sufficienti. Nel corso del mese di giugno decise di metterlo alla prova chiedendo di « disporre provvedimenti disciplinari [ . . . ] nei confronti dei responsabili » 99 dell'attacco terroristico. La mancata risposta del Comitato esecutivo dell ' OLP, unitamente a ulteriori pressioni provenienti dal Senato, dove due senatori avevano predisposto una proposta di legge per l' interruzione dei colloqui con l'Or­ ganizzazione palestinese, spinse Bush a compiere il passo. Il 20 giugno l'Amministra­ zione annunciò l'interruzione del dialogo degli Stati Uniti con l ' OLP. Per il governo italiano il contesto mediorientale, dopo le speranze sollevate nei mesi precedenti, cominciava a farsi «preoccupante » . Il ritorno di Shamir al potere, alla guida di un governo caratterizzato da elementi «oltranzisti » - come il nuovo ministro degli Esteri Levy e il ministro delle infrastrutture Sharon - era un'aggravante;

94· Appunto tradotto dalla segreteria della Presidenza del Consiglio dei Ministri, riservato, 4 aprile 1990, in ASILS, AGA, Israele, pratica 412/4, b. 483. Su questo tema cfr. anche Appunto per ilpresidente del Consiglio, 29 maggio 1990, ivi, pratica 412/1. 95· Ferraris, Manuale della politica estera italiana, cit., p. 401. 96. Baron, I palestinesi, cit., pp. 491-2. 97· Appunto per il presidente del Consiglio, 6 aprile 1990, di Vattani, cit. 98. Arafat ad Andreotti, 19 giugno 1990, ivi, pratica 3 1 2/4, b. 492. Abu Abbas era membro del Comitato esecutivo dell' OLP in rappresentanza del Fronte di Liberazione della Palestina (FLP ) . 99· Petrignani al MAE, 7 giugno 1 990, tel. ris. 129 1, ivi.

ANDREOTTI D I NUOVO A PA LAZZO C H IGI

ma, soprattutto, secondo De Michelis, l'elemento più minaccioso era la « radicalizza­ zione delle posizioni e dell'opinione pubblica » 100 nel mondo arabo. La decisione americana era soltanto l'ultima delle «evoluzioni negative » cui era stata sottoposta la situazione nelle ultime settimane. Il ministro, per parte sua, era comunque convinto dell' inopportunità di procedere su una linea di contrapposizione agli Stati Uniti101• Ma le sue perplessità sulla « difficilissima » condizione posta dagli USA all' OLP per la ripresa del dialogo - l'espulsione e l'arresto di Abbas - erano evidenti. Il panorama si era fatto oscuro anche secondo Andreotti. La maggioranza su cui si basava il nuovo governo israeliano consentiva a Shamir di non abbandonare la sua tradizionale indisponibilità a dare credito ad Arafat. Al presidente del Consiglio ita­ liano aveva detto con chiarezza di ritenere non « attendibile » 103 qualsiasi affermazione fatta dal leader palestinese. Andreotti riteneva che tale confermata rigidità delle posi­ zioni israeliane si coniugasse pericolosamente con il venir meno della « tenue apertura USA » interrotta dall' « infame » 104 attentato palestinese sulla spiaggia di Tel Aviv. In questo senso, probabilmente, il pensiero di Andreotti coincideva con quello del respon­ sabile del Dipartimento internazionale del PCI, Giorgio Napolitano : veniva meno un elemento di pressione nei confronti dello Stato ebraico rendendo qualsiasi soluzione politica molto più irraggiungibile105• Ma i suoi dubbi si estendevano anche alla richiesta di consegna di Abbas. A questo proposito riteneva di dover porre « a Gerusalemme e a Washington » un « interrogativo» sul futuro dei rapporti con i palestinesi: se aves­ sero ottenuto tale soddisfazione avrebbero poi aperto «un prenegoziato con l' OLP o sarebbe [ stata] l'ennesima concessione unilaterale dell' OLP senza conseguenze ? » 106• Per il governo italiano, insomma, Arafat rimaneva l'unico interlocutore altamente rappresentativo che potesse, in qualche modo, condurre i palestinesi verso la pace. Secondo De Michelis questa doveva definitivamente divenire la posizione dell'Eu­ ropa. La presidenza italiana della CEE nel secondo semestre del 1990 avrebbe dovuto di conseguenza essere caratterizzata dal « sostegno alla causa palestinese » 107• Ma l'improvvisa invasione del Kuwait da parte delle truppe irachene destabilizzò nuova­ mente lo scenario. IO l

100. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, x Legislatura, Bollettino Commissione Esteri, 21 giugno 1990, p. 4· 101. Ferraris, Manuale della politica estera italiana, cit., p. 40 1. 102. Bollettino Commissione Esteri, 21 giugno 19 90, cit., p. 4· 103. Minuta di lettera di Andreotti, s.d., cit. 104. Ibid. 105. Sull 'opinione di Napolitano cfr. Bollettino Commissione Esteri, 21 giugno 1990, cit., pp. 8-9. Cfr. anche Ferraris, Manuale della politica estera italiana, cit., p. 401. 106. Minuta di lettera di Andreotti, s.d., cit. 107. La Volpe, Diario segreto di Nemer Hammad, cit., p. 1 43.

La riscoperta della forza. L'Italia tra missioni di pace, interventi umanitari e ricerca di un nuovo ruolo internazionale di Luciano Tosi

I

Gli anni Ottanta e l 'evoluzione della politica estera italiana

Tra la fine degli anni Settanta e l' inizio degli anni Ottanta il venire meno della distensione e l'esplodere della seconda Guerra fredda ebbero riflessi anche in Italia e comportarono, tra r altro, una ridefinizione della politica estera favorita pure, a par­ tire dal 1979, dai nuovi governi pentapartito, che facevano perno su una rinnovata alleanza tra la n e e il PSI. Giunse allora alla ribalta una classe dirigente che, pur ancorata ai capisaldi tradizionali della politica estera del paese, era aperta a opzioni diverse per la soluzione delle crisi internazionali, anche alternative alla politica di sicurezza collettiva, più pragmatica, sensibile al ruolo dell' Italia nel mondo, favore­ vole alla tutela internazionale della democrazia e dei diritti umani. Si manifestò la propensione per una politica estera più assertiva, anche a causa della crisi dell' ONU e per la maggiore fiducia nelle possibilità del paese che, negli anni Ottanta, era uscito dalle difficoltà economiche che l'avevano attanagliato negli anni precedenti. Con i governi pentapartito presieduti da Giovanni Spadolini ( giugno 198 1-dicembre 1982 ) e da Bettino Craxi ( agosto 1983-aprile 1987 ) , in cui si alternarono agli Esteri Arnaldo Forlani, Emilio Colombo e Giulio Andreotti, nella politica estera italiana acquistarono un nuovo ruolo le Forze armate. Attraverso l'approntamento di un nuovo modello di difesa con una impostazione interforze e per missioni, operata dai ministri della Difesa Lelio Lagorio e Spadolini tra il 1980 e il 1983, l'esercito venne adibito, oltre che alle tradizionali funzioni di difesa del territorio nazionale, a missioni uma­ nitarie e di stabilizzazione « in aree di particolare rilevanza per la sicurezza nel Medi­ terraneo » , «di concerto con l' oNu e con i nostri alleati e su richiesta degli Stati interessati » 1• In occasione di crisi internazionali, a differenza del passato, l' Italia 1. Al riguardo cfr. M. Cremasco (a cura di), Lo strumento militare italiano: problemi e prospettive, FrancoAngeli, Milano 1 9 8 6 ; L. Lagorio, Indirizzi di politica militare. Relazione alle Commissioni per­ manenti per la Difesa della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, Servizio Pubblica Informazione Difesa, Roma 1980, pp. 8 8-92; L. Lagorio, Un ministro della Difesa negli anni Ottanta,

