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Italian Pages 211 [224] Year 2007
Storia e Società
© 2007, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2007
Giorgio Cosmacini
La religiosità della medicina Dall’antichità a oggi
Editori Laterza
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2007 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8447-1
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PREMESSA Numerosi e svariati – dal linguaggio articolato al «desiderio di assumere farmaci» (come ebbe a scrivere con autoironia un grande medico, William Osler) – sono i caratteri differenziali che la scienza ha individuato, di volta in volta, per distinguere l’uomo dagli altri animali. Recentemente un grande biologo, Christian de Duve, premio Nobel per la medicina nel 1974, nel libro Come evolve la vita1 dedicato ai propri colleghi dell’Università Cattolica di Lovanio, ha scritto: «L’antropologia ci insegna che il fenomeno delle religioni è antico e universale. [...] Il sentimento religioso è profondamente radicato nella nostra stessa natura, forse inciso in essa dalla selezione naturale. [...] Credo che il sentimento religioso risponda a un bisogno reale e possa addirittura corrispondere a una realtà vera e propria». La religiosità antropologica sarebbe dunque un carattere primario e originario, un vero e proprio distintivo connaturato all’uomo di ogni tempo e di ogni luogo: lo proverebbe la valorizzazione dell’homo religiosus oggi messa in atto da più parti. È una valorizzazione condivisibile se intesa come rivalutazione piena di un alto e sublime sentire e non come riaffermazione egemonica delle religioni rivelate o di questa o quest’altra fra esse. Religio: «due sono le etimologie latine del termine», ci dice Régis Debray, filosofo e presidente onorario del parigino
Christian de Duve, Come evolve la vita. Dalle molecole alla mente simbolica, trad. it. di Cristina Serra, Raffaello Cortina, Milano 2003. 1
Premessa
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Istituto europeo in scienze delle religioni2. L’una è «religàre, quindi ‘ciò che unisce insieme’»; l’altra è «relègere, quindi ‘ciò che raccoglie’». Unione o raccolta, «nelle nostre lingue sacre non ritroviamo la parola». Aggiunge, al riguardo, Debray: «Il termine non compare nei Vangeli, non esiste in greco (la lingua del Nuovo Testamento) [...]. Per una buona metà dell’umanità attuale la religione – intesa come credenza in Dio, professione di fede, dogma, sacre scritture – rappresenta una realtà completamente estranea». Il filosofo conclude la propria riflessione etimologica affermando che tale riflessione «dovrebbe permetterci di non cedere più alla tentazione di confondere la religione con il clericalismo, con una confessione religiosa oppure con una credenza in Dio»; e conclude il proprio saggio, che ha per titolo La religione: evanescenza o perennità?, asserendo che «abbiamo il dovere di ampliare la nostra visione e di cercare di individuare quello che esiste di comune a tutte le visioni del mondo. Ebbene, questo denominatore comune è l’esistenza di un punto sublime, di un riferimento ideale che sussiste sia nel passato [...] sia nel futuro». Ebbene sia consentito affermare che questo «punto sublime», che «unisce insieme» ed «esiste in comune», è sì la religio, intesa però non come «religione» ma come «religiosità». La religiosità è altra cosa dalla religione. Laddove essa esiste non c’è posto per guerre di religione. Se ne ha la controprova nel fatto che i riemergenti dogmatismi e integralismi favoriscono la ricomparsa, nel «civilizzato» mondo d’oggi, di anacronistici «scontri di civiltà» che non hanno nulla di religioso. Religio come «religione» o come «religiosità»? Un unico guscio lessicale ha due diversi contenuti. Come «arte del legare insieme» – tale il significato che diamo alla parola –, la religione è fatta per legare fra loro la vita terrena e la vita ul2
In «KOS», gennaio-febbraio 2007, pp. 12-19.
Premessa
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traterrena garantendo all’uomo, in cambio dell’impossibile immortalità materiale, l’immortalità spirituale o la sopravvivenza metafisica; la religiosità, invece, è data per legare fra loro gli uomini in quanto carattere antropologico trasmissibile nel susseguirsi e perpetuarsi delle generazioni. In tale seconda e diversa accezione, accolta in questo libro, religio è un legame tra libertà personale e tolleranza interpersonale, generato da un’elevata dignità dell’uomo e da un’estesa fraternità tra gli uomini. Ciò premesso, nelle pagine che seguono si avanza la tesi che nello statuto della ippocratica tèchne iatrikè o «arte della cura» la religiosità è carattere genetico, però non dominante, ma recessivo. Come nel genotipo esistono caratteri recessivi che non appaiono nel fenotipo perché obliterati dai caratteri dominanti allelomorfi a essi associati, così nel patrimonio peculiare della medicina esiste il valore della religiosità che si fa manifesto solo quando non sia obliterato da un disvalore che lo renda inapparente o, all’apparenza o di fatto, inesistente. Religio medici è il titolo di un opuscolo medico seicentesco di cui si dirà. Qui si prospetta la tesi subordinata che il «saper essere medico» è un requisito professionale fondamentale, acquisito attraverso una educazione (o un’autoeducazione vicariante) che sappia estrarlo con maieutica socratica dal prerequisito della religiosità connaturata al mestiere. Come un carattere recessivo compare nel fenotipo soltanto se è doppio, cioè privo dell’allelomorfo dominante, così colui che professa l’arte della cura, per apparire e per essere un vero curante, dev’essere religioso due volte: come uomo e come medico. La cosa può sembrare paradossale quando si pensi che il mestiere di medico, nel corso della sua evoluzione storica, pur serbando il proprio insostituibile rapporto interumano tra «soggetti» – il soggetto curante e il soggetto curato – è tuttavia proceduto per tappe successive attraverso una progressiva desacralizzazione dei propri «oggetti»: la malattia e la salute, il corpo umano, il sangue, il dolore... Ma la religiosità at-
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Premessa
tinente all’umano non è la sacralità posta sotto il sigillo del divino. In medicina essa non concerne il sacro, né compete con la desacralizzazione. Essa appartiene da sempre a ogni iatròs agathòs, a ogni «buon medico» – cattolico, ebraico, islamico, agnostico, ateo – e può ben dirsi laica (derivando il termine da laòs, «popolo»), che è un attributo pertinente a tutti gli uomini di buona volontà e «di nessuna chiesa», per usare il titolo dato dal filosofo Giulio Giorello a un suo libro3, considerato il manifesto della «nuova laicità». In tal senso si può concordare con Roberto Benigni, il quale sostiene che Dante «ha scritto un poema cristiano, ma anche laico, poiché aveva un senso civile della religiosità»4. La perenne religiosità laica del medico, che non fa distinzioni di ceto e di censo, né tantomeno di confessione e di fede, non è stata mai scalfita dalla desacralizzazione o secolarizzazione storica. La stessa religiosità confessionale è stata da essa solo temporaneamente appannata, talché il medico Umberto Veronesi, dialogando con Giorello nel libro sulla «libertà della vita»5, ha rilevato come «la dimensione religiosa, che solo qualche decennio fa appariva assai ridotta nella nostra società a causa del processo usualmente definito di secolarizzazione, sia tornata prepotentemente sulla scena». La religiosità laica è una «religiosità fuori del tempio». È, quindi, letteralmente una religiosità profana, assimilabile a quella che Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose (interprete della tendenza «conciliare» diffusa nella Chiesa cattolica e di una «controchiesa» critica di «chi uccide l’anima con il denaro e il potere»), definisce «laicità di rispetto», nella quale tutti possono essere considerati 3 Giulio Giorello, Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Raffaello Cortina, Milano 2005. 4 «Il Sole-24 Ore», 30 giugno 2006. 5 Giulio Giorello, Umberto Veronesi, La libertà della vita, Raffaello Cortina, Milano 2006.
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allo stesso modo, sostitutiva della contrapposta «laicità di rifiuto» degenerante in laicismo. La religiosità propria del mestiere di medico prescinde dalla religione da questi eventualmente professata. Medici che appongano alla propria identità l’etichetta di «cattolici», o «ebraici», o «islamici» non facilitano un affratellarsi che è invece facilitato dalla religiosità del mestiere che li accomuna e non dalla religione professata che li divide. Un medico che dovesse cercare ormeggio in una religione, lo troverebbe o sceglierebbe nella «religione di quel che si deve», avente sede elettiva nella voce udita da Immanuel Kant e da lui chiamata «coscienza morale», radice e motrice di «ciò che si deve fare». Di tale «religione del dovere» ci parlano molte storie esemplari di una religiosità tutta umana, che ammette altri apporti, aggiuntivi ma non sostitutivi, e che non teme confronti. Oggi, ancor più che in passato, il «curare» la malattia come «affezione» o guasto dell’organismo (la lingua inglese usa al riguardo il verbo to cure e il sostantivo disease) non può prescindere in alcun modo, anche se spesso lo fa, dal «prendersi cura» del malato in quanto portatore di una «afflizione» o sofferenza personale (la lingua inglese usa al riguardo il verbo to care e il sostantivo illness). La medicina odierna esige più che mai la compresenza di una religiosità interumana coessenziale e imprescindibile. Senza di essa, la medicina si dimezza: dimezzata, perde la propria identità istituzionale di tèchne al servizio dell’uomo. La religiosità è cosa diversa dalla sacralità: mentre questa attiene alla sfera (teologica) del divino, la prima appartiene alla sfera (antropologica) dell’umano, pur senza preclusione di ogni possibile altra sfera. Non è da escludere infatti che la sacralità depositata nella fede di un medico cattolico, o islamico, o ebraico, possa giustapporsi – non superflua, forse accessoria, certo non vicariante – alla religiosità peculiare del mestiere di medico. A tale religiosità si richiede di non essere dissacrata, non di essere consacrata.
Premessa
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In questo mio libro ho cercato di rintracciare lo svolgimento storico di due filoni, fra loro talvolta intrecciati ma sempre distinguibili, dipanatisi l’uno in modo unidirezionale all’insegna della desacralizzazione, l’altro in modo tutt’affatto diverso alla ricerca di una religiosità «umanologica» inseguita con i passi scanditi dall’etica, con quelli dettati dalla deontologia, con i comportamenti prescritti dai galatei e anche con gli inciampi condizionati da quell’etica in miniatura che è l’etichetta. Tutte cose virtuose, più o meno, e incontestabilmente umane. Non so se lo scopo prefisso sia stato raggiunto. Quel che so con certezza è che – come ebbi a scrivere sette anni or sono a chiusura di un mio articolo («Il Sole-24 Ore», 10 settembre 2000) – «sacro è una parola grossa. La storia – historia magistra – insegna a pronunciarla con prudenza e rispetto». G.C. Milano, luglio 2007
LA RELIGIOSITÀ DELLA MEDICINA DALL’ANTICHITÀ A OGGI
I DAL MONDO ANTICO ALL’«ANCIEN RÉGIME»
1. In principio era il sacro «Non esiste nessuna razza umana che non creda negli dèi»: l’affermazione perentoria è nell’opera De natura deorum (libro II, 5-6) di Marco Tullio Cicerone, scritta da questi nel 45 a.C., due anni prima di morire. Nell’asserzione ciceroniana la disposizione al sacro sarebbe una caratteristica antropologica universale che in un recente saggio sulle «orme biologiche nell’esperienza religiosa» viene collegata alla invisibilità del divino, alla interazione tra sovrannatura e natura, al valore supremo insito nei principi di necessità e priorità1. In principio, dunque, era il sacro? E, per quanto qui è di nostro interesse, il carattere necessitante e prioritario della medicina è la sacralità? Al dire di un grande biologo, «tutto ha avuto inizio con gli dèi», in medicina con Apollo e Asclepio. «Non esiste praticamente popolo al mondo che non abbia avuto – o che non possieda tuttora – il suo empireo di dèi»2. La disposizione richiesta per accostarsi al sacro è, nella Torah o Bibbia ebraica, la tohorah o «purità» del corpo e dell’anima, precondizione indispensabile per mantenersi indenni da tutti i mali, materiali e morali. Tra gli uni e gli altri c’è differenza, ma non separazione. Il mondo ebraico è uno solo, è un tutt’uno come unico è il suo Dio trascendente e al tempo 1 Cfr. Walter Burkert, La creazione del sacro. Orme biologiche nell’esperienza religiosa, trad. it. di Franco Salvatorelli, Adelphi, Milano 2003, pp. 2224. 2 Christian de Duve, Come evolve la vita. Dalle molecole alla mente simbolica, trad. it. di Cristina Serra, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 403.
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La religiosità della medicina. Dall’antichità a oggi
stesso immanente. Ogni cosa che viene da lui è sacra: sacra la malattia, sacra la guarigione. Dal Dio biblico veniva tutto il bene, ma anche, a fin di bene o a scopo di giustizia, tutto il male: tutta la medicina dunque, ma anche tutta la patologia. Dal Dio adirato uomini e donne venivano colpiti con le malattie, così come i loro progenitori erano stati puniti del loro peccato originale, l’uomo con il lavoro che affatica, la donna con il parto che dà dolore. Fatica e dolore costituivano la fisiopatologia del vivere quotidiano, massimizzata su vasta scala nelle malattie incombenti sopra il popolo, cioè nelle epidemie come la lebbra e la peste. La lebbra descritta nel Levitico (terzo dei «cinque libri» che compongono il Pentateuco) è un male onnipervasivo che riassume in sé ogni corruzione, sia fisica che morale. La peste menzionata nell’Esodo (libro II dello stesso Pentateuco) è la quinta delle dieci «piaghe d’Egitto» con cui il Signore colpì i corpi e le anime del Faraone e dei suoi sudditi. La peste è anche uno dei tre flagelli nominati nel II libro di Samuele (24, 11-13 e 15-16): «Va a dire a Davide: così parla il Signore. Ti propongo tre castighi a scelta: [...] verrà per tre anni la fame nel tuo paese, o per tre mesi dovrai fuggire davanti ai tuoi nemici che t’inseguiranno, o vi dovranno essere tre giorni di peste nel tuo regno». La durata dei tre flagelli biblici – fame, guerra, peste –, perché questi siano oggetto di un’equa proposta e quindi di una libera scelta da parte di Davide, è inversamente proporzionale alla loro entità. Questa è massima nel caso della peste, la cui durata è infatti minima: tre soli giorni. Confidando in tale brevità, «Davide scelse dunque la peste. [...] Morirono fra il popolo settantamila persone [... finché] il Signore si mosse a pietà per tanta sciagura e disse all’Angelo che percoteva il popolo: ‘Basta! Ora ferma la tua mano’». Dio stesso, come puniva, così guariva. Ancora recita l’Esodo (15, 26): «Se tu veramente ascolterai la voce del Signore Iddio tuo, farai quello che è retto agli occhi suoi, porgerai orecchio ai suoi comandamenti e osserverai i suoi statuti, io
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non ti colpirò con nessuno dei mali con cui ho afflitto gli Egiziani, perché io sono il Signore, colui che ti guarisce». Nell’Ecclesiastico, libro di Ben Sira, o Siracide, risalente al II secolo a.C., non incluso nella Bibbia ebraica ma ripreso nel Talmud, «ammaestramento» giuridico ed etico dell’ebraismo, è scritto (38, 1-4 e 9, 12, 14): Dall’Altissimo infatti viene la guarigione, come si ricevono dei doni dal re.
E inoltre: Figlio, non irritarti della malattia, ma prega il Signore e ti guarirà. [...] Poi chiama pure il medico perché il Signore l’ha creato; non lo allontanare; c’è bisogno anche di lui. Tempo verrà in cui la salute sarà nelle sue mani.
È qui prefigurata l’eredità del divino sapere-potere di guarire da parte del medico, guaritore vicario. La parola «medico» – rofè – compare nel libro di Geremia (8, 22), profeta vissuto nella seconda metà del VII secolo a.C. Di poco anteriore è l’Iliade, scritta da Omero nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. (che però narra di fatti accaduti e di uomini vissuti nella seconda metà del secolo XIII), in cui compare la parola «medico» – ietèr – riferita a Macàone (libro IV, v. 194), «l’eroe figliuolo d’Asclepio, guaritore eccellente», del quale si esplicita il rango eccelso (libro XI, v. 514) poiché «l’uomo guaritore vale molti altri uomini». Il medico guaritore è per i Greci isótheos, «simile a Dio». Non dissimile lo era anche nelle terre della «civiltà dei fiumi», bagnate, oltreché dal Giordano, dal Nilo, dal Tigri, dall’Eufrate.
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La religiosità della medicina. Dall’antichità a oggi
Nell’Egitto dei faraoni il «medico» – sunu –, facendosi indovino delle malattie interne, perciò invisibili e divine, e agendo da manipolatore dei mali esterni, mediante imposizione delle mani, si apparentava o identificava nel sacerdote della dea Sekhmet, titolato a dire se una malattia criptogenetica (da causa nascosta e quindi misteriosa) fosse cosa naturale, correlata all’essere corruttibile proprio del corpo, oppure cosa sacra ed esecranda, dovuta a un démone da esorcizzare. Il carattere sacro della guarigione e dei suoi esercenti, come pure quello della malattia e dei suoi agenti, era tale anche nella Mesopotamia dei tempi anteriori e posteriori al diluvio universale, dove il «medico» – asu – derivava il proprio nome da «colui che conosce l’acqua», intesa come principio di tutte le cose, come è per Talete, il «fisiologo» studioso della natura e «primo filosofo» greco, vissuto tra il VII e il VI secolo, traghettatore del «principio acqueo» dalle antiche culture fluviali, mesopotamica ed egizia, alla teoria umoralista della medicina ippocratica. Quanto alla sacralità al di là dell’Egeo, nella Grecia postomerica e preippocratica, culti e miti della medicina si incarnavano in Asclepio, il semidio adulterino nato da taglio cesareo praticato, a cadavere materno ancor caldo, dal padre Apollo. Recita Pindaro nella terza Ode pitica: Asclepio, l’artefice mite che placa le pene e rinsalda le membra, l’eroe che protegge da tutte le specie dei morbi, [...] quanti vennero a lui compagni di piaghe congenite o feriti nelle membra dal lucido bronzo o dal getto di pietre o disfatti nel corpo da febbri estive o dal gelo, li congedava disciolti dall’un dolore e dall’altro.
