Guerra e medicina. Dall'antichità a oggi 9788842097556, 8842097551

"La guerra, pur essendo matrice riconosciuta del peggior male possibile, è tuttavia stata ed è tuttora il motore o

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Guerra e medicina. Dall'antichità a oggi
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Storia e Società

Giorgio Cosmacini

Guerra e medicina Dall’antichità a oggi

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel settembre 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9755-6

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Premessa Questo libro si apre con un apparente paradosso. Della guerra, da parte dei medici come da parte di tutti, non si può e non si deve che dir male. Essa mortifica, letteralmente, l’umanità; anzi la disumanizza; e la medicina, che usa le proprie scienze di base e le loro tecniche applicative per la cura degli uomini, non può e non deve far altro che essere al primo posto nell’esecrarla e condannarla. Eppure della guerra, da parte dei medici e perfino da parte dei pazienti, si può anche dir bene. Essa infatti, costituendo una serie di eventi cruciali nei quali i bisogni umani si moltiplicano e si fanno impellenti, imprime talvolta alle ricerche mediche, con le loro sperimentazioni e applicazioni pratiche, un’accelerazione, con approdo a conquiste che non sono vittorie in campo militare, ma invenzioni o scoperte che, trasferite in campo civile, sono vantaggiose per il genere umano. La storia è prodiga, nell’uno e nell’altro senso, di avvenimenti esemplari. Il rapporto tra guerra e medicina è un rapporto bi-direzionale, a sfavore e a favore. Per un verso la guerra è l’infausta matrice di traumi e malattie che richiedono una vastità d’interventi riparatori, esigenti a loro volta un’altrettanto vasta organizzazione sanitaria. Per altro verso la guerra disegna e ridisegna, nel corso dei secoli, le nozioni e azioni mediche che contribuiscono, talora in modo rilevante o decisivo, agli sviluppi e progressi nel campo della terapia e dell’assistenza. Questo libro percorre entrambi i filoni di tale svolgimento, con sguardo il più possibile oggettivante, ma senza che l’autore si esima preliminarmente dal far proprie le parole di uno dei medici fondatori e promotori di Emergency: «Quando una guerra è iniziata, il compito del medico è chiaro: deve fare tutto ciò che può per salvare degli esseri umani». Ma prima? «Prima che la guerra

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abbia inizio, prima che le bombe comincino a cadere, qual è il compito del medico? Può un medico assumere un atteggiamento agnostico, o magari limitarsi a sperare in cuor suo che prevalga la volontà di pace, senza fare una scelta pubblica? La domanda non è retorica né ideologica, ma investe un aspetto centrale della professione, un elemento caratterizzante dell’essere medico»1. L’«essere medico» non può e non deve prescindere da una logica e da un’etica interne al «mestiere» (voce lessicale che deriva da ministerium, significante «servizio» o «missione»). Logica ed etica implicano, al di là di ogni richiamo deontologico antico o recente – dal Giuramento d’Ippocrate alla Carta della professionalità medica2 –, un modo di pensare e di comportarsi che, scegliendo di combattere le malattie e le sofferenze, si oppone per sua natura alla guerra. La guerra è forse la principale causa d’impedimento nel soddisfare la naturale aspettativa di vita alla nascita (o speranza alla nascita degli anni da vivere). Ebbene, oltre un secolo fa, il grande medico-scienziato Rudolf Virchow, fondatore della «patologia cellulare», ebbe a dire al riguardo: «Se la medicina vuole raggiungere completamente i propri fini, essa deve entrare nella più ampia vita politica e sociale del suo tempo e deve indicare tutte le cause che impediscono il normale completamento del ciclo vitale»3. Tra cui, al primo posto, la guerra. «Per questi motivi scientifici e morali», ha scritto nel 1983 il patologo italiano Giovanni Favilli, maestro a più generazioni di medici, «il medico non può sottrarsi al dovere di essere in prima fila nella lotta contro la guerra». Favilli faceva specifico ed esplicito riferimento alla guerra nucleare minacciante il pianeta; e aggiungeva che tale minaccia era «la massima espressione della violenza conseguente all’appropriazione della scienza non per il bene dell’uomo, che ha creato la scienza, ma contro l’uomo, 1   Gino Strada, Medici contro la guerra: scelta personale o necessità professionale?, in «Ospedali della Vita», n. 2, 2003, p. 3. 2   La «Carta della professionalità medica» è stata varata nel 2002 dagli sforzi congiunti di associazioni e federazioni di medicina interna nordamericane ed europee. Si compendia in un decalogo ispirato a principi di centralità del paziente e di giustizia sociale. 3   Le parole di Rudolf Virchow sono riportate da «Tempo Medico», n. 209, 1983, p. 72.

Premessa

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che dà prova di essere incapace di controllarne a suo vantaggio l’utilizzazione»4. Questo modo di pensare e di comportarsi dei medici è stato sollecitato dalla International Physicians for the Prevention of Nuclear War fondata a Ginevra da due medici eminenti, lo statunitense Bernard Low e il sovietico Evgenij Cˇazov, e premiata nel 1985 dal Nobel per la pace. Tale sollecitazione, rivolta nel 2001 a «tutti i professionisti della salute nel richiedere soluzioni non violente e giuste», ribadisce il concetto che «risorse destinate ad alleviare la povertà e a proteggere l’ambiente sarebbero molto più produttive di quelle spese in armamenti»5. A questa voce echeggiata da più parti si è aggiunta in Italia una autorevole voce bioetica: «Della guerra i medici si sono occupati poco e male. La stessa medicina di guerra è un capitolo relativamente recente nella storia della medicina»6. Nell’affrontare e trattare tale capitolo, chi scrive, pur condividendo – come uomo, come cittadino e ancor più come medico – l’esecrazione e la condanna della guerra, tuttavia non può esimersi, come storico, dal rilevare e sottolineare quanto anzidetto: cioè che la guerra è stata anche, per dirla con il poeta della Ginestra, matrice di sorti umane certamente tutt’altro che «magnifiche», ma talvolta, suo malgrado, «progressive». Ringraziamenti Sono grato a coloro che, in diverso modo e a vario titolo, più mi sono stati d’aiuto nello svolgimento del presente lavoro: Giuseppe Eulisse, Gian Giacomo Orsatti, Biagio Papagna, Mario Peretti, Pietro Peretti, Giuseppe Scotti, Mario Stella Richter, Samuele Valentino, Elisabetta Zanarotti, Paola Zocchi.

4   Giovanni Favilli, Il movimento internazionale dei medici per la prevenzione della guerra nucleare, in La medicina e la prevenzione della guerra, a cura dell’Associazione italiana di Medicina per la Prevenzione della Guerra Nucleare (AIMPGN), Milano 1983, p. 9. 5   Editoriale del «British Medical Journal», 22 settembre 2001. 6   Francesco D’Agostino, intervento nel dossier pubblicato in «Panorama della Sanità», a. XVII, n. 15, 2004, p. 18.

Guerra e medicina Dall’antichità a oggi

I Greci e Troiani La cultura del mondo occidentale ha una sua lettura originaria o di base in un’opera classica che ha per argomento una guerra: una guerra «mondiale», combattuta tra Oriente e Occidente nella seconda metà del XIII secolo a.C. Pur così remota, tuttavia ancor oggi, dai banchi di scuola e dagli schermi televisivi, essa è conosciuta più o meno da tutti. È la guerra di Troia, narrataci da Omero nell’Iliade. «Per il primo periodo della storia della medicina», ha scritto lo storico della medicina Charles Daremberg, «Omero è il nostro più antico testimone; i poemi omerici costituiscono i nostri archivi più antichi». Il grande poeta è «il rappresentante di una civiltà e di una cultura notevolmente avanzate, senza dubbio più avanzate di quelle esistenti al tempo della guerra di Troia». Composta nella seconda metà dell’VIII secolo, l’Iliade infatti contiene osservazioni anatomiche più evolute di mezzo millennio rispetto a quelle che avrebbero potuto fare i diretti protagonisti delle vicende belliche insanguinanti la Troade. Di più: «la chirurgia, perlomeno la precisione anatomica delle parti corporee più vulnerabili, la prognosi delle ferite e qualche regola di medicazione si fondano già su principi dei quali è constatabile lo sviluppo nei testi della tradizione ippocratica»1. In altri termini, le nozioni anatomo-chirurgiche reperibili in Omero sono non meno avanzate di quelle di Ippocrate, il padre della medicina occidentale vissuto tre secoli dopo la data presun1   Charles Daremberg, Histoire des sciences médicales, Baillière, Paris 1870, pp. 71 e 79. La traduzione è mia.

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ta della morte del grande poeta (o degli aedi autori e cantori del poema). Il linguaggio poetico di Omero è dunque, press’a poco, lo stesso linguaggio tecnico della téchne ippocratica. Le nozioni ricavabili dalla lettura sub specie medica dell’Iliade dimostrano a qual punto fossero giunte già anticamente la diagnostica e la terapia delle ferite e lesioni per armi da guerra. La considerazione dei nessi temporali non è limitata alla relazione fra i tempi della guerra di Troia e della sua narrazione omerica (o della medicina simil-ippocratica delineata nel poema). Essa si apre anche al rapporto tra quelle antiche età e il nostro presente. I quadri in cui Omero dipinge la carneficina della guerra, qua e là con aspetti di vera e propria mattanza dei corpi, inducono al confronto tra quel lontano passato e l’attualità, dove alcuni massacri non sono meno truci ed efferati. Già Cesare Pavese, presentando all’indomani della seconda guerra mondiale una nuova versione dell’Iliade, ebbe a sottolineare questo nesso tra passato e presente scrivendo che «non è un caso che proprio adesso, in questo dopoguerra, si riprenda Omero»2 quasi per rivaccinare gli uomini contro quella epidemia che, in fondo, è la guerra. Proprio come un’epidemia, la guerra incombe sopra il popolo non diversamente da una «malattia popolare» ad alto tasso di diffusione e di mortalità, com’è appunto quella con la cui descrizione si apre il poema omerico. Agamennone, il comandante in capo dei Danai – i Greci o Achei che assediano Troia –, è reo di una colpa grave che ha offeso Achille, il quale per mezzo della madre Teti ha indotto Febo Apollo a scagliare dall’alto i suoi dardi punitivi (I, vv. 50-52): I muli colpiva in principio e i cani veloci, ma poi mirando gli uomini la freccia acuta lanciava, e di continuo le pire degli uomini ardevano fitte.

Già all’inizio, il quadro bellico è intersecato da una pestilenza che affligge uomini e animali (epidemia ed epizoozia) determinan-

2   Iliade, di Omero, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, a cura di Cesare Pavese, Einaudi, Torino 1950, p. ix. Da questo testo sono tratte le citazioni riportate nel capitolo.

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do una grande morìa. Radunato l’esercito, Achille dà un annuncio (I, vv. 60-61): ritorneremo indietro, purché sfuggiamo alla morte, se guerra e peste insieme abbatton gli Achei.

Contro tale proposito di rimpatrio si leva alto un grido (I, vv. 101-105 e 117) emesso dal comandante in capo: l’eroe figlio di Atreo, il molto potente Agamennone, ............................................................................ ............................................................................ subito guardando male Calcante [indovino dei mali] gridò: ............................................................................ io voglio un esercito sano, e non che perisca.

Guerra, peste e sanità. Sono qui abbozzati, in nuce, i rapporti esistenti, allora e tuttora, tra le calamità belliche, i loro contorni epidemici e le più o meno pronte risposte dell’organizzazione sanitaria. Anche la medicina non tarda a comparire; nel IV libro (vv. 193-194, 213, 217-219), a riguardo della ferita alla cintola inferta a Menelao da una freccia troiana, Omero mette in bocca ad Agamennone, re di Micene fratello del re di Sparta ferito, un comando perentorio impartito a un messaggero: al più presto, chiama Macàone, l’eroe figliuolo di Asclepio, guaritore eccellente.

Quando Macàone arriva, subito dalla cintura stretta strappò la freccia;

poi, dopo aver sciolto la veste e ispezionato il corpo del ferito, quando vide la piaga, dove colpì il dardo amaro, succhiato il sangue, i blandi rimedi sapientemente vi sparse che al padre suo con animo amico dette un giorno Chirone.

Rimozione tempestiva dell’agente vulnerante, attenta ispezione della parte offesa, suzione del sangue (fors’anche nella credenza

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che le ferite da freccia siano pericolose non in quanto penetranti ma in quanto avvelenate), applicazione di topici lenitivi: questi gli atti di un abile terapeuta che in altri passi del poema (XI, v. 518) è detto «guaritore perfetto». Pochi versi prima (XI, vv. 514-515) s’era detto di lui che uomo guaritore vale molti altri uomini a estrarre dardi, a spargere blandi rimedi.

Il guaritore è un super-uomo. Il suo valore è la somma del valore di molti uomini, comprensivo di un’esperienza molteplice, riassuntivo di un’accumulazione di pratiche operatorie e preparatorie di farmaci. A preparare questi ultimi, Asclepio era stato addestrato da Chirone, il centauro figlio di Zeus che l’aveva cresciuto. Chirone, dimorante sul Pelio, monte della Tessaglia, viveva in un ambiente agro-boschivo ricco di piante medicinali. Da lui Asclepio aveva appreso l’arte di medicare con i phármaka, «farmaci» o «veleni» a seconda della loro entità (dose) e della intenzione di chi li somministrava (modalità di somministrazione). Questa ambivalenza originaria (e attuale) della medicina farmacologica, di giovare con il rischio di nuocere, era rispecchiata nel mito secondo cui Asclepio aveva avuto in dono da Pallade Atena due ampolline, entrambe contenenti il sangue della Gorgone Medusa, estratto rispettivamente dal lato sinistro o dal lato destro di costei: con il sangue estratto da sinistra Asclepio poteva perfino risuscitare i morti, con il sangue estratto da destra poteva invece dare morte istantanea. La tradizione post-omerica ha considerato Macàone, legato al padre Asclepio (semidio della medicina) da filiazione emulatrice, come l’archetipo del guaritore delle ferite, riservando a suo fratello Podalirio il ruolo di guaritore delle febbri. Macàone è il continuatore, in ambito bellico, della paterna pratica chirurgica o «cura manuale» dei «mali esterni», quelli cioè che sono accessibili alla vista (ispezione) e al tatto (palpazione), come appunto le ferite, le lussazioni, le fratture. Macàone è il maggior chirurgo del campo acheo. Allorché egli è a sua volta ferito, colpito da freccia troiana alla spalla destra, grande è lo sgomento nel campo. Nell’anzidetta plusvalenza dell’arte sua – «estrarre dardi» e «spargere rimedi» – è compendiata la du-

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plice vocazione della chirurgia fin dalle origini: d’essere al tempo stesso ferramentaria, in questo caso estrattiva del ferro dalla parte colpita, e medicamentaria, dominatrice dell’emorragia e lenitrice del dolore. Tale duplice vocazione dell’arte fa del chirurgo militare un uomo (IV, v. 212) «pari agli dèi»; quanto meno fa di Macàone un semidio simile al genitore o, come già detto, un «eroe». All’eroico chirurgo degli Achei, vittima anch’egli della guerra, Nestore porge una coppa che contiene un farmaco miracoloso preparato dalle mani di Ecamede, «donna [anch’essa] pari alle dee» perché emulatrice di Elena, la figlia di Zeus che nell’Odissea (IX, v. 221) è detta preparatrice di un medicinale, a lei suggerito dall’egizia Polidamne, che l’ira e il dolore calmava, oblìo a tutte le pene.

Macàone, ferito, fruisce dello stesso soccorso tempestivo da lui prestato, come s’è visto, nel caso del pronto intervento a favore di Menelao (IV, vv. 190-191): un medico palperà la ferita, vi porrà sopra i rimedi che calmano i neri dolori.

Il chirurgo militare che toglie sensibilità al dolore è anche anestesista, come oggi diremmo. La serie delle lesioni di guerra cui deve far fronte è una sequenza senza fine. Lo sterminio narrato da Omero, a prescindere dalle morti anonime e da quelle collettive (non individualizzanti), comprende 147 ferite, del capo, del collo, del tronco, degli arti: 12 da freccia, 12 da fionda, 106 da lancia, con una mortalità rispettivamente del 42, del 66 e dell’80%; le rimanenti 17 ferite, da spada, sono tutte mortali. Nel libro V, che descrive «le gesta di Diomede» in uno scontro all’ultimo sangue fra Teucri (Troiani) e Danai (Greci), l’eroe greco Diomede, roteando e scagliando un masso con gesto erculeo (vv. 305-310) colse con esso Enea sull’anca, dove la coscia si curva a formar l’anca: lo chiamano cotile. Gli fracassò il cotile e gli spezzò due tendini, la pietra scheggiata stracciò la pelle; e l’eroe [troiano]

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cadde, e rimase in ginocchio, puntando la mano forte contro la terra; un’ombra buia gli coprì gli occhi.

È l’inizio di un macello che nel canto si fa via via sempre più truculento, coinvolgendo molti armati dei due schieramenti. Il primo a essere coinvolto è appunto Enea, fratturato all’anca, atterrato, semisvenuto, messo fuori combattimento. Ma scorrono appena duecento versi (vv. 311-513) ed ecco che, inaspettatamente (vv. 514-515), stette dunque in mezzo ai compagni Enea; e quelli godettero come lo videro vivo e sano farsi avanti,

animato da sacro furore vendicativo (vv. 541-542): uccise allora anche Enea fortissimi eroi dei Danai, i due figliuoli di Diocle, Ossìloco e Crétone.

La prodigiosa restitutio ad integrum di Enea, compiutasi in un battibaleno nonostante la gravità delle lesioni subìte, dimostra che nella guerra di Troia non c’è posto che per i morti o per i vivi, questi ultimi viventi di vita piena e pertanto tutti vigorosi e valorosi, abili e validi. In quella guerra, e nelle altre consimili, non c’è posto per l’invalidità, per la disabilità. Enea, in un breve volgere di tempo, ricompare in perfetta integrità e in piena forza fisica e psichica. Altri feriti o fratturati invece, di lui meno protetti dall’alto, escono dall’Iliade in silenzio, senza che Omero niente più dica di loro, delle loro mutilazioni, delle loro infermità permanenti. Dei mutilati e degli invalidi di guerra, il poeta, e con lui la società della quale egli è interprete, non si occupa più: non c’è posto per motulesi e disabili in quel mondo di eroi. Eziologia e patogenesi di molte lesioni belliche sono ripetitive nel loro carattere orripilante, al punto da far credere, più che a un espediente narrativo d’effetto, come tale reiterato, a un’elevata frequenza statistica, rappresentativa delle modalità della guerra. Così è detto che Patroclo (libro XVI, vv. 411-414) con un sasso colpì Erìlao, mentre balzava, in mezzo alla testa; e tutta si spaccò in due

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nell’elmo robusto: prono sopra la terra cadde, e su di lui si diffuse la morte che il cuore distrugge.

Poco dopo, la medesima sorte tocca a Epìgeo, mandato (vv. 575-576) «dietro Achille massacratore [...] a battersi contro i Troiani» (vv. 577-580): [................................] lo colpì Ettore illustre al capo con una pietra; il capo si spaccò in due nell’elmo robusto: prono sopra il cadavere cadde, e su di lui si diffuse la morte che il cuore distrugge.

Una visione cardiocentrica, che fa del cuore l’ultimum moriens (come il primum vivens) e che sarà ereditata da Aristotele (contro la concezione encefalocentrica di Platone), ribadisce che la vita degli eroi finisce quando si spegne l’anima irascibile che infiamma il cuore di fuoco vitale. Ancora oltre, Patroclo, vendicativo (vv. 733-745) dall’altra parte balzò a terra dal cocchio, nella sinistra tenendo l’asta: con l’altra mano afferrò un sasso lucente, aspro, che la sua mano tutto fasciava, e lo lanciò con forza, non fu a lungo in timore davanti all’eroe. Non fu vano il proiettile: colpì l’auriga d’Ettore, Cebrione, figlio bastardo di Priamo glorioso che dei cavalli reggeva le redini, in fronte col sasso puntuto. Sfondò i due sopraccigli la pietra, non resistette l’osso, gli occhi per terra caddero nella polvere davanti ai suoi piedi; simile a un tuffatore piombò giù dal carro, lasciò l’ossa e la vita. E tu, deridendolo, questo dicesti, o Patroclo cavaliere: «Oh l’agile uomo, come facilmente volteggia!».

Queste parole sono l’inizio di un eloquio irridente, rivelatore del fatto che la guerra è non solo affidata alle armi, ma anche combattuta con gli insulti verbali e con le urla in battaglia. L’irrisione del nemico, non fermata neppure davanti alla morte, grida vendetta ed è causa non secondaria della sentenza tacitamente emessa contro Patroclo e messa in atto da Ettore a conclusione di uno scontro all’ultimo sangue tra i due eserciti. Nel corso della pugna (XVI, vv. 783-785)

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Patroclo si lanciò sui Troiani meditando rovina, si slanciò per tre volte, simile ad Ares ardente, paurosamente gridando; tre volte ammazzò nove uomini.

Ma il dio Febo gli «fece cadere l’elmo giù dalla testa» (v. 793), gli «spezzò l’asta ombra lunga» (v. 801), gli «slacciò la corazza» (v. 804) e lo consegnò al suo destino. Ettore, esecutore del fato (vv. 820-821) gli balzò addosso in mezzo alle file, lo colpì d’asta al basso ventre: lo trapassò col bronzo.

La ferita è mortale. Ettore (XVII, vv. 125-127) dopo ch’ebbe spogliato Patroclo delle nobili armi, lo tirava per tagliar dalle spalle col bronzo acuto la testa e strascicare il cadavere e abbandonarlo alle cagne troiane.

Poi il cadavere di Patroclo passa di mano (vv. 289-290): Ippòtoo lo tirava pel piede fra la mischia violenta, legato con una cinghia al calcagno, intorno ai tendini.

Ahi lui! L’incauto trascinatore s’imbatté in Aiace Telamonio (vv. 293-299): Il figlio di Telamone, gettandosi tra la folla, lo colpì vicino all’elmo guancia di bronzo; si squarciò l’elmo chiomato intorno alla punta dell’asta, colpito dall’asta enorme e dalla mano gagliarda, e dalla ferita giù per la doccia corse il cervello sanguigno; subito la sua forza si sciolse, e dalle mani lasciò andare il piede del magnanimo Patroclo.

Negli ultimi versi citati la concezione encefalocentrica della vita e della morte sembra tornare in auge, prospettando un’aurorale presa di coscienza del tripode cuore-polmoni-cervello che sarà alla base del ciclo della «rianimazione», costituito dal massaggio cardiaco, dalla respirazione «bocca a bocca» e dagli schiaffi al viso per ovviare alla sincope.

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A prescindere da ogni precorrimento, sempre infido in campo storiografico, ciò che più conta è il fatto che la guerra di Troia – archetipo di riferimento delle guerre tra Greci e Persiani, tra Ateniesi e Spartani e via dicendo – è un evento che squarcia i corpi e ne permette, tramite l’«apertura», di conoscere come sono fatti internamente. In una stagione storica di lunga o lunghissima durata, nella quale è ancora assente ogni tecnica di dissezione cadaverica o l’apertura dei corpi ha carattere prevalente di tanatopratica religiosa (come presso gli Egizi), l’unico modo di conoscere quella scatola nera che è il corpo umano è quello di inferirne per analogia, con metodo comparativo, le strutture viscerali da quelle degli animali (specialmente suini) macellati a scopo alimentare; oppure è quello di derivarne per argomentazione, con metodo induttivo, le strutture di dentro da quel che di esse vien fuori. Senza le guerre, senza le loro macellazioni umane e le loro aperture corporee, è solo dato di argomentare che il sangue è un umore interno perché vien fuori dalle ferite occasionali (o dagli sputi ematici e dagli stillicidi emorroidari), che il muco (o flegma) è anch’esso un umore interno perché vien fuori dal naso e dalla bocca, che la bile gialla e la bile nera (o atrabile) sono altri due umori interni perché pigmentano i secreti ed escreti che vengono fuori sotto forma di urina e di feci. Ma i visceri, gli organi? Il conoscere, sia pure in forma approssimativa, come sono fatti il cuore, il cervello, il fegato, la milza dell’uomo, è reso possibile soltanto dalla guerra, quando tali organi umani, più o meno eviscerati, si offrono alla osservazione, alla ispezione diretta. È la guerra l’evento euristico che consente l’acquisizione empirico-sensoriale di un nuovo sapere, anatomico ante litteram. Portando lo sguardo dentro il corpo umano, la guerra «apre» per così dire alla pratica medica, intesa fin qui come manualità di mali esterni, un orizzonte di medicina «interna» attenta non solo ai quattro umori e alla loro buona o cattiva miscela, ma anche ai visceri che di tali umori sono interpretabili come (e)laboratori: il cervello del flegma, il cuore del sangue, il fegato della bile, la milza dell’atrabile. Facciamo ritorno sotto le mura di Troia. Ettore, l’eroe perdente, non è meno «massacratore» di Achille, l’eroe vincitore. Nei due campioni è simbolicamente indicata la ferocia, pari nei

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due eserciti, che alimenta incessantemente il vicendevole massacro. Molti sono gli episodi di vera e propria macelleria correlati, anzitutto, alle armi di offesa: la lancia, un’asta da getto di frassino con due punte ferrate, l’una come acme puntuto, l’altra per contrappeso nel lancio e per fissarla nel terreno; la spada, di bronzo, diritta e a due tagli, tenuta in un fodero portato al fianco; l’arco, di legno flessibile o formato da corna d’antilope, con dardi a punta uncinata a tre tagli, tenuti in un fascio nella faretra; la fionda, infine, un tirasassi di cuoio atto a scagliar pietre (che se di maggior mole venivano scagliate a mani nude, con gesto ch’era una via di mezzo tra il getto del peso e il lancio del disco). Le truppe leggere non avevano armi di difesa, di cui erano invece dotati gli armigeri pesanti, provvisti di elmo, corazza, mitra (piastra metallica protettiva del basso ventre), schinieri e lo scudo. Quest’ultimo era fatto di pelle bovina rinforzata da strisce ferrate, mentre il resto dell’armamentario difensivo era fatto di bronzo. I molti e svariati episodi cruenti si collegano, oltreché alla dinamica vulnerante delle diverse armi impiegate, alle varie parti anatomiche da tali armi colpite. Le lesioni delle parti, a loro volta, sono collegate alla fenomenologia sintomatica dei differenti guasti corporei provocati. Di lesioni al capo s’è già fatto cenno a proposito delle sassate mortali che costano la vita a Erìlao, colpito con un sasso da Patroclo, e a Epìgeo, colpito con una pietra da Achille. S’è detto anche dello sfracello della testa di Ippotòo, colpito dalla lancia di Aiace che gli ha trafitto il cervello. C’è già, a ben vedere, una distinzione tra il cranioleso colpito da un’arma impropria (un sasso, un masso) e il cerebroleso colpito da un’arma propria (la lancia). Quest’ultima appare dotata di una maggiore e specifica capacità lesiva. Nel medesimo libro IV che narra del soccorso di Macàone a Menelao si legge che (vv. 457-462) Antìloco uccise in mezzo ai Troiani un armato, forte tra i forti, Echépolo Talusiade; per primo colpì sul cimiero dell’elmo chiomato, e trapassò la fronte e penetrò nell’osso la punta di bronzo; di colpo il buio coperse i suoi occhi e crollò, come cade una torre, nella mischia brutale.

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Nel libro XI, che narra le gesta di Agamennone, è detto che questi (vv. 92-98) balzò per primo e colpì un uomo, Biénore, pastore di popoli; esso colpì, e poi il suo compagno, Oiléo, pungolator di cavalli. Questi infatti gli tenne testa, balzando dal carro, ma mentre diritto si scaglia, in fronte con l’asta puntuta lo colpì; e la corona, ch’era di bronzo pesante, non trattenne la lancia, che per essa passò, e per l’osso; il cervello schizzò tutto da dentro.

La distinzione tra craniolesione e cerebrolesione, fra il trauma all’involucro osseo «di fuori» e il ferimento del contenuto cerebrale «di dentro», è non solo abbozzata, ma ribadita. Nel libro XX che narra la battaglia degli dèi, anch’essi scesi in campo nella guerra totale, Achille fa strage. Fra le tante sue vittime (vv. 395-400) Demoleonte, nobile difensore in battaglia, figlio d’Anténore, colpì alla tempia, traverso l’elmo guancia di bronzo; l’elmo di bronzo non trattenne la lancia, lo traversò la punta con impeto e sfondò l’osso, il cervello dentro si spappolò.

Quanto alle lesioni del collo, strettoia del corpo atta a ridurre la perniciosa influenza sul cervello dell’ira del cuore, nel libro VIII è detto di Teucro, fratello di Aiace, colpito da Ettore che (vv. 325-329) tirava alla spalla, dov’è la clavicola, a dividere il collo dal petto, punto molto opportuno; qui con la pietra scabra lo colpì nel suo slancio e spezzò il nervo. S’intormentò il braccio al polso, egli piombò in ginocchio, giacque, l’arco gli cadde di mano.

Il «punto molto opportuno» è – noi oggi sappiamo – il fascio di vasi (carotidei, giugulari) e di nervi (frenico e plesso cervico-

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brachiale) che fanno del collo una parte anatomica che anche Omero considera d’importanza vitale, talché la lesione di essa porta inevitabilmente alla paralisi e al deliquio. È il medesimo punto nevralgico scoperto, che l’asta di Achille trova nudo, privo d’armatura protettiva, nel corpo di Ettore. Il corpo dell’eroe troiano (libro XXII, vv. 324-330) là solo appariva, dove le clavicole dividon le spalle dalla gola e dal collo, e là è rapidissimo uccider la vita. Qui Achille glorioso lo colse con l’asta mentre infuriava: corse dritta la punta verso il morbido collo, però il faggio greve non gli tagliò la strozza, così che poteva parlare, scambiando parole. Stramazzò nella polvere.

Ettore stramazza al suolo, dove «l’avvolse la morte», però non senza concedergli, prima, l’attimo fuggente per supplicare Achille di rendere il suo corpo al padre, alla madre, alla patria. La lancia ha tranciato i vasi sovraortici del suo collo, ma la violenta emorragia non impedisce alla laringe di articolare in un istante le ultime, supplici parole. C’è una precisa distinzione tra le vie del sangue che sgorga e la via della voce che sfugge. Un’analoga precisione, addirittura anatomo-topografica, risulta evidente nel libro XIV, quando l’asta di Aiace Telamonio, scagliata contro Archéloco (vv. 465-468) lo colse nell’unitura della testa e del collo, all’ultima vertebra, recise entrambi i tendini; e molto prima la testa e la bocca e il naso di lui furono al suolo, quando cadde, che le ginocchia e la gambe.

Evidente è il subitaneo reclinare del capo abbattuto, con il midollo troncato alla nuca e conseguente crollo, come «corpo morto [che] cade». Con riguardo alle lesioni del tronco, c’è una distinzione anatomo-topografica non meno precisa tra le lesioni del petto (torace) e quelle del ventre (addome). Nello stesso libro XIV è sempre Aiace che, reagendo a un assalto di Ettore, con una pietra (vv. 412-413)

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lo colpì al petto, sull’orlo dello scudo, presso la gola; la roteò come una trottola: e quella corse per tutto.

Stroncato dal colpo subìto, Ettore è prontamente soccorso dai compagni, che (vv. 435-439) dal carro lo posero a terra, acqua gli spruzzarono addosso: e lui rifiatò, si guardò intorno. Stando sulle ginocchia vomitò sangue nero; poi di nuovo supino scivolò in terra; e gli occhi nera notte coperse: il colpo vinceva ancora il cuore.

Trauma toracico, contusione interna, emottisi, stato di shock: il coinvolgimento dei polmoni e del cuore risulta evidente nel rifiatare e nell’alterno svenire-rinvenire dell’eroe troiano colpito, rianimato dall’acqua spruzzatagli in viso. Aqua vivimus, diranno i Latini. Un’altra lesione toracica è, nel libro XVI, quella inferta da Patroclo al re del Lici, Sarpedonte (vv. 480-481 e 503-505): dalla sua mano non fuggì inutile il dardo, ma colpì dove il petto racchiude saldo cuore. ....................................................................... ......................... Patroclo col piede sul petto divelse l’asta dal corpo, la seguì il pericardio: così strappò insieme la vita e la punta dell’asta.

È una ferita penetrante che lede cuore e precordi, togliendo la vita proprio donde essa trae le proprie radici. Le lesioni possono essere complesse, toraco-addominali. Nel libro IV, il «duce dei Traci», Piro (vv. 525-531) ferì all’ombelico, di lancia, [Diore Amarìncide]: tutte si riversarono a terra l’interiora; il buio gli coprì gli occhi [di colpo. Toante Etòlo, però, diede un balzo, ferì l’altro di lancia al petto, sulla mammella, il bronzo entrò nel polmone; gli s’accostò Toante, la valida lancia fuori dal petto tirò, snudò la spada acuta, con essa colpì in mezzo al ventre e gli tolse la vita.

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Ombelico e interiora sono punti di repere dell’addome, così come petto e ventre sono bersagli loco-regionali di una lesione toraco-addominale dove la ferita penetrante nel polmone ha una potenza mortifera trasformata in atto mortale – si può dire con linguaggio aristotelico – dallo squarcio nell’addome dov’è recisa, verosimilmente, l’aorta. Altrettanto complessa, gluteo-perineale, e altrettanto mortale, per verosimile interessamento dei grossi vasi pelvici, è la lesione che tocca a Féreclo, figlio di Téttone Armonide, all’inizio del libro V (vv. 65-68): Merione, appena lo raggiunse inseguendolo, nella natica destra lo prese; e dritta in avanti traverso alla vescica arrivò all’osso la punta. Cadde in ginocchi gemendo; lo travolse la Morte.

Non infausta, perché non può esserlo a priori, è la sorte che tocca al dio Ares, che è tra i divini responsabili dell’immane massacro. La mano di Diomede scaglia contro il dio della guerra, alla fine del libro V (vv. 856-859) l’asta di bronzo; e Pallade Atena la spinse nel basso ventre, dove agganciava la fascia; là egli lo colse, la bella pelle gli aperse e tirò indietro l’arma, e il bronzeo Ares urlò.

Il dio ferito non viaggia verso l’Ade, ma vola in Olimpo, dove Zeus lo redarguisce aspramente per la sua furia bellicosa, giustamente punita con il concorso della divina Pallade. Poi il padre degli dèi, smorzata la sua collera (vv. 899-901), impose di sanarlo a Peòne. E Peòne, spargendo blandi farmachi sopra di lui, lo guarì, poi che non era nato mortale.

La guarigione, qui, è cosa doppiamente divina: perché fa seguito al comando del padre degli dèi e perché è possibile solo se colui che ne fruisce è depositario di una soprannatura che lo eleva al di sopra della natura mortale. Guarire, insomma, è di pochi.

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Una sommaria rassegna delle lesioni degli arti pone per l’ennesima volta alla ribalta Diomede, che nel medesimo libro V (vv. 144-147) uccise allora Astìnoo e Ipeirone, pastore di genti, l’uno colpendo con l’asta di bronzo sulla mammella, l’altro con la gran daga alla spalla sulla clavicola colpì; restò separata la spalla dalla nuca e dal dorso.

È lo stesso evento toccato poco prima a Ipénore per mano di Eurìpilo, il quale (vv. 80-83) lo colse alla spalla, correndo, mentre [quello] fuggiva davanti, lo ferì con la daga e il braccio greve staccò; cadde nella pianura il braccio sanguinante; gli venne rossa sugli occhi la Morte.

Sono lesioni di guerra che potranno servire da prototipi alle amputazioni della chirurgia, amputazioni di braccio, d’avambraccio, di coscia, di gamba che saranno tentate, sperimentate, eseguite su larga scala dai chirurghi militari, in futuro. Tra le lesioni degli arti figura la ferita alla mano destra inferta da Menelao a Eleno, figlio di Priamo, nel corso delle gesta descritte nel libro XIII (vv. 595-597): dritta attraverso la mano arrivò l’asta di bronzo; l’altro si trasse indietro fra i suoi, sfuggendo la Chera, con la mano che pende; l’asta di frassino si strascicava.

La mano pendula è tosto medicata. La punta che la trapassa dal dorso al palmo viene subito estratta (vv. 598-599): il magnanimo Agénore gliela strappò dalla mano, e poi fasciò la mano con buona treccia di lana di pecora.

Con le trecce si confezionavano fasciature e con la lana arruffata i primi gomitoli e batuffoli emostatici. S’è detto della guerra di Troia come archetipo polemologico. Essa rappresenta anche il terminus a quo della storia antagonista

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tra il mondo occidentale e il mondo orientale: una storia di lunga durata che va da Maratona (490 a.C.) alle Termopili (480 a.C.) e che passa attraverso Alessandro Magno (356-323 a.C.), conquistatore delle città greche e dell’Impero persiano. È una storia che vede nella piana di Maratona gli opliti ateniesi di Milziade prima opporre alla nuvola di frecce degli arcieri persiani il muro di bronzo dei propri scudi e poi scatenare la falange d’assalto contro la fanteria e la cavalleria nemiche in uno scontro immane, di carne e di ossa, che conferisce alla battaglia una dimensione umana globale, diversa dalla guerra troiana combattuta dagli dèi e dagli eroi. Da allora in poi, la guerra è una apocalisse di violenza umana collettiva, sempre combattuta all’ultimo sangue, ma strategica, tattica, organizzata. Se ammette, come fattore di vittoria – oltre al coraggio – la disciplina e l’organizzazione, ammette anche, come fattore di sconfitta, la paura o addirittura il panico, che può dilagare come un contagio, rendendo la guerra simile più che mai a una mortale epidemia contagiosa.

II L’impero romano «Archetipo di ogni successivo libro di storia fu l’Iliade, nella quale non soltanto la materia privilegiata è la guerra, ma non manca nemmeno il conflitto civile, che lì si presenta come scontro tra i capi», tra Achille e Agamennone. È quanto asserisce lo storico Luciano Canfora, il quale aggiunge che per gli storiografi antichi «scrivere di storia è innanzitutto scrivere della guerra e di quanto le è connesso». La guerra di Troia è stata un termine di riferimento fondamentale: «il rapporto col passato, per intendere la grandezza del presente, lo si misura, secondo Tucidide [460-395 a.C.], comparando questa ‘grandissima’ con le altre guerre». D’altronde «il fenomeno della guerra è talmente centrale nelle società antiche che ogni aspetto della realtà ruota intorno a esso», al punto che «quando non c’è guerra non c’è racconto». Senza guerra, la storia è come muta: lo attesta, tra gli altri, il maggior storico della Roma imperiale, Publio Cornelio Tacito (55-120 d.C.), che negli Annales (IV, 32) «quasi esprime una qualche invidia per gli storici del passato – pensando soprattutto a Tito Livio [59 a.C.-17 d.C.] – che hanno avuto ben altra materia, ‘guerre gigantesche e terribili conflitti civili’, e non invece una ‘pace immobile’»1. Guerra e pace. Ben prima di diventare il titolo del celebre romanzo storico di Lev Tolstoj, il binomio fu il duplice polo di riferimento tra cui si dipanò una storiografia che, a detta degli stessi autori antichi, fu viva oppure spenta a seconda che fosse animata da belliche res gestae o viceversa inanimata, fissata in ripetitive 1   Luciano Canfora, Guerra madre di tutte le cose, in «Corriere della Sera», 21 maggio 2009, p. 39.

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vicende di pace. Quanto alle informazioni mediche e sanitarie da essa fornite, è ovvio che di tali notizie siano più ricche le opere che narrano fatti di guerra cum vulneribus et morbis, cioè con il loro corteo di affezioni traumatiche e di malattie. Guerra, morborum genitrix. I tempora calamitatis, con al primo posto quelli bellici, come furono eventi più produttivi di storia narrata, così lo furono per le narrazioni concernenti i traumi e i morbi, nonché gli interventi medici e i provvedimenti sanitari. La guerra è un evento della massima importanza, in ogni luogo e in ogni tempo. Yvon Garlan ha messo in luce quanto essa lo fu nei tempi antichi e nel mondo greco-romano2. L’importanza è da ricercarsi non solo nei vari aspetti polemologici – militari, istituzionali, politici –, ma anche in quelli sociali e quindi socio-sanitari. A tale riguardo va però subito detto che le descrizioni degli autori latini, emergenti più dalle drammatizzazioni dei poeti che dalle narrazioni degli storici di professione, non aggiungono elementi di sostanziale novità al quadro d’insieme – anatomico, patologico, clinico, assistenziale – già descritto da Omero. Si può dire che il modello omerico esercita la sua influenza sull’epica latina d’età repubblicana e imperiale anche nel campo medico-sanitario. È quanto si evince sia dai frammenti pervenutici del poeta Nevio (III secolo a.C.), i quali trasmettono in rudi versi saturni la dura realtà del Bellum poenicum (prima guerra punica), sia dai seicento versi residui degli Annales del poeta Ennio (239-169 a.C.), che tramandano in esametri eroici le gesta protoromane. Ma ciò risulta evidente soprattutto leggendo l’Eneide, dove Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.) rievoca scene pietose di stragi belliche e canta le lacrimevoli morti di Lauso, Pallante, Eurialo e Niso, Turno e Camilla; e non meno evidente traspare dalla lettura del Bellum civile (o Farsaglia) del poeta Marco Anneo Lucano (39-65 d.C.) e dei Punicorum libri (sulla seconda guerra punica) del poeta Silio Italico (25-101 d.C.). In tre secoli di epos latino, le ferite, i traumi, le cure, i soccorsi, le morti violente sono – dalla Repubblica all’Impero – oggetto di una descrizione tutto sommato invariante, che non si discosta sostanzialmente dal paradigma dell’Iliade.   Yvon Garlan, Guerra e società nel mondo antico, Il Mulino, Bologna 1985.

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Basti, a dimostrarlo, un esempio. Virgilio, nel libro XII del suo grande poema epico (vv. 391-424 e 920-950), presenta il vecchio Iapige, colui che, per saggezza, all’arte militare «antepose la conoscenza del potere delle erbe e l’usanza del medicare» e che subito accorre dove giace Enea, colpito a una coscia da freccia nemica, nel tentativo di operare «con medica mano» e di estrarre «con tenace forcipe il ferro». Invano: solo l’intervento della dea Venere, madre dell’eroe ferito, consente il buon esito dell’operazione. La dea «coglie sul monte Ida un dìttamo» e ne infonde le foglie in una «odorosa panacea» medicatrice che permette di sfiammare la parte lesa: «subito fugge dal corpo ogni dolore», «cessa [di sgorgare] il sangue dalla profonda ferita» ed «esce il ferro seguendo la mano senza più alcuno sforzo». Così Enea, miracolato dall’alleanza tra l’uomo operatore e la divina madre guaritrice, può tornare in campo e abbattere Turno, il quale, dopo che l’eroe troiano ha vibrato l’asta che lo atterra, «cade sulle ginocchia» e attende che il nemico «gli immerga nel petto il ferro omicida». L’intervento complessivo, semi-umano e semi-divino – o umano simil-divino – che tutt’insieme lenisce il dolore, frena l’emorragia, rimuove il corpo estraneo, appare, unitamente alla benefica farmacopea delle erbe medicinali e alla meccanica della morte violenta, tale e quale a quello più volte descritto da Omero. Virgilio, come Omero e non più di Omero, conosce le modalità chirurgiche, le proprietà dei farmaci, le parti del corpo maggiormente vulnerabili. A quest’ultimo proposito è stato giustamente osservato che «quando il personaggio messo in scena non deve morire, [Virgilio] lo fa colpire in una sede ove non si trovano organi vitali, mentre se è votato alla morte il colpo cade sempre su una regione delle più vitali. Così il giovane Almone è colpito al collo da un dardo che lo fa stramazzare per la lesione di grossi vasi»3. La sequenza descrittiva della morte violenta – che lacera il petto, dissangua, sottrae al corpo l’anima, annebbia la vista, dipinge sul volto il pallore, raffredda le membra e le scioglie facendo alla fine reclinare il capo – ha una concatenazione fisiopatologica 3   Arturo Casarini, La medicina militare nella leggenda e nella storia, collana medico-militare edita dal Ministero della Guerra - Direzione generale di Sanità Militare, vol. XX, Roma 1929, p. 90.

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esemplare negli esametri del libro XI (vv. 803-831) commiseranti la fine di Camilla, colpita dalla asta venuta sotto la nuda mammella [che] s’infisse e fonda entrò e bevve il sangue virgineo.

La vergine guerriera con la mano, morendo, vorrebbe strappare la lancia, ma, ferrea, nell’osso – ferita profonda – è la punta. Così dissanguata vien meno, si perde, freddo di morte l’occhio, han perso le guance il loro colore purpureo. [...] A terra non di sua voglia, già fredda, si sciolse in tutto il corpo e languido il collo e il capo, ormai in preda alla morte, posò; e l’armi la lasciano e la vita gemendo fugge angosciata fra l’ombre.

La fisiopatologia del morire descritta da Virgilio è quasi emblematica dell’odierna Sudden Death Syndrome, «sindrome della morte improvvisa», da qualunque causa questa sia determinata. Essa, dall’insulto vulnerante (incidentale oppure conseguente ad affezione cardiovascolare), procede attraverso la rottura del cuore o dei grossi vasi, la subitanea e profusa emorragia che ne consegue, la cessazione dell’apporto di ossigeno (antico «pneuma vitale») al cervello, l’obnubilamento del sensorio, l’anemizzazione e l’ipotermia generalizzate, il collasso terminale. Mutati i termini fisiopatologici, la virgiliana fenomenologia della morte improvvisa da causa bellica non è diversa da quella oggi occorrente per tutt’altre cause. Non lo è sotto l’aspetto biologico, legato a un identico meccanismo patogenetico che da una grave lesione cardiovascolare conduce fatalmente l’organismo a una repentina e massiccia perdita di sangue e a una rapida o immediata anossia del cervello, seguita da «morte cerebrale» e conseguente arresto di ogni funzione vitale. Quel che c’è di diverso e mutato è l’aspetto sociale: oggi infatti la morte improvvisa è un epifenomeno di accidenti o incidenti che colgono l’individuo in apparente pieno benessere o in congiunture possibili ogni giorno, mentre allora era un epifenomeno più spesso occorrente e

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osservabile in guerra e pertanto descrivibile dai cantori e scrittori di guerra. Il poeta Lucano, dal canto suo, «indugia a narrare nei più minuti particolari la sede e la gravità delle lesioni». Nel libro VII della Farsaglia, egli «narra che Cesare animava i suoi soldati indicando loro le regioni del corpo che dovevano colpire» e che «lui stesso con mano esperta comprimeva a molti le ferite che stessero per versar tutto il sangue»4. Inoltre Lucano non si esime dall’esibire le modalità della tanatopratica bellica: quando a Cesare recano la testa mozzata del rivale Pompeo, il macabro trofeo è presentato al vincitore dopo che dall’arte nefanda rimossa dal capo la tabe e dal sottratto cerebro disseccata la cute, fluì dall’alto la putrescente umidità e la faccia fu solidificata dal versato veleno.

Silio Italico, nel suo poema narrante la seconda guerra combattuta da Roma contro Cartagine, fa il nome di colui che – novello Macàone – può essere considerato il primo medico militare romano del quale si conosca l’identità: è un tale Marus (che in lingua etrusca significa «maschio»), occasionalmente prestato alle milizie, il quale cura il giovane Serrano, milite romano figlio di Attilio Regolo miracolosamente scampato alla morte nella funesta battaglia del Trasimeno (217 a.C.), in cui Annibale quasi annientò un esercito di 30.000 uomini. Il giovane soldato superstite, «oppresso dalla stanchezza e dal dolore delle ferite gravi e numerose, si ricovera a Perugia e per sua buona ventura batte alla porta di una casa abitata da un vecchio amico del padre», Marus appunto, veterano di precedenti battaglie. Questi lo fa adagiare con le piagate membra sul letto e senza far uso di mezzi cruenti deterge con acqua limpida le ferite e le medica con erbe emollienti; poi le fascia senza stringerle troppo, così da mitigare i tormenti.

  Vedi ivi, p. 88, anche per i versi di seguito riportati.

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Indi, mosso da «trepida pietà», non abbandona il ferito fino alla guarigione e lo riconduce egli stesso alla madre Marcia, che ansiosa gli domanda la prognosi: la ferita è leggera? oppure il brando ferale penetrò fin dentro le sue, e mie, viscere?5

Pur avvezzo alla realtà cruenta dei campi di battaglia, il medico militare è depositario di una pietas che è virtù precristiana orientativa del miles – in quanto civis in armi – sia adversus deos (Cicerone, De natura deorum, I, 116), sia verso la patria, come simboleggiato dal pius Aeneas (Virgilio, Eneide, I, 378), emblematico portatore di valori umani aggiunti al valore guerresco. Silio Italico inoltre, non diversamente da Virgilio, indica le regioni corporee che, se colpite, mettono a repentaglio la vita o la validità. Al primo posto è il cerebrum, centro encefalico d’importanza per l’appunto «capitale», seguito dal cor, primo a vivere e ultimo a morire, e dal pulmo, sede del soffio vitale e dell’ultimo respiro. Seguono poi i fianchi (ilia), l’inguine (inguen), l’osso del braccio (humerus), il cavo retrostante il ginocchio (poples) e infine questo o quel vaso sanguigno (detto vena, con nome generico). L’autore non manca di far menzione degli strumenti bellici, dai più semplici – asta, spada, giavellotto – ai più complessi – balista, ariete, catapulta –, fornendo dell’armamentario una sorta d’inventario utile per meglio comprendere la correlazione tra gli agenti vulneranti e gli effetti lesivi. «Oltre il chirurgo militare [Marus], il medesimo Silio Italico nomina due medici africani di parte cartaginese, e sono Athir e Sinalo, che prestavano la loro opera nella stessa guerra»6. Sono entrambi due specialisti: l’uno è specializzato nella cura delle ferite inferte da armi avvelenate, l’altro lo è nel medicare in modo blando con succhi d’erbe e nell’estrarre il ferro tramite incantesimo (ferrumque e corpore cantu exigere). Le armi, dalla spada – gladium, ensis, ferrum – alla lancia ferra5   Il brano di Silio Italico, tratto dal VI dei Punicorum libri, Molini, Firenze 1829, è riportato da Giuseppe Pinto, Storia della medicina in Roma al tempo dei re e della repubblica, Tip. Artero & C., Roma 1879, p. 222. 6   Ivi, p. 223.

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ta – pilum, telum, jaculum –, sono l’armamentario con cui si misura la romana virtù del pati fortia, a partire dalla Roma repubblicana fino alle stagioni aurea e argentea dell’Impero. Nella Roma dei re, soldato era il patrizio possidente, in grado di procurarsi il proprio personale armamento, ma già in periodo repubblicano miles è il civis, sia pure plebeo, che è obbligato alle armi nel tempo del pericolo e che fa ritorno a casa una volta che il pericolo è passato. Poi, al cittadino soldato iscritto nelle liste censorie si aggiunge il socius – o latino o italico o infine anche barbaro assimilato – chiamato a integrare le legioni che, nel lungo periodo intercorrente tra le guerre puniche e le invasioni barbariche, combattono con tattiche e strategie che variano, tutto sommato, in modo lento e graduale. La legione, divisa in manipoli e centurie, si ordina in falange serrata, tale da costituire una massa umana compatta e resistente, ma poi articolata in unità disposte a scacchiera su tre linee – hastati, principes, triarii – con la cavalleria ai lati. Questa triplex acies, della quale parla Giulio Cesare (102-44 a.C.) nei suoi commentari, è la forza bellica che conferisce a Roma la sua missione di pace armata, destinata – come recita Virgilio – a regere imperio populos. Gli storici romani – da Tito Livio a Tacito – hanno narrato in lungo e in largo le paci armate e le guerre combattute da Roma, ma «hanno lasciato ben scarsi cenni sui medici al servizio degli eserciti [...]; i romani per lungo tempo non ebbero speciali cure ed assistenza verso i propri soldati malati e feriti. All’epoca delle grandi guerre combattute in Italia, al tempo dei re e della repubblica, non è accertata l’esistenza di medici militari [...]. Occorre arrivare fino a Marco Aurelio (120-181 d.C.) per avere qualche notizia più sicura sulla presenza di medici al servizio delle legioni. I feriti sul campo di battaglia si curavano da sé, con rimedi propri, o erano soccorsi da compagni più esperti, con metodi necessariamente empirici»7. Tuttavia «è accertato che i grandi capitani disponevano di un medico di loro fiducia – servus medicus – che il accompagnava per tutto il periodo della campagna»8. Tali furono, per esempio, Glicone, medico del console Vibio Pansa menzionato da Svetonio (III secolo d.C.), e Cleante, medico di Catone l’Uticense menziona  Casarini, La medicina militare, cit., p. 94.   Ivi, p. 96.

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to da Plutarco (50-120 d.C.). Furono essi, fra i tanti, gli interpreti eclettici ed empirici di una chirurgia legata a quel mestiere delle armi che in età imperiale consentì a Roma di esercitare il proprio dominio su tutto il mondo mediterraneo e continentale. In tale contesto sociopolitico il medico migliore è spesso un chirurgo militare, come ben sa Aulo Cornelio Celso, il maggior ingegno in campo medico-chirurgico, fiorito in Roma nel I secolo d.C., al tempo dell’imperatore Tiberio. Il suo trattato De medicina, in otto libri, dedica una parte del libro VII alle lesioni belliche, da «palle di piombo», da «pietre da fionda», e alla «estrazione dei dardi dal corpo». «Non c’è cosa», scrive, «che con tanta facilità e tanta profondità s’incarni quanto la saetta», la quale è estraibile o «dalla parte di dove è entrata», come è preferibile, oppure «da quella per dove s’è incamminata»9. Celso specifica: Che se il dardo non penetrò molto addentro, ed è a fior di carne, o almeno non ha oltrepassato vene grosse o parti nervose, nulla di meglio che estrarlo dalla parte di dove è entrato; se invece c’è più cammino a farlo tornare indietro di quello che a finir di tagliare, e oramai ha passato vene e parti nervose, è meglio aprire il resto, e estrarlo per di là.

In ogni caso può essere di aiuto il ciatisco diocleo, lo strumento «inventato da Diocle»: Esso consiste in una lamina di ferro, o anche di rame, la quale dall’una estremità ha due uncini, da tutt’e le parti piegate all’ingiù, dall’altra è raddoppiata sugli orli, e in basso è leggermente piegata nella punta, verso quella parte che è scanalata e che quivi è anco forata. Questo istrumento s’introduce attraverso la ferita rasentando il dardo; poi, quando si è arrivati alla punta, si gira un poco perché nel suo foro riceva il dardo medesimo; e infilato che l’ha, presi per di sotto con due dita gli uncini di quell’altra parte, si estrae a un tempo e l’istrumento e il dardo.

Quanto ai proiettili «che rotta la pelle s’internano nella viva carne, [...] conviene dilatar bene le ferite, e colla tanaglia estrarre 9   Questa e le successive citazioni sono tratte da Aulo Cornelio Celso, Della medicina, trad. it. di Angiolo Del Lungo, Sansoni, Firenze 1985, libro VII, pp. 421-424.

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il corpo estraneo [...]. Maggiori difficoltà però s’incontrano in tutte le ferite di questa sorta, se il proiettile è penetrato nell’osso, o è rimasto incastrato fra le due ossa d’un’articolazione». Nella sua chirurgia di guerra, Celso tratta anche l’argomento delle mutilazioni, suggerendo, tra l’altro, di utilizzare lembi cuta­ nei scollati dalle guance per la riparazione o ricostruzione del naso amputato. Dopo Celso, Galeno. Claudio Galeno (129-200 d.C.), migrato a Roma dalla natìa Pergamo in Asia Minore, è il maggior medico della romanità imperiale, archiatra di Marco Aurelio e medicus gratiosus del patriziato dell’Urbe. Convinto assertore del fatto che il medicochirurgo dev’essere figura professionale unitaria, in cui la manualità dell’anatomista expertus prolunga nell’intervento sul vivente la scienza del doctus, non dedica alla chirurgia, fra le tante sue opere, un trattato particolare. Tuttavia è appropriato parlare di chirurgia galenica perché, nei libri XIII e XIV del suo Metodo terapeutico, egli dimostra tutta la propria competenza sia nelle «estrazioni di corpi estranei e incisioni di suppurazioni», sia nelle «più impegnative [operazioni] che egli fece in qualità di medico dei gladiatori a Pergamo»10: tra queste, non mancano suture intestinali e della parete addominale per lesioni penetranti, frequenti nei gladiatori. In fondo, anche le tenzoni circensi sono una sorta di battaglia. «La chirurgia non consiste in altro che nel movimento incessante di mani salde ed esperte» guidate dall’intelletto: è questa una delle Definitiones medicae dettate da Galeno. Tali mani salde ed esperte avevano modo di dimostrare il loro valore nel circo come sul campo di battaglia; avevano a loro disposizione uno strumentario chirurgico quanto mai ricco, composto da oltre un centinaio di arnesi di vario tipo e uso, fabbricati generalmente in bronzo, con punte e lame generalmente in ferro. I metalli delle armi erano quelli stessi degli strumenti usati per riparare le lesioni provocate dalle armi medesime: similia similibus curantur. «Il simile si cura col simile» era uno degli aforismi in auge, fondamento, in questo caso, di quella che potremmo chiamare omeopatia chirurgica per cui una affezione è curata con lo stesso mezzo che l’ha prodotta. 10   Opere scelte di Galeno, a cura di Ivan Garofalo e Mario Vegetti, UTET, Torino 1978, pp. 1012-1013.