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cominciò quindi a utilizzare le sue Forze armate anche fuori dell'ambito societario, a fianco dell'alleato americano . Il rapporto del paese con gli Stati Uniti conobbe momenti di vivace dialettica ( Sigonella 1985, bombardamento americano di Tripoli 1986), ma si sviluppò in un quadro meno teso che in passato, quando oltreatlantico si paventava costantemente l 'arrivo al potere del PCI, un'eventualità che i nuovi governi pentapartito esclusero decisamente. Il passaggio da una politica estera in cui era dato largo spazio alla sicurezza col­ lettiva nella soluzione delle crisi internazionali a un'altra più centrata su metodi tradizionali non fu comunque netto e irreversibile; si accentuò piuttosto il carattere ambivalente della politica estera italiana del secondo dopoguerra, oscillante tra la piena adesione agli ideali societari e i vincoli atlantici, tra la diplomazia multilaterale e quella bilaterale. La tradizione fece sentire il suo peso, così come i diversi orienta­ menti dei partiti. Nel paese presero a fro nteggiarsi due schieramenti opposti : uno favorevole a ricondurre le iniziative umanitarie e di stabilizzazione sotto l'egida dell' ONU e un altro più propenso ad azioni autonome, il più delle volte a fianco dell'alleato maggiore. E, mentre in passato il richiamo all' ONU era stato in genere appannaggio della maggioranza, allora tale richiamo divenne più frequente da parte dell'opposizione di sinistra, sulla scia anche di un emergente movimento per la pace che univa alle tradizionali tematiche antimperialiste la contestazione alla logica bipo­ lare, i temi dello sviluppo, della sicurezza e dell'interdipendenza. L' Italia continuò a favorire l'azione dell' ONU, ad esempio, partecipando alla mis­ sione United Nations Interim Force in Lebanon ( UNIFIL) dopo l'occupazione del Libano meridionale da parte di Israele; allo stesso tempo, contrariamente al passato, il paese cominciò ad adoperarsi per la soluzione delle crisi anche fuori del contesto socie­ tario, specie in occasione di quelle che investirono il Mediterraneo e il Golfo Persico, dove l' Italia fece mostra di grande attivismo. Interventi che fecero quasi sempre seguito a sollecitazioni alleate, ma, con il venire meno della presenza sovietica nel bacino del Mediterraneo, la penisola tentò anche di svolgere un ruolo di potenza regionale e di riempire il vuoto di potere creatosi nell'area. Le Forze armate italiane si mossero in un quadro mediterraneo caratterizzato dall'assenza di istituzioni regionali per la sicurezza, dall' inconsistenza della politica europea nell'area e dall' impotenza dell' ONU. Su richiesta degli Stati Uniti e insieme a questi ultimi e a Francia, Gran Bretagna e Olanda, l' Italia partecipò alla Multinational Force & Observers ( MFO ) , volta a garantire il rispetto degli accordi di Camp David del 1979. Le Forze armate italiane operarono allora all'estero, per la prima volta in modo significativo, fuori dall'egida delle Nazioni Unite e fuori dall'ambito geografico di pertinenza dell'Alleanza atlantica, e la missione si sviluppò in mezzo a forti contrasti tra governo e opposizione ( PCI, PDUP ) Seguì, l. .

in Repubblica e Forze Armate, CISM, Roma 2007, pp. 49-55 e Ministero della Difesa, La Difèsa. Libro Bianco I9S5, Roma, I98s, pp. XI-XV, 3-4, 36-40 e 57· 2. Cfr. V. Coralluzzo, La politica estera dell'Italia repubblicana (I940-I992), FrancoAngeli, Milano 2000, pp. 290-3. 244