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Apollo, padre del semidio istruito a guarire dal centauro Chirone, è il dio che scaglia dardi mortali nel campo dei Greci, dei quali Agamennone, reo di colpa grave contro la divinità, è il capo supremo. Sotto le mura di Troia, il dio irato i muli colpiva in principio e i cani veloci, ma poi mirando gli uomini la freccia acuta lanciava, e di continuo le pire dei morti ardevano fitte.
Il quadro, dipinto da Omero all’inizio dell’Iliade (I, 5052), è quello di una malattia mortale diffusa, sia degli animali (epizoozia) che degli uomini (epidemia). Essa complica gli eventi bellici intorno alla città assediata, poiché «guerra e peste insieme abbatton gli Achei» (I, 61). Il dio che punisce è il genitore del semidio che guarisce. Il culto di costui, «eroe protettore da tutte le specie dei morbi», si impose stabilmente a partire dal VI secolo a.C. Negli «asclepiei», templi della salute sparsi in Grecia un po’ dovunque, chi operava la guarigione era l’asclepiade, il sacerdote di Asclepio ispirato dalla visione della statua crisoelefantina del semidio, rappresentato come un uomo maturo, barbuto o imberbe (variando l’effige da luogo a luogo), con in pugno un bastone e con l’altra mano appoggiata alla testa di un serpente; accucciato ai suoi piedi un cane. Cani e serpenti avevano lingua per leccare, lenire, guarire le piaghe; con le civette oracolari e le capre nutrici, erano animali sacri. Emulo del semidio guaritore, l’asclepiade sottostava alla maggior sapienza-potenza esistente nel tempio, quella dello ierofante, divino «interprete del sacro». L’interpretazione rituale, per chi accedeva al tempio, consisteva nella «purificazione» preliminare, seguita dal sacrificio di un animale – «un gallo ad Asclepio», dice Socrate nel Fedone – accompagnato da invocazione propiziatoria. Dopo tale offerta, il malato si coricava nell’àbaton (da alfa privativo e bàino, «cammino»), «luogo dove non si cammina», inaccessibile e sacro. Era un luogo di degenza clinica (da klìno,
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«giaccio»), dove egli passava il giorno e la notte, immerso nel «sonno incubatorio» propiziato da Hypnos, semidio dell’ipnosi, e consolato dalle visioni oniriche propiziate da Oneiros, semidio dei sogni, anche di quelli a occhi aperti. Dai sonni e dai sogni, il malato si ridestava talora miracolato, per suggestione, ma più spesso disponibile a confidarsi con l’asclepiade; e questi era altrettanto disponibile a riceverne le confidenze – confessione, fiducia, speranza – alle quali corrispondere con consigli e conforti, con previsioni e prescrizioni (prognostiche e terapeutiche). Nella Grecia classica «gli asclepiadi assunsero caratteristiche sacerdotali o sacrali e come tali continuarono a disseminarsi. Fra di essi comparve Ippocrate»3. La sacralità gli fu trasmessa sotto forma di religiosità. L’etica dei medici ippocratici fu formalmente religiosa. L’interpretazione positivista della cultura greca si è compiaciuta nel presentare la medicina ippocratica come una sorta di ‘laicizzazione scientifica’ [...]. L’impresa dei fondatori della tèchne iatriké [o ‘arte praticata dallo iatròs’, dal ‘medico’] ebbe senza dubbio come ultimo fondamento un cambiamento dell’atteggiamento religioso dell’uomo greco [...]. Accanto alla vecchia religiosità culturale, olimpica, dionisiaca e orfica [leggi sacralità], apparve, in determinati circoli, una religiosità colta [leggi religiosità ‘tout court’], la cui maggior forza consistette nell’accentuare intellettualmente il carattere divino della physis, [della] natura universale e materna4.
Questa diversa od opposta interpretazione storiografica si presta ad avallare la tesi che la sacralità necessitante e prioritaria delle origini, ancorata al divino, abbia ceduto il passo non a una anacronistica scientificità, bensì a una religiosità radicale, dapprima panteistica e poi sempre più connaturata alGiacomo Mottura, Il giuramento di Ippocrate. I doveri del medico nella storia, Editori Riuniti, Roma 1986, pp. 12-13. 4 Pedro Laín Entralgo, Il medico e il paziente, trad. it. di Ercole Vittorio Ferrario, Il Saggiatore, Milano 1969, p. 42. 3
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l’essere medico e da considerarsi, con pieno diritto, tra i caratteri originali della tèchne iatriké o come suo prerequisito antropologico, umano. Sacralità e religiosità non sono sinonimi. La trasmissione o transizione dall’una all’altra fu di lunga durata, con ambivalenze e interscambi. Ancora in età romano-imperiale, quando la medicina ippocratica era ormai consolidata nella teoria e nella pratica codificate da Claudio Galeno, lo scrittore greco Pausania, vissuto come Galeno nel II secolo d.C., tracciando nella sua Periegesi della Grecia una mappa degli «asclepiei» operativi, vide questi ultimi sparsi un po’ dovunque. Nello stesso periodo «un fatto storico di grande importanza fu la grave pestilenza che nel 167 d.C. si diffuse da Oriente durante la guerra contro i Parti. Dimostratisi incompetenti i medici», talché lo stesso Galeno fuggì da Roma cito, longe, tarde («al più presto, per andar lontano e tornare il più tardi possibile»), «le città si rivolsero agli oracoli; e sussistono vari responsi oracolari di questo periodo, che parlano dell’ira degli dèi e dei riti opportuni per porvi rimedio»5. Fatti consimili si ripeteranno molte volte, anche ben oltre il periodo storico predetto. Dal Medioevo all’età moderna, di fronte alla «incompetenza» o inadeguatezza della medicina nel controllo di tanti mali individuali e collettivi, i singoli uomini o le loro comunità cercheranno spesso le risorse mancanti nell’ambito della sacralità. Un esempio fra i tanti: nel 1496, alla Dieta di Worms, l’imperatore Massimiliano I affermerà che il «mal franzese» (sifilide), importato dalle Indie occidentali da poco scoperte ed esploso in Europa in forma epidemica, era una punizione inflitta da Dio a chi abusava turpemente del suo nome; in coerenza con tale affermazione emanerà un editto contro la bestemmia. Gli farà eco il medico transalpino Joseph Grünpeck, il quale scriverà che per tut-
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Burkert, La creazione del sacro, cit., p. 40.
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ti i malati «infranciosati» (sifilitici) c’era la risorsa di affidarsi «all’astripotente Gesù Cristo, medico primario, e alla sua divina madre Maria Vergine»6. Dio era un medico, peraltro, che non faceva sconti: un cronista coevo, Francesco Muralto, noterà che «il male serviva ottimamente per discriminare i buoni dai cattivi», in tal modo «fornendo ai predicatori che tuonavano dai pulpiti un argomento fortissimo costituito dalla implacabile conseguenza della vendetta divina»7. In medicina, la religiosità è altra cosa dalla sacralità. Essa non è cosa succedanea o vicariante, compensatoria ed estrinseca. È invece intrinseca alla struttura della medicina, che il padre Ippocrate teneva nettamente distinta vuoi dalla sacralità degli «asclepiadi», mediatori del divino, vuoi dalla pretesa dei «filosofi» di postulare speculativamente le leggi di natura. La religiosità ippocratica era una «antropologia della medicina che si poneva all’origine come un sapere critico delle due sapienze fiancheggiatrici»8. 2. Religiosità ippocratica «L’etica dei medici ippocratici fu fondamentalmente religiosa», s’è detto citando una fonte autorevole; lo fu nella sostanza, conformemente a una natura umana gradualmente emancipatasi dalla sudditanza al sacro e autoreferenziata in base a criteri suoi propri, naturali e specifici. La specificità della medicina ippocratica è la sua religiosità antropologica, intrinseca al suo rapportarsi all’uomo senzien6 Vedi Giorgio Cosmacini, Le spade di Damocle. Paure e malattie nella storia, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 60-61. 7 Antonio Tosti, Storie all’ombra del mal francese, Sellerio, Palermo 1992, pp. 11-12. Ivi è l’annotazione del cronista Muralto. 8 Giorgio Cosmacini, Introduzione alla silloge Medicina e filosofia nella tradizione dell’Occidente, a cura di Giorgio Cosmacini e Chiara Crisciani, Episteme, Milano 1998, p. 5.
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te, dolente, paziente. Diversamente dalle sapienze rivali – il perdurante culto del divino e la nascente cultura filosofica – «la nuova medicina si presenta[va] come un sapere laico, razionale, efficace, relativo alla conoscenza dei corpi e alla cura delle malattie», un sapere alto, necessitato a «conquistarsi con le sue sole forze uno spazio professionale che le è [era] conteso dai guaritori di origine sacerdotale» da un lato, e dall’altro dai filosofi pronti a «dettar legge sulla base dei loro generalissimi postulati in un campo [...] che invece richiede[va] complesse competenze e un’esperienza diretta e specifica»9. È suffragato da una tradizione consolidata il fatto che la medicina ippocratica ha esibito il proprio manifesto eticopratico nello Iusiurandum, testo dei «doveri sui quali giurare». Il Giuramento d’Ippocrate è «un testo senza età, le cui origini si situano ben prima del grande Ippocrate e si confondono con le origini stesse della stirpe degli Asclepiadi»10. Si tratta di un testo composito, dalle molte stratificazioni e incrostazioni aggiuntive e successive alla sua sacralità originaria: «Giuro su Apollo medico e su Asclepio e Igea». L’incipit, testuale e storico, è l’invocazione propiziatoria delle divinità olimpiche del gruppo apollineo, tra cui Igea, legittima figlia di Apollo, mitica incarnazione di quella che sarà la medicina «igienica», e Asclepio, che sappiamo essere figlio adulterino del dio e mitica incarnazione di quella che sarà la medicina «clinica». Prosegue il testo: «Considererò come padre colui che mi iniziò e mi fu maestro in quest’arte [...]; considererò come miei fratelli i suoi figli, e se essi vorranno apprendere quest’arte, insegnerò loro senza compenso [...] e così ai disce9 Vedi la voce Ippocratica, medicina, di Mario Vegetti, in Giorgio Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi, Roberto Satolli (a cura di), Dizionario di storia della salute, Einaudi, Torino 1996, p. 309. 10 Commento del curatore a Opere di Ippocrate, a cura di Mario Vegetti, UTET, Torino 19762, p. 413.
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poli che abbiano giurato di volersi dedicare a questa professione»11. Questo impegno giurato è stato visto, di volta in volta, come vincolo tra maestro e allievo, o patto d’iniziazione, o contratto associativo, o dettato deontologico, o carta giuridica, o somma di divieti: Giammai, mosso dalle pressanti richieste di alcuni, propinerò medicinali letali [...]. Mai ad alcuna donna suggerirò prescrizioni che possano farla abortire [...]. Non opererò i malati di calcoli, lasciando tal compito agli esperti di quell’arte.
Più che di espliciti divieti verso forme di eutanasia attiva, di pratiche abortive, di chirurgia «delle parti di sotto» comprendente, oltre al trattamento litotomico del «mal della pietra», le tecniche di castrazione, si tratta di norme morali rivolte, rispettivamente, contro la procedura giuridica del suicidio per avvelenamento assistito dal medico quale mezzo di esecuzione capitale (si pensi alla cicuta data a Socrate), contro una cultura che considerava lecito perfino l’infanticidio qualora il padre del bambino lo ritenesse opportuno, contro un’attività culturalmente e socialmente bassolocata come quella esercitata da manovali quali appunto i «chirurghi». Si legge ancora: «In qualsiasi casa entrato, baderò soltanto alla salute degli infermi, rifuggendo da ogni sospetto di ingiustizia e di corruzione, e soprattutto dal desiderio di illecite relazioni con donne o con uomini sia liberi che schiavi». È una regola di comportamento che esprime il rispetto per la 11 Il testo del Giuramento d’Ippocrate è quello stabilito da Ludwig Edelstein, The Hippocratic Oath: Text, Translation and Interpretation, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1948, qui dato nella traduzione di Sandro Spinsanti (a cura di), Documenti di deontologia medica, Edizioni Paoline, Milano 1985, pp. 19-20.
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proprietà altrui – la donna d’altri, gli schiavi – e il rispetto per la propria arte, che è detta «casta e pura», virtuosa, monda da licenziosità sessuali eterologhe e omologhe. «Tutto quello che durante la cura e anche all’infuori di essa avrò visto e avrò ascoltato sulla vita comune delle persone e che non dovrà essere divulgato, tacerò come cosa sacra». La sacralità è quella del segreto professionale, ma anche quella di uno spirito di casta che induce a non comunicare al profano, al paziente, ciò che è pienamente comprensibile solo dal sapiente, dal medico: più che di rispetto per l’intimità del malato (per la sua privacy, oggi diremmo), si tratta di difesa di quel tanto di sacro che si vuole serbare come privilegio a una professione altrimenti avviata a essere progressivamente desacralizzata. Il Giuramento, in definitiva, è un andirivieni tra sacralità originaria e desacralizzazione. Il suo iter zigzagante, lungo più secoli, ha un punto fermo o un approdo in una nuova religiosità: «Che io possa, se avrò con ogni scrupolo osservato questo mio giuramento senza mai trasgredirlo, vivere a lungo e felicemente nella piena stima di tutti, e raccogliere copiosi frutti dalla mia arte. Che se invece lo violerò e sarò quindi spergiuro, possa capitarmi tutto il contrario». Mi punisca – questa la chiosa – la mancanza del successo, la perdita del prestigio: non più l’ira degli dèi. Per il medico spergiuro non c’è il castigo divino, ma una sanzione morale più dura e inesorabile di ogni punizione sacra. La nuova religiosità fu pienamente recepita dal pensiero platonico: «Platone era un seguace di Ippocrate [...] e prese da lui le principali dottrine». È quanto assevera Claudio Galeno nel trattato L’utilità delle parti (libro I, VIII) sostenendo un nesso di paternità-filiazione recentemente valorizzato in sede storiografica: «Platone vedeva nella medicina un modello di sapere compiuto» e «un potere motivato non dall’interesse, ma dal sapere, dalla dedizione terapeutica, dalla persuasione finalizzata al servizio della salute». La medicina ip-
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pocratica veniva ad assumere «un duplice rilievo esemplare: metodico da un lato, etico-politico dall’altro»12. L’etica del rapporto con il malato era una religiosità nuova, assimilata dalla stessa lingua greca che annoverava un caso nominale e una forma verbale – il «duale» – propri di una relazione «a due» come quella d’amore e d’amicizia, in Grecia eminente, e come appunto il rapporto antropologico-medico tra curanti e curati. Prerequisito dello iatròs agathòs, del «buon medico», era non solo la philotechnìa, tecnofilo «amore per l’arte», ma anche la philanthropìa, filantropica «amicizia per l’uomo». Il rapporto del medico con il malato, in sé squilibrato e asimmetrico poiché alla sapienza-potenza del primo corrispondeva la dipendenza del secondo, era riequilibrato e riportato in simmetria dal dovere che il medico responsabilmente si dava per assicurare al paziente il diritto di essere adeguatamente assistito e curato13. Da Platone ad Aristotele: «l’idea platonica dell’amicizia sopravvive in maniera latente nelle pagine dell’Etica Nicomachea», dov’è la distinzione aristotelica, dall’amicizia iperbolica propria dell’éros e dall’amicizia «imperfetta» finalizzata alla propria utilità, dell’amicizia «perfetta [che] invece si basa su quello che l’amico è, cioè sul suo carattere individuale o éthos». L’etica medica, compiutamente realizzata attraverso la progressiva «iatrificazione dell’asclepiade ippocratico», nasce da una religiosità naturale inerente al fatto che «per il pensiero greco l’amicizia e la philanthropìa furono sempre physiophilìa, amore per la natura universale, in quanto specificata come ‘natura umana’»14. La religiosità del medico ippocratico è una naturalizzazione del sacro, un’antropologia della sacralità, svincolata da leMario Vegetti, La medicina in Platone, Il Cardo, Venezia 1995, pp. IX-X. Vedi Giorgio Cosmacini, La qualità del tuo medico. Per una filosofia della medicina, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 13. 14 Laín Entralgo, Il medico e il paziente, cit., pp. 20-21. 12 13
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gami preternaturali al divino. Afferisce a valori, più che supremi, profondi, radicati nella coscienza morale e pertanto non riconducibili a una sorta di propria miniatura, a un’etica ridotta a etichetta e attinente, più che alla sfera dei valori e dei doveri intimamente vissuti, alla sfera dei costumi e dei comportamenti esteriori. Sotto quest’ultimo aspetto, più epifenomenico che riguardante la fenomenologia evolutiva del medico, la figura di questi s’è poi incarnata in quella, delineata da Galeno, del medicus gratiosus. «Il medico, che è prima di tutto un intellettuale, non può vendere la sua scienza come un qualsiasi kàpelos, un bottegaio di piazza». Questo medico galenico «cura i suoi pazienti per pura filantropia, secondo un modello che Galeno legge in Ippocrate»; ma per marcare la sua distanza elitaria da un mestiere volto alla cura di tutti, dagli aristocratici agli schiavi, egli assume modi e fattezze da medico altolocato e dotto, dagli avversari definito log-iatròs, «medico a parole», accusato di «vivere la propria filantropia come una chàris», come una «grazia», come un’attività di favore, esercitata «soprattutto nella cerchia delle famiglie degli ottimati e dei principi, dove è fuori di luogo parlare di retribuzione»15. Di questo medico «esibitore di gradevolezza» si è tratteggiato il discorrere vario, come eloquenza e contenuto, adatto alla cultura e ai gusti dell’ammalato; l’atteggiamento generalmente moderato, intermedio tra il dimesso e il presuntuoso, ma modulabile verso l’uno o l’altro estremo secondo le preferenze e le opportunità; così il vestire né lussuoso né trasandato, la giudiziosa scelta della qualità e dell’intensità del profumo e la cura dei capelli secondo le esigenze dell’apparire elegante e pulito.