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L’armamentario del chirurgo operante in Roma e nelle diverse province dell’Impero ai tempi di Galeno comprendeva una gamma di strumenti – pinze, specilli, sonde, spatole, aghi, seghe, trapani, cauteri, forbici, coltelli, scalpelli e via dicendo – di cui è possibile un inventario soltanto sommario o parziale. Numerosi erano gli arnesi appartenenti alla classe dei cosiddetti «taglienti»: tra gli altri, il forfex, o forbice con lame, per il taglio; lo scalpellum, o bisturi; lo scalpellum nimirum anceps utriusque acutum, o bisturi a doppia lama; lo scalper excisorius, o lanciuola tagliente, diverso dalla scalprum, o bisturi lanceolato. Le pinze erano i forcipes: pinze a tenaglia per l’estrazione di corpi estranei, pinze «a dente di topo» con fermo costituito da un anello scorrevole lungo le due branche, pinze per l’avulsione di denti o radici dentarie. Gli specilli comprendevano lo specillum asperatum, aguzzo, lo specillum cum nucleo, a estremità bottonuta o olivare, lo specillum tenue, sottilissimo, lo strigilis, o cucchiaino instillatore. Altri specilli o speculi erano designati a seconda dell’uso: specillum auricularium, per l’orecchio, speculum ani, per la rettoscopia, speculum matricis, per la colposcopia. Si aggiungano le sonde o fistulae, per drenaggi e paracentesi, e le spatole, spathae, spatulae, spathae ligneae, tavolette o assicelle per spalmare o raschiare. Gli aghi erano l’acus, ago da sutura, e l’acus acuta, ago da cataratta. La sega era la serrula, per osteotomia; il trapano era il terebrum, a punta conica, o il modiolus, a corona, a trivella; il cauterio era il cauter o ferramentum candente, il ferro che portato all’incandescenza era usato per cauterizzare le ferite e le piaghe. Poi c’erano gli hamuli, o uncini, il malleolus, o martello, la cucurbita, o ventosa, il clyster, o siringa per serviziali, la ferula, o stecca, il cyatischos, strumento che abbiamo visto menzionato da Celso e inventato da Diocle per estrarre i dardi a testa larga. [da Giorgio Cosmacini, La vita nelle mani. Storia della chirurgia, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 52.]

Galeno vuole una citazione anche per ciò che attiene allo specifico campo della medicina legale militare ante litteram. Appuntando il suo strale sulle simulazioni, scrive: «Per molte ragioni gli uomini [sotto le armi] fingono di essere ammalati». Fa menzione dei simulatori il cui «sputo sanguigno, proveniente dalle parti vicino alla bocca [gengive, lingua, palato], simula quello delle parti

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più basse». Avverte i medici delle milizie della opportunità di smascherare coloro che «fingono di delirare e di essere stolti, e [così facendo] cercano di rendere stolti gli altri»11. Notizie più circostanziate sui medici militum, «medici del soldati» e soldati essi stessi, risalgono ad Antonio Musa (I secolo d.C.), medico personale dell’imperatore Ottaviano Augusto (63 a.C.-14 d.C.) che, riconoscente per essere stato risanato da una sciatica, lo promosse da liberto ad archiatra affidandogli il compito di organizzare la sanità pubblica in campo sia civile che militare. In questo secondo campo Musa istituì i «medici legionari», i quali – al dire dello storico coevo Onasandro – «erano comandati a seguire le legioni nelle esercitazioni, nelle marcie e specialmente nelle spedizioni militari, durante le quali avevano soprattutto il compito di curare i feriti»12. Perciò erano detti medici vulnerarii. Non è che prima di Augusto non siano esistiti medici aggregati ai reparti militari, ma è certo che prima di lui e di Musa non esisteva un organico sanitario di ciascuna unità dell’esercito. Tanto più è acquisito dalla storiografia questo dato: prima dell’Impero non esistevano strutture stabili specificamente adibite all’assistenza e alla cura dei legionari. Diversamente dai Greci, per i quali l’ippocratica arte della cura fu esercitata essenzialmente in ambito individuale e privato (prescindendo dalla medicina ieratica esercitata dai sacerdoti di Asclepio nei templi della salute), i Romani concepirono e attuarono l’idea di sanità, cioè di una medicina igienica, preventiva, e di una medicina terapeutica, riparativa, esercitate ambedue in ambito pubblico. Appartengono infatti alla tradizione di Roma, nei settecento anni che vanno dalla prima Repubblica al tardo Impero, una serie di opere sanitarie comprendente il sistema delle fognature (Cloaca Massima, circa 500 a.C.), le strutture per approvvigionare d’acqua la città (acquedotto Appio Claudio, 312 a.C.), la rete di orinatoi urbani voluta dall’imperatore Vespasiano   Vedi Casarini, La medicina militare, cit., p. 100.   Ibid. Onasandro è l’autore di un trattato in 42 capitoli intitolato Strategikos, che delinea le qualità fisiche, morali, strategiche e tattiche di un buon comandante. Suo continuatore può considerarsi Eliano, attivo fra I e II secolo d.C., autore di un trattato intitolato Tèchne taktiké. Capostipite di questa letteratura polemologica è il peloponnesiaco Enea Tattico, vissuto nel IV secolo a.C. 11 12

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(9-79 a.C.), i grandi complessi termali degli imperatori Caracalla (186-217 d.C.) e Diocleziano (243-313 d.C.). Fra tali opere sanitarie pubbliche figurano i valetudinaria, verosimilmente nati in ambito civile prima che militare, ma tosto adattati alle milizie attestate ad limina, «ai confini» dell’Impero presidiati dalle legioni. Ciò spiega perché tali opere siano note come «ospedali delle legioni romane»13. Lo scrittore Lucio Giunio Moderato Columella, vissuto nel I secolo d.C., lascia supporre che tali ospedali siano sorti nei latifondi come luoghi di ricovero rustici, adibiti alla cura degli schiavi, spesso malati o infortunati per l’elevata incidenza di fatiche usuranti e di gravi rischi lavorativi. Successivamente, data la loro provata efficienza come luoghi curativi e di recupero (oggi diremmo di riabilitazione), essi avrebbero fatto da modello per luoghi simili destinati alle legioni. Lo stesso Columella, nel medesimo suo scritto (De re rustica, XII, 38 e XV, 1), afferma che «i valetudinari devono essere tenuti scrupolosamente puliti anche nei periodi in cui non ci sono degenti [militari]», cioè anche nei periodi di pace, quando nulla vieta che essi siano adibiti a usi civili: «se uno schiavo si ferisce, come spesso capita, sia subito medicato e se qualcuno si ammala sia subito ricoverato nel valetudinario con l’ordine che riceva tutte le cure necessarie»14. Il che sta a dimostrare la doppia valenza di tali strutture ospedaliere e il mutuo scambio tra funzioni civili e funzioni militari. I valetudinari delle legioni sono luoghi per curarvi i soldati feriti e per facilitare il reinserimento dei soldati guariti. Questi vengono riabilitati a combattere nelle file dei soldati validi; l’essere validus, saldo e forte, era lo scopo cui tendeva la valetudo, la salute riparata e recuperata. La fondazione e la primitiva organizzazione di tali luoghi sono attribuite anch’esse ad Antonio Musa, su ordine di Ottaviano Augusto, di concerto con la già citata creazione dei medici militari, necessari soprattutto nelle legioni ai confini. Dato il decorrere dei confini dell’Impero dal limes in Britannia (che sarà poi il «vallo Adriano») a quello in Dacia (che sarà poi il «vallo Traiano»), è lungo tale «limite» settentrionale, segnato 13   Maria Teresa Nizzoli Volonté, Gli ospedali delle legioni romane (I «valetudinari»), a cura dei Laboratori Guidotti, Pisa s.d. [ma 1993]. 14   Il passo di Columella è riportato ivi, p. 11.

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Fig. 1. (in alto) Castrum Novaesium (con il n. 1 è indicato il valetudinario incluso nell’accampamento di Neuss, Germania); (in basso) rappresentazione schematica del valetudinario suddetto (da Gli ospedali delle legioni romane, cit., tav. 8).

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nel continente dal Reno e dal Danubio, che sono reperibili alcuni castra vetera, cioè le vestigia di accampamenti presidiati dalle legioni deputate alla salvaguardia delle frontiere. In taluni di questi luoghi archeologici esistono strutture tipicamente ospedaliere. Dalle vestigia del Castrum Novaesium (a Neuss, in Germania, nelle vicinanze di Düsseldorf) si ha un’idea di come fossero le strutture ospedaliere incluse nell’accampamento. Si tratta di locali «ampi e funzionali» con «corsie per i degenti, stanze di isolamento, dispensari, sale operatorie, uffici, bagni, refettori e camere mortuarie». Sono luoghi che «consentivano l’ospedalizzazione di alcune centinaia di malati»15. «In ogni campo c’era un ospedale che si presentava come un grande edificio con un cortile all’interno e un corridoio periferico, talora con una sessantina di camere»16. Analoghe strutture sono reperibili o ipotizzabili negli insediamenti legionari disseminati lungo il limes dell’Alto e del Basso Reno, del Danubio superiore e inferiore, a Noviomagus (Nimega), Mogontiagum (Magonza), Bonna (Bonn), Vindonissa (Windisch) e in altre sedi. Ai reperti dell’archeologia si aggiungono le fonti scritte, trasmesse da Caio Giulio Igino e soprattutto da Flavio (o Publio) Renato Vegezio17. Il primo, nell’opera De munitionibus castrorum, descrive la disposizione di quattro coorti, due accampate a fianco del pretorio e due al davanti del trinceramento, e dice che super quibus valetudinaria [sunt], permettendo di individuare l’esatta ubicazione ospedaliera. Il secondo, nei quattro libri della sua Epithoma institutorum rei militaris, ancor meglio descrive la planimetria del castrum indicando con precisione il luogo dove l’institutum ospedaliero era ubicato. I medici che prestano servizio in questi ospedali sono immunes, cioè «esenti dalle armi» e «dalle fatiche dell’accampamento». Sono assegnati alla categoria dei principales come sottufficiali non combattenti, retribuiti con paga doppia (duplicarii) rispetto 15   Ars Medica. La medicina dell’antica Roma, catalogo della Mostra realizzata nell’ambito di Milanomedicina, Università degli Studi, Milano 1991, p. 21. 16   Garlan, Guerra e società, cit., p. 226. 17   Igino (o Pseudo-Igino) espone in dettaglio procedure di calcolo e tipi di fortificazione. Vegezio descrive struttura delle legioni e macchine dell’arte della guerra.

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Fig. 2. Ubicazione dei valetudinaria nei castra lungo il corso del Reno (da Gli ospedali delle legioni romane, cit., tav. 17).

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a quella dei soldati o almeno pari a una volta e mezza (sesquiplicarii) la paga medesima. Con i loro aiutanti (optiones) sono posti sotto il comando del praefectus castrensis sovrintendente ai servizi dell’intera guarnigione. La qualifica con cui il medico militare viene talora designato è quella di medicus qui in ordine meret, cioè di «medico che presta servizio nello schieramento». Questa definizione è riconducibile sia al medicus legionis itinerante, che presta la sua opera ai legionari nelle loro tende, sia al medicus clinicus stanziale, che esercita il suo mestiere nel valetudinario, dove il ferito o il malato è giacente nel letto (clino, in greco, significa «giaccio»). Di tali figure parlano numerose iscrizioni epigrafiche, evocanti «medici di accampamento» come Gordo e «medici di legione» come Celio Arriano, Tiberio Claudio Imno, Marco Besio Tertullo18. Ogni legione era talora costretta, per esigenze logistiche dettate da ragioni tattiche o strategiche, a differenziarsi in ali di manovra ciascuna delle quali aveva un proprio medico, medicus alarum, come Ulpio Sporo, addetto a due ali di soldati ausiliari: «si trattava di una specie di legione straniera che combatteva a fianco dei romani; è risaputo infatti che, quasi sempre, truppe di alleati o di ausiliari stranieri combattevano a fianco delle legioni. Ebbene, anch’esse disponevano di un medico militare romano»19. Un altro valetudinario, oltre a quelli summenzionati, è l’ospedale castrense di cui restano vestigia presso Xanten, in Westfalia, dove il fiume Lippe confluisce nel Reno, non lontano dalla Selva di Teutoburgo. Quando, «nell’anno 9 della nostra era, tre legioni romane accompagnate dai loro corpi ausiliari, agli ordini di Publio Quintilio Varo, venivano annientate nella Selva di Teutoburgo dai Germani di Arminio» si tramanda che «Augusto prese il lutto e, stando a Svetonio, per molti mesi andò soggetto ad accessi di collera durante i quali gridava ‘Varo, Varo, rendimi le mie legioni!’. È evidente che l’imperatore attribuiva all’esercito un posto importante dentro lo Stato»20. Lo attribuiva al punto che   Vedi Pinto, Storia della medicina, cit., pp. 225 e 227.   Giuseppe Penso, La medicina romana. L’arte di Esculapio nell’antica Roma, Ciba-Geigy edizioni, s.l. 1989, p. 123. 20   Yann Le Bohec, L’esercito romano. Le armi romane da Augusto alla fine del terzo secolo, Carocci, Roma 2008, p. 11. 18 19

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i legionari costituivano il maggior investimento imperiale, lungamente addestrati, bene pagati, strutturati come artigiani esercenti un mestiere – il mestiere dell’esercito – tanto importante da farli considerare preziosi, da non mandare mai allo sbaraglio, ma da impiegare piuttosto per spaventare il nemico con esibizione della loro potenza e così facendo dissuaderlo dal combattere, pena lo sterminio. Per questa cura dell’esercito, che giustifica la disperazione di Ottaviano Augusto per averne perduta la parte migliore, un posto importante era dall’imperatore attribuito anche alla sanità militare, preservatrice della salute delle legioni, ma che purtroppo non poté salvarne alcuna dallo sterminio teutonico.

III Da Diocleziano a Carlo Magno I medici delle legioni romane avevano dimestichezza con le morti in battaglia. Il loro rapporto era quello con uomini che il mestiere delle armi esponeva al rischio di un trapasso prematuro. La pietas imponeva agli addetti al servizio sanitario anche il culto dei morti, secondo ritualità improntate a un ortodosso paganesimo. L’adesione dei legionari e dei loro medici al cristianesimo era considerata una grave colpa. I due «augusti» imperatori della Tetrarchia, Diocleziano (243313 d.C.) e Massimiano (240-310 d.C.), adottarono una politica persecutoria contro i colpevoli. «Molti motivi spiegano queste persecuzioni: dal punto di vista teologico, non si poteva realizzare alcun sincretismo fra gli dèi dell’esercito, così necessari alla disciplina, e il Dio dei cristiani; questi ultimi, d’altra parte, non potevano celebrare riti idolatri; infine, una morale esigente faceva provare l’incompatibilità che esisteva fra il giuramento – sacramentum – prestato allo Stato e i ‘sacramenti’ [della fede cristiana], fra la milizia dell’imperatore e la milizia del Cristo; essa poteva persino interdire di versare il sangue, sicché alcuni storici hanno creduto di vedere degli ‘obiettori di coscienza’ e dei disertori; alcuni scrittori hanno persino accusato questo movimento [cristiano] di aver causato il crollo delle difese dell’Impero e permesso le invasioni germaniche»1. La tradizione medica si è adeguata, fissando un riferimento esemplare alla tesi della portata eversiva di quei medici che con il 1   Yann Le Bohec, L’esercito romano. Le armi romane da Augusto alla fine del terzo secolo, Carocci, Roma 2008, p. 334.

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loro zelo cristiano caddero in disgrazia. Cosma e Damiano, vissuti nella seconda metà del III secolo ed esercitanti la professione in Siria e in Cilicia (poi consacrati santi patroni dell’arte medica), non sopravvissero alle persecuzioni religiose dell’imperatore Diocleziano. Per quanto apprezzati per il loro talento professionale, pagarono con la vita il loro rifiuto ad abiurare. Per essi non ci fu alcuna clemenza; anzi, il prefetto romano incaricato di giudicarli, ne ordinò la tortura. Ma «né il bruciarli, né il lapidarli si dimostrarono efficaci. Alla fine vennero decapitati»2. Ciò sta pure a significare che il dolore, nella cultura romana dai tempi di Muzio Scevola a quelli di Diocleziano, era visto come una prova di forza umana. Lottare contro il dolore, rinunciando ad attenuarlo e anzi sopportandolo stoicamente, significava pati fortia, «sopportare da forti le avversità», il che romanum est, «era cosa da Romani»; ma anche da Cristiani, come Cosma e Damiano, disposti ad affrontare il martirio. Era una virtù, tanto più se militare. Affrontare, accettare, patire il dolore finanche a morirne, era una prova di forza fisica e morale che costituiva un valore quanto l’essere valoroso in battaglia. I medici delle legioni non dovevano avere, al riguardo, eccessive preoccupazioni circa le terapie antidolorifiche e le cure palliative. Semmai dovevano darsi da fare per ottenere nei malati e nei feriti la restitutio ad integrum, per ripristinare la loro integrità e recuperarli, tramite l’arte della guarigione, all’arte militare. Quale fu l’evoluzione o l’involuzione della medicina militare e della sanità degli eserciti per i «guerrieri di Roma antica, da Diocleziano alla caduta dell’Impero»? E, prima ancora, domandiamoci con Yann Le Bohec: «quali sono state le guerre combattute ai tempi di Diocleziano» e negli ulteriori due secoli?3 La domanda vuole qui una risposta non tanto sotto forma di un elenco delle campagne militari quanto piuttosto sotto forma di uno sguardo d’insieme alla situazione militare romana nei secoli IV e V. Era una situazione, alle frontiere, molto difficile. Le popolazioni germaniche, sia quelle occidentali (tra i fiumi Reno 2   Thomas Dormandy, The Worst of Evils, Yale University Press, New Haven-London 2006, p. 34. 3   Yann Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta dell’Impero, Carocci, Roma 2008, p. 32.

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ed Elba), sia quelle orientali (tra i fiumi Elba e Vistola), erano differenziate in grandi tribù gravitanti sui confini dell’Impero ed esercitanti una pressione prossima all’invadenza. Da ovest a est, Franchi, Burgundi, Alamanni, Vandali, Longobardi, Goti, pur non essendo popoli nomadi, avevano tuttavia una mobilità inquieta che consentiva grandi spostamenti nella prospettiva di compiere razzie e scorrerie con la preda di ricchi bottini. Questi «barbari» possedevano una loro organizzazione militare articolata in aristocrazie guerriere e clientele armate, propense più che mai alle incursioni dentro i confini imperiali. Per Diocleziano e per i suoi successori si pose il problema di un potenziamento dell’apparato difensivo e di una riorganizzazione dell’esercito in base alle nuove esigenze, con assoldamento massiccio di militari (leva in massa, anche di barbari mercenari) e con istituzione di ufficiali di carriera. L’esercito romano raggiunse il mezzo milione di uomini, distinti in limitanei, se schierati ai limiti dell’Impero, e in comitatenses, se arretrati rispetto alle prime linee, ma sempre pronti alle manovre e a entrare in azione. È ovvio che, nell’ambito di tale riorganizzazione dell’apparato bellico, anche la sanità militare venisse potenziata. Non però più di tanto. Era esperienza comune che le ferite e le lesioni di guerra, se gravi, sono fatali e conducono a morte; se sono invece di minore entità e suscettibili di guarigione, guariscono da sole. Vigeva la dottrina galenica della magna vis medicatrix naturae, della «gran forza risanatrice della natura», veicolante una verità clinica che non è mai venuta meno e che anche un medico d’oggi è in grado di constatare. La dottrina, se da un lato invitava ad astensioni terapeutiche preferibili agli arrischiati interventi («quel che è meglio fare è il non far nulla»), d’altro lato aveva in sé precise implicazioni etiche, obbligando certamente il medico a soccorrere e ad assistere il ferito, senza però vincolarlo al dovere di guarirlo. I medici delle legioni romane esercitavano il mestiere tra interventismo e astensionismo, tra libertà di guarire e licenza di lasciar morire. Nella seconda metà del IV secolo e nel secolo successivo, gli attacchi tribali ai confini dell’Impero vennero assumendo via via la caratteristica di vere e proprie invasioni barbariche. Nel 378, in Oriente, i Visigoti sconfissero e uccisero l’imperatore Valente ad Adrianopoli. Nel 410, in Occidente, gli stessi Vi-

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sigoti, sotto la guida di Alarico, occuparono e saccheggiarono Roma. Incalzavano anche i Vandali di Genserico e gli Unni di Attila. Quando la discesa di quest’ultimo, detto «il flagello di Dio», fu in qualche modo arrestata, la sua risalita nelle sedi danubiane non salvò l’Impero d’Occidente dalla definitiva caduta, che nell’anno 476 vide la deposizione dell’ultimo imperatore occidentale, il giovane Romolo Augustolo, da parte del «barbaro» Odoacre. La fine dell’Impero, attinente ad almeno i due terzi occidentali della sua vasta area geografica, concluse un tramonto annunciato, che la Tetrarchia di Diocleziano e il trasferimento della capitale nella più protetta Costantinopoli (poi Bisanzio) avevano cercato in qualche modo di ritardare. Invano: con l’inizio delle dominazioni barbariche il mondo romano d’occidente, nel suo crepuscolo tra cristianesimo e germanesimo, era ormai in dissolvenza. Nel VI secolo il tentativo di una renovatio imperii da parte di Giustiniano (482-565 d.C.) non ottenne l’esito sperato. Corollario funesto di tale tentativo fu la prostrazione dell’Italia intera, squassata in tutto il suo territorio, da Otranto a Ravenna, per gli scontri armati tra gli eserciti bizantini di Belisario e Narsete e gli eserciti ostrogoti di Vitige e Totila. Tali scontri a tutto campo composero nel loro insieme la «guerra gotica», narrata da Procopio di Cesarea (fine V secolo-562 d.C.), segretario di Belisario, nei Discorsi delle guerre, in otto libri, dedicati anche alla «guerra persica» combattuta dall’Impero romano d’Oriente contro i nemici storici, i Persiani. A proposito di guerre persiane, uno storico vissuto due secoli prima di Procopio, Ammiano Marcellino, nel XIX dei suoi trentuno Rerum gestarum libri scrive dell’assedio alla città di Amida, nell’anno 359 d.C.: La città fu espugnata bensì da’ Persiani, ma con grande [loro] jattura, avendo perduto, ne’ 73 giorni dell’assedio, 30 mila combattenti. I quali furono poi annoverati da Desceno tribuno e cancelliere, e li numerò facilmente, per la differenza ch’era tra loro ed i nostri: perché i nostri in termini di tre giorni si corrompono e guastano, di sorte che non si conoscono essendo stati uomini; ma i Persiani, essendo morti, si seccano a guisa di legni, di modo che i membri non cascano, né per la

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marcia s’inumidiscono; il che è cagionato dalla vita parca, e dal paese dove nascono incotto dal sole4.

La testimonianza la dice lunga sull’ideologia concepita dai Romani a riguardo dei «diversi» da loro, barbari d’oriente o d’occidente che fossero; e lascia intendere come lungo fu anche il processo di integrazione reciproca. Non meno lungo fu il processo di assimilazione antropologico-sociale in una «tetra età» – the dark Age di alcuni storici medievisti – in cui la guerra divenne un evento sempre più presente, assillante, incombente, quasi connaturato alla vita quotidiana, associata o dissociata, delle genti popolanti le terre a settentrione del Mare Mediterraneo. La guerra divenne un evento per così dire fisiopatologico, contemplato e invano esorcizzato dalla preghiera dell’uomo medievale: a fame, peste et bello libera nos, Domine, «o Signore, liberaci dalla fame, dalla peste e dalla guerra». Anche se nominata per ultima, la guerra era la causatio magna del dissesto delle colture agricole che portava alla fame ed era la causa prima della pessima igiene e dei contagi portatori di peste. Scrive Procopio di Cesarea che la peste, poi detta «di Giustiniano», «in cinque anni percorreva tutto il mondo, od almeno assaissima parte, portando ovunque lo sterminio [...], cominciando dalla primavera del 543 in Costantinopoli, uccidendovi perfino da 5.000 a 10.000 uomini al giorno». Lo storico aggiunge che «a questo castigo di Dio niun divario ponevano il sesso e l’età»5. Procopio, nel riportare memoria di ferite toccate ai corazzieri di Belisario, dà evidenza alla efficacia e alla pericolosità degli arcieri goti e alla inadeguata protezione, dalle loro frecce, dei cavalieri bizantini. Cita l’abilità di chirurghi come il medico Teocnisto nel trattare una ferita da freccia tra naso e occhio destro toccata a uno scudiero. È un’abilità peraltro vanificata, in molti altri casi, da sopraggiunta infezione: «i chirurghi, per quanto abili, si mostrano 4   Il passo di Ammiano Marcellino è riportato con le parole di Alfonso Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, pubblicati a intervalli di tempo tra il 1865 e il 1892 nelle «Memorie della Società Medico-Chirurgica di Bologna» e ristampati da Forni, Bologna 1972 (d’ora in poi Annali). Vedi ivi, vol. I, p. 47. 5   Annali, p. 54.

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impotenti davanti al sopravvenire di complicazioni»; dal che si evince che «l’esercito bizantino operante in Italia nel VI secolo era seguito da abili medici in grado di prendersi cura dei feriti, anche se non sempre guaribili»6. Speculare allo sterminio della «peste di Giustiniano» era il massacro della «guerra gotica», non mandata da Dio, ma da Lui permessa a completamento del castigo. Già si è vista, in Omero, la narrazione di orribili stragi. Tuttavia massacro è parola medievale, nata in Francia nel XII secolo (come, nello stesso luogo e nello stesso tempo, la parola coratge, «coraggio»). Ma i suoi equivalenti o sinonimi – strage, macello, eccidio, crudeli e grandissime uccisioni – sono presenti anche prima, pur se nell’antichità classica «l’istigazione al massacro non fa parte dell’ideologia bellica, che celebra in tutte le epoche, come ideale da ricercare, la gloria, individuale o collettiva, che si ottiene nella vittoria, cioè mostrandosi superiore nell’ágon, combattimento. [...] Lo svolgimento della guerra deriva dunque, prima di tutto, dallo spirito agonistico profondamente radicato nella mentalità delle istituzioni greche. Ed è falso credere che presso i Greci si esprima, nella battaglia, l’‘etica di una lotta a morte’»7. Come già nella Grecia classica, anche nell’Impero romano i massacri bellici rappresentano non la norma, ma l’eccezione. In genere «i prigionieri fanno parte del bottino che si spartiscono i soldati, e sono destinati alla schiavitù. È dunque più vantaggioso risparmiarli allo scopo di rivenderli ai mercanti di schiavi e trarne un buon profitto». Fanno eccezione rari episodi con tutt’altre motivazioni, come per esempio il massacro degli abitanti di Alessandria perpetrato nel 215 d.C., nel corso della guerra in Oriente, dall’imperatore Caracalla (186-217 d.C.), che due anni dopo fu punito di morte cruenta per mano delle guardie della sua scorta. Il trentenne imperatore, accreditato dagli storici di crudeltà e di follia, adirato perché gli Alessandrini si erano burlati di lui con allusioni alla sua bassa statura e alla sua velleità di imitare Achille 6   Aldo A. Settia, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 20094, pp. 277 e 283. 7   Bernard Eck, Saggio per una classificazione dei massacri nella Grecia classica, nel volume collettaneo Il massacro nella storia, a cura di David El Kenz, UTET, Torino 2008, pp. 19-20.

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e Alessandro Magno, ordinò un massacro in due tempi, che dapprima comportò «la scomparsa di tutti gli uomini nel pieno vigore dell’età» e successivamente si estese a tutta intera la popolazione maschile, dai bambini ai vecchi. «Caracalla non osò confessare il numero delle vittime al Senato, ma scrisse che non aveva importanza perché tutti meritavano la morte»8. Anche se nella selva di Teutoburgo le legioni romane non erano sfuggite a un massacro barbarico, gli stessi barbari ricorrono al massacro in modo non sistematico, ma episodico. Non mancano infatti episodi come quello di «Alboino Re de’ Longobardi [che] abbandona la Pannonia sua patria e con tutto l’esercito, le donne e ogni popolo suo, come una belva occupò l’Italia; e qui alcuni per malattia, altri per fame e non pochi per guerra furono uccisi»9. Furono uccisi barbaramente, massacrati. È l’anno 568. Un’orda di armati «dalle lunghe barbe», migrata in epoca remota dai paesi nordici a quello danubiano, valica la cerchia alpina attraverso le Alpi Giulie e si abbatte sull’Italia dilagando dal Friuli a Milano e a Pavia, fatta capitale di un grande regno. Autari (morto nel 590) fronteggia validamente i Franchi a nord e i Bizantini a sud ed estende ancor più i domini territoriali; la sua vedova, la cattolica Teodolinda (morta nel 625) figlia del duca dei Bavari Garibaldo, va sposa in seconde nozze ad Agilulfo (morto nel 616) che fa pace con il papa Gregorio I Magno (535-604) tollerando l’aprirsi delle sue genti al cattolicesimo. Dopo di lui Rotari (606-652) promulga nel 643 la lex barbarorum, codice giuridico che reca il suo nome, più tardi riformato e ampliato, da parte di Liutprando (morto nel 744) il «gran re», nell’edictum regum langobardorum, sintesi tra consuetudini gotiche e diritto romano. In due secoli di storia si passa dai massacri di Alboino (morto nel 572) all’incivilimento italico di cui gli stessi guerrieri barbari sono diventati promotori. Di questo incivilimento è parte inte8   Agnès Bérenger-Badel, Caracalla e il massacro degli Alessandrini, in Il massacro nella storia, cit., pp. 50 e 57-58. L’autrice riporta le testimonianze degli storici Dione Cassio (165-235 d.C.) ed Erodiano (175-245 d.C.) e con essi quelle dell’anonimo autore della «Vita di Caracalla» inserita tra le biografie imperiali raccolte nella Storia Augusta. 9   Annali, p. 60. Il Corradi ha tra le sue fonti primarie la Historia Langobardorum di Paolo Diacono (720-799 d.C.) e la Historia Francorum di Gregorio di Tours (538-594 d.C.).

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grante la medicina? L’anno 590 è quello che riporta in Italia la «peste inguinaria» (bubbonica, localizzata alle linfoghiandole tra cui quelle inguinali). «Nel medesimo anno l’esercito che Childeberto II, re [merovingio] d’Austrasia, aveva condotto in Italia per abbattere la potenza de’ Longobardi [...], travagliato dalla fame ed il nemico riparatosi in luoghi munitissimi, dovette rivalicare le Alpi». Non per la guerra, ma per la peste, «la strage del popolo era grandissima: in breve tempo morivasi [...]. Questa specie di morte repentina [...] fece credere che allora cominciasse l’usanza d’augurare salute a chi starnutava, perché starnutando la peste basivasi»10. La credenza longobarda che la peste venga meno con lo starnuto, propellente con violenza fuori dal corpo il mortifero soffio pestilenziale, fa dire ancor oggi preventivamente «salute» a chi starnutisce e simmetricamente faceva dire «salve» a chi aveva bisogno di sentirsi assicurata, almeno a parole, la salvezza in battaglia. Dai Goti di Alarico e Odoacre ai Longobardi di Alboino e Liut­prando (fino ai «lanzichenecchi» dell’imperatore Carlo V, come si vedrà), i guerrieri transalpini, pur se divenuti cisalpini, saranno spesso definiti «soldati tedeschi». In una delle prime rassegne storiche sull’arte della chirurgia, inclusa nella Chirurgia Magna scritta dal chirurgo provenzale Guy de Chauliac (1300-1370), è detto che un’arte curativa d’antica data era quella praticata dalla «setta dei soldati tedeschi», i quali «con scongiuri e pozioni e olii e lana e foglie di cavolo curano tutte le ferite»11. Scongiuri e incantesimi a parte, adeguati a ottenere l’effetto placebo di quei tempi, le «pozioni» sono gli infusi e i decotti più svariati preparati dalle «donne delle erbe». Gli «olii», di sostanza grassa oppure volatile (e in tal caso detti «essenziali»), sono somministrati anch’essi per bocca oppure incorporati in unguenti da spalmare impomatando, frizionando, massaggiando. La «lana» è il caldo e soffice vello pecorino che propizia calefazione, sudorazione e spurgo, attraverso il sudore, degli umori peccanti. Le «foglie di cavolo» sono emblematiche dei prodotti «semplici» dell’orto usati a scopo medicamentoso: il «cavolo dolce» è la bras  Annali, pp. 63-64.   La citazione è riportata da Jole Agrimi, Chiara Crisciani, Malato, malattia e medicina nel Medioevo, Loescher, Torino 1980, p. 170. 10 11

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sica lenis di romani ed etruschi, che rivitalizza le ferite cronicizzate in piaghe (allo stesso modo che «nascere sotto il cavolo» significa certificare la vitalità del neonato). È assodato che la medicina dei soldati teutones è, per certi aspetti, non molto dissimile da quella già consolidatasi nei ranghi delle milizie romane. In tal senso si puo dire che, in medicina, la romanità «l’ebbe vinta sul belluino vincitore»: ferum victorem cepit. Più in generale, «la medicina dei Longobardi» è «una medicina ancestrale, autoctona» che impatta con «la medicina dotta di Bisanzio»12. Assimilando molte cose da questa, non pochi sono peraltro i suoi apporti originali: grasso suino per pomate, foglie di quercia e cavolo per medicazioni, piante medicinali nuove, adeguatamente manipolate, per bibite, linimenti e impacchi. L’originalità le viene riconosciuta dagli stessi medici bizantini. «Nei tempi nostri», scrive uno di essi, Paolo d’Egina (625-690), «incrudelisce una febbre colica curata da un certo medico italiano», longobardo, «con acqua pura ghiacciata». La cura è nient’altro che un trattamento antifebbrile con ripetuti bagni in acqua fredda, coerenti con il cosiddetto «metodo perfrigerante»13. Nella Historia Langobardorum, dal libro IV in poi, Paolo Diacono (720-799) rievoca le gesta da Agilulfo a Liutprando, nel periodo del massimo splendore della civiltà longobarda. Tra le cose non splendenti lo storico scrive di pesti e di lebbra, di medici e chirurghi, di balsami ed empiastri, di veleni e contravveleni, di braghieri e cinti erniari, di amputazioni e flebotomie. Cita l’uso delle foglie, questa volta di achillea, «ridotte in poltiglia per la risoluzione di piaghe e ferite»14. Si tratta di eventi, di praticanti e di pratiche che hanno attinenza alla guerra o a situazioni che con la guerra si intrecciano. Nell’opera di Paolo Diacono non manca una menzione inconsapevolmente allegorica del nesso tra flagelli e rimedi, centrata sull’«aceto dei Quattro Ladroni», versione popolare di un «an12   Vedi l’Introduzione di Giorgio Cosmacini al libro di Franco Fornasaro, La Medicina dei Longobardi, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2008, p. 13. 13   Il passo di Paolo d’Egina è riportato da Salvatore De Renzi, Storia della medicina in Italia, Tip. del Filiatre-Sebezio, Napoli 1845, ristampa Forni, Bologna 1966, tomo II, p. 22. 14   Fornasaro, La Medicina dei Longobardi, cit., p. 49.

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tidoto universale» contro la fame, la peste, la guerra e la morte, i «Quattro Cavalieri dell’Apocalisse» che derubano della salute e della vita, galoppando in Italia, tutta quanta la popolazione. Peraltro, all’infuori delle norme antilebbrose contenute nell’editto di Rotari, Paolo Diacono nulla dice circa una eventuale disciplina sanitaria vigente nel Regno longobardo e atta a contrastare o contenere il galoppo dei Quattro Cavalieri. Le guerre ricorrenti, con i loro mali satelliti, non tengono a battesimo, in questa età, una sanità civile o militare organizzata, ben lungi dal nascere. Come luoghi di ricovero indifferenziato esistono gli xenodochi, «case per ospitare stranieri», cioè ospizi per quegli estranei, diversi dai sani, che sono i malati, i piagati, i feriti. Un esempio: sul mons Langobardorum (il monte Bardone sulla via francigena, non lontano dall’attuale passo della Cisa) esisteva un ospizio, assumibile a modello di altri ricoveri coevi, che accoglieva e dava assistenza ai viandanti in difficoltà. A partire dall’anno Mille, tali ospizi rinunciano al nome greco originario per assumere quello neolatino di hospitalia. Sono luoghi ospedalieri per gente itinerante, tra cui non pochi sono i soldati feriti e sbandati. La Historia di Paolo Diacono si interrompe al libro VI. «Alcuni storici hanno supposto che l’interruzione dell’opera sia dovuta al precipitare del dramma longobardo con la sconfitta di Desiderio»15. Nel 773 Carlo Magno (742-814), alla testa dei Franchi, dalle pedemontane Chiuse di Susa irrompe in Italia serrando con manovra a tenaglia e vincendo la resistenza longobarda, e assediando successivamente Pavia. Dopo dieci mesi d’assedio il re Desiderio si arrende all’ex genero (che ha ripudiato Ermengarda) ed è portato prigioniero in Francia (dove muore nel 774). Adelchi, il figlio fuggiasco animatore di un’ultima resistenza, è prima assediato in Verona e poi costretto a fuggire di nuovo e a cercare rifugio presso l’imperatore romano d’Oriente. A ben vedere, l’età longobarda va oltre Desiderio e oltre Carlo Magno. Ne è una prova il fatto che nell’anno 847 la hippocratica civitas di Salerno è capitale di un principato longobardo indipendente, che tale rimane fin oltre l’anno Mille, quando la città è sede della prima schola medica sorta in Europa, la Scuola medica   Ivi, p. 36.

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salernitana. Il principato, che è sopravvissuto ai Franchi, cede ai Normanni. Il duca normanno Roberto d’Altavilla (1015-1085), detto il Guiscardo, cioè «l’Astuto», vi si insedia nel 1076. Un altro dominio longobardo resistente oltre la fine del regno di Desiderio e di Adelchi è il ducato di Spoleto. Anche questo territorio di tradizione longobarda dà ricetto a un’attività sanitaria di lunga durata, un’attività sui generis: la «norcineria». «Norcini», cosiddetti perché originari dall’umbra Val di Norcia, erano i «sana-porci» e «castra-tori» rispettivamente dei maiali destinati all’ingrasso e dei bovini destinati all’aratura. Erano, insomma, quei macellatori di carne suina che, per manuale esperienza, diventavano «mezzochirurghi» o chirurghi tutt’interi, capaci di espletare la «chirurgia ferramentaria» sui portatori di ernie o pietre in vescica (calcoli urinari), cioè su uomini affetti da «mali nelle parti di sotto», ma che potevano esserlo pure «nelle parti di sopra» o dappertutto, come appunto i feriti. Questi apporti indiretti alla medicina e alla sanità da parte della civiltà longobarda inducono a ritenere quest’ultima meno «cruda» di quanto non sia stata considerata dalla storiografia prevalente; e inducono anche a condividere, almeno parzialmente, il senso della «battuta» di Max Weber che, con visione continui­ sta tra civiltà imperiali – romana e carolingia –, disse che Carlo Magno, nuovo rex Langobardorum, «fu il tardo esecutore di Diocleziano»16.   La «battuta» di Max Weber è riportata da Alessandro Barbero, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 123. 16

IV L’impero carolingio Il regno dei Franchi, al confronto con l’organizzazione politico-militare di altri popoli contigui e coevi – Sassoni, Avari, Longobardi –, si presenta dotato di una macchina da guerra organizzata politicamente e militarmente in modo più avanzato. Essa è infatti strutturata in gruppi di guerrieri stretti ai loro capi supremi da un rapporto di fedeltà e di servizio costituente il cosiddetto vassallaggio: il «vassallo» è tenuto a prestare servizio militare in cambio di un «beneficio» – feudo in lingua franca – sanzionato da un patto chiamato «investitura». Si tratta di un rapporto molto più saldo di quello che legava i longobardi «arimanni» – da Heer, esercito, e Mann, uomo – ai loro capi. È un rapporto che permette la raccolta dei membri delle grandi famiglie in nuclei armati che formano nel loro insieme il vasto seguito, ligio all’obbedienza, di condottieri altrettanto ligi all’ossequio nei confronti del sovrano. Sono uomini disciplinati, capeggiati da una gerarchia tanto obbediente al re, quanto decisa nei comandi da trasmettere e far eseguire. Il risultato è un esercito forte e agguerrito, ultrapotente in battaglia. La supremazia militare dell’esercito franco trae origine da una duplice condizione: l’una, sociale, è l’alta posizione dei caballarii, l’aristocrazia dei «cavalieri», dove il cavallo è insieme strumento di forza e – oggi diremmo – status symbol; l’altra, bellica, è l’armamento corazzato, il cui pezzo forte è la «corazza» detta brunia, un giaccone di cuoio ricoperto da scaglie metalliche che protegge il cavaliere, unitamente all’elmetto, rendendolo (quasi) invulnerabile. Si dirà che l’antichità aveva immaginato il Centauro; l’Alto Medioevo ne fece il padrone d’Europa.

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L’equipaggiamento completo dei cavalieri, oltre all’elmetto e alla brunia (quest’ultima erede perfezionata della «lorica» romana), dispone di lancia e scudo, di spada lunga e corta, mentre quello dei fanti, perlopiù contadini reclutati in base a una occhiuta e oculata selezione (per non impoverire la manodopera produttiva nelle campagne), è costituito dall’arco con faretra e con frecce, senza più scure né asta. È la dimostrazione che «la cavalleria, armata di lancia e spada, protetta da ‘brunia’ ed elmetto, aveva acquistato un’importanza preponderante rispetto alla moltitudine dei combattenti appiedati»1. La rivoluzione della cavalleria (che peraltro ancora non comporta l’uso delle staffe) «non dipende da un singolo, rivoluzionario progresso tecnologico». Anche i romani e, sul fronte opposto, i barbari avevano, nei rispettivi eserciti, le loro cavalcature e i loro uomini a cavallo. Ma la rivoluzione in età carolingia «riflette piuttosto le nuove disponibilità di una società che non aveva mai ignorato l’uso del cavallo in guerra, ma in passato aveva incontrato dei limiti oggettivi alla sua diffusione»2. Questi limiti erano, per esempio, la minor disponibilità di cavalli e il loro maggior costo, sia per l’acquisto che per il mantenimento. Per converso, la maggior disponibilità sul mercato e la contrazione dei costi sono elementi che introducono una stagione nuova e, per quanto attiene al campo sanitario, da un lato una ben delineata «traumatologia del combattente a cavallo»3 e d’altro lato la più elavata incidenza di malattie trasmissibili dal cavallo all’uomo. Narra Eginardo (770-840), il cronista franco autore della Vita Karoli, che «nel 791 fu tale morìa di cavalli nell’esercito condotto da Carlo Magno in Pannonia contro gli Unni [leggi Avari] che dicesi rimanesse appena la decima parte di tante migliaia di cavalli»4. Alla morìa dei cavalli, nel sottolineare l’importanza delle sopraggiunte epizoozie nel rapporto fra vicende militari e condizioni sanitarie, si aggiunge la «peste ne’ buoi»: «nella spedizione fatta nel 810 1   Alessandro Barbero, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Laterza, RomaBari 2000, p. 281. 2   Ivi, p. 282. 3   Aldo A. Settia, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 20094, p. 273. 4   Annali, p. 71.

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in Sassonia tanto fu la moria de’ bovi che nell’esercito di Carlo Magno neppur uno ne rimase. [...] Ma quell’epizoozia è pur tristemente ricordevole: fu creduto che i bovi morirono avvelenati dalla polvere che alcuni scellerati spargevano ne’ pascoli e mettevan dentro le acque; quindi la plebe inviperita fece de’ sospettati colpevoli la solita sua giustizia. E poiché allora Grimoaldo, duca di Benevento, era in contesa con Carlo, immaginossi ch’egli avesse di que’ veleni l’officina e uomini mandasse per ogni dove con la polvere micidiale»5. A prescindere dalla peste bovina – e dalla presunta arma «chimica» ante litteram per la guerra «biologica» –, la «peste equina» e la cavalleria assurgono a particolare importanza in un’epoca in cui l’una si diffonde in conseguenza della rilevanza politico-sociale e militare assunta dall’altra. La «peste dei cavalli» è la morva, malattia epidemico-contagiosa (dovuta al bacillus mallei) che colpisce gli equini, ma che da questi, serbatoi dell’infezione per lungo tempo, si trasmette agli umani accentuando e addirittura massimizzando (per «salto interspecifico», come oggi sappiamo) la propria virulenza e pericolosità. Nota fin dai tempi antichi – Aristotele ne fa cenno – la morva è favorita dal contatto tra animali e cavalieri, palafrenieri, maniscalchi, stallieri, mercanti di cavalli. La malattia si trasmette attraverso il «moccio» equino e le ferite anche minime della pelle. È un morbo endemico o epidemico degli accampamenti. È una ricaduta in campo patologico ed epidemiologico della cavalleria rivoluzionaria, divenuta nell’Alto Medioevo una istituzione equestre e una classe sociale eminente nella tripartita società feudale dei laboratores, «contadini» proprietari, oratores, «chierici e monaci», bellatores, «cavalieri» preparati alla guerra. Anche la guerra è una endemia o epidemia che alligna «in mezzo al popolo» – èn démo – o che «sul popolo» incombe – epì démon. Le guerre che Carlo Magno, prima, durante e dopo l’insediamento dei Franchi in Italia, combatte in Germania e in Pannonia contro i Sassoni e gli Avari comprendono tutta una serie di devastazioni e di stragi che hanno più il carattere delle epidemie anche perché, contrastate da ribellioni violente rese ancor più aspre dalla resistenza dei popoli germanici e slavi ai tentativi di   Ivi, p. 72.

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cristianizzazione forzata messi in atto da Carlo, assumono sovente l’aspetto di un vero massacro, condotto con «le atrocità d’una guerra di religione»6. L’episodio più clamoroso è quello che si riferisce al principe sassone Vitichindo, indomito ribelle. «Carlo rispose col gesto che rappresenta tuttora la macchia più grave sulla sua reputazione: intervenuto con un nuovo esercito, costrinse i ribelli alla capitolazione e ottenne che consegnassero le armi [...]; poi quando li ebbe in suo potere, ne fece decapitare in un sol giorno quattromilacinquecento»7. Le sfide delle controparti armate non sono da meno. Per esempio la tattica degli Avari e l’abilità di manovra della loro cavalleria sono insuperabili «nel simulare la fuga per poi cogliere di sorpresa l’avversario con l’intervento d’una riserva nascosta; per non parlare dell’effetto psicologico delle grida di guerra, simili all’ululato d’un branco di lupi»8 . Ma le stesse guerre hanno anche un altro modo d’essere, che – continuando nel parallelo tra polemologia ed epidemiologia – presenta piuttosto il carattere dell’endemia, cioè non l’aspetto di battaglie campali spietate, paragonabili ad acute pestilenze diffuse, ma l’aspetto di prolungati assedi di fortezze e piazze forti, paragonabili a subacute malattie circoscritte. Guerra, dunque, come massacro, epidemico, e guerra come assedio, endemico (pur se suscettibile di dilagare in massacro). Non diversamente da una malattia, epidemica o endemica, la guerra sottrae salus, salute e salvezza, e provoca vulnera et mors, traumi, lesioni e morte. La morte, se sopraggiunge nel massacro sul campo, è violenta e subitanea, atroce e precoce; oppure, se conseguente a ferite suppuranti e ad avvelenamento del sangue (setticemia) o se dovuta a una fame troppo a lungo patita durante un assedio, è lenta e protratta, annunciata da tempo. I due modelli avranno, come si vedrà, una lunga durata. Va anche detto della distinzione che veniva fatta tra bellum hostile, tra cristiani, e bellum romanum, contro barbari e infedeli. «Nei confronti degli Arabi di Spagna, Carlo Magno – Qârlo   Barbero, Carlo Magno, cit., p. 48.   Ivi, p. 50. 8   Ivi, p. 73. 6 7

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secondo i cronisti musulmani – mantenne per gran parte del suo regno un atteggiamento prevalentemente difensivo». Tuttavia, «nella primavera del 778, le lotte intestine che indebolivano la dominazione musulmana in Spagna parvero offrire l’occasione d’oro per un intervento offensivo» atto a scuotere dalla penisola iberica il «giogo crudelissimo dei Saraceni». All’annuncio dell’impresa, «il papa [Adriano I] rispose con l’augurio che un angelo mandato da Dio precedesse l’esercito franco nella campagna contro gli infedeli e gli permettesse di ritornare in patria vittorioso». Pur senza precorrimenti antistorici, si può dire che «le tecniche della propaganda e la manipolazione delle informazioni erano già allora l’ingrediente essenziale d’una politica imperialista»9. In Aragona, la città di Saragozza è il baluardo dei Saraceni, posto dai Franchi sotto assedio. Ma il prolungarsi di quest’ultimo e le cattive notizie provenienti dall’Europa centro-orientale, dove i «cavalieri delle steppe» sono in rivolta, induce l’esercito franco alla ritirata. Nelle gole pirenaiche, il 15 agosto 778, esso subisce il massacro di Roncisvalle da parte delle tribù protoceltiche (basche) della montagna, poi scambiate, dall’ideologia cristianizzante, nei Saraceni infedeli. Ciò fa di Carlo il campione della cristianità, come tale unto da papa Leone III, nella basilica di San Pietro in Roma, la notte di Natale dell’anno 800: «A Carlo, il piissimo Augusto incoronato da Dio, al grande imperatore apportatore di pace, vita e vittoria!». Queste le parole papali tramandateci dal Liber pontificalis. Dodici anni dopo, Carlo Magno vede riconosciuta la propria dignità imperiale anche da Bisanzio, dove il nuovo imperatore romano d’Oriente Michele I, da poco salito al trono, lo chiama «fratello» e lo gratifica dei titoli di basilèus e imperator. D’altro lato l’eccidio dei «paladini» a Roncisvalle consegna alla posterità l’epopea della Chanson de Roland. In essa, che risale circa all’anno 1066, si narra di terribili fendenti che spaccano la scatola cranica, di colpi altrettanto tremendi che troncano gambe e braccia, di cavalieri che gravemente feriti si rimettono in sella e tornano al combattimento. Sotto questo aspetto l’epopea carolingia ricalca l’epos dell’omerica Iliade. «L’epica trabocca di belle e spettacolari uccisioni [...], né mancano i massacri collettivi in cui il sangue   Ivi, pp. 62-63.

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Fig. 3. Un mire applica un topico a un infermo coronato (da Casarini, La medicina militare, cit., p. 146).

scorre a fiumi: ‘Il conte Orlando lungo tutto il campo cavalca, tiene Durendal che bene tronca e taglia. Dei Saraceni compie un immenso massacro’». Il cavaliere medievale «deve accettare non soltanto l’idea di morire, ma anche quella di uccidere»; ma «non era tutto poiché occorreva anche contemplare la possibilità, tutt’altro che remota, di dover soffrire a causa di ferite non letali e di uscirne con mutilazioni che portavano all’invalidità permanente»10. Nella stessa Chanson si racconta del paladino protagonista che «pratica una medicatura compressiva e contentiva» a un compagno ferito che perde sangue e si narra di un altro compagno che   Settia, Rapine, assedi, battaglie, cit., pp. 272-273.

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Fig. 4. Un cavaliere attende d’essere trasportato da una lettiga su cavalli (da Casarini, La medicina militare, cit., p. 147).

accorre presso Riccardo «e gli lava la ferita con vino bianco e lo medica con un unguento, e poi, aprendogli a viva forza la bocca in preda a trisma con una lama di coltello, gli fa inghiottire qualche sorso di liquore [cordiale] che lo rianima»11. «Si fa menzione altresì di veri e propri sanitari, che allora erano distinti col nome di mires»12. Al riguardo di costoro, ancora ci si interroga: «medico? chirurgo? come l’uno e l’altro, essi erano apparsi verso la fine del XII secolo» per «scomparire poi gradualmente nel 11   Arturo Casarini, La medicina militare nella leggenda e nella storia, collana medico-militare edita dal Ministero della Guerra - Direzione generale di Sanità Militare, vol. XX, Roma 1929, p. 147. 12   Ibid.

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XV»13. In un disegno di Lancelot du Lac conservato a Parigi, presso la Biblioteca Nazionale, è raffigurato un mire che applica un medicamento topico al ginocchio denudato di un infermo coronato. Un altro disegno raffigura un cavaliere accosciato accanto a una lettiga someggiata a dorso d’una pariglia di cavalli. Un altro ancora mostra un cavaliere con un ferro infisso nei precordi, trasportato in un infirmarium conventuale e consegnato al monaco portarius. L’età della cosiddetta «rinascenza carolingia» d’Europa è anche quella – come in parte si è anticipato – dei nuovi hospitalia sia pauperum che peregrinorum. La distinzione non è tanto di categoria, tra malati poveri e pellegrini in difficoltà, quanto di casta e di censo, tra basso- e alto-locati, tra indigenti e abbienti, cioè – per ciò che qui interessa – tra i contadini arruolati come fanti e i vassalli inquadrati nel rango cavalleresco. Il capitolare carolingio dell’anno 793 fa rientrare tra i doveri del sovrano anche l’officium hospitalitatis, secondo cui ogni «ospite» dev’essere accolto «con gioia», libente animo, «con allegria», cum hilaritate, e «con liberalità», cum largitate. Però, all’atto pratico, il portarius o «monaco portinaio», sulla soglia dell’infermeria, si sdoppia nelle due figure dell’hospitalarius, «custode degli ospiti» da trattare in modo personalizzato, e dell’elemosynarius, «elemosiniere dei poveri» uniformati nel trattamento. L’«infermeria» del convento abbaziale o prossima alla cattedrale urbana, luoghi di ricovero anche di fanti e di cavalieri, è modellata sull’«armeria» dell’accampamento militare. Claustrum sine armario est quasi castrum sine armamentario: «un chiostro senza armadio [leggi il locale per i medicinali o protofarmacia] è come un accampamento senza armamentario [leggi il deposito delle varie armi]». La guerra, come si vede, impronta di sé la medicina anche nelle similitudini allegoriche. Impronta di sé la realtà sanitaria del tempo, non meno delle pestilenze e della fame con le quali si embrica. Nell’anno 857, al centro dell’Europa, «una gran plaga di vescicole tumefatte affligge quei popoli e li consuma di una tal detestabile putredine che le membra incancrenite si staccano ancor prima della morte»14. Si   Pierre Duhamel, Histoire des médecins français, Plon, Paris 1993, p. 122.   Vedi Annali, p. 75.

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Fig. 5. Un cavaliere ferito al petto è consegnato al monaco portinaio del convento abbaziale (da Casarini, La medicina militare, cit., p. 151).

pensa a una ostilità dell’habitat, alla malignità del suolo, a esalazioni infernali emanate dal sottosuolo e ammorbanti l’aria. Il paradigma interpretativo «aerista», incriminante la «mal’aria» come causa primaria di epidemie, è ancora predominante. La popolazione superstite, fiaccata dal male, va incontro a migrazioni massicce più o meno coatte. Anche questo sradicamento e questa «piaga» diffusa contribuiscono a smorzare la bellicosità di quei popoli.

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Il morbo epidemico è l’ignis sacer, «fuoco sacro» esecrando che accende di febbre i colpiti costringendoli a buttarsi in acqua nel tentativo di contrastare l’arsura. Detto anche «mal degli ardenti», è – con il senno di poi – l’ergotismo, intossicazione da segale cornuta (contenente ergotina e altri alcaloidi vasocostrittori tossici), la quale è la tossicosa zizzania che parassita la segale. A essa sono esposti i consumatori di questo cereale, importato nel Medioevo in Europa, ma non in Italia, dove la cerealicoltura fornisce, quali grani di maggior consumo, l’orzo e il frumento. Il «fuoco sacro», che appare come una nuova lebbra perché fa cadere a pezzi le dita delle mani e dei piedi (per necrosi da vasocostrizione protratta), ancora negli anni 922 e 923 «orrendamente incrudelisce». Nel rimescolamento demografico e politico-militare dell’impero carolingio, la malattia recidivante è sempre la plaga ammorbante e mortifera aperta nel corpo dell’Europa di mezzo. Nel biennio 1041-42, a causa della «penuria per quasi tutto il mondo di frumento», che costringe a cibarsi di grani alternativi, si registra di nuovo una «mortalità grandissima di uomini corrosi dal fuoco sacro». Anche nel biennio 1089-90 «la sterilità delle biade si accresce» onde il morbo «maggiormente infierisce». Code di tale epidemicoendemico infierire sono le recrudescenze dell’anno 1125, in cui «molti son pure abbruciati da sacro fuoco», e dell’anno 1142, in cui, pur ormai prossimo alla defervescenza, «continua il fuoco sacro»15. A metà del XII secolo il panorama europeo è radicalmente mutato. Il cambiamento è schematicamente riassunto dalla cesura che la periodizzazione storiografica pone tra l’Alto e il Basso Medioevo. Tuttavia non è negli schemi periodizzanti, ma nel succedersi degli eventi di oltre due secoli che va percepita la complessa transizione che dalla tripartizione in regni dell’impero di Carlo Magno – da est a ovest, Germania, Lotaringia (e Italia) e quella che diviene la Francia – porta all’emergere dell’impero svevo. Mentre da nord calano i Normanni, protagonisti di un vasto movimento di espansione armata per mare e per terra, a est l’Impero bizantino – da Basilio I macedone (812-886) ad Alessio I Comneno (1048-1118) – associa alle arti della diplomazia le armi della guerra con una ripresa militare sostenuta anche da un’ampia riorganizza  Ivi, pp. 82, 92, 98, 104, 106.