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tra il 1982 e il 1984, la partecipazione, prima con Stati Uniti e Francia e poi anche con la Gran Bretagna, a due missioni in Libano volte, la prima, a garantire il ritiro totale di tutte le forze straniere dal Libano e, la seconda, a tutelare i palestinesi dopo le stragi di Sabra e Chatila a opera di milizie cristiano-maronite. Si trattò per molti versi di una novità assoluta nella politica estera e militare dell' Italia repubblicana e la prima missione fu accompagnata da un acceso dibattito che vide contrapposti i fautori della parteci­ pazione, vista come una scelta sostanzialmente filoaclantica, e i critici della stessa, sostenitori di un intervento sotto l'egida dell' ONU. L' Italia assecondò allora un' inizia­ tiva degli Stati Uniti a tutela degli interessi occidentali, mossa tuttavia, specie nella seconda missione, anche da una sincera preoccupazione per le sorti dei palestinesi e meritando un generale apprezzamento per l' imparzialità del proprio comportamento e per l'opera umanitaria svolta3• Sempre nel 1984 l' Italia, su sollecitazione dell' Egitto e insieme a Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, partecipò a una missione per sminamento e scorta armata nel Mar Rosso, dove la presenza di mine stava mettendo a rischio le rotte attraverso il canale di Suez, il cui traffico commerciale era destinato per quasi un terzo a porti italiani. Come nei casi precedenti, il governo si preoccupò di sottolineare che le missioni erano in linea con gli obiettivi dell' ONU, di cui peraltro si sollecitava l' in­ tervento ; l 'opposizione di sinistra invece si disse ancora una volta contraria alla partecipazione italiana e manifestò il timore che si fosse in presenza di un allarga­ mento out of area, non dichiarato, delle competenze della NAT0 4 • La fine del lungo governo Craxi, nell'aprile del 1987, coincise con una fase di ulteriore ripensamento della politica estera italiana, legata soprattutto all'incertezza attraversata dalla realtà internazionale a partire dal 1985, a seguito dell'ascesa al potere di Gorbacev in Unione Sovietica. Il VI governo Fanfani, di transizione, e il successivo governo Goria, sempre con Andreotti agli Esteri, favorirono l' impegno del segretario generale dell' ONU Pérez de Quéllar per la soluzione del conflitto Iran-Iraq. L' Italia, membro non permanente del Consiglio di sicurezza ( cns) per il biennio 1987-88 e presidente dello stesso fino all'ottobre del 1987, in posizione di neutralità rispetto ai due contendenti, anche per non mettere a rischio i suoi rilevanti rapporti commerciali con gli stessi, resistette inizialmente alle pressioni degli Stati Uniti perché il paese li affiancasse nell'intervento nel Golfo per garantire la sicurezza della navigazione. Tut3· Cfr., fra gli altri, F. Tana (a cura di), La lezione del Libano. La missione della forza multinazio­ nale e la politica italiana, FrancoAngeli, Milano 1 9 85; A. Migliazza (a cura di), Leforze multinazionali nel Libano e nel Sinai, Giuffrè, Milano 1988; F. Angioni, Un soldato italiano in Libano, Rizzoli, Milano 1 984 e G. Tappero Merlo, Medio Oriente eforze di pace. Cinquant 'anni di guerre e interventi multina­ zionali in Israele, Libano e Golfo Persico, FrancoAngeli, Milano 1997. 4· Cfr. G. P. Calchi Novati, La missione delle navi italiane e il confronto fra opposti schieramenti, in "Politica Internazionale", xv, 1987, 11, pp. 41-54; cfr. inoltre IAI, L'Italia nella politica internazionale, I9S4I9S5, Edizioni di Comunità, Milano 1985 (d'ora in avanti IAI e l'anno cui l'annuario si riferisce), pp. 67-9 e 166-76.