Introduzione dei curatori a Opere scelte di Galeno, a cura di Ivan Garofalo e Mario Vegetti, UTET, Torino 1978, pp. 28-29. 15
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I doveri si compendiano in un dovere minore: tutto deve concorrere alla conquista di ascendente e di potere, e il compiacere all’ammalato è funzione di questa conquista. La comunicazione con l’ammalato è menzionata e raccomandata, ma sempre nel quadro della fiducia obbligatoria verso chi ne sa più di lui. La dovuta remunerazione fa parte di ogni buon rapporto16.
Nel lungo viaggio attraverso i secoli, all’etica ippocratica resterà adesa l’etichetta galenica. Alla sostanziale religiosità del mestiere di medico potrà sostituirsi un formale «galateo». 3. Desacralizzare la malattia La sacralità asclepiadea dei culti, dei riti e dei miti, radicalmente trasformata nella religiosità ippocratica di una «antropofilia» resa concreta nel rapporto duale fra medico e malato, ammette anche una desacralizzazione non etica, ma tecnica, riguardante non gli aspetti morali, ma quelli inerenti all’attività pratica propria dello iatròs agathòs, del «buon medico». La tèchne di costui è irriducibile alla «tecnica» attuale, non già perché come questa non tiene in gran conto gli dèi, ma perché diversamente da essa serba tutt’intera la propria finalità verso l’uomo. Il suo nome, maturato tra VI e V secolo a.C. nell’area geografica dello Ionio e dell’Egeo, tra Magna Grecia e madre Grecia e tra questa e l’Asia Minore, ha un’accezione tutt’affatto diversa da quella odierna. Fra le antiche tèchnai c’erano quella georgiké (georgica) del contadino che lavorava la terra e quella kibernetiké (cibernetica) del marinaio che pilotava la nave. Quella iatriké (medica), propria di colui che curava l’uomo, aveva qualcosa da spartire con l’una e con l’altra. Infatti, come il contadino 16
Mottura, Il giuramento di Ippocrate, cit., p. 26.
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coltivava le piante di cui curava le malattie (e di cui, se necessario, amputava le parti malate) e come il marinaio guidava l’imbarcazione tra i flutti procellosi verso il porto sicuro, così il medico era il cultore e il curante della salute altrui, la guida dell’altrui condotta per preservare o ricuperare la salute medesima17. Il nome tèchne era indicativo di un’arte o mestiere non meramente pratico e manuale, ma – come quelli del contadino esperto di agricoltura e del marinaio esperto di navigazione – provvisto di una propria procedura logica e di una propria teoria di riferimento. La procedura era il metodo clinico e questo era produttivo di una «teoria della conoscenza» o epistéme. Metodo ed episteme erano ambedue fatti oggetto di menzione esplicita da parte di Ippocrate nel trattato sull’Antica medicina, databile tra il 430 e il 415 a.C.: «La medicina da gran tempo ormai dispone di tutti gli elementi, e il principio e la via sono stati scoperti»18. «Via» e «principio» erano rispettivamente il metodo e la teoria con cui il medico ippocratico era in grado di conoscere e utilizzare operativamente la struttura naturale e le cause razionali delle malattie. Lo esplicita sempre Ippocrate nel trattato sul Male sacro, cronologicamente collocabile nello stesso periodo del trattato precedente: «Per nulla questo male» – l’epilessia – «è più divino delle altre malattie o più sacro, ma ha struttura naturale e cause razionali; gli uomini tuttavia lo ritennero in qualche modo opera divina per inesperienza o stupore»19. La metodologia clinica era il procedere del medico tra sintomi e storie, con la rilevazione sensoriale degli uni attraverso lo sguardo e il tocco (ispezione e palpazione) e con la raccolta delle altre attraverso l’ascolto (anamnesi). L’epistemoCfr. Giorgio Cosmacini, Il mestiere del medico. Storia di una professione, Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 29. 18 Vegetti (a cura di), Opere di Ippocrate, cit., p. 161. I corsivi sono miei. 19 Ivi, p. 297. I corsivi sono miei. 17
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logia medica era la teoria tetraumorale – sangue, flegma o muco, bile, atrabile – elaborata per inferenza dai dati clinici emergenti dall’osservazione: dal sangue stillante dalle ferite, dal flegma o muco secreto da naso e faringe, dalla bile gialla o nera colorante in modo vario gli escreti. Quel che fuoriusciva dal corpo umano doveva, per forza di ragionamento, esser prima stato dentro. Una sorta di endoscopia logica, argomentativa, vedeva all’interno del soma la presenza e la cràsi (miscela) dei quattro umori naturali e una illazione analogica vedeva tale umoralità rispecchiarsi nei quattro temperamenti psichici, sanguigno, flemmatico, biliare o collerico, atrabilare o melanconico. Umori e temperamenti, se miscelati in modo armonico, davano luogo all’eucrasìa (buona miscela) corrispondente alla salute; se miscelati in modo disarmonico, davano luogo alla discrasìa (cattiva miscela) corrispondente alla malattia. La desacralizzazione ippocratica della malattia investiva la malattia, oggetto principale della medicina, da ribaltare in salute, oggetto non secondario della medicina medesima. Ippocrate porta in profondità il proprio attacco rivolgendolo verso i sostenitori e gli interpreti della sacralità: «In verità io ritengo che i primi a conferire un carattere sacro a questa malattia sono stati uomini quali ancor oggi ve ne sono, [...] ciarlatani e impostori, tutti che pretendono d’essere estremamente devoti e di veder più lontano»20. La loro devozione al sacro è, per Ippocrate, pretestuosa; e la loro pretesa di veder più lontano è un’impostura basata su ciarle, non su ragioni. La malattia desacralizzata presa a modello di tutta quanta la patologia è l’epilessia. Epilepsìa, nome naturale e razionale del «male sacro», deriva dal verbo greco epilambáno, che fa riferimento all’«essere sorpreso» e all’«essere sopraffatto» proprio di chi, improvvisamente e in pieno benessere, è colto da perdita di coscienza con caduta a terra e morte appa20
Ivi, p. 298.
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rente. Una tale malattia, determinante un problematico andirivieni dalla vita alla morte e dalla morte alla vita, poteva essere ritenuta misteriosa, apparentata al demoniaco o al divino, in una parola, «sacra». Nell’antichità greco-romana la malattia era detta anche «morbo erculeo», con riferimento alla mitica figura di Ercole, il semidio afferrato sovente dal raptus di violente passioni, oppure «morbo comiziale», perché i comizi nei quali un astante fosse colto da una crisi del male venivano tosto sospesi. L’evangelista Matteo chiama «lunatico» l’epilettico miracolosamente liberato grazie all’intervento guaritore di Gesù e «morbo lunatico» veniva etichettato il «male sacro» posto sotto la protezione di Selene, la dea Luna identificata dai Greci in Artemide, Diana, saettatrice al pari del fratello Febo Apollo, come questi divina dispensatrice di punizioni sotto forma di malattie. La desacralizzazione si estende progressivamente a tutta quanta la patologia. Un’altra malattia storica, la lebbra, appariva come misteriosa e sacra – elephas sacer – perché nella sua forma classica copriva il corpo di piaghe e attutiva la sensibilità fino al punto che il lebbroso poteva bruciarsi un arto senza accorgersene. Una malattia siffatta, che rendeva ributtanti e faceva cadere a pezzi le dita delle mani e dei piedi, e in cui l’infissione nelle parti malate di un lungo spillone era del tutto indolore costituendo la «prova dell’anestesia» utilizzata dai medici a scopo diagnostico, non poteva non apparire carica di mistero, sacra ed esecranda, proprio come l’epilessia. A proposito di quest’ultima, Ippocrate ribadisce: «A me dunque questa malattia non pare affatto esser più divina delle altre, bensì ha una base naturale comune a tutte, e una causa razionale dalla quale ciascuna dipende: ed è curabile, per nulla meno delle altre»21. L’epilessia è ricondotta con criteri razionali alla sua origi21
Ivi, p. 302.
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ne naturale, indenne da ogni sovrannatura: «Di fatto responsabile di questo male è il cervello»22. Le neuroscienze ottocentesche porteranno a riconoscere l’epilessia come malattia autonoma del cervello (William Heberden); forniranno alla malattia il suo inquadramento nosografico (Etienne Esquirol); consentiranno la sua differenziazione clinica dall’isterìa (Jean-Martin Charcot); acquisiranno il moderno concetto che la convulsione epilettica «è un sintomo dovuto a una scarica occasionale, eccessiva e disordinata, dal tessuto nervoso ai muscoli» (John Hughlings Jackson) in rapporto a un focus irritativo cerebrale sperimentalmente riproducibile mediante elettrostimolazione in questo o quel punto della corteccia del cervello (Gustav Fritsch e Eduard Hitzig)23. La fisiopatologia del cervello epilettico autorizza Ippocrate a trarne rilievi euristici che addirittura gli consentono di distinguere e classificare due varietà della pazzia, scomponendo – oggi diremmo – la sindrome maniaco-depressiva nelle sue due forme, depressiva e maniacale: «La corruzione del cervello dipende dal flegma e dalla bile. Si potrà comprendere l’azione dell’uno e dell’altra così: chi è impazzito a causa del flegma resta tranquillo, non grida e non lancia clamori; chi invece [lo è] a causa della bile, urla, agisce male, è inquieto, compie gesti inopportuni»24. La conclusione è perentoria: «Questo male dunque, cosiddetto sacro, deriva dalle stesse cause razionali degli altri, da fattori che s’aggiungono e si sottraggono»25. Tra i fattori aggiuntivi la sacralità non ha cittadinanza.
Ivi, p. 303. Cfr. Giorgio Cosmacini, Introduzione a Baroukh M. Assael, Giuliano Avanzini, Il male dell’anima. L’epilessia fra ’800 e ’900, Laterza, Roma-Bari 1997, p. X. 24 Vegetti (a cura di), Opere di Ippocrate, cit., p. 313. 25 Ivi, p. 316. 22 23
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4. Umanesimo orientale Desacralizzazione non vuol dire irreligiosità. Desacralizzare il mestiere di medico e naturalizzarne gli oggetti – salute e malattia – non significa privarlo della religiosità intersoggettiva che gli appartiene per statuto. Mestiere viene da ministerium, e questo termine, pur dotato d’incrocio lessicale con misterium, tuttavia non significa un’attività «misteriosa» e sacra, ma un «servizio» reso ai suoi simili da parte di un uomo diverso dagli altri solo in quanto privilegiato e più esperto, interprete della salute e della malattia come fenomeni naturali, secondo ragione, e non come entità preternaturali, secondo rivelazione. La salute non è un dono degli dèi. La malattia affligge l’uomo, ma chi la infligge non è la mano divina. La concezione ontologica, che considera salute e malattia come enti preternaturali dei quali l’uno scaccia l’altro, è sostituita nel medico ippocratico dalla concezione fenomenologica, che le considera ambedue come manifestazioni della naturalità dell’uomo e in grado di trapassare l’una nell’altra, e viceversa, talora perfino coesistendo26. Ciò nulla toglie al fatto che il mestiere di medico resti provvisto della sua intrinseca religiosità, come rivelano, con varie sfumature, codici di comportamento e giuramenti prescrittivi fioriti anticamente in diverse realtà culturali. Appartiene alla realtà estremo-orientale ispirata dal pensiero taoista un codice risalente alla dinastia Hang, dominante in Cina nei quattro secoli (dal 200 a.C. al 200 d.C.) in cui, all’altra estremità del mondo allora conosciuto, si succedevano in Roma figure di medici eminenti che rispondevano ai nomi di Arcagato, Asclepiade di Bitinia, Aulo Cornelio Celso, Claudio Galeno. 26 Cfr. Giorgio Cosmacini, I concetti di salute e malattia e la loro evoluzione storica, in Giorgio Cosmacini, Claudio Rugarli, Introduzione alla medicina, Laterza Roma-Bari 20002, pp. 3-13.
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Il codice cinese recita che il medico «deve avere sentimenti di compassione per l’ammalato e impegnarsi ad alleviare le sofferenze qualunque sia il ceto. [...] Egli deve guardare alla miseria dell’infermo come se fosse la sua propria [...]. Chi segue questo principio è un grande medico, se no è un grande ladro»27. Appartiene alla realtà medio-orientale un giuramento che risale ad Asaf ha-Rofè, «Asaf il medico» detto anche «Asaf l’Ebreo», vissuto in un’epoca non bene precisata, ma sicuramente anteriore alla conquista del Medio Oriente da parte dell’Islam e collocabile approssimativamente nel VI secolo d.C. Asaf è l’autore di un libro nel quale molte frasi incominciano con le parole «io ti insegnerò» indicative che il testo corrisponde verosimilmente alla scrittura di lezioni orali impartite da un maestro ai discepoli. Il giuramento ebraico è un incalzare di divieti: Non ucciderete nessun uomo col succo di una radice, né somministrerete alcuna pozione a una donna in attesa di un figlio perché abortisca; non vi perderete dietro le belle donne per commettere adulterio con loro; non rivelerete i segreti che vi sono stati affidati [...]; non indurirete il vostro cuore verso il povero e il bisognoso, ma li curerete; non chiamerete bene il male e male il bene; non vi comporterete come i maghi per ammaliare e stregare.
E ancora: «Non abbassatevi alla cupidigia [...]; non preparate veleni [...]; non causate danno a chicchessia e non provocate una lesione ad alcuno per la fretta di tagliare le membra con uno strumento di ferro o mediante cauterizzazione»28. Il testo del codice cinese è riportato più estesamente da Mottura, Il giuramento di Ippocrate, cit., p. 30. Esso è tradotto in inglese e ampiamente commentato da Tao Lee, Medical Ethics in Ancient China, in «Bulletin of the History of Medicine», 13, 1943, pp. 268 sgg. 28 Il testo del giuramento ebraico è riportato più estesamente da Spinsanti (a cura di), Documenti di deontologia medica, cit., pp. 24-26. Esso è ri27
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Il testo ebraico riprende e rielabora alcuni temi importanti del giuramento di Ippocrate, intimando agli adepti di evitare la iatrogenesi delle malattie, l’uso spregiudicato dei ferri chirurgici, l’aborto in determinate situazioni e sempre il veneficio, massima contraddizione del primum non nocere (ogni veleno a basse dosi è un farmaco, ogni farmaco ad alte dosi è un veleno). Il giuramento di Asaf aggiunge però, di suo, un’esplicita presa di distanza da ogni «magìa» o «stregoneria» e, soprattutto, una forte tensione affettiva, filantropica, verso il «povero» e il «bisognoso». Rivolge inoltre un’attenzione tutta speciale alla distinzione del «bene» dal «male» e alla necessità di comportarsi di conseguenza, in modo virtuoso. Peraltro connette tale virtù al modellarsi del mestiere di medico a immagine e somiglianza dell’opera di Dio, «Dio di Verità», «giacché Egli dà la morte e dà la vita, colpisce e guarisce [...]. Sono nelle sue mani la vita e la morte di ogni creatura vivente e nessuno può sfuggire alla sua mano [...]. Dio è con voi quando voi siete con lui». L’autore del giuramento ebraico dà prova, nel proprio retaggio medico e rabbinico (in un contesto socioculturale dove le due funzioni sono spesso associate nella medesima persona), di una sapiente mediazione tra l’unica e suprema Verità rivelata da Dio e le tante piccole verità acquisite dalla ragione umana nell’esercizio del mestiere29. Dallo stesso Medio Oriente emergono, non solo dall’ebraismo ma anche dal cristianesimo delle origini, valori di grande rilevanza per il mestiere di medico. Già l’evangelista Luca, «diletto medico» al dire di Saulo di Tarso (san Paolo), aveva sottolineato l’esigenza di assistere i malati. Egli scrive nel Terzo Vangelo (10, 30-34): «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico [...]; un samaritano, che era in viaggio, arpreso dall’appendice della Encyclopaedia of Bioethics, Free Press, New York 1978, vol. IV, pp. 1733 sgg. 29 Vedi in proposito Giorgio Cosmacini, Medicina e mondo ebraico. Dalla Bibbia al secolo dei ghetti, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 55.