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zione della flotta. I generali bizantini danno ripetute dimostrazioni della loro abilità strategica e tattica, sfruttando al meglio la qualità delle loro truppe, la conoscenza del territorio per condurvi azioni di guerriglia, il controllo pressoché incontrastato dei mari16. I medici bizantini, dal canto loro, non soltanto riassumono tutto il sapere dei maestri che li hanno preceduti, ma si impegnano a dar vita a forme originali di ospedalità e di assistenza. La descrizione della malattia di Alessio I, fatta nell’Alessiade dalla figlia Anna Comnena, di come sia praticata l’assistenza a un imperatore che «in circa trentatré anni di regno riuscì a evitare il tracollo dello Stato bizantino anche davanti a quel colossale imprevisto storico che fu la prima crociata»17, rappresenta un bell’esempio di pratica assistenziale. Nel contempo si affacciano al Mediterraneo i turchi (Selgiuchidi), che conquistano Baghdad nel 1055 e nel 1070 Gerusalemme, fondando il sultanato dei «re dell’Oriente e dell’Occidente», poi incarnato nella figura di Salah-ad-Din (1138-1193), «il Saladino», aggressivo difensore ed esportatore della fede musulmana. Nel cuore del continente si affermano in Francia la dinastia dei Capetingi e in Germania quella sassone degli Ottoni e degli Enrichi (Enrico IV è l’imperatore che nel 1077 a Canossa si inchina all’autorità di papa Gregorio VII). In un territorio continentale, strutturato nelle campagne da un «accastellamento» in fortezze e nelle rinascenti città da mura urbane circondate da mura e fossati, la svolta nelle vicende dell’impero è costituita dall’avvento di Federico I (1125-1190) della casata sveva degli Hohenstaufen, soprannominato dagli italiani dell’epoca «il Barbarossa».   Vedi Giorgio Ravegnani, Soldati e guerre a Bisanzio, Il Mulino, Bologna 2009. 17   Vedi La morte di Alessio I Comneno: eziologia e clinica secondo il racconto di Anna Comnena, tesi di laurea in lettere e filosofia di Federico E. Perozziello, relatore Fabrizio Conca, Università degli Studi di Milano, a.a. 2000-2001, p. 5. Vedi anche Georg Ostrogorsky, Storia dell’Impero Bizantino, Einaudi, Torino 1993, pp. 326-330. 16

V Le guerre crociate Il secolo X è il secolo che inaugura l’epoca d’oro dei pellegrinaggi devoti in Terra Santa. Già verso la fine del IX, il non ancora imperatore Carlo Magno, in virtù dei suoi buoni rapporti con il califfo Harun-al-Rashid (766-809), «Aronne il ben Guidato» fondatore in Baghdad della «Casa della Saggezza», aveva intrapreso un tentativo di organizzare pellegrinaggi, ma i pirati saraceni, imperversanti con le loro navi da corsa in assalti e razzie, avevano creato nel Mediterraneo orientale una situazione a dir poco sfavorevole, risoltasi solo dopo il recupero del predominio sui mari da parte della flotta bizantina. Nel contempo la completa cristianizzazione delle popolazioni balcaniche aveva aperto una strada d’accesso ai Luoghi Santi anche per via di terra, lungo il corso del Danubio: essa scendeva da Belgrado a Sofia e a Costantinopoli per inoltrarsi poi in Asia Minore fino ad Antiochia e a Gerusalemme. Nei confronti dei musulmani, i bizantini sono più tolleranti dei loro correligionari occidentali; cercano – si può dire – di mantenere rapporti di buon vicinato. Anche nei confronti dei cristiani d’occidente non mostrano pregiudiziali ostilità, dettate dalle contese inerenti alle rispettive posizioni religiose. Preferiscono coltivare più la diplomazia che la guerra, a costo di venire tacciati di opportunismo e mancanza di coraggio. Per i bizantini la guerra è sempre riprovevole, anche se talvolta inevitabile; ma se il farla contro gli infedeli è un male relativo, che può essere compiuto a fin di bene, il farla contro i correligionari cristiani, o il subirla da parte di costoro, è un male assoluto, assolutamente da evitare ove ciò sia possibile.

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Non è la stessa cosa per i cristiani d’occidente. Dallo scorcio dell’XI secolo in poi, i pii pellegrinaggi, interrotti dalla caduta in mano turca della «città santa» di Gerusalemme, strappata dai Selgiuchidi agli Egiziani Fatimidi, si trasformano in pellegrinaggi armati. Un vasto movimento di popolo, animato da personaggi – quali il papa francese Urbano II (1042-1099) e il monaco predicatore Pietro l’Eremita (1050-1115) – accesi da sacro fuoco (tutt’affatto diverso dal declinante ergotismo!), si traduce sia in un’accozzaglia di plebe male armata, mossa da furore religioso, sia in un agguerrito e organizzato esercito di cavalieri e di fanti, l’una e l’altro protagonisti della guerra santa, intrapresa al grido di Deus le volt, «Dio lo vuole»1. I diversi partecipanti all’impresa bellica hanno la loro propria pulsione o motivazione. Concorrono, in varia misura, all’ideale di liberare il Santo Sepolcro dagli usurpatori e profanatori infedeli, la rabbia vendicativa di riscattare l’onta di Roncisvalle patita dai Franchi contro i Mori (ma questi, come si sa, erano baschi!) e l’interessata ricerca sia di fortuna, da parte dei popolani «straccioni» e «senzaterra», sia di gloria e ricchezza, da parte dei cavalieri d’alto rango e dei loro nobili condottieri. Non è un caso che gli uni – maschi male in arnese con seguito di «femine e garzoni» – siano seguaci di Gualtiero Sans-Avoir, il cui cognome Senz’avere o Senza denari è di per sé un manifesto d’identità, e che gli altri – i fanti e cavalieri organizzati – siano comandati da principi in marcia con le loro corti di dame e serventi: Goffredo di Buglione (10601100), Baldovino di Fiandra (1058-1118), Raimondo di Tolosa (1042-1105), Boemondo di Taranto (1050-1111). La minuta gente che nel 1096 percorre a piedi la penisola balcanica reca cucita alla spalla destra delle vesti una croce di pezza; i fanti e cavalieri che giungono a Costantinopoli anch’essi per via di terra (ma taluni dopo un viaggio per mare con sbarco a Durazzo) portano al davanti della maglia corazzata un pettorale con 1   Una «storia militare del cristianesimo» (mutuando la dizione dal titolo del libro di Alberto Leoni pubblicato da Piemme) ha però inizio con il pontificato di papa Leone IV (847-855) nel quadro della difesa di Roma dai musulmani che nell’849 si accingevano a prendere la città. Nelle acque di Ostia la flotta saracena venne affrontata dalla flotta cristiana, cui arrise la vittoria. Fu la prima guerra della Chiesa combattuta a difesa della cristianità occidentale.

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trapunta pur’essi una croce. Sono, gli uni e gli altri, i crociati. A tale composita militia Christi fa da esca la promessa papale della remissione dei peccati se commessi in nomine Dei. I «militi di Cristo» al seguito di Pietro l’Eremita, che già si danno a saccheggi e a violenze durante il trasferimento a Costantinopoli, giunti in vista della città sono deviati dai soldati bizantini mandati loro incontro per stornarne la furia. I bizantini, che i crociati considerano eretici sotto l’aspetto religioso, sono percepiti come una forza doppiamente ostile. La furia, non potendo sfogarsi su di essi, si abbatte sugli ebrei, immolati come agnelli sacrificali vendicando il deicidio perpetrato mille anni prima dai loro avi con la crocifissione di Gesù. Poi questi crociati sui generis, agevolati nel passaggio al di là del Bosforo, subiscono, tra il Mar di Marmara e la città di Nicea, l’assalto da parte dei turchi concluso da un massacro. Soltanto alcuni giovani prestanti e le donne più belle sono risparmiati e ridotti in schiavitù. Sul terreno costellato di morti c’è anche il corpo senza vita di Gualtiero Senz’avere. L’esercito franco-tedesco, dal canto suo, giunge nel 1098 sotto le mura di Antiochia, «città santa» come Gerusalemme perché l’apostolo Pietro vi fondò la sua prima diocesi. I crociati «cominciarono ad assediar[la] nel mese d’ottobre; le piogge, il freddo, la penuria fecero stragi così enormi che – come scrive Guglielmo da Tiro nella sua Historia rerum in partibus transmarinis gestarum (V, 18-23) – mancava ai Crociati tempo e spazio per sotterrare i morti. Entrati dopo nove mesi nella città, furono a loro volta assediati e costretti per mancanza di viveri a cibarsi di carni de’ giumenti, morendone non pochi di fame»2. La storia narrata dall’antico cronista e più volte rinarrata ha ricevuto il sigillo della storiografia più autorevole: «Alla sera del 3 giugno non rimaneva un solo turco vivo in Antiochia [...]. Le case dei cittadini, sia dei cristiani che dei musulmani, furono saccheggiate [...]; non si poteva camminare nelle vie senza calpestare dei cadaveri, che tutti quanti imputridivano rapidamente nel calore estivo. Ma Antiochia era nuovamente cristiana»3. La conquista crociata prosegue. «La città di Gerusalemme era 2   Annali, p. 100. L’autore Corradi cita, tra le proprie fonti originali, anche il Chronicon di Ekkehard di Aura e quello di Sigiberto di Gembloux. 3   Steven Runciman, Storia delle Crociate, Einaudi, Torino 1966, vol. I, p. 202.

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una delle più grandi fortezze del mondo medievale». Accampato davanti alle sue mura e alle sue torri l’esercito cristiano sosta quaranta giorni prima dell’assalto, tormentato dalla sete, per via dei pozzi fatti avvelenare dai turchi, e dalla fame, per via degli armenti fatti evacuare dai pascoli. Un primo tentativo di scalare le mura fallisce dimostrando «ai principi la necessità di costruire altre macchine d’assedio» e comunque di soprassedere «finché non fossero meglio riforniti di mangani e scale». Fortunatamente sei vascelli cristiani – due galee genovesi e quattro navigli della flotta inglese – approdano a Giaffa recando «viveri e armamenti, comprese le funi, i chiodi e i bulloni necessari per costruire macchine d’assedio», i mangani appunto, grandi catapulte adatte a scagliare pietre. «Raimondo di Tolosa e Goffredo di Buglione iniziarono ciascuno la costruzione di un castello di legno, fornito di catapulte e montato su ruote»4. La macchina della guerra è sempre più perfezionata e specializzata. Passata la quarantena d’attesa, non dissimile dalla quarantena d’isolamento antiepidemico, l’assalto a Gerusalemme ha inizio nella notte fra il 13 e il 14 luglio 1099. «Per prima cosa gli assalitori dovevano spingere i loro castelli di legno vicino alle mura, e questo significava riempire il fossato che correva ai loro piedi [...] soffrendo gravemente per le pietre e il fuoco liquido delle difese e rispondendo con un pesante bombardamento dei loro mangani [...]. La mattina seguente la torre di Goffredo fu accostata alle mura settentrionali» donde il principe incoraggiava chi riusciva a penetrare in città ad «aprire la Porta della Colonna al grosso della forza crociata». La città è presa. «I crociati, resi come pazzi da una vittoria così esaltante dopo tante sofferenze, si precipitano per le strade e nelle moschee uccidendo tutti quelli che incontravano, uomini, donne e bambini senza distinzione. Il massacro continuò per tutto il pomeriggio e per tutta la notte». La strage «impressionò profondamente tutto il mondo. [...] Quella sanguinosa dimostrazione di fanatismo cristiano risuscitò il fanatismo dell’Islam. Quando, in seguito, i più saggi latini d’Oriente si sforzarono di trovare una

  Ivi, pp. 243-244.

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base qualsiasi sulla quale cristiani e musulmani potessero collaborare, il ricordo del massacro si levò sempre sul loro cammino»5. Questo quadro d’insieme e questo modo di fare la guerra – tra assedi e massacri e con scontri per mare – non cambiano nella seconda crociata, predicata dal monaco Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) e compiuta tra il 1147 e il 1149, senza lode ma non senza infamia, dall’imperatore Corrado III (1093-1152), dal re di Francia Luigi VII (1121-1180) e dal re normanno di Sicilia Ruggero II (1095-1154). Non cambia nemmeno il seguito di dame, famigli e servitori, più numerosi degli stessi soldati crociati, cui creano impacci e impedimenti6. Lodovico VII Re di Francia e Corrado III Re di Germania, commossi dall’eloquenza di San Bernardo, presa la croce, marciarono in quest’anno 1147 con grandi forze contro gl’infedeli: ma appena passato il Bosforo l’esercito di Corrado, per la perfidia greca e per l’inesperienza de’ condottieri, cadde presso che tutto sotto la scimitarra de’ Turchi, già in prima vinto dalle fatiche, dalla fame, dalla disperazione. Né gran fatto più fortunato fu il monarca francese, avendo perduto tre quarti delle sue milizie quando arrivò alla metà del seguente marzo nel principato d’Antiochia. Maggiori sventure ancora l’attendevano: l’anno appresso, tornando da Terra Santa, nelle acque di Sicilia fu fatto prigione dell’armata di Comneno [l’imperatore bizantino Manuele I, 1123-1180] e poscia fortunatamente liberato da quella del Re Ruggieri7.

L’esito della crociata è un fallimento, costato molto caro. Bernardo da Chiaravalle può solo dire, in una delle Epistole (247), che la sua crociata ha «svuotate le città e i castelli, e quasi non si trovano che sette donne per un solo uomo, talché agli uomini vivi restano dovunque le vedove»8. Oltre alla elevata mortalità

  Ivi, pp. 246-248.   Emblematico è il caso di Eleonora d’Aquitania (1122-1204), moglie di Luigi VII, che tenne corte alimentando le voci di un suo tradimento coniugale con Raimondo di Poitiers (1099-1149), principe di Antiochia. Il matrimonio regale fu sciolto nel 1152 con il pretesto della consanguineità. 7   Annali, p. 107. 8   Ivi, p. 108. 5 6

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bellica, la demografia registra una ridotta nuzialità (e natalità) non disgiunta da poligamia. Un clamoroso insuccesso tocca anche alla terza crociata, che fa seguito alla riconquista di Gerusalemme da parte musulmana per opera del Saladino ed è compiuta tra il 1189 e il 1192 dagli eserciti del Barbarossa, dal re di Francia Filippo I Augusto (1165-1223) e dal re d’Inghilterra Riccardo I (1157-1199) detto «Cuor di Leone». Alla fine del mese d’agosto [1189] erano approdati in Messina con grande flotta Filippo Augusto Re di Francia e Riccardo Re d’Inghilterra, disponendosi d’andare in Terra Santa che d’ajuti avea estremo bisogno. Era già nella primavera passata nell’Asia l’oste dei Crociati guidati dal Barbarossa; ma cominciò tosto a patire per le solite insidie de’ Greci [i bizantini dell’imperatore Andronico, ultimo della dinastia dei Comneni] e per mancanza di vettovaglie [...]. Le continue zuffe coi saraceni, gli stenti, le fatiche, le malattie ridussero le forze degli Alemanni a meschine reliquie9.

Continua la cronaca: «Di assedianti divenuti assediati, patirono i Cristiani, posti in mezzo alla città [Tolemaide] ed a Saladino che dopo averli sconfitti li accerchiava, sì terribile fame da mangiare i cavalli e quindi ancora i cuoj, le bardature e le vecchie pelli che si vendeano a peso d’oro. A questi orrori tenner dietro gli altri delle malattie, tanto più maligne per esser ammucchiate le milizie [...]: ogni giorno si seppellivano da 200 a 300 pellegrini [crociati] e tra questi fu pure Federigo di Svevia»10, morto annegato nelle acque del flume Calicandro, cadendo da cavallo e finendo trascinato nel fondo dalla pesante armatura. Le «continue zuffe» registrate dal cronista sono indicative di un altro modo di combattere, diverso dagli scontri a tutto campo di cavalleria e fanteria. È il corpo a corpo, a colpi di spada e di clava, implicante il contatto diretto e lo sguardo vis-à-vis, non i colpi inferti a distanza da archi e balestre. Guardare negli occhi il nemico e gridargli in faccia il proprio odio o disprezzo è un ideale del crociato o un modo d’essere del crociato ideale. Comunque, tra leggenda e realtà, i Luoghi Santi restano in   Ivi, p. 120.   Ivi, p. 121.

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gran parte nelle mani degli infedeli e nelle stesse mani rimangono anche dopo le crociate successive: la quarta (1202-1204), nella quale i nemici non sono più i musulmani, ma i bizantini, e che si conclude il 13 aprile 1204 con il «sacco» e l’atroce massacro di Costantinopoli; la quinta (1217-1221), che si trascina a lungo in estenuanti campagne prima di concludersi con una rovinosa disfatta; la sesta (1248-1254), guidata dal re di Francia Luigi IX (1214-1270) e conclusa con la cattura di questi e il suo riscatto oneroso; la settima (1270), capeggiata dallo stesso re Luigi e spentasi sotto le mura di Tunisi con l’esercito falciato da una pestilenza che uccide anche il re (fatto santo nel 1287). Due secoli di guerre crociate hanno versato molto sangue e cambiato poco o nulla. Quel che è cambiato, in due secoli, è il quadro militare, cioè le armature, le cavalcature, le fortificazioni, le imbarcazioni, le macchine da guerra, cioè, in definitiva, il modo di fare quest’ultima. Ma elementi di varietà sono dati anche dalla patologia epidemica che fa da corollario ed elementi di novità sono offerti altresì da certi aspetti della sanità satellite, sia spontanea che, più o meno, organizzata. Nell’equipaggiamento cavalleresco la brunia carolingia lascia il posto all’usbergo, «lunga tunica metallica [...] di maglia flessibile e relativamente leggera, dai dodici ai quindici chilogrammi», integrata dall’elmo o dal camaglio, «cappuccio di maglia che copre testa e collo», e dallo scudo (il cui modello standard è quello normanno) a mandorla, «arrotondato in cima e terminante a punta, che ripara per intero il cavaliere». Quanto alle «armi predilette e rappresentative dell’ordo cavalleresco, la spada e la lancia», quest’ultima è lignea (di frassino, di quercia, di pino), dotata di fondamentale importanza per l’affermarsi del «metodo d’urto frontale a lancia tesa. Questa tecnica di combattimento, praticata già all’epoca della prima crociata e generalizzatasi nella cultura militare occidentale del XII secolo, consiste in una carica a fondo effettuata da una schiera compatta di cavalieri che tengono le loro aste sotto l’ascella, in posizione orizzontale fissa»11. Quanto alla fanteria, la sua forza d’urto è data dalla coesione, 11   Vedi Glossario nel volume Crociate. Testi storici e poetici, a cura di Gioia Zanganelli, Mondadori, Milano 2004, pp. 1640-1641.

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decisiva per il successo. I fanti, protetti da un giaccone di cuoio imbottito, portano una cervelliera e una gorgiera di ferro, imbracciano uno scudo leggero a rotella e usano armi da getto, archi o balestre, ma anche, nei corpo a corpo, asce, roncole, mazze oppure la daga (prerogativa peraltro dei cavalieri) detta misericordia perché dà il colpo di grazia al nemico. Il cavallo è il destriero (condotto dallo scudiero con la mano destra), detto corsiero se dotato di rapidità di corsa e invece palafreno se da viaggio, «usato in prevalenza da chierici e dame», o ronzino se da fatica, «montato abitualmente dagli scudieri». La fortezza costituisce l’elemento statico in aggiunta all’elemento dinamico rappresentato dall’esercito. Piazzeforti e castelli – questi a forma quadrilatera con torri agli angoli o in forma di unico edificio turrito con fossato – hanno funzioni strategiche di vigilanza, punti d’appoggio, luoghi di riparo e di resistenza. Le imbarcazioni sono le galee, navi da guerra e non da mercato, con marinai e rematori di circa cento unità, assicuranti autonomia di manovra e «dunque la capacità di portarsi direttamente e rapidamente sul bersaglio nemico». Le macchine da guerra sono quelle d’approccio come la torre mobile o «torre d’assedio», o quelle a distanza come le petriere, «enormi fionde capaci di spedire un proieittile di pietra del peso di venti o trenta chilogrammi a una distanza superiore a duecento metri», e come le baliste (balestre, catapulte) e i già citati mangani, ordigni funzionanti per effetto di leve e contrappesi, formati da pali con estremi a cucchiaio, contenitori di massi o di «qualunque altro tipo di proiettile, talvolta le teste dei prigionieri decapitati»12. Non vanno dimenticati il fuoco liquido, che s’è visto versato dall’alto delle mura di Gerusalemme sulle teste dei crociati assalitori da parte dei difensori saraceni, e il fuoco greco, arma bizantina costituita da «una miscela di petrolio, resina e zolfo, lanciata da un sifone attraverso un tubo di bronzo e accesa al momento della sua fuoruscita» così da potenziare i proiettili incendiari con effetto gravemente ustionante13. Con specifico riferimento alla sanità militare, un elemento re  Vedi ivi, pp. 1644 e 1650-1653.   Ivi, p. 1651. Il «fuoco greco-bizantino» ha un precedente nel «fango bruciante» (miscela incendiaria bituminosa con petrolio grezzo) usato contro i Romani dall’esercito di Mitridate Eupatore, re del Ponto (132-63 a.C.). 12 13

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lativamente nuovo è una parzialmente mutata presenza femminile al seguito degli eserciti. Non si tratta di donne – serventi, vivandiere, faccendiere o altre – che svolgono mansioni genericamente adiuvanti, quanto piuttosto di donne curanti, come quelle che vengono segnalate «nella terza crociata», quando «comincia a farsi strada il principio del rispetto ai feriti», beninteso a quelli della propria parte. Allora si notano «numerose donne al seguito delle truppe, travestite da guerrieri» non per guerreggiare (come la Clorinda immortalata da Torquato Tasso nella Gerusalemme Liberata), ma per essere sollecite e «premurose infermiere nell’assistere i feriti»14. Piccole isole di pietà in un oceano di sangue. Nel mansionario spontaneo figurano cose di minor conto, ma sintomatiche dell’incipiente rispetto dei feriti di guerra. Nell’anno 1255, nel corso di uno scontro in Italia tra gli eserciti imperiale e pontificio, al seguito di quest’ultimo – secondo quanto riporta un cronista coevo – c’è un carro cum moscherinis et flabellis, «con acchiappamosche e ventagli» atti rispettivamente «a scacciare le mosche dalle ferite dei trasportati e a dar refrigerio d’aria ai calori della febbre. Questo racconto», commenta il Corradi nel riferirlo, «è prova che la medicina militare non era nel secolo XIII in sì misere condizioni come senz’altro sarebbesi sospettato»15, prospettando l’ipotesi di un prototipo d’ambulanza non priva di qualche comfort. Ma nel campo assistenziale un elemento di ben maggior novità e rilevanza è la formazione di ordini religiosi che assumono anche aspetti militari e cavallereschi in quanto i loro membri, oltre a pronunciare gli abituali voti di povertà, castità e obbedienza, si impegnano a combattere contro gli infedeli. Tra questi ordini spicca per importanza assistenziale l’Ordine dei cavalieri ospitalieri gerosolomitani, derivante il nome dall’Ospitale San Giovanni di Gerusalemme (da qui migrato poi ad Acri, Rodi, Malta). Dopo l’approvazione papale, con bolla del 15 febbraio 1113, superando attriti e rivalità con l’Ordine dei templari – derivante il nome dal Tempio di Salomone e istituito nel 1120 –, l’Ordine degli ospitalieri prolifera e fa proseliti anche fuori della Terra Santa. «Le bolle di riconferma si susseguirono e si dovette al secon  Casarini, La medicina militare, cit., p. 158.   Annali, p. 139.

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do gran maestro dell’Ordine, Raimondo di Podio, la rielaborazione dei precetti di Gerardo amalfitano [il fondatore primigenio] fino a che nel 1182 negli statuti vennero più precisamente messi a fuoco i punti riguardanti la parte medica assistenziale per gli infermi»16. Una realtà non assistenziale, ma morbosa, è la comparsa, sulla nera lavagna della patologia umana, di una malattia che esordisce nella quinta e settima crociata. Essa è responsabile di epidemie castrensi e/o navali caratterizzate da «dolore improvviso che prendeva gli arti inferiori che diventavano orrendamente neri: successivamente le gengive e i denti erano attaccati da una specie di cancrena, sicché l’infermo non poteva più masticare e nutrirsi. [...] La carne delle gambe si disseccava fino all’osso, e tanta carne morta veniva alle gengive che la bocca diveniva orribilmente purulenta e conveniva che i barbieri portassero via tal carne, affinché si potesse masticare e inghiottire il cibo. Gran pietà era quella di udir gridare le genti fra l’esercito, alle quali si tagliava la carne morta; poiché gridavano essi come donne che fossero in travaglio d’infante. Ed alla fine pochi ne sfuggivano che non ne morissero; ed il segno di morte che vi si conosceva continuamente era quando si cominciava a sanguinare dal naso, che si era ben sicuri di esser morti tra breve»17. La menzione dei barbieri che asportano dalle gengive tumefatte o da altre parti corporee la «carne morta», in grande misura costituita dai coaguli emorragici che rigonfiano le mucose e la pelle, se da un lato conferma la presenza negli eserciti medievali di addetti alle manualità «medicamentarie» e «ferramentarie» riservate a feriti e malati, dall’altro lato permette di cogliere l’esordio nel Basso Medioevo dello scorbuto, malattia carenziale che troverà solo nel Settecento la terapia nel succo di limone e solo nel Novecento l’identificazione nella mancanza alimentare di un fattore antiemorragico, l’«ascorbina» (vitamina C antiscorbutica) di cui sono ricchi gli agrumi18. 16   Adalberto Pazzini, L’Ospedale nei secoli, Edizioni Orizzonte Medico, Roma 1956, p. 84. 17   Annali, p. 159. Il corsivo è mio. 18   La terapia dello scorbuto con succo di limone conservato fu praticata per la prima volta da James Lind (1716-1794), medico della marina inglese e osservatore della malattia nei marinai costretti a lunghe navigazioni senza toccar terra e senza poter rifornirsi nei porti di cibi freschi (frutti e verdure). L’identificazione dello scorbuto come avitaminosi fece seguito alla scoperta delle vitamine nel

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Che la medicina militare sia nel XIII secolo una realtà consolidata è un fatto provato purché la si intenda come un’attività non tanto di chirurgiens-barbiers19, tali in Francia a partire dal XIV secolo, quanto di empirici addetti a stagnare le emorragie causticando le ferite o applicando a queste il ferro rovente, il cauterio. La cauterizzazione delle lesioni cruente è una pratica mutuata dalla medicina araba, ma – nel Basso Medioevo – non è la sola pratica medica di derivazione orientale. Anche se le crociate non sono certo il miglior mezzo di scambi, culturali e tecnici, fra Oriente e Occidente, tuttavia tra i supporti delle cure esercitate in campo crociato ha un suo posto di rilievo la tecnica alchemica, un’arte nata nell’Antico Egitto ed ereditata dagli arabi, anche di Sicilia e di Spagna, e dai bizantini. L’eredità, prima d’essere pratica, è teorica. La medicina ippocratico-galenica è basata sulle quattro qualità elementari – caldo, secco, freddo, umido – degli umori corporei e dei medicamenti «semplici» (vegetali, botanici) che a essi si applicano per correggerne le «discrasie» o cattive miscele provocanti malattie. La medicina araba, che accetta l’ippocratismo ma che lo elabora anche in modo alchemico, accredita di calidità e secchezza un minerale, l’abrìc o «zolfo», e di frigidità e umidità un altro minerale, l’azòth o «mercurio», governati l’uno dalla «influenza» del Sole, l’altro dalle «flussioni» della Luna. Influenza e flussioni sono termini medici che avranno fortuna, come l’avranno in terapia i due minerali, l’uno nelle «acque e vapori sulfurei» delle fonti termali, l’altro nei «composti mercuriali» per unzioni e frizioni20. L’epopea crociata – s’è detto – ha termine inglorioso nel 1270, non in Terra Santa, ma sotto le mura di Tunisi. La morte di Luigi 1911, da parte di Kazmierz Funk, e fu poi avvalorata dalle ricerche di Albert Szent-Györgyi, premio Nobel nel 1937 per i suoi studi sulla vitamina C. 19   Vedi H. Coulon, La communauté des chirurgiens-barbiers de Cambrai, Baillière, Paris 1908. 20   Alchimia e astrologia hanno grande fortuna nel Rinascimento, collegando il «microcosmo» del corpo umano con il «macroantropo» del cosmo stellare. Paracelso (1493-1541) le annovera, con la filosofia e la virtù, tra i quattro pilastri della «vera medicina». Un’altra parola fortunata e anch’essa arabizzante è elisir, il distillato di lunga vita prodotto dalla magia naturale dell’alchimista nell’alambiq, parola anche questa di derivazione araba e significante «pellicano», forma del recipiente di vetro usato per distillare.

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IX, il santo re dei francesi, è seguita dalla bollitura in acqua e vino del cadavere regio onde poterlo scarnificare e distribuirne le ossa alle chiese e abbazie che desiderino serbarle come reliquie. Da questa dissezione pre-anatomica del santo corpo del re nasce la tradizione del prodigio che a lui si richiama. Prodigio in greco dicesi thauma: chi lo compie è un «taumaturgo», come appunto colui che, come da qui in poi il re dei francesi e degli inglesi (anche questi insediati sul suolo di Francia), è accreditato del potere di guarire una ferita o una piaga con il semplice «toccamento» della parte affetta trasformato in «toccasana». È da tale intreccio di credenze e di simboli che nasce la facoltà taumaturgica, attribuita ai re di Francia e d’Inghilterra, di guarire le scrofole, cioè le ghiandole linfatiche laterocervicali infiammate e tumefatte dalla tubercolosi, ingrossanti il collo e il volto e conferenti a quest’ultimo un aspetto suino, da «scrofa». Il medico inglese John of Gaddesden (1280-1349), insegnante a Oxford, descrive in un suo trattatello il potere «sovrumano» riconosciuto al «sovrano» d’Inghilterra e di Francia, un potere presunto perdurante per più secoli21.

  L’intera vicenda è approfondita ed esplorata a tutto campo da Marc Bloch, I re taumaturghi, Einaudi, Torino 1973. 21

VI La rivoluzione militare «Fuoco sacro», «fuoco liquido», «fuoco greco»: il fuoco variamente aggettivato da attributi indicanti una malattia e due modi di fare la guerra nel Medioevo, e in più il fuoco che arroventa il ferro con cui si cauterizzano le piaghe e ferite dell’uomo medievale introducono, nelle parole ancor prima che nei fatti, l’inventum novum, il «nuovo ritrovato» del XIV secolo: le armi «da fuoco». Il fuoco rende potenti tali armi perché è un elemento primordiale che – come la terra nei terremoti, l’acqua nei maremoti, l’aria nelle trombe e nei vortici dei venti – ha la potenza di sconvolgere l’ordine naturale delle cose con fenomeni ed eventi preternaturali che ripetono su scala ridotta le eruzioni dei vulcani, delle montagne che vomitano fuoco. Le armi sputafuoco, inventate in Cina nel XII secolo, arrivano e si diffondono solo più tardi nel Medio Oriente e in Europa. Il medico pavese Gerolamo Cardano (1501-1576) scrive nel De vita propria che tra gli «straordinari cambiamenti» del XV secolo è da annoverarsi – insieme alla scoperta del Nuovo Mondo, alla stampa e alla bussola – l’invenzione delle armi da fuoco. Il filosofo londinese Francesco Bacone (1561-1626) ribadisce nel Novum organum (libro I, aforisma 129) che, scoperta dell’America a parte, nessun’altra novità è «più importante di quelle che erano sconosciute agli antichi [...] ovvero la stampa, il magnete e la polvere da sparo» in virtù delle quali «l’apparenza e lo stato delle cose sono interamente cambiate in tutto il mondo». Le armi da fuoco utilizzano la forza prodotta dall’accensione della «polvere da sparo», una miscela esplosiva di carbone, zolfo e salnitro. Quest’ultimo componente – il nitrato di potassio –, per

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essere stato individuato dalla protochimica nascente dall’alchimia nel XIV secolo, accredita la tesi della comparsa del nome «salnitro» e, indirettamente, della «polvere da sparo» in Europa non prima dell’anno 1300. Così non troviamo traccia di armi da fuoco nella battaglia campale di Benevento del 1266 e in quella di Tagliacozzo del 1268, che vedono spegnersi in Italia le sorti dell’impero svevo e le vite dei suoi due ultimi rappresentanti, Manfredi (12321266) e Corradino (1252-1268). «Le prime testimonianze scritte sulle armi da fuoco in Europa risalgono al 1326». Nell’immaginario collettivo tali armi sono percepite come manufatti diabolici. Francesco Petrarca (1304-1374) si fa interprete della mentalità popolare definendole uno «strumento mandato dall’inferno»; Ludovico Ariosto (1474-1533), un secolo e mezzo più tardi, ribadisce la percezione facendo dire al protagonista del suo Orlando Furioso che il cannone è «l’abominoso ordigno, [...] fabricato nel tartareo fondo [...] per mano di Belzebù», contraddicente l’ideale cavalleresco della guerra concepito dai paladini1. Inizialmente «le armi da fuoco a mano erano rare» e «le armi a canne multiple montate su carri erano più diffuse, ma ingombranti e inadatte all’azione offensiva. Probabilmente ebbero un impatto più psicologico che fisico sul campo di battaglia, a causa del rumore e del fumo che emettevano»2. In definitiva, nei combattimenti contro la cavalleria e la fanteria, l’artiglieria, per tutto il XIV secolo, è praticamente assente sui campi di battaglia od occupa un ruolo del tutto secondario. La parola artiglieria – dal francese artillier, «fabbricante di macchine da guerra», derivante dalla contaminazione di art, «arte», e attillement, «armamentario» – designa fino all’anno 1500 tutto l’insieme delle macchine belliche. Tra queste, quelle da fuoco sono reperibili, ma come presenza più atta a spaventare che a colpire, nella vittoria degli inglesi sui francesi nel 1346 a Crécy, poco dopo l’inizio della «guerra dei cent’anni» (1337-1435). In una cronaca del tempo è scritto che a Crécy vi erano «bombarde che lanciavano palle di fuoco per intimorire e mandare in rovina 1   Vedi Kenneth Chase, Armi da fuoco, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2009, p. 109. 2   Ibid.

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uomini e cavalli, e i colpi di queste bombarde causarono un tal tremore che sembrava che Dio stesso tuonasse con gran massacro di gente e scempio di cavalli»3. Bombarde sono le «bombe» per «ardere», diffuse in Italia nello scorcio del Trecento, insieme alle colubrine, ai falconi, ai falconetti, ai mortai e ad altri pezzi di vario calibro e di più o meno lunga gittata. Le bombarde, in Italia, vengono verosimilmente usate per la prima volta dai veneziani contro i genovesi nella guerra di Chioggia del 1380. Nella «guerra dei cent’anni» bisogna attendere l’evolvere ulteriore della centenaria contesa per vedere all’opera i pezzi di artiglieria con le loro bocche da fuoco, anche se ancora impiegate più a scopo di sbarramento difensivo che come potenza d’offesa. Tale è il quadro dell’altra vittoria inglese in terra di Francia, ad Azincourt nel 1415; ma stazionario appare anche il quadro dell’assedio di Orléans nel 1429, quando la liberazione della città per l’impulso dato alla resistenza francese da Giovanna d’Arco (1412-1431) si compie ancora senza cannoneggiamento, però con l’aiuto insostituibile della mano di Dio. La «guerra dei cent’anni» può essere considerata come il terminus a quo della cosiddetta rivoluzione militare (e del dibattito storiografico intorno a tale «rivoluzione»)4. È una transizione epocale che sconvolge il mondo e nella quale le armi da fuoco hanno certamente parte in misura rilevante o determinante. Ma non è il solo sconvolgimento dell’epoca. Il disprezzo per le armi da fuoco da parte del Petrarca è pari al vituperio che egli scaglia contro i medici che non hanno saputo evitare nel 1348, alla sua amatissima Laura, la morte nera. È questa la peste che tra il 1347 e il 1351 spopola l’Europa e che successivamente insiste nel corpo malato del continente, recidivando più volte in forma epidemica fin oltre l’anno 1400. Su cento milioni di europei, trenta sono falciati dalla malattia: un 3   La citazione, tratta dalla cronaca del Froissart, è riportata da Francesco Pellegrini, La medicina militare nel Regno di Napoli. 1139-1503, Cabianca, Verona 1932, p. 67. 4   Vedi Clifford J. Rogers (a cura di), The military revolution debate, Westview, Boulder 1995, in particolare il capitolo The military revolution of the Hundred Years War.

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massacro totalitario. Fra i tanti personaggi di vertice che non sono risparmiati e muoiono appestati c’è il re di Castiglia e di Léon Alfonso XI (1311-1350), el Justiciero, vittima anch’egli del morbo imperversante nell’armata castigliana che assedia i musulmani a Gibilterra; e c’è il duca di Milano Gian Galeazzo Visconti (13511402), cui la peste tronca la vita e insieme il disegno di espandere la sua «tirannide» in un «regno d’Italia» invano vaticinato. La «nera morte» oscura l’Europa assai più della coeva «guerra dei cent’anni». Siamo nell’autunno del Medioevo. L’Europa esce demograficamente ed economicamente prostrata dalla peste del Trecento e dalle sue sequele. La guerra, pur non essendo direttamente responsabile dell’immane disastro, tuttavia vi ha contribuito: «ha avuto certo la sua responsabilità nel creare questo stato di disagio». In Italia «i due ultimi secoli del Medioevo hanno visto imperversare [...] le compagnie di ventura», «le guerre marittime tra Genova e Venezia», «le lotte per il dominio dell’Italia meridionale» tra angioini e aragonesi, «gli sforzi [armati] della Chiesa per imporre il proprio controllo sullo Stato pontificio» e «le rivalità tra i Comuni [repubblicani] e le Signorie [rispettivamente medicea e sforzesca] in Toscana e in Lombardia»5. Oltre ad affidarsi all’arte della diplomazia e agli intrighi che ne fanno parte, i signori e principi d’Italia hanno appaltato le loro più irriducibili contese alle armi gestite dai «signori della guerra» e dai loro agguerriti mercenari, «bracceschi», «sforzeschi», «bri[si]ghelli», «svizzeri» e via dicendo. Le armi, anche da fuoco, gestite da costoro non fanno ancora parte del complesso organizzato della moderna arte della guerra, anche se a questa aprono la strada. Nello stesso scorcio del Medioevo, la situazione geopolitica d’Europa vede, tra le molte guerre e guerricciole territoriali e commerciali, il consolidarsi in Francia e in Inghilterra degli stati nazionali e in Germania l’acquisto della corona imperiale, per voto dei grandi elettori principeschi e arcivescovili, da parte della dinastia dei Lussemburgo, prima, e degli Asburgo, poi. Al passag-

5   Philippe Contamine, La guerra nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1986, p. 178.

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gio tra XV e XVI secolo, Massimiliano I d’Asburgo (1459-1519) è il monarca assoluto insediato sul trono del Sacro Romano Impero. Dentro e fuori questo impero, dove si ridisegnano i confini tra stati che sorgono e stati che scompaiono (come il ducato di Borgogna di Carlo il Temerario, 1433-1477), le malattie epidemiche – come si vedrà tra poco – non rispettano alcun confine. Il 22 agosto 1494 il re di Francia Carlo VIII di Valois (1470-1498) scende in Italia per rivendicare i diritti francesi sul Regno di Napoli (passato nel 1443 dalla casa d’Angiò alla dinastia aragonese). I contrasti politici degli stati italiani fanno sì che in ciascuno di essi ci sia un partito filofrancese pronto ad accogliere il re come liberatore. A questi, dapprincipio, va bene, grazie a «un esercito di 18.000 uomini e un treno d’assedio di 40 o più cannoni trainati da cavalli. Le fortezze che avrebbero dovuto resistere per mesi furono prese in pochi giorni. La pianificazione strategica era d’un tratto cambiata. Ora tutto dipendeva dalla possibilità di fermare il nemico in battaglia prima che potesse raggiungere le mura delle città»6. Carlo VIII discende la penisola e cinge a Napoli la corona di quel regno. Ma alla fine gli va male: dalla Spagna si muove un’armata al comando di Gonzalo Fernández de Córdoba (14531515), «il Gran Capitano», composta dai famosi o famigerati tercios – picchieri, cavalieri, archibugieri (o moschettieri) – supportati dall’artiglieria. Tra questi vari armati esiste un’interazione complessa e compatta che ne fa un esercito potente e vincente. «Senza picchieri, i moschettieri sarebbero stati spazzati dal campo e l’artiglieria sarebbe stata sopraffatta. Senza moschettieri, i picchieri sarebbero diventati un facile bersaglio per i moschetti nemici. Senza cavalleria, la fanteria sarebbe stata circondata e massacrata» e «senza l’artiglieria, la fanteria sarebbe stata bombardata indisturbatamente a distanza»7. La coesione strategica e la conduzione tattica dell’armata spagnola hanno la meglio. Carlo VIII è costretto a trasformare la sua discesa trionfale in precipitosa risalita. Dopo meno di un anno dalla discesa in Italia, la risalita verso la Francia del suo esercito   Chase, Armi da fuoco, cit., p. 112.   Ivi, p. 113.

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dimezzato si conclude in una battaglia di retroguardia, il 6 luglio 1495 a Fornovo, prima della definitiva ritirata al di là delle Alpi. Gli «archibugi», poi «moschetti» (con qualche differenza tra gli uni e gli altri), che figurano tra le armi vincenti sono «bastoni da fuoco a miccia» portatili a spalla, dotati di canna lunga ad avancarica, di cui sono armati i soldati disposti in più schiere, subentranti le une alle altre in rapida successione così da garantire un fuoco di fila continuo, ovviante alle pause discontinue necessarie per la ricarica. Sono un’arma micidiale; ma più micidiale, a Fornovo, è il mal franzese, che Alessandro Benedetti, medico in capo delle milizie veneziane attestate in Val Padana, dice acquisito «per contatto venereo e nuovo o perlomeno sconosciuto, venuto a noi da occidente». Chiamato dai francesi mal de Naples, onde ritorcere la colpa di esso sui napoletani, il morbo sessualmente contagioso sarà detto, trentacinque anni dopo mettendo tutti d’accordo, sifilide8. Tra la peste di metà Trecento e la sifilide di fine Quattrocento corre un secolo e mezzo in cui la sanità pubblica trova la sua ragion d’essere e, messa a dura prova dalle recrudescenze dell’una e dall’arrivo dell’altra, si afferma e si rafforza dandosi regole ben precise e uniformando a queste le pratiche organizzative e operative per fronteggiare le emergenze morbose. I regimina sanitatis altomedievali – primo fra tutti quello elaborato a Salerno – evolvono negli ordinamenta sanitatis tempore mortalitatis che fissano e impongono le misure normative e restrittive necessarie. Venezia e Firenze nominano già nel 1348 «uficiali sopra ciò ordinati», come scrive Giovanni Boccaccio (1313-1375)9. Nel 1374, nel ducato visconteo di Milano, si ordina un isolamento contumaciale di dieci giorni. Nel 1377 tale isolamento, per le navi 8   Vedi il capitolo Una nuova epidemia: il «mal franzese», nel libro di Giorgio Cosmacini, La medicina e la sua storia da Carlo V al Re Sole, Rizzoli, Milano 1989, pp. 19-30. Secondo l’interpretazione epidemiologica più accreditata, la sifilide, così denominata da Girolamo Fracastoro (1478-1553) nell’opera Syphilis seu morbus gallicus (Verona 1530), fu portata in Europa dalle ciurme di Cristoforo Colombo e dai conquistadores delle Indie Occidentali reduci da quelle terre, dove la malattia era endemica, presente nella popolazione amerindia indigena in condizioni di equilibrio immunitario. Nella popolazione europea, immunologicamente «disinformata», essa attecchì e divampò in forma acuta ed epidemica, contendendo alla peste l’eponimo di «male del secolo». 9  Giovanni Boccaccio, Il Decameron, Einaudi, Torino 1961, p. 12.

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ancorate nel porto di Ragusa (Dubrovnik), viene portato a quaranta giorni: quarantena. Nel 1423 il Maggior Consiglio della Repubblica Serenissima decreta che tale quarantena sia svolta in un’isola della laguna: un’isola per meglio isolare. Nel 1451, nel ducato milanese divenuto sforzesco, sono posti alle dipendenze del nuovo «commissario e officiale» un barbiere, un chirurgo e un medico, quest’ultimo con la qualifica di «fisico dell’epidemia». Nel 1468 nasce a Venezia il lazzaretto nuovo, imitato nel 1479 a Firenze e tra il 1488 e il 1494 a Milano. Per la sifilide, definita «male incurabile», sorge nel 1499 nella Repubblica di Genova un ospedale degli incurabili, prototipo di altri nosocomi analoghi in varie città d’Italia10. La nascita del sistema sanitario è una priorità dell’Italia, dove «il sorgere e lo sviluppo degli Uffici di Sanità e della relativa legislazione», scrive Carlo Maria Cipolla, «furono opera [...] dell’efficiente ed evoluta tradizione amministrativa degli Stati italiani», ducati o repubbliche, una tradizione poi assimilata, fatta propria ed emulata da parte di altri Stati europei11. Questa priorità sanitaria si estende anche alla sanità militare? I contagi e la guerra sono vecchi alleati, non solo perché la guerra crea spostamenti umani di massa e facilita i contatti interumani, gli uni e gli altri predisponenti allo scambio e al virulentarsi degli agenti patogeni. C’è anche dell’altro: la storia antica ci dice che gli sciti immergevano le punte delle loro frecce nei cadaveri in putrefazione per favorire l’evoluzione letale delle ferite; e nel Trecento i mongoli – o i Tatari trasformati in «tartari» per indicare l’origine dal Tartaro infernale della loro violenza barbarica – scagliarono con catapulte in Crimea, al di là delle mura della città di Caffa assediata, i corpi dei morti e moribondi di peste come proiettili, per seminare il mortale contagio. La batteriologia come arte di guerra precederebbe di mezzo millennio la batteriologia come scienza. Anche per questi rapporti inquietanti, oltreché beninteso per i noti nessi epidemiologici tra guerra e pestilenze, è in prima ipotesi attendibile che la nascita e la crescita del sistema sanitario 10   Per più circostanziati ragguagli vedi il capitolo La nascita del sistema sanitario nel libro di Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste nera ai nostri giorni, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 28-43. 11   Carlo Maria Cipolla, Origine e sviluppo degli Uffici di Sanità in Italia, in «Annales cisalpines d’histoire sociale», série I, n. 4, 1973, pp. 89-90.

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antiepidemico coinvolga anche gli ammassamenti degli eserciti, a partire dagli agglomerati castrensi e delle città assediate, nonché dai «piccoli eserciti più o meno permanenti delle repubbliche e dei comuni medievali italiani»12. Percorrendo alcune tappe del periodo storico attraversato, emerge anzitutto il rilievo che in un «codice diplomatico», stilato nel 1240, «è stabilito che un medico di piaga e di ossa», vale a dire un chirurgo o barbiere con esperienza di «giustaossa», «stia e proceda durante exercitu accanto al carroccio esercitando pro medicatura». A tale reclutamento sporadico ed episodico dei sanitari addetti alle milizie fa riscontro invece, «alla fine dello [stesso] secolo XIII in Fiandra», un reclutamento diffuso e sistematico di medici militari, intesi anche qui come chirurghi o barbieri, tratti «dalle diverse civiche corporazioni di arti e mestieri, [...] per i quali si stanziava nel bilancio annuale una certa somma», cioè un salario fisso presupponente una positione ferma, un impiego stabile analogo a quello dato ai medici condotti in certe parti d’Italia. L’impiego comportava la dotazione «di tutti gli strumenti e medicinali occorrenti alle loro mansioni, nonché di carri e quadrupedi per il trasporto di materiale [sanitario]»13. Al chirurgo o barbiere collegiato si offrono due possibilità di esercitare il mestiere: operare in seno agli ospedali (nel 1288 la Milano di Bonvesin da la Riva ne conta 10 più 15 nel contado) oppure arruolarsi nelle milizie. La sanità militare così esce dal provvisorio ed entra nel definitivo. Con il costituirsi poi dei grandi eserciti permanenti, il personale sanitario da avventizio – potremmo dire «di complemento» – diventa anch’esso permanente – potremmo dire «effettivo» –, inquadrato stabilmente nei ranghi militari. In Francia, barbieri e chirurghi, «avendo coscienza dei servizi resi, verso la metà del XIII secolo si eressero in corporazioni o comunità»14 formanti il serbatoio professionale per dotare l’esercito di un servizio sanitario efficiente. 12   Arturo Casarini, La medicina militare nella leggenda e nella storia, collana medico-militare edita dal Ministero della Guerra - Direzione generale di Sanità Militare, vol. XX, Roma 1929, p. 164. 13   Vedi ivi, pp. 164 e 181. 14   H. Coulon, La communauté des chirurgiens-barbiers de Cambrai, Baillière, Paris 1908, p. xi. Il riferimento milanese è all’opera De magnalibus Mediolani

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Il chirurgo francese Henri de Mondeville (1260-1320), autore nel 1288 di un Trésor de chirurgie, è anche redattore dello statuto fondativo della parigina Confrérie de Saint Côme (Confraternita dei Santi Cosma e Damiano) disponibile a fornire chirurghi esperti tanto agli ospedali quanto all’esercito. Egli distingue tre specie di chirurghi: quelli che «hanno ricevuto l’arte della chirurgia dai loro genitori e dai loro avi da tempo immemorabile», quelli «istrui­ti» e quelli che riconoscono che «quelle poche conoscenze che posseggono le devono a medici e chirurghi istruiti»15. Si evince che, come negli ospedali cittadini, anche negli improvvisati ospedali da campo e, più in generale, nelle file dell’esercito c’è già una graduatoria per cui esistono empirici praticoni, praticanti parzialmente indottrinati e chirurghi che sanno e sanno fare più degli altri, come lo stesso Mondeville e come i suoi pari, degni in tutto e per tutto, se militanti nell’esercito, del titolo di medici milites, poi «medici militari», come tali apprezzati in alto loco tanto che talora «ottenevano feudi in ricompensa»16. A questa alta chirurgia militare, provvista di basi metodologiche e teoriche, appartiene anche il fiammingo Jan Yperman (12601332), «uno dei più famosi medici militari dell’epoca», il quale, «oltre al metodo della legatura e torsione dei vasi per frenare le emorragie come aveva già preconizzato il suo contemporaneo de Mondeville», introduce «il processo dell’amputazione degli arti, che prima d’allora si praticava soltanto nei casi di cancrena, ricorrendo per l’emostasi all’olio bollente o a piastre di ferro arroventate al calor bianco»17. In Italia, terra di guerre e patria di chirurghi, ha messo radici la scuola inaugurata da un chirurgo svevo appartenente alla «gente forte» – Folk hard – d’oltralpe, Ruggero Frugardi o da Frugardo (Frügard), vissuto nel XII secolo, sceso nella penisola al seguito dell’imperatore Federico Barbarossa e poi detto «da Parma» per-

(1288) del grammatico Bonvesin da la Riva, a cura di Giuseppe Pontiggia, Bompiani, Milano 1983, p. 55. 15   La tripartita classificazione dei chirurghi da parte di Henri de Mondeville è riportata da Jole Agrimi, Chiara Crisciani, Malato, malattia e medicina nel Medioevo, Loescher, Torino 1980, pp. 168-169. 16   Casarini, La medicina militare, cit., p. 165. 17   Ivi, pp. 181-182.

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ché stabilitosi in questa città. La sua chirurgia, dal già citato Guy de Chauliac, è classificata al primo posto di una graduatoria di merito grazie alla pratica di far suppurare le ferite con cataplasmi. Il secondo posto è assegnato alla chirurgia di un altro parmigiano, Teodorico de’ Borgognoni (1205-1298), incline a lavare le ferite con il vino (o con acqua e aceto), mentre il terzo posto è assegnato alla chirurgia del piacentino Guglielmo da Saliceto (1210-1277), partigiano della cura delle ferite con unguenti ed empiastri dolci18. Tutti questi «chirurghi famosi si impegnarono per mettere a punto metodi appropriati per l’estrazione delle frecce e per la cura dei loro effetti lasciandone ampia traccia nella trattatistica dei secoli XII e XIII». Né manca al riguardo l’iconografia: «la Chirurgia di Rolando da Parma [detta Rolandina per distinguerla da quella del suo maestro Ruggero detta Rogerina] presenta una miniatura in cui un chirurgo munito di pinze estrae una freccia dal capo di un paziente»19. Chirurghi militari italiani d’alto rango sono tra gli altri – nei regni normanno, svevo, angioino, aragonese – quelli legati alla tradizione medica della Scuola di Salerno, come Giovanni da Casamicciola, «medico regio» di Carlo I d’Angiò (1226-1285), e come Giovanni da Procida (1210-1298), «medico regio» dell’imperatore Federico II (1194-1250) «che seguì cogli altri medici militari nell’Italia settentrionale per circa due lustri di guerra accanita»20. Egli unì la qualifica di medicus miles a quella di «Gran Ciambellano» della corte federiciana e fu accanto a Manfredi (1232-1266) il 26 febbraio 1266, nell’infausta battaglia di Benevento. È nelle figure di questi medici militari, che sono allo stesso tempo medici regi di imperatori e di re, che prende piede anzitempo, prima che in altri ambiti, l’interscambio delle parti tra il chirurgo d’alto rango e il «phisico», cioè il medico addottorato. È

18   La classificazione dei chirurghi da parte di Guy de Chauliac è riportata da Agrimi, Crisciani, Malato, malattia e medicina nel Medioevo, cit., pp. 170-171. 19   Aldo A. Settia, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 20094, pp. 278-279. 20   Casarini, La medicina militare, cit., p. 172. Sulla figura di Giovanni da Procida vedi Salvatore De Renzi, Storia documentata della Scuola Medica di Salerno, Nobile, Napoli 18572, pp. 437-461.

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in tali figure di transizione che tende a delinearsi quella, aurorale, del medico-chirurgo, dotto per istruzione ed esperto di mano. I «medici regi», fioriti soprattutto sotto gli angioini, devono estendere le loro competenze alla sorveglianza delle malattie epidemiche, castrensi e non castrensi, in conformità dei compiti loro affidati dalle Constitutiones Regum Regni utriusque Siciliae emanate da Federico II a Melfi nel 1231. Medico regio e chirurgo militare è anche Guido da Vigevano (1270-1355), attivo al servizio dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo (1275-1313) e in più «valente stratega», sovraccaricato del merito d’aver prospettato, nell’organizzazione della guerra contro i saraceni, «l’idea di carri imbattagliati smontabili, semoventi, i quali si possono ritenere i precursori remotissimi degli attuali carri armati»21. A prescindere da tale proiezione avveniristica, sono questi «carri imbattagliati», che rappresentano l’evoluzione dei «carrocci» comunali trainati da buoi con lo stendardo e la campana, a essere tra le armi e macchine da fuoco protagoniste della «rivoluzione militare» che tra i secoli XV e XVI cambia la fisionomia della guerra. «Il carro di per se stesso era un’aggiunta di poco conto alla forza militare, ma la scoperta delle armi da fuoco cambiò le cose. Le armi da fuoco trasformarono i carri da ostacoli passivi in piattaforme di combattimento, mentre i carri diedero alle armi da fuoco quella protezione che loro mancava»22.

  Ivi, pp. 167-168.   Chase, Armi da fuoco, cit., p. 261.

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VII Il Sacro Romano Impero «Tradizionalmente», scrive Jacques Le Goff, «l’inizio dell’età moderna viene fatto risalire al XVI secolo e infatti si rilevano per lo meno due grandi fenomeni che segnano un nuovo periodo della storia dell’Europa, un cambiamento così importante da giustificare una diagnosi di modernità». L’uno «è l’apparire della Riforma», cioè «la fine dell’unità della religione» in una Europa «le cui due metà entrano in un conflitto spesso feroce tra cattolici e protestanti». L’altro fenomeno «sono le grandi scoperte, che cambiano in maniera radicale il posto dell’Europa nel mondo»1. L’inizio della modernità tradizionalmente accettato coincide con la scoperta del nuovo e quarto continente – al quale Amerigo Vespucci conferisce a buon diritto il proprio nome essendo stato lui a identificarlo – e con l’invenzione di mezzi bellici potenti per cui l’età moderna vede farsi agguerritissime le lotte che «lacerano, rovinano, assassinano l’Europa in una sorta di crescendo infernale, dalle guerre d’Italia del Rinascimento alla guerra dei Trent’anni»2. È l’anno 1526. Da un decennio sul trono di Spagna (Castiglia e Aragona unificate, più altre regioni ispaniche, Paesi Bassi e Napoletano) siede il giovane re Carlo V d’Asburgo (1500-1558), succeduto al nonno materno Ferdinando il Cattolico (1451-1516) e da sette anni anche imperatore del Sacro Romano Impero, essendo succeduto al nonno paterno Massimiliano I (1459-1519) alla sua 1   Jacques Le Goff, L’Europa medievale e il mondo moderno, Laterza, RomaBari 1994, pp. 37-38. 2   Ivi, pp. 49-50.