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tavia, nel settembre del 1987, anche a seguito di un incidente in cui fu coinvolta nel Golfo una nave mercantile italiana, si aprì nel paese un intenso dibattito che vide schierati per l' intervento a fianco degli alleati occidentali una parte minoritaria di DC, PLI , PSI, P S DI e PRI, e contrari la maggior parte di DC, PCI, DP, Verdi e Radicali. Jl governo, dopo aver posto la fiducia in Parlamento, inviò nel Golfo il XVI II gruppo navale, sulla base di regole di ingaggio che prevedevano l'assoluta equidistanza tra le parti in guerra. Andreotti cercò di presentare come circoscritta l' iniziativa e ribadì la fiducia del governo nell'azione dell' ONU. L'opposizione giudicò la missione funzionale agli interessi occidentali, tutelati nella circostanza anche fuori del quadro NATO e dell'ambito di competenza dell'Alleanza5• Le finalità di quest'ultima erano allora in evoluzione, in coincidenza con l'evoluzione del quadro internazionale, e avrebbero avuto una più precisa definizione nel 1991 e nel 1999. Il dibattito in Italia sulle moda­ lità degli interventi militari, con o senza l' ONU, da un lato era una conseguenza di questa evoluzione, manifestando le perplessità e le incertezze del paese di fronte al lento ampliarsi degli scopi della NATO, dall'altro esprimeva la crescente propensione della nazione a svolgere un ruolo di maggior rilievo sulla scena internazionale, tenuto conto degli spazi che sembravano aprirsi allora alla sua azione con il declino dell'in­ fluenza sovietica nel Mediterraneo allargato. L' Italia si ritrovò a seguire il crescente interventismo degli Stati Uniti nel Mediterraneo, anche se non poteva non fare i conti con la sua tradizione filosocietaria e, ad esempio, nel caso del conflitto Iran-Iraq con­ tinuò a favorire l'azione delle Nazioni Unite per la soluzione dello stesso6• Ancora una volta la politica estera del paese appariva incerta, sospesa tra l'ambito societario e quello atlantico e le finalità più specificamente nazionali. Del resto, come si è detto, incerto era allora anche il quadro internazionale e, se da un lato l'allentarsi delle tensioni con l'ascesa al potere di Gorbacev ridava spazio al ruolo dell' oNu e quindi all' impegno dell'Italia nella stessa7, dall'altro il ridimensionamento del ruolo dell ' uRSS schiudeva al paese orizzonti inaccessibili prima di allora e ne stimolava le ambizioni. Nella partecipazione a missioni umanitarie e di peacekeeping, con l' ONU o senza, l' Italia conciliava d'altra parte vecchi e nuovi motivi ispiratori della sua politica estera, il tradizionale favore per la pace e la stabilità, la tutela dei suoi interessi e la valoriz­ zazione del suo ruolo nel mondo. Tali orientamenti, che si manifestarono anche con

S· Cfr. A. Varsori, L 'Italia e la fine della Guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (I9S9-I992), il Mulino, Bologna 20I3, pp. 52-3 e M. Buracchia, Golfo Persico: operazioni di scorta al traffico mercantile italiano (I9S7-I9SS), in M. Pizzigallo, P. Alberini (a cura di), Missioni militari italiane

all'estero in tempo di pace (I94 6-I9S9). Atti del Convegno di studi tenutosi a Napoli presso l'Universita Federico II e l'Accademia aeronautica il 27-2S novembre 2ooi, s.n., Roma 2002, pp. 333-4I. 6. Cfr. IAI, I9S7-I9SS, pp. 246-7 e 2SI-2. 7· Dall'agosto del I 9 8 8 l ' Italia partecipò a diverse missioni dell 'oNU: per vigilare sul cessate il fuoco tra Iran e Iraq e sull'attuazione degli accordi tra i due paesi; in Afghanistan, per favorire il ritorno alla normalità del paese dopo il ritiro sovietico; in Namibia per controllare la transizione del paese dall 'amministrazione fiduciaria del Sudafrica all' indipendenza.

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l'incremento negli anni Ottanta degli aiuti allo sviluppo e il forte impegno per la tutela dei diritti umani, contribuirono, nel 1986, alla ricordata quarta elezione del paese a membro non permanente del c n s .

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L' Italia e la sicurezza collettiva dopo la fine della Guerra fredda