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rivò presso di lui, gli fasciò le ferite cospargendole d’olio e di vino, [...] lo portò all’albergo e si prese cura di lui». È qui affermato il valore del prendersi cura ed è sottolineato il valore dell’ospitalità, un valore, quest’ultimo, noto solo marginalmente al mondo classico. Sono la bassa latinità e l’alto Medioevo cristiano a dare fondamento etico alla hospitalitas: questo stesso nome, conosciuto dagli antichi ma solo come attitudine od opzione individuale e come obbligo nei confronti dell’ospite, si consolida come comandamento condiviso, come servizio reso al bisognoso e al sofferente nell’ambito di un cristianesimo autoproclamatosi «religione dei poveri». «Perché io ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere, fui ignudo e mi vestiste, fui ammalato e mi visitaste»: con queste parole del Maestro, nel Vangelo secondo Matteo (25, 35-37), la religiosità nei confronti dei pauperes infirmi, «poveri malati» o «malati poveri» senza distinzione tra indigenza materiale ed emergenza sanitaria, è posta alla base di quelle opere di «misericordia corporale», di cordialità per i miseri, che supportano le attività di accoglienza, di assistenza e di cura, fatte proprie dagli infirmarii, disponibili ad assistere e curare gli infermi. Nell’Ora et labora del monachesimo benedettino, creatura del VI secolo fiorita a Subiaco e Montecassino, la regola dettata dal fondatore Benedetto da Norcia (480-546) recita al capitolo XXXVI: «Infirmis ante omnia et super omnia omnis cura adhibenda est» (prima di tutto e soprattutto bisogna prendersi cura dei malati). Nello stesso VI secolo nasce Maometto (570-622) e nel successivo VII secolo Baghdad – Mad∞nah al-Salπm, «città della pace celeste» – subentra a Damasco come capitale di uno Stato che va dalle maree dell’Atlantico alle steppe dell’Asia centrale. In questa città delle «mille e una notte» sorge una istituzione, la Bayt al-Hikmah o «casa della saggezza», dove il sapere è contemplato nella sua accezione medievale, comprensiva di logica, matematica, astronomia e medicina, e dove quest’ultima è considerata nel suo legame strettissimo con la saggezza del giusto: «Il saggio o hak∞m, che fu nell’in-
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tera storia dell’Islam la figura centrale nella propagazione e trasmissione delle scienze, era di solito un medico. La relazione tra i due è difatto così stretta che sia il saggio sia il medico sono chiamati hak∞m»30. La «religione di legge» scritta nelle pagine del Corano e soprattutto consegnata ai detti del Profeta dell’Islam è ricca di norme prescrittive costituenti nel loro insieme la cosiddetta Tibb al-Nab∞, «Medicina del Profeta»: era il primo libro che doveva essere letto e assimilato dagli studenti di medicina, deputato a svolgere «una parte di primo piano nel determinare l’atmosfera generale in cui la medicina islamica veniva a essere praticata»31. Questa sorta di teologia medica, nel farsi immanente come filosofia di vita e nell’incarnarsi come antropologia medica, conferiva alla medicina una portata assai vasta. Oltreché agli aspetti tecnici dell’arte, la medicina veniva a comprendere gli aspetti antropologici del farsi carico delle persone sane e malate nella loro dimensione integrale, somatica e psichica (corpo e anima), e nella totalità dei loro rapporti di appartenenza, familiari, tribali, comunitari, ambientali. Ciò dà conto di alcuni lati fortemente caratterizzanti e positivi della medicina islamica: la sua vocazione di arte curativa di tutto l’uomo (anima e corpo), la sua attenzione agli aspetti anche soggettivi della malattia, la sua considerazione per il vissuto esistenziale. Tale era la cornice antropologica entro cui veniva a inquadrarsi, nel suo parallelo farsi sempre più scientifico, il patrimonio della medicina. Era, tale cornice, una religiosità assimilata da una sempre più nutrita schiera di medici professanti l’arte nei tanti maristπn, «ospedali», nati nel mondo arabo32. 30 Seyyed Hossein Nasr, Scienza e civiltà nell’Islam, trad. it. (dall’inglese) di Libero Sosio, Feltrinelli, Milano 1977, p. 51. 31 Ivi, pp. 157-58. 32 Vedi in proposito Giorgio Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 20055, p. 146.
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Nel maristπn di Isfahan esercitò per tre lustri il mestiere di medico, insegnandolo ai discepoli, il grande Ibn Sina, Avicenna (980-1037), che Dante menziona nell’Inferno (IV, 143) unitamente alle due massime autorità della medicina d’ogni tempo, «Ipocrate e Galieno», tutti e tre incontrati dall’itinerante poeta tra «li spiriti magni» insieme ad Aristotele, «maestro di color che sanno». L’Avicenna medico è tutt’uno con l’Avicenna filosofo. L’arte della cura è integrata alla concezione generale dell’uomo nella sua totalità antropologica, nella sua identità psicosomatica, nella sua relazione col mondo. Accanto alla sua opera maggiore – Qπnun f∞t-Tibb, «Canone della medicina» –, che costituisce la summa delle conoscenze mediche del tempo e che nel mondo occidentale fu considerata per secoli la «Bibbia dei medici», è nota un’opera minore, ma non meno importante – Urg∂za f∞t-Tibb, «Poema della medicina» – in cui, dopo un preambolo (vv. 1-7) dov’è data «lode a Dio» che «ha distribuito a tutti gli uomini l’intelletto e i sensi unitamente alla vita», Avicenna afferma (vv. 8-13) che ogni uomo «ha natura sua propria, [...] ragion per cui raggiunge la virtù [onde] i migliori uomini fanno il bene e sono gentili anche a parole, si curano del corpo e gli concedono piaceri che non gli faccian male. I poeti sono i principi delle parole, e i medici sono i re del corpo»33. Funzione e valore del medico sono paragonati a quelli del poeta. Avicenna, che per scienza si mostra continuatore di Ippocrate e di Galeno, se esprimesse nella lingua di costoro il proprio paragone direbbe che la tèchne del medico è molto simile alla poiésis del poeta e che l’«arte della cura» ha molto in comune con la «creatività dell’arte» matrice del buono specchiato nel bello. Corollario è che il medico mentirebbe alla propria natura se la sua cultura non fosse ispirata dal «fa-
Avicenna, Il poema della medicina, introduzione e versione dall’arabo a cura di Andrea Borruso, Zamorani, Torino 1996, pp. 41-42. 33
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re» – práxis –, dal fare il bene che è nell’armonia delle cose (degli umori e dei temperamenti). La religiosità di Avicenna tributa a Dio quel ch’è di Dio. Certamente, per lui, lo scopo del medico e, più in generale, «la finalità delle attività intellettuali dell’uomo consiste nell’estremo sforzo di cercare l’unione più diretta possibile con l’Intelligenza Suprema», ma è altrettanto certo che, per lui, «l’uomo è un essere libero perché appartiene per la sua facoltà di pensare al mondo degli esseri intelligenti»34. Anche per questo, Avicenna è considerato un protagonista di quell’«umanesimo orientale» di cui l’antropologia della medicina, con al centro l’uomo, è uno degli aspetti salienti, quello che farà dire a Pico della Mirandola, mezzo millennio più tardi: «Ho letto nei libri degli Arabi che non si può vedere niente di più ammirevole al mondo che l’uomo»35. 5. Il Mosè della medicina Il pensare e l’agire di una auctoritas quale Avicenna, caposcuola di medicina per secoli, furono senza dubbio ispirate da una fede profonda. Per lui, e per chi ne seguì le orme, la tutela della vita umana, che il medico si prefigge e si sforza di attuare, è conforme all’atto divino di Colui che la vita ha creato. La teologia ispiratrice di Avicenna e dei suoi seguaci approda a una umanologia medica dove l’uomo malato è un soggetto più importante dell’oggetto costituito dalla sua malattia. Una tradizione consolidata perpetua la figura di un medico islamico che, nelle sale ospedaliere affollate dai pazienti debilitati da quella diffusa malattia medievale qual era la mi34 Paul Mazliak, Avicenne et Averroès. Médecine e biologie dans la civilisation de l’Islam, Vuibert-Adapt, Paris 2004, p. 100. 35 La frase di Pico della Mirandola è riportata da Floréal Sanagustin, Ibn Sina, ou la raison médical maitrisée, in «Medicina nei Secoli», 6, 1994, 2, p. 403.
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seria patogena, anziché esercitare un accanimento terapeutico ai limiti del danno e della sopportabilità (salassi, purganti, digiuni), praticava la sola cura che poteva in qualche modo riuscire efficace: un buon vitto a base di datteri, miele e latte caldo. Questa «umanologia medica» generata da una religione monoteistica come l’islamismo ebbe un altro caposaldo nella filiazione dello stesso «umanesimo orientale» da un’altra religione monoteistica, l’ebraismo. Autore di quest’altro approdo fu Mosè Maimonide (1135-1204), nato a Cordova – alAndalus – e vissuto in Andalusia durante l’infanzia e la prima giovinezza, ma poi migrato al Cairo e qui divenuto medico di corte presso Salπh al-D∞n, il «Saladino», da questi nominato naguib, capo della comunità ebraica residente36. Maimonide è anche noto come RaMBaM, dalle iniziali delle parole ebraiche rabbi Moshe ben Maimon. Il padre Maimon era giudice del tribunale rabbinico; da lui l’adolescente Mosè apprese lo studio della Torah e del Talmud e l’amore alle scienze. Tra i maestri ideali ebbero influenza sul giovane il sommo Aristotele e «il filosofo degli Arabi» al-Kindi (vissuto nel IX secolo), il quale si era occupato di scienze della natura perché il creato serviva a meglio conoscere e adorare il Creatore: indagare la natura nelle sue cause sovrasensibili era compito della teologia, indagarla nei suoi effetti sensibili era compito delle scienze naturali e della medicina, philosophia secunda secondo la definizione datane da Isidoro di Siviglia, vescovo e medico (vissuto tra VI e VII secolo), nell’opera Etymologiae od Origines (libro IV, 13,4). L’incontro intellettuale di Maimonide con la dinamica intellettuale dell’Islam, prima in Andalusia e poi al Cairo, contribuì alla spinta del suo approccio alla natura, con al primo Per quanto scritto da qui alla fine del paragrafo vedi in extenso Cosmacini, Medicina e mondo ebraico, cit., pp. 74-88. Vedi anche Id., Maimonide e la medicina, nella silloge Maimonide e il suo tempo, a cura di Geri Cerchiai e Giovanni Rota, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 75-81. 36
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posto la natura umana, a partire dal significato religioso di essa e con specifico riguardo ai suoi aspetti filosofico-scientifici: grazie alla traduzione del corpus filosofico e scientifico della classicità [leggi Aristotele e il corpus ippocratico-galenico], numerosi personaggi ebrei di rilievo nel mondo musulmano riscrissero la tradizione ebraica in chiave filosofica [...]. Gli Ebrei si nutrirono dei testi classici di filosofia e di scienza, studiarono le contemporanee modifiche ed elaborazioni islamiche [leggi Avicenna e Averroè] e produssero una propria letteratura scientifica in arabo e in ebraico37.
Nell’alveo di un giudaismo tra scienza e fede, quegli che è stato definito «l’altro Mosè»38 si configura come il più autorevole rappresentante di questi ebrei, precursore e promotore di un indirizzo teoretico ed etico-pratico che, partendo dalla dottrina biblica e talmudica e ricevendo numerosi apporti, perviene a un paradigma di medicina denso di religiosità e scientificità congiunte. Mentre l’itinerario intellettuale di Maimonide è, sul versante scientifico, rintracciabile nei suoi molti libri di medicina – dalle Regole della salute per il Sultano (Magπla f∞t-tabdir as Sihat) ai personali Aforismi (Kitπb al-Fus∂l)39 –, l’itinerario valoriale è, sul versante della religiosità, indicato da tracce più evidenti nei suoi scritti non medici. Particolarmente significativi di questo orientamento maimonideo sono la Guida dei perplessi (Morè Nevuchim) e gli Otto Capitoli che introducono al trattato Avot40. 37 David B. Ruderman, Giudaismo tra scienza e fede, trad. it. di S.M. Bondoni, ECIG, Genova 1999, pp. 40-41. 38 Maurice-Ruben Hayoun, Maïmonide ou l’autre Moïse, Lattes, Paris 1994. 39 La più completa edizione degli scritti medici di Maimonide è Maimonide’s Medical Writings, 7 voll., The Maimonides Research Institute, Haifa 1984-95. Per altri scritti, non medici, vedi la bibliografia in appendice alla Guida dei perplessi, a cura di Mario Zonta, UTET, Torino 2003, pp. 802-803. 40 I passi citati più avanti degli Otto Capitoli sono tratti da Mosè Mai-
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Nella introduzione alla Guida Maimonide «sostiene che la Torah dev’essere radicata nella ragione e che la scienza divina – la metafisica – può essere indagata solo dopo aver studiato le scienze naturali»41 a cominciare dalla medicina, affermando poi (III, 10-11) che «i mali sono delle privazioni. Nell’uomo, per esempio la morte è un male ed è la sua nonesistenza. Analogamente [lo sono] la sua malattia, la sua povertà, la sua ignoranza». Se la privazione è causa di malattia, come dimostrano la povertà di cibo e i conseguenti difetti nutrizionali, non meno lo sono gli eccessi d’ogni genere, come dimostrano le fatiche che eccedono il lavoro. Sono il dovuto e il giusto le categorie di riferimento che fissano il termine medio di un equilibrio della quantità (penuria-sovrabbondanza, carenza-opulenza) speculare all’armonia ippocratico-galenica delle qualità elementari (calidità-frigidità, siccità-umidità) di umori e temperamenti. Negli Otto Capitoli Maimonide dice (cap. IV) che «l’uomo esperto di medicina sa che occorre indirizzarsi verso le azioni mediane ed evitare di spostarsi verso l’uno o l’altro degli estremi, a meno che non lo si faccia per ragioni terapeutiche o per controbilanciare l’estremo opposto». La medianità è il cardine dove s’impernia una medicina depositaria tanto di scientificità quanto di religiosità naturale. Sotto quest’ultimo aspetto, Maimonide precisa (cap. V) che «la medicina ha una straordinaria importanza nel processo di acquisizione della virtù [...]. È mediante essa, infatti, che noi possiamo disciplinare le nostre azioni, talché divengano azioni umane». Attraverso i canali di una medicina concepita e messa in pratica in modo virtuoso, le azioni divengono umane, basate monide, Gli Otto Capitoli. La dottrina etica, a cura di Giuseppe Laras, Carucci, Assisi-Roma 1977. 41 Ruderman, Giudaismo tra scienza e fede, cit., p. 54.