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morte. Egli è un re e imperatore sui cui domini, dopo la conquista dell’America, «non tramonta mai il sole» e che tra questi domini conta di includere anche il ducato di Milano della declinante dinastia sforzesca, avendo il suo esercito sconfitto a Pavia, nella battaglia del 23-24 febbraio 1525, l’esercito del re di Francia Francesco I di Valois (1494-1547), che dieci anni prima a Melegnano, nella battaglia del 13-14 settembre 1515, era invece uscito vittorioso. Le due guerre per la supremazia in Italia segnano complessivamente, nell’alternanza delle sorti tra Francia e Impero, sia il declino della cavalleria pesante, già iniziato nella «guerra dei cent’anni» dove gli arcieri inglesi hanno fatto strage dei cavalieri francesi, sia l’ascesa della fanteria e dell’artiglieria, quest’ultima potenziata dalla maggior gittata dei cannoni e quella invece accresciuta dalla forza massiccia di soldati come quelli tedeschi detti «lanzichenecchi» – da Landsknecht o «servi del paese» – che infrangono la reputazione d’invincibilità degli svizzeri. Gli «svizzeri», montanari emigrati a offrire la loro merce – l’arte di fare bene la guerra –, erano mercenari schierati in battaglia in quadrati di circa 6000 uomini, protetti sul fronte e sui fianchi da picchieri le cui lunghe picche d’acciaio costituivano una sorta di istrice che rendeva inefficaci le cariche della cavalleria avversaria; ma le loro compatte falangi non servivano per gli attacchi alle fortezze ed erano facilmente vulnerabili dal fuoco dei cannoni. Le formazioni dei tercios spagnoli sono invece raggruppamenti più flessibili, di circa 3000 uomini, dove il nutrito fuoco degli artiglieri prepara gli attacchi all’arma bianca di una fanteria scatenata. Tali formazioni e quelle dei lanzichenecchi fanno la supremazia degli eserciti ispano-imperiali. Ma la modernità dell’Europa nel XVI secolo è fatta anche di persistenti residui di Medioevo pure nel campo dell’arte militare: «accanto alla guerra di ampie proporzioni della fanteria spagnola e delle formazioni chiuse di lanzichenecchi altotedeschi o di svizzeri, con il loro codice marziale e le loro solide tradizioni tattiche, c’erano eserciti cittadini e milizie locali; accanto a sperimentati condottieri» c’erano «piccoli avventurieri del mondo delle antiche guerre feudali»3.   Karl Brandi, Carlo V, Einaudi, Torino 1961, p. 163.

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Per ciò che attiene alla patologia e alla terapia di guerra in tale contesto residuale, «le cure mediche che un soldato poteva attendersi per sanare le sue ferite e i suoi malanni erano certamente [ancora] rudimentali, ma, bene o male, c’erano sempre». Accanto a questo fai da te curativo della soldatesca, aperto alla solidarietà fra compagni di ventura e all’essere accuditi dalle donne al seguito, s’era però stabilita la consuetudine per cui «quasi tutti i condottieri di sperimentata fama avevano nelle loro compagnie un barbiere-chirurgo» personale. Due diversi modi di assistenza, uno in basso e uno in alto, si applicavano a una guerra che «in Italia, durante l’età rinascimentale, non fu affatto una guerra incruenta»: però fu meno cruenta che altrove, «di rado fu una guerra gratuitamente brutale». Raramente fu una mala guerra, come quella dove la chirurgia, anziché applicarsi a risanare, veniva applicata a tagliare la mano destra ai soldati fatti prigionieri onde garantirsi che essi non avrebbero potuto guerreggiare mai più. Tale «mala guerra» crudele, antitetica a quella che dava la palma della vittoria a chi sapeva meritarsela, «era del tutto estranea alla concezione della guerra [che] avevano gli italiani del tempo»4, in un contesto dove i capi militari – è quanto afferma Francesco Guicciardini (1483-1540) – concepivano la buona guerra come quella combattuta more italico5. Nel 1526 il barone tirolese Georg von Frundsberg (14731528), capo dei lanzichenecchi imperiali, passa le Alpi animato da odio antipapista, deciso a portare contro la «Roma bastarda» di papa Clemente VII, Giulio de’ Medici (1478-1534) animatore della Lega anti-imperiale di Cognac, la forza vendicativa di Carlo V e la propria furia di protestante arrabbiato. Al guado di Governolo sul Mincio, Giovanni de’ Medici (1498-1526), il nipote del papa che alla testa delle «Bande Nere» papali cerca di contrastare l’esercito dei «lanzi», è colpito a una gamba da un proiettile scagliato da un falconetto dell’artiglieria nemica. In breve tempo la ferita-frattura s’è trasformata in piaga e questa s’è volta al peggio. Giovanni dalle Bande Nere viene trasporta4   Michel Mallet, Signori e mercenari. La guerra nell’Italia del Rinascimento, Il Mulino, Bologna 1984, p. 203. 5   Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, per Lorenzo Torrentino, libro I, capitolo 18, Firenze 1561: vedi la ristampa Garzanti, Milano 1988, p. 135.

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to d’urgenza a Mantova, alla corte dei Gonzaga. Qui si provvede a convocare tempestivamente maestro Abramo, Abraham Porta­ leone senior, chirurgo ebreo di gran fama. La lesione, provocata da una «bocca da fuoco» che si crede trasmetta con la palla infuocata un veleno, è «avvelenata» a tal punto da rendere necessario il subitaneo «taglio» dell’arto offeso. L’amputazione, con il coltello e la sega, e l’emostasi, con il cauterio rovente, sono gli atti prescritti dalla chirurgia castrense; ma l’«avvelenamento» sopraggiunto, cioè la setticemia, è un passaggio obbligato verso la morte oppure è la complicanza iatrogena di un atto chirurgico che ha cercato di salvare il salvabile finendo per contraddire il supremo principio del primum non nocere? La fama dell’ottimo chirurgo si ribalta nell’infamia di avere avvelenato e ammazzato il ferito. Alcuni «sospettavano e sparsero che un ebreo, chiamato maestro Abramo», spinto dalla cristianofobia propria della sua razza e dall’arte del veneficio propria del suo mestiere, «l’aveva per ordine del duca di Mantova avvelenato»6. Giovanni de’ Medici «aveva messo a disposizione» di Niccolò Machiavelli (1469-1527) «le sue Bande Nere per realizzarne le idee sugli ordinamenti militari e i movimenti bellici», idee che il segretario mediceo aveva riversato nei sette libri Dell’arte della guerra. «Machiavelli vide bene che le dimensioni della guerra erano mutate». Aveva intuito, prima di altri, che in Italia si facevano le prove generali, sperimentali, di una mutazione bellica di ben più vasta portata: «furono infatti le dimensioni delle guerre d’Italia ad avere un’incidenza decisiva sul modo di fare la guerra in Europa»7. Se non un primato, almeno una priorità per l’Italia del Cinquecento. «La scoperta della polvere pirica è causa di grande innovazione nell’arte della guerra, ma deve trascorrere ancora molto tempo prima che i perfezionamenti balistici riescano a portare notevoli modificazioni nella tattica militare». Però la svolta impressa dalle bocche da fuoco alla chirurgia militare «prelude già a una stabile organizzazione del servizio sanitario in guerra. La gravità e profondità delle lesioni, il decorso vario e spesso singolare dei pro6   Giuseppe Yarè, Abramo Portaleone (senior), medico mantovano del secolo XVI, in «L’Educatore Israelita», XVI, 1868, pp. 4-5. 7   Mallet, Signori e mercenari, cit., p. 263.

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Fig. 6. Applicazione di cauterio (di cui si vedono in alto vari tipi) a una ferita d’arma da fuoco (da Hans Gersdorf, De chirurgia castrense, Francoforte 1527).

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Fig. 7. Amputazione di gamba al di sotto del ginocchio (da Gersdorf, De chirurgia castrense, cit.).

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iettili attraverso i tessuti, lo stritolamento e talora l’asportazione di interi segmenti d’arto, la penetrazione di frammenti d’abito nel tragitto della ferita, l’attrito e la contusione delle parti molli, la commozione del sistema nervoso con conseguente stato stuporoso rappresentano un complesso di fenomeni nuovi e imprevisti e costituiscono altrettante circostanze che richiedono nuovi metodi di applicazione e un più razionale indirizzo terapeutico. Da ciò l’impellente necessità di grandi interventi; e le amputazioni, che dapprima si praticavano eccezionalmente, sono per conseguenza imposte dalla gravità delle lesioni prodotte dalle novissime armi»8. Del fatto che le lesioni urenti aggiungono orrore all’orrore della guerra, fa esperienza diretta Ambroise Paré (1510-1590), «chirurgo di veste corta» (grado minore della chirurgia in Francia) che, al seguito dell’armata francese discesa nel 1537 in Piemonte per sostenere i diritti che Francesco I accampa sul ducato di Milano, nella cittadella di Susa s’imbatte in tre poveri soldati nemici «prostrati a terra contro un muro, interamente sfigurati, che non vedevano più né capivano, muti, con gli abiti ancora infiammati dalla polvere di cannone che li aveva bruciati». Un anziano militare sopraggiunto, dopo aver chiesto a Paré se aveva un mezzo per guarirli, alla risposta negativa estrae una lama e trancia la gola ai tre feriti gravi; e al chirurgo, che gli grida il proprio sdegno, risponde: «Se mai una simile disgrazia toccasse a me, pregherei Dio che qualcuno facesse a me la medesima cosa per non languire miserabilmente»9. Se Ippocrate aveva affermato che il mestiere di medico si esercita «tra escrementi e fetori», il ventisettenne chirurgien barbier formatosi nelle sale del parigino Hôtel Dieu, l’ospedale più grande di Francia, e aggregato all’armata transalpina, sperimenta che il mestiere di chirurgien militaire si esercita «tra il fuoco, il sangue e gli orrori». Vige, nella chirurgia militare che vede praticata dai colleghi (e che pratica egli stesso), l’impiego dei caustici e dell’olio bollente per scacciare il veleno che si pensa intossichi le 8   Arturo Casarini, La medicina militare nella leggenda e nella storia, collana medico-militare edita dal Ministero della Guerra - Direzione generale di Sanità Militare, vol. XX, Roma 1929, p. 186. 9   L’episodio è riportato da Paule Dumaître, Ambroise Paré, chirurgien de quatre rois de France, Perrin, Paris 1986, p. 50.

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ferite da fuoco, nella falsa credenza che queste siano da trattarsi come le morsicature di un cane rabbioso o di una serpe venefica. In alternativa a tale «nuovo» trattamento, tanto «eroico» quanto esso stesso urente e dolorosissimo, si cerca di contrastare l’azione del veleno presunto con il «vecchio» modo di provocare la suppurazione della ferita tramite il passaggio e ripassaggio in essa di un «setone» (filaccia di seta o tela fina o cordoncino di cotone imbevuto di bianco d’uovo e di resina) oppure di una listarella di lardo, introdotta nell’uso da Rolando di Parma per le ferite da freccia: «estratto il ferro, subito si prenda uno stuello di lardo e lo si introduca». Tra pratiche vecchie e nuove, Paré poco dopo, ad Avigliana, sotto le mura della fortezza assediata, ha modo di accrescere la propria esperienza ricavando da una osservazione del tutto occasionale una scoperta importante, della quale egli stesso ci fornisce il racconto. A quel tempo ero ancora un chirurgo in erba, perché non avevo ancora mai visto trattare le ferite da archibugio; è bensì vero che avevo letto in Giovanni da Vigo [1460-1525, autore del trattato De practica copiosa in arte chirurgica, pubblicato nel 1514] che le ferite fatte da armi da fuoco sono velenose a causa della polvere e che per curarle egli raccomanda di cauterizzarle con olio di sambuco nel quale sia mescolato un poco di teriaca [antidoto dai molti ingredienti, fra i quali il tritato di vipera]. E per non sbagliare, prima di usare il detto olio bollente, sapendo che tal cosa avrebbe arrecato al malato un dolore grandissimo, volli sapere, prima di applicarlo, come gli altri chirurghi facevano per la prima parte dell’operazione che consisteva nell’applicare il detto olio il più caldo possibile dentro le piaghe con bende e filacce; dopo di che mi azzardai a fare come loro. Alla fine però l’olio mi venne a mancare, e fui costretto ad applicare in sua vece un digestivo fatto di giallo d’uovo, olio rosato e trementina. La notte, non potei prendere sonno a dovere, pensando che, poiché non avevo provveduto alla cauterizzazione, avrei trovato i feriti cui non avevo applicato il suddetto olio bollente morti avvelenati: e questo pensiero mi fece alzare di buon mattino per andare a visitarli. Al di là di ogni speranza, trovai coloro ai quali avevo applicato il medicamento digestivo che quasi non avvertivano dolore per le piaghe, senza infiammazione né gonfiori, e che avevano ben riposato la notte; gli altri, ai quali era stato applicato il predetto olio, li trovai invece febbricitanti, con dolori grandissimi,

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gonfiore e infiammazione intorno alle ferite. E dunque decisi di non bruciare mai più in modo sì crudele i poveri feriti dalle archibugiate10.

Sono molti gli episodi che dimostrano in Paré la stoffa del buon chirurgo e le doti dell’acuto osservatore e dello sperimentatore in grado d’innovare. La sua specialità è ormai quella della nuova terapia delle ferite d’armi da fuoco. Sicuro del fatto suo, dà alle stampe un testo dedicato ai «giovani di buona volontà» definendo se stesso un «umilissimo chirurgo» digiuno di lettere, ma «esperto di coltello e scalpello». La sua esperienza di chirurgo militare è tutta trasfusa nelle pagine della Méthode de traicter les playes faictes par hacquebutes et aultres bastons à feu (Parigi 1545). Il testo è un manuale completo che tratta altresì della cura delle ferite «che sono fatte da frecce, dardi e simili, e anche delle ustioni fatte specialmente dalla polvere di cannone»; esso è una specie di vademecum del chirurgo militare, da considerarsi capostipite di una copiosa trattatistica11. Nel 1552 Paré è di nuovo aggregato a un’armata, quella che il re di Francia Enrico II (1519-1559) conduce verso est per riappropriarsi dei vescovati di Metz e Verdun, città francesi di lingua, ma soggette all’impero di Carlo V. L’esercito imperiale, contrattaccando, cinge d’assedio Metz (l’antica Mettis merovingia e poi lotaringia, contesa dalla Francia all’Impero). È qui, militando tra gli assediati, che il quarantaduenne chirurgo compie un’altra scoperta. A un cavaliere che ha una gamba sbrecciata da un proiettile dirompente, sparato da una grossa arma da fuoco, non cauterizza il moncone da cui zampilla il sangue, ma con mano lesta lega i vasi sanguigni come si usa fare ai feriti emorragici d’arma bianca. Prescinde dall’idea preconcetta dell’avvelenamento legato alla polvere da sparo. Il ferito sopravvive e l’usato metodo della legatura dei vasi, riservato fino ad allora a ferite da lancia o da spada, si impone 10   Il racconto di Ambroise Paré è riportato da Casarini, La medicina militare, cit., pp. 218-219. Quant’altro viene qui detto su di lui è tratto dalla biografia citata alla nota precedente. 11   Appartiene a questa numerosa trattatistica il De curandis vulneribus sclopetorum (Lione 1560) del medico piemontese Leonardo Botallo (1530-1587), il quale nega anch’egli che le ferite d’arma da fuoco siano venefiche. Vedi pure Laurent Joubert, Traité des arquebusades (Lione 1570).

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anche nelle ferite da moschetto o da colubrina, rivelandosi meglio tollerato, propizio a un decorso post-operatorio migliore e fautore di una maggior sopravvivenza. I tempi di evoluzione della chirurgia militare sono brevi o lunghi, a seconda dei casi. In questo caso sono lunghissimi, dal momento che sono trascorsi già tre secoli da quando Giovanni da Casamicciola aveva scritto: «Con un sottile ago di ferro o d’argento o di bronzo prendi una vena e al di sotto di essa fai passare un filo di seta, poi tiralo dall’altra parte e che la vena sia legata con due nodi onde il sangue non possa più uscire». Una scoperta è tale non solo se scopre cose nuove, ma anche se riscopre vecchie tecniche per applicarle in modo nuovo. È da questa chirurgia sperimentale del tempo di guerra, esercitata attraverso un «arrischiato provando e riprovando» e «al banco di prova del tentativo in corpore vili», che avanza tecnicamente e si perfeziona un’arte prossima a essere esercitata con successo anche in tempo di pace12. Appartiene a questa chirurgia sperimentale la pratica dell’anatomista e chirurgo bolognese Gaspare Tagliacozzi (1545-1599) che, forse memore dei suggerimenti di Celso, inaugura la plastica del naso (ma anche dell’orecchio e del labbro) in un’epoca in cui non si contano le ferite d’arma bianca in guerra e nei duelli. Prima della sua opera De curtorum chirurgia per insitionem (Venezia 1597), la rinoplastica era stata praticata soprattutto in Sicilia da chirurghi empirici appartenenti alla famiglia dei Branca. Dalla Sicilia era poi passata in Calabria, qui esercitata da cerusici della famiglia Vianeo di Tropea (magia tropoesiarum). Tagliacozzi le conferisce basi anatomiche consentendole un salto di qualità. Durante i due mesi dell’assedio di Metz le condizioni igienicosanitarie sono soddisfacenti per gli assediati, ma non lo sono affatto per gli assedianti, colpiti da un’altra epidemia di quelle che fanno da contorno alla guerra: la «peste castrense», il tifo petecchiale (esantematico) che si propaga tra individui parassitati da zecche o pulci, ma soprattutto dal pediculus humani corporis, il «pidocchio». La grave malattia, nota come «peste europea petecchiale», è stata portata in Italia dai lanzichenecchi diretti al Sacco di Roma nel 1527, 12   Vedi Luigi Firpo, Medici piemontesi del Cinquecento, saggio premesso al volume di Leonardo Botallo, Trattato sui doveri del medico e del malato, UTET, Torino 1982, pp. 22-23.

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ma in Europa si è diffusa dovunque si deteriorano in promiscuità le condizioni igieniche della vita associata, come negli accampamenti militari. Il fatto singolare è che a Metz le mura della città assediata sono una barriera d’isolamento che, mentre il contagio miete vittime tra le truppe imperiali assedianti, risparmia le truppe francesi assediate cui Paré presta la sua opera di valente chirurgo. La chirurgia di Paré, al passare dalla sperimentazione nei teatri di guerra alla routine quotidiana nelle sale ospedaliere, viene fornita di basi metodologiche e tecniche, elaborate anche con forma mentis teorica. Paré è ora il «chirurgo di veste lunga» equiparato in grado ai medici-fisici addottorati e accreditato di competenza magistrale per i suoi Livres de la chirurgie – dieci nel 1564, cinque nel 1572, due nel 1573 – che dicono tutto quel che c’è da imparare per fare bene il mestiere. Nominato chirurgien ordinaire du roi, Paré lo è stato solo nominalmente di Francesco I e purtroppo inutilmente di Enrico II, ucciso nel 1559 in torneo da una lancia che gli ha trapassato il cranio infilandosi sotto la visiera metallica: il trattato del «chirurgo del re» sulla Méthode curative des playes et fractures de la teste humaine (pubblicato a Parigi nel 1561) è giunto in ritardo per giovare, se mai possibile, al sovrano. Altrettanto inutilmente Paré è stato chirurgo dell’effimero re sedicenne Francesco II (1544-1560), stroncato prematuramente dalla malattia di famiglia dei Valois, la tisi. Affetto dalla medesima malattia, il giovane re Carlo IX (15501574) ripone fiducia nei consigli del suo «chirurgo ordinario». Tra uno sbocco di sangue e l’altro, lo interroga ansioso sulle proprie possibilità di guarigione e sui segreti di Paré per guarirlo. Il chirurgo risponde al sovrano con il motto divenuto famoso: «Sire, solo Dio guarisce, io curo». È forse in virtù di questo privilegiato rapporto tra curante e curato che Carlo IX, nel dare il via alla «notte di San Bartolomeo» (22 agosto 1572) con il massacro della gente ugonotta cui appartiene Paré, grida a Enrico di Guisa (1550-1588), detto «lo Sfregiato» e capo del partito cattolico esecutore della strage, l’altrettanto famoso, o infamante, ordine perentorio, tramandatoci dal memorialista Pierre Brantôme: «Uccideteli! Uccideteli tutti... tranne Ambroise Paré». I regnanti Valois sono, nel Cinquecento, nemici storici degli Asburgo imperanti. Però i massimi esponenti delle due dinastie

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rivali nutrono, gli uni e gli altri, un odio che li accomuna. L’odio dei «cristianissimi» re di Francia verso gli ugonotti è lo stesso odio verso i luterani da parte del defensor fidei che è a capo dell’Impero. Il dipinto di Tiziano Vecellio (1548) che immortala Carlo V a cavallo, con l’elmo e la lancia, dà testimonianza iconografica della vittoria del grande imperatore nella battaglia di Mühlberg (24 aprile 1547), riportata sulla Lega di Smalcalda dei principi protestanti. La lunga ondata di guerre del XV secolo, che tra l’altro ha visto espandersi la potenza ottomana (dopo la presa di Costantinopoli nel 1453) assumendo dimensione imperiale e invadenza mediterranea (fino alla battaglia navale di Lepanto del 1571), è continuata nel secolo successivo, cadenzato da una sequenza pressoché ininterrotta di eventi bellici. Oltre alle guerre tra Francia e Impero per l’egemonia in Italia e successivamente in Europa, si sono susseguite le guerre tra l’Inghilterra di Enrico VIII Tudor (1491-1547) e i tradizionali nemici francesi, poi quella della di lui figlia Elisabetta I (1533-1603) contro la Spagna e quella per l’indipendenza da quest’ultima dei Paesi Bassi. Senza contare le guerre di religione, interne a Francia e Germania, veri e propri «simboli di crudeltà»13. Sullo sfondo di questo cruento panorama si è disegnato, nella prima metà del secolo, il grande sogno di monarchia universale concepito da Carlo V, un sogno che, dopo l’abdicazione di Carlo nel 1556, si è spezzato nella spartizione del Sacro Romano Impero tra il fratello di lui Ferdinando I (1503-1564) con i suoi successori, dominanti con titolo imperiale su Germania, Austria, Boemia, Ungheria, e il di lui figlio Filippo II (1527-1598), regnante su Spagna e terre d’oltreoceano e su Paesi Bassi, Franca Contea, Stato di Milano, Regno di Napoli, Sicilia, Sardegna. In un crogiuolo di ferro e di fuoco si rifonde e rifonda l’Europa. Sullo sfondo del medesimo cruento panorama, peraltro con diversificazioni di tempo e di luogo, si ridisegna il quadro della sanità militare europea. Tende a cambiare la disciplina e con essa tendono a cambiare le «pratiche che potevano avere un lato disciplinare e [un lato] etico-sanitario». Per esempio, «è a preoc13   David El Kenz, La civilizzazione dei costumi e le guerre di religione: una soglia di tolleranza ai massacri, in Id. (a cura di), Il massacro nella storia, UTET, Torino 2008, p. 95.

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cupazioni igieniche, e non soltanto etico-umanitario-disciplinari, che si ispiravano i divieti relativi ai saccheggi» poiché «oggetti d’ignota provenienza portati negli accampamenti potevano favorire le epidemie». Agli stessi criteri sono ispirate le norme sui «rapporti sessuali indiscriminati [che] facevano correre ai reparti il rischio della blenorragia e della lue»; e ancora a criteri igienici «s’ispirava la normativa riguardante l’igiene personale e collettiva, la costruzione delle latrine, il seppellimento degli animali morti, la distruzione col fuoco dei rifiuti»14. Se militare nell’esercito è un’attività che tende ad assumere una funzione anche disciplinare e pedagogica, l’ambito in cui tale funzione si esplica tende a sua volta ad assumere una fisionomia e una valenza igienica. L’indisciplina di svizzeri e lanzichenecchi apriva varchi all’ubriachezza, alla sporcizia, ai contatti carnali suscettibili di trasformarsi in contagi venerei; ma il passaggio dai mercenari ai coscritti, arruolati con chiamata alle armi e comandati da severi ordini di servizio, favorisce la transizione verso un maggior ordine anche sanitario. Tale nuovo ordine sanitario, che attiene altresì al comportamento, si manifesta in modo emblematico anche nell’abbigliamento: mentre nelle vocianti «fanterie svizzere e soprattutto nei lanzichenecchi il fasto dei colori e l’arbitrio degli ornamenti» erano la divisa di «guerrieri parati come galli da combattimento», tutt’al contrario «i moschettieri francesi e le guardie nobili spagnole avevano qualcosa di molto simile a un’uniforme, la caratteristica giacca-mantellina detta casaque»15. In campo militare – così come in campo civile, dove gli ordinamenti antiepidemici promulgati dai magistrati di sanità precorrono la partecipazione sistematica a tali magistrature e ai relativi uffici da parte dei collegi professionali – l’adeguamento dell’organico sanitario alle nuove esigenze è peraltro frammentario e notevolmente ritardatario. Nel 1415 il re d’Inghilterra Enrico V (1387-1422), vincitore ad Azincourt e conquistatore della Normandia, disponeva per il suo formidabile esercito sbarcato d’oltremanica di un unico chi  Franco Cardini, Quell’antica festa crudele, Sansoni, Firenze 1982, p. 174.   Ivi, p. 173.

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rurgo, Thomas Morstede (1380-1450), coadiuvato da appena una dozzina di aiutanti; perdurando l’assoluta deficienza di personale sanitario, fu costretto a ordinare allo stesso Morstede di imbarcare manu militari tutti i chirurghi di cui ritenesse valersi. Ma centoquarantadue anni dopo, nella battaglia di Saint Quentin del 1557, l’esercito inglese alleato degli spagnoli «disponeva in tutto di 57 chirurghi»16. I costi economici di questa evoluzione secolare sono sostenibili solo da stati accentrati e finanziariamente dotati. Con il delinear­ si prima e lo stabilizzarsi poi del moderno assetto dell’Europa, in seno a tali stati si organizzano meglio gli eserciti e in seno a essi si organizzano meglio i servizi sanitari. Nell’ambito del Sacro Romano Impero, dove già Massimiliano I aveva «istituito una gerarchia sanitaria militare con la creazione degli Oberstfeldarzt» o colonnelli medici da campo, sotto il nipote Carlo V «continuavano a impiantarsi in campagna ospedali sotto le tende con personale di medici, assistenti e infermiere, le quali facevano vita in comune con i soldati». In Spagna, già l’altra ava di Carlo, Isabella «la Cattolica» (1451-1504), assai sollecita nel garantire assistenza all’esercito impegnato nella guerra contro i Mori del superstite regno andaluso (cessato con la resa di Granada nel 1492), aveva provveduto a dotare le truppe assedianti nel 1489 la città di Baza di «seis tendas grandes para los feridos y infermos», cioè di un ospedale da campo dove potessero operare «fisicos y cirujanos», medici e chirurghi17. Fra le truppe spagnole, peraltro, «un vero e proprio servizio medico può cominciare a profilarsi con il tercio, che ammetteva un medico ogni mille soldati» anche se «ai soldati spagnoli [come a quelli di altri eserciti] interessavano di più le prostitute dei medici». Comunque «né francesi né inglesi conoscevano la pratica di medici direttamente assunti dall’esercito: il ferito era soccorso nella misura del possibile dai compagni dotati di esperienza e dai civili – specie le donne – al seguito delle truppe. Ma a metà Cinquecento si registra proprio in Francia un certo progresso, grazie sia all’ammiraglio Coligny, che cercò di costituire un fon-

  Casarini, La medicina militare, cit., p. 231.   Ivi, p. 232.

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do per l’impianto di ospedali militari, sia a un notevole interesse medico che si era andato sviluppando intorno alle ferite d’arma da fuoco»18. Sono le armi da fuoco – come già si è visto – a produrre il salto di qualità e quantità nella medicalizzazione degli eserciti. Quanto all’«amiral» Gaspard de Coligny (1519-1572), ugonotto generale in capo della fanteria francese che nelle Fiandre strenuamente difende Saint Quentin dagli spagnoli di Emanuele Filiberto (15281580) duca di Savoia, il valore in battaglia, lo spirito patriottico e la benemerenza di avere promosso l’ospedalizzazione militare non lo risparmiano dall’essere trucidato nella notte di San Bartolomeo. Ne1 1589 l’ultimo Valois re di Francia, Enrico III (1551-1589), che con la madre Caterina de’ Medici (1519-1589) è stato uno dei promotori del massacro degli ugonotti, viene colpito a morte dalla mano omicida di un monaco esaltato, Jacques Clément, che gli immerge a viva forza una lama nel basso ventre. Nel 1610 il primo Borbone re di Francia, Enrico IV di Navarra (1553-1610), promotore nel 1598 dell’editto di Nantes che concede la libertà di culto agli ugonotti, è ripagato di tale pacificazione religiosa dalla vendetta di un cattolico fanatico, François Ravaillac, che lo accoltella nei pressi della Bastiglia ponendo fine alla sua vita. Paradossalmente, è sempre un’arma bianca lo strumento del regicidio, in un paese che ha visto l’apporto dei metodi curativi di Paré e in una età che ha visto le armi da fuoco imporsi quali mezzi di offesa e di distruzione di massa. L’abdicazione di Carlo V ha, da un lato, fatto seguito alla pace di Augusta nel 1555 con i luterani tedeschi, la quale ha sancito, con la divisione religiosa della Germania, la dissolvenza del sogno carliano di una renovatio imperii nel segno dell’unità e universalità cristiano-cattolica. L’abdicazione del grande imperatore ha, d’altro lato, preceduto di appena un triennio la pace di Cateau Cambrésis, nel 1559, che ha posto fine alle guerra tra Francia e Spagna prefigurando l’ascesa dell’una e il declino dell’altra, come sarà percepito cinquant’anni dopo, nel 1610, all’inizio del regno di Luigi XIII (1601-1643). In tale semisecolo il Sacro Romano Impero non è più nient’altro che un mito, destinato al tramonto.

  Cardini, Quell’antica festa crudele, cit., pp. 180-181.

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VIII Mali di guerra e genocidi Al passaggio tra XVI e XVII secolo la medicalizzazione degli eserciti è una realtà già avviata o inoltrata. «Fu tuttavia necessaria la razionale organizzazione dei grandi eserciti permanenti, dopo la metà del Seicento, perché la medicina militare ottenesse il ruolo che le spettava; accanto a essa, si sviluppava la veterinaria militare, importante in eserciti che avevano parecchia cavalleria e molti fra cavalli e muli adibiti ai trasporti. Del resto, la veterinaria aveva una grande tradizione già affermata nei trattati medievali di mascalcìa»1. La figura del medico – qui intendendosi quella del «phisico» che ha studiato sui libri e fatto pratica sui corpi («i veri libri sono i malati», diceva Paré) – è, con la figura del prete, una presenza costante nell’esercito inglese. Tale compresenza non stupisce se si pensa che nelle due figure si incarnano gli esercenti di due mestieri – «mestiere» da ministerium – che da sempre sono i più coinvolti nelle umane vicende cruciali. D’altronde un’unica voce – salus – indicava sia la «salute» del corpo che la «salvezza» dell’anima. Ma «il medico militare non era importante solo per curare le ferite». I problemi sanitari di un esercito non si esauriscono nella traumatologia. Ci si rendeva perfettamente conto di quanto «l’igiene fosse di primaria importanza per le armate». Appariva sempre più evidente che i nemici più temibili per i soldati erano i parassiti, i contagi, le infezioni, le suppurazioni. «Si moriva più per le ferite 1   Franco Cardini, Quell’antica festa crudele, Sansoni, Firenze 1982, p. 181. I corsivi sono miei.

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riportate e mal curate [spesso complicate da setticemia] o per le malattie contratte e i loro postumi, che non in battaglia»2. Le malattie epidemico-contagiose contratte – oltre al tifo tipicamente «castrense», che nel 1606 è noto anche come morbus hungaricus perché diffuso nell’esercito imperiale che in Ungheria si oppone all’avanzata dei turchi – sono le gastroenteriti infettive e le tossicosi gastroenteriche, le une e le altre accorpate nel complesso morboso della «dissenteria», malattia che è detta «svilupparsi sotto l’influenza dell’ammucchiamento, del sudiciume, della tristezza [d’animo] e del cattivo nutrimento», così come si sviluppa nelle carceri, donde l’altro suo nome di «tifo carcerale»3. Soldato accampato, soldato carcerato, si dirà. Nel 1547 «la febbre petecchiale grave danno fece all’esercito di Carlo V condotto contro i principi di Germania ribelli e protestanti» e nel 1538 «gravi dissenterie avevano devastato l’intera Europa». Tra le due date della cronaca epidemiologica, l’anno 1543 – quello stesso in cui il medico-chirurgo fiammingo Andrea Vesalio (15141564) ha pubblicato a Basilea i sette libri De humani corporis fabrica, basi fondative dell’anatomia moderna – ha meritato il nome di annus epidemicus4. Senza contare le ricorrenti pesti bubboniche e la serpeggiante sifilide, detta anche «mal serpentino», nuove malattie si sono selezionate nel grande laboratorio della natura, facilitate dalle concause e contingenze belliche occorrenti nel grande laboratorio della storia. È cominciato ad affiorare o a riaffiorare, in forma endemica o circoscritta, il vaiolo, denunciato in più luoghi negli anni 1536, 1544, 1572, 1575. Ha fatto la sua prima comparsa l’«influenza» (cosiddetta perché la si credeva dovuta all’influenza degli astri), definita al suo apparire «morbo popolare però non pestisimile perché affezione senza morte»5. D’influenza non si moriva, però chi cadeva affetto da tale epidemica «febbre con catarro», accom  Ibid.   Vedi il Dizionario dei termini di medicina, edito per cura del dottor fisico Giovanni Battista Fantonetti, Società degli Editori degli Annali Universali delle Scienze e dell’Industria, Milano 1849, p. 449. 4   Vedi Annali, pp. 472, 482, 493. 5   Da una lettera del medico bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605), in data 6 agosto 1580, conservata presso la Biblioteca dell’Università di Bologna. 2 3

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pagnata da «mal della zucca» acerbissimo, era costretto a letto e a una non breve convalescenza: il soldato «influenzato» e debilitato era messo fuori combattimento anche senza combattere. Una epidemia d’influenza nel campo nemico valeva assai più di una manovra bellica di logoramento. Insieme al problema delle cure da prestare ai soldati malati, «attendevano una soluzione anche altri problemi sociali legati alla guerra: quelli degli invalidi, dei vecchi militari divenuti incapaci di lavorare perché mutilati e privi di mezzi» di sussistenza. «Il reduce costretto a mendicare è un topos della letteratura moderna», di cui fornisce esempi nei suoi Colloqui Erasmo da Rotterdam (1466-1536). «Tuttavia, fra Cinquecento e Seicento, si cominciarono a predisporre delle soluzioni almeno parziali a quest’ordine di problemi»6, ad opera sia degli uomini di governo, operativi dall’alto, sia, soprattutto, di alcuni reduci di guerra, operanti dal basso, artefici di iniziative destinate ad avere successo. Essi sono testimoni delle mutilazioni e lesioni subìte dai loro compagni d’armi, o anche da loro stessi, e sono edotti per diretta esperienza dei problemi di cui sopra. In più, hanno una vocazione caritativa necessaria per «far del bene». Juan Ciudad (1495-1550), dopo essere andato itinerando per mezza Europa come soldato nell’armata spagnola, è diventato uno di quelli che Erasmo avrebbe detto afflitti da «pazzia» ma meritevoli di «elogio»: ha meritato il nome di «Giovanni di Dio», fondatore dei «fatebenefratelli» prodighi di assistenza agli infermi. Camillo de Lellis (1550-1614), che si autodefinisce un «soldataccio», dopo essersi arruolato nell’esercito veneziano all’indomani di Lepanto ed essere scampato alla prigionia in mano turca dopo la caduta di Tunisi, vive al romano «Hospidale di San Giacomo degli Incurabili» l’esperienza prima dell’infermo costretto a curarsi un’ulcera corrosiva cronicizzatasi in piaga, poi quella del «frate humile» che ha imparato su se stesso come curare le piaghe e ogni altro male inveterato, infine quella del «maestro di casa» che conosce il modo di organizzare l’assistenza agli aventi bisogno come – tra gli altri – gli ex militari ciechi, storpi, motulesi, minorati,   Cardini, Quell’antica festa crudele, cit., p. 182.

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che vanno per le strade questuando pietà ed elemosine. Nel 1582 Camillo è fondatore della «Compagnia dei Ministri delli Infermi»7. In questo stesso ordine di problemi di assistenza, la riabilitazione dei disabili è una faccia della pregiata moneta che sull’altra faccia contempla la protezione dei sani. In tale pratica preventiva rientrano le ordinanze che nella prima metà del Seicento mirano a contenere il diffondersi delle malattie veneree, legate a una prostituzione femminile che in seno agli eserciti è sempre più dilagante. Un tentativo di prevenzione è attuato senza profitto dal re svedese Gustavo Adolfo (1594-1632), colui che fa della Svezia una grande potenza militare con predominio sul Baltico e consolidamento nell’Europa continentale. Nel 1621 egli fa interdire la presenza negli accampamenti delle donne che non siano maritate, con il risultato non già di ridurre i contagi, ma di moltiplicare i matrimoni eludenti l’interdizione: «in quattro compagnie svedesi dell’effettivo di 690 uomini si contavano 650 femmine e 900 figli illegittimi», poi legittimati tramite matrimonio. Nel 1632 Albrecht von Wallenstein (15831634), il principe boemo vessillifero di una lega cattolica contro la Svezia e sconfitto da Gustavo Adolfo nella battaglia di Lutzen di quell’anno, può imputare la sconfitta subita alle «oltre 15.000 donne di malaffare [che] pullulavano» nel suo campo8. La «guerra dei trent’anni» (1618-1648), di cui il re di Svezia e il principe di Wallenstein sono, in campi opposti, fieri protagonisti, è detta costituire «il rovesciamento del codice ereditario [della guerra] relativo all’ordine sociale, morale, sessuale. Questa guerra, come precedentemente quella dei contadini [protestanti, insorti contro Carlo V], era la vittoria della forza bruta e cieca sull’autorità: c’era un pullulare di familiari, bande di donne e bambini erranti al seguito delle armate» e «c’era, infine, la sregolatezza sessuale, il regno delle prostitute che esercitavano un potere sovrano sui soldati»9. 7   Vedi P. Sanzio Cicatelli, Vita del P. Camillo de Lellis, fondatore della Religione de’ Chierici regolari Ministri dell’Infermi, Viterbo 1615, ristampa a cura del P. Piero Sannazzaro, Roma 1980. 8   Vedi Arturo Casarini, La medicina militare nella leggenda e nella storia, collana medico-militare edita dal Ministero della Guerra - Direzione generale di Sanità Militare, vol. XX, Roma 1929, p. 246. 9   Claire Gautet, Il massacro della guerra dei Trent’anni (1618-1648), in Il massacro nella storia, a cura di David El Kenz, UTET, Torino 2008, p. 107.

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Nel 1648 la pace di Westfalia mette fine alla guerra trentennale che ha insanguinato, con la Germania, la Danimarca e la Boemia, la Borgogna e l’Italia nord-occidentale. È stata una guerra destinata a restare, nella memoria europea, come un trentennio di violenze «inaudite», non mai udite né viste prima d’allora. L’anno conclusivo del massacro mitteleuropeo è un anno di bilancio non solo demografico, registrante uno spopolamento della Germania pari al 30% dei suoi abitanti, ma anche epidemiologico per quanto attiene alla patologia venerea: si calcola che «il numero delle prostitute che seguivano gli eserciti avesse raggiunto il doppio delle forze delle milizie» e si prende atto che «questa masnada di femmine rappresentava un permanente pericolo d’infezione per i soldati». Tuttavia «le ordinanze più rigorose furono impotenti a reprimere tale flagello, che perdurò per tutto il secolo XVII»10. Sugli eserciti quali veicoli di pestilenze e amplificatori di epidemie contagiose, la storiografia militare e quella medico-sanitaria sono ricche di esempi. La peste bubbonica del triennio 1629-31 – quella perpetuata nella memoria collettiva dalla letteratura manzoniana – è portata in Italia dai lanzichenecchi, discesi dalle valli alpine nella pianura lombarda per rivendicare i diritti imperiali sul ducato di Mantova dopo il tramonto dei Gonzaga. I «lanzi» devastano e saccheggiano, come cent’anni prima al «sacco» di Roma. Spargono, al loro passaggio, minacce di morte che mettono in fuga la popolazione delle campagne. Essi sono portatori di un mortale contagio al quale non si sfugge. La gente, scampata a una morte aleatoria per fame e per guerra, trova, nella città di Milano affollata e moltiplicante il contagio, una morte certa per peste. A Milano, l’estate del 1630 segna l’acme di una morìa di peste che, dalle prime avvisaglie nello scorcio del 1629 alle ultime sequele nel 1631, viene calcolata in 86.000 anime su 150.000 abitanti, pari a circa il 57% di una popolazione che nel gennaio 1632 conta solo 64.000 sopravvissuti11. Stragi epidemiche di ancor più vasta penetranza sono state quelle sofferte dalle popolazioni amerindie per opera dei conqui  Vedi supra la nota 8.   Vedi Giuseppe Ripamonti, La peste di Milano del 1630 (1640), a cura di Francesco Cusani, Perotta, Milano 1841, ristampata da Forni, Bologna 1977, p. 204. 10 11

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stadores. Tali stragi sono viste, nel loro insieme, come un genocidio pacifico superiore al massacro bellico compiuto dagli stessi «conquistatori» del Nuovo Mondo. Di fronte agli armati spagnoli le popolazioni indigene erano doppiamente inermi: in primo luogo perché non armate come loro (prive di lame d’acciaio e di armi da fuoco) e perché letteralmente «imbelli» (prive di mentalità bellica); in secondo luogo perché biologicamente indifese, sprovviste di anticorpi nei confronti degli antigeni morbosi o germi di malattia provenienti dal Vecchio Mondo. L’arrivo dei soldati europei provocò uno squasso immunitario definito shock biologico della conquista, in conseguenza del quale milioni di indigeni andarono incontro a una immane morìa, provocata dallo sconvolgimento della loro immunità naturale da parte di malattie a loro sconosciute, quali soprattutto il vaiolo e il morbillo12. Furono queste le malattie con cui gli spagnoli ricambiarono lo sgradito dono della sifilide del quale s’è detto. Furono esse ad annientare un paio di generazioni di aztechi, maya e incas, contribuendo alla destruyción de las Indias certificata nel 1552 dal frate domenicano Bartolomé de Las Casas (1474-1566)13. Il vaiolo, esploso nel 1507 a Hispaniola (Haiti), fu il protagonista indiscusso di un vero olocausto, le cui tappe epidemiche segnarono un ventennio terribile. La malattia raggiunse dapprima lo Yucatán, successivamente le isole dell’arcipelago caraibico, poi il Messico. Qui «l’epidemia del 1520-1521 non fu che l’inizio». L’Europa «aveva malattie più virulente di quelle delle Americhe, a causa, tra l’altro, della più alta densità di popolazione e di un maggior numero di animali addomesticati», tali da facilitare quel 12   Vedi Giorgio Cosmacini, America ed Europa: il mutuo «descubrimiento» medico-sanitario, nel volume collettaneo Tra due sponde: Europa ed America ispanica. Dalla scoperta alla conquista, Società siciliana per la storia patria, Palermo 1993. «Le cause prossime che portarono alla conquista del Nuovo Mondo da parte dell’Europa» furono, per Jared Diamond, le tre che danno il titolo al suo volume Armi, acciaio e malattie, Einaudi, Torino 1998. 13   Vedi Massimo Livi Bacci, Conquista. La distruzione degli indios americani, Il Mulino, Bologna 2005. Grande importanza ebbero il tuono e la folgore, cioè lo sparo e il fuoco dei fucili, segni della divinità, e la presenza dei cavalli, animali sconosciuti e misteriosi così come misteriosi e sconosciuti erano gli uomini di pelle bianca, visti come extraterrestri. Con le malattie, fu il panico, non furono le armi, a sopraffare la popolazione indigena.

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salto interspecifico dei germi, dagli animali all’uomo, che oggi sappiamo accrescere la virulenza delle malattie contagiose. «Il vaiolo, il morbillo e altre malattie distrussero la popolazione indigena delle Americhe, riducendola di circa il 95% in un secolo. Le perdite catastrofiche tra la popolazione superarono di gran lunga gli effetti della Morte Nera di due secoli prima»14. La marcia progressiva del vaiolo raggiunse infine, nel 152526, il Guatemala e il Perù. Come aveva favorito al nord l’impresa conquistatrice di Hernán Cortés (1485-1547), così favorì al sud l’analoga impresa di Francisco Pizarro (1476 ca.-1541). Gli antichi imperi dei popoli precolombiani ne uscirono destabilizzati. «Il grande Montezuma II [1466-1520], colpito dal funesto hueyzahu¯atl [vaiolo] proprio quando era sul punto di sopraffare gli spagnoli, perì insieme alla maggior parte dei suoi permettendo a Cortés di ribaltare la situazione». In Perù «si ripeté quanto già accaduto in Messico: il male del mais [come il vaiolo era chiamato dai locali poiché le sue pustole ricordavano loro i chicchi del mais] è il tremendo partner che consentì a Pizarro di sopraffare le popolazioni native»15. Come l’impero azteco, così l’impero incas non cadde per l’esiguo numero degli assalitori spagnoli, ma per l’alta numerosità dei contagi di cui questi erano portatori. Il massiccio spopolamento del continente amerindio fu addirittura totale ed emblematico laddove il vaiolo aveva fatto il suo esordio: «all’arrivo di Colombo, l’isola Hispaniola contava circa 100.000 abitanti; un secolo dopo, il numero degli indigeni sopravvissuti era ridotto a 200»16. Al depauperamento demografico concorse anche il morbillo, non meno funesto nonostante il diminutivo – «piccolo morbo» – che invano ne minimizzava la ferocia. In seguito, nel corso del Seicento, infuriano altre malattie d’importazione, aggiuntive a 14   Kenneth Chase, Armi da fuoco, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2009, p. 136. 15   Maria Anna Causati Vanni, Il vaiolo nella storia, in Il vaiolo e la vaccinazione in Italia, a cura di A. Tagarelli, A. Piro, W. Pasini, vol. I, La Pieve Poligrafica, Villa Verucchio (Rimini) 2004, pp. 70-71. 16   Charles Coury, La medicina dell’America precolombiana, Ciba-Geigy Edizioni (Editions Roger Dacosta), Paris 1982, pp. 121-122.

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quelle autoctone. Malattie sopraggiunte sono quelle influenzali e tifoidee, tra cui la solita «febbre petecchiale» chiamata dai soldati spagnoli tabardillo. Sono, per gli indigeni, tutte quante esiziali. «L’indiano muore così facilmente», scrive ancora nel 1699 un frate missionario, «che basta la vista o l’odore di uno spagnolo per fargli rendere l’anima a Dio»17. Allo svuotamento del continente americano centro-meridionale i coloni spagnoli e portoghesi sopperiranno travasandovi milioni di schiavi neri, più resistenti e quindi più disposti a sopravvivere, a moltiplicarsi, a fornire manodopera. È così che in America verrà a costituirsi una seconda Africa, con una malattia infettiva in più, la «febbre gialla» o «tifo amarillico» (una epatite maligna trasmessa da una zanzara), chiamata anche «vomito negro». Le galere della tratta dei neri in America – l’oro nero della forza-lavoro gratuita – appartengono alla stessa flotta dei galeoni che da oltre un secolo portano in Spagna l’oro e l’argento che hanno reso la terra amerindia degna del mitico nome di el Dorado e il tempo di Filippo II e dei suoi successori degno del nome più prosaico di siglo de oro. Ma nei porti dove approdano le navi recanti in Europa le ricchezze d’America sbarca anche, dopo el mal de Hispaniola o sifilide, «la corteccia delle cortecce, la cui storia, spesso confusa e dubbia, è stata più volte romanzata»18. Fuori dalla realtà romanzesca e dalle dicerìe leggendarie, la corteccia di una pianta peruviana – poi battezzata Cinchona officinalis dalla tassonomia di Karl von Linné, Linneo (1707-1778) – è la «scorza da masticare» o quina-quina da tempo appartenente alle costumanze degli indios, che ne facevano largo uso come panacea. Passata dalle mani dei conquistadores a quelle dei loyolitas, dai padri gesuiti essa viene certificata come rimedio sovrano contro le febbri perniciose, con l’avallo del medico Pedro Barba, curante del cardinale infante Ferdinando (fratello del re di Spagna Filippo IV), che ne indica i pregi nell’opuscolo Vera praxis ad curationem tertianae pubblicato nel 1642. La pregiata corteccia viene prontamente commercializzata dalla Compagnia di Gesù in regime di   Vedi supra la nota 12. La citazione è alle pp. 310-311.   Coury, La medicina dell’America precolombiana, cit., pp. 247-248.

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monopolio: confezionata in polvere nelle varie spezierie, con al primo posto quella del Collegio romano, essa viene reclamizzata come «polvere del cardinale» e consumata su vasta scala. In effetti, la «china» esplica un’utile azione medicamentosa in virtù – oggi sappiamo – del suo contenuto in «chinina», alcaloide dotato di proprietà antipiretica. Un secolo prima, il guaiaco, «legno santo» antiluetico anch’esso di derivazione amerindia, aveva suscitato la speranza di confermare la presunta verità dell’aforisma ippocratico-galenico ubi morbus, ibi remedium, «dove nasce la malattia, la c’è la medicina»: la sifilide era venuta dalle Americhe, di là veniva il rimedio per combatterla. Ma la corteccia del guaiaco, quantunque commercializzata e distribuita in Europa dai Fugger, i potenti mercanti di Augusta e banchieri dell’Impero, aveva deluso le aspettative non compensando affatto il danno inferto dalla sifilide alla popolazione europea. Viceversa, nel Seicento la china, «polvere dei gesuiti» proveniente dal Perù, ricambia, come farmaco efficace contro le febbri d’ogni sorta, il danno delle tante malattie epidemico-contagiose febbrili trasferite dal Vecchio al Nuovo continente manu militari. Quanto alla medicina e alla sanità militari, in Europa il bilancio e la svolta di metà Seicento sono accompagnati o seguiti da un considerevole passo in avanti. Nella Francia dei Borbone, che ascende al ruolo di maggior potenza europea, nel campo della riorganizzazione medico-sanitaria dell’esercito s’impone la politica riformatrice di grandi statisti quali, nell’ordine, il duca di Sully (1560-1641), il cardinale Richelieu (1585-1642), il cardinale Mazarino (1602-1661), artefici del seicentesco espansionismo francese, seguiti da Michel Le Tellier (1603-1685), intendente dell’esercito d’Italia e segretario di Stato per la guerra, e dal di lui figlio François-Michel, marchese di Louvois (1641-1691), ­anch’egli segretario di Stato per la guerra e autore di un sistematico riassetto dell’apparato militare. Maggior rilevanza assumono gli ospedali da campo e l’organizzazione di sgombero nelle retrovie dei feriti più gravi, opportunamente barellati. Richelieu, nel solco umanitario tracciato dal Sully (ugonotto come Paré), è fautore di ospedali militari permanenti dove i soldati possano ritrovare una piena salute: «faceva maggiore assegnamento su 2000 soldati dimessi guariti dall’ospedale, già rotti al mestiere, che su 6000 giovani reclute inesperte». A questo

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scopo ritiene di dover affidare la direzione di tali ospedali «a un chirurgo in capo che prese il nome di chirurgien major des camps et des armées»19. La nomina di un chirurgo in posizione ospedaliera apicale contribuisce alla promozione di rango dell’intera categoria, svincolandola definitivamente dalla mortificante consorteria con i barbieri. Il cardinale Mazarino enuncia il principio che «nessun altro più efficace provvedimento può tenere elevato il morale del soldato quanto il vedersi fatto oggetto di premure se malato o ferito» e, nell’impartire disposizioni perché ciò non resti lettera morta, raccomanda di «non dimenticare nulla» avvisando «non esservi cosa che io desideri più ardentemente»20. Dal canto suo Le Tellier batte e ribatte cassa al ministero delle Finanze perché «i fondi degli ospedali [militari] non sono cose meno urgenti delle altre»; e Louvois, «per meglio disciplinare il funzionamento degli ospedali [predetti]», dispone che sia «a ciascuno di essi assegnato un intendente, responsabile del buon uso delle somme stanziate» e avente «l’obbligo di invigilare specialmente sull’andamento del servizio»21. Nonostante tale passo innanzi, peraltro più programmatico che operativo, le guerre di Luigi XIV (1628-1715) lasciano il retaggio di un enorme numero di invalidi, ai quali le Roi Soleil destina nel 1674 l’Hôtel Royal des Invalides, affidandone l’amministrazione e gestione al segretario di Stato per la guerra. L’ingegnere militare e poi maresciallo di Francia Sébastien Vauban (1639-1707) vi distingue tre categorie di invalidi: i perfetti, «ciechi, amputati d’ambo le braccia o gambe, paralitici e tutti quelli assolutamente incapaci al lavoro», gli imperfetti, «che potevano ancora rendere qualche servizio» e quelli di servizio, «che essendo ancor giovani e non storpi, oppure monocoli avanzati in età e con reliquati di ferite lievi, potevano ancora servire nelle piazzeforti»22. La patologia militare è comunque all’ordine del giorno dei governi che intendono rafforzare gli eserciti dei rispettivi Stati. Nell’anno che fa da spartiacque tra Seicento e Settecento, l’opera   Casarini, La medicina militare, cit., pp. 260-261.   Ivi, p. 262. 21   Ivi, p. 263. 22   Ivi, p. 270. 19 20

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di un medico italiano, Bernardino Ramazzini (1633-1714), studioso De morbis artificum (Modena 1700), include tra le «malattie dei lavoratori», al capitolo XLI, le «malattie militari». Ramazzini scrive che il mestiere delle armi ha la caratteristica di differenziarsi dagli altri mestieri per il fatto che questi sembrano predisposti a sostenere la vita, di cui non vi è nulla di più prezioso, e invece quello a sprecarla. Senza dubbio in questa nostra epoca non si può immaginare alcun genere di vita più disastroso di quella che conducono i soldati, per lo meno quelli semplici, sia in battaglia e negli assedi di roccaforti, sia nei quartieri d’inverno. [...] Sulla pietosa truppa di soldati, che è riuscita superstite dal ferro e dal fuoco di qualche sortita, spesse volte grava uno stuolo di mali e accade di rado che un esercito non sia decimato da qualche epidemia23.

Prosegue Ramazzini: Sarei propenso a credere che nulla è in grado di scagliare una schiera di mali contro gli accampamenti quanto la sporcizia [...]. Da un editto divino, un tempo, era vietato agli Ebrei, d’aver l’ardire di depositare escrementi all’interno degli accampamenti; anzi al di fuori di essi, dopo aver fatto un foro in terra, dovevano scaricare dentro il ventre e subito dopo ricoprire di terra le feci. A questo scopo ogni soldato era tenuto a portare al suo fianco un paletto aguzzo per l’inevitabile funzione, e a questo dovere appunto vengo a sapere ci si attiene presso i Turchi, il cui esercito si dedica di più alla pulizia del corpo24.

Ramazzini cita i trattati De militari medicina del tedesco Raimond Minderer (1570-1621) e De militis in castris sanitate tuenda del napoletano Lucantonio Porzio (1639-1723). Circa le «malattie da accampamento», dice che due sono «fondamentali: la febbre maligna [petecchiale] e la dissenteria»; circa le ferite, si limita a riferire, senza pronunciarsi, la tesi per cui sarebbero «muniti di veleno i proiettili di piombo»25. Dove egli si dimostra invece «novatore» è il passo in cui apre 23   Bernardino Ramazzini, Le malattie dei lavoratori, a cura di Giorgio Cosmacini, Edizioni Technos, Roma 1995, p. 247. 24   Ivi, pp. 247-248. 25   Ivi, pp. 249 e 251.

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il discorso medico alla psicologia di guerra, riferendo del «male, frequente negli accampamenti, che attacca non solo i soldati semplici, ma anche guerrieri nobili e magnanimi, cioè un certo desiderio improvviso e violento di tornare a vedere la patria e i propri cari, chiamato in tedesco Heimveh [nostalgìa]». È una malinconìa «che è solita essere perlopiù di malaugurio, [...] tanto che nel gergo militare c’è una frase che vale come un proverbio: chi cerca la patria, trova la morte»26. Ramazzini è nativo di Carpi, corte padana che dista poco più di una dozzina di miglia da Modena (nella cui università egli è dottore, prima di passare a Padova). Non molto più lontano dalla città, nell’Appennino modenese, c’è il castello di Montecuccolo, dov’è nato, ventiquattro anni prima di lui, Raimondo Montecuccoli (1609-1680), uomo di guerra che spende tutta la propria carriera al servizio dell’Impero. Dopo essersi distinto nella guerra dei trent’anni, ricopre le più alte cariche di comando nelle successive guerre contro svedesi, francesi e turchi. Suoi sono il Trattato delle guerre (1642), l’Arte militare (1653) e i tre libri Della guerra col Turco in Ungheria (1670). Nonostante certe sue arretratezze tattiche e strategiche, «per almeno un secolo i suoi libri sull’arte bellica furono la Bibbia dei generali»27. A rimarcare l’importanza patogena delle carenze alimentari e a sottolineare l’esigenza di un vettovagliamento adeguato, uno dei passi del testo «biblico» di Montecuccoli recita: «Più eserciti consuma la penuria che la zuffa»28.