La caduta del Muro di Berlino e la fine dell'ordine bipolare trovarono la politica estera italiana in evoluzione e ne resero impellente una ridefinizione, difficile anche per la crisi del sistema politico, che nel giro di poco tempo portò alla fine della Prima Repubblica. Tramontò allora la tradizionale giustificazione/legittimazione ideologica di alcune scelte della politica estera italiana, segnatamente di quella atlantica, venne meno il costante ruolo di mediazione tra Est e Ovest e fu necessario rivedere tutta la politica estera imperniata sul bipolarismo. L' Italia, inoltre, non era più una marca di frontiera del blocco occidentale e perdeva la sua rendita di posizione strategica, una perdita compensata dalla potenziale conquista di una maggiore libertà d'azione derivante dall'attenuarsi della minaccia nucleare e quindi dell'esigenza di protezione americana. Dopo la fine del bipolarismo, l ' Italia venne tuttavia a trovarsi al confine tra l'area della stabilità e quella dell' instabilità e questa circostanza ne rivalutò la posizione geopolitica e geostrategica: il paese divenne una base avanzata verso i Bal­ cani, il Medio Oriente e il Golfo Persico. Si accentuò allora la sua propensione a svolgere un ruolo di media potenza regionale, pur tra incertezze e contrasti connessi anche alla difficile fase di transizione attraversata dalla politica interna8• Crebbe quindi ulteriormente il ruolo delle Forze armate nella politica estera, poste a servizio della pace, della tutela dei diritti umani, ma anche della crescita del ruolo italiano nel mondo e dell 'affermazione degli interessi del paese9• La politica di difesa e la politica estera italiana finirono per identificarsi nel "nuovo modello di difesa", che, presentato in Parlamento dal ministro Virginio Rognoni, nel novembre 1991, ampliava notevolmente il concetto di difesa, con qualche cesura rispetto alla politica estera precedente, e interpretava in modo estensivo l'art. 11 della Costituzione. Secondo la nuova interpretazione rientravano nel concetto di difesa, oltre alla consueta « salvaguardia dell' indipendenza nazionale e inviolabilità dei confini » , anche una serie di nuove finalità quali

8. Cfr. L. Dini, Fra Casa Bianca e Botteghe Oscure. Fatti e retroscena di una stagione alla Farnesina, Guerini e Associati, Milano 2001, pp. 27-87. Cfr. inoltre D. Zannoni, L'Italia post-bipolare. Un ruolo internazionale di una media potenza globale, ISPI, M ilano 1997. 9· Cfr. E. Rusconi, Guerra e intervento umanitario, in Storia d'Italia. Annali, 1 8. Guerra e Pace, a cura di W. Barberis, Einaudi, Torino 2002, pp. 797-838. 247

LUCIANO TOS I la tutela di quegli interessi che direttamente incidono sul sistema economico e sullo sviluppo del sistema produttivo [ .. . ] la salvaguardia delle comunità italiane all 'estero, la difesa della legalità internazionale, il mantenimento della garanzia e della protezione concordata con paesi alleati e amici, il rispetto degli accordi e trattati, la tutela del ruolo e della credibilità interna­ zionale del paese, e la sua presenza economica e influenza culturale nei paesi terzÌ10•

La tutela degli interessi nazionali era intesa dunque nell'accezione più vasta del termine, sulla scia dei mutamenti in atto nel quadro internazionale e dei nuovi concetti di difesa che si stavano allora elaborando in sede NATO. Nel documento venivano inoltre indicati i due elementi della "struttura portante" della politica di sicurezza: adesione ai principi dell' ONU e delle alleanze con l'obiettivo della sicurezza collettiva (NATO, CE, cscE/ OSCE). Nel 1996, la Nota aggiuntiva al bilancio sottolineava come il concetto di sicu­ rezza fosse ormai un problema globale, collettivo, che non poteva essere ridotto alla dimensione nazionale senza perdere il suo stesso significato, e come le missioni militari non avessero più precisi limiti geografici e potessero avvenire in ogni parte del mondou. La prima importante occasione per manifestare i nuovi orientamenti della politica estera italiana venne offerta dalla crisi del Golfo del 1990-91, seguita all'invasione del Kuwait da parte dell' Iraq di Saddam Hussein. L' Italia, guidata dal 1989 da una coali­ zione pentapartito con alla testa Andreotti e il socialista Gianni De Michelis agli Esteri, sollecitata dagli Stati Uniti, e non senza aver tentato di evitare il conflitto, partecipò all'operazione Desert Storm ( Tempesta nel deserto ) , che si svolse sotto l'egida dell' ONU tra il 16 gennaio e il 27 febbraio 1991. Conferì al suo intervento un carattere strettamente difensivo e di polizia internazionale, ma tenne conto anche dei suoi interessi economici e politici nell'area. Fornì appoggio logistico alle operazioni e partecipò alle stesse con un contingente navale e uno aeronautico. Per la prima volta nel dopoguerra, l'esercito italiano fu coinvolto in una vera e propria guerra, scoppiata, peraltro, in un momento in cui il paese e l'esercito stesso erano impegnati a ridefinire il proprio ruolo sulla scena internazionale. Il ritorno della guerra - anche se sotto l'egida dell' ONU - come espe­ rienza con cui convivere, e da vivere, segnò profondamente il paese, che si divise sia a livello di opinione pubblica che di partiti, anche per il venir meno dei tradizionali schemi della Guerra fredda. Socialisti, liberali e socialdemocratici sostennero compat­ tamente il governo. Il fronte del no era formato da PCI-PDS e da un composito mondo pacifista includente settori della DC e del mondo cattolico, sensibile alle posizioni di IO. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati.