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sulla ragione, e non restano bestiali, basate sull’istinto. Per reciprocità, la ragione umana è la maieutica utile a estrarre dalla medicina la sua intrinseca virtuosità. Di questa medicina contenitrice di virtù, Maimonide ricava la denominazione dall’Etica Eudemia (VII, 2, 19-20) di Aristotele: «Noi applichiamo questa denominazione sia allo spirito dell’arte medica, sia al corpo su cui si esercita [...]; però, in senso proprio, si applica solo al primo dei due termini». Ricava inoltre dall’aristotelica Etica Nicomachea (VI, 1, 20) l’istanza che «bisogna scegliere il mezzo e non l’eccesso né il difetto, e il mezzo è quale lo prescrive la retta ragione». Aristotele, nella medesima opera (II, 6, 5), precisa che la medicina, «come ogni scienza, esplica bene il suo compito mirando al giusto mezzo», apparentando in tal modo la medianità all’equità e la giustezza alla giustizia (V, 3, 10): «Poiché l’equo è una posizione di mezzo, il giusto dev’essere pure una posizione di mezzo». Dopo Maimonide, medico-filosofo e maestro rabbinico, i concetti e valori di medianità, equità, giustezza, giustizia, accorpati in un tutt’uno di forte coerenza etico-scientifica, troveranno concreta attuazione in uno stuolo di medici ebrei mediatori di fede e scienza nell’ambito di una religiosità medica interpretata come teoria del «giusto mezzo» e come pratica della moderazione. In medio stat virtus è il detto latino. La teoria del «giusto mezzo» e la pratica della moderazione sono indicate al medico come le coordinate orientative di una strada maestra e mediana, lontana dagli opposti estremi, ambedue pericolosi, dell’interventismo farmacologico-chirurgico e dell’astensionismo o nichilismo terapeutico. Sono soprattutto indicate a ogni uomo come gli argini di una retta via da percorrere secondo natura e secondo ragione, lontano da eccessi dannosi e auspicabilmente da penurie e privazioni, senza cessare mai di avere, egli per primo, cura di se stesso poiché «la marcia in
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direzione della medianità» è facilitata dalla «autoeducazione ininterrotta»42. Medianità virtuosa, religiosità naturale, autopedagogia della salute. Dell’altro Mosè una tradizione occidentale discriminante tacerà il nome facendo di lui un grande «assente della storia»43. Di Maimonide medico i medici non ebrei si periteranno di utilizzare concetti e valori senza citarli. Il mancato riconoscimento del suo apporto etico e l’incomprensione della sua religiosità secondo natura e secondo ragione impoveriranno non poco il procedimento di acquisto di una coscienza autocritica da parte della medicina occidentale. 6. Cautele scolastiche La medicina occidentale, nei secoli della barbarie, s’è personificata in una pluralità di monaci residenti e di clerici vagantes, nonché in una ridda di empirici itineranti o stanziali (guaritori e guaritrici) e di chirurgi rurales (cerusici, cavadenti, conciaossa). Se per i primi valevano le regulae conventuali e gli ordinamenti religiosi, per tutti gli altri vigeva una libertà di cura senza regola e senza ordine; e se costoro esercitavano in evidente fuori gioco, fuori gioco finivano anche quei monaci e chierici che nel trascorrere del Medioevo s’erano fatti, da benemeriti mediatori terreni del Dio guaritore, altrettanto benemeriti imitatori del figlio di Dio incarnato nel Cristo salvatore. Infatti anche gli attori di questa imitatio Christi nel campo della salute – la parola salus esprimeva al contempo salute e salvezza – venivano spiazzati e messi in fallo dai decreti conciliari che intimavano loro di non più esercitare un’arte che comportava spesso pratiche cruente, contrastanNota del curatore a Maimonide, Gli Otto Capitoli, cit., p. XXX. Gilbert Dahan, L’incontro con la filosofia ebraica, in Pietro Rossi, Carlo Alberto Viano (a cura di), Storia della filosofia, vol. II, Il Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 415. 42 43
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ti con il dettato del Concilio di Tours (1163): Ecclesia abhorret sanguine, «la Chiesa aborrisce dal sangue». In verità il divieto conciliare andava più a fondo, penetrando nei peccati di un’arte sovente scaduta da opera di perfezione spirituale e d’imitazione cristiana ad attività mossa da riprovevole «curiosità» mondana e attratta da un ancor più riprovevole scopo di lucro. Nuove regole all’esercizio dell’arte venivano imposte dall’alto non solo dalla mano destra della Chiesa, ma anche dalla mano sinistra dell’Impero. Le due autorità universali si facevano carico di regimentare l’arrischiata ed equivoca libertà di cura entro i canali istituzionali delle licenze autorizzate. L’imperatore Federico II, stupor mundi, emanava nel 1231 a Melfi le Costituzioni melfitane (Constitutiones Regum Regni utriusque Siciliae) in cui, mentre proibiva di esercitare la medicina agli ebrei pena il carcere duro (libro III, titolo LXX), faceva parallelo divieto del medesimo esercizio «a chi non avesse conseguito con pubblico esame l’approvazione dei Maestri di Salerno» (libro III, titolo XLV). La medicina come esercizio e, prima, come apprendimento e apprendistato veniva a essere incanalata nell’alveo dello studium di cui Salerno era da un paio di secoli, al tempo stesso, sede ed emblema: lo Studio di Salerno non era solo il luogo della prima schola medica d’Europa, dove lo studium «veniva inteso nel doppio significato di scienza e di concretizzazione della scienza nelle scuole», ma era anche il simbolo che, in campo medico, «poneva lo studium a fianco dei due poteri, spirituale – il sacerdotium – e temporale – il regnum»44. La medicina diventava così una sorta di sacerdozio laico, le cui regole venivano fissate dall’autorità religiosa in quanto sacerdozio o dall’autorità civile in quanto professione laica. Ciò Sven Stelling-Michaud, La storia della università nel Medioevo e nel Rinascimento: stato degli studi e prospettive di ricerca, trad. it. di Anna Buiatti, in Girolamo Arnaldi (a cura di), Le origini dell’Università, Il Mulino, Bologna 1974, p. 157. 44
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sarebbe dovuto avvenire nel riconoscimento e rispetto vicendevole delle competenze e delle giurisdizioni; ma in pratica avveniva spesso con prevaricazione dell’una autorità sull’altra dando adito a conflitti. Nel clima ideologico-politico dello scontro tra Papato e Impero, il già precario concordismo s’incrinava o spezzava, favorendo l’affermarsi di due differenti visioni. In entrambe l’afflato etico del mestiere cedeva il passo a una ispirazione formale, espressa da una normativa formalizzata esteriormente, ma non intimamente assimilata. Le anzidette Costituzioni melfitane contemplavano (libro III, titolo XLVI) che al medico «si conceda licenza di praticare, previo esame, secondo modalità della Curia [regia]. [...] Questo medico giurerà di seguire la forma fissata dalla Curia medesima». Non molto diversa era la forma fissata dalla Curia vescovile nello Studium generale sorto nel 1220 a Montpellier e posto sotto la giurisdizione papale, mediata dalla tutela del vescovo di Maguelonne; e ancor più formale ed epidermico era il modus parisiensis, modalità normativa dimostrante che «la Scuola di Parigi si trovava paralizzata dalla rigidità del dogma»45. «Con la legge si vollero allora soprattutto stabilire precisazioni sulla condotta dei medici, che meritava di essere articolata coi criteri del diritto comune». Ius et lex: l’intervento giuridico del legislatore è meritorio in quanto rivolto alla tutela dei diritti dei sudditi nei confronti di una inadeguata preparazione e professione (soprattutto contro l’abusivismo e la ciarlataneria degli empirici). È un momento di merito sotto gli aspetti pedagogico e teorico-pratico; ma «l’epoca offre anche qualche esempio del rovescio della medaglia [...] manifesto nelle precauzioni da consigliare ai medici – De cautelis medicorum – di un autore non sicuramente identificato, ma dai più attribuite all’insigne medico catalano Arnaldo di VilA.G. Chevalier, La Facoltà Medica di Montpellier, in «Rivista Ciba», II, novembre 1948, 14, p. 448. 45
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lanova». Si tratta di consigli cautelativi nei quali «è evidente la tradizione del medicus gratiosus che risaliva a Galeno»46. Arnaldo di Villanova (1238/40-1313) fu la massima autorità medica di Montpellier, a cavaliere tra XIII e XIV secolo. Rettore dello Studio per un decennio e curante di sovrani – da Giacomo II d’Aragona allo stesso imperatore Federico II –, fu anche archiatra papale, di Bonifacio VIII, Benedetto XI e Clemente V. A quest’ultimo suggerì la bolla emanata da Avignone l’8 settembre 1309, con la quale si assegnava il dottorato solo a chi, dopo aver studiato sui libri d’Ippocrate, Galeno, Avicenna e dei maestri della Scuola salernitana, avesse appreso la pratica medica attraverso un adeguato tirocinio. Arnaldo «riteneva che un erudito non poteva essere definito medico se la sua conoscenza dei princìpi (doctrina cognitiva) non sfociava nella conoscenza di una messa in pratica (doctrina operativa)»47. In altri termini egli era sostenitore della tesi per cui una cosa era la tecnica, l’ars, e un’altra l’episteme, la scientia, su cui l’arte doveva fondarsi. Esplicitava l’idea moderna che la medicina non è una scienza, ma una tecnopratica basata su scienze (quelle che oggi sono dette «scienze di base»). Non era però altrettanto esplicita l’idea che la medicina è sì basata su scienze, ma anche esercitata in un mondo di valori. I meriti storici di Arnaldo sotto i profili epistemologico, metodologico, propedeutico, pedagogico sono indiscutibili48. Ma le «cautele mediche» attribuitegli, e comunque emer-
Mottura, Il giuramento di Ippocrate, cit., pp. 53-54 passim. Giacomo Mottura precisa che le raccomandazioni attribuite ad Arnaldo di Villanova, «se non sue, in ogni modo risalgono a quell’ambiente ed esprimono le difficoltà del medico, depositario di una scienza dalle risorse limitate e scarsamente armato in cospetto delle pretese ed esigenze del pubblico». 47 Danielle Jacquart, La scolastica medica, in Mirko D. Grmek (a cura di), Storia del pensiero medico occidentale, vol. I, Antichità e Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 301. 48 Vedi in proposito Jole Agrimi, Chiara Crisciani, Edocere medicos. Medicina scolastica nei secoli XIII-XIV, Guerini, Milano-Napoli 1988. 46
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genti dal suo entourage «scolastico», accreditano l’ipotesi che, nel momento stesso d’avvio della istituzionalizzazione universitaria della medicina, di quest’ultima ci si occupasse molto dell’aspetto scientifico-tecnico e ci si preoccupasse molto meno dei valori sottesi agli eventi con i quali la tecnica e la pratica quotidianamente si confrontano. Spigoliamo tra le «cautele» consigliate. Prima raccomandazione: che il contatto con il malato, limitato al tocco di presa del polso, sfrutti questa pratica manuale protraendola a lungo, non solo e non tanto a scopo diagnostico, ma anche e soprattutto «finché la mozione degli spiriti si sia quietata da ambo le parti», poiché il malato può essere preoccupato e agitato, e il medico, per parte sua, può essere turbato dalle fatiche del viaggio. Poi: che il medico apprezzi i vantaggi del parlare ermetico e del codice cifrato, perché «è di grande aiuto che un termine non sia capito dalla gente». Ancora: che il medico sia «dotto nella diagnosi, attento e accurato nelle prescrizioni, circospetto e cauto nel rispondere, ambiguo nella prognosi»; egli «non dovrebbe fare promesse, per non assumere funzione divina insultando Dio». Inoltre, al medico che visita un malato difficile viene rivolta dall’autore del trattatello una raccomandazione del tutto particolare: «quando l’avrete lasciato, dite che egli è molto ammalato, perché se guarisce sarete molto lodato per la vostra arte, [ma] se dovesse morire i suoi amici testimonieranno che avevate azzeccato»49. L’autore delle «cautele» è ben consapevole che l’«arte della navigazione», a cui l’«arte della cura» viene ippocraticamente comparata, comporta anche l’opportunità del come saper navigare in società. Conscio delle convenienze in seno al proprio contesto socioculturale, scrive:
Le raccomandazioni contenute nel De cautelis medicorum sono riportate da Mottura, Il giuramento di Ippocrate, cit., pp. 54-56 passim. 49
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Quando vai in una casa, prima di avvicinarti all’ammalato informati se si è confessato; se no, deve confessarsi immediatamente o prometterti che si confesserà immediatamente, e ciò non può trascurarsi, perché molte infermità prendono origine a sconto di peccato e sono guarite dal Medico Supremo dopo essere state purificate dallo squallore con le lacrime di contrizione50.
Chiosa l’esegeta novecentesco di queste raccomandazioni mediche medievali: Le Cautelae medicorum presentano ai nostri occhi aspetti caricaturali che equamente devono temperarsi con il riconoscimento dei contributi che senza dubbio in ogni tempo i medici portarono per il sollievo effettivo di chi in loro riponeva fiducia. In questo documento peraltro si delineano chiaramente condizioni di particolare debolezza dalle quali la medicina si trovò insidiata nel Medioevo e ancora nei primi secoli dell’età moderna, per non essere profondamente compenetrata dallo spirito di compassione umana che era in gran parte delegato all’assistenza religiosa51.
Dagli stessi medici innovatori degli studi e riformatori del sapere, la religiosità, anziché essere ritenuta una componente strutturale della buona medicina e una dote umana indispensabile al buon medico, connaturata al di lui abito mentale e comportamentale, era considerata una virtù del tutto estrinseca, propria di religiosi il cui abito era la tonaca o il saio monacale. 7. Risacralizzazione Proprio allorché nel Trecento, in seno alle nascenti istituzioni universitarie, il bagaglio delle conoscenze e delle pratiche mediche si arricchisce e si riordina, il tracollo a n dimen50 51
Ivi, p. 63. Ivi, p. 56.
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sioni – demografico, biologico, psicologico, economico, sociale, culturale – dell’Europa davanti alla Peste Nera di metà secolo fa rinculare la medicina in un paradossale «fallimento del [proprio] successo»52, con conseguente delega al sacro dei poteri di una previdenza mutata in «divina provvidenza» a scudo di una salute corporale coniugata più che mai alla «salvezza dell’anima»53. Davanti alla terribile pestilenza che nel triennio 1347-50 spopola di viventi l’Europa, ripopolandola di cadaveri nei camposanti ad personam e nelle fosse comuni (30 milioni di morti su 100 milioni di abitanti), e davanti alle ripetute recidive epidemiche bassomedievali e rinascimentali, la gente non confida nel fallimentare sapere-potere dei medici, ma nel potere d’intercessione di san Sebastiano e san Rocco. Sebastiano, soldato romano vissuto nel III secolo d.C., era stato perseguitato per la sua fede cristiana e bersagliato da frecce scagliate contro di lui da parte di arcieri comandati di martoriarlo. Tali frecce divennero «il simbolo della peste nell’Europa cristiana del tempo, sulla scia di una tradizione iconografica classica che assimilava alle frecce scagliate da Apollo la collera degli dèi contro l’umanità disobbediente. [...] La devozione a San Sebastiano si estenderà poi ulteriormente durante la Peste Nera». Da tale immane morìa, devastante la vita e la convivenza, viene fermato durante un pellegrinaggio 52 «Fallimento del successo» è dizione dei giorni nostri che si presta a stigmatizzare il fatto che, mentre in virtù dell’efficiente ed efficace tecnomedicina migliora lo stato di salute misurato in termini oggettivi, parallelamente peggiora la percezione soggettiva del benessere al punto che la gente cerca talora compensi al proprio malessere nella sfera del sacro, vero o presunto tale, anche per compensare la carenza di antropologia filantropica della tecnomedicina medesima. 53 Scrive Umberto Galimberti («la Repubblica», 8 ottobre 2006) che «salute e salvezza confondono i loro confini nella speranza di vita», dove «si radica la fede» e dove «ognuno sceglie il percorso che ritiene per lui più salutare e salvifico, senza però dimenticare, gli uni e gli altri, che non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché fondamentalmente bisogna morire».
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romèo, sulla via della Città Eterna, il viandante Rocco, vissuto mille anni dopo san Sebastiano. Il devoto pellegrino sa guarire gli appestati imponendo sui loro corpi le proprie mani e cancellando così i segni del pestifero contagio. Alla sua morte, «il culto per San Rocco taumaturgo inizierà a diffondersi insieme alle sue reliquie, traslate in numerose città europee»54. Nella trecentesca «città dei papi», Avignone, papa Clemente VI, rinchiuso nel suo palazzo, è testimone dell’atra mors che falcia il suo popolo (tra cui la bella Laura de Sade, musa ispiratrice di Francesco Petrarca). Egli riconduce il morbo da malattia «popolare» e «pestilenziale», cioè diffusa e ad alto tasso di mortalità, a entità metafisica, dovuta alla mano divina punitrice dei cristiani inobbedienti55. Tutti si sono allontanati da Dio, su tutti si è abbattuto il flagello. Ai fedeli-infedeli non resta che pregare: a fame, peste et bello libera nos, Domine. Le spiegazioni naturalistiche non si attagliano al flagello divino. Suonano come bestemmie. Esse lasciano il livello terreno del presunto «mal aere» e dell’evidente «contagio» per librarsi al livello di comete ed eclissi, inequivocabili segni celesti che premoniscono o annunciano il castigo di Dio. Guy de Chauliac, archiatra avignonese del papa, libra anch’egli la propria spiegazione tra congiunzioni astrali e segnaletiche zodiacali: La causa agente universale fu la disposizione di una grande congiunzione dei tre corpi superiori, cioè Saturno, Giove e Marte, che si era verificata l’anno 1345, il 24° giorno del mese di marzo, nel
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Giulia Calvi, La peste, in «Storia e Dossier», 4 febbraio 1987, pp. 57-
58. Oltre sei secoli dopo l’affermazione di papa Clemente VI, l’arcivescovo di Genova, cardinale Giuseppe Siri, ravviserà nell’AIDS un castigo divino; gli farà eco il megavertice sanitario mondiale (Londra 1987), che definirà l’AIDS una «emergenza biblica» («la Repubblica», 27 gennaio 1988). 55
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14° grado dell’Acquario. E infatti le congiunzioni più gravi significano eventi sorprendenti e inconsueti e forti e terribili, come cambiamenti di segni, avvento di profeti e grandi morìe56.
Quale causalità più «sorprendente», più «inconsueta», più «forte», più «terribile» di quella legata al solo Essere che può veramente sorprendere, contraddire l’ordine consueto da Lui stesso creato, dare segni di forza infinita e rivelarsi non solo misericordioso per bontà, ma anche terribile per giustizia? Persino nelle spiegazioni dei medici, attoniti ed esautorati, è dato d’intravvedere il rimando a una teologica causa causarum, che tutto spiega restando inesplicata. Anche il «morbo a Europa nuovo», che è malattia tutt’affatto diversa dalle pesti trecentesche e quattrocentesche, esplodendo epidemica tra XV e XVI secolo, fornì ai predicatori che tuonavano dai pulpiti, e ad ogni sorta di zelatori, un argomento fortissimo costituito dalla impeccabile congruenza della vendetta divina. Non si trattava solamente di far abbattere sui colpevoli un grave flagello che li bollava, per giunta con ben visibili e schifosi segni esteriori; c’era anche il fatto che la pena era in relazione diretta con il peccato, dal momento che la malattia si trasmetteva con il commercio sessuale e, dulcis in fundo, l’organo colpevole era il primo a venir folgorato57.
La malattia «nuovissima» è il «mal franzese» o sifilide, morbo venereo che va «infranciosando» i corpi e macchiando le anime, patologia delle «parti vergognose» e vergogna essa stessa, guasto corporeo e colpa morale. Quante non sono dunque le cause non solo fisiche, ma altresì metafisiche, che nello scorcio del Quattrocento sono viste corrompere uomini e donne – «ogn’uom cupìdo» e le «femine da coito imIl passo, tratto dalla Chirurgia di Guy de Chauliac, è riportato da Jole Agrimi, Chiara Crisciani, Malato, medico e medicina nel Medioevo, Loescher, Torino 1980, pp. 296-97. 57 Tosti, Storie all’ombra del mal francese, cit., pp. 11-12. 56
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puro» –, tutti rei di vita licenziosa, di comportamento peccaminoso, di trasgressione della legge divina sancita nel VI e IX comandamento e perciò tutti esemplarmente puniti in modo turpe, come se fossero lebbrosi? «Dicesi che questo male è di quella ragione che ebbe Santo Giobbo nelle sue fatiche»58: san Giobbe protettore dei lebbrosi diventa san Giobbe protettore dei «malati incurabili»59, come vengono chiamati gli individui colpiti dal «male del secolo», che nel primo Cinquecento fa strage in Europa di oltre 20 milioni di abitanti. È la stagione storica del ritorno dei santi protettori come sostituti dei medici «incuranti», incapaci di proteggere e ancor più di guarire. Chi protegge, chi esorcizza la paura, chi infonde il coraggio è il santo patrono, non il medico. Quando nasce in Occitania la parola scritta coratge60, il coraggio di sopportare i mali come fece Giobbe, possibilmente fino a guarirne come assicura san Rocco, è fortificato dall’aiuto di san Dionigi per il mal di testa, di san Biagio per il mal di gola, di sant’Erasmo per il mal di ventre, di san Ciriaco per i mali agli occhi, di santa Barbara per il colpo apoplettico, di sant’Egidio e san Vito per la pazzia, l’epilessia, le possessioni diaboliche, di santa Margherita per i parti difficili, di san Pantaleone per la tisi e altre forme di consunzione. Per meglio comprendere il passato attraverso il presente, si può dire che san Pantaleone era il tisiologo, san Biagio l’o58 Ricordanze di Bartolomeo Masi, calendario fiorentino, dal 1478 al 1526, Sansoni, Firenze 1906, pp. 63-64. 59 Hospitia infirmorum incurabilium furono dette le istituzioni asilari o ospedaliere sorte in Italia nel primo quarto del XVI secolo per l’assistenza agli affetti da «mal franzese» o sifilide. 60 La parola «coraggio» nasce nel Midi dalla lingua provenzale, in un ambito geografico e storico dove avere coratge, come appare scritto per la prima volta in un documento in langue d’oc del 1257, significa possedere la «forza d’animo» ch’era stata la virtù primaria dei paladini di Carlo Magno, una virtù che i padri latini avevano indicato non con un solo sostantivo, ma con due: fortitudo, «fortezza», e animus, «animo».