  Ivi, p. 252.   Omaggio a Raimondo Montecuccoli, supplemento al n. 95 della rivista «FMR», Franco Maria Ricci editore, Milano 1992, p. 4. 28   La citazione è riportata da Casarini, La medicina militare, cit., p. 252. 26 27

IX Guerra, scuola di chirurghi Nel corso del Seicento è cambiato il modo di fare la guerra. «Prendiamo ad esempio i francesi: il numero di effettivi dell’esercito in tempo di pace non aveva mai superato i 20.000 soldati prima della guerra dei trent’anni, ma prima del 1700 superava i 100.000. Allo stesso modo, il numero di effettivi in tempo di guerra non aveva mai superato gli 80.000 soldati prima della guerra dei trent’anni, ma superò i 400.000 prima del 1700. Nei due casi, l’esercito francese divenne cinque volte più numeroso nel giro di un secolo»1. Quasi mezzo milione di sudditi alle armi, in un secolo nel quale in Francia la popolazione conta «Luigi XIV e venti milioni di francesi»2. Il cambiamento del modo di fare la guerra non è solo quantitativo, è anche qualitativo, concernente la ristrutturazione del grande esercito permanente, che permane in servizio anche in tempo di pace e che dipende da generali in tutto simili agli alti funzionari civili dipendenti dallo Stato assoluto. I soldati non accedono più all’esercito con la loro arma personale, spesso l’una diversa dall’altra. Trovano invece un arsenale omogeneo che consente loro di dotarsi di un’arma di un unico tipo, uguale per tutti coloro che esplicano la medesima funzione. Trovano inoltre un addestramento uniforme – uniforme come la divisa indossata – e un inquadramento in unità operative (compagnie, battaglioni, reggimenti) bene ordinate e bene disciplinate. Il rigore della disciplina li riscatta da un passato nel quale essi 1   Kenneth Chase, Armi da fuoco, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2009, p. 129. 2   Pierre Goubert, Luigi XIV e venti milioni di francesi, Laterza, Bari 1968.

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Fig. 8. Picchiere (dal volume Mareschal de Bataille del Sieur de Lostelnau, Paris 1647; esemplare conservato presso lo Studio Bibliografico Giovanni Bosio di Magliano Alpi, Cuneo).

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venivano visti come chiens sans attache, «cani sciolti» che, con le loro devastazioni e razzìe, erano considerati il maggior flagello della società contadina. L’idea dell’addestramento e dell’ordinamento disciplinare è una idea risalente ai Romani; ma le armi da fuoco, via via sempre più perfezionate, richiedono un aggiornamento e una trasformazione dell’idea romana in base alla nuova necessità di organizzare la tecnica del fuoco di fila, per cui una fila di moschettieri, dopo aver sparato, si ritrae a ricaricare mentre un’altra subentra nell’azione di sparo. Una «trasformazione tecnica» di grande rilievo è la baionetta: «adottata alla fine del XVII secolo, trasformò le tattiche di fanteria del XVIII secolo. La picca scomparve e con essa la distinzione tra picchieri e moschettieri; ogni picchiere era il moschettiere di se stesso e, viceversa, il moschettiere fungeva anche da picchiere. L’efficienza della fanteria raddoppiò in un colpo, sia per quanto riguarda la potenza di fuoco, sia per le armi a lama»3. Nella fanteria, il moschetto «ad acciarino», in cui lo sfregamento della pietra focaia con l’acciaio crea una scintilla incendiaria che dà fuoco alla polvere da sparo, sostituisce il moschetto «a miccia» del secolo precedente, consentendo una più rapida cadenza di tiro. «I fucili non erano [ancora] molto usati nel XVIII secolo», essendo ritenuti più adatti alla caccia che alla guerra; e nell’artiglieria, «i cannoni cambiarono di poco per progettazione, ma migliorarono notevolmente per qualità»4. C’è, infine, un cambiamento aggiuntivo, cioè il mutamento sostanziale del concetto di guerra, correlato alla trasformazione dei rapporti di forza tra gli stati. Gli stati d’Europa passano da una lotta per la supremazia a una politica armata che mira al mantenimento dell’equilibrio europeo. La guerra diventa un’impresa motivata non più da una scelta aggressiva, ma da una necessità dettata dall’obbiettivo di ripristinare l’equilibrio turbato; per così dire, si addomestica. È ben vero che i primi sessant’anni del Settecento sono ripetutamente movimentati da una bellicosità manifesta nella «guerra   Chase, Armi da fuoco, cit., p. 323.   Ivi, p. 324.

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Fig. 9. Moschettiere (dal volume Mareschal de Bataille, cit.).

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del nord» tra Svezia e Russia (1708-1719), nelle «guerre di successione» – spagnola (1702-1713), polacca (1733-1738), austriaca (1740-1748) –, e nella «guerra dei sette anni» (1756-1763). Tuttavia è anche vero che tali guerre sono piuttosto fasi belliche di una politica che cerca di passare, quanto prima possibile, dai fatti alle parole, cioè dagli scontri armati agli armistizi seguiti dalle trattative diplomatiche. Il cambiamento è la premessa della successiva «età dei lumi» della ragione, coinvolgente l’intera Europa nella temperie dell’«illuminismo», delle lumières, dell’enlightenment, dell’Aufklärung. La linea di tendenza del «dispotismo [più o meno] illuminato» vigente nel Regno Unito e nel Regno di Svezia, nella Francia di Luigi XV (1710-1774) e nella Prussia di Federico II (1712-1786), nell’impero austriaco di Maria Teresa (1718-1780) e nell’impero russo di Caterina II (1729-1796) coincide press’a poco con il percorso in cui si delinea anche un miglioramento della medicina, della chirurgia e della sanità militari. In Francia, un secolo dopo Paré, la chirurgia militare tende a orientarsi come pratica più conservatrice che demolitrice. È un indirizzo condiviso anche in Prussia, dove lo stesso Federico il Grande emana un editto con cui vieta ai chirurghi del proprio esercito di procedere ad amputazioni se non in casi di gangrena conclamata. Il chirurgo in capo delle truppe prussiane impegnate nelle guerre di metà Settecento, Ulrich von Bilguer (1720-1796), quasi condividendo il furor mathematicus del secolo in cui vive, applica alla prognosi chirurgica dei propri feriti un criterio valutativo fondato su di un metodo nuovo, statistico: su 6528 feriti nella «guerra dei sette anni» conteggia 653 morti, tra cui la maggior parte per ferite penetranti, mentre su tutti gli amputati durante le campagne in Boemia e in Sassonia constata che soltanto uno o due erano i sopravvissuti all’intervento chirurgico5. Sua, nel 1761, è la 5   La rilevazione statistica è riportata da Arturo Casarini, La medicina militare nella leggenda e nella storia, collana medico-militare edita dal Ministero della Guerra - Direzione generale di Sanità Militare, vol. XX, Roma 1929, p. 287. Un’altra rilevazione statistica conta, a metà Settecento, un militare su 145 civili in Francia, 27 in Prussia e 33 nello Stato sabaudo, a riprova della militarizzazione incentivata rispettivamente da Federico II e Carlo Emanuele III (su cui vedi oltre, p. 120).

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dissertazione De membrorum amputatione rarissime administranda aut quasi abroganda. La presa di coscienza che le complicanze di alcune operazioni chirurgiche penalizzano i pazienti più dei mali per cui essi vengono operati porta la chirurgia ad acquisire un maggior criterio di responsabilità, ma non impedisce la sperimentazione di nuove tecniche operatorie. Si infittisce la ricerca che alimenta a getto continuo le observations sur les plaies faites par armes à feu, osservazioni che si susseguono in serie fino al trattato sulla Chirurgie d’armée, che nell’anno 1768 «riassume l’esperienza di oltre 37 anni di pratica ospedaliera di guerra del Ravaton, chirurgo maggiore dell’ospedale militare di Landau che, durante la guerra di successione d’Austria e quella dei sette anni, costituì uno dei principali ospedali di sgombero»6. Esponenti di una pratica oscillante tra interventismo e astensionismo sono, in Francia, i chirurghi Maréchal, Gigot de la Peyronie e Petit. Georges Maréchal (1658-1736) è tra i quaranta membri che nel 1731 fondano l’Académie royale de chirurgie, istituzione che affranca i chirurghi non solo dai sottostanti barbieri, ma anche dai sovrastanti medici-fisici: i chirurghi militari vi trovano un ampio riconoscimento dei loro meriti e vengono equiparati in grado ai chirurghi civili e ai dottori della Faculté de médecine. François Gigot de la Peyronie (1678-1747) è il chirurgo dell’Hôtel-Dieu di Montpellier che si è acquistato meritata fama per il trattamento, durante la campagna di Fiandra, degli «sventramenti» conseguenti alle ferite addominali. Jean-Louis Petit (1674-1750) è il chirurgo militare che si è guadagnato fama non minore per l’invenzione del laccio emostatico e di uno speciale tourniquet che agevola gli interventi sul cranio. Nella seconda metà del Settecento, colui che utilizza in pieno l’impulso dato alle tecniche d’intervento da parte della chirurgia di guerra è, sempre in Francia, Pierre Desault (1738-1795), caposcuola all’Hôtel-Dieu di Parigi e chirurgo totius corporis: trapana crani, tratta ferite penetranti in addome, opera laparoceli ed ernie, riduce fratture complesse. Dà il proprio nome a nuove tecniche di sutura, di legatura dei vasi, di bendaggio di fratture e lussazioni.   Ivi, pp. 281-282.

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A qualunque parte corporea si applichi, la sua tecnica è a un livello tanto elevato quanto lo è il modello da cui essa trae origine. «La chirurgia e la medicina», egli afferma, «non sono sullo stesso piano, la prima essendo assai più avanzata e in grado di servire all’altra da modello»7. Nella Lombardia su cui regna l’imperatrice Maria Teresa, luogo di elezione in Italia dell’illuminismo anche medico, il chirurgo pavese Giovanni Alessandro Brambilla (1728-1800) sale a grande notorietà durante la «guerra dei sette anni» e diventa nel 1764 Leibchirurg, «chirurgo personale» dell’arciduca Giuseppe, il futuro imperatore Giuseppe II (1741-1790). Nello stesso 1780, anno di elevazione dell’arciduca a sovrano dell’impero asburgico, Brambilla «sistema» l’arsenale operatorio del chirurgo militare settecentesco nell’Instrumentarium chirurgicum (Vienna 1780) dove sono descritti e classificati tutti i ferri del mestiere, comprovanti l’avanzamento tecnico dell’arte chirurgica, pari alla sua «preminenza e utilità»8. Brambilla fa inoltre il passo dalla pratica alla didattica. Egli «fondò l’Accademia medico-chirurgica Josephinum, presso la quale istituì dei corsi di integrazione e di perfezionamento per i medici militari che dovevano conseguire la nomina di chirurghi di reggimento»9. È ormai bene consolidata l’opinione diffusa, già percepita in passato, che la miglior palestra dei chirurghi è la guerra. Guerra, scuola di chirurgia. Gli assedi delle città e le battaglie campali sono i veri luoghi dove addestrarsi e perfezionarsi. I feriti da soccorrere sono una moltitudine da curare, ma anche una umana materia che è matrice di osservazione e sperimentazione. Il chirurgo ha molti modi di accrescere la propria competenza e abilità, di perfezionarsi e specializzarsi. L’armamentario complesso di cui dispone ne dimostra i passi in avanti. Tuttavia esso non basta a fare il bravo chirurgo: la mano che opera richiede una mente che la guidi. Nel novero dei chirurghi europei la cui abilità e competenza 7   La frase di Desault è riportata da Pierre Huard, Marie-José ImbaultHuart, Pierre Desault (1738-1795), nel volume Biographies médicales. XVIII siècle, Roger Dacosta, Paris 1992, p. 139. 8   Vedi Luigi Belloni, Lo strumentario di G.A. Brambilla, simbolo della «preminenza e utilità» della chirurgia, in «Simposi clinici», vol. 8, n. 1, 1971, pp. i-viii. 9   Casarini, La medicina militare, cit., pp. 274-275.

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trae partito dalle esperienze fatte in guerra è lo svedese Olof Acrel (1717-1806), il quale condivide l’indirizzo che orienta la chirurgia verso la semplicità operatoria e strumentale. «Gli arsenali», dice, «sono meno spaventosi della strumentazione contenuta in certe sale operatorie»10. Negli ospedali da campo e in quelli delle retrovie la chirurgia ha almeno il vantaggio di essere relativamente semplificata, esente da manualità sofisticate e di dubbio giovamento. La scena che caratterizza gli ospedali da campo e militari in genere (ma anche, più o meno, quelli civili) vede il chirurgo manovrare i ferri con destrezza onde evitare il più possibile dolori al paziente, i cui contorcimenti sono tenuti a freno dalla forza di due nerboruti infermieri. Con spugne imbevute di acqua ghiacciata e spremute in continuità sul campo operatorio, si tenta di detergere il sangue, di assicurare un minimo di igiene locale, di lenire il dolore provocato dai ferri che la mano nuda del chirurgo cerca di guidare per vie lontane dai grossi vasi sanguigni nel minor tempo e con il minor traumatismo possibili. Gli strumenti allestiti da armaioli specializzati sono allineati sul vassoio donde l’operatore li preleva e, dopo averli usati, li ripone. L’intervento si conclude con l’accostamento dei lembi del taglio mediante cerotti, con l’applicazione di un impacco freddo sulla parte operata, con la fasciatura tramite bendaggio. Abbondanti bevute – «rinfrescanti», «cordiali», «eroiche» – da parte del paziente completano il quadro. Di questo fanno parte anche le sue grida e il «chiasso del sangue». Varianti di questo quadro cruento sono, di volta in volta, la ricomposizione manuale-meccanica delle fratture, con medicazione di quelle esposte, il loro contenimento con stecche e con fasce impastate di pece o irrigidite da chiare d’uovo rapprese, la localizzazione con specilli e l’estrazione con pinze delle schegge o di altri proiettili, la regolarizzazione delle ferite slabbrate, la recentazione delle piaghe incancrenite, l’assillante ricerca entro laghi di sangue dei vasi emorragici e la loro pacata e ben ferma legatura ed emostasi: il tutto associato sovente alla «dormia» per attutire la sensibilità o viceversa agli schiaffi in faccia al paziente per tenerlo desto o allo scuotimento del suo corpo per rianimarlo. 10   L’affermazione di Olof Acrel è riportata da Knut Haeger, Storia illustrata della chirurgia, Il Pensiero Scientifico, Roma 1989, p. 167.

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Nell’Inghilterra degli Hannover, Giorgio III (1738-1820) ha per medico personale John Pringle (1707-1782), autore di fondamentali «osservazioni sulle malattie dell’esercito» costituenti un vero caposaldo della sanità militare. Tra esse figurano personali «esperimenti su sostanze settiche e antisettiche». L’antisepsi fa la sua prima comparsa, in forma aggettivata, nel lessico medico; per l’anestesia c’è invece ancora da attendere. Passando dall’esercito alla marina inglese, un medico di quest’ultima, James Lind (17161794), spettatore impotente dei tanti marinai sanguinanti per via dello scorbuto – morbo endemico negli equipaggi della grande flotta che domina per mari e oceani – intraprende la cura della malattia (avitaminosica) con succo di limone (ricco di vitamina C). Se sulle navi in battaglia ai feriti si mescolano gli scorbutici, negli accampamenti, e negli ospedali annessi, ai feriti si mescolano i malati tifoidei, dissenterici, influenzati. Petecchie, diarree e catarri sono più che mai, nel Settecento, il corteo di accompagnamento militare. «Il tifo, la dissenteria e le altre infermità, che formano la lugubre coorte de’ morbi castrensi, seguivano gli eserciti. [...] All’assedio di Praga [nel 1741] dicesi che nella città morissero da 30.000 persone tanto per colpa del male, quanto della cura omicida [salassatrice]»11. «Scese in Italia l’epidemia catarrale che, sorta nell’aprile del 1729 a Mosca, apparsa in settembre in Isvezia, in ottobre ed in novembre nella Germania, nel dicembre era entrata nella Svizzera». Nel 1733 «l’influenza ricapitava in Italia dagli stessi luoghi dove venne tre anni prima», colpendo «specialmente i giovani, stando infermi con catarri e febbre». Ancorché affetti, «francesi e piemontesi da un lato, tedeschi dall’altro seguitavano a combattere». Nel grand tour che unifica microbicamente l’Europa, gli eserciti migranti e pugnanti propagano l’influenza con le sue condizioni predisponenti e le sue sequele complicanti: «sul finire dell’autunno il Re di Sardegna fu costretto di ridurre a’ quartieri d’inverno le milizie malconcie dai patimenti, da più tempo alloggiando e dormendo non più sulla terra, ma su i fanghi e nell’acqua, e travagliate dalle infermità; le quali poi nei seguenti mesi tolsero di vita una parte di quelle e chiunque de’ medici, chirurghi e cappellani   Annali, vol. II, p. 395.

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assisterono ad essi. [...] Tra gli alemanni pure il morbo erasi cacciato, e con essi entrò in Mantova, dove parimenti morirono tutti coloro che per arte medica e per esercizio di questa erano accorsi ad assistere i malati»12. Il Settecento è un secolo caratterizzato da tutto un susseguirsi, in Europa, di malattie, epidemie e morìe, impossibili da ripercorrere nel loro subcontinuo zigzagare. Nel 1759 Gerard Van Swieten (1700-1772), il medico che trapianta a Vienna il modello clinico della Scuola olandese di Leida, pubblica a Praga una brevis descriptio «delle malattie da curare che più spesso si osservano negli accampamenti»: tra esse, ai primi posti, figurano la dissenteria, lo scorbuto, le febbri petecchiali e catarrali. Queste due ultime sono all’ordine del giorno, con il loro andare e venire dentro e fuori gli eserciti. Tra gli eserciti europei, i meglio organizzati sotto l’aspetto sanitario sono i tedeschi (austriaci e prussiani) e i francesi. Maurizio, conte di Sassonia (1696-1750), generale dell’esercito francese nelle guerre di successione polacca e austriaca e nel 1744 nominato maresciallo di Francia da Luigi XV, è autore di un’opera dal titolo Rêverie ou Mémoires sur l’Art de la Guerre, compilata sotto forma di lettere indirizzate al proprio padre, Augusto II re di Polonia (1670-1733). In tali messaggi epistolari, il conte-maresciallo dedica grande attenzione al benessere del soldato, al suo abbigliamento contro la calura e contro il gelo, al suo vettovagliamento, alla sua razione alimentare. Nella battaglia di Fontenoy dell’11 maggio 1745, da Maurizio di Sassonia combattuta magistralmente alla testa di 56.000 francesi e vinta contro i 50.000 austro-inglesi comandati da William Augustus duca di Cumberland (1721-1765), la vittoria è accompagnata e seguita da un’ammirevole, per i tempi, organizzazione sanitaria, fatta di pronto intervento, tempestivo soccorso, rapido sgombero. Il chirurgo militare francese Pichaut de la Martinière (16961783) è l’ispiratore di un regolamento di assistenza che aggiorna e perfeziona l’editto del 17 gennaio 1708, emanato dal Re Sole e finalizzato alla costituzione di un corpo sanitario militare ben   Ivi, pp. 363, 370-371 e 375-376. I corsivi sono nel testo.

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strutturato. Con l’ordinanza del 4 agosto 1773 si costituisce un Comitato di sanità permanente, composto da 5 medici e 2 chirurghi ispettori al comando di un generale medico, dipendente dal segretario di Stato per la guerra e incaricato del controllo periodico degli stabilimenti militari, della sorveglianza sull’istruzione tecnica del personale, della vigilanza sull’alimentazione e igiene della truppa. A cura del comitato, viene redatto un «Giornale di medicina, chirurgia e farmacia militare» ricco di contributi importanti. In Prussia, nazione in ascesa anche grazie alla forza del suo esercito, questo conta su di un apparato sanitario a struttura piramidale con al vertice un chirurgo generale affiancato da un Comitato di sanità e con alla base i chirurghi reggimentali equiparati al rango di ufficiali subalterni e anteposti ai subordinati chirurghi da campo. In un regolamento del 1755, compilato da Federico II per la propria cavalleria, a un reggimento di corazzieri e dragoni risulta assegnato un chirurgo maggiore coadiuvato da 5 chirurghi-barbieri; tale organico è però raddoppiato nei reggimenti di ussari destinati a operare isolatamente. «Federico II stabilì inoltre che nessun chirurgo maggiore o minore fosse ammesso nell’esercito se prima non fosse stata accertata la sua cultura professionale dal chirurgo generale e dal Comitato di sanità. [...] Ordinò ancora che in caso di mobilitazione fosse impiantato un ospedale di sgombero nella città più vicina, assegnandovi 8 chirurghi, al quale dovevano affluire i malati e i feriti dei reparti combattenti: quelli gravi erano sgomberati su carri speciali, i leggieri marciavano indrappellati al seguito della vettura trasportante il materiale sanitario. Prescriveva infine che alla truppa fosse distribuito possibilmente il rancio sempre caldo, ed in mancanza fosse fatto bollire il pane da munizione [speciale per soldati] nell’acqua sotto forma di zuppa salata»13. È a partire da queste norme che in Europa si incomincia a nominare e a cercar di imitare il «modello prussiano».

  Casarini, La medicina militare, cit., pp. 304-305.

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X L’impero napoleonico La stagione illuministica ha ereditato dai decenni bellici che l’hanno preceduta la consapevolezza che la guerra è meglio evitarla, ma che, non potendo farne a meno, è bene condurla con eserciti bene addestrati, bene organizzati e bene assistiti sotto l’aspetto medico-sanitario. Non solo: il secolo XVIII ha ereditato l’idea seicentesca che gli invalidi di guerra sono una «diversità» sociale da accettare nell’ottica di una sventura per definizione «provvida», in quanto permessa dalla Divina Provvidenza e da questa affidata alla misericordia corporale e spirituale e alla «provvisione» civile; però, ispirato dalla temperie dei «lumi», ha trasformato quell’idea nella concezione premoderna per cui l’invalidità è una «devianza dalla norma» da normalizzare, fin dove è possibile, attraverso l’assistenza da parte dei governi illuminati. In una prospettiva di riabilitazione ante litteram, il problema medico degli invalidi di guerra, già abbozzato nel primo Seicento con la proposta di presidi ritenuti idonei al trattamento dei politraumatizzati, diventa nel Settecento una questione di attualità. Quello stesso Jean-Louis Petit che ha inventato il nuovo trapano per gli interventi sul cranio pubblica un Trattato de’ mali dell’ossa (Venezia 1775) in cui sono disegnati schemi di riabilitazione posturale e meccanica per soggetti disabili. Più in generale, laddove «sotto lo sguardo dello Stato la scienza medica incarna la riconciliazione del sapere e della politica»1, il «medico politico» Johann Peter Frank (1745-1821) – intermediario tra il sovrano illuminato, 1   Science et pouvoir dans la France du XVIII siècle (1666-1803), in «Annales ESC», n. 3, 1974, p. 748.

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l’imperatore Giuseppe II che deve legiferare il bene collettivo, e il suddito nella società, che deve fruire quel bene in termini di concreto benessere – elabora a partire dal 1776 un «sistema completo di polizia medica» dov’è concepita una politica della salute pubblica anche come tecnica medica a vantaggio delle categorie a maggior rischio, tra le quali i soldati2. Questo clima lambisce anche il regno sabaudo, dove alcune «voci dell’Illuminismo francese, oppure talune prepotenti esperienze statuali come quelle dirette da Caterina in Russia e da Federico in Prussia, avevano ormai scosso e riplasmato non pochi gruppi dirigenti e rinnovato anche culturalmente le relative caste militari»3. La tradizione sabauda era peraltro quella propria di uno stato – ducato di Savoia e principato di Piemonte, prima, regno sardopiemontese, poi – che, stretto territorialmente tra Francia e Impero, «continuava a considerare la nobiltà come la più auspicabile condizione sociale e la guerra come la sua più naturale espressione culturale». Del resto, «la stessa concezione strategica del territorio, basata [a ovest] sulle fortezze e sui presidi a integrazione dei naturali baluardi montani»4 e a est sulla sorveglianza armata delle paludi tra Vercelli e Novara, faceva del Piemonte di Vittorio Amedeo II (1666-1732) e di Carlo Emanuele III (1701-1773) il depositario della eredità di Emanuele Filiberto, il vincitore di San Quintino, e la culla del mito di Eugenio di Savoia (1663-1736), il liberatore di Vienna dall’assedio dei turchi. L’agiografia di Casa Savoia celebra gli ordinamenti militari di Carlo Emanuele III, il cui «piccolo, ma saldo esercito acquistò rinomanza in tutta Europa e fu citato ad esempio e preso a modello»5. Certamente non lo è nel campo medico-sanitario, poiché a una truppa di leva bene addestrata e organizzata – con tanto di ufficiali subalterni, colonnelli e generali di carriera – fa riscontro un organico provvisorio di medici e di chirurghi reclutati di 2   Il trattato System einer vollständigen medizinische Polizey fu pubblicato in nove volumi nell’arco di un quarantennio (1779-1819). 3   Walter Barberis, Le armi del Principe. La tradizione militare sabauda, Einaudi, Torino 20032, p. 196. 4   Ivi, pp. 171-172. 5   Vittorio Giglio, Milizie ed eserciti d’Italia, Ceschina, Milano 1927, p. 108.

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volta in volta in occasione di assedi e battaglie e congedati alla fine delle operazioni militari. Anche la vantata «cooperazione delle varie armi sul campo di battaglia, ed essenzialmente della fanteria e dell’artiglieria»6, è in realtà un’arretrata subordinazione della seconda alla prima, poiché l’artiglieria è ancora considerata l’arma meccanica dove spadroneggia l’«abominoso ordigno» di ariostesca memoria – il cannone –, di fronte alla cui inanimata «forza dirompente» si rimpicciolisce fino ad annullarsi il fattore umano, cioè l’«ardimento dell’uomo»7. La relativa arretratezza sia strategica che medico-sanitaria nulla toglie a quella miscela di nobiltà, fierezza e virtù militare che dà nerbo all’esercito facendone il fulcro del regno e una forza bellica di tutto rispetto, come tale molto ambita nel gioco politico delle alleanze e del rovesciamento delle alleanze medesime. Come per l’acquisto dell’idea di nazione l’Italia trae minori impulsi dal Piemente conservatore che dalla Francia rivoluzionaria, così per l’acquisto dell’idea di sanità militare l’Italia trae minori apporti dall’esercito piemontese che dalle armate di Napoleone Bonaparte (1769-1821). Le guerre di fine Settecento combattute dalla Francia rivoluzionaria e quelle del primo Ottocento combattute dalla Francia imperialista rappresentano una netta cesura, rispetto al passato, nel campo della strategia e della tattica militari e, più in generale, nella stessa concezione della guerra. È quanto riconosce al «dio stesso della guerra», cioè al genio bellico di Napoleone Bonaparte, un reduce dalle guerre antifrancesi combattute dal 1792 al 1815, Carl von Clausewitz (1780-1831), il grande teorico militare autore del trattato Vom Kriege pubblicato postumo nel 1832-1834. Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz è un soldato di carriera giunto al grado di maggior generale. Ferito e fatto prigioniero nella battaglia di Jena, ha concepito un fiero sentimento antifrancese che alimenta il suo spirito di rivalsa e il suo impulso a riformare il proprio esercito perdente. «Fu lui a capire in maniera corretta che Napoleone non si era limitato a proporre una forza più grande e più potente, ma una forza completamente nuova, che combatteva   Ivi, p. 125.   Barberis, Le armi del Principe, cit., p. 193.

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in vista di obiettivi strategici differenti. Fu lui a presentare questa intuizione nel monumentale Della guerra», inquadrante le geniali azioni napoleoniche nelle proposte riformatrici dell’esercito prussiano, un’opera che costituisce «uno dei più importanti e duraturi testi di filosofia militare mai scritti»8. Leva obbligatoria di massa, massiccia mobilitazione tempestiva, professionalità e meritocrazia, potenziamento tecnico e organizzativo sono i pilastri posti a fondamento di un’idea di guerra che fa della forza militare lo strumento decisivo per imporre definitivamente la propria supremazia politica sull’avversario. Clausewitz scrive che «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi»9. Tre secoli prima, Philipp Theophrast von Hohenheim (Paracelso, 1493-1541) aveva concepito una medicina nova fondata su quattro pilastri: astronomia, alchimia, filosofia e virtù. Virtù militare e filosofia della guerra sono i cardini della svolta che Clausewitz imprime alla polemologia moderna, che avrà molta influenza generale in campo bellico e non poca conseguenza particolare in campo medico-sanitario. La sanità militare, anzitutto quella prussiana, ne trarrà – come si vedrà – beneficio. Anche se Clausewitz, nominato capo di stato maggiore nel 1830 e incaricato tra l’altro di organizzare un cordone sanitario per arrestare l’avanzata del dilagante colera – prima epidemia europea del «mostro asiatico» – fallisce nell’intento e, contagiato egli stesso dal morbo, ne è una delle tante vittime nel novembre 1831, all’età di 51 anni. Non precorriamo gli eventi. Nel suo monumentale trattato, Clausewitz, tra l’altro, fa netta distinzione tra una parziale «guerriglia» e una totale «guerra di annientamento». Sottolinea inoltre l’importanza e il significato, in guerra, del fattore umano: è l’importanza riconosciuta al soldato, all’uomo combattente e che ha combattuto. È questo fattore che fa la differenza tra la guerra disumanizzante di annientamento e l’umanizzazione sanitaria della guerra e dei danni che essa lascia dietro di sé. Le guerre rivoluzionarie e napoleoniche rappresentano, anche sotto quest’ultimo aspetto, una netta cesura, rispetto al passato. 8   Rupert Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009, p. 106. 9   Carl von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 2007, p. 794.

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Nella palingenesi globale che fa seguito all’«Ottantanove» – fatidico anno d’esordio della rivoluzione francese – un Comitato di salute pubblica insediato il 4 ottobre 1790 dall’Assemblea costituente (succeduta agli Stati generali) e presieduta dal medico Joseph-Ignace Guillotin, recepisce e mette a fuoco le tante doléances sanitarie, tra cui quelle militari. Il 18 agosto 1792 l’Assemblea legislativa (subentrata alla Costituente) sopprime fatiscenti strutture tra cui le facoltà di medicina, divenute improduttive di vero sapere. Non appena insediata, la Convenzione (subentrata, a sua volta, alla Legislativa) sopprime il 21 settembre un’altra vecchia istituzione, la monarchia, e quattro mesi dopo sopprime il monarca, applicando alla persona fisica di Luigi XVI (1754-1793) la «macchina umanitaria» inventata dal dottor Guillotin e detta, in onor suo, guillotine. Con i decreti del biennio 1793-94 la Convenzione delibera, unitamente all’istituzione delle Écoles de santé sostitutive delle Facultés de médecine ed equiparanti medicina e chirurgia come due rami della stessa scienza, l’assegnazione a ogni unità militare operativa di figure sanitarie stabili quali gli officiers de santé, investiti di compiti igienici a salvaguardia della salute del soldato, e i médecins-chirurgiens reggimentali, investiti di compiti curativi, ma anche medico-legali per il controllo della simulazione e dell’autolesionismo. Tenere divise medicina e chirurgia, coltivarle separatamente – afferma in un rapport il medico Antoine-François Fourcroy (1755-1809), membro della Convenzione –, «è lasciare la teoria al delirio dell’immaginazione e la pratica alla routine sempre cieca; riunirle e intrecciarle, invece, è rischiararle a vicenda e favorire il loro progresso»10. Il decreto maggiormente significativo per la sanità militare è quello che sancisce «il diritto imprescindibile da parte dei cittadini chiamati in difesa della patria di essere curati sia delle malattie che delle ferite riportate durante il servizio»11.

10   Il rapport di Fourcroy è riportato da Erwin H. Ackerknecht, La médecine hospitalière à Paris, Payot, Paris 1986, pp. 47-48. 11   Il passo del decreto della Convenzione è riportato da Arturo Casarini, La medicina militare nella leggenda e nella storia, collana medico-militare edita dal Ministero della Guerra - Direzione generale di Sanità Militare, vol. XX, Roma 1929, p. 312.

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È questa humanité – la cui iniziale «H» è incisa sui bottoni della giubba di quanti sono addetti al servizio sanitario militare – a rendere un po’ meno disumana la guerra. La rivoluzione francese, volendo, con la liberté e l’egalité, anche la fraternité universale, riesce, da un lato, ad affratellare almeno il medico e il chirurgo, prima divisi da secolare discordia, e riesce, d’altro lato, a riformare la sanità militare facendo di essa la «provvidenza del soldato», la protezione del citoyen in armi, benemerito della patria che ha difeso a Valmy, il 20 settembre 1792, respingendo l’aggressione dell’esercito prussiano. «Il cammino della rivoluzione» – sono parole di Louis-Antoine Saint-Just (1767-1794) ufficiale della Guardia nazionale e poi deputato giacobino alla Convenzione – «passa dal delitto alla Virtù». Dopo che la Virtù viene eretta a Terrore, la rivoluzione diventa una madrematrigna che divora i suoi figli: Maximilien Robespierre (1758-1794) e il suo sodale Saint-Just cadono sotto la ghigliottina. All’indomani del colpo di Stato di Termidoro (26-27 luglio 1795) il neo-insediato Direttorio affida a un giovanissimo generale corso, Napoleone Bonaparte, già distintosi in qualità di ufficiale comandante l’artiglieria che ha cannoneggiato Tolone strappandola alla flotta inglese, il comando dell’Armata d’Italia che valica le Alpi il 27 marzo 1796. «Soldati, siete nudi, mal nutriti» – è il proclama del generale Bonaparte – «io vi condurrò nelle più fertili pianure del mondo». L’Armata d’Italia, nonostante il vettovagliamento riconosciuto carente dal suo stesso comandante, attraversa tutta la Valle del Po, vittoriosa in più d’una battaglia, con grande sacrificio di vite umane sia nelle proprie file che nelle file dell’esercito altrui. In seno all’armata viene definitivamente collaudata l’ambulanza volante, «costituita da tre chirurghi e da un infermiere, [...] dotati di portamantelli contenenti la busta degli strumenti chirurgici e sufficiente dotazione di materiale di medicatura. Disponeva inoltre di carri a due e a quattro ruote, trainati da una pariglia di cavalli, su cui erano sistemate casse contenenti medicinali, armamentari, fascie, filaccie, compresse, viveri di conforto, coperte ed un certo numero di barelle». Tale ambulanza «poté essere largamente sperimentata, funzionando come unità sanitaria di pronto soccorso»12.   Ivi, pp. 321-322.

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X. L’impero napoleonico

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Fig. 10. L’ambulanza volante a due ruote introdotta nell’uso dal «chirurgo di Napoleone» Dominique-Jean Larrey (da Casarini, La medicina militare, cit., p. 323).

Il nuovo presidio è un posto mobile di pronto soccorso per migliaia di feriti. Il suo impiego tempestivo migliora le percentuali dei sopravvissuti. L’ambulanza è una creatura di colui che, fra i «chirurghi di Napoleone», è quello accreditato di maggiore notorietà, Dominique-Jean Larrey (1766-1842), che dall’École militaire è passato al seguito dell’armata di Bonaparte. Da allora affianca quest’ultimo in ogni campagna, partecipe di molte battaglie. Un’altra figura eminente della chirurgia di guerra è PierreFrançois Percy (1745-1825), prima ispettore generale degli eserciti della Repubblica e più tardi insignito del titolo di barone dell’Impero. Il plauso imperiale è l’occasione colta al volo da Percy per presentare all’imperatore un suo elaborato progetto di Chirurgie des batailles. L’organigramma previsto da Percy per la «chirurgia delle battaglie» consta di un corpo autonomo di chirurghi distinti in decurioni e centurioni, alla testa rispettivamente di decurie e centurie, ciascuno con una sua proporzionata dotazione di personale ausiliario e di materiale sanitario e tutti facenti capo a una superiore gerarchia di chirurghi maggiori (chirurghi laureati in medicina), di

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Fig. 11. Barella e barellieri per la chirurgie des batailles del «chirurgo di Napoleone» Pierre-François Percy (da Casarini, La medicina militare, cit., p. 348).

cui sedici con il grado di tenente colonnello, tre con quello di ispettore generale e uno, al vertice, con quello di generale supremo. Napoleone approva. Ma quando l’imperatore dei francesi è ancora il generale Bonaparte che, dopo i successi nella campagna d’Italia (conclusa a Campoformio il 17 ottobre 1797), cerca di recidere in Egitto le radici orientali della potenza commerciale inglese, il suo formidabile esercito, pur vincitore nella battaglia delle Piramidi (21 luglio 1798) e trionfatore al Cairo, è tuttavia sconfitto da una triplice epidemia: dalla «dissenteria sanguinolenta», dal «flusso palpebrale puriforme» od «oftalmoblenorrea» e dalla malattia chiamata «peste d’Alessandria»13. Coesistono, in sovrappiù, il «bottone d’Oriente» o «bitorzolo d’Aleppo» e la «febbre gialla», una «gastro-epatite subitamente mortale, propria dei paesi caldi, comunemente conosciuta pell’itterizia che tosto sopraggiunge»14. 13   Nell’imperversare delle tre malattie è noto l’episodio del medico NicolasRené Desgenettes, che si autoinoculò la «materia» bubbonica della peste per rassicurare i soldati circa la natura non contagiosa dell’epidemia. 14   Dizionario dei termini di medicina, edito per cura del dottor fisico Giovan-

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Non sono queste sole le malattie che affliggono l’esercito. Mentre Bonaparte è a Parigi, rientrato precipitosamente dall’Egitto e pronto ad assumere la carica di Primo Console, 16.000 superstiti della sua Armata d’Italia (in sua assenza ripetutamente sconfitta dagli austro-russi) sono asserragliati in Genova, popolata di malati, di moribondi, di morti. Quel che falcidia la popolazione genovese e le truppe assediate non è la guerra, ma l’epidemia che a questa fa spesso da contorno: la solita «febbre petecchiale». Il quadro clinico, descritto da un ufficiale medico testimone, il tenente di sanità della Repubblica cisalpina Giovanni Rasori (1766-1837), dice che il soldato è scosso da «forti convulsioni», «la lingua trema», compaiono le «petecchie»; alcuni «delirano ferocissimamente», in altri la lingua incomincia ad «annerirsi»; alla fine compaiono i vermi e taluni «ne ho veduti uscire anche per bocca»15. Nel medesimo anno 1800, che fa da spartiacque tra «due secoli, l’un contro l’altro armato», il quadro bellico non è meno drammatico. Il Primo Console, rivestita in fretta e furia la divisa di generale, rivalica le Alpi e il 14 giugno sconfigge gli austriaci a Marengo. Meritevole di plauso è «il comportamento tenuto dal 9° reggimento cacciatori francesi nella fase finale della battaglia di Marengo, quando, dopo ripetute cariche, riuscì finalmente a sfondare le linee nemiche»16 assicurando la vittoria. Tale comportamento ardimentoso e vittorioso non è però la regola, ma l’eccezione: dopo una carica, condotta «in un crescendo di esaltazione e di stordimento», gli uomini, in genere, «sono fisicamente spossati, hanno sete, hanno le armi che nella maggior parte dei casi non funzionano più [...]; in più le richieste d’aiuto e le grida dei soldati rimasti feriti sul terreno certo non invogliano a proseguire il combattimento». La regola, in questa e in altre future battaglie, è che «un reparto può attendere ore prima di [ri]entrare in azione»; ma la stessa regola può essere contraddetta da «reparti che, in una

ni Battista Fantonetti, Società degli Editori degli Annali Universali delle Scienze e dell’Industria, Milano 1849, p. 450. 15   Giovanni Rasori, Storia della febbre petecchiale di Genova negli anni 1799 e 1800, presso Maspero e Pirotta, Milano 1800. 16   Questa e le citazioni successive sono tratte da Massimo Zanca, L’esercito francese: la battaglia dei soldati, http://www.tuttostoria.net/focus_recensione_ storia_moderna.asp?id=179.

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battaglia o nell’altra, si sono distinti per senso di sacrificio e per coraggio di fronte al nemico». Allorché il Primo Console a vita (tale dal 2 agosto 1802) diventa imperatore dei francesi (tale dal 2 dicembre 1804), nei suoi soldati si è certamente affievolito l’ideale rivoluzionario, ma non lo spirito nazionale, alimentato anche dall’aspirazione a un’ascesa sociale mediata dalla carriera nell’esercito. La devozione al capo carismatico e l’orgoglio di appartenenza a un esercito ritenuto invincibile fanno il resto. L’esercito napoleonico, oltre a essere animato da tali motivazioni e pulsioni, è una moderna macchina da guerra, evoluta sotto tutti gli aspetti: tecnico, tattico, strategico, numerico. La fanteria dispone di bocche da fuoco a basso numero di cilecche: il vecchio moschetto, incorporando l’acciarino o «focile», si è trasformato nel «fucile» in grado di sparare anche tre colpi al minuto e, in più, portatore del temutissimo freddo acciaio della baionetta «innastata». L’artiglieria è progredita anch’essa – il generale Bonaparte ne è un grandissimo esperto – e dispone di cannoni da campagna capaci di sparare palle a ripetizione. La cavalleria, dopo un periodo di crisi per la diserzione di molti nobili inseriti nell’arma e ostili al nuovo ordine rivoluzionario, si è ricostituita in periodo imperiale così da reggere bene il confronto con la cavalleria austro-russa e prussiana. Le tre armi si integrano assai bene in battaglia. La fanteria fa quadrato – le carré – in modo da non lasciare scoperti i fianchi e il retro; in postazione d’attesa «tutti gli uomini, il primo rango inginocchiato, utilizzavano fucili e baionette per formare come un riccio impenetrabile»; in fase d’attacco, «aumentano la velocità mano a mano che si avvicinano» al nemico; preceduti dai cacciatori, o «volteggiatori», addetti alle «schermaglie», e accompagnati dal rullìo dei tamburi, «passano dal passo ordinario a quello accelerato fino a quello, finale, di carica», cui fa seguito lo «scontro [che] raggiunge toni di ferocia mai vista», con soldati che «scaricano l’arma a bruciapelo», oppure che «utilizzano la baionetta per infilzare», oppure che, «maneggiando il fucile come una clava, cercano letteralmente di rompere la testa del nemico». La cavalleria, che in fase di attesa perlustra il terreno ed evita che i fanti retrocedano o trasformino l’eventuale ritirata in una rotta caotica, una volta suonata la carica attacca «per sfondare le linee nemiche»: la sua «vera arma [è] la velocità», che le consente

X. L’impero napoleonico

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di «piombare sugli artiglieri nel minor tempo possibile», così da «ricevere meno colpi e dunque subire meno perdite». L’artiglieria, «male che andasse, riusciva sempre a sparare una salva a mitraglia a distanza abbastanza ravvicinata, il che assicurava la morte o comunque la messa fuori combattimento di gran parte della prima ondata di cavalieri» avversari. Chi sono e quanti sono questi soldati di Napoleone? Questi soldati dei quali si dice – volendo rimarcare il fatto che il loro grado nell’esercito è fissato, o dovrebbe essere fissato, in base a criteri esclusivamente meritocratici – che ciascuno di essi «porta nel suo zaino un bastone da maresciallo»? Sul piano del reclutamento, ai «mercenari» assoldati dall’esercito monarchico e ai «volontari» arruolati dall’esercito repubblicano, è subentrata dal 1793 la leva in massa e dal 1798 la coscrizione obbligatoria (un obbligo cui peraltro è possibile sottrarsi pagando un sostituto). Ciò consente alla Grande Armata creata da Napoleone di contare su 440.000 fanti, 77.000 cavalieri, 23.000 artiglieri, con aggiunta di 28.000 genieri, 16.000 gens d’armes (gendarmi) e 8000 soldati scelti che formano il corpo d’élite della Guardia imperiale. Sono questi, tutti insieme, i soldati vittoriosi e decimati sui campi di battaglia di Austerlitz (2 dicembre 1805), Jena e Auerstädt (14 ottobre 1806), Eylau (8 febbraio 1807), Wagram (6 luglio 1809). La chirurgie des batailles di Percy non è ancora compiutamente realizzata: «ci si arrangia alla meglio». Nei posti di medicazione «servono solo tre cose: alcool per stordire il malcapitato, un pezzo di cuoio da far stringere fra i denti e due robusti infermieri che lo tengano stretto». Ecco come lo stesso Percy descrive uno di questi posti, a Jena, due giorni dopo la battaglia: «Quella mattina [del 16 ottobre 1806] tutti quei disgraziati erano ancora nella sporcizia, in mezzo agli escrementi di quelli che non potevano alzarsi, braccia e gambe tagliate, cadaveri insanguinati, un orribile concime prodotto dalla poca paglia sulla quale sono sdraiati. In qualche posto è stato dato loro un po’ di brodo e del pane. Non si sa come abbiano potuto resistere fino ad ora». Con la marcia vittoriosa dell’esercito napoleonico, marcia in Europa anche la febbre petecchiale che esso porta con sé: il tifo. Typhos è parola greco-antica che significa spossatezza, incoscienza: etichetta gli stati iperfebbrili persistenti contrassegnati da petecchie e da grave compromissione del cuore, fino al collasso, e dei

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centri nervosi, fino al deliquio. Dopo aver fatto 8500 morti in Genova assediata, «all’indomani di Austerlitz [in Moravia] le febbri persistenti tornarono a imperversare, qua e là, negli accampamenti dell’Europa centrale. Le campagne di Prussia nel 1806 [Jena e Auerstädt], di Polonia nel 1807 [Eylau] e poi di Austria nel 1809 [Wagram] provocarono delle gravi esplosioni d’epidemia»17. Scrive Franz Xavier Hildebrand (1789-1849), professore di medicina pratica a Pavia e Vienna, nel suo trattato Sul tifo contagioso che vede la stampa nel 1811: «Il germe del contagio si propagò in virtù del sovraffollamento degli alloggiamenti militari, a causa delle cattive condizioni degli accampamenti e degli stessi ospedali» di sgombero. «Era possibile seguire e descrivere la direzione presa dal morbo seguendo il cammino percorso dai soldati che ne erano affetti. Si può pertanto, a ragion veduta, denominare come peste di guerra l’insieme di queste malattie», coinvolgenti, senza discriminazione, francesi, austriaci, polacchi, russi, prussiani. Non sono le coalizioni antifrancesi ad avere la meglio: è il tifo [quel che] sconfigge l’esercito di Napoleone18. La sanità militare dell’Impero è comunque una istituzione che via via si rinsalda. Prendiamo a campione non la Francia, ma uno Stato satellite come l’Italia napoleonica, dalla Repubblica cisalpina e poi italiana fino al Regno italico. Il generale Pietro Teuliè (1763-1807), ministro della guerra della Cisalpina (poi caduto combattendo a Kolobzreg in Pomerania), nel 1801 prende «provvedimenti risoluti» per ovviare alla malattia dei soldati – la scabbia o rogna – diffusissima in un esercito che Ugo Foscolo, che vi milita, dice essere ancora una «larva di milizia» sia per quantità che per qualità. A questo esercito ancora male organizzato il governo della Repubblica italiana destina nel 1803 maggiori risorse e provvidenze, estese anche «agli invalidi e veterani e agli orfani di militari». Gli orfanelli, figli di «que’ bravi che per i loro servizi e campagne» hanno diritto ad almeno una postuma «riconoscenza nazionale», 17   Per una storia delle malattie, volume collettaneo a cura di Jacques Le Goff e Jean-Charles Sournia, Dedalo, Bari 1986, p. 202. 18   Il tifo sconfigge l’esercito di Napoleone è il titolo del saggio di Yves-Marie Bercé (in Per una storia delle malattie, cit.), da cui sono tratte questa e la precedente citazione.

X. L’impero napoleonico

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vengono istruiti nei «doveri del soldato» e avviati al «maneggio della armi» per creare i «Battaglioni della Speranza» (analoghi ai transalpini «Reggimenti dei Pupilli della Guardia») ed emulare così i loro «bravi» genitori19. Con il costituirsi di un’armata italica «requisita» e «attiva», cioè formata tramite coscrizione e pronta a operare, l’organico della forza militare qualitativamente migliora e numericamente si quadruplica, arrivando a contare nel Regno, alla data del 1° gennaio 1812, 59.128 uomini di truppa, sottufficiali inclusi, e 3038 ufficiali. «Del vario mondo dell’armata, all’interno del Regno e fuori dai suoi confini, facevano parte anche i malati e i feriti», cioè i meno fortunati tra gli italiani di varia estrazione territoriale e sociale sopravvissuti alle diverse campagne e battaglie, da Marengo a Wagram. A tutti «provvedeva il servizio di sanità, riorganizzato a partire dal 1807». Nell’ulteriore triennio, «la progressiva crescita numerica dell’armata richiese il successivo potenziamento degli ospedali militari»20. Nel 1810, in Italia, gli ospedali militari permanenti sono quattro: l’ex convento di Sant’Ambrogio a Milano, l’antico Ospedale dei mendicanti a Venezia (riservato alla marina), l’Ospedale di Sant’Orsola a Mantova e l’ex convento di San Francesco ad Ancona. I primi tre, capaci di 700-800 posti letto ciascuno, sono di prima classe; il quarto, che può contenere 400 ricoverati, è di seconda classe. Peraltro, a causa della sempre più larga domanda di ospedalizzazione, si continua a fare uso degli ospedali civili: a Milano, l’Ospedale Maggiore ospita una pletora di «militari francesi e nazionali» (dopo aver ospitato anche i «feriti dell’armata austriaca», cioè dell’esercito austro-russo che nel 1799-1800 aveva riconquistato temporaneamente la Lombardia)21. La sanità militare dispone in tutto, tra il 1809 e il 1811, di 135 «ufficiali di salute». Tale qualifica si applica a un personale 19   Vedi Franco Della Peruta, Esercito e società nell’Italia napoleonica. Dalla Cisalpina al Regno d’Italia, Franco Angeli, Milano 1988, pp. 15-37. Vedi anche Simonetta Polenghi, Fanciulli soldati. La militarizzazione dell’infanzia abbandonata nell’era moderna, Carocci, Roma 2003. 20   Della Peruta, Esercito e società nell’Italia napoleonica, cit., p. 328. 21   Vedi Pietro Canetta, Cronologia dell’Ospedale Maggiore, Cogliati, Milano 1884, e Giorgio Cosmacini, La Ca’ Granda dei milanesi. Storia dell’Ospedale Maggiore, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 151.

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Guerra e medicina. Dall’antichità a oggi

composito, formato da medici, chirurghi e speziali, destinati agli ospedali o ai reparti, oppure operanti in altre sedi. Circa due terzi hanno competenze formalmente riconosciute, mentre l’altro terzo fruisce, in attesa di un riconoscimento formale (che non avverrà) di una sanatoria dettata dalle impellenti necessità del momento. Collaborano gli «allievi», giovani con almeno due anni di frequenza agli studi universitari di medicina (o frequentanti le cliniche istituite nel biennio 1806-1807 nell’Ospedale Maggiore e nell’Ospedale militare di Sant’Ambrogio in Milano); e prestano servizio i «sottoaiutanti», adibiti alle varie mansioni. Ancora più in basso c’è la manovalanza degli infermieri, spesso reclutati tra i veterani. Tabella 1. Gli ufficiali di salute italici fra 1809 e 1811 Sotto il profilo di

7 marzo 1809

1° gennaio 1811

n.

%

n.

%

Specialità

medici chirurghi speziali totali

14 103 18 135

10,3 76,3 13,3

14 112 22 148

9,4 75,6 14,8

Destinazione

ai corpi agli ospedali altre sedi totali

80 46 9 135

59,25 34,07 6,66

70 78 – 148

47,3 52,7 –

Titoli

non regolarizzati regolarizzati totale

44 91 135

32,6 67,4

19 129 148

12,8 87,2

Fonte: Annalucia Forti Messina, Il soldato in ospedale. I servizi di sanità dell’esercito italico (1796-1814), Franco Angeli, Milano 1991, p. 57.

Oltre ai quattro ospedali permanenti, la sanità del Regno italico dispone di strutture temporanee o mobili quali le «infermerie reggimentali» e gli «ospedaletti d’ambulanza». «L’organizzazione», secondo quanto scrivono alcuni osservatori o gli stessi comandanti, «fu nei primi tempi assai lacunosa», anche perché «molto a desiderare lasciarono gli infermieri, rozzi e indisciplinati». Il ricovero in tali strutture è anche quello di soldati

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X. L’impero napoleonico

Tabella 2. Prospetto comparativo delle affezioni pleuropolmonari curate nelle due cliniche, civile e militare, di Milano durante gli anni 1808, 1809 e fino al 1° settembre 1810 Clinica civile

Clinica militare

Numero salassi

Numero malati

guariti

salassi morti

malati guariti

morti

0 1

61 102

9 6

0 1

15 35

» 1

2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16

100 66 47 54 16 24 17 10 2 1 » 3 1 » 1 505

5 13 16 19 23 13 15 11 4 5 1 2 4 1 » 147

2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16

34 17 15 15 4 8 » 6 2 1 1 » 1 » » 154

1 2 1 2 2 2 1 3 3 2 4 1 1 » » 26

Totale generale

652

180

Mortalità

22,90/163%

14,4/9%

Fonte: Francesco Freschi, Storia della medicina in aggiunta e continuazione a quella di Curzio Sprengel, Stabilimento Librario Volpato, Milano 1851, p. 88 (documento XXIX).

autolesionisti o simulatori, per cui «non sempre i militari che si ammalavano nei reparti e avevano bisogno di ricovero venivano mandati con sollecitudine negli ospedali», giacché c’era il sospetto che essi «adducessero malanni inesistenti per evitare il servizio» o, a maggior ragione, il combattimento. «La conse-

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Guerra e medicina. Dall’antichità a oggi

guenza [era] che a volte accadeva che alcuni militari morissero nelle caserme»22. Per quanto attiene agli «ospedaletti d’ambulanza» – o «ambulanze» tout court – «dal 1809 al 1813 furono continuamente allestite ambulanze dietro precise istruzioni che seguirono il modello francese» introdotto e perfezionato da Larrey e Percy. «L’ambulanza prende corpo in tutto il suo massiccio ingombro, che il nome con cui spesso viene indicata – cassone, per dire appunto carro o furgone coperto – connota di lugubre pesantezza»23. Il personale addetto – medici e chirurghi di diverso grado, speziali, infermieri – dispone di strumenti, apparecchi, materiale di medicazione, arnesi di farmacia, cassette di medicinali. Un «puntiglioso elenco» di questi ultimi comprende: «ipecacuana, agarico di quercia, colofonia, estratto di saturno, polvere purgante, teriaca, unguento mercuriale e altri unguenti, cerotto, pillole mercuriali, laudano liquido, canfora, tintura di cannella, spirito di vino canforato, spirito di melissa, liquore anodino, chermes minerale, pietra infernale, sale nitro, sale ammonico, vitriolo di zinco e di rame, alcali caustico, allume calcinato, tartaro emetico»24. Si tratta di una polifarmaceutica empirica ed eclettica – potremmo dire d’ancien régime terapeutico – nella quale soltanto il laudano, tintura alcoolica lenitiva del dolore, e lo spirito canforato, analettico e cardiotonico, sono medicinali, insieme a unguenti e purganti, di comprovata efficacia. La sanità militare soffre di particolari difficoltà operative laddove la guerra si trasforma in guerriglia, come in Spagna, durante l’insurrezione seguita all’annessione, di fatto, di quella nazione all’impero napoleonico con la nomina a re di Spagna, nel 1808, del fratello di Napoleone, Giuseppe Bonaparte (1768-1844). È una guerrilla «senza quartiere, che metteva i corpi alle prese con le bande contadine degli insorgenti, con le devastazioni della ter  Della Peruta, Esercito e società nell’Italia napoleonica, cit., pp. 331-334.   Annalucia Forti Messina, Il soldato in ospedale. I servizi di sanità dell’esercito italico (1796-1814), Franco Angeli, Milano 1991, p. 99. 24   L’elenco, desunto da un verbale di consegna in data 10 settembre 1809, analogo ad altri dello stesso periodo, è riportato ivi, p. 106. 22 23

X. L’impero napoleonico

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ra bruciata, con la crudele spietatezza di popolazioni animate da ardore nazionale e fanatizzate dal clero»25. «Agli Italiani, specie in Catalogna, toccò pagare un larghissimo contributo di vite e di dolore a questo tipo di lotta», definibile partigiana ante litteram. Ne sono vittime i 30.000 uomini inviati in Spagna tra il 1808 e il 1813. «Di questa forza fecero ritorno in patria, in varie riprese, intorno a 9.000 uomini; e i morti e i dispersi superarono così la cifra di 21.000». Tutti quanti, morti e sopravvissuti, «furono costretti ad affrontare un nemico altrettanto insidioso degli spagnoli: la fame»26. Dopo la guerra e la fame di Spagna, la fame e la guerra e il gelo di Russia. «Se la rovina delle divisioni che si batterono in Spagna fu progressiva e diluita nel tempo, subitanea e rapida fu la catastrofe delle milizie italiane», e più in generale di tutta la Grande Armée, «nella campagna di Russia del 1812, che fu all’origine del crollo dell’impero napoleonico. Della gigantesca armata di più di 650.000 uomini mobilitati per l’attacco alla Russia fece parte un corpo d’esercito del Regno [d’Italia] di circa 27.000 uomini»27. Percy vede realizzata al meglio la sua «chirurgia delle battaglie», predisposta per le campagne di guerra dell’imperatore. Larrey può sperimentare in grande l’efficienza delle sue «ambulanze volanti». Nelle sue «memorie di chirurgia militare e campagne» può scrivere che non accadrà più che «i feriti vengano lasciati sul campo finché lo scontro è terminato»28. Percy e Larrey sono due begli esempi di come la chirurgia possa giovare non solo perfezionando le proprie tecniche operatorie, ma anche migliorando la propria organizzazione. Di Larrey resterà tuttavia proverbiale soprattutto l’abilità chirurgica, che era tutt’uno con la rapidità d’intervento: presto e bene. La sua fama leggendaria vuole che nella sola giornata avversa di Malojaroslavetz egli arrivasse a effettuare oltre 200 amputazioni. Napoleone lo nominò chirurgo onorario della Guardia imperiale e lo nobilitò a barone, come Percy, lasciando scritto nel proprio testamento:   Della Peruta, Esercito e società nell’Italia napoleonica, cit., p. 348.   Ivi, pp. 354 e 358. 27   Ivi, p. 373. 28   Dominique-Jean Larrey, Mémoires de chirurgie militaire et campagnes, voll. I-IV, Paris 1812-1818, p. 122. 25 26

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Guerra e medicina. Dall’antichità a oggi

«Al chirurgo generale dell’Armata francese Dominique-Jean Larrey lego la somma di 100.000 franchi. Egli è l’uomo più degno che io abbia mai conosciuto». Napoleone fa il suo ingresso a Mosca, incendiata dai russi, il 14 settembre 1812. «Si calcola che di circa 25.000 malati e feriti ricoverati» nelle varie ambulanze, infermerie e luoghi di fortuna, «oltre 13.000 rimanessero vittime tra le fiamme». Non è il fuoco incendiario, ma il gelo rigido dell’inverno il nemico peggiore. In un raccapricciante panorama bianco e nero, di neve punteggiata da cadaveri aggrovigliati, Larrey memorizza in una pagina la vicenda forse più tragica dell’intera epopea napoleonica: «La morte per assideramento era preceduta dal pallore del volto, da una specie di idiotismo [...]. Gli individui barcollavano sulle gambe come ubbriachi», facendosi da parte lungo i camminamenti. «Abbandonati a se stessi, perdevano tosto l’equilibrio e cadevano nei fossi colmi di neve, colpiti da un intirizzimento doloroso cui seguiva ben presto un assopimento letargico e la morte»29. Larrey scrive anche: «Al combattimento di Malojaroslavetz [25 ottobre 1812], avemmo circa 2.000 feriti che medicammo sul campo di battaglia e che si fecero trasportare al seguito dell’esercito nelle vetture speciali condotte da Mosca. Debbo particolari elogi a Paolo Assalini, primo chirurgo del Re d’Italia»30. Quest’ultimo, in realtà, è il viceré Eugenio de Beauharnais (1781-1824), figlio adottivo di Napoleone e comandante in capo dei resti della Grande Armata durante la precipitosa e disastrosa ritirata. Paolo Assalini (1759-1846) è il suo chirurgo personale: dopo esser stato «chirurgo capo e professore di clinica e dimostratore di operazioni chirurgiche» nel milanese Ospedale militare di Sant’Ambrogio, ha lasciato il primariato ospedaliero per prendere parte alle campagne napoleoniche in Spagna, Germania, Ungheria, Russia. Nel Manuale di chirurgia per apprendisti e praticanti, pubblicato a Milano nel 1812, egli ricapitola tutte le proprie esperienze di guerra, a partire dalle observations compiute in Egitto e in Siria «sulla malattia chiamata peste, il flusso dissenterico e l’oftalmìa» fino a quelle compiute in Spagna e in Ungheria, ri  Ivi, p. 211.   Ivi, p. 212.