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Legislatura, Quarta Commissione, seduta del

2.6 novembre I99I, Comunicazione del Ministro della Difesa, onorevole Virginio Rognoni, relativa alla presentazione del nuovo modello nazionale di difesa, p. 6. 1 1. Cfr. A. De Guttry, Le missioni delle Forze Armate italiane fuori area, FrancoAngeli, Milano I 997; V. ilari, Storia militare della Prima Repubblica (I943-I993). Nuove Ricerche, Ancona I994; U. Allegretti, Costituzione e politica estera, in Nuove dimensioni nei diritti di liberta. Scritti in onore di Paolo Barile, CEDAM, Padova I990, pp. 3-2.2. e G. Bonvicini, Organizzazioni internazionali e interessi nazionali italiani in CEMISS ( a cura di ) , Il sistema Italia. Gli interessi nazionali italiani nel nuovo scenario internazionale, FrancoAngeli, Milano 1997, pp. 103-18.

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pacifismo assoluto mostrate allora dalla Santa Sede, e che, oltre a manifestare accenti di antiamericanismo, si rifaceva alla prima parte dell'art. 1 1 della Costituzione. I soste­ nitori del governo leggevano invece lo stesso articolo integralmente e mettevano l' ac­ cento sulla sua seconda parte, che impegna il paese a favorire le organizzazioni inter­ nazionali volte ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni. La Guerra del Golfo sembrò dare all' Italia l'opportunità di coniugare la sua nuova vocazione da protagonista sulla scena internazionale con la tradizionale politica filoso­ cietaria. Il governo dovette tuttavia tenere conto della vasta opinione pacifista esistente nel paese; cercò quindi di mantenere basso il profilo della partecipazione al conflitto, accompagnando l'intervento armato con il sostegno a iniziative di distensione, media­ zione e cooperazione internazionale (si tentò allora, invano, anche di rilanciare l' ini­ ziativa della CEE ) , che però sul piano internazionale finirono per dare l' impressione di un comportamento ambiguo e contraddittorio del paese12• Emerse allora un modello di intervento militare italiano che sarebbe stato riproposto anche in seguito, un inter­ vento spesso anche massiccio, ma presentato come low profile, anche con il supporto di gran parte dei mass media. Conclusa la Guerra del Golfo, l ' Italia fu partecipe della missione in Somalia, dove, in presenza di una vera e propria guerra civile fra clan rivali, l ' ONU e gli Stati Uniti posero in essere interventi con finalità dichiaratamente umanitarie ( United Nations Operations in Somalia, UN O S O M I e II e Restore Hope) . Nella penisola era in atto allora la difficile transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica, cui si accompagnavano forti difficoltà economiche e finanziarie (a luglio la lira era uscita dallo S M E ) . Con il sostegno della maggioranza del Parlamento (votarono contro Rete e Rifondazione comunista, si astennero PDS e Verdi), il governo ( o c , P S I , PLI, PSDI ) presieduto dal socialista Giuliano Amato - in carica, dopo le ele­ zioni politiche dell'aprile 19 92, tra il giugno dello stesso anno e l'aprile 1993 - inviò in Somalia nel dicembre del 1992 un contingente che in alcuni momenti giunse a comprendere quasi 3.500 uomini (operazione ltalfor-Ibis) . In coerenza con la nuova e più assertiva politica estera del paese, si ritenne importante non essere emarginati dal contesto somalo e del Corno d'Africa, stanti anche gli storici legami con l'area; l'occasione sembrò inoltre opportuna per sperimentare il "nuovo modello di difesa", che prevedeva appunto la partecipazione a missioni internazionali di emergenza umanitaria. In qualche modo si intese anche riscattare il fallimento di precedenti iniziative di cooperazione allo sviluppo poste in essere in Somalia negli anni Ottanta e cadute sotto la lente della magistratura. Il ministro della Difesa, il socia­ lista Salvo Andò, sostenne inoltre l 'opportunità per il paese, da sempre «consu­ matore di sicurezza » , di diventare «produttore di sicurezza » , intesa anche come 12. Sulla partecipazione italiana alla Guerra del Golfo cfr., tra gli altri, Varsori, L'Italia e la fine della Guerrafredda, cit., pp. s 3-94 e P. Ignazi, G. Giacomello, F. Coticchia, Italian Military Operations Abroad. ]ust Don 't Cali !t U'ar, Palgrave-Macmillan, Basingstoke 2012, pp. 88-96; cfr., inoltre, F. Tem­ pesta, Ostaggi e venti di guerra a Bagdad, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2006. 249