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torinolaringoiatra, san Ciriaco l’oculista, san Vito il neuropsichiatra e tutti insieme gli specialisti di una «mutua celeste» che curava, consolava, leniva, guariva, dava coraggio in un mondo ostile, insicuro, periodicamente attraversato da pestilenze e sempre dai flagelli, concomitanti o predisponenti, della fame e della guerra. Le risorse difensive non erano quelle della medicina, dimostratasi insipiente e impotente, ma quelle che nel nome dei santi venivano prestate dalla famiglia patriarcale, dalla solidarietà di vicinato, dalla pietà elemosiniera, dalla carità cristiana, dalla misericordia divina. Il fallimento teorico-pratico della medicina davanti alle pestilenze è anche il fallimento dell’etica medica davanti al momento della verità, quando più dovrebbe manifestarsi il disinteresse di un impegno curativo, lo zelo di una professione partecipe, la vocazione autentica di un’arte nella quale il malato riponeva la sua fiducia, la sua speranza, le sue aspettative: tutte deluse. Il fallimento è tanto maggiore quanto più numerosi sono i medici disertori, che nelle pesti – ad esempio – di metà Seicento reinterpretano alla lettera l’aforisma galenico del «fuggi lontano» o si rintanano, essi per primi, nell’egoismo della paura: «Scarsi erano i medici, essendosi nascosti, o simulando di non esser tali [...]. Benché si promettessero stipendi generosissimi, non si riuscì a cavar fuori dalle ville parecchi di loro, i quali si tenevano nascosti, aborrendo la mercede della morte»61. Quest’amara constatazione de peste quae fuit anno 1630 – la peste descritta da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi – sottolinea e stigmatizza la condotta riprovevole di molti medici ed è avvalorata da quel che scrive Daniel Defoe nella sua rievocazione della «peste di Londra» del 1664: «Grande fu il biasimo gettato sui medici che avevano abbandonato la 61 Giuseppe Ripamonti, De peste quae fuit anno 1630, Milano 1640, trad. it. di Francesco Cusani, Pirotta, Milano 1841, rist. Forni, Bologna 1977, p. 303.
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loro clientela durante l’epidemia [...]. Questi medici non meritano di avere dei clienti»62. Il modello di comportamento collettivo, in simili frangenti, non è il ricorso alla medicina, ma l’affidamento al sacro: «La gente mostrava a quel tempo uno straordinario zelo religioso, e, come le porte delle chiese restavano aperte notte e giorno, andava a pregare a qualunque ora, e pregava, pregava»63. Sacralità – come s’è detto – non è sinonimo di religiosità. Bisogna distinguere tra religiosità dei malati (e dei sani impauriti e timorosi d’ammalarsi), per i quali l’affidamento al sacro è d’aiuto e di conforto, e risacralizzazione della medicina, che non può e non deve fare da copertura alla mancanza della religiosità umana connaturata al mestiere di medico. Quando tale religiosità fa difetto, e il mestiere rivela la sua pochezza sotto gli aspetti antropologico ed etico, la sacralità impone ex vacuo la propria egemonia. 8. Desacralizzare il corpo (morto) Uno dei luoghi storiografici classici delle «magnifiche sorti e progressive» della medicina è la «nascita della medicina scientifica»64 nel Cinque-Seicento, precorsa dall’avvento nel 1316 della anathomia di Raimondo de’ Liuzzi detto Mondino (ca. 1270-1326), anatomista nello Studio di Bologna e autore dell’opera recante tale titolo. Il suo precorrimento non è però la scrittura del testo anatomico, ma il fatto di aver eseguito per primo, nell’aula di lezione, l’«apertura» di un cadavere umano a scopo di ricerca e d’insegnamento. 62 Daniel Defoe, A Journal of the Plague Year, London 1722, trad. it. di Elio Vittorini, Bompiani, Milano 1979, p. 196. 63 Ivi, p. 76. 64 William P.D. Wightman, La nascita della medicina scientifica, trad. it. di Giorgio Scaravelli, Zanichelli, Bologna 1975.
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Itali quidem primi humana corpora dissecuerunt, «gli italiani per primi tagliarono i corpi umani»: il riconoscimento di tale priorità, da parte del maggior medico-scienziato mitteleuropeo vissuto nell’età dei Lumi, Albrecht Haller (17081777), conferma l’attitudine dei ricercatori – negli Studi di Bologna, Parma, Padova – a scrutare nei corpi dei morti le strutture segrete dei corpi viventi65. Pregiudizi, scrupoli, bolle papali creavano impacci, frapponevano impedimenti. Nel settembre 1299, alla vigilia del primo «anno santo» della storia, Bonifacio VIII, ferox pontifex, ha promulgato dal Laterano l’editto De sepulturis, contenente il divieto di far bollire i cadaveri per ricavarne, carnibus per excotionem consumptis, gli scheletri umani su cui studiare l’osteologia. Il divieto papale, non incompatibile con la fondazione nel 1303 da parte dello stesso pontefice dell’università romana «La Sapienza», aveva lo scopo di impedire che a cadaveri di uomini eccellenti – come al corpo di Luigi IX «il Santo», re dei francesi morto trent’anni prima sotto le mura di Tunisi – toccasse la sorte di essere fatti a pezzi e poi cotti in acqua e vino «finché le ossa pure e candide potessero venir strappate dalla carne» e distribuite nelle cattedrali e nelle abbazie che ambissero serbarle come reliquie. Più in generale, si trattava di evitare che, nel giorno del Giudizio universale e della Risurrezione della carne, le anime dei defunti fossero costrette a vagare alla ricerca delle diverse parti del proprio corpo, onde procedere precipitosamente alla restitutio ad integrum di quest’ultimo prima di presentarsi davanti al Giudice supremo. L’editto non è stato dunque una vera e propria messa al bando dell’anatomia. Però l’osteologia ne ha risentito. Mondino stesso ha lasciato scritto che «certe ossa non si mostrano bene ai sensi se prima non vengono cotte». «Io», aggiun65 La frase latina di Haller, elvetico fondatore della moderna fisiologia, è riportata da Salvatore De Renzi, Storia della medicina in Italia, Tip. del Filiatre Sebezio, Napoli 1845, rist. Forni, Bologna 1966, tomo III, p. 150.
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ge, «tralascio di farlo per non commettere peccato». Tuttavia, osserva in proposito lo storico Alfonso Corradi, «l’editto del pontefice non mai [gli] proibì di tagliare i cadaveri, di seccarli al sole e di scarnare ancora le ossa»66. Lo stesso storico fa menzione dei pregiudizi secondo cui i morti non dovevano essere toccati e dell’avvisaglia che «impuro e pressoché da fuggire era colui che in que’ corpi mettesse le mani per istudiarne, tagliandoli, i visceri». Peraltro «questa impurità non contraevasi tagliando i corpi degli uomini malvagi, delle donne disoneste, di quelle che si procacciano l’aborto o bevono liquori spiritosi». Da qui gli scrupoli recepiti negli antichi statuti delle università: «che soltanto i corpi de’ giustiziati servir dovessero allo studio dell’anatomia. Dannato il cadavere su cui operavasi, pareva che non offeso rimanesse il sacro rispetto dovuto ai defunti, non polluta la mano che quelle membra incideva, né empio l’occhio che ne scrutava le viscere». Ciononostante: l’opera anatomica di qualche guisa avea da essere espiata; quindi le preci, le messe e i funerali con cui chiudevasi la notomia per dare sepoltura ai corpi che ardita curiosità ed amor di scienza avean aperti e mozzi. [...] La solennità della cerimonia dovea nobilitare agli occhi del volgo il vilipeso ufficio di maneggiare i cadaveri, la pompa della festa velare il lugubre apparato e l’ultima prece purgare la profanazione.
Nel Cinquecento la tipologia procedurale e cerimoniale dell’anatomia instaurata nelle università non è molto diversa da quella trecentesca. Il tempo dell’anatomia è la Quaresima, stagione della mortificazione, della contrizione postcarnascialesca, delle meditazioni sulla morte: meditazioni di ogni I passi citati, da qui alla fine del paragrafo, sono riportati da Alfonso Corradi, Dello studio e dell’insegnamento dell’anatomia in Italia nel Medioevo e in parte del Cinquecento, in «Rendiconti del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere», serie II, vol. VI, fasc. XV, 1873. 66
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tipo, anche anatomiche. La Quaresima cade nei mesi freddi dell’anno: anche alle latitudini più temperate d’Italia il freddo consente di conservare e meglio sezionare i cadaveri. La sezione però si fa al chiuso, non più all’aperto sub Jove frigido. I corpi da sezionare sono talora quelli dei morti per sospetto avvelenamento: veleni e pugnali sono frequenti cause cinquecentesche di morte. Visceribus defuncti anathomice circumspectis, medici e chirurghi devono accertare o escludere il veneficio. Più spesso i cadaveri sono quelli dei «sospesi e decollati per giustizia»: preferiti sono i corpi degli «appiccati» in quanto integri e non dissanguati. Il decano della facoltà medica ne fa richiesta all’inquisitore giudiziario, il quale, sentito il parere dell’autorità ecclesiastica, concede che si pratichi l’«apertura» dei cadaveri, in tre giorni distinti: il primo dedicato all’apertura del ventre, che contiene i visceri più putrescibili, il secondo all’apertura del torace, il terzo all’apertura del cranio. Mentre taluni statuti universitari sono rigidi e non ammettono altra dissezione che quella «sul cadavere d’un qualche condannato a pena capitale», talaltri sono più flessibili e concedono che si sezionino anche i cadaveri di individui morti per cause naturali, purché forestieri, «foresi». Uno statuto cinquecentesco dell’Università di Bologna dà licenza di sezionare i cadaveri dei «nati nella campagna bolognese, modenese, ferrarese, a patto però che siano stati in vita soggetti disonesti». L’anatomia è, a un tempo, tecnologia del lutto, ritualità scientifica, banco di prova della devozione. Coinvolti, per le rispettive competenze, nel complesso delle operazioni scientifico-rituali, sono i preti, i giudici, i giustizieri, i beccamorti, i becchini. A queste due ultime categorie di esperti tocca, in tempi di clemenza giudiziaria o di sopita rissosità, il compito di profanare tombe e trafugare salme ancor fresche di sepoltura; agli stessi esperti tocca, in tempi di «gran morìa» per pestilenza o per fame, il compito di sottrarre i cadaveri «a’ lupi» o alla fossa comune.
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La congiuntura bellico-epidemica dei primi decenni del Cinquecento e la semi-clandestinità di molta parte della pratica settoria, superante di slancio proibizioni e superstizioni d’ogni sorta, assicurano agli anatomisti più curiosi e zelanti una larga disponibilità di cadaveri da «aprire». Bolle papali de cadaverum sectione, emanate da Sisto IV e da Clemente VII, hanno rimosso preesistenti divieti. In un misto ambiguo di sacralità e dissacrazione, di ufficialità e segretezza, di tolleranza e contravvenzione, l’anatomia umana moltiplica la propria casistica e ricava da questa la propria «norma»: la moderna anatomia umana «normale» è totalmente diversa da quella antica, galenica, che era una anatomia «comparata», ricavata dalle sezioni di macachi, di maiali, di cani. In questo misto di sacro e profano, l’anatomia procede stentata fino ad Andrea Vesalio (1514-1564), lector et dissector in anatomia nell’Università di Padova e artefice della «rivoluzione scientifica» che trasforma l’anatomica «scienza normale» dei suoi predecessori nell’anatomica «scienza rivoluzionaria» che sta alla base della medicina moderna67. 9. Desacralizzare la morte (improvvisa) Vesalio, a Padova (ma anche a Bologna), è il «lettore» che commenta e contraddice dalla cattedra il testo di Galeno ed è al tempo stesso il «dissettore» che apre il cadavere al tavolo d’autopsia. È anche l’«ostensore» che mostra i visceri espiantati al pubblico ammesso ad assistere in religioso silenzio alla lettura-cerimonia, alla lezione e al rito. Egli è l’officiante tecnico-scientifico che unisce in una sola persona la dottrina del lettore e la manualità dell’operatore. È un accentratore, un anatomista-chirurgo, un ricercatore completo. 67 Per le categorie «scienza normale» e «scienza rivoluzionaria» vedi Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it. di Adriano Carugo, Einaudi, Torino 1969.
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L’unificazione della teoria e della pratica è la base metodologica del decollo della scienza anatomica. Delle demonstrationes anatomiche di Vesalio si giova anche la nascente medicina legale. L’imperatore Carlo V, che «innova la procedura penale», «si avvale delle competenze maturate [...] attraverso l’esercizio delle pratiche di dissezione». La moderna conoscenza de humani corporis fabrica – tale il titolo dei sette libri vesaliani pubblicati a Basilea nel 1543 – si integra all’origine con gli usi punitivi della conoscenza stessa. Vesalio «si impegnò in diverse dissezioni dal vivo di corpi di cani» e il suo successore nella cattedra anatomica di Padova, Gabriele Falloppio (1523-1562), «non avrebbe esitato a realizzare esperimenti sui vivi assumendo un ruolo più da boia che da sanitario». Il che avvicina «l’uso del sapere pratico e anatomico del medico [...] non all’arte di guarire, ma a quella del punire: non all’area curativa, ma a quella giudiziaria [...] rappresentata dalla tortura»68. Ecco dunque il medico a fianco del carnefice come consulente circa la qualità e quantità dei «tormenti» – la corda e il fuoco – da correlare allo stato di salute e allo stato sociale dell’inquisito. In questo campo fanno testo le Quaestiones medico-legales (Roma 1621) dell’archiatra pontificio Paolo Zacchia (1584-1659), considerato il padre della medicina giuridica o forense; ma ancor prima sono fonte di riferimento autorevole le istruzioni impartite al riguardo dal protomedico di Sicilia Giovanni Filippo Ingrassia (1510-1580), investito dell’autorità sanitaria sull’isola da Filippo II. Ordinatore delle Constitutiones nec non iurisditiones vigenti nel territorio isolano, l’Ingrassia altri non è che quello stesso «Filipello Ingarsìa» che nel 1561 viene immatricolato come oficial familiar de la Sancta Inquisiciòn e che diciassette anni dopo dà al predetto santo istituto inquisitorio il supporto di un’opera Alessandro Pastore, Il medico in tribunale, Casagrande, Bellinzona 1998, pp. 35-36. 68
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dal titolo alquanto sinistro, Methodus dandi relationes pro mutilatis torquendis aut a tortura excusandis (Palermo 1578). Quanto all’anatomia umana «normale» di Vesalio (impedito di ritornare a Padova dopo la morte prematura del suo successore Falloppio perché inviato da Filippo II in Terrasanta a espiare con un pellegrinaggio la condanna infertagli dall’Inquisizione per aver aperto – pare – il corpo di un uomo ancora vivo), il decollo, suo tramite, della medicina scientifica fu dovuto – come s’è visto nel paragrafo precedente – alla desacralizzazione del corpo morto. Il corpo morto era, nel mondo omerico, il soma: «Il termine soma, che in greco dopo Omero significa corpo, in Omero significa cadavere. Non in vita, ma solo in morte [...] l’uomo omerico si distingueva in corpo e anima. [Egli] si sentiva non già come scisso in una dualità, ma come un io unitario»69. Ne dà una prova – una delle tante reperibili nell’Iliade – l’episodio di Ettore morente che supplica Achille: «Ti prego per la tua vita [...], non lasciare che presso le navi mi sbranino i cani degli Achei, ma accetta oro e bronzo infinito, i doni che ti daranno il padre e la nobile madre: rendi il mio corpo alla patria»70. Nel testo greco la vita è detta psyche e il corpo soma. La morte si identifica nella fine del vivente, cioè dell’essere animato portatore di vita – psyche –, e comporta che il corpo privo di vita ed esanime – soma – sia scomponibile in parti, quale prima non era. Il soma, senza psyche, può essere smembrato. Se il soma è il cadavere, il corpo dell’uomo vivente, in Omero, cos’è? Nel poema omerico esistono almeno tre modi per definire il corpo vivo: melea, «membra», guia, «giuntu-
69 Il passo, di Hermann Fränkel, è riportato da Giovanni Reale, Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Raffaello Cortina, Milano 1999, p. 35. 70 Omero, Iliade, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 19724, libro XXII, vv. 338-342.