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X. L’impero napoleonico

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spettivamente «sulla febbre gialla di Cadice» e sugli interventi per cataratta capaci di ridare la vista e dare a lui la fama di «chirurgo dei miracoli»31. Assalini è un bell’esempio di chirurgia militante e progressiva, in bella sintonia con «le magnifiche sorti, e progressive» vaticinate da Giacomo Leopardi per il XIX secolo, ma in fatale distonia con la stagione regressiva del tracollo militare e del successivo tramonto dell’astro napoleonico. «A metà dicembre [del 1812] la tragedia si era ormai consumata; della gigantesca massa d’uomini che avevano partecipato alla campagna [di Russia] ne erano rimasti poco più di 100.000, e dei 27.000 italiani del Regno ne erano tornati appena un migliaio»32. «Le guerre», scrive lo storico francese Jacques Léonard, «sollevano una nube da cui piove sangue. A queste grandi falcidie mortali si aggiungono le epidemie che fanno più vittime della mitraglia. Le dissenterie e i tifi portano via più innocenti di quanti presunti tali abbatte la ghigliottina. Non bisogna accontentarsi di contare gli uomini caduti sul campo dell’onore e passare sotto silenzio le sorti dei mutilati, dei malati e dei prigionieri. Come sostenere che la Rivoluzione e l’Impero non hanno sacrificato che un milione e trecentomila soldati e che la vita era bella tra le due carneficine?»33. In un eventuale processo storico, continua Léonard, «si convocherà, io spero, alla sbarra dei testimoni Desgenettes e Larrey, Percy e Gilbert [un altro dei ‘chirurghi di Napoleone’], che hanno saputo trasporre l’epopea nel registro della tragedia; non si dimenticherà la peste di Siria e la febbre gialla», né «le sofferenze della ritirata di Russia e tutti i morti per sfinimento nei quattro cantoni d’Europa». Medici fisici e chimici «confesseranno la risibile inefficacia delle fumigagioni destinate a ‘purificare’ l’aria delle infermerie contaminate dalla ‘putredine d’ospedale’. Accan31   Sulla figura di Assalini vedi Francesco La Cava, Assalini, Zigiotti, Trieste 1947 e, recentemente, la tesi di laurea in storia (non pubblicata) di Claudia Ghezzi, Paolo Assalini, un chirurgo eclettico tra età napoleonica ed età della restaurazione, Università degli Studi di Milano, a.a. 1998-1999. 32   Della Peruta, Esercito e società nell’Italia napoleonica, cit., p. 376. 33   Jacques Léonard, La médecine entre les pouvoirs et les savoirs, Aubier Montaigne, Paris 1981, p. 102.

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to alle pene urlanti dei morenti sventrati, bisognerà mettere le équipes dei chirurghi maggiori praticanti alla svelta, per limitare il dolore e l’emorragia, le amputazioni temerarie e i disperati interventi sul capo, il collo, il torace, il ventre dei feriti. Niente anestesia all’infuori del laudano o del ghiaccio, niente antisepsi all’infuori dell’acqua salata. E sulle piaghe minacciate dalla gangrena o dal tetano, il ferro rovente cauterizza», ancora, mentre «chirurghi improvvisati danno spettacolo, il più desolante, della loro inesperienza»34.   Ivi, pp. 102-103.

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XI Crimea e Solferino L’ancien régime «restaurato» dall’alleanza stipulata fra le quattro potenze uscite vittoriose da Waterloo (Austria, Inghilterra, Prussia e Russia) al Congresso di Vienna del 9 giugno 1815, ridisegna la geografia d’Europa e vorrebbe ridisegnarne la storia. Quel che non gli riesce è cancellare le idee e le istanze della rivoluzione, anche se dovunque si cerca di eliminare le istituzioni e le strutture create dalla Francia, sia rivoluzionaria che napoleonica, in ogni campo: militare, civile, giuridico, sociale, professionale. In quest’ultimo campo viene eliminata – bell’esempio di restitutio ad antiquum – l’unificazione delle due figure dell’arte sanitaria, il medico e il chirurgo, restituendo a ciascuna di esse una sua propria laurea e una sua vecchia identità. Non diversamente, in campo militare, nel Piemonte nuovamente sabaudo dopo il trilustre periodo francese (dal 1801 al 1814) l’arma tradizionale della cavalleria si riappropria del perduto predominio sulle altre armi, in particolare sull’artiglieria: forse che l’artigliere non è, come il chirurgo, un «manovale» pretenzioso, spinto a un’ascesa che non gli compete? In Piemonte le roi revenant, Vittorio Emanuele I (1759-1824), che il 20 maggio 1814 ha ripreso possesso dei suoi stati di terraferma, riordina l’esercito anche in campo sanitario, ma «più sulla carta che in fatto». Un fatto nuovo è invece l’istituzione dell’arma dei Reali Carabinieri, peraltro modellata sulla gendarmeria francese, intesa però non come milizia popolare a difesa della libertà dei cittadini, ma come polizia di governo che già sotto Napoleone era deviata verso una funzione prevalentemente repressiva e illiberale, tanto occhiuta quanto malvista1.   Alle Regie Patenti del 13 luglio 1814, istitutive del Corpo dei Carabinieri

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In Lombardia, e nel Veneto, l’imperial-regio governo austriaco, pur praticando anch’esso una politica rigidamente conservatrice e nemica di ogni moto libertario, è tuttavia l’erede di un dispotismo che in epoca pre-rivoluzionaria era stato illuminato. Nel campo sanitario, anche per quanto attiene all’esercito, la discontinuità con il recente passato napoleonico ammette tratti di continuità con il pregresso periodo illuministico. Il medico Annibale Omodei (1779-1840), laureato a Pavia e perfezionatosi a Vienna alla scuola di Frank, dal 1804 al 1811 ha disimpegnato l’incarico di medico militare presso l’Ospedale di Sant’Ambrogio in Milano. A lui si deve un Sistema di polizia medico-militare (Vigevano 1807) echeggiante nel titolo il trattato di Frank: l’opuscolo ha contribuito a fargli guadagnare il posto di consulente, dal 1812 al 1814, presso il ministero della Guerra del Regno italico. Alla caduta di quest’ultimo, la sua fortuna non declina, diversamente da quella di altri suoi colleghi, come ad esempio Giovanni Rasori, che peraltro aveva diluito il proprio iniziale giacobinismo nell’attività di funzionario della sanità e di professore di clinica medica, in parallelo al chirurgo Assalini, nell’ospedale militare milanese2. Il medico militare, scrive Omodei nel suo «sistema», «non può certamente togliere tutti gli strumenti di corruzione, sì fisica che morale, della milizia; ma può bensì, conosciuto l’influsso sulla salute delle particolari vicende della militare istruzione, suggerire i mezzi per correggerne, se non del tutto, almeno in parte le cattive conseguenze». Insomma, non potendo evitare le cause della guerra, il medico cerchi almeno di mitigarne gli effetti. La dissertazione di Omodei muove dall’istruzione e premonizione del futuro soldato (circa l’alimentazione, l’abbigliamento, le esercitazioni, il modo di vita, il celibato, le trasgressioni da evitare e le punizioni da non meritare) e arriva alla previdenza e assistenza al soldato in armi (negli accampamenti, negli assedi, nelle battaReali, fanno da cornice gli elementi caratteristici della originaria uniforme: il cappello a due punte di origine settecentesca, comunemente chiamato «lucerna», e la bandoliera bianca in cuoio di bufalo. Figurano anche la carabina, l’arma individuale ritenuta agli inizi dell’Ottocento come la più evoluta e maneggevole, da cui il Corpo prende il nome, e la coccarda di colore azzurro, che nella estate del 1848 assumerà il tricolore della bandiera nazionale. 2   Sulla figura di Rasori vedi Giorgio Cosmacini, Il medico giacobino. La vita e i tempi di Giovanni Rasori, Laterza, Roma-Bari 2002.

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glie campali, negli ospedali, con riguardo alle febbri castrensi e nosocomiali che lo minacciano, alle statistiche delle malattie che lo affliggono, alle norme di sepoltura tempestiva per coloro che soccombono). Con perfetto stile «alla Frank», che ha previsto una «medicina politica» dalla culla alla tomba, Omodei progetta una «medicina militare» dalla pace alla guerra, dalla giovinezza in fiore alla morte eventuale. La «polizia medico-militare» fornisce a Omodei una competenza indiscussa, tanto più in quanto egli è il maggior studioso di quell’«ultima grande epidemia d’ancien régime»3 che è il tifo petecchiale, la «peste di guerra» che ha contribuito a sconfiggere l’esercito di Napoleone e che, anche dopo l’uscita di scena del grande imperatore, «ha regnato epidemicamente nella Lombardia negli anni 1817 e 1818»: è ciò che egli scrive, da epidemiologo esperto di nosografia militare, nel frontespizio del suo trattato Del governo politico-medico del morbo petecchiale (Milano 1822). «Dal 1° di gennaio del 1817 al 11 maggio del 1818», scrive specificando, «in tutto lo Stato lombardo [ritornato tale sotto il dominio austriaco] si sono avuti 37.465 individui nazionali e 545 accattoni e vagabondi attaccati dalla febbre petecchiale»4. Nel reame borbonico, dopo il decennio che ha visto succedersi sul trono di Napoli nel 1806 Giuseppe Bonaparte e nel 1808 Gioac­chino Murat (1767-1815) – il generale-maresciallo-principe-re che ha inanellato allori nelle guerre napoleoniche e poi dissolto la feudalità nel Mezzogiorno e creato un esercito nazionale modellato su quello francese anche sotto l’aspetto sanitario –, il re delle Due Sicilie Ferdinando I (1751-1825) nel 1820 cede alla richiesta di una Costituzione e nel 1821 l’abolisce con l’appoggio delle armi austriache. In concomitanza «disciolse subito l’esercito», reo di aver sostenuto il movimento costituzionale sotto il comando dei fratelli Pepe, i generali ex murattiani Florestano (1778-1851) e Guglielmo (1783-1855). Nel ripristinare l’assolutismo di governo, re Ferdinando «abolì la coscrizione, affidando la 3   Vedi il paragrafo Il tifo petecchiale: un’eredità dell’antico regime nel libro di Paola Zocchi, Il comune e la salute. Amministrazione municipale e igiene pubblica a Milano (1814-1859), Franco Angeli, Milano 2006, pp. 222-230. 4   Vedi Annibale Omodei, Del governo politico-medico del morbo petecchiale, in «Annali Universali di Medicina», 1821-1822, p. 31.

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custodia del regno a mercenari stranieri reclutati dalla Svizzera»5. Analogamente, negli stati del papa, «l’esercito pontificio era composto di elementi eterogenei: svizzeri, olandesi, inglesi, zuavi e volontari appartenenti a varie nazionalità»6. Negli stati sardi Carlo Alberto (1798-1849), che nella fugace sua reggenza del 1821 aveva «tentennato» tra costituzionalismo e assolutismo, dal 1831 è re a pieno titolo. «Allorché [nel 1848] indisse la prima guerra d’indipendenza italiana, l’esercito piemontese non aveva un regolamento del servizio sanitario in guerra vero e proprio, ma soltanto poche disposizioni contenute nel regolamento di servizio per le truppe in campagna pubblicato il 19 gennaio 1833»7. Peraltro, nel mese di marzo del medesimo anno venne istituito un corpo di allievi medici militari destinati a essere nominati «medici e chirurghi in seconda» e poco dopo, il 4 giugno 1833, un decreto sovrano provvide al «Riordinamento del personale e del servizio militare in tempo di pace», riguardante anche il servizio sanitario con l’assimilazione dei medici ai gradi militari e con l’istituzione di un «Consiglio superiore di sanità militare» avente il compito di sovrintendere al servizio sanitario sia dell’esercito che della marina. Il 4 giugno è, ancor oggi, la data celebrativa della sanità militare italiana. Non è un caso che l’adeguamento della chirurgia militare alle via via sempre più aggiornate nozioni medico-scientifiche sia preceduto, nel 1832, dalla «riforma dell’artiglieria», la quale «non era che un punto del vasto programa del re, [...] tutto preso dall’urgenza e dalla gravità del problema militare»8. In un susseguirsi di «regi viglietti» carloalbertini si giunge al decreto del 5 settembre 1843 che «rende obbligatoria ai chirurghi militari la laurea in ambedue le facoltà», premessa della riunificazione istituzionale fra medicina e chirurgia; e il 16 settembre 1848, solo dopo l’armistizio di Salasco (presso Vercelli) del 9 agosto, cioè a operazioni belliche temporaneamente sospese, «fu istituito   Vittorio Giglio, Milizie ed eserciti d’Italia, Ceschina, Milano 1927, p. 181.   Arturo Casarini, La medicina militare nella leggenda e nella storia, collana medico-militare edita dal Ministero della Guerra - Direzione generale di Sanità Militare, vol. XX, Roma 1929, p. 425. 7   Ivi, p. 392. 8   Niccolò Rodolico, Carlo Alberto negli anni di regno. 1831-1843, Le Monnier, Firenze 1936, pp. 101 e 103. 5 6

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un corpo d’infermieri militari presso l’armata, per il servizio degli ospedali e delle ambulanze»9. È una sanità militare ritardataria, in un esercito che si rinnova a piccoli passi stentati. Nel 1854 scoppia, nell’estremo lembo sud-orientale d’Europa, la guerra di Crimea, che Benedetto Croce ha definito, più che un evento militare, «un avvenimento politico, mosso dall’interesse inglese di impedire alla Russia di stendere il suo dominio o il suo protettorato su Costantinopoli e sulla penisola balcanica, e di penetrare coi suoi legni di guerra nel Mediterraneo»10. La guerra di Crimea è una pagina importante di storia anche italiana. La partecipazione al conflitto è voluta da Camillo Cavour (1810-1861) allo scopo di allineare il regno sardo-piemontese di Vittorio Emanuele II (1820-1878) alle grandi potenze europee, Inghilterra e Francia, che appoggiano la Turchia contro la Russia: da esse l’abile primo ministro si ripromette di ottenere, in cambio dell’alleanza, futuri aiuti per la causa nazionale. La spedizione che salpa da Genova nella primavera del 1855 si compone di 17.767 uomini armati appartenenti a vari corpi, tra cui i «bersaglieri» al comando del loro fondatore, il generale Alessandro La Marmora (1799-1856), fratello del comandante in capo generale Alfonso (1804-1878). Sbarcato a Balaclava l’8 maggio, Alfonso La Marmora chiede e ottiene che le sue truppe siano schierate in prima linea; così prende parte il 16 agosto alla battaglia della Cernaia, dove con una tattica accorta ottiene un notevole successo, che fa notizia, al prezzo di 36 morti e 170 feriti. Non è questa la perdita che più conta: ad appena un mese dallo sbarco, l’8 giugno, nelle file sardo-piemontesi si contano 750 morti di colera, che alla 9   Casarini, La medicina militare, cit., pp. 394-395. Ispiratore del riformismo carloalbertino fu Alessandro Riberi (1796-1861), dal 1843 presidente del Consiglio superiore di sanità militare, poi medico curante di Carlo Alberto nell’esilio di Oporto, indi fondatore nel 1851 del «Giornale di medicina militare» e ascoltato senatore del regno. 10   Benedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1932, pp. 213-214. Sulla guerra di Crimea vedi anche Giorgio Cosmacini, Medicina e sanità dalla Cernaia a Soferino, in AA.VV., Vittorio Emanuele II, il re galantuomo, a cura del Ministero dei Beni Culturali, Fondazione DNArt, Torino 2010, pp. 286-293.

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fine della campagna ammontano a 1200; tra essi Alessandro La Marmora e il medico della sanità militare dottor Balestra. Il cholera morbus è il «mostro asiatico»11 alla sua seconda ondata ottocentesca (dopo la prima del triennio 1835-37). Imperversa già dall’anno precedente nelle file dell’esercito inglese: ancor prima di misurarsi con l’esercito russo sotto le mura di Sebastopoli, il contingente armato di Sua Maestà britannica la regina Vittoria (18191901) è falcidiato dall’epidemia, più virulenta che mai al confine dell’Asia, sua terra d’origine. Decurtata dalla morte di 1500 colerosi, la truppa che si accalca nell’Ospedale di Scutari, sobborgo asiatico di Costantinopoli sulla sponda occidentale del Bosforo, vede arrivare una donna trentacinquenne molto energica, Florence Nightingale (1820-1910), inviata dal secretary at war conte di Herbert e accreditata di speciali competenze infermieristiche e organizzative. L’ospedale in terra turca è stracolmo di feriti e di malati, vittime gli uni della guerra, gli altri del colera e di altre malattie, propiziate dal clima torrido, dalla cattiva alimentazione, dalla pessima igiene. È un caravanserraglio della disgrazia. Florence Nightingale vi presta servizio alla testa di 38 sisters che ha portato con sé dall’Inghilterra, «sorelle» o «suore», religiose o laiche; quel che importa è che siano abili e solerti. In diciotto mesi di attività infermieristica, attingendo a fondi finanziari stanziati da una sottoscrizione del «Times» e razionalizzando da par suo la gestione ospedaliera, riesce a far prevalere, nelle malsane e caotiche sale, l’ordine e l’igiene, abbattendo il tasso di mortalità dei ricoverati: addirittura dal 47,2 al 2,2%12. Non è il solo risultato. La capo-infermiera, che si è guadagnata la fiducia dei medici militari, cui fornisce un bell’esempio di efficacia curativa e di umanizzazione igienista, provvede alla idratazione e nutrizione migliore ed è attenta, con scrupolo maniacale, alla pulizia di uomini e cose. Così facendo, restituisce alla persona del soldato una sua dignità, fisica e morale, elemento non secondario di un recupero che è anche psicologico. 11   Eugenia Tognotti, Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia, Laterza, Roma-Bari 2000. 12   Sulla figura di Florence Nightingale vedi Giorgio Cosmacini, Florence Nightingale (1820-1910), nel fascicolo Donne che cambiarono il mondo, strenna dell’Istituto Gaetano Pini, Milano 2007, pp. 9-35 e, più in generale, Cecil Wood­ ham Smith, Florence Nightingale, Sansoni, Firenze 1954.

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Nell’estate del 1857 la Nightingale invia alla Commissione d’inchiesta sulle condizioni sanitarie dell’esercito un Report fitto di cifre, tabelle, rilievi statistici. Afferma che la statistica, in particolare quella medica (base di una epidemiologia non solo descrittiva ma anche numerica), è «la scienza più importante del mondo intero». Il «rapporto» è l’anticipazione succinta di un’opera più vasta, composta da quasi mille pagine di Notes «su questioni concernenti la sanità, l’efficienza e l’amministrazione ospedaliera dell’esercito». «La guerra di Crimea», scrive l’autrice, «rappresenta un esempio esauriente di un esercito che, dopo essere precipitato nel baratro più profondo della malattia e del disastro a causa delle negligenze di cui è stato vittima, si è risollevato fino al più alto grado di salute ed efficienza grazie ai rimedi prontamente adottati». In pagine dense di fatti e di concetti, Florence Nightingale dimostra che l’ospedale è stato ed è più letale del campo di battaglia. Dimostra altresì come il cibo cattivo e l’immane sporcizia abbiano fatto sì che al colera e alle ferite di guerra infette si aggiungessero altre infezioni, responsabili di quelle febbri, tipicamente ospedaliere, etichettate nosocomiali (e che saranno dette «infezioni opportunistiche»). Si è scritto che Le mie prigioni di Silvio Pellico (1789-1854), pubblicate nel 1832, costarono all’Austria più di una guerra perduta. Si può dire che il Report e le Notes di Florence Nightingale, apparse venticinque anni dopo, trasformarono la vittoria nella guerra in Crimea in una sconfitta della sanità militare britannica e, più in generale, in un atto di accusa per la sanità militare europea. Il duca di Wellington (1769-1852), vincitore di Napoleone a Waterloo e poi supremo comandante a vita dell’esercito britannico, aveva sentenziato che i soldati non erano altro che «la feccia della terra», arruolatasi per non faticare e per bere vino gratuitamente. Florence Nightingale scrive che l’arruolamento ha un intento anche educativo, quello di dare ai soldati motivazioni degne di uomini riscattati dallo spettro della disoccupazione e dalla schiavitù dell’alcool, di figli della patria da elevare non solo igienicamente, ma anche moralmente, al rispetto di sé. L’infermiera ideale o l’ideale d’infermiera che è storicamente la Nightingale ha tratto il modello organizzativo e assistenziale da proporre alla sanità militare del secondo Ottocento dalla persona-

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le esperienza – ahimè ripetibile su vasta scala – dello stretto intreccio tra guerra ed epidemia. L’accostamento dei due flagelli non è affatto arbitrario, come la storia fin qui ha più volte insegnato; è anzi un accostamento pienamente legittimo, perché i rispettivi quadri d’insieme presentano evidenti analogie. «Lo spettacolo [...] era spaventevole. I morti semisvestiti, gonfi, neri, giacevano in tutte le attitudini»13. «I vivi sono pallidi, lividi, annientati: gli uni [...] hanno lo sguardo inebetito e sembra che non capiscano ciò che si dice di loro: vi piantano addosso degli occhi stralunati, ma l’apparente prostrazione non impedisce loro di sentir la sofferenza; gli altri sono inquieti e agitati da un trauma nervoso e da un tremito convulso; altri ancora [...] sono come pazzi di dolore, domandando che li si finisca, e si contorcono col viso contratto negli ultimi spasimi dell’agonia»14.

Con gli opportuni omissis, il quadro sembra quello di una morìa per colera o di una morte collettiva per qualsiasi altra malattia contagiosa. Invece il contagio è la guerra e il quadro è la testimonianza della carneficina di soldati franco-sardi e austro-ungarici che si compie a Solferino il 24 giugno 1859, durante la seconda guerra d’indipendenza italiana. «Nell’intera campagna del ’59 [cioè nel breve quadrimestre tra l’aprile e il luglio] gli Austriaci perdettero 4 generali, 630 ufficiali, 19.311 soldati; i Sardi 216 ufficiali e 6.035 soldati; i Francesi 720 ufficiali e oltre 12.000 soldati»15. Nel giorno stesso della battaglia giunge a Solferino un trentunenne uomo d’affari ginevrino, Henry Dunant (1828-1910), che motivato da spiritualità calvinista ha in animo di mettere a profitto le proprie fortune e iniziative anche in campo umanitario. Alla ricerca di un appoggio politico in grado di consentirgli la realizzazione concreta delle sue idee filantropiche, ha individuato in 13   Giulio Adamoli, Da San Martino a Mentana. Ricordi di un volontario, Treves, Milano 18922, p. 51. 14   Henry Dunant, Souvenir de Solférino (Genève 1862), ora Un ricordo di Solferino, in Henry Dunant e le origini della Croce Rossa, a cura di Luigi Firpo, UTET, Torino 1979, pp. 30-31. 15   Luigi Firpo, Introduzione a Henry Dunant e le origini della Croce Rossa, cit., p. xiv. Dal testo curato da Firpo sono tratte le citazioni riportate qui di seguito.

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Napoleone III (1808-1873), che dal 1852 è il nuovo imperatore dei francesi e che è sceso in Italia alla testa dell’esercito alleato del Piemonte contro l’Austria, il personaggio che può dare sostegno ai suoi progetti. Lo avvicina la sera del 24 giugno, a battaglia appena conclusa, sulla scena del massacro. Lo spettacolo raccapricciante, le condizioni disumane dei tanti feriti, la mancanza e l’inefficienza dei soccorsi e delle cure si stampano indelebili nella memoria di Dunant, da cui esce, tre anni dopo, lo scritto Souvenir de Solférino pubblicato a Ginevra. L’autore è consapevole che la battaglia di cui ha constatato l’esito è la sola che può essere paragonata, per l’estensione delle perdite, a quelle dell’altro Napoleone, a Borodino, a Lipsia, a Waterloo. Si aggiunga che, due mesi dopo il massacro, all’ingente numero dei morti in battaglia si sono sommati più di 40.000 colpiti da febbri e morti di malattia, sia per le fatiche sopportate e le ferite subite, sia per la fame e la sete nel clima «tropicale» dell’estate lombarda. Scrive Dunant: Sugli impiantiti degli ospedali o delle chiese sono stati deposti, fianco a fianco, uomini di ogni nazionalità, Francesi e Arabi, Tedeschi e Slavi: [...] malgrado le fatiche che hanno sopportato, malgrado le notti che hanno passato senza sonno, non riescono a riposare; nella loro angoscia implorano il soccorso di un medico o si rotolano disperatamente in preda a convulsioni che avranno fine col tetano e con la morte.

Dalla lettura delle pagine di Dunant vien fuori un quadro di lesioni belliche che vanno dai traumi destruenti prodotti dalla moderna artiglieria alle ferite mutilanti inferte dalle premoderne armi bianche: Si tratta di infelici che non soltanto sono stati colpiti e gettati a terra dalle palle o dalle schegge di un obice, ma per di più le loro braccia o gambe sono state stritolate dalle ruote dei pezzi d’artiglieria che passavano sui loro corpi. L’impatto delle pallottole cilindriche fa scoppiare le ossa in tutte le direzioni, in modo tale che ne risulta sempre una ferita molto grave; anche le schegge d’obice e le palle coniche producon fratture straordinariamente dolorose e lesioni interne sovente terribili. Schegge d’ogni tipo, frammenti d’osso, lembi d’abito, d’equipaggiamento o di scarpe, terra e pezzetti di piombo non di rado complicano e irritano le piaghe del paziente, raddoppiando le afflizioni.

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Il quadro d’insieme assume, personalizzandosi, toni e accenti ancor più truci: Qua c’è un soldato, completamente sfigurato, la cui lingua pende in modo smisurato dalla mascella dilaniata e spezzata [...]. Là c’è un altro infelice che ha avuto una parte del volto portata via da un colpo di sciabola: il naso, le labbra, il mento sono stati separati dal resto della faccia; nell’impossibilità di parlare e mezzo accecato, fa dei segni con la mano e con questa mimica straziante, accompagnata da suoni gutturali, attira su di sé l’attenzione [...]. Un terzo, col cranio largamente aperto, sta spandendo il cervello sulle mattonelle della chiesa.

Le chiese al posto delle infermerie, le donne di paese al posto degli infermieri e dei medici... Scrive ancora Dunant: Una delle chiese di Castiglione paese prossimo al luogo della battaglia è chiamata Chiesa Maggiore. Quasi cinquecento soldati vi sono ammucchiati, e ve n’è almeno un centinaio adagiato sulla paglia davanti alla chiesa [...]. Le donne – infermiere improvvisate – vanno dall’uno all’altro con orci e bidoni pieni di un’acqua limpida che serve a placare la sete e a umettare le piaghe; [...] i loro begli occhi sono pieni di lacrime e di compassione.

Le emozioni trasmesse dal Souvenir di Dunant fanno da lievito a nuove idee e iniziative. Dietro sua iniziativa, nel febbraio 1863 viene creato a Ginevra un comitato che s’impegna a realizzare le idee e tenere alti gli ideali. Il sodalizio è composto dal generale Dufour, presidente, dallo stesso Dunant, segretario, dal giurista Moynier (che sarà poi presidente per cinquant’anni), dal chirurgo Appia e dal medico Maunoir: sono costoro i «cinque signori di Ginevra» che propongono la formazione di soccorritori volontari di malati e feriti in guerra16. Per questi «volontari» viene proposto uno statuto giuridico nuovo, definito neutralità, che sia in grado di renderli immuni da offese belliche e protetti nello svolgimento della loro opera soccorritrice. Per rendere palese tale diritto all’immunità, si propone che i «volontari» siano portatori di un simbolo o segno, uguale 16   Vedi Franco Giampiccoli, Henry Dunant. Il fondatore della Croce Rossa, Claudiana, Torino 2009.

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per tutti gli eserciti, consistente in un bracciale con croce rossa in campo bianco: un omaggio alla Confederazione elvetica, di cui fa parte il Cantone ginevrino e la cui bandiera è raffigurata da una croce bianca in campo rosso. Il 20 ottobre 1863 si apre a Ginevra una Conferenza internazionale che risponde in pieno alle attese degli organizzatori. Vi partecipano i rappresentanti di 14 Stati europei. Le principali risoluzioni adottate sono: la creazione in ogni Stato di un comitato che concorra, in tempo di guerra, al servizio di sanità degli eserciti; l’istituzione di un corpo di infermieri volontari da impiegare nel corso degli eventi bellici; la neutralità delle ambulanze e degli ospedali militari, estesa non solo al personale sanitario ufficiale, ma anche agli «infermieri volontari» e agli abitanti delle località coinvolte dalla guerra che si facciano «volontariamente» soccorritori di feriti e infermi. In breve volgere di tempo, società di soccorso bellico nascono in Prussia e in altri due stati tedeschi (Württemberg e Oldemburg), in Danimarca, in Spagna, in Francia e in Italia. L’8 agosto 1864 un’altra conferenza ginevrina riunisce i rappresentanti di 16 governi. Essa ribadisce i principi e criteri già formulati e si conclude con un accordo solenne, stipulato il 22 agosto: è la Convenzione di Ginevra per il miglioramento della sorte dei feriti di guerra, tappa fondamentale nella storia dell’umanità. Nel 1866 scoppia la guerra tra Austria e Prussia, coinvolgente anche l’Italia nella terza guerra d’indipendenza nazionale. È una guerra che frutta all’Italia, nonostante le sconfitte dell’esercito a Custoza e della marina a Lissa, l’annessione del Veneto. Non è il solo vantaggio conseguito. Una prova dei miglioramenti ottenuti dall’Associazione Italiana di Soccorso ai militari feriti e malati in tempo di guerra è offerta dall’ampio Rendiconto morale ed economico fornito dal Comitato milanese il 31 dicembre 1866. In esso si menziona, con l’opera del colonnello medico Agostino Bertani, il «tanto zelo» delle «gentili signore» crocerossine ante litteram e si fa un dettagliato elenco dell’organizzazione e dotazione delle ambulanze. Nella battaglia perduta (ma nella guerra vinta) la sanità militare ha dato buona prova e non è uscita perdente17. 17   Vedi il Rendiconto morale ed economico del Comitato milanese dell’Associazione Italiana di Soccorso ai malati e feriti in tempo di guerra, presentato dalla presidenza ed approvato [...] il 25 novembre 1866, Milano 1866, pp. 43 e 48.

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Le idee concordatarie della Convenzione ginevrina trovano, tra mille difficoltà, le loro prime applicazioni. Dunant, che è passato attraverso rovesci finanziari ed emarginazione nello stesso sodalizio da lui creato, si trasforma in un itinerante predicatore solitario, paladino di altri grandi progetti, dal ripopolamento della Palestina da parte del popolo ebraico all’abolizione completa e definitiva della tratta dei negri e del commercio degli schiavi. L’excursus anticipatore vuole un fatto aggiuntivo: la cerimonia del 10 dicembre 1901, data che coincide con il quinto anniversario della morte, a Sanremo, del petroliere e filantropo Alfred Nobel, inventore della dinamite. I redditi da dinamite e da petrolio del suo favoloso capitale finanziario – 31 milioni di corone svedesi destinati al finanziamento della fondazione intitolata al suo nome – incominciano a rimunerare dall’«anno uno» del secolo XX «coloro che sono stati di grande utilità al genere umano». La distribuzione dei dividendi in cinque parti uguali assegna 50.000 corone – oltre a chi ha ben meritato nei campi della fisica, della chimica, della medicina e della letteratura – «a colui che ha acquistato grandi benemerenze nel campo della fraternità tra i popoli». Il premio Nobel in questo campo, insieme a Frédéric Passy (18221912), fondatore nel 1867 della Lega internazionale per la pace, tocca a Henry Dunant18.   In un’ottica rivendicazionista di priorità nazionali, il primato di fondazione ideale della Croce Rossa viene attribuito a Ferdinando Palasciano (18151891), chirurgo militare dell’esercito meridionale, che a Messina nel 1848 sentì il dovere di prestare soccorso anche ai feriti tra gli insorti antiborbonici, venendo perciò processato e condannato alla pena di morte dal generale Carlo Filangeri. Condonata la pena capitale per intervento regio, Palasciano scontò un anno di carcere a Reggio Calabria. Divenuto poi primario di chirurgia nel napoletano Ospedale degli Incurabili, in una prolusione svolta il 28 aprile 1861 all’Accademia Pontaniana in Napoli, affermò l’inviolabilità dei feriti di guerra. Queste le sue parole: «Bisognerebbe che tutte le Potenze belligeranti, nella dichiarazione di guerra, riconoscessero reciprocamente il principio di neutralità dei combattenti feriti per tutto il tempo della loro cura e che adottassero rispettivamente quello dell’aumento illimitato del personale sanitario durante tutto il tempo della guerra». 18

XII Altre guerre Nell’arco di tempo che gli storici del Risorgimento italiano chiamano «decennio di preparazione» (1849-59) la storia della medicina e della sanità in Europa registra, tra gli eventi memorabili caratterizzanti la rivoluzione teorico-pratica di metà Ottocento, le decisive osservazioni del medico austro-ungarico Ignác Fülöp Semmelweis (1818-1865), che conferiscono validità scientifica alla nozione empirica dell’importanza dell’igiene, l’enunciazione da parte del chimico francese Louis Pasteur (1822-1895) della teoria dei germi superante quella circa i miasmi e i contagi, l’avvento per opera dei dentisti americani Horace Wells (1815-1848) e William Thomas Morton (1819-1868) dell’arte medica di elidere la sensibilità dolorifica e l’avvento della disinfezione con acido fenico per opera del chirurgo scozzese Joseph Lister (1827-1902)1. Si tratta, in altri termini, della nascita dell’asepsi, dell’infettivologia, dell’anestesia. Ma, nonostante tali acquisti teorici e pratici, le loro ricadute sui teatri bellici di Crimea e Solferino sono state 1   Semmelweis dimostrò nel 1847 che la febbre puerperale era un «avvelenamento» (setticemia) dovuto a un «veleno» (virus) trasmesso alle puerpere dalle mani infette degli ostetrici reduci dalle sale di autopsia: bastava lavarsi le mani per ridurne l’incidenza. Pasteur, riconoscendo nella putrefazione un processo biologico e non meramente chimico, formulò nel 1857 la teoria ravvisante nei germi veicolati dall’atmosfera gli agenti, poi detti «microbi», delle infezioni: la nuova teoria fu un decisivo passo avanti rispetto a quella von den Miasmen und Kontagien formulata nel 1840 dal medico tedesco Jakob Henle (1809-1885). Wells e Morton furono pionieri dell’impiego in medicina del «gas esilarante» (protossido d’azoto) e dell’etere, cui si aggiunse il cloroformio, introdotto nell’uso dal medico scozzese James Young Simpson (1811-1870). Lister inaugurò nel 1865 la «rivoluzione dell’asepsi».

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irrilevanti o mancate: l’asepsi è risultata pressocché fallimentare (scarsamente incisiva prima dell’intervento della Nightingale), la teoria infettivologica è rimasta impotente e inoperante davanti al colera, l’anestesia non è giunta in tempo a sollevare dal dolore e dalla sofferenza i tanti soldati feriti, malati, morenti. Il che in parte si spiega con il troppo poco tempo intercorso, tenuto conto che le applicazioni vantaggiose di una scoperta o le implicazioni utili di una teoria non sono, generalmente, immediate. Ma si spiega anche, in gran parte, con l’inerzia del sistema sanitario militare, cui permane sottesa l’idea, certo non enunciata e tuttavia radicata nella mentalità di certi alti comandi (come s’è visto nel caso del duca di Wellington), che la truppa, in fin dei conti, non è altro che «carne da cannone», per non dire «da macello». Con le debite differenze tra il vittoriano Regno Unito e il rinato impero napoleonico, tra l’emergente Stato prussiano e il vecchio impero asburgico del giovane Francesco Giuseppe (1830-1916), la sanità militare non è uscita bene dalla guerra di Crimea e da quella combattuta nel 1859 tra Francia e Austria a Magenta e Solferino (con partecipazione del Piemonte e annessione a questo della Lombardia). Viene fuori un po’ meglio dalla guerra combattuta nel 1866 in terra boema tra Austria e Prussia e vinta da quest’ultima. Al di là dell’Oceano Atlantico, l’evoluzione della sanità militare nelle guerre nordamericane – da quella coloniale anglo-francese (appendice extra-europea della «guerra dei sette anni») a quella d’indipendenza (che tra il 1776 e il 1783 ha portato al costituirsi degli Stati Uniti d’America) – non si discosta dalla evoluzione sanitaria coeva degli eserciti in Europa. Il divario è invece netto nell’Ot­tocento maturo, tra il 1861 e il 1865, quando la «guerra di secessione» – the civil war – lacera gli Stati Uniti dividendo gli «unionisti» Stati del Nord dai «confederati» Stati del Sud. Il divario è netto fuorché nel bilancio conclusivo delle perdite umane: 275.000 vite perdute tra i sudisti sconfitti e 360.000 tra i nordisti vittoriosi. La «guerra civile» americana che redime la schiavitù fa re­ gistra­re un netto salto di qualità rispetto alla pianificazione militare dell’epoca precedente. È un salto qualitativo concernente il tempo e lo spazio delle operazioni: quanto allo spazio, si passa dal trasferimento della truppa a marce forzate (elemento peculia-

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re della mobilità e rapidità napoleoniche) al trasporto celere per via ferroviaria, fluviale, marittima; e, quanto al tempo, si passa dalle informazioni a distan­za per mezzo di portaordini alla loro trasmissione accelerata e istantanea tramite telefonia. La guerra si industrializza: è anche questa la ragione della vittoria del Nord industriale sul Sud agricolo. La «guerra civile» fa registrare anche un netto sviluppo dell’organizzazione sanitaria militare. La celerità dovuta all’abbreviazione spazio-temporale è la stessa che porta a un soccorso più pronto, a un trasporto dei feriti più sollecito, a un loro ricovero più tempestivo negli ospedali e nei luoghi d’asilo approntati dall’iniziativa privata. Inoltre si ampliano i quadri della sanità: nella battaglia di Gettysburg (1-3 luglio 1863), decisiva per le sorti della guerra a favore del Nord, Jonathan Letterman (18241872), medico in capo dell’Armata del Potomac, può disporre di un corpo sanitario che conta 650 medici e 3000 fra aiutanti e portaferiti. I servizi sono adeguati a contenere entro limiti meno disumani le conseguenze della guerra fratricida. Ne è prova il fatto che il tasso di mortalità complessiva è il più basso mai registrato: la percentuale, attestata intorno all’8%, resterà stabile in guerre sempre più fondate su eserciti di massa. Anche i progressi in campo medico-chirurgico sono notevoli. Essi vanno dalla tecnica operatoria del ravvicinamento dei margini delle ferite agli esordi di un’ancor blanda medicazione disinfettante. Peraltro le setticemie, dovute a penetrazione dei germi nell’organismo attraverso la porta d’infezione, sono sempre all’ordine del giorno. Altrettanto o più diffuse sono le malattie infettive, dalle «febbri petecchiali» o «perniciose» (tifo e malaria) allo small-pox (vaiolo) e alla Virginia or Tennessee quickstep: una diarrea acuta o cronica, verosimilmente da malnutrizione, sdrammatizzata dai soldati che ne sono affetti come «vivace marcia militare» e da essi curata tramite blue powder, una «polvere blu» a base di gesso e mercurio. Oppio, chinino e brandy sono i medicinali di uso corrente per malattie che mietono più vittime di quante ne uccidono le armi in battaglia. Non pochi tra i sopravvissuti – mutilati e invalidi – sono dimessi dagli ospedali con una diagnosi che fa riferimento non alla loro mutilazione o invalidità, ma alle conseguenze psiconevrotiche lasciate in loro dalla guerra

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ed etichettate home-sickness, «mal di casa», oppure in modo sinistro, latineggiando, dementia2. In Europa, la Prussia, uscita vittoriosa a Sadowa (3 luglio 1866) dalla guerra contro l’Austria, si annette gli Stati tedeschi che hanno appoggiato militarmente quest’ultima. Sotto la sovranità di Guglielmo I di Hohenzollern (1797-1888), ma soprattutto sotto la guida del cancelliere Otto von Bismarck (1815-1898), la potenza prussiana mira alla creazione di uno stato grossdeutsch che non può non incontrare, al di là del Reno, l’avversione e l’opposizione da parte del «secondo Impero» del «terzo Napoleone». La guerra, dichiarata dalla Francia il 19 luglio 1870, si conclude dopo meno di tre mesi con l’esercito francese costretto a resa pressoché immediata dall’esercito prussiano comandato da Helmuth von Moltke (1800-1891), un grande stratega seguace di Clausewitz. «Per molti versi Moltke sviluppava le idee di mobilità organizzativa e di flessibilità operativa introdotte da Napoleo­ ne I». Si dirà che «la combinazione fra la straordinaria visione strategica di Napoleone I e le riforme fondamentali dell’esercito prussiano da lui sconfitto fu senza dubbio determinante nel generare la concezione moderna dell’uso della forza: da una parte le azioni di Napoleone I condussero al nostro concetto di guerra in cui ricerchiamo il risultato politico definitivo attraverso l’uso delle armi; dall’altra le riforme prussiane produssero una macchina militare notevole, divenuta modello dei nostri moderni eserciti»3. Mettendo in pratica «una coerente dottrina militare, ben rispecchiata nel suo manuale del 1869, Istruzione per comandanti di grandi unità», Moltke «fu capace di far passare il proprio esercito dalla pace alla guerra più velocemente dei suoi avversari». Con lui la guerra franco-prussiana del 1870 portò a maturazione il processo atto a «forgiare il paradigma della guerra industriale fra stati»4, comprensivo altresì di tutta una serie di innovazioni tecniche – dai fucili a retrocarica (sostitutivi dei moschetti ad avancarica) alle

2   Vedi il Compendio di chirurgia di guerra; compilato sulla storia medicochirurgica della guerra di secessione d’America [di Barnes e Otis] dai dottori Felice Baroffio e Claudio Sforza, 4 voll., Carlo Voghera, Roma 1885-88. 3   Rupert Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 154 e 106. 4   Ivi, pp. 156 e 121.

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prime mitragliatrici e ai primi cannoni a lunga gittata – che fecero dell’industria dei Krupp la principale armatrice del secondo Reich. Tutto ha inizio con la sconfitta patita a Sédan dal maresciallo e duca di Magenta Patrice de Mac-Mahon (1808-1893) e da Napoleone III in persona, sconfitta che porta all’abdicazione di quest’ultimo e alla proclamazione della repubblica in Francia (seguita nella primavera del 1871 dal breve periodo della Comune di Parigi). Rovescio della medaglia è la proclamazione, il 18 gennaio 1871, dell’impero germanico con Guglielmo I suo primo Kaiser, incoronato nella Sala degli specchi di Luigi XIV, a Versailles. La sanità militare prussiana è organizzata secondo un’articolazione gerarchica a struttura piramidale che dal vertice direzionale d’armata – attraverso le figure intermedie dei medici di corpo d’armata, di divisione e di reggimento – arriva ai medici di base – di truppa, di tappa, d’ospedale da campo – e ai sottoposti infermieri e portaferiti. Questi ultimi, nei casi di forza maggiore, sono autorizzati e attrezzati a prestare le opere di soccorso immediato, come il frenare un’emorragia, il fasciare una ferita, il contenere una frattura; ma il loro compito principale è quello di «fare presto», cioè di portare con sollecitudine i feriti ai posti di primo intervento e poi smistarli, secondo le indicazioni ricevute, nei vari ospedali – mobili, fissi, di retrovia, di riserva – per le cure adeguate. Tale organizzazione, associata a un’igiene soddisfacente e a un’ottima preparazione del corpo sanitario militare fin dal tempo di pace, fa sì che «per la prima volta nelle guerre l’esercito tedesco ebbe un minor numero di morti per malattie che per il ferro e il fuoco nemico»5. Dalle Reminiscenze di un viaggio in Germania, scritte e pubblicate nel 1871 dal generale medico Francesco Cortese (1802-1883), inviato dal ministero della Guerra italiano «per studiare gli ordinamenti sanitari presso le truppe operanti», emerge la conclusione che «i prodigiosi risultati ottenuti dall’esercito tedesco nell’immane conflitto erano dovuti agli ammaestramenti che il governo aveva saputo trarre dalle guerre combattute dal 1855 in poi» e, inoltre, dalle «radicali innovazioni apportate», nonché dall’«accrescere il 5   Arturo Casarini, La medicina militare nella leggenda e nella storia, collana medico-militare edita dal Ministero della Guerra - Direzione generale di Sanità Militare, vol. XX, Roma 1929, p. 500.

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materiale e suddividerlo in modo più adatto ai pronti soccorsi» e dall’«aumentare gli ufficiali medici e i loro aiuti»6. «La guerra», rileva il generale, «è un’occasione propizia per un popolo saggio a correggere i propri ordinamenti civili e militari» e «il soldato, essendo un cittadino obbligato per legge a pagare il suo tributo di sangue alla patria, merita come tale le maggiori assistenze e premure, non solo per renderlo idoneo alla sua nobile missione, ma anche per restituirlo al paese sano e in condizioni di riprendere il suo posto nella società»7. Che cosa aspetta, per adeguarsi, l’Italia? Se lo chiede Agostino Bertani (1812-1886), il medico e uomo politico che vanta un ragguardevole stato di servizio nei due campi. Come medico, laureato a Pavia e datosi alla chirurgia sotto la guida di Carlo Cairoli (1777-1849), durante le «cinque giornate di Milano» (18-22 marzo 1848) ha diretto l’Ospedale militare di Sant’Ambrogio; vicino alle posizioni ideali di Carlo Cattaneo (1801-1869) e di Giuseppe Mazzini (1805-1872), è stato a fianco di quest’ultimo nella difesa della Repubblica romana (1849), direttore dei servizi sanitari e personalmente prodigo di cure ai feriti presso l’Ospedale della Trinità dei Pellegrini. Come uomo politico, dalle posizioni cattaneane e mazziniane s’è avvicinato a Giuseppe Garibaldi (1807-1882), nel 1859 militando da medico nel corpo dei Cacciatori delle Alpi, nel 1860 contribuendo a organizzare la Spedizione del Mille e infine assumendo in Napoli la segreteria della dittatura garibaldina, poi lasciata a Francesco Crispi (1818-1901); inoltre lo abbiamo visto attivo nell’organizzazione della sanità nel 1866. Sul piano parlamentare, dopo una fiera opposizione ai governi della Destra, è fervente sostenitore della Sinistra di Agostino Depretis (1813-1887) e Benedetto Cairoli (1825-1889), quest’ultimo figlio del chirurgo che era stato suo maestro e del quale saluta nel marzo 1878 la nomina a capo del governo con un discorso dal titolo eloquente: l’Italia aspetta8. A distanza di otto anni dalla raggiunta unificazione politico6   Le conclusioni delle «reminiscenze di un viaggio in Germania» sono riportate ivi, pp. 506-507. 7   Ivi, p. 508. 8   Vedi Giorgio Cosmacini, Milano capitale sanitaria, Le Monnier, Firenze 2002, pp. 23-28. Sulla figura di Bertani resta fondamentale la biografia di Jessie White Mario, Agostino Bertani e i suoi tempi, Barbera, Firenze 1888.

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territoriale del paese, conclusa dalla bersaglieresca breccia di Porta Pia (20 settembre 1870) e coronata da Roma capitale, l’Italia aspetta un Codice per la pubblica igiene e, più in generale, una organica Legge di riforma sanitaria che faccia rimontare allo Stato italiano il dislivello che nel campo della sanità lo distanzia dai più avanzati Stati europei, con al primo posto la Germania di Bismarck e, in campo medico, di Rudolf Virchow (1821-1902), Max Pettenkofer (1808-1901), Robert Koch (1843-1910)9. Bertani non può assistere al varo della legge da lui attesa e preparata, promulgata dal governo Crispi il 22 dicembre 1888, perché la morte lo ha colto due anni prima. Però Francesco Crispi, in un discorso pronunciato il 14 ottobre 1889, non si esime dal riconscere il suo debito nei confronti di Bertani, alludendo anche alle ripercussioni in campo militare della legge emanata: «Abbiamo ottenuto che divenisse legge dello Stato il Codice sanitario, i cui concetti fondamentali non saran certo il minor titolo che renderà cara e venerata agli Italiani futuri [...] la memoria di quel soldato della scienza, della patria e della libertà che fu Agostino Bertani. Così possiamo dirci sulla via di quella redenzione igienica che, non meglio della politica, l’Italia attendeva; [...] un’Italia sana fisicamente ci darà quelle braccia vigorose che potranno meglio fecondarla, quei validi petti che, fortezze viventi, potranno meglio difenderla»10. Potranno meglio difenderla quei contadini che, dopo averne fecondata con le braccia la terra, sono chiamati a esibire i loro petti nelle file dell’esercito nazionale, organizzato sul modello prussiano dal generale Cesare Ricotti (1822-1917), ministro della Guerra dal 1870 al 1876, con le leggi del 19 luglio 1871 e del 30 settembre 1873? Si è scritto che con l’ordinamento Ricotti (contemplante 15 compagnie di truppe alpine e ben 10 corpi d’armata, portati a 12 con la stipulazione della Triplice Alleanza nel 1882) «furono gettate le solide basi dell’esercito italiano» e che esso «ebbe pregi che diedero alle nostre istituzioni militari un prestigio grande e una forza d’impulso che durò, si può dire, fino al 1915»11. 9   Rudolf Virchow è il fondatore della «patologia cellulare», Max Pettenkofer l’igienista promotore del risanamento ambientale, Robert Koch lo scopritore al microscopio dei bacilli del colera e della tubercolosi. 10   Il passo del discorso di Crispi è riportato da Lino Agrifoglio, Igienisti Italiani, Hoepli, Milano 1954, p. 28n. 11   Vittorio Giglio, Milizie ed eserciti d’Italia, Ceschina, Milano 1927, p. 293.

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Le forze armate costano, all’Italia liberale di fine Ottocento, dal 24 al 27% dell’intero bilancio statale. Allo stesso generale Ricotti, nuovamente ministro della guerra, tocca però registrare che quelli che sono i «pregi» e il «prestigio» riconosciuti al suo ordinamento non evitano alle nostre truppe coloniali in Eritrea l’olocausto di Dògali (26 gennaio 1887). A Bertani, che ha cessato di vivere l’anno prima, viene almeno risparmiato il dover constatare che il suo progetto igienico-sanitario per il miglioramento fisico e demografico degli italiani è pesantemente penalizzato dalle avventure espansionistiche in terra africana; e ancor più penalizzato lo è, nove anni dopo, dal disastro militare di Adua (1° marzo 1896), che costa a un esercito di 16.000 uomini, travolto dall’esercito etiopico del Negus Menelik (1844-1913), la perdita di 10.000 vite. Il bilancio umano è ancora più tragico. «Si sa con certezza che molti dei morti e feriti non furono semplicemente vittime delle armi da fuoco, di svariato calibro, e delle armi bianche usate in combattimento dall’esercito scioano, ma furono anche sottoposti alle più nefande sevizie per la ferocia del nemico, che inveiva sui caduti e li trucidava» o «li evirava, per le leggi abissine che, ritenendo rei di diserzione e di tradimento quelli di razza nera [gli ‘ascari’] che avevano combattuto con gli europei, li condannavano con sommario procedimento giudiziario alla mutilazione della mano destra e del piede sinistro. E se una trentina di evirati italiani e più di 400 mutilati indigeni poterono porsi in salvo nel territorio della colonia [eritrea], altri numerosissimi rimasero vittime sul campo o, mentre andavano in cerca di asilo, dovettero soccombere per emorragia o per mancanza di alimenti e di assistenza necessari»12. Questa guerra, peraltro, provocando un considerevole numero di mutilati, specialmente agli arti, fornisce alla chirurgia un primissimo laboratorio di perfezionamento delle sue tecniche ricostruttive. L’idea di utilizzare, nei mutilati di guerra della mano, i muscoli e tendini del moncherino per azionare le dita di una estreNell’ordinamento Ricotti (che tra l’altro sancì, per iniziativa del capitano di fanteria Giuseppe Perrucchetti, la nascita del Corpo degli Alpini) il carloalbertino «Consiglio superiore di sanità militare» fu sostituito dal «Comitato di sanità militare» che nel 1887 prese la denominazione di «Ispettorato di sanità militare» (poi mutato, negli anni Venti del Novecento, in «Direzione generale di sanità militare»). 12   Casarini, La medicina militare, cit., p. 553.

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mità artificiale è prospettata per la prima volta, all’indomani della guerra italo-abissina del 1894-96, dal medico Giuliano Vanghetti (1861-1940), autore del saggio Plastica e protesi cinematiche. C’è comunque da dire che le guerre coloniali hanno tutte quante un loro cuore di tenebra13, situato nel darwinismo sociale, degenerato in razzismo, degli europei. Nel 1876 il re Leopoldo del Belgio, in un appassionato elogio del colonialismo inteso come crociata di civiltà, dà prova dello spirito che anima la «missione dell’uomo bianco». Nel 1898 Winston Churchill celebra la vittoria dei fucilieri inglesi e delle loro pallottole dum-dum sui dervisci sudanesi insorti, esaltandola come «il più eclatante trionfo mai ottenuto dalle armi della scienza sui barbari». Il razzismo non è minore in America. Durante la guerra civile, il vicepresidente degli Stati confederati secessionisti ha affermato che «le fondamenta della Confederazione degli Stati del Sud poggiano sulla grande verità che il negro non è eguale al bianco e che la schiavitù, cioè la subordinazione alla razza superiore, è la sua condizione naturale e normale»14. In Italia tocca a un medico politico come Angelo Celli (1857-1914), igienista della medesima stoffa di Bertani e parlamentare per un decennio, far risuonare nell’aula di Montecitorio – oltre alle istanze di lotta alla malaria non in terra d’Africa ma nell’Agro romano (sua la legge per il chinino di Stato varata nel 1900) – l’esortazione rivolta al governo per «trasformare il Ministero della guerra agli uomini nel Ministero della guerra ai microbi». L’esortazione attenderà sessant’anni prima d’essere accolta, nel 1958, con la creazione in Italia del ministero della Sanità.

13   L’espressione è di Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006, p. 88. Ivi sono anche le due citazioni. 14   La frase è in Gary W. Gallagher, The union war, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2011, riportata da Emilio Gentile, Stati Disuniti d’America, in «Saturno», 20 luglio 2011.

XIII L’età degli imperi «La maggior parte dei paesi europei – Inghilterra, Francia, Olanda, Belgio, Italia, Russia – ha un passato coloniale». Sono le nazioni affacciate al mare ad avere un netto vantaggio sui paesi privi di sbocchi marini. «La Germania è uno di questi e la mancanza di colonie», o la loro provvisorietà in un quarto di secolo tra Ottocento e Novecento, «ha ossessionato a lungo i dottrinari del pangermanesimo assumendo un peso notevole nella diffusione della teoria dello spazio vitale, che si è rivelata come un fattore decisivo per quanto riguarda l’aggressività tedesca sul teatro di operazioni europeo»1. A proposito delle guerre coloniali, penalizzanti pesantemente sia i corpi di spedizione europei sia le popolazioni indigene2, va anche detto che esse sono veri laboratori di sperimentazione distruttiva, ma anche, in qualche caso, di prassi sperimentale di nuove risorse e forme di chirurgia e terapia. Per esempio, gli interventi chirurgici esercitati in corpore vili di africani e asiatici permettono ai chirurghi europei di accumulare esperienze in modo sovente spregiudicato, come avviene nella guerra anglo-boera del 18991902 e nella guerra russo-giapponese del 1904. Un altro esempio è offerto dall’esperienza delle malattie tropicali, che consentono osservazioni approdanti alla scoperta di

1   Jean-Claude Chesais, Storia della violenza in Occidente dal 1800 a oggi, Longanesi, Milano 1981, p. 366. 2   Si calcola che nel XVIII secolo, periodo di grande espansione coloniale, Inghilterra, Francia e Spagna abbiano perduto non meno di mezzo milione di uomini (ibid.).