LUCIANO TOS I

tutela dei diritti umani e interventi in situazioni di emergenza umanitaria, cioè come « sicurezza allargata » 13• La condotta italiana fu ispirata a imparzialità ed equidistanza rispetto alle diverse fazioni in lotta, con l'obiettivo di favorire un processo di riconciliazione nazionale; fu tuttavia all'origine di gravi frizioni tra i responsabili italiani dell'operazione e quelli americani e dell' ONU, impegnati soprattutto in una guerra contro Aidid, capo di una delle fazioni in lotta, responsabile di gravi efferatezze. Le difficoltà incontrate nello stabilizzare il paese africano fecero crescere le critiche a UNOSOM da parte dell'opinione pubblica internazionale e le pressioni per il ritiro della missione e, specie dopo l'eccidio di 18 marine nell'ottobre del 1993, indussero il presidente americano Bill Clinton a decidere il completo ritiro del contingente americano entro il marzo del 1994. Alla decisione americana ne seguì una analoga dell'Italia e degli altri paesi occidentali, che lasciarono la Somalia in una situazione di grave anarchia ed emergenza umanitaria14• Mentre era impegnato in Somalia, il paese si trovò ad affrontare anche la crisi della dissoluzione della Jugoslavia, dissoluzione che in un primo momento il governo cercò di evitare. Successivamente, nel 1992 l' Italia partecipò alle prime iniziative di media­ zione dell' Unione Europea; coordinò quindi le operazioni navali dell' uEo (Unione Europea Occidentale) per far rispettare l'embargo posto dall' ONU alla vendita di armi ai paesi coinvolti nella crisi e partecipò alle operazioni aeree di soccorso umanitario della stessa UEO. Il fallimento delle iniziative dell' vE aprì la strada all'intervento di peacekeeping dell'oNU ( uNPROFOR) , che inizialmente escluse l' Italia dalle sue opera­ zioni in quanto paese confinante (e invasore durante la Seconda guerra mondiale), ma anche poco gradito alla Serbia e alla Croazia. Del resto, il paese privilegiava ancora una soluzione politica. Nel marzo del 1993, l'insuccesso dell' ONU portò, sulla base di una risoluzione del cns, all'intervento della NATO, cui l' Italia partecipò con la messa a disposizione di basi aeree per l'operazione di monitoraggio aereo Deny Flight. Quando, da parte della Gran Bretagna, si prospettò l 'ipotesi di una piena partecipazione italiana alle operazioni in ex Jugoslavia, nel governo e nel paese si aprì al riguardo un vivace

I 3. Tra il I 992 e il 1 99 5 le Forze armate italiane furono impegnate in Mozambico, in Cambogia, nel Sahara Occidentale, in El Salvador e in Guatemala; cfr. SIOI, L'Italia e le Nazioni Unite. Atti del convegno internazionale, Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma 1996. 14. Sulla partecipazione italiana alla guerra in Somalia cfr., fra gli altri, V. Nigro, In Somalia una "guerra" dell'oNU, in "Affari Esteri': xxv, 1993, 100, pp. 697-7 16; A. Del Boca, La trappola somala. Dall'operazione Restore Hope alfallimento delle Nazioni Unite, Laterza, Roma-Bari 1994; O. Croci, L'in­ tervento italiano in Somalia: una nuova politica estera per il