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re», chros, «carnagione» nel senso di involucro corporeo71. Sono modalità espressive parziali di un totale pre-«somatico», di un tutto espressivo di anima e corpo. In quest’ottica antica l’uso scientifico del soma da parte della moderna anatomia, comunemente considerato come una tappa ulteriore del processo di desacralizzazione della medicina, appare anche in altra luce, poiché il soma non è tutto l’uomo, escludendone la vita, cioè l’anima. Detto processo, interpretato o gestito dalla medicina nel suo farsi scientifica, non implica affatto che il medico, nel fondare la propria pratica sempre più sulla scienza, muti il proprio status costituzionale spogliandosi della propria religiosità statutaria. Sul tema della sacralità/desacralizzazione della morte, le antiche età sono anche altrimenti istruttive. Fino alle soglie dell’età moderna la morte improvvisa è stato l’evento esistenziale maggiormente temuto, paventato, aborrito. Temuta non era la morte in sé, considerata il termine naturale del vivere, connaturata all’essere mortale proprio dell’uomo. Con questa ideologia della naturalità della morte si embricava l’ideologia della morte contra naturam. «Contro natura» non era la mortalità infantile, non la premorienza dei figli rispetto ai padri, non la morte prematura delle donne proprio nel momento in cui diventavano madri generando la vita. Tutte queste morti, in una ideologia di lunga durata, avvenivano in conformità con il naturam sequi del disegno divino, contemplante l’evenienza di frutti naturalmente caduchi e perciò cadenti anzitempo dall’albero della vita. Le morti innaturali, paventate, aborrite, erano altre: quelle, appunto, improvvise, repentine, subitanee, che coglievano l’individuo in apparente pieno benessere e ne spezzavano di colpo il filo dell’esistenza. Tali morti innaturali cozzavano contro una medicina incapace di spiegarle, non contro la Bibbia che le spiegava come 71
Cfr. Reale, Corpo, anima e salute, cit., pp. 29-32.
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nel caso di Anania e di Saffira che, per aver mentito a Dio, morirono all’istante. Mentre la medicina, per darsi una ragione della mors repentina, si affannava a cercare e trovare i nomi e i concetti di «apoplessia» (dal greco apòplektos, «colpito», «paralizzato») e di «ictus» (per analogia con ictus fulminis, «percossa fulminante»), la tradizione biblica contemplava la stessa morte come «morte cattiva» – come una sorta di «cacotanasia» contrapposta all’«eutanasia» naturale – in quanto essa era un fatale impedimento al morente di pentirsi almeno in articulo mortis dei propri peccati. Onde anche i medici suggerivano ch’era bene pregare: «Supplici preghiamo il Signore Iddio [...] che per la sua pietà e misericordia si degni di concederci di non essere colti da morte subitanea o almeno di essere liberati da una morte improvvisa per non essere condannati a una morte eterna»72. La preghiera non era dettata dal pulpito, ma dalla pagina di un libro di medicina d’avanguardia, nel 1612, in un’età che la periodizzazione storiografica identifica con la «rifeudalizzazione del Seicento»: anche con una più accentuata «risacralizzazione» post-tridentina, favorita dalla reiterata crisi della medicina di fronte alle pesti seicentesche. La gente invitata a pregare era la stessa che diceva: «È morto stanotte nel sonno: non si è risvegliato, ha avuto la morte peggiore che potesse avere». A quattro secoli di distanza, la morte improvvisa è oggi desacralizzata nella Sudden Death Syndrome, che i cardiologi e i neurologi contemporanei spiegano con le loro interpretazioni rispettivamente cardiocentrica (morte cardiaca) ed encefalocentrica (morte cerebrale). In quattrocent’anni la gente ha ribaltato diametralmente il proprio comune sentire: «Oggi la desacralizzazione dell’attimo estremo, in punto di Paulus Crassus, Mortis repentinae examen, apud Iulianum Cassianeum, Mutinae 1612, p. 96. Il testo è tradotto in italiano da Tebaldo Fabbri in Paolo Grassi, Sulla morte improvvisa, a cura di Spalato Signorelli, Centro per la lotta contro l’infarto, Modena 1987. 72
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morte, fa guardare alla morte nel sonno come alla fine auspicabile per l’uomo longevo ormai prossimo allo scadere del tempo di vita a lui concesso dal suo orologio biologico e dal suo segnatempo umano-sociale»73. 10. Umanizzare l’ospedale Nel secolo XVI l’Europa si arricchisce non solo con i prodotti delle conquiste del secolo precedente – la conquista dell’America, l’invenzione della stampa e delle armi da fuoco – ma anche con la scoperta del «corpo nuovo», diverso da quello anticamente descritto da Galeno, svelato in tutte o quasi le sue parti dalla nuova ricerca anatomica sul cadavere umano. Il Cinquecento è anche il secolo che, soprattutto negli ospedali toscani e padani, vede portata a compimento la gran reformatione quattrocentesca dell’istituzione ospedaliera, precedentemente basata sul «sistema della carità», un sistema che aveva avuto la sua origine nell’etica caritativa del Medioevo cristiano. In tale contesto originario gli ospedali erano spazi caritativo-assistenziali aperti a chiunque si trovasse in condizioni di bisogno, senza giudizio di merito o di colpa, e con identificazione tra povertà e infermità (povertà, madre delle malattie). I poveri infermi, o gli infermi poveri, erano tutti destinatari – quali controfigure del Cristo vivente, piagati nella carne come il Redentore – di una hospitalitas che era espressione civile della charitas. Tutti questi pauperes Christi, «poveri di Cristo» o «poveri cristi», avevano ciascuno la sua specie di male, però erano considerati come genere umano, globalmente, più per quello che rappresentavano che per quello che erano. Infirmarii e infirmi erano rispettivaCosmacini, Le spade di Damocle, cit., pp. 92-93. Una ricognizione della letteratura medica internazionale dell’anno 2003 ha permesso di contare in tale anno ben 157 pubblicazioni scientifiche dedicate alla Sudden Death Syndrome o «sindrome della morte improvvisa». 73
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mente i soggetti e gli oggetti di un’assistenza non «specifica», ma «generica», prestata indistintamente, senza specializzazione di cure. Tale assistenza era intesa e praticata con modalità non molto dissimili da quelle storiograficamente rievocate: Tutti i servizi, dai più insalubri ai più ingombranti, ai più nauseabondi, si compivano nelle sale. I malati venivano collocati, senza distinzione di forme, confusamente su enormi letti, ciascuno destinato ad accogliere da due a quattro infermi, alcuni riparati con tende, altri no, altri ancora collocati in non profumate alcove [...], dove poco prima si era cambiata la putrida paglia dei sacconi di giacenza74.
Lo statuto di «opere pie» delle fondazioni ospedaliere aveva per lungo tempo assicurato a esse una sostanziale indipendenza dal potere civile. Il potere ecclesiastico, a partire dal Concilio di Ravenna del 1311 e da quello di Vienne dell’anno successivo, aveva rivendicato la propria paterna autorità su tali opere. Ma nel corso dei tempi questi stessi ospedali, che da parte del clero erano stati «fondati e accresciuti», erano stati poi dal medesimo clero «amministrati come cosa propria, anziché come beni dei poveri»75. Addetti agli infermi erano gli infermieri, fratres et sorores che, pur non essendo propriamente «frati e suore», tuttavia afferivano in qualche modo allo stato clericale con il titolo di «conversi e converse», coadiuvati da serventi di più basso livello, «famuli e famule». Se i primi conversi che si offrirono di servire i poveri infermi negli spedali lo fecero unicamente per amore del prossimo e per puro spirito religioso, a poco a poco, quando i frati, divenuti padroni di laute rendite, cominciano a gustare una vita più comoda, la74
Salvatore Spinelli, La Ca’ Granda. 1456-1956, Cordani, Milano 1956,
p. 98. 75
Ivi, p. 15.
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sciando ai servi tutte le opere faticose e basse, cambiano anch’essi i loro costumi. [...] E degli infermi non si parla quasi più76.
Il «sistema della carità» era entrato in crisi. Subentrava, espressivo di profonde trasformazioni strutturali e ideologiche al passaggio tra Medioevo e Rinascimento, il «sistema degli ospedali maggiori». È questa l’anzidetta gran reformatione, così descritta nel 1508 da uno dei suoi maggiori artefici: La forma adunca presa a questa reformatione è stata in questo modo. Poiché le malattie o sono cronice o de qualità che presto son terminate vel con salute, vel con morte, queste de presta terminatione sono designate al hospitale grande dove, como è predicto, o moreno o, facti sani, vano con la benedictione a fare li facti soi. [Invece] i mali de altra qualità, quali vogliono tempo, hano la receptione sua separata77.
È detto senza mezzi termini che tra i malati, a prescindere dal fatto che tutti indistintamente dovevano essere premurosamente assistiti, gli acuti, suscettibili di guarigione, dovevano essere ricoverati nell’ospedale maggiore, principale e centrale, mentre i cronici, inguaribili e invalidi, la cui salute piena non poteva essere ricuperata e la cui salute residua necessitava di prolungata assistenza, dovevano essere ricoverati negli ospedali minori, decentrati e satelliti. Insomma, la riforma da poco realizzata non doveva essere vanificata ritrasformando i nuovi grandi ospedali rinascimentali in vecchi ospizi di medievale memoria. Il Rinascimento, se voleva essere tale anche in campo ospedaliero, non doveva ripiomba-
Pio Pecchiai, L’Ospedale Maggiore di Milano nella storia e nell’arte, Pizzi e Pizio, Milano 1927, p. 14. 77 Relazione ai deputati all’Ospedale Grande di Gian Giacomo Gilino, «priore del capitolo ospedaliero», Ferrari, Milano 1508. La relazione è ripubblicata, con stampa anastatica, in Giorgio Cosmacini (a cura di), La carità e la cura, Ospedale Maggiore, Milano 1992. La citazione è ivi, p. 176. 76
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re nell’ambito della carità indifferenziata. Il riassetto dell’assistenza comportava che in questa trovasse minor spazio la manipolazione dell’assunto caritativo da parte di un personale divenuto col tempo poco o punto caritatevole. L’architettura rinascimentale dei nuovi ospedali era caratterizzata strutturalmente e funzionalmente da quattro corsie di degenza – due per le donne e due per gli uomini – disposte a crociera, con riferimento simbolico alla croce. Nel punto di convergenza – emblematico signum crucis – dei quattro bracci, c’era uno spazio largo, visibile da tutti i degenti. Le corsie erano alte quasi quanto lunghe e sui loro soffitti erano dipinte scene del Paradiso con la Madonna e coi santi: i malati potevano così, guardando in su, farsi un’idea del dove sarebbero ascesi se la loro malattia non fosse guarita ed essi avessero fatto una buona morte pentendosi dei loro peccati. Tuttavia il loro sguardo – non quello della disperazione, ma quello della speranza – era rivolto non tanto verso l’alto, quanto verso il centro della crociera, dove nello spazio accessibile alla vista di tutti c’era l’altare, e sull’altare il tabernacolo, e dentro il tabernacolo le specie consacrate del pane e del vino, corpo e sangue del divino Salvatore. Nelle corsie si affaccendavano gli infermieri e, dal Cinquecento in poi, anche i phisici e i chirurgi. Costoro, medici e chirurghi «prima maniera», erano prestatori di cure adeguate; ma il guaritore supremo era Colui ch’era incarnato nel Santissimo Sacramento custodito nel tabernacolo sull’altare e ch’era dispensato a coloro che nell’eucarestia chiedevano la grazia della salute e della salvezza. La sacralità della guarigione superava la religiosità di ogni cura prestata, talché un famoso chirurgo rinascimentale, Ambroise Paré (1510-1590), un ugonotto formatosi nelle sale del parigino Hôtel-Dieu e divenuto benemerito curante delle ferite emorragiche (legando le arterie e non cauterizzandole in profondità con il ferro rovente), era solito dire ai propri pazienti che lo ringraziavano per averli curati e guariti: «L’uomo cura, ma solo Dio guarisce».
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Eppure negli ospedali riformati la sacralità della guarigione cedeva il posto a una pluricompetenza profana che cercava di guarire qualificando e diversificando le cure. La folla dei malati degenti non era più un indistinto genere umano, ma un accorpamento in gruppi patologicamente diversi, ciascuno con la sua specie di male. Le cure non erano più pratiche generiche di assistenza e di aiuto, ma pratiche specifiche realizzanti questa o quella terapia. I curanti degli infermi non erano più infermieri generici, ma medici e chirurghi specialisti di questo o quel male. Il precitato autore e relatore della reformatione ospedaliera così indicava la dotazione sanitaria e la plurifunzione di un grande ospedale: Quatro phisici, uno per bracio de la crocera, et altri tanti chirurghi similmente distribuiti, alli quali la necessitate de la egritudine de brosole [«malattia delle brosole» o «mal franzese» o «sifilide»], novamente scoperta da la natura humana, perché ad essa pochi sano dare remedio, ha facto agiongere el quinto phisico et chirurgo, perito de simile curatione [...]. A preso sono agionte tre altre qualità de medice: l’uno de taglio, in quelli quali hano el male de preda [«mal della pietra» o «calcolosi vescicale»], essendo per questo conducto uno singolare medico [«norcino», esperto nel «taglio delle parti di sotto»] cum stipendio de certo premio per ciascun taglio, et doi pe medicare el mal de capi ne li puti [«mal del capillizio» nei bambini o «tigna favosa» parassitaria] et aiutare li allargati [portatori di ernia o laparocele, curati con «cinture» e «braghieri»]78.
Due anni dopo l’anzidetta relazione, un testimone oculare non sospetto di tenerezza per le cose d’Italia, il rusticus et durus saxo Martin Lutero, venuto a Roma per affari del suo ordine agostiniano quando ancora non era il monaco ribelle di Wittenberg, restava folgorato dalla realtà ospedaliera italiana, da lui così rievocata: 78
Ivi, pp. 172-73.
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Gli ospedali sono costruiti con edifici regali; ottimi cibi e bevande sono alla portata di tutti; i servitori sono diligentissimi, i medici dottissimi, i letti e i vestiti pulitissimi. Appena viene portato un malato, [...] lo si mette in un bel letto dipinto, [con] lenzuola di seta pura. Subito dopo vengono condotti due medici. Arrivano poi due servitori portando da mangiare e da bere79.
Sembra di leggere una pagina della Utopia (Londra 1516) in cui Thomas More tratteggia l’ospedale da lui idealizzato, nel quale «le stanze sono ad ogni commodo degli infermi arteficiosamente fabricate, e tanta diligente cura si usa nel medicarli con assidue cure di medici, che ognuno si contenta tosto di esser governato in questi luoghi che ne la casa propria»80. È questo ospedale assimilato alla «casa propria», intravisto da Lutero e idealizzato da More, l’ospedale umanizzato che, tra realtà e utopia, si offriva come «fabbrica della salute» ai malati che la salute avevano perduta. In esso la sacralità si differenziava dalla religiosità perché differenti erano i mezzi e i fini dell’una e dell’altra: l’una aveva il suo mezzo nella imitazione di Cristo e il suo fine nella salvezza affidata a Dio, l’altra aveva il suo mezzo nel rapporto di cura e il suo fine nella salute affidata al medico. La prima poteva aggiungersi alla seconda, non sostituirla. Poteva dare nerbo all’assistenza quando l’umana religiosità delle cure faceva un’altra volta difetto, come spesso capitava. Ricapitolando la Vita del Padre Camillo de Lellis, «fondatore della religione de’ chierici regolari Ministri dell’Infermi» (Roma 1605), il padre Sanzio Cicatelli «sacerdote dell’istessa re-
79 Il passo di Martin Lutero è dato nella versione italiana della trascrizione, fatta da Lauterbach il 1° agosto 1538, del «discorso a tavola n. 3930» pubblicato in Martin Lutero, Discorsi a tavola, Einaudi, Torino 1969. 80 Il passo di Thomas More è dato nella versione italiana di Ortesio Lando, pubblicata a Venezia nel 1594 da parte di Anton Francesco Doni e ripubblicata in Thomas More, Utopia, a cura di Luigi Firpo, UTET, Torino 1971, p. 146.
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ligione», a proposito dell’abbandono nel quale erano spesso lasciati i malati e del distacco da questi degli infermieri «mercenari», scrive: Quanti poveri gravi, per non essergli rifetti i letti, marcivano ne’ vermi e nelle bruttezze! Quanti pitocchi e macilenti, levandosi da letto per alcun bisogno, cascando in terra morivano [...]. Quanti poveri agonizzanti, non ancora finiti di morire, erano da quei giovani mercenari pigliati subito da letti e portati così, mezzo vivi, tra corpi morti per esservi sepolti!81
A parte la drammatizzazione del quadro, da una realtà così raffigurata aveva preso l’avvìo, subentrando al tramonto dell’utopia rivoluzionaria, la riforma dell’assistenza ospedaliera intrapresa nel tardo Cinquecento da Camillo de Lellis (1550-1614), fondatore nel 1582 della «Compagnia delli Servi delli Infermi» (divenuta Ordine religioso nel 1591) e autore degli «Ordini et modi che si hanno da tenere nelli ospitali in servire li poveri infermi». La XXVIII di tali «regole» prescrive al curante «un affetto materno verso il prossimo [e] di servir a tutti gl’Infermi con quell’affetto materno che suol una amorevole madre». La maternità è una modellistica assistenziale che sottende una attitudine curativa naturale. Quella materna, senza espliciti riferimenti alla Madre del Divin Salvatore, è la figura femminile considerata da sempre come modello delle persone ritenute per tradizione dispensatrici di salute. Fra tali persone erano nel Cinquecento in prima fila le donne depositarie per natura e cultura di quella solidarietà intrafamiliare e di vicinato che traeva legittimazione a farsi assistenza curativa proprio dal riferimento alle cure materne: le «comari» si modellavano sulle madri (co-madre, come una madre), le «mam81 Dalla Vita del P. Camillo de Lellis [...] descritta brevemente dal P. Santio Cicatelli, a cura di Pietro Sannazaro, Curia generalizia [dei Padri Camilliani], Roma 1980.