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cause e meccanismi d’infezione, premessa di nuove terapie antiinfettive: è il caso della malaria, di cui il medico francese CharlesLouis-Alphonse Laveran (1845-1922) scopre nel 1881 l’agente parassitario, il protozoo del genere Plasmodium, e di cui il medico inglese Ronald Ross (1857-1932) dimostra nel 1897 la trasmissibilità all’uomo tramite un insetto vettore, la zanzara del genere Anopheles. Laveran e Ross sono entrambi medici militari, che si occupano di medicina tropicale nelle colonie, rispettivamente Algeria e India, di Francia e Inghilterra3. Tramontato definitivamente nel 1870 l’impero francese, che peraltro lascia intatte alla repubblica l’eredità coloniale e la vocazione imperialistica, sorge l’impero tedesco. «La battaglia di Sedan segna l’inizio dell’arroganza prussiana» e di una «fase di orgoglio nazionale [germanico]» esercitanti «una specie di egemonia sull’intera Europa»4. «Alla fine dell’Ottocento il paradigma della guerra industriale fra stati era ormai completo: i suoi elementi centrali – massa, industria e forza – si erano sviluppati pienamente». Ma «fu nei conflitti mondiali che il paradigma si realizzò completamente e raggiunse il suo apice». Dopo la guerra franco-prussiana del 1870, per quarantacinque anni la crescita demografica e lo sviluppo economico consentirono «un equilibrio delicato tenuto stabile dalla politica del balance of power. Nel 1914 l’equilibrio venne meno e l’Europa entrò in guerra. Il dramma e l’orrore generali della prima guerra mondiale segnarono la fine di un’era dell’umanità» con tutte le idee sulla velocità e mobilità belliche «sepolte sotto il fango delle trincee, insieme alla prima mietitura della gioventù europea»5. Il «secolo breve» è visto dallo storico Eric Hobsbawm snodarsi attraverso 54 guerre6. Un’altra statistica precisa che «la stima dei morti della prima guerra mondiale varia tra i 10 e i 12 milioni, quella relativa alla seconda tra i 30 e i 50 milioni». Ma «per sottolineare il carattere patologicamente cruento del Novecento, viene anche citato l’indice di 44 vittime di eventi bellici ogni mille 3   In Italia i malariologi si occupano di malaria in quanto questa è malattia autoctona, non tropicale, radicata da secoli in gran parte del territorio nazionale. 4   Chesais, Storia della violenza in Occidente dal 1800 a oggi, cit., p. 367. 5   Rupert Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 165 e 167. 6   Eric Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, Rizzoli, Milano 1995.

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appartenenti alla popolazione totale interessata: una percentuale di una quindicina di volte superiore a quella degli ‘oscuri tempi’ delle guerre di religione (3‰ nel XVI secolo), più che quintupla rispetto al secolo della ‘guerra dei Trent’anni’ (11,2‰ nel XVII secolo), quasi tripla rispetto al secolo ‘epico’ delle guerre napoleo­ niche e delle infinite guerre d’indipendenza»7. La guerra europea del 1914-1918 – si scrive in un consuntivo a guerra conclusa – è stata una nuova peste. Come la peste, «ha recato più o meno profonde modificazioni nell’equilibrio demografico dei popoli travolti dal suo lugubre gioco. Stragi di combattenti, epidemie negli eserciti e, da questi propagate, nelle popolazioni civili, carestia e fame, devastazione di ampi territori, oppressione o fuga dei loro abitanti, disgregazione delle famiglie, impedimento a nuove nozze». E ancora, con riguardo all’Italia: «La popolazione italiana si era andata regolarmente sviluppando attraverso un secolo di pace: lievi, e quasi trascurabili, erano state le ripercussioni demografiche delle campagne coloniali», da quella di Eritrea a quella di Libia del 19118. La guerra ha alterato profondamente le condizioni di questo sviluppo. Questa la sequenza dei danni prodotti: dapprima «la mobilitazione, intensificando i movimenti militari, accresce il rischio della propagazione dei contagi. [...] Fin dai primi mesi di lotta si insinua il germe del colera tra le fila dei nostri combattenti; le infezioni tifiche imperversano»; poi nell’esercito «si va sempre più diffondendo la malaria», che «riguadagna celermente il terreno perduto durante gli ultimi anni di pace»; infine, «dal novembre 1917 al novembre 1918 trascorre un anno di inenarrabili miserie [...]. Molte decine di migliaia di tubercolotici rimangono testimonianze viventi degli orrori di quell’anno di servitù». Non è finita: «nell’estate, con incredibile celerità, si propaga da un capo all’altro della penisola la violentissima epidemia di influenza9 che poi, in pochi mesi, miete fra le genti indebolite da tre anni di privazioni 600.000 vittime», esattamente quante ne ha falcidiato la guerra. 7   Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006, pp. xvii-xviii. 8   Giorgio Mortara, La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra, Laterza, Bari 1925, pp. 1-2. 9   Si tratta della «spagnola», detta dai tedeschi, specialisti in Blitz Krieg, «catarro lampo».

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La giornata di Vittorio Veneto, seguita dalla forzata immigrazione di prigionieri nemici, è segnata anche dalla «epidemia di tifo petecchiale che soprattutto fra i prigionieri stessi ha scelto le sue vittime». Inoltre «sicuri danni della guerra alla salute pubblica» sono «la meningite cerebro-spinale epidemica, l’encefalite epidemica e altre malattie infettive» come l’«intensa epidemia di vaiolo del 1919-20»10, che tutte fanno da corteo all’anzidetta pandemia influenzale, la malattia che terrorizza il mondo11. Se le nuove penurie ed epidemie ripropongono il tradizionale accompagnamento della guerra da parte delle vecchie carestie e pestilenze, la guerra stessa è fatta di cose vecchie e di cose nuove. Da un lato il «sistema trincea», dominante sia sul fronte franco-tedesco che sul fronte italo-austriaco, oltreché «fabbrica della tisi» e della dissenteria, «era simile al problema tattico che nasceva durante l’assedio a un castello medievale»: l’area trincerata poteva ribaltarsi da difensiva in offensiva «quando il comandante fosse stato certo di avere aperto un varco [...] e di poter disporre di una forza d’assalto [...] tale da non essere rallentato o distrutto dal fuoco nemico»12. D’altro lato «l’aeroplano e il carro armato furono elementi chiave del conflitto», almeno in certe circostanze. Inoltre la potenzialità tecnico-industriale degli Stati in guerra si espresse attua­ lizzandosi al massimo: se «il mortaio da trincea e la granata furono riscoperti e resi sempre più micidiali» e le artiglierie di grosso calibro raggiunsero una più ampia gittata, nel 1915 a Ypres «fecero la loro impressionante comparsa i gas tossici», divenuti poi «una consuetudine»13. «È l’iprite il protagonista dei massacri nelle trincee francesi durante la Grande guerra [...]. È invisibile, ma lascia un odore inconfondibile che ricorda quello della mostarda: per gli inglesi è il mustard gas. Per i reduci della Somme e del Carso quella puzza è diventata indimenticabile»14. Guerra di posizione, guerra di movimento, guerra aerea, navale, guerra chimica: non si contano le armi vulneranti e letali, dagli as  Mortara, La salute pubblica in Italia, pp. 513-516.   Richard Collier, La malattia che atterrì il mondo, Mursia, Milano 1980. Ivi, p. 13, è anche la definizione di «catarro lampo» data alla «spagnola». 12   Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, cit., p. 173. 13   Ivi, p. 181. 14   Gianluca di Feo, Veleni di Stato, Rizzoli, Milano 2009, p. 66. 10 11

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salti alla baionetta oltre i reticolati ai massicci bombardamenti delle artiglierie, dalle bombe a mano «ad ananas» o «a martello» agli shrapnels dirompenti. Gli aeroplani, da ricognitori, diventano cacciatori. Quanto ai carri armati – i Tank –, pur se ancora pochi, sono tuttavia sufficienti a seminare il panico al solo apparire; e, quanto ai gas (irritanti, vescicanti, asfissianti), possiedono anch’essi un effetto terrorizzante. La guerra è anche, più che mai, guerra psicologica. Non si contano, con le armi, le misure per difendersi da esse e le novità sanitarie. In seno a ogni esercito ci si adopera per organizzare e rendere tempestivamente operanti le strutture di cura, prevenzione, riabilitazione più aggiornate. Nell’Italia in guerra il servizio sanitario militare dipende, per la zona territoriale distante dal fronte, dal ministero della Guerra e, per le zone di operazione, dal Comando supremo e dalle Direzioni di sanità d’armata (1a e 2a armata nelle Alpi Giulie, 3a in Cadore, 4a in Trentino). Dai vertici d’armata si scende a una numerosità di organi esecutivi e operativi, tra cui non pochi preventivati sulla carta piuttosto che tradotti in effettiva realtà: posti di medicazione e di primo intervento, infermerie temporanee di raccolta e di sgombero, ambulanze chirurgiche con apparecchiature per disinfezione, sezioni di bonifica per militari infetti o gassati, ospedali da campo e territoriali, treni merci attrezzati e treni ospedale (con il concorso della Croce Rossa Italiana e del Sovrano Militare Ordine di Malta), navi ospedale e altri mezzi di trasporto per feriti su vie d’acqua (fluviali, lagunari, lacustri). L’unità operativa di base è la sezione di sanità reggimentale, che è articolata in due reparti di battaglione, taluni someggiati. La dotazione di materiale sanitario è costituita da barelle e da cofani contenenti bende, garze, lacci emostatici, stecche rigide, aghi e fili per suture, forbici e bisturi, siringhe e medicinali. I farmaci di maggior consumo sono acqua ossigenata, alcool, tintura di iodio, etere, cloroformio, morfina, naftalina e antiparassitari (contro pidocchi, pulci, zanzare). I posti di medicazione sono infermerie campali possibilmente defilate dal fuoco nemico. Vi sono medicati quei feriti che non riescono a farlo da soli. Ai feriti che hanno bisogno di aiuto vengono praticate emostasi e fasciature e viene valutata l’entità della lesione: se questa è lieve, il soldato è considerato «riabilitato» e rispedito in prima linea a combattere (talora scortato da carabinieri, se sospettato di

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autolesionismo o dell’intenzione di disertare); se la lesione è di maggior gravità, il ferito è inviato, a dorso di mulo o su autoambulanze, all’ospedaletto di tappa più vicino e da qui, se ritenuto «salvabile», all’ospedale territoriale nelle retrovie o altrove. Nel 1917 gli ospedali militari, con capienza variabile dai 50 ai 200 posti letto, sono 450, sparsi in gran parte del territorio nazionale. L’intera nazione è militarmente «ospedalizzata», sede di ospedali ubicati dentro scuole o nosocomi civili. Altri sono ricavati da grandi ville padronali e addirittura, per concessione sovrana, dai locali del palazzo reale di Moncalieri e del romano palazzo del Celio, riservati a feriti «eccellenti». Taluni ospedali sono dotati di stazioni di disinfestazione e contumacia, di sale chirurgiche con autoclavi per sterilizzazione, di laboratori chimico-batteriologici, di gabinetti con i raggi X. Nel 1917 i treni ospedale in funzione sono una sessantina. Tra le navi ospedale ci sono la Po, l’Albaro, la Principessa Giovanna. Viene utilizzata la via fluviale formata dal canale navigabile che collega il Tagliamento alla laguna veneta correndo parallelo alla costa: è battezzata «litoranea veneta» e destinata allo sgombero dei feriti dal fronte friulano. Nonostante questo sforzo organizzativo, «già dai primi mesi del conflitto l’organizzazione sanitaria mostrò la sua inadeguatezza di fronte all’inaspettato e non previsto afflusso di feriti, nonché all’impressionante varietà di ferite riportate al fronte dai soldati. Il lavoro dei medici e del personale sanitario non era solo mirato a restituire efficienza alla macchina bellica, ma anche a curare per quanto possibile la devastazione fisica e psichica del campo di battaglia». Qui la prima selezione tra i feriti da destinare all’assistenza negli ospedali divisionali e quelli da lasciare all’estremo conforto da parte dei cappellani militari avveniva applicando agli uni un cartellino verde (il colore della speranza) e agli altri un cartellino rosso (il colore del sangue versato per la patria). Nessun cartellino, invece, per le vittime dell’«attacco austro-ungarico con i gas, avvenuto sul San Michele il 28 giugno 1916»15. 15   Enrico Trevisani, L’organizzazione della sanità nella prima guerra mondiale, nel volume degli Atti del Convegno su 1915-1918: guerra e sanità militare. Un confronto con i giorni nostri (Ferrara, 11 novembre 2006), Tosi, Ferrara 2007, pp. 19-20.

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Lo sforzo organizzativo a sostegno delle truppe italiane, che tra il giugno 1915 e il settembre 1917 sono logorate e falcidiate nelle undici battaglie dell’Isonzo (e nella Strafexpedition austriaca del maggio 1916), è affidato a un organico che nel corso del conflitto passa da 10.000 a 15.000 ufficiali medici, coadiuvati da uno stuolo di sottufficiali e graduati di sanità e di soldati portaferiti istruiti o improvvisati. Il numero dei medici, di cui non più di 1000 sono quelli in servizio permanente effettivo, è inizialmente infoltito da studenti di medicina dell’ultimo biennio, reclutati e spediti al fronte dopo un rapido corso abilitante svolto nelle retrovie, a San Giorgio di Nogaro presso Palmanova, dov’è attiva una Università castrense prima della rotta di Caporetto dell’ottobre 1917 con il conseguente abbandono di una parte del Veneto e il ripiegamento sulla linea del Piave. La pluripatologia dei soldati è resa sempre più penetrante dalle polimorfe lesioni belliche e dalle usure, carenze e infezioni di ogni tipo; tra queste ultime miete vittime il grande flagello della sanità militare, la gangrena gassosa. Oltre ai corpi, anche le menti dei soldati al fronte sono afflitte e messe a dura prova, inclinanti al pessimismo e quasi incuranti d’ogni forma d’aiuto. «Un minuto ci sei e un altro sei morto». «Se non si muore oggi si muore domani»16. Sono alcune espressioni di rassegnazione e fatalismo che sfuggono alla censura, scritte dai soldati nelle loro lettere a casa. La guerra assume spesso una dimensione bio-tanatologica in cui tra vita e morte non c’è discontinuità percettiva. Molti sono i cosiddetti «scemi di guerra», vittime del panico. Altri sono simulatori di un deficit psichico per certi aspetti simile al deficit fisico da autolesione. Le statistiche di morti e feriti sono eloquenti: degli oltre 600.000 caduti in guerra, «il 48,59% morì per ferite, il 33,05 per malattie». Il resto sono militi ignoti, dispersi, scomparsi, che mancano al conteggio, cui non sfuggono, peraltro, quelli sacrificati da una decimazione disciplinare esecrabile. I feriti sono oltre un milione, i grandi invalidi quasi 15.000. «La prima guerra mondiale, considerando tutti gli eserciti belligeranti, mo-

16   Le espressioni epistolari dei soldati al fronte sono state oggetto di ricognizione da parte di A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e la trasformazione del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991.

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bilitò circa 66 milioni di soldati con un numero di morti di poco superiore ai 9 milioni»17. Diversi l’uno dall’altro sono i teatri di guerra, della «orrenda carneficina che disonora l’Europa» e offende il mondo intero, «fatto ospedale od ossario» e vittima della «più fosca tragedia dell’odio umano e dell’umana demenza»: così si esprime papa Benedetto XV (Giacomo Della Chiesa), romano pontefice dal 1914 al 1922. La guerra ha modi d’essere differenti, a seconda che la si combatta ai Laghi Masuri o lungo le rive della Somme, nelle alture dei Balcani o nell’infernale «macchina tritacarne» di Verdun, in cima ai monti del Pasubio e delle Alpi Giulie oppure in fondo alle doline del Carso – senza dire della guerra sottomarina o tra velivoli e della battaglia tra flotte d’alto mare. Però dappertutto essa è «l’inutile strage», bollata come tale dalla voce pontificia. Le organizzazioni e operazioni sanitarie degli imperi centrali, dell’impero russo e della Triplice Intesa – Francia, Italia, Regno Unito –, nonché degli Stati Uniti d’America, sono anch’esse differenti tra loro per modi e soprattutto per mezzi. L’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917 porta a una rapida espansione dell’Army Medical Corps dell’esercito alleato, come dicono le statistiche18 e come riportano le testimonianze, tra cui quella di Ernest Hemingway nel fortunato romanzo autobiografico A Farewell to Arms (edito nel 1929)19. Pur nella diversità delle guerre nazionali che tutte insieme compongono la «grande guerra» del 1914-1918 e nella differenza tra le rispettive organizzazioni e operazioni sanitarie, tuttavia la sanità e la scienza medica traggono dalle esperienze belliche – come già si è visto più volte in passato – utili insegnamenti e avanzamenti tecnici e pratici. Se la guerra franco-prussiana del 1870 aveva convalidato l’antisepsi come il mezzo risolutivo del problema infezione, la grande guerra con le sue ferite-fratture da 17 Lorenzo Cappellari, Stato delle conoscenze mediche, chirurgiche ed aneste­ siologiche nella prima guerra mondiale, in 1915-1918: guerra e sanità militare, cit., pp. 35 e 37-38. 18   Vedi la voce World War I Medicine, in Jack E. McCallum, Military Medicine. From Ancient Times to the 21st Century, ABC-CLIO, Santa Barbara 2008, pp. 347-350. 19   Vedi Ernest Hemingway, Addio alle armi, trad. it. di Fernanda Pivano, Mondadori, Milano 1965.

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granate dirompenti è il banco di prova dove si dimostra la necessità di sostituire il trattamento conservativo e la medicazione disinfettante con la resezione dei tessuti offesi, devitalizzati e necrotici, e con l’irrigazione continua con la «soluzione di Dakin-Carrel» (ipoclorito di sodio e acido borico). Con il chimico Henry Drysdale Dakin, Alexis Carrel (18731944) è l’autore del metodo che rende meno pesante il bilancio della mortalità dei feriti. Egli è il chirurgo franco-americano (nato a Lione e migrato negli Stati Uniti) insignito del premio Nobel per la fisiologia e la medicina nel 1912 «in riconoscimento del suo lavoro sulle suture vascolari e sul trapianto di vasi e organi». A parte la trapiantologia, della quale è uno sperimentatore su animali e un lontano pioniere, i meriti di Carrel sono quello di effettuare anastomosi (giunzione) tra vasi senza provocare emorragia o trombosi, ma soprattutto quello (ovviamente non menzionato nella motivazione del Nobel pre-bellico) di sottrarre a morte quasi certa molti soldati a rischio di gangrena e setticemia. Scrive l’ispettore generale docteur Mignon nella ponderosa opera in due volumi su Le service de santé pendant la guerre 19141918: «Ho avuto l’occasione di vedere nel giugno 1916 l’applicazione integrale del metodo Carrel all’ambulanza di Rond-Royal, a Compiègne. Era giusto un mese dopo il disastro di Sainte Menehould [nell’Argonna occidentale]. La regolamentazione scientifica aveva rimpiazzato il caos empirico. La morte era diventata eccezionale. Le suppurazioni abbondanti erano sconosciute; le ferite delle parti molli potevano richiudersi in ottanta giorni; le cicatrici erano regolari e lineari. Sarebbe stato un chiudere gli occhi all’evidenza il misconoscere la superiorità del metodo Carrel su tutti i trattamenti prima impiegati»20. Dopo aver salvato molte vite altrimenti perdute, «il metodo fu introdotto nella pratica medica civile dopo la prima guerra mondiale», contribuendo a salvare altre vite penalizzate dai crescenti infortuni da incidenti del lavoro e del traffico. «Più tardi il batteriologo Alexander Fleming [scopritore della penicillina nel 1929] argomentò che le ferite guarite con l’irrigazione di Carrel-Dakin erano state semplicemente delle ferite ben trattate chirurgicamen20   A. Mignon, Le service de santé pendant la guerre 1914-1918, Masson, Paris 1926, vol. I, pp. 477-478.

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te e che sarebbero guarite comunque. L’argomentazione sarebbe stata oggetto di discussione agli inizi della seconda guerra mondiale, quando gli antibiotici [e, prima, i sulfamidici] portarono a un nuovo standard nella cura delle ferite»21. Dall’esperienza diretta sul fronte francese, Alexander Fleming (1881-1955) ha peraltro potuto constatare come l’acido fenico della vecchia pratica disinfettante non serva per le ferite profonde e più inquinate; e Gerhard Domagk (1895-1964), ferito lui stesso dall’altra parte del fronte, ha potuto annotare che in guerra si muore meno di ferite che d’infezioni. Il rapporto tra le due mortalità stimato da Domagk (scopritore dei sulfamidici negli anni Trenta) è di 1 a 3: sono i germi le armi più letali. Un’esperienza bellica personale è anche quella di Harvey Cushing (1869-1939), il grande chirurgo di Boston che fa tesoro di quanto apprende per poi spianare la strada alle nuove tecniche di decompressione del cervello ed emostasi cerebrale, che fanno di lui il «padre della neurochirurgia». Comunque, anche in questo campo, «è quasi sempre l’infezione la causa della morte, sia che si presenti sotto la forma della meningoencefalite, sia sotto quella dell’ascesso»22. È quanto emerge dall’elevata casistica dei cerebrolesi a Verdun. Qui il bilancio è pesantissimo: «la difesa di Verdun è costata all’armata [francese] 216.000 feriti e 50.000 morti, senza contare i gassati e i malati. È press’a poco la decima parte del sacrificio complessivo». Fortunatamente «il ruolo eroico di Verdun s’è arrestato alla battaglia del 20 agosto 1917»23. Da questo e da altri grandi laboratori bellici di vivisezione umana ogni campo della chirurgia ricava vantaggi. Il tedesco «padre della chirurgia toracica» Ernst Ferdinand Sauerbruch (1875-1951) si impone all’attenzione mondiale anche nel campo della chirurgia ricostruttiva e protesica con la realizzazione dell’idea, già di Vanghetti, di collegare, nei mutilati di guerra della mano, i tendini del moncherino a una estremità artificiale detta «braccio di Sauerbruch»24. 21   Vedi la voce Carrel-Dakin irrigation, in McCallum, Military Medicine, cit., p. 61. 22   Mignon, Le service de santé pendant la guerre 1914-1918, cit., vol. I, p. 540. 23   Ivi, pp. 677 e 681. 24   Dai racconti autobiografici di Ernst Sauerbruch, Das was mein Leben, Berlin 1951.

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In campo radiologico les pétites Curie sono le ambulanze, familiarmente collegate al nome di Madame Curie (Maria Sklodowska Curie, 1867-1934), che ne ha promosso l’allestimento, le quali fanno la spola sul fronte francese per radiografare fratture e localizzare proiettili ritenuti. Sul fronte avverso le stesse ambulanze hanno nomi meno familiari, essendo la radiografia figlia della più compassata scienza tedesca di Wilhelm Conrad Röntgen (1845-1923), scopritore dei raggi X. A Röntgen, nel 1918, viene ufficialmente riconosciuto che «il significato pratico dei nuovi raggi si è rivelato in modo sorprendente durante la guerra mondiale». Il riconoscimento personale aggiunge che «si può dire con certezza che i risultati delle Sue ricerche hanno salvato la vita o conservato gli arti a centinaia di migliaia di soldati feriti. [...] La soddisfazione di aver contribuito in modo così grande al beneficio dell’umanità sofferente possa aiutarLa a superare il dolore che noi tutti sentiamo per la sconfitta della nostra amata patria»25. In Italia, apparecchiature radiologiche someggiate (modello Ferrero di Cavallerleone) erano state assegnate ad alcune unità operative già nella guerra di Libia del 1911. Con gli stessi apparecchi il servizio sanitario militare italiano s’è apprestato a far fronte alle necessità radiodiagnostiche della guerra mondiale. L’organizzazione e le dotazioni si rivelano, da subito, inadeguata l’una e insufficienti le altre. Per cercare di rimontare il ritardo, per iniziativa di Felice Perussia (1885-1959), pioniere della radiologia in Italia formatosi oltralpe, viene varato il progetto per la costruzione di autoambulanze radiologiche il cui prototipo (modello Perussia-Balzarini) è peraltro operativo solo a partire dal 1917, impiegato dalla 2a armata nella zona di Gorizia. In circa otto mesi di attività, prima e dopo Caporetto, riesce a effettuare 362 radiografie, 1533 radioscopie e 1045 localizzazioni di proiettili26.

25 Riconoscimento dell’Accademia prussiana delle scienze, riportato da Giorgio Cosmacini, Röntgen, Rizzoli, Milano 1984, pp. 231-232. 26   Vedi La radiologia e la guerra, in Guida della mostra storica, a cura di Giorgio Cosmacini, sugli Albori della radiologia in Lombardia. 1896-1918. Scienza, istituzioni, cultura, XXX Congresso Nazionale della Società Italiana di Radiologia Medica, Milano 7-12 giugno 1982.

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Nonostante l’inadeguatezza, le insufficienze e i ritardi della sua sanità militare, l’Italia è nazione che siede dalla parte dei vincitori al tavolo della pace, il 28 giugno 1919, a Versailles. La Germania, nonostante la superiorità del suo servizio sanitario di guerra, ereditato dalla Prussia e perfezionato dall’organizzazione imperiale e dall’avanzata scienza medica tedesca, siede allo stesso tavolo, ma come nazione che ha perso. Una buona sanità militare non le ha giovato per vincere la guerra. La buona sanità non assicura la vittoria, né una sanità meno buona espone necessariamente alla sconfitta. La sanità, militare o civile, ha tutt’altri, più nobili scopi. È questa una constatazione che, tra altre più importanti, si pone alla coscienza delle nazioni all’indomani della dissolvenza degli imperi tedesco, austriaco, russo, ottomano. La fine di questa «età imperiale», o imperialista, apre a un’altra età, quella di una «società delle nazioni» (pattuita il 28 aprile 1919) il cui comune impegno è il mantenimento della pace e la rinuncia a ogni guerra futura.

XIV La guerra totale Così non è. L’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania crea nei rispettivi paesi dei regimi autoritari di massa con vocazione aggressiva ed espansionistica, sostenuta in Germania da una struttura economica e militare assai più poderosa ed efficiente di quella italiana. L’espansionismo fascista ha comunque di mira l’Etiopia, che è il solo paese ancora indipendente (con la Liberia) nel continente africano. «L’Italia aveva cercato di farne una sorta di protettorato giocando anche sui contrasti tra i vari capi feudali e il potente ras Tafari, che nel 1930 era salito al trono imperiale come ‘re dei re’ (negus neghesti) con il nome di Hailé Selassié I». Per coinvolgere psicologicamente il popolo italiano nell’impresa di conquista, «fu lanciata una grande campagna propagandistica che faceva leva sulla contrapposizione tra nazioni povere e ‘proletarie’, come l’Italia, e nazioni ricche, come l’Inghilterra (il popolo dei ‘cinque pasti al giorno’), rivendicando un ‘posto al sole’ per le. prime. E non si trascurò di solleticare i sentimenti nazionalistici insistendo sulla necessità di vendicare Adua e sulla missione di civiltà che gli italiani erano chiamati a svolgere in un paese barbaro e feudale dove esisteva ancora la schiavitù». La guerra fu iniziata il 2 ottobre 1935 ed «ebbe un successo abbastanza rapido, data la schiacciante superiorità dell’aggressore. Le operazioni furono infatti impostate dal comando italiano come una guerra moderna, totale, con l’impiego di 400.000 militari dotati di aerei, carri armati e aggressivi chimici, largamente usati». Si concluse il 5 maggio 1936, quando «le truppe di Badoglio, superata la disperata resistenza etiopica, occuparono la capitale

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imperiale, Addis Abeba, abbandonata tre giorni prima dal negus per l’esilio»1. La sanità militare, nella guerra d’Etiopia combattuta sui fronti eritreo e somalo, è organizzata su 135 ospedali di base e da campo, alcuni dei quali con laboratorio batteriologico e gabinetto radiologico, e su 55 ospedaletti itineranti someggiati. I reparti chirurgici nelle retrovie sono 11 e le ambulanze oltre 200. I servizi di sgombero sono assicurati anche da unità cammellate portaferiti. Dall’Asmara a Massaua è in funzione una «littorina sanitaria» e tra Massaua e i porti italiani vanno e vengono 8 navi ospedale. Ciascun militare riceve compresse di chinino, acqua minerale (San Pellegrino o Fiuggi) se ufficiale, acqua naturale potabilizzata (mediante ebollizione o clorurazione) se appartenente alla truppa. Riceve anche un limone al giorno ed è sottoposto alle vaccinazioni previste. Sono queste le misure profilattiche contro malaria, dissenteria, scorbuto, tifo e paratifi. Contro le insolazioni c’è l’obbligo del casco coloniale, contro le infestazioni tropicali c’è la bonifica antiparassitaria. Il personale addetto all’intero apparato sanitario comprende 1200 ufficiali medici (900 nell’esercito e 300 nella milizia) e 15.500 infermieri (di cui circa 2000 indigeni). Le crocerossine sono oltre 400 e numerose sono le suore appartenenti a vari ordini religiosi. Il consuntivo è ricavato dalle memorie sulla guerra etiopica di Aldo Castellani, direttore della Clinica di malattie tropicali e subtropicali dell’Università di Roma, nominato «alto consulente» e «ispettore generale di sanità», nonché insignito per meriti, a guerra conclusa, del titolo di «principe di Chisimaio»2. Castellani non si sofferma più di tanto sul quadro patologico offerto dalle province del futuro impero. Tale quadro è ricavabile da altra fonte coeva: «il tifo esantematico è molto diffuso», «la febbre tifoide si diffonde essa pure», «il vaiuolo è diffuso in tutta l’Abissinia», «la dissenteria è frequente», «la malaria si riscontra

1   Franco Della Peruta, Storia del Novecento, Le Monnier, Firenze 1991, pp. 206-207. 2   Vedi l’«appendice seconda» del libro di Aldo Castellani, Tra microbi e re, Rusconi e Paolazzi, Milano 1961, pp. 377-398. Vedi anche Id., L’organizzazione sanitaria e la salute delle truppe durante la guerra d’Etiopia, in «Il Policlinico. Sezione pratica», XLIII, n. 34, 24 agosto 1936, pp. 1537-1544.

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nelle terre paludose», «la malattia del sonno è pure conosciuta in Etiopia», «la sifilide è tra le malattie la più comune», «la blenorragia cronica è un’altra piaga del paese», «la lebbra può essere considerata una malattia famigliare. In Abissinia vi sono oltre un milione e mezzo di lebbrosi»3. C’è da stupirsi del fatto che in questo scenario, come scrive Castellani, «le condizioni di salute delle truppe rimasero eccellenti per tutta la durata della guerra e mentre in tutte le precedenti guerre tropicali combattute dai bianchi la mortalità per malattia era stata spaventosa e sempre superiore a quella per perdite in combattimento, il numero dei casi mortali nella guerra italo-etiopica fu basso e, per di più, inferiore alle perdite inflitte dalle armi nemiche». Contro «morti sul campo o per ferite di guerra 1099» stanno «morti per malattia 599»4. Merito della sanità militare italiana o scarsa potenza delle armi offensive abissine? «Il compito del medico in Abissinia», si scrive sulla rivista «Il Policlinico» alla data del 17 febbraio 1936, cioè a circa metà del conflitto, «non può essere paragonato a quello del medico europeo: una delle massime difficoltà è rappresentata dalla diffidenza e dalla indifferenza degli indigeni verso la malattia e la morte. Nei casi disperati è quindi consigliabile il limitarsi alla eutanasia». La lebbra, di cui s’è detto, è anche un alibi per coprire la vergogna della guerra chimica, del ricorso ai gas tossici e all’impiego delle bombe all’iprite. L’iprite è il veleno che – come scrive all’indomani della guerra coloniale il patologo Alessandro Lustig (1857-1937) nel volume Patologia e clinica delle malattie da gas di guerra (Milano 1937) – «provoca la necrosi del protoplasma cellulare» ed «è sicuramente mortale». Le ustioni che produce non sono dissimili, a prima vista, dalle piaghe della lebbra. Castellani esibisce le proprie fotografie di indigeni lebbrosi, date in pasto all’opinione pubblica per confutarne altre, scattate da un reporter inglese e riproducenti con fedeltà le lesioni di civili abissini orrendamente ustionati dal gas. In tal modo si cerca di sventare

3   Bassano Erba, La nosografia dell’Etiopia nella storia e nell’attualità, in «Acta Medica Italica», II, fasc. 1, febbraio 1936, pp. 147-150. 4   Castellani, Tra microbi e re, cit., pp. 76-77.

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quel che si afferma essere un «ignobile trucco della propaganda antifascista» mirante a screditare l’Italia5. L’onore nazionale è salvato. Sommersi dalla propaganda di regime sono anche i precedenti misfatti di Libia. Dopo la conquista italiana del 1911, lo «scapigliato» giornalista Paolo Valera (18501926) aveva documentato la spietata repressione italiana abbattutasi sulla popolazione di Tripoli con queste parole: «Ovunque scene di fucilazioni di massa, [...] di razzie nelle abitazioni dei libici, di incendi nei villaggi, di deportazioni di migliaia di uomini. Ma si fucila e si impicca anche altrove»6. Dopo d’allora la resistenza indigena s’era fatta animosa assumendo il carattere di guerra anticoloniale liberatoria sotto la guida di Omar al-Mukhtar, il «Leone del deserto» catturato e messo a morte il 16 settembre 1931, la cui epopea indipendentista, durata vent’anni, è stata alla fine stroncata dagli aerei italiani che «uno dopo l’altro semina[va]­no l’iprite» facendola «piovere sulle tende e sulle mandrie, senza curarsi di chi si trova[va] sotto la loro pioggia letale»7. Dalla guerra d’Etiopia vengono esperienze ulteriori e acquisti non irrilevanti per la sanità e la medicina in tempo di pace. Importanti sono le conoscenze applicative di medicina tropicale che permettono ai medici italiani di rimontare il dislivello di competenza che, in questo campo, li distanzia dai colleghi inglesi e francesi da tempo fatti esperti di malattie esotiche «coloniali». Dell’alimentazione nei climi tropicali è fatto esperto Mario Camis (1878-1946), un professore ebreo, direttore dell’Istituto di fisiologia nell’Università di Parma, inviato in Africa Orientale a perfezionare gli studi su nutrizione e metabolismo. È soprattutto nel campo chirurgico che si colgono i segni di un netto avanzamento delle tecniche di trattamento delle lesioni cruente. Un esempio è fornito dalla promozione dell’odontoiatria a chirurgia maxillo-facciale grazie alla sperimentazione tecnopratica relativa alle lesioni mascellari, zigo-

5   L’episodio è riferito da Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell’Impero, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 494. 6   Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006, p. 91. 7   Gianluca di Feo, Veleni di Stato, Rizzoli, Milano 2009, p. 89. L’autore riporta date e dati tratti dal saggio di Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana (1911-1931), Manifestolibri, Roma 2005.

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matiche, nasali, orbitali da pallottole dum-dum dotate di effetto dirompente: tale la sperimentazione compiuta dal professor Silvio Palazzi (1892-1979), clinico odontoiatra nell’Università di Pavia, incaricato dei «servizi stomatologici durante le operazioni militari nello scacchiere nord»8. Per l’ennesima volta – non sarà l’ultima – l’arrischiato «provando e riprovando» del «cimento» di medici e chirurghi, affermatosi a partire dal Cinquecento, apre la strada agli sviluppi ulteriori della medicina e della chirurgia moderne. Ma quel che più conta, nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento, è un altro «prova e riprova» costituito dalla guerra civile di Spagna (1936-39), esercitazione generale, da parte delle forze armate dell’Asse Roma-Berlino, delle capacità aggressive alla vigilia dell’imminente conflitto mondiale. La Legione aerea «Condor» della Luftwaffe sperimenta sulla cittadina basca di Guernica la potenza distruttiva dei suoi bombardieri Junker. Gli aeroplani non sono soltanto cacciatori, sono anche bombardieri. È tra le due guerre mondiali che l’aeronautica militare cambia volto: dalla fase eroica della battaglia tra velivoli, combattuta nei cieli «pilota contro pilota», ci si prepara e poi si passa alla guerra aerea organizzata, con massicce formazioni da bombardamento all’attacco di obiettivi militari e civili con i loro carichi incendiari e dirompenti, fatte oggetto a loro volta di contrattacchi da parte delle difese contraeree o da parte dei caccia levatisi in volo. Il suolo spagnolo è il campo sperimentale dell’imminente conflitto mondiale. Lo è sia perché «il paese sprofondò per tre lunghissimi anni nella cultura della morte», sia perché il carattere di «guerra civile» assunto dal conflitto fu modello anticipatore di «efferatezze distribuite a piene mani da entrambi i contendenti» in più parti d’Europa (Francia, Italia, Grecia, Jugoslavia e altrove) nel corso della lotta di liberazione dal nazifascismo9. La divisione «Littorio» dell’esercito italiano e le divisioni «Fiamme nere», «Penne nere» e «Dio lo vuole» della milizia fascista danno prova, su più fronti, dell’inadeguatezza bellica dell’Italia mussoliniana. Nella sconfitta loro inferta a Guadalajara da parte delle Brigate Internazionali (tra cui molti antifascisti italiani 8   Vedi le voci Chirurgia e Traumatologia nel volume II del trattato di odontostomatologia (Milano 1951) di Silvio Palazzi e collaboratori. 9   De Luna, Il corpo del nemico ucciso, cit., p. 111.

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accorsi a dar man forte alla Repubblica spagnola contro il colpo di Stato militare) l’inadeguatezza è anche sanitaria, resa lampante dal fatto che l’unico ospedale a disposizione dell’esercito italiano e gestito da personale italiano si trova a Valladolid, distante più di 200 chilometri, e che il luogo d’imbarco dei feriti sulle navi ospedale si trova ad alcune centinaia di chilometri di distanza dalle zone di operazione, nel porto di Cadice. Siamo ormai giunti alla guerra totale (1939-45), planetaria, nella quale «i belligeranti impegnarono tutte le loro risorse economiche e demografiche e tutto il loro potenziale scientifico e tecnico». Se da un lato la guerra «provocò le più ampie e sistematiche distruzioni mai sperimentate dall’umanità», d’altro lato «la mobilitazione della scienza e della tecnica, anche se poste al servizio dei fini distruttivi assegnati agli eserciti, permise tuttavia conquiste che si sarebbero rivelate preziose per l’umanità al ritorno della pace: come l’emergere dell’elettronica, l’avvio della rivoluzione antibiotica, i decisivi progressi nel settore dell’energia nucleare»10. È del 1944 il primo calcolatore automatico. Trent’anni dopo, il computer rivoluzionerà la casa, l’ufficio, il laboratorio, l’ambulatorio, l’ospedale; ma, prima, l’elettronica rivoluziona la guerra. Quanto agli antibiotici, il capostipite di essi – la penicillina, scoperta da Alexander Fleming nel 1929 – ha atteso dodici anni prima di concretizzarsi nel farmaco iniziatore della rivoluzione terapeutica di metà Novecento. Gli studi metodici e perseveranti di Fleming, come dirà egli stesso, «erano stati il portato del laboratorio, della tradizione degli studi sistematici e sereni, della scienza per la scienza. [...] Ma vi sono momenti in cui i bisogni della società si fanno urgenti e questioni di vita e di morte affiorano impetuose alla coscienza dello scienziato» onde i bisogni «passano dalle prospettive generali di un futuro migliore alle urgenti necessità pratiche del momento»11. Il momento cruciale che trasforma la «scienza per la scienza» nella «scienza per l’umanità» è la guerra. «La storia delle scoperte fatte sotto lo stimolo delle necessità belliche dimostra che la ricer  Della Peruta, Storia del Novecento, cit., p. 216.   Le parole di Fleming sono tratte dalla Presentazione di Massimo Aloisi e Pietro Buffa al volume La penicillina e le sue applicazioni pratiche, Il Pensiero Scientifico, Roma 1948, p. x. 10 11

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ca e i processi innovativi possono essere accelerati»12. La guerra è la maggiore acceleratrice, è un fortissimo propellente: dall’Europa, dall’Africa, dall’Asia, dove si manifesta come una sempre più tragica realtà fatta di morti, di feriti, di malati, la guerra diventa, oltreché il consueto banco di prova delle nuove tecniche e delle rinnovate organizzazioni, «una sorta di gigantesco mostruoso laboratorio vivente dell’industria farmaceutica»13. «Quando le autorità statunitensi decisero d’impegnarsi nella ricerca di questa sostanza – la penicillina –, a ciò non fu estranea la considerazione relativa all’enorme potere strategico legato al possesso di quella formula miracolosa. Oltre ai morti al fronte, la guerra faceva strage di feriti per l’impossibilità di curare le ferite infette»14. Per questa ragione l’avvento della penicillina nel bagaglio terapeutico dei medici di metà Novecento non è storicamente separabile dalla guerra, dalle ferite di guerra, dalle sofferenze e dai destini conseguenti alle lesioni belliche. Guerra, madre di tutte le cose15: anche della «rivoluzione terapeutica», dunque. L’idea di poter giovare in modo decisivo ai molti soldati americani che si apprestano a invadere e liberare l’Europa dal giogo nazifascista è la spinta finale verso quello sforzo complessivo che contribuisce a bruciare i tempi della ricerca scientifica e della produzione industriale. In marina vengono impiegati, per rilevare presenza e profondità dei sommergibili, gli ultrasuoni. Il loro studio permetterà, trent’anni dopo, di passare, dai primi pionieristici tentativi di applicazione in campo medico, alla ecografia, metodica che consente di ottenere immagini del corpo vivente «scritte da echi», cioè mediante fasci ultrasonori i cui «echi di ritorno» vengono registrati e riprodotti su di un monitor televisivo. Si tratta di una

12   La frase è di Bernard Dixon, editor del «New Scientist», ed è riportata da Alvin Silverstein, La conquista della morte, Sperling & Kupfer, Milano 1982, p. 201. 13   Vittorio A. Sironi, La nascita dell’industria farmaceutica, nel volume Il farmaco nei tempi. Dal laboratorio all’industria, Farmitalia Carlo Erba, Milano 1989, p. 203. 14   Stefano Cagliano, Dieci farmaci che sconvolsero il mondo, Laterza, RomaBari 1989, p. 91. 15   Luciano Canfora, Guerra, madre di tutte le cose, in «Corriere della Sera», 21 maggio 2009, p. 39.

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«rivoluzione silenziosa» (così definita perché gli ultrasuoni sono onde meccaniche come quelle del suono, ma di frequenza elevata e pertanto non percepibili dall’orecchio umano): essa consente, tra l’altro, di rilevare l’andamento della gravidanza a partire dall’ottava settimana di gestazione, svelando morfologia e identità del feto, e di rilevare i movimenti del cuore, facendo meritare all’ecografo il nome di «stetoscopio degli anni Ottanta». Dal maggio 1945 esiste una nuova forma di aggressione finalizzata a uccidere: l’arma nucleare. Da qui in poi «è invalso l’uso di dividere le armi a disposizione delle forze armate in due categorie: quelle nucleari, appunto, e quelle convenzionali»16: tra queste ultime, vi sono quelle chimiche – ancora i gas – e quelle batteriologiche, le une e le altre d’antica data e come tali atte a smentire l’idea che «solo dopo i grandi progressi della chimica e della medicina gli scienziati e i generali siano stati in grado di approntare strumenti di morte efficaci quali i gas asfissianti e i bacilli delle malattie infettive»17. Già Annibale lanciò serpenti velenosi contro le navi romane, i mongoli catapultarono corpi di appestati oltre le mura di città assediate, i prussiani seminarono la morva nella cavalleria nemica, e l’acqua delle fontane e dei pozzi fu mille volte avvelenata nel corso di guerre ed eccidi. Il 2 dicembre 1943 Bari è da due mesi la più importante città del Regno del Sud (la capitale è Brindisi, dov’è fuggito da Roma, minacciata dai tedeschi, il re Vittorio Emanuele III all’indomani dell’8 settembre, che ha visto la capitolazione dell’esercito italiano e l’armistizio). Il porto della città pugliese è l’unico in grado di gestire i movimenti e rifornimenti di merci e di armi di cui hanno bisogno le armate anglo-americane per la loro risalita guerreggiata lungo la penisola. A tarda sera, improvvisamente, l’inferno: 105 bombardieri Junker della Lutwaffe attaccano a bassa quota le navi statunitensi ancorate nel porto. Le cisterne sventrate vomitano fiumi di petrolio, i cargo zeppi di tritolo deflagrano, una luce abbagliante come l’eruzione di un vulcano trasforma in pieno gior16   Rupert Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009, p. 9. 17   Paolo Preto, La guerra chimica e batteriologica a Venezia, in «Welcome Tabloid», a. 4, n. 1, 1992, p. 43.

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no il buio della notte mentre uno strano odore di aglio si sparge nell’aria insieme al fumo18. Si saprà, ma soltanto a guerra conclusa, che quel puzzo era dovuto al fatto che una nave – la «John Harvey» –, centrata dalle bombe, aveva perso il suo carico di iprite e lewisite. Ufficialmente, «gli americani condannavano le armi terribili e disumane» costituite dai gas; ufficiosamente, «ne accatastavano a tonnellate in Europa» e «ne inventavano anche di nuove, mai viste prima», come i micidiali nervini ganglioplegici – Tabun, Sarin, Soman – che paralizzano il sistema nervoso e uccidono all’istante, al pari dell’acido cianidrico o Zyklon B – questo però realizzato dall’industria tedesca – con il quale sono stati gassati nei campi di sterminio milioni di ebrei19. Quanto all’iprite, essa «non si arrende mai; da sola, o ancora di più se mescolata con la lewisite, è un killer spietato e paziente che, se non uccide subito, [...] disgrega il Dna della persona, modifica il codice della vita e manomette le sequenze genetiche che permettono di riprodurla». Così «può devastare intere generazioni»20. Tutto ciò diventerà noto più tardi, dopo aver constatato che dalla tossica miscela sparsa nell’aria e nelle acque di Bari erano state contaminate alcune centinaia di marinai statunitensi, poi curati negli ospedali nordamericani per malattie del sangue di tipo leucemico, in seguito riscontrate anche in taluni dei loro discendenti. L’incursione aerea tedesca di Bari è militarmente poca cosa rispetto a quella di due anni prima, compiuta proditoriamente, perché a guerra non ancora dichiarata, da 400 aerei giapponesi sulla base aeronavale statunitense di Pearl Harbor nelle Hawaii. È umanamente poca cosa rispetto all’ecatombe umana di un anno e mezzo dopo, provocata dalle bombe atomiche sganciate dagli aerei americani il 6 agosto 1945 sulla città giapponese di Hiroshima e il 9 agosto sulla città giapponese di Nagasaki. In entrambe le città le vittime sono 130.000 senza contare quelle decedute a distanza di tempo a causa degli effetti lesivi tardivi delle radiazioni ionizzanti. L’arma nucleare, impiegata da una potenza extra-europea co18   Vedi Janusz Piekalkiewicz, Der Wüstenkrieg in Afrika. 1940-1943, Südwest Verlag, München 1985. Una memoria è stata fornita a chi scrive, il 4 novembre 2009, da Andrea Bissante, testimone oculare dell’evento. 19   Di Feo, Veleni di Stato, cit., p. 170. 20   Ivi, p. 171.

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me gli Stati Uniti d’America contro un’altra potenza extra-europea come il Giappone, chiude la guerra mondiale che ha coinvolto, fino all’estremo limite della sussistenza, potenze europee quali la Germania, la Francia, l’Inghilterra, l’Unione Sovietica e l’Italia. Nel quinquennio di guerra, in Italia, la mortalità per cause violente si impenna fino all’acme del 2,5 per mille abitanti. Ma anche si impenna la curva della mortalità per grandi gruppi di malattie, quali la tubercolosi, la malaria, la sifilide, il tifo. La guerra non solo miete vittime tra i militari che combattono in Grecia, in Africa, in Russia, nei mari e nei cieli, ma anche fa strage di civili, nelle città bombardate, e innalza in tutta la popolazione la penetranza di malattie sfuggite al controllo medico-sanitario. La guerra cancella i vantaggi conseguiti in periodo pre-bellico dalla lotta antitubercolare, dalla bonifica antimalarica, dalla profilassi antiluetica, dal progresso igienico. La «guerra igiene del mondo», preconizzata trent’anni prima dall’ideologia futurista, si confronta con una igiene tanto precaria da seppellire ogni slogan propagandistico sotto una dura realtà e un’amara ironia. Aumentano anche le malattie a partenza dall’apparato digerente, i cui organi – stomaco, fegato, intestino – sono i primi e i più direttamente compromessi dalla sottoalimentazione e malnutrizione di guerra. Non si tratta solo di un incremento quantitativo della patologia satellite; si tratta anche di un mutamento qualitativo di questa o quella malattia specifica. La tubercolosi non è più la malattia che incombe sui soli debilitati e sottonutriti; è anche la malattia che minaccia tutti e si espande là dove i sottonutriti e debilitati sono la maggioranza. La malaria non è più la malattia che incombe sui soli contadini e braccianti delle campagne; è anche la malattia che si espande tra gli abitanti dei sobborghi urbani là dove il venir meno delle misure profilattiche si somma ai disastri provocati dai bombardamenti21. La guerra che mette in crisi l’igiene e in ginocchio la salute pubblica è la medesima piaga che crea dappertutto condizioni di vita segnate da fatica, da stenti, da fame, da freddo. Nei soldati di Grecia e di Russia imperversano congelamenti e diarrea. Un testimone medico narra di soldati che marciavano intenti a «togliersi 21   Per il quadro complessivo della pluripatologia dell’Italia in guerra vedi ISTAT, Sommario delle statistiche mediche. 1926-1985, Roma 1986, pp. 76-77.

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le dita che staccandosi putride di cancrena scivolavano sotto la pianta dei piedi impedendo il passo» e che al contempo cercavano «con mani rattrappite e rese inette dal congelamento di slacciare gli indumenti» e di «accucciarsi a metà e tuttavia procedere a tentoni a gambe larghe [...] mentre perdevano e lasciavano dietro di sé, sulla neve, chiazze e strisce di liquame sanguinolento»22. Un altro testimone, capitano medico in un’isba chirurgica, scrive: «Era frequente vedere cadaveri tra la neve, per ferite o per esaurimento. Altri uomini, stremati dalla fatica o per congelamento ai piedi, si coricavano nella neve per riposarsi, nella impossibilità di proseguire. Se qualcuno non li soccorreva, non li spronava con risolutezza, non li sorreggeva per riprendere il cammino, erano perduti. Una sonnolenza li vinceva, li intorpidiva e li uccideva. [...] Il duro cammino e le aspre vicende facevano una continua selezione. I minorati formavano la dolorante, pietosa coda della colonna. Una cosa tragica. So di certuni che nella disperazione si sono uccisi»23. Molte sono le testimonianze sul calvario della ritirata delle truppe italiane nella piana del Don. Secondo l’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (presso l’allora ministero della Guerra) «le forze presenti ed operanti all’inizio della battaglia ammontavano complessivamente a 229.000 uomini. Detratto da tale cifra il numero dei feriti e dei congelati rimpatriati, pari a 29.690, restano 199.310 combattenti. Alla conclusione della battaglia mancavano all’appello 84.830 uomini». Un altro testimone afferma: «da qui – Nikolajewka – al Don è tutta una tomba di alpini»24. L’Armata italiana in Russia (ArmIR) dispone di personale medico e infermieristico generoso e capace, con vertici di grande intraprendenza – come Gian Maria Fasiani (1887-1956), promotore di un centro neurochirurgico e operatore sul campo di molti traumatizzati cranici e vertebrali – ma con base strumentale e logistica dotata, «come sempre, di mezzi insufficienti» e di «materiali simili a quelli degli anni 1920 e 1930». Non è migliore la situazione 22   Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, Mursia, Milano 1963, pp. 352-353. 23   Marino Martini, 612° Ospedale da campo, Edizioni Biografiche, Lecco 2003, pp. 114-115. 24   Mario Rigoni Stern, Ritorno sul Don, Einaudi, Torino 1973, p. 147.

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sanitaria sugli altri fronti, dove «il tutto non si discostava molto dalle strutture previste per la prima guerra mondiale». In Grecia «difettano materiali e personale medico. La raccolta, il trasporto, la cura e lo sgombero dei feriti e dei malati avvengono con drammatico ritardo e in modo disorganizzato, con gravi perdite, come nella guerra 1915-1918». In Africa «l’organizzazione sanitaria è carente. Non ci sono laboratori batteriologici ed è questa una grave mancanza» poiché «la identificazione eziologica dei morbi può essere effettuata solo con opportuni test». Anche ad altre latitudini, tropicali, diverse da quelle continentali, nelle calure degli altopiani abissini o del deserto libico ed egiziano, «i mezzi di trasporto per malati e feriti sono assai scarsi» con «ambulanze obsolete, lente, di scarsa resistenza»25. Il bilancio delle perdite umane è molto elevato: in Grecia 13.755 morti, 50.874 feriti, 25.067 dispersi, 52.108 malati, 12.368 congelati; in Africa settentrionale 22.569 morti, cui vanno sommati altri 27.000 appartenenti alla marina e all’aeronautica. In Russia, dei 114.485 superstiti della battaglia difensiva sul Don tornano dai lazaret siberiani soltanto 10.030 ex prigionieri. Degli oltre 200.000 uomini dell’armata, sempre secondo il computo dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore, «il numero dei combattenti che non sono tornati in Italia ammonta pertanto a 74.800». In Europa come in Africa, nelle Isole del Pacifico come nel fondo degli oceani e dei mari, non si contano i cimiteri di guerra e i militari insepolti. Ma, rispetto agli uni e agli altri, le sepolture dei civili, nelle città bombardate (da Coventry a Dresda), sono molte di più. «La città è morta, è morta», scrive Salvatore Quasimodo, all’indomani dei bombardamenti aerei su Milano, nella poesia intitolata Agosto 1943: «Non toccate i morti, così rossi, così gonfi, lasciateli nella terra delle loro case». Non si contano le fosse comuni. Rispetto alla prima guerra mondiale, la seconda ha fatto molte più vittime tra la popolazione civile che nelle file degli eserciti combattenti. Si è trattato di una larga, indiscriminata morìa, estesa come la «nera morte» trecentesca. Si possono rilevare «due modalità diverse con cui la morte 25   Umberto A. Maccani, Storia della medicina militare, Selecta Medica, Assago (Milano) 2008, pp. 119-123.

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accompagnò le vicende della seconda guerra mondiale», e poi accompagnerà ogni altra guerra successiva. «Da un lato un inesausto stillicidio di morti individuali, dall’altro la tragedia delle morti di massa; da un lato i cadaveri raccolti per strada [...], dall’altro l’incubo della fossa comune e della cancellazione dei corpi», l’«enorme buco nero rappresentato dai mucchi di cadaveri gettati dal mezzo meccanico nella fossa comune del lager nazista»26. Di fronte a una tale catastrofe umana e alla diffusa morbosità che ha avuto nella guerra il suo fattore scatenante si ripropone l’interrogativo se la medicina e la sanità, non ultime tra le scienze e le pratiche cui si ascrive il merito di contribuire al benessere dell’umano consorzio, abbiano in qualche modo fallito o tradito il loro compito istituzionale primario: quello di instaurare nel pianeta una coscienza medico-sanitaria, civile, sociale, preventiva della guerra e delle sue inevitabili complicanze.   De Luna, Il corpo del nemico ucciso, cit., pp. 18 e 29.

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XV L’impero americano La «guerra totale» – sociopolitica e geografica, militare e civile – che ha «mortificato» il pianeta nei sei anni compresi tra il settembre 1939 e il maggio 1945, non è stata senza preavviso e non ha rappresentato soltanto una quantitativa espansione bellica a dimensione di massa. Essa è stata preceduta da altri eccidi ed è stata solcata da profondi abissi che ne hanno fatto qualitativamente una realtà «infernale». Oltre al già menzionato preavviso della «guerra sperimentale», militare e civile, combattuta in terra di Spagna dal 1936 al 1939, nel biennio 1937-38 il «grande terrore» instaurato in Unione Sovietica dalle purghe staliniane ha messo a morte 800.000 oppositori di un regime degenerato, che inoltre aveva già popolato di 20 milioni (40 secondo Aleksandr Solženicyn) di kulaki e di altri dissenzienti i gulag siberiani1. Quanto al cupo imbarbarimento di civiltà che ha sprofondato la Germania nazista nell’abissale ignominia dei lager destinati a condurre il problema ebraico alla sua «soluzione finale» (comandata da Hitler il 18 dicembre 1941), i campi di sterminio e, prima, i campi di concentramento e i campi di lavoro sono stati utilizzati anche come grandi laboratori fornitori di «umano materiale» da esperimento per i medici nazisti (emulati in Estremo Oriente dai medici del Sol Levante), che hanno sfruttato come cavie i detenuti «inseriti in un protocollo scientifico per studi sulla disidratazione, 1   Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006, p. 203. Vedi anche Aleksandr Solženicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano 1973-1978.