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mane» si modellavano sulle mamme (mamma-ana, pari a una mamma). Camillo de Lellis fece del prototipo assistenziale madre-figlio e madre-bambino un modello di attività-passività nel quale al ruolo passivo dell’infermo corrispondeva il ruolo attivo dell’infermiere. Il mansionario concepito per quest’ultimo fissava le mansioni e funzioni proprie di un curante che aderiva ai bisogni del malato evitando che il negotium (nec otium) dell’impegno solerte facesse posto al suo contrario, al disimpegno dell’otium considerato da Camillo come il peggior male dell’assistenza. Il «regolamento» camilliano è concluso dalle norme da seguire per un buon rapporto collaborativo tra medici e infermieri: «Nel tempo ch’il medico fa la visita, tutti li fratelli si trovino in crocera per i bisogni ch’occorrono in tal tempo»; e il «fratello infermiero corporale [...] la mattina, quando viene il medico, l’informi d’ogni cosa minutamente et di quanto occorso il giorno precedente». Era l’infermiere colui che doveva colmare i vuoti che in ospedale si spalancavano davanti alle aspettative del malato, nell’attesa molto spesso lunga di una visita medica molto spesso affrettata. La riforma dell’assistenza era compiuta «dal basso», da interpreti protagonisti di un nuovo umanesimo: non quello letterario ed elitario dei doctores, dei dotti, ma quello interumano degli indocti, degli umili. Le opere di misericordia corporale ispirate dalla cristiana «religione dei poveri» si laicizzavano nelle attività di assistenza ospedaliera ispirate da umana religiosità82.
82 Per quanto detto in questo paragrafo vedi Giorgio Cosmacini, La grande «reformatione», in Id., La Ca’ Granda dei milanesi. Storia dell’Ospedale Maggiore, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 61-73, e vedi Giorgio Cosmacini, L’infermiere ideale, in Id., Biografia della Ca’ Granda. Uomini e idee dell’Ospedale Maggiore di Milano, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 79-87.
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11. Doveri del medico (e del malato) «Al centro, per così dire, dello sviluppo dell’Umanesimo» sta l’autobiografia di un secolo – il XVI – e di un costume – quello rinascimentale – bene espressa in un libro che, tra l’altro, pone «il problema di una religiosità che si faccia mondana» e che «sublimi, dando loro senso e direzione trascendente ma senza negarne la validità ed efficacia terrena, le aspirazioni a feconde attività terrene dell’uomo». Questo libro problematico ed emblematico di un lungo periodo storico è Il libro del cortegiano di Baldesar Castiglione (1478-1529), pubblicato e ripubblicato a Venezia rispettivamente nel 1528 e nel 1566. È un’opera dove «le humanae litterae sono humanae in vista di un ‘uomo’ concreto e terreno, non astrattamente evasivo», che affronta i «problemi della vita attiva» posti al centro di una «cultura viva, umanistica appunto»83. Il Castiglione «aveva delineato nel suo Cortegiano i contorni ideali della figura sociale e dell’ambito di riferimento centrati sulla grazia» e «aveva individuato i luoghi tipici della creanza d’antico regime»: è «il criterio [...] seguito nel suo Galateo» da monsignor Giovanni della Casa (1503-1556), nunzio apostolico a Venezia (dove introdusse i processi della Santa Romana Inquisizione). Il suo libro Galateo ovvero de’ costumi, pubblicato postumo a Venezia nel 1558, propose una forma del vivere «che coagulò il consenso non solo in Italia ma in tutta Europa, cattolica o riformata che fosse». Tale modus vivendi «venne pure esportato oltre oceano, rimanendo il punto di riferimento sia per tutti quei testi che, pur con denominazioni differenti, lo accolsero aggiustandolo, rielaborandolo, ampliandolo, interpretandolo, sia per chi si interessa oggi del tema della creanza»84. 83 Giulio Preti, curatore del Libro del Cortegiano di Baldesar Castiglione, Einaudi, Torino 1960, pp. VII, X, XV. 84 Inge Botteri, Galateo e galatei. La creanza e l’instituzione della società nella trattatistica tra antico regime e stato liberale, Bulzoni, Roma 1999, pp. 12-13.
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«Grazia», nel solco della tradizione galenica del medicus gratiosus, e «buona creanza», secondo il «codice etico e politico insieme, insegnato nelle scuole, nei seminari, nei collegi degli ordini voluto dalla Controriforma» a riprova del «come anche la Chiesa si fosse riconosciuta in questo modello»85, erano categorie morali o moraleggianti aventi in medicina una genealogia millenaria. Spigolando nelle pagine della trattatistica-manualistica medica medieval-rinascimentale non pochi sono i frammenti sparsi o i brani corposi (tra cui le «cautele scolastiche» riferite nel par. 6 e attribuite ad Arnaldo di Villanova) nei quali gli autori – medici docti o chirurghi non illitterati – danno consigli o dettano regole di comportamento da osservare nell’esercizio professionale86. Di notevole rilevanza – per l’omogeneità della trattazione, la contemporaneità con i libri di Castiglione e della Casa, l’originalità di certi passi – è il Trattato sui doveri del medico e del malato, scritto in lingua latina (Commentarioli duo, alter de medici, alter de aegroti munere) dal «medico della corte reale» di Francia Leonardo Botallo (1519-1588), libro licenziato a Lione il 7 luglio 1565 e ripubblicato a Lipsia nel 1660. Botallo è il chirurgo «astense» o astigiano al cui nome sono legati, nel campo delle scoperte anatomiche, il «forame ovale», tra atrio destro e atrio sinistro del cuore, e il «dotto arterioso», tra arteria polmonare e aorta. Il suo trattato, dedicato «all’illustrissimo ed eccellentissimo principe Giacomo di Savoia», è un testo di deontologia ante litteram movente dall’assunto che l’arte medica «deve essere praticata da un uomo dalla vita integra non solo, ma che parimenti si aggiunga un giudizio ponderato e una condotta scrupolosa»87. Ibid. Cfr. l’elencazione fatta da Giuseppe Pasta, Galateo dei medici, Stamperia del R.I. Monastero di San Salvatore, Pavia 1791. Pasta elenca i nomi di trentasei autori, da Ippocrate in poi, più quelli di cinque commentatori del Giuramento ippocratico. 87 Leonardo Botallo, I doveri del medico e del malato, a cura di Leonardo Carerj e Anita Bogetti Fassone, UTET, Torino 1981, p. 60. 85 86
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Il discorso deontologico parte da una constatazione amara: sebbene l’arte medica «tenda alla salute», tuttavia «coloro che [ne] hanno le redini», cioè i medici, «non hanno questi fini stessi come proprio scopo». Infatti essi ne sono impediti da una soporosa pigrizia o, al contrario, da un’audacia irrazionale o da sordida avidità o da ciò che ne deriva, cioè invidia spregevole e velenosa o ampollosa vanagloria. Lo scarso impegno e la imperizia nel praticare l’arte nascono e sono favorite dall’indolenza; un’audacia incontrollata non tiene conto dei limiti dell’arte; l’avidità tende con prepotenza al denaro, non all’utilità di chi soffre; l’invidioso è pronto a mandare in rovina l’oggetto della sua invidia con mezzi leciti e illeciti; la vanagloria preferisce l’artificioso e l’inutile al vero e all’utile88.
Nel passo si legge una critica veemente sia dell’astensionismo pigro, sia dell’interventismo indiscriminato, tanto più biasimevole quanto più motivato da lucro, dall’insensibilità all’altrui patire, dall’arbitrio nel decidere del bene altrui. Ma la menzione originale e più significativa è quella dei «limiti dell’arte», forse una pre-nozione di tali limiti come confini di un’arte o tecnopratica che non è scienza e tantomeno scienza esatta. Dopo questo esordio critico e amaro – quasi una premessa destruens – Botallo dà inizio alla pars construens parafrasando il primo degli ippocratici Aforismi costituenti il testo sacro dell’arte, il consacrato pane quotidiano dell’artista, la Bibbia perenne del medico: «La vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione è fugace, l’esperienza è fallace, il giudizio è difficile». La parafrasi botalliana, che dà adito anch’essa a spunti originali, è la seguente: L’età dell’uomo scorre velocemente e in più è difficile e incerta, mentre al suo confronto la medicina non ha confini, basata com88
Ivi, p. 59.
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pletamente su congetture e legata ad elementi instabili, soggetti a mutazioni svariate e improvvise. Ne deriva che non si può giungere [...] a una dottrina certa e rigida: l’occasione di agire in base a essa potrà andare rapidamente perduta e lo stesso ragionamento, col quale indaghiamo, valutiamo, scegliamo il tutto, frequentemente è sbagliato. [...] Il medico coscienzioso nulla prescrive di fare prima che il suo intelletto non abbia giudicato utile: se il giudizio è errato, perché non errato sarà il modo di intervenire che ne consegue? Ma tale errore non è di lieve entità, dal momento che prima o poi reca danno all’uomo. Occorre che, se l’artefice non vuole procurare danni al suo paziente, si applichi agli studi in modo da perfezionare la conoscenza dell’arte, ora da rendere più breve il tempo di apprendimento: senza dubbio il primo posto spetta alla logica, subito dopo viene la filosofia89.
Nel passo testé citato, originalissimo e precorritore, oltre a un accenno circa la diversità tra l’aggiornamento (= apprendimento) tecnico-scientifico e l’acculturamento (logico-filosofico), si legge dell’«incerto» procedere della medicina, per sua natura problematica e niente affatto dogmatica, «basata su congetture» e aperta a confutazioni dipendenti da «mutazioni svariate e improvvise». In tale sorta d’insospettata e inattesa anticipazione popperiana90, la elementare deontologia del «non procurare danni al paziente» – primum non nocere – si salda con l’ammissione e presa di coscienza che la medicina è un’arte decisionale, ma che spesso decide in condizioni d’incertezza, e si rinsalda nella proposta al medico di uniformare il suo operato alla metodologia del «giudizio coscienzioso» e a una teoria della conoscenza scientifica consistente nella «logica» applicata alla «filosofia». Ivi, pp. 64-67. Il riferimento è all’opera di Karl Popper, Congetture e confutazioni, trad. it. di Giuliano Pancaldi, Il Mulino, Bologna 1969. Circa l’importanza di una metodologia ed epistemologia medica, Botallo ribadisce che «in ogni cosa bisogna avere un metodo» e che «colui che anche solo in minima parte si intende di filosofia [...] nello stesso tempo conosce anche la medicina» (I doveri, cit., p. 97). 89 90
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Tuttavia, dice Botallo, ciò non basta: Non è sufficiente che il medico [...] si dedichi ai fondamenti dell’arte e viva rettamente: la sua stessa diligenza richiede ben altre qualità oltre a queste, in modo da essere accolto con fiducia e gratitudine dagli ammalati e da chi li assiste. [...] Quando la fiducia che nutre il malato per il medico è grande – e viene dopo quella verso Dio – egli non avrà più paura e gli ubbidirà docile, senza timore, in modo che entrambi raggiungeranno con maggiore facilità il fine desiderato91.
Poi, dal livello teoretico ed etico, il dettato deontologico scende al piano dell’etichetta, ripetitiva di quanto scritto nei cosiddetti «libri etici» del Corpus hippocraticum – De medico, De decentia, De praeceptis, De lege – e nei «commenti» al riguardo dovuti a Galeno. Botallo ripete consigli su quanto di solito influisce sul paziente, cioè il portamento, il modo di parlare, l’aspetto, l’abito, il taglio dei capelli, le unghie, l’odore della persona. È utile che il medico abbia un leggero profumo [...]. È decoroso per il medico avere unghie corte e pulite [...]. La capigliatura deve essere tagliata in modo da non prestarsi a critiche [...]. Un lusso esagerato nel vestire è indice di boria.
È opportuno presentarsi al paziente con «naturalezza», prosegue Botallo, evitando visite troppo frequenti o troppo rade: «Andarlo a visitare troppo spesso, quando la malattia è di poco conto, fa pensare a scarsa esperienza da parte del medico o che questi voglia guadagnare di più [...]. Però la scarsa assiduità in malattie gravi porta a valutazioni uguali o più negative di quelle portate da esagerata assiduità»92. Una attenzione del tutto particolare è riservata al linguaggio: «Non si sarà mai troppo prudenti nel tenere la lingua a freno o scioglierla quando sia necessario. [...] Conviene al 91 92
Botallo, I doveri, cit., p. 74. Ivi, pp. 79-80.
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medico parlare a tempo e luogo [...]. Assolutamente nulla impedisce che uno possa essere nello stesso modo spiritoso e serio». Il tutto si inscrive nella virtù medica fondamentale: «la bontà fine a se stessa». Essa «rifugge da tutti gli eccessi. L’indolenza e la sconsideratezza nell’azione, il nascondere la verità e il mentire, l’essere avido di beni e il disprezzarli, l’essere loquace e taciturno, insomma tutti gli eccessi devono essere evitati da chi eserciti un’arte, e soprattutto la medicina. In realtà la saggezza è una certa medietà, umanità»93. L’umanesimo culturale del medico, ispirato alla «medietà» che Mosè Maimonide ha ripreso dall’etica aristotelica, si rispecchia nella umanologia del suo rapporto di cura: Occorre essere umani verso i bisognosi [...]. Rifiutarsi di curare i malati per cui non vi sia speranza di guarigione non vuol dire evitare in ogni modo la noméa di cattivo medico, anzi talora significa attirarsi la fama di malvagio, soprattutto se te pregano i pazienti o i familiari. È invece mostrare pietà il visitare, confortare, dare una speranza, finché il paziente sia cosciente, e attenuare con farmaci, per quanto possibile, le sofferenze di coloro che siano condannati alla morte o a un male inguaribile94.
Forse nel tentativo di dare simmetria a un rapporto per sé asimmetrico – non solo per la verticalità del medico che visita e l’orizzontalità del paziente che giace – Botallo accenna anche a «trattare delle regole dei malati», che egli paternalisticamente vuole «ubbidienti» e non reticenti, disposti a «esporre i sintomi passati e presenti». «Ma la prima regola sia che il paziente non assuma alcun medicinale, per buono che sia, senza il consiglio del medico»: questa messa in guardia contro l’auto-medicazione non è preclusiva dell’auto-cura, che anzi è raccomandabile. La cura di 93 94
Ivi, pp. 82-83. Ivi, p. 84.
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sé dev’essere attenta a «tutti i fattori da cui di solito le malattie sono provocate»: «il clima, i cibi e bevande, il sonno e la veglia, l’abuso della fatica o del riposo, la stitichezza o la diarrea, [...] la vita passata, qualche cambiamento d’abitudine, una malattia sofferta»95. È il paziente, prima del medico, colui che deve far tesoro della propria anamnesi fisiologica e patologica, onde trarne utili insegnamenti per la propria vita presente e futura. Umanesimo culturale, umanologia del rapporto di cura... E la sacralità del mestiere, nella temperie socioculturale dell’Europa cattolica, riformata, controriformata? Botallo paga pegno in extremis: Ma è ormai tempo di terminare questo libretto, non prima però di aver aggiunto questo: senza dubbio non poco giova alla guarigione la fede in Dio. Nulla più di questa lenisce i dolori dell’animo e le sofferenze del corpo aggravata dal passar del tempo. In Dio, grande e buono, bisogna riporre una fede sincera e invocarlo e pregarlo e implorarlo; e questo facciano sia il medico, perché gli venga dispensato un giusto riconoscimento, sia il malato, perché gli sia dato di riacquistare più facilmente l’agognata salute, e infine tutti i mortali, essendo Egli il creatore di tutte le cose. Questo argomento avrebbe dovuto essere, a buon diritto, al primo posto; l’abbiamo messo all’ultimo perché più a lungo rimanga nel cuore96.
12. Il Lutero dei medici Nello stesso secolo XVII in cui Botallo disegna un’aurorale deontologia del medico moderno, si protende inquietante dalla Mitteleuropa, lumeggiando e ombreggiando in chiaroscuro la coscienza dei medici, la figura sovrumana di un nuovo Prometeo che strappa il fuoco agli dèi. È quella dell’elvetico Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim 95 96
Ivi, pp. 108-18 passim. Ivi, pp. 127-28.
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(1493-1541), che in perfetto stile umanistico ha latinizzato, non senza boria, il proprio nome apparentandolo al romano Celso e lo ha aureolato di gloria anzitempo: Aureolus Paracelsus. Paracelso, studente «oltremontano» laureato a Ferrara nel 1515, è divenuto il medico che, assunto come «fisico municipale» a Basilea, ha subito indossato i panni ruvidi del contestatore e riformatore. «Non è mai ancora uscito un medico dalle università», va dicendo. I dottori non sono altro che «sofisti». Egli si sente un nuovo Socrate, campione di virtù contro i vizi, fermamente deciso ad andare controcorrente, contro l’opinione dei benpensanti, per arrivare alla verità e abbeverarsi alla fonte pura della vera sapienza. Sono gli anni delle profonde trasformazioni intellettuali e morali nei quali oltralpe la critica degli abusi ecclesiastici viene assunta a modello di critica dottrinale del principio di autorità e modellata come forza eversiva del vecchio ordine europeo. In un clima di radicale renovatio mundi, Paracelso è il «supermedico» della Riforma, il grande eresiarca della