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il digiuno, il congelamento, le trasfusioni di sangue da animale a uomo, la soglia di resistenza vitale al progressivo dissanguamento o alla elettrocuzione, la vivisezione con ma anche senza anestesia»2. Il contributo dato all’Olocausto da parte dei «medici nazisti» s’era svolto nella selezione degli individui da mandare a morte nelle camere a gas e nelle successive scelte per avviare allo stesso destino coloro che non erano più in grado di lavorare per il Terzo Reich. Ma l’attività medica criminale s’era svolta ancor prima nei programmi di sterilizzazione ed eutanasia realizzati a spese degli individui considerati «inferiori», «minorati» fisici e psichici, ridotti a umana «spazzatura». La «psicologia del genocidio», alimentata dall’antisemitismo e dall’ideologia biologico-genetica della supremazia razziale, aveva trasformato medici, istituzionalmente formati per la cura e la ricerca scientifica a favore del prossimo, in aguzzini e carnefici, «criminali di guerra» (primo fra tutti il famigerato dottor Josef Mengele, medico nei campi di Auschwitz e Birkenau)3. Massimizzata da tali disumani eccessi di morte, la bellicosità mondiale novecentesca ha fornito l’ennesima prova, non più falsificabile, del fatto che la guerra è la peggiore epidemia che appesti l’umanità. Tuttavia dal peggio può nascere il meglio, nel senso di un ravvedimento duraturo, così come dal male del peccato può nascere il bene di una vita proba, secondo il disegno provviden2   Vedi Robert Jay Lifton, I medici nazisti. La psicologia del genocidio, Rizzoli, Milano 1988. Vedi anche Daniel Barenblatt, I medici del Sol Levante, Rizzoli, Milano 2004. 3   Alla origine della perversione dei medici in aguzzini e carnefici sono da ravvisarsi, a parere di chi scrive questa nota, spinte ideologiche diverse, fra loro convergenti con sinergismo di potenziamento: a quelle antiebraiche tradizionali (antisemita, basata sul pregiudizio della razza inferiore e deteriore, e antigiudaica, basata sul pregiudizio religioso del popolo deicida) si sono sommate l’ideologia nazionalsocialista, basata sul dogma che era compito della nazione guarire attraverso l’omicidio terapeutico (eutanasia attiva) il corpo sociale infetto e ammorbato dalla presenza ebraica, e l’ideologia biomeccanicista, basata sul riduzionismo della persona umana a macchina organica che, se deteriorata per natura, dev’essere rottamata senza alternativa. L’ideologia dello sterminio («trattamento speciale 14F13») fu anche motivata dal furore di dover agire perché, mentre in guerra moriva la miglior gioventù tedesca – ariana, nazista, sana e forte –, non sopravvivesse una popolazione già in condizioni di morte civile, meritevole d’essere trasformata in morte fisica. In questa visione perversa, la tanatologia dei lager era considerata un atto di giustizia.

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ziale misericordioso. Ne dà testimonianza operosa un uomo che crede fermamente nella Divina Provvidenza, nel cui disegno inscrive la propria appassionata opera di misericordia post-bellica. È don Carlo Gnocchi (1902-1956), un cappellano militare che, reduce dalla guerra, dopo aver molto imparato in quel campus del dolore che fu il campo di battaglia in Grecia e in Russia, diventa docente dei problemi tecnici e umani del «dolore innocente» dei tanti «mutilatini di guerra» e poi degli stessi problemi della invalidità dei tanti individui minorati o infortunati. Egli sa trarre dall’esperienza vissuta da seguace di «Cristo con gli alpini» la teoria e la pratica di una tecnica della riabilitazione integrale – fisica, psichica, occupazionale, sociale – da lui intesa come completa «restaurazione della persona umana» intorno ai suoi bisogni e intorno ai suoi diritti4. Il suo è un grande lascito alla medicina riabilitativa del secondo Novecento, un modello di cura dell’handicap e della disabilità di ogni età e da ogni causa5. La restaurazione delle persone è, per così dire, il risvolto «umanologico» della «ricostruzione» nel dopoguerra. Case, scuole, fabbriche, ospedali, tutto viene ricostruito nei tanti luoghi disastrati. Con l’avvento della pace il panorama generale cambia, però non all’insegna della pacificazione politicamente organizzata dalle nazioni unite (ONU), ma sotto il segno, o per meglio dire sotto l’incubo minaccioso, di un possibile conflitto mondiale tra superpotenze, combattuto come guerra nucleare e concepito come ultimatum definitivo ai viventi. La guerra, dunque, non esce completamente di scena. Come uno spettro si aggira in Europa e nel mondo. «Il quadro internazionale è cambiato con grande rapidità», scriverà un alto esponente dell’esercito britannico, poi vice-comandante supremo dell’organizzazione del Patto Nord-Atlantico (NATO) istituito nel 1949 e a cui si contrappone nel 1955 il Patto di Varsavia tra Unione So4   Vedi don Carlo Gnocchi, Cristo con gli alpini, Stefanoni, Brescia 19432; Id., Restaurazione della persona umana, La Scuola, Brescia 1946; Id., Pedagogia del dolore innocente, La Scuola, Brescia 1956. 5   Su don Carlo Gnocchi, beatificato nel 2010, e sulla fondazione intitolata al suo nome e oggi radicata e ramificata in tutto il territorio nazionale vedi Giorgio Cosmacini, «La mia baracca». Storia della Fondazione Don Gnocchi, Laterza, Roma-Bari 2004.

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vietica e paesi satelliti. «Con la conclusione della seconda guerra mondiale si è affermato un sistema di confronto militare bipolare, presto congelato dall’equilibrio del terrore in due blocchi contrapposti». Si è così inaugurata non una pace vera e propria, ma una sorta di «terza guerra mondiale mai effettivamente combattuta sui campi di battaglia», combattuta «non con l’uso, ma con la minaccia delle armi nucleari»6. Questa «terza guerra» virtuale, definita guerra fredda, si mescola qua e là nel globo a guerre calde non generalizzate ma «locali», come quelle della decolonizzazione afro-asiatica (dell’indipendenza dell’India e del Pakistan dal Regno Unito, dell’Indocina e degli Stati del Maghreb dalla Francia, degli Stati dell’Africa nera da Gran Bretagna, Belgio, Portogallo), oppure «limitate», come quelle arabo-israeliana, di Corea, della crisi di Suez, del Vietnam. La guerra di Corea ha inizio appena cinque anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando l’esercito della Corea del Nord, che gode dell’appoggio della Cina comunista, in data 25 giugno 1950 varca il confine segnato dal 38° parallelo e invade il territorio della Corea del Sud, di cui gli Stati Uniti prendono le difese. La medicina militare statunitense era stata in gran parte smilitarizzata dopo le dure prove da essa sostenute nelle tante battaglie in Europa e in Estremo Oriente. Una chiamata alle armi dei medici, peraltro riluttanti a prestare servizio in Corea, consente di approntare un servizio sanitario adeguato solo a partire dal 1952. Tale servizio vanta, tuttavia, una priorità assoluta: «per la prima volta nella storia della medicina militare le informazioni su ogni vittima di guerra (per ferita o per malattia intercorrente o complicante) vengono registrate su schede perforate spedite subito a Washington per essere analizzate al computer»7. Il rilevamento immediato contribuisce a migliorare tempestivamente, in tempo reale, l’organizzazione dell’assistenza. Le statistiche a distanza di tempo consentono di computare 18.769 caduti 6   Rupert Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 7 e 11-12. Il corsivo nella citazione è mio. 7   Jack E. McCallum, Military Medicine. From Ancient Times to the 21st Century, ABC-CLIO, Santa Barbara 2008, p. 180. Ivi sono anche i dati numerici di seguito riportati.

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in guerra e 77.788 feriti abbisognevoli di ricovero ospedaliero. Su un totale di 444.163 ricoverati, ben 365.375, pari all’82,4%, lo sono per motivi non strettamente bellici; lo sono cioè per malattie o infortuni. La morbilità per lesioni di guerra è nettamente inferiore a quella da concause infettive o traumatiche d’altro genere. Una domanda s’impone: è la guerra a essere relativamente meno feroce o è la medicina militare a essere più organizzata e avanzata? Tra gli avanzamenti della medicina militare in Corea figurano i MASH (Mobile Army Surgical Hospital), strutture mobili ospedaliere equipaggiate di tutto, che accompagnano le unità combattenti in fase sia di attacco che di ripiegamento. Ogni unità sanitaria al seguito delle truppe ha a disposizione una sessantina di posti letto distribuiti in due sezioni, pre- e post-intervento, con servizi di camera operatoria, di radiologia e di terapia intensiva. Vi presta servizio una équipe di ufficiali medici, con specialisti chirurghi e traumatologi, d’infermieri e d’inservienti. Il pronto soccorso tramite i MASH è integrato dalla «evacuazione aeromedicale» dei feriti più gravi, una pratica anch’essa inaugurata in Corea. Oltre alla computerizzazione e teletrasmissione delle informazioni medico-sanitarie, all’impiego dei MASH e al trasporto in elicottero dei feriti, una quarta conquista medica e organizzativa, che peraltro trascende il livello meramente tecnico collocandosi su di un piano di umana solidarietà, è «l’aumento dell’uso di sangue intero per la rianimazione dei pazienti in stato di shock. Un soldato ferito poté ricevere in media 1,8 litri di sangue intero, ma trasfusioni da 6 a 12 litri non furono inusuali. Tale massiccio utilizzo di sangue pose sotto sforzo il sistema delle donazioni incentivandole e diffondendone la pratica sia negli Stati Uniti che in Giappone (dove però il sangue venne raccolto a parte non si sa se per motivi medici o razziali)»8. La guerra di Corea si conclude nel 1953 e dodici anni dopo ha inizio la guerra del Vietnam, una combinazione di battaglie strategiche e di continui attacchi e contrattacchi senza una regolare linea del fronte, perlopiù combattuta sotto forma di azioni compiute da piccole unità tattiche: dal punto di vista medico, una   Ivi, pp. 180-181.

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delle sfide sanitarie più difficili che l’esercito degli Stati Uniti abbia mai affrontato. Al riguardo si parla di «guerriglia», con riferimento lessicale alla guerrilla della Spagna antinapoleonica, ma con riferimento sostanziale alla lotta partigiana combattuta in più parti d’Europa (Italia, Grecia, Yugoslavia) contro le forze nazifasciste. È una guerra combattuta dai Vietcong nelle foreste del Vietnam e contrastata dagli americani anche con il defoliante Orange, un erbicida il cui nome deriva dal colore dei fusti contenitori e che si rivelerà a distanza cancerogeno e teratogeno. Con esso vengono irrorati centinaia di villaggi e colpiti centinaia di migliaia di vietnamiti. Ai vietnamiti uccisi in combattimento – circa un milione – si aggiungeranno vittime ulteriori, uccise dagli effetti tossici a distanza. Se durante la seconda guerra mondiale le minacce di ritorsioni hanno trattenuto le forze in campo dall’usare le armi chimiche, peraltro impiegate a colpo sicuro dalle truppe italiane in Etiopia e da quelle giapponesi in Manciuria, le sperimentazioni compiute dalle due superpotenze USA e URSS portano alla produzione di chimiche armi letali, tra cui quelle sofisticate e definite «binarie», progettate per mettere in sicurezza le truppe che le utilizzano: «i gas letali non sono effettivamente tali fino a quando i proiettili non sono in rotta verso l’obiettivo, momento in cui le due sostanze chimiche si combinano e determinano l’effetto tossico»9. In Vietnam, «principalmente a causa del clima tropicale, le malattie – malaria, epatite virale, infezioni acute dell’apparato respiratorio, dissenteria, malattie veneree – furono il problema maggiore per i medici militari americani durante tutta la guerra», protrattasi per dieci anni. «Tra il 1965 e il 1969, il 69 per cento dei ricoveri fu dovuto a malattia, solo il 16 per cento a ferite in battaglia. [...] Nonostante tutto, il tasso dei ricoveri per malattia dei soldati americani in Viet Nam [351‰ ogni anno] fu significativamente più basso di quello registrato sul fronte del Pacifico durante la seconda guerra mondiale [890‰ ogni anno]. È una diminuzione probabilmente dovuta alle migliorate cure preventive»10. Quel che invece peggiora è «l’incidenza dei disturbi neuropsi  Ivi, p. 69.   Ivi, p. 342.

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chiatrici, aumentati costantemente durante il conflitto e divenuti, entro gli anni Settanta, la seconda causa di ricovero ospedaliero, in particolare per i casi da abuso di droghe. Marijuana, eroina, oppio, barbiturici e anfetamine erano prodotti tutti facilmente disponibili e relativamente economici. Uno studio sui reduci del Viet Nam ha rivelato che il 21,5 per cento ha usato marijuana e il 17,4 per cento ha fatto uso di oppio o eroina»11. I reduci e veterani dalla guerra del Vietnam si portano appresso problemi psicopatologici gravi. Molti loro concittadini non li considerano benemeriti della patria. Numerosi sono quelli che non riescono a reinserirsi nella vita civile. Non pochi sono portatori di una sindrome morbosa etichettata con l’acronimo PTSD, che significa Post-Traumatic Stress Disorder. Questo «disordine da stress posttraumatico» è un reliquato della guerra, così come lo erano stati lo «shock da proiettile» della prima guerra mondiale e il «logorio da combattimento» della seconda. È caratterizzato da un insieme di disturbi somato-psichici gravi quali ipertensione, asma, insonnia, affaticamento, ansia, depressione, angoscia. La follia della guerra minaccia di rendere folle chi la guerra la fa oppure la subisce. Dalla guerra vietnamita, conclusa nel 1973, trascorrono quattro decenni nel corso dei quali il rumore delle armi non si zittisce. Alla fittizia nozione di pace, superficialmente accreditata in Occidente da una distratta «società del benessere» (che peraltro cela o svela nel suo seno molte pieghe di malessere), fa riscontro l’amara verità delle molte guerre – grandi, medie, piccole, tutte tragiche – che appartengono al recente passato e al presente, diffuse in quattro dei cinque continenti del globo e definite conflitti dimenticati 12. «L’area del pianeta che drammaticamente associa il maggior numero di guerre e il minimo di interesse è l’Africa», dove si è guerreggiato o si guerreggia in Algeria, nel Ciad, in Etiopia ed Eritrea, in Nigeria, nella Repubblica centro-africana, in Somalia. «In Sudan il conflitto che contrappone il nord arabo-musulmano al sud animista e cristiano ha provocato negli ultimi vent’anni due milioni e mezzo di morti e quattro milioni di profughi». Nel 1996   Ivi, p. 343.   I conflitti dimenticati, saggio di Giorgio Paolucci, in «Kos», nuova serie, n. 214, luglio 2003. 11 12

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è iniziata «la lotta per controllare i forzieri del Congo», poi sfociata in «quella che è stata definita la prima guerra interafricana che ha coinvolto otto paesi» dell’Africa nera13. Oggi è la volta della Libia. Non sono mancati o non mancano focolai di guerra nell’America centrale, dal Nicaragua all’Honduras, e in America latina, come in Colombia, dove «si consuma una delle guerre civili più lunghe della storia contemporanea», combattuta tra chi si allea con il narcotraffico e chi vorrebbe contrastarlo in «una spirale di violenza e terrore che si consuma in un quadro generale contrassegnato da instabilità politica e corruzione in un Paese che è tra i maggiori produttori mondiali di oro, argento, smeraldi e platino»14. Nella civilissima Europa la guerra ha torturato i paesi della ex Yugoslavia e ha tormentato i Paesi Baschi, l’Irlanda del Nord, Cipro, Georgia. Affligge la Cecenia. In Asia le armi rumoreggiano da decenni in Medio Oriente, coinvolgendo Israele, Palestina, Libano, Siria. In Estremo Oriente, dopo la guerra interasiatica tra Cambogia e Vietnam, il rumore delle armi è echeggiato nel «ruggito delle Tigri Tamil» dello Sri Lanka e nelle grida di guerra a Timor Est. Si è fatto sentire anche nelle Filippine, nel Tibet, nel Pakistan, in India. È diventato assordante in Iraq e in Afghanistan15. L’attacco alle Torri Gemelle di New York, l’11 settembre 2001, è un trauma dirompente per gli Stati Uniti d’America e per tutto il mondo occidentale. Questo mondo improvvisamente si scopre vulnerabile, per di più da parte di un nemico che non riesce ad afferrare. Nell’ottobre dello stesso anno inizia la guerra al terrorismo islamico, la quale assume l’aspetto mediatico dello scontro tra civiltà. L’obiettivo annunciato è quello di catturare il capo dei terroristi, Osama Bin Laden, e di abbattere il regime dei Talebani che lo sostiene. Tale regime viene rovesciato nel dicembre 2001; la cattura di Bin Laden è invece a lungo mancata (la sua sorte si è conclusa con l’uccisione recente). Nuovo obiettivo diventa l’Iraq petrolifero di Sadam Hussein, il despota accusato di possedere un arsenale di armi batteriologiche e chimiche approntate per una prossima distruzione di massa.   Ivi, pp. 13-14.   Ivi, p. 15. 15   Vedi l’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, Associazione 46° Parallelo, Trento 2009. 13 14

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L’accusa risulterà infondata, anche se il tiranno iracheno è reo del crimine d’aver gassato una intera comunità di curdi ostili al suo regime. La guerra preventiva contro l’Iraq è dichiarata vinta, il 2 maggio 2003, dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush. Sadam Hussein viene giustiziato. La guerra in Iraq è però tutt’altro che finita. Essa continua con le caratteristiche della guerra asimmetrica, combattuta tra una superiorità militare e una resistenza subdola. Spesso l’iracheno diventa guerrigliero, terrorista, kamikaze, bomba umana. Inoltre la guerra si complica, trasformandosi da militare a civile, combattuta tra milizie curde e sciite, da un lato, e sunnite, dall’altro. La guerra contro il terrorismo si accende anche in Afghanistan, fra talebani che controllano vasti territori e antitalebani governativi appoggiati dalle truppe americane e dai contingenti dell’ONU, fra cui quello italiano, che ha pagato il proprio appoggio con il tributo di 37 militari caduti. Per costoro e per altri caduti «la morte in combattimento non è più il prezzo del sacrificio supremo, ma un rischio professionale incorso da soldati di mestiere che in fin dei conti sono in guerra non per morire, ma per lavorare. I nostri morti in Afghanistan sarebbero dunque dei morti sul lavoro»16. I mutamenti della mentalità si intrecciano con gli invarianti tentativi di legittimare la violenza quando sia lo Stato ad appropriarsene per fare di essa una guerra giusta. Alle soglie del secondo conflitto mondiale c’era chi, richiamandosi alla dottrina di san Tommaso, scriveva sulla rivista «Vita e Pensiero» (a. 1939, XXV, 8, p. 391) che «la guerra è giusta sotto tre condizioni: autorità del principe, equa causa, retta intenzione. Anche coloro che fanno giustamente la guerra mirano alla pace, e perciò non contrastano se non alla pace cattiva». Oggi il «dilemma nato secoli fa» è fatto risalire a sant’Agostino, che nella Città di Dio ammette che la Chiesa possa usare la forza «per ricondurre nel proprio seno i figli che ha perduto»17. Nel complesso, una sequenza decennale di guerre medioorientali – di religione, tra ricchi e poveri, di poveri tra loro – dai governi repubblicani degli Stati Uniti e dal presidente George Diego Marani, Come t’insegno la guerra, in «Saturno», 15 aprile 2011.   Armando Torno, Il sottile confine tra conflitti giusti e ingiusti, in «Corriere della Sera», 21 marzo 2011. 16 17

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W. Bush viene definita Enduring Freedom Operation, «operazione per la libertà durevole». Si tratta di una libertà – di una pace e democrazia durature – che per durare dev’essere conquistata, oltreché con le armi, con il depotenziamento di un altro «Stato canaglia» qual è l’Iran di Ahmadinejad, accusato di possedere un arsenale di missili balisti­ ci, di produrre uranio impoverito e di preparare la bomba nuclea­ re (o qual è la Libia di Gheddafi, il rais genocida del suo popolo). Nelle centrali nucleari l’uranio è utilizzato come combustibile, nelle armi nucleari funziona come detonatore. L’esposizione a es­ so produce effetti cancerogeni: ne hanno patito nel 1991 molti soldati americani impegnati nella «prima guerra del Golfo [Persi­ co]» e nel 1999 oltre 500 soldati italiani impegnati nella missione militare in Bosnia durante la «guerra dei Balcani». Nelle «guerre d’Iraq» ne vengono consumate oltre 600 tonnellate, duecento vol­ te maggiori della quantità rilasciata in una sola volta, nel 1986, dall’avaria del reattore nucleare di Cˇernobyl. Il bilancio di quel disastro fu allora di tre milioni di vittime delle radiazioni, di cui molte, a distanza di tempo, affette da tumore o immunodepresse. Senza contare la morìa dei civili afghani e iracheni, la mortali­ tà dei soldati americani, riferita ai soli feriti in combattimento, è realtivamente bassa, appena del 10%. «Una gran parte di questo miglioramento è da attribuire alle migliorate tecniche chirurgiche e rianimatorie. [...] In Iraq si è constatato il maggior progresso della chirurgia militare [...]; i team di chirurghi in prima linea si limitavano a porre i pazienti in condizione d’affrontare il trasferi­ mento fino alle unità più equipaggiate. [...] Si faceva di tutto per limitare a due ore il tempo precedente l’intervento chirurgico. I pazienti venivano poi trasportati altrove per il completamento interventistico sotto sedazione e ventilazione»18. Sono portati a compimento i precedenti acquisti della ­medicina militare: il medic «paramedico» che ha sostituito l’infermiere gene­ rico, la tracheotomia adottata in tutti i casi che possono trarre bene­ ficio da una efficace ventilazione, la chirurgia vascolare che nei trau­ mi gravi degli arti abbatte le amputazioni a un tasso pari a quello che si riscontra nell’analoga patologia traumatica in ambito civile.

  McCallum, Military Medicine, cit., pp. 164-165.

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Appare confermato il risvolto paradossalmente benefico di quel sommo male che è la guerra. Persino gli studi condotti sui sopravvissuti agli insulti nucleari sono di grande aiuto per il progresso della radioprotezione. Sbagliando s’impara. Pure «quando la guerra in Iraq si è trasformata in insurrezione armata e la natura delle ferite è cambiata [...] per penetrazione di oggetti estranei come otturatori, unghie, pezzi di vestiti e frammenti di ossa provenienti dal corpo del kamikaze, [...] un più efficiente soccorso medico ha fatto sì che un numero maggiore di soldati potesse sopravvivere, anche se molti dei sopravvissuti hanno subìto danni molto gravi come amputazioni multiple, volto sfigurato e cecità»19. La guerra si è ulteriormente evoluta con la militarizzazione degli spazi celesti, con la telematica finalizzata alla messa a fuoco degli obiettivi e al monitoraggio delle testate, con il deterrente dell’incombenza delle armi non convenzionali (chimiche, batteriche, nucleari) come spade di Damocle. Tra i suoi caratteri evolutivi e mutanti include anche la partecipazione attiva delle donne e dei bambini: le une sono entrate a far parte degli eserciti, non più nei ranghi delle crocerossine e del personale sanitario (secondo la tradizione delle donne addette all’assistenza e alle cure), ma come soldati a pieno titolo, dotati di «pari opportunità»; gli altri sono reclutati dal fondamentalismo religioso in veste criminale che li trasforma in piccoli kamikaze, apparentemente innocenti e innocui in quanto bambini, ma in realtà suicidi e omicidi in quanto baby-bomb. Il «corpo come arma», già usato come strumento di guerra dai piloti giapponesi nel corso del secondo conflitto mondiale, diventa l’arma del terrorismo suicida che consacra i «nuovi martiri di Allah», protagonisti della guerra santa contro i nemici dell’Islam. Anche la medicina e la sanità di guerra presentano aspetti mutanti ed evolutivi che si proiettano nell’avvenire. Si prevede che in un futuro non remoto la figura del medico militare impegnato nelle operazioni belliche sarà quella del digital physician, del «medico digitale». Il campo di battaglia sarà sottoposto a capillare e costante controllo informatico mediante rilevatori a distanza. Un personal status monitor (PSM), applicato al corpo di ciascun   Ivi, p. 165.

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soldato, permetterà di identificarne a ogni istante la posizione, le condizioni fisiopatologiche (battito cardiaco, pressione sanguigna, temperatura corporea, tracciato elettrocardiografico), l’eventuale criticità, l’esistenza in vita o la morte. Un trauma pod (TP) sarà una sorta di guscio contenitore che consentirà al soldato ferito di esservi protetto e monitorato in permanenza fino al momento dell’arrivo in ospedale. Una remote telepresence surgery (RTS) fornirà la possibilità di compiere interventi a distanza, eseguiti dall’operatore mediante una console chirurgica simile alla postazione di un computer. Infine una virtual reality simulation (VRS) offrirà ai chirurghi un addestramento non dissimile da quello utilizzato in aviazione mediante simulatori di volo. Per mezzo di queste e altre tecnologie avanzate si prevede che ogni soldato mandato a combattere avrà al suo fianco un tele-medico-chirurgo20. Oggi la tecnologia della guerra esibisce il massimo della propria potenzialità nella performance militare dell’impero americano. Una formula riassuntiva della bellicosità statunitense include lo sfruttamento della totale supremazia nel controllo dello spazio aereo, il supporto ausiliario delle forze navali e dei missili telecomandati, l’integrazione di tutte le possibili forme di intelligence e il ricorso massiccio alle tecnologie della telecomunicazione. In questo ambito di enormi risorse si prospetta una «nuova dimensione» tecnologica della guerra al cui interno è stata elaborata l’opzione zero morti»21. Tuttavia la morte, la violenza, la sofferenza restano il trinomio che meglio definisce la guerra. La performance medico-sanitaria dell’impero americano cerca di ripararne i danni e di ricavarne i vantaggi, trasferibili nel campo civile. Ma, dopo un decennio di insistita sperimentazione in Medio Oriente, questa strategia imperiale è finita, come già in Vietnam, in una trappola militare e politica dalla quale sarebbe bene uscire. Il sostanziale fallimento suggerisce di adottare, senza ulteriori remore, tutt’altra strategia. 20   Vedi Richard M. Satava, Virtual Reality and Telepresence for Military Medicine, in «Computers in Biology and Medicine», vol. 25, n. 2, 1995, pp. 229-236. 21   Vedi Daniel Ernst Jablonsky, US Military Doctrine and the Revolution in Military Affairs, in «Parameters», a. XXIV, 1994, pp. 18-36.

conclusione Nei quindici capitoli in cui è suddiviso questo libro si è cercato di trarre, dalle vicende storiche narrate, dei dati di fatto che rendano condivisibile la tesi per cui la guerra, pur essendo matrice riconosciuta del peggior male possibile, è tuttavia stata ed è tuttora, talora o sovente, il motore o volano di ricerche, sperimentazioni, applicazioni e pratiche medico-sanitarie che, trasferite dal campo militare a quello civile, hanno avuto ricadute vantaggiose anche in quest’ultimo campo, contribuendo spesso in modo determinante allo sviluppo e al progresso della medicina e della sanità. Omero ha fornito un bell’esempio di come la guerra abbia consentito, attraverso lesioni cruente e laceranti, una conoscenza del corpo umano altrimenti impossibile in epoca pre-anatomica. Il mondo romano ha offerto un paradigma di organizzazione «valetudinaria» trasferibile dall’assistenza ai legionari feriti, da reintegrare in servizio, all’assistenza agli schiavi infortunati, da reinserire nelle fatiche agricole ed edili. Il Medioevo e il Rinascimento hanno offerto anch’essi un modello di pratica sperimentale militare che dall’arrischiato «provando e riprovando» dei chirurghi di guerra è approdata a conquiste poi largamente utilizzate in tempi di pace. Le armi da fuoco hanno prodotto il salto di qualità e quantità della medicalizzazione degli eserciti e dell’ingresso negli ospedali di medici e chirurghi. La scoperta di Paré ha cambiato radicalmente il trattamento delle ferite, non solo di quelle belliche, ma delle ferite in genere, delle ulcerazioni e delle piaghe. La sua scoperta è stata, oggi diremmo, una prova d’evidenza della serendipità. Banalmente si può dire che questa parola esprime il concetto dell’«essere baciati dalla fortuna». Ma Louis Pasteur, trecento anni dopo Paré, ha detto che «la fortuna favorisce solo le menti preparate a coglierla». Serendipità è l’arte di saper trarre profitto da circostanze o condizioni fortuite, ma favorevoli all’arte medesima. Non si tratta solo di fortu-

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na, ma anche di merito. Cristoforo Colombo, se non si fosse messo a navigare verso Occidente per raggiungere le Indie Orientali, non avrebbe mai scoperto l’America. La sua fortuna è stata il merito di aver preso l’oceano «controcorrente». Prendere «controcorrente» la guerra è riconoscere che – come s’è detto in premessa – il rapporto esistente tra essa e la medicina è un rapporto bi-direzionale, del quale ci sono state offerte prove ulteriori: l’invenzione del «pronto soccorso» da parte della sanità militare napoleonica, la fondazione dell’attività professionale infermieristica durante la guerra di Crimea, l’idea di Croce Rossa Internazionale concepita all’indomani della battaglia di Solferino, l’estensione dell’antisepsi, nella prima guerra mondiale, tramite l’irrigazione delle ferite con la soluzione di Dakin-Carrel. Alexis Carrel, chirurgo insignito del premio Nobel nel 1912 per la sua nuova tecnica delle suture vascolari e per i suoi studi precorritori in campo trapiantologico, fu lo sperimentatore di un metodo contro le infezioni del quale furono fruitori ed esecutori, fra i tanti, due medici schierati su fronti bellici opposti: il giovane Gerhard Domagk, che nel 1939 ebbe il Nobel per la scoperta dei sulfamidici, e il giovane Alexander Fleming, che nel 1945 ebbe il Nobel per la scoperta degli antibiotici. Prima che i due Nobel predetti, rispettivamente l’ultimo prebellico e il primo post-bellico, facciano da cornice alla seconda guerra mondiale, è la prima guerra mondiale a segnare un prima e un dopo nei rapporti tra guerra e medicina. «La prima guerra mondiale è riconosciuta sotto diversi punti di vista come un’importante cesura storica». La «industrializzazione» e la «mobilitazione economica» sono le coordinate del diagramma entro cui si è inscritto il concetto di «guerra totale», estesa a gran parte del pianeta. Si tratta di «processi [che] stimolarono cambiamenti concreti: incentivo e sviluppo della conoscenza, delle tecnologie, dell’organizzazione», anche in campo medico-sanitario. «Le malattie fisiche e psichiche divennero un affare non più squisitamente di salute pubblica, ma un nemico da combattere per evitare il cedimento del fronte, sia di combattimento sia esterno»1. 1   Felicia Ratti, Premessa al volume collettaneo Una Regione Ospedale. Medicina e sanità in Emilia-Romagna durante la Prima Guerra Mondiale, a cura di Fabio Montella, Francesco Paolella e Felicia Ratti, Clueb, Bologna 2010, pp. 1-2.

Conclusione

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Si può formulare diversamente l’enunciato e rilevare che il problema dei problemi non fu più soltanto quello di combattere le fragilità provocate dalla guerra nei campi militare e civile, ma fu anche quello di tutelare la salute pubblica messa a repentaglio e di estendere tale tutela nei confronti di ogni altra minaccia fragilizzante, con indubbio beneficio igienico-sanitario. La seconda guerra mondiale, dal canto suo, ha recato il beneficio di attivare la «rivoluzione antibiotica», di cui ha fruito l’intera umanità, e le guerre successive, definite «necessarie» o «giuste» anche se non lo erano e non lo sono, hanno per lo meno contribuito a sviluppare ulteriori conoscenze, organizzazioni e tecnologie, dalla riabilitazione alle teletrasmissioni, dai pronti interventi alle terapie di emergenza. L’attuale presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, nel ricevere il premio Nobel per la pace, ha espresso l’opportunità e l’ineluttabilità da parte dell’uomo e delle nazioni di sostenere talvolta conflitti «giusti» e perciò «necessari». Ha detto testualmente: «Ci saranno momenti in cui le nazioni, individualmente o collettivamente, troveranno l’uso della forza non solo necessario, ma moralmente giustificato. Non bisogna farsi illusioni, un movimento non violento non avrebbe fermato Hitler, al-Qaeda non può essere convinta dai negoziati a deporre le armi. Dire che la forza è a volte necessaria non è cinismo, ma è il riconoscimento della storia, delle imperfezioni dell’uomo e dei limiti della ragione». Le parole del presidente Obama sono apprezzabili, tanto più se confrontate con le motivazioni spesso addotte dal suo predecessore. Esse però rischiano di apparire o di essere interpretate come una sorta di giustificazione in vista di decisioni presenti o future. Sorge un quesito: la guerra, su cui la cultura occidentale ha nel corso dei secoli – da Omero a Salvatore Quasimodo – costruito e celebrato miti positivi e negativi, è un «male necessario» rispetto al quale un pacifismo a priori può essere più rovinoso? La risposta al quesito esula dagli argomenti qui trattati e dalle argomentazioni proposte. Nell’ottica propria di questo libro si può dire però che un intervento armato può ritenersi lecito solo quando si possa ragionevolmente e moralmente pensare, in buona fede, che l’azione di guerra possa rendere minori le morti, le violenze, le sofferenze che sarebbero certamente maggiori nel caso di non intervento. Il che, dato e concesso che sia possibile, equivale ad ammettere che la guerra abbia talora una valenza paradossale – utile, giovevole, vantaggiosa – di tipo per l’appunto «medico-sanitario».

Indici

Indice dei nomi* Abramo, maestro, vedi Portaleone, Abraham. Achille, 4-5, 11-14, 19, 41. Ackerknecht, Erwin H., 123n. Acrel, Olof, 115 e n. Adamoli, Giulio, 146n. Adelchi, re dei Longobardi, 45-46. Adriano I, papa, 51. Agamennone, 4-5, 13, 19. Agilulfo, re dei Longobardi, 42, 44. Agostino, santo, 193. Agrifoglio, Lino, 157n. Agrimi, Jole, 43n, 78n, 79n. Aiace Telamonio, 10, 12-14. Alarico, re dei Visigoti, 39, 43. Alboino, re dei Longobardi, 42-43. Aldrovandi, Ulisse, 97n. Alessandro Magno, 18, 42. Alessio I Comneno, imperatore, 5657. Alfonso XI, re di Castiglia e Léon, 73. Almone, 21. Aloisi, Massimo, 177n. Ammiano Marcellino, 39, 40n. Andronico, imperatore, 63. Angiò, dinastia, 74. Anna Comnena, 57. Annibale, 23, 179. Apollo, 4, 10. Appia, Louis, 148. Archéloco, 14. Ares, 16. Ariosto, Ludovico, 71. Aristotele, 9, 49.

Arminio, 34. Asburgo, dinastia, 73, 91. Asclepio, 6, 29. Assalini, Paolo, 136, 137 e n, 140. Athir, 24. Attila, re degli Unni, 39. Attilio Regolo, 23. Augusto II, re di Polonia, 117. Autari, re dei Longobardi, 42. Bacone, Francesco, 70. Badoglio, Pietro, 172. Baldovino di Fiandra, 59. Balestra, Angelo, 144. Barba, Pedro, 103. Barberis, Walter, 120n, 121n. Barbero, Alessandro, 46n, 48n, 50n. Barenblatt, Daniel, 186n. Barnes, Joseph K., 154n. Baroffio, Felice, 154n. Basilio I, imperatore, 56. Beauharnais, Eugenio de, 136. Bedeschi, Giulio, 182n. Belisario, 39-40. Belloni, Luigi, 114n. Benedetti, Alessandro, 75. Benedetto XV (Giacomo della Chiesa), papa, 167. Bercé, Yves-Marie, 130n. Bérenger-Badel, Agnès, 42n. Bernardo di Chiaravalle, santo, 62. Bertani, Agostino, 149, 156 e n, 157159. Bilguer, Ulrich von, 112.

* I numeri in corsivo si riferiscono alle pagine con didascalia.

­204 Bin Laden, Osama, 192. Bismarck, Otto von, 154, 157. Bissante, Andrea, 180n. Bloch, Marc, 69n. Boccaccio, Giovanni, 75 e n. Boemondo di Taranto, 59. Bonaparte, Giuseppe, 134, 141. Bonvesin de la Riva, 77, 78n. Borbone, dinastia, 104. Borgognoni, Teodorico de’, 79. Botallo, Leonardo, 89n, 90n. Brambilla, Giovanni Alessandro, 114. Branca, famiglia, 90. Brandi, Karl, 82n. Brantôme, Pierre, 91. Buffa, Pietro, 177n. Bush, George W., 193-194. Cagliano, Stefano, 178n. Cairoli, Benedetto, 156. Cairoli, Carlo, 156. Calzecchi Onesti, Rosa, 4n. Camilla, 20. Camis, Mario, 175. Canetta, Pietro, 131n. Canfora, Luciano, 19 e n, 178n. Capetingi, dinastia, 57. Cappellari, Lorenzo, 166n. Caracalla, imperatore, 30, 41-42. Cardano, Gerolamo, 70. Cardini, Franco, 93n, 95n, 96n, 98n. Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, 142, 143n. Carlo Emanuele III, re di Sardegna, 112n, 120. Carlo il Temerario, duca di Borgogna, 74. Carlo Magno, imperatore, 45-46, 4851, 56, 58. Carlo I d’Angiò, re di Napoli e Sicilia, 79. Carlo V d’Asburgo, imperatore, 43, 81, 83, 89, 92, 94-95, 97, 99. Carlo VIII di Valois, re di Francia, 74. Carlo IX di Valois, re di Francia, 91. Carrel, Alexis, 168, 198. Casarini, Arturo, 21n, 25n, 29n, 52, 53, 53n, 55, 66n, 77n, 78n, 79n, 87n, 89n, 94n, 99n, 106n, 112n,

Indice dei nomi 114n, 118n, 123n, 125, 126, 142n, 143n, 155n, 158n. Castellani, Aldo, 173 e n, 174 e n. Caterina de’ Medici, 95. Caterina II, zarina di Russia, 112, 120. Catone l’Uticense, 25. Cattaneo, Carlo, 156. Causati Vanni, Maria Anna, 102n. Cavour, Camillo Benso, conte di, 143. Cˇazov, Evgenij, vii. Celio Arriano, 34. Celli, Angelo, 159. Celso, Aulo Cornelio, 26 e n, 27, 90. Cesare, Gaio Giulio, 23, 25. Chase, Kenneth, 71n, 74n, 80n, 102n, 108n, 110n. Chauliac, Guy de, 43, 79 e n. Chesais, Jean-Claude, 160n, 161n. Childeberto II, re merovingio, 43. Chirone, 6. Churchill, Winston, 159. Cicatelli, Sanzio, 99n. Cicerone, Marco Tullio, 24. Cipolla, Carlo Maria, 76 e n. Ciudad, Juan, vedi Giovanni di Dio. Clausewitz, Carl Philipp Gottlieb von, 121, 122 e n, 154. Cleante, 25. Clément, Jacques, 95. Clemente VII (Giulio de’ Medici), papa, 83. Coligny, Gaspard de, 94-95. Collier, Richard, 163n. Colombo, Cristoforo, 75n, 102, 198. Columella, Lucio Giunio Moderato, 30 e n. Conca, Fabrizio, 57n. Contamine, Philippe, 73n. Córdoba, Gonzalo Fernández de, 74. Corradi, Alfonso, 40n, 42n, 60n, 66. Corradino di Svevia, imperatore, 71. Corrado III, imperatore, 62. Cortés, Hernán, 102. Cortese, Francesco, 155. Cosma, santo, 37. Cosmacini, Giorgio, 44n, 75n, 76n, 101n, 106n, 131n, 140n, 143n, 144n, 156n, 170n, 187n. Coulon, Hyacinthe, 68n, 77n.

Indice dei nomi Coury, Charles, 102n, 103n. Crisciani, Chiara, 43n, 78n, 79n. Crispi, Francesco, 156, 157 e n. Croce, Benedetto, 143 e n. Cumberland, William August, duca di, 117. Cusani, Francesco, 100n. Cushing, Harvey, 169. D’Agostino, Francesco, viin. Dakin, Henry Drysdale, 168, 198. Damiano, santo, 37. Daremberg, Charles, 3 e n. Del Boca, Angelo, 175n. de Lellis, Camillo, 98-99. Della Peruta, Franco, 131n, 134n, 135n, 137n, 173n, 177n. Del Lungo, Angiolo, 26n. De Luna, Giovanni, 159n, 162n, 175n, 176n, 184n, 185n. Depretis, Agostino, 156. De Renzi, Salvatore, 44n, 79n. Desault, Pierre, 113, 114n. Desgenettes, Nicolas-René, 126n, 137. Desiderio, re dei Longobardi, 45-46. Diamond, Jared, 101n. di Feo, Gianluca, 163n, 175n, 180n. Diocle, 26, 28. Diocleziano, imperatore, 30, 36-39, 46. Diomede, 7, 16-17. Dione Cassio, 42n. Dixon, Bernard, 178n. Domagk, Gerhard, 169, 198. Dormandy, Thomas, 37n. Dufour, Guillaume-Henri 148. Duhamel, Pierre, 54n. Dumaître, Paule, 87n. Dunant, Henry, 146 e n, 147-148, 150. Ecamede, 7. Eck, Bernard, 41n. Eginardo, 48. Ekkehard di Aura, 60n. Elena, 7. Eleno, 17. Eleonora d’Aquitania, 62n. Eliano, 29n.

205 Elisabetta I Tudor, regina d’Inghilterra, 92. El Kenz, David, 41n, 92n, 99n. Emanuele Filiberto, duca di Savoia, 95, 120. Enea, 8, 21. Enea Tattico, 29n. Ennio, 20. Enrico di Guisa, 91. Enrico II di Valois, re di Francia, 89, 91. Enrico III di Valois, re di Francia, 95. Enrico IV, imperatore, 57. Enrico IV di Navarra, re di Francia, 95. Enrico V, re d’Inghilterra, 93. Enrico VII di Lussemburgo, imperatore, 80. Enrico VIII Tudor, re d’Inghilterra, 92. Epìgeo, 9, 12. Erasmo da Rotterdam, 98. Erìlao, 12. Ermengarda, principessa longobarda, 45. Erodiano, 42n. Ettore, 9-11, 13-15. Eugenio di Savoia, 120. Eurialo, 20. Eurìpilo, 17. Fantonetti, Giovanni Battista, 97n, 126n, 127n. Fasiani, Gian Maria, 182. Favilli, Giovanni, vi, viin. Febo Apollo, vedi Apollo. Federico I Barbarossa, imperatore, 57, 63, 78. Federico II, detto il Grande, re di Prussia, 112 e n, 118, 120. Federico II di Svevia, imperatore, 7980. Ferdinando d’Asburgo, cardinale, 103. Ferdinando I d’Asburgo, imperatore, 92. Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicile, 141. Ferdinando II il Cattolico, re d’Aragona, 81.

­206 Féreclo, 16. Filangieri, Carlo, 150n. Filippo I Augusto, re di Francia, 63. Filippo II d’Asburgo, re di Spagna, 92, 103. Filippo IV, re di Spagna, 103. Firpo, Luigi, 90n, 146n. Fleming, Alexander, 168-169, 177 e n, 198. Fornasaro, Franco, 44n. Forti Messina, Annalucia, 134. Foscolo, Ugo, 130. Fourcroy, Antoine-François, 123 e n. Fracastoro, Girolamo, 75n. Francesco Giuseppe, imperatore, 152. Francesco I di Valois, re di Francia, 82, 87, 91. Francesco II di Valois, re di Francia, 91. Frank, Johann Peter, 119, 140-141. Froissart, Jean, 72n. Frundsberg, Georg von, 83. Fugger, famiglia, 104. Funk, Kazmierz, 68n. Galeno, Claudio, 27-28. Gallagher, Gary W., 159n. Garibaldi, Giuseppe, 156. Garibaldo, duca dei Bavari, 42. Garlan, Yvon, 20 e n, 32n. Garofalo, Ivan, 27n. Gautet, Claire, 99n. Genserico, re dei Vandali, 39. Gentile, Emilio, 159n. Gerardo, monaco, 67. Gersdorf, Hans, 85, 86. Gheddafi, Mu’ammar, 194. Ghezzi, Claudia, 137. Giampiccioli, Franco, 148n. Gibelli, Antonio, 166n. Giglio, Vittorio, 120n, 142n, 157n. Gilbert, medico, 137. Giorgio III, re d’Inghilterra, 116. Giovanna d’Arco, 72. Giovanni da Casamicciola, 79, 90. Giovanni da Procida, 79 e n. Giovanni da Vigo, 88. Giovanni de’ Medici, detto dalle Bande Nere, 83-84. Giovanni di Dio, 98.

Indice dei nomi Giulio de’ Medici, vedi Clemente VII. Giuseppe II, imperatore, 114, 120. Giustiniano, imperatore, 39-41. Glicone, 25. Gnocchi, Carlo, 187 e n. Goffredo di Buglione, 59, 61. Gonzaga, famiglia, 84, 100. Gordo, 34. Goubert, Pierre, 108n. Gregorio di Tours, 42n. Gregorio I Magno, papa, 42. Gregorio VII (Ildebrando da Soana), papa, 57. Grimoaldo, duca di Benevento, 49. Gualtiero Sans-Avoir (o Senz’avere), 59-60. Guglielmo da Saliceto, 79. Guglielmo da Tiro, 60. Guglielmo I di Hohenzollern, imperatore, 154-155. Guicciardini, Francesco, 83 e n. Guido da Vigevano, 80. Guillotin, Joseph-Ignace, 123. Gustavo Adolfo, re di Svezia, 99. Haeger, Knut, 115n. Hailé Selassié I, imperatore, 172. Hannover, dinastia, 116. Harun-al-Rashid, 58. Hemingway, Ernest, 167 e n. Henle, Jakob, 151n. Herbert, Sidney, conte di, 144. Hildebrand, Franz Xavier, 130. Hitler, Adolf, 185, 199. Hobsbawm, Eric, 161 e n. Hohenstaufen, dinastia, 57. Huard, Pierre, 114n. Hussein, Saddam, 192-193. Iapige, 21. Igino, Caio Giulio, 32 e n. Imbault-Huart, Marie-José, 114n. Imno, Tiberio Claudio, 34. Ipénore, 17. Isabella I, la Cattolica, regina di Castiglia, 94. Jablonsky, Daniel Ernst, 196n. John of Gaddesden, 69.

Indice dei nomi Joubert, Laurent, 89n. Koch, Robert, 157 e n. La Cava, Francesco, 137. La Marmora, Alessandro, 143-144. La Marmora, Alfonso, 143. Lancelot du Lac, 54. Larrey, Dominique-Jean, 125, 125, 134, 135 e n, 136-137. Las Casas, Bartolomé de, 101. Lauso, 20. Laveran, Charles-Louis-Alphonse, 161. Le Bohec, Yann, 34n, 36n, 37 e n. Le Goff, Jacques, 81 e n, 130n. Léonard, Jacques, 137 e n. Leone III, papa, 51. Leone IV, papa, 59n. Leoni, Alberto, 59n. Leopardi, Giacomo, 137. Leopoldo, re del Belgio, 159. Le Tellier, Michel, 104-105. Letterman, Jonathan, 153. Lifton, Robert Jay, 186n. Lind, James, 67n, 116. Linneo (Karl von Linné), 103. Lister, Joseph, 151 e n. Liutprando, re dei Longobardi, 4244. Livi Bacci, Massimo, 101n. Lostelnau, Colbert de, 109. Louvois, François-Michel, marchese di, 104-105. Low, Bernard, vii. Lucano, Marco Anneo, 20, 23. Ludovico III, re di Francia, 62. Luigi VII, re di Francia, 62 e n. Luigi IX, re di Francia, 64, 68-69. Luigi XIII, re di Francia, 95. Luigi XIV, re di Francia, 105, 108, 155. Luigi XV, re di Francia, 112, 117. Luigi XVI, re di Francia, 123. Lussemburgo, dinastia, 73. Lustig, Alessandro, 174. Macàone, 5-7, 12, 23. Maccani, Umberto A., 183n. Machiavelli, Niccolò, 84.

207 Mac-Mahon, Patrice de, 155. Madame Curie, vedi Sklodowska Curie, Maria. Mallet, Michel, 83n, 84n. Manfredi di Svevia, imperatore, 71, 79. Manuele I Comneno, imperatore, 62. Marani, Diego, 193n. Marcia, 24. Marco Aurelio, 25, 27. Maréchal, Georges, 113. Maria Teresa d’Austria, imperatrice, 112, 114. Martini, Marino, 182n. Martinière, Pichaut de la, 117. Marus, 23-24. Massimiano, imperatore, 36. Massimiliano I d’Asburgo, imperatore, 74, 81, 94. Maunoir, Theodore, 148. Maurizio, conte di Sassonia, 117. Mazarino, Giulio Raimondo, 104105. Mazzini, Giuseppe, 156. McCallum, Jack E., 167n, 169n, 188n, 194n. Menelao, 5, 12, 17. Menelik, imperatore, 158. Mengele, Josef, 186. Michele I, imperatore, 51. Mignon, André, 168 e n, 169n. Milziade, 18. Minderer, Raimond, 106. Mitridate Eupatore, re del Ponto, 65n. Moltke, Helmuth von, 154. Mondeville, Henri de, 78 e n. Montecuccoli, Raimondo, 106. Montella, Fabio, 198n. Montezuma II, imperatore, 102. Morstede, Thomas, 94. Mortara, Giorgio, 162n, 163n. Morton, William Thomas, 151 e n. Moynier, Gustave, 148. al-Mukhtar, Omar, 175. Murat, Gioacchino, 141. Musa, Antonio, 29-30. Muzio Scevola, 37.

­208 Napoleone Bonaparte, imperatore, 121, 124-125, 125, 126, 126, 128-130, 134-137, 139, 141, 145, 147, 154. Napoleone III, imperatore, 147, 154155. Narsete, 39. Nevio, 20. Nightingale, Florence, 144 e n, 145, 152. Niso, 20. Nizzoli Volonté, Maria Teresa, 30n. Nobel, Alfred, 150. Obama, Barack, 199. Odoacre, re dei Barbari, 39, 43. Omero, 3-5, 7-8, 14, 20-21, 41, 197, 199. Omodei, Annibale, 140, 141 e n. Onasandro, 29 e n. Orlando, conte, 52. Ostrogorsky, Georg, 57n. Otis, George A., 154n. Ottaviano Augusto, imperatore, 2930, 35. Palasciano, Ferdinando, 150n. Palazzi, Silvio, 176 e n. Pallade Atena, 6, 16. Pallante, 20. Pansa, Vibio, 25. Paolella, Francesco, 198n. Paolo d’Egina, 44 e n. Paolo Diacono, 42n, 44-45. Paolucci, Giorgio, 191n. Paracelso (Philipp Theophrast von Hohenheim), 68n, 122. Paré, Ambroise, 87-88, 89 e n, 91, 9596, 104, 112, 197. Pasini, Walter, 102n. Passy, Frédéric, 150. Pasteur, Louis, 151 e n, 197. Patroclo, 8-10, 12, 15. Pavese, Cesare, 4 e n. Pazzini, Adalberto, 67n. Pellegrini, Francesco, 72n. Pellico, Silvio, 144n. Penso, Giuseppe, 34n. Pepe, Florestano, 141. Pepe, Guglielmo, 141.

Indice dei nomi Percy, Pierre-François, 125, 126, 129, 134-135, 137. Perozziello, Federico E., 57n. Perrucchetti, Giuseppe, 158n. Perussia, Felice, 170. Petit, Jean-Louis, 113, 119. Petrarca, Francesco, 71-72. Pettenkofer, Max, 157 e n. Peyronie, Gigot de la, 113. Piekalkiewicz, Janusz, 180n. Pietro, apostolo, 60. Pietro l’Eremita, 59-60. Pinto, Giuseppe, 24n, 34n. Piro, re dei Traci, 15. Piro, Anna, 102n. Pivano, Fernanda, 167n. Pizarro, Francisco, 102. Platone, 9. Plutarco, 26. Podalirio, 6. Polenghi, Simonetta, 131n. Polidamne, 7. Pompeo, 23. Pontiggia, Giuseppe, 78n. Portaleone, Abraham (maestro Abramo), 84. Porzio, Lucantonio, 106. Preto, Paolo, 179n. Priamo, 17. Pringle, John, 116. Procopio di Cesarea, 39-40. Quasimodo, Salvatore, 183, 199. Raimondo di Podio, 67. Raimondo di Poitiers, 62n. Raimondo di Tolosa, 59, 61. Ramazzini, Bernardino, 106 e n, 107. Rasori, Giovanni, 127n, 140 e n. Ratti, Felicia, 198n. Ravaillac, François, 95. Ravegnati, Giorgio, 57n. Re Sole, vedi Luigi XIV. Riberi, Alessandro, 143n. Riccardo, 53. Riccardo I Cuor di Leone, re d’Inghilterra, 63. Richelieu, Armand-Jean du Plessis, 104.

Indice dei nomi Ricotti, Cesare, 157, 158 e n. Rigoni Stern, Mario, 182n. Ripamonti, Giuseppe, 100n. Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, 46. Robespierre, Maximilien, 124. Rodolico, Niccolò, 142n. Rogers, Clifford J., 72n. Rolando da Parma, 79, 88. Romolo Augustolo, imperatore, 39. Röntgen, Wilhelm Conrad, 170. Ross, Ronald, 161. Rotari, re dei Longobardi, 42, 45. Ruggero da Parma, 79. Ruggero Frugardi, 78. Ruggero II, re di Sicilia, 62. Runciman, Steven, 60n. Saint-Just, Louis-Antoine, 124. Saladino (Salah-ad-Din), 57, 63. Salerno, Eric, 175n. Sannazzaro, Piero, 99n. Sarpedonte, 15. Satava, Richard M., 196n. Sauerbruch, Ernst Ferdinand, 169 e n. Savoia, dinastia, 120. Semmelweis, Ignác Fülöp, 151 e n. Serrano, 23. Settia, Aldo A., 41n, 48n, 52n, 79n. Sforza, Claudio, 154n. Sigiberto di Gembloux, 60n. Silio Italico, 20, 23, 24 e n. Silverstein, Alvin, 178n. Simpson, James Young, 151n. Sinalo, 24. Sironi, Vittorio A., 178n. Sklodowska Curie, Maria, 170. Smith, Rupert, 122n, 154n, 161n, 163n, 179n, 188n. Solženicyn, Aleksandr, 185 e n. Sournia, Jean-Charles, 130n. Sporo, Ulpio, 34. Strada, Gino, vin. Sully, Maximilien de Bethune, duca di, 104. Svetonio, 25, 34. Szent-Györgyi, Albert, 68n. Tacito, Publio Cornelio, 19, 25.

209 Tagarelli, Antonio, 102n. Tagliacozzi, Gaspare, 90. Tasso, Torquato, 66. Teocnisto, 40. Teodolinda, regina dei Longobardi, 42. Tertullo, Marco Besio, 34. Teti, 4. Téttone Armonide, 16. Teucro, 13. Teuliè, Pietro, 130. Tiberio, imperatore, 26. Tito Livio, 19, 25. Tiziano Vecellio, 92. Tognotti, Eugenia, 144n. Tolstoj, Lev, 19. Tommaso, santo, 193. Torno, Armando, 193n. Totila, 39. Trevisani, Enrico, 165n. Tucidide, 19. Turno, 20. Urbano II (Ottone di Lagery), papa, 59. Valente, imperatore, 38. Valera, Paolo, 175. Valois, dinastia, 91. Vanghetti, Giuliano, 159, 169. Van Swieten, Gerard, 117. Varo, Publio Quintilio, 34. Vauban, Sébastien, 105. Vegetti, Mario, 27n. Vegezio, Flavio (o Publio) Renato, 32 e n. Venere, 21. Vesalio, Andrea, 97. Vespasiano, imperatore, 29. Vespucci, Amerigo, 81. Vianeo, famiglia, 90. Virchow, Rudolf, vi e n, 157 e n. Virgilio Marone, Publio, 20-22, 2425. Visconti, Gian Galeazzo, 73. Vitichingo, principe sassone, 50. Vitige, 39. Vittoria, regina d’Inghilterra, 144. Vittorio Amedeo II, re di Sicilia e di Sardegna, 120.

­210 Vittorio Emanuele I, re di Sardegna, 139. Vittorio Emanuele II, re d’Italia, 143. Vittorio Emanuele III, re d’Italia, 179. Wallenstein, Albrecht von, 99. Weber, Max, 46 e n. Wellington, Arthur Wellesley, duca di, 145, 152. Wells, Horace, 151 e n.

Indice dei nomi White Mario, Jessie, 156n. Woodham Smith, Cecil, 144n. Yarè, Giuseppe, 84n. Yperman, Jan, 78. Zanca, Massimo, 127n. Zanganelli, Gioia, 64n. Zeus, 6-7, 16. Zocchi, Paola, 141.

Indice del volume Premessa

v

I.

Greci e Troiani

3

II.

L’Impero romano

19

III.

Da Diocleziano a Carlo Magno

36

IV.

L’impero carolingio

47

V.

Le guerre crociate

58

VI.

La rivoluzione militare

70

VII. Il Sacro Romano Impero

81

VIII. Mali di guerra e genocidi

96

IX.

Guerra, scuola di chirurghi

108

X.

L’impero napoleonico

119

XI.

Crimea e Solferino

139

XII. Altre guerre

151

XIII. L’età degli imperi

160

XIV. La guerra totale

172

XV. L’impero americano

185

Conclusione 197 Indice dei nomi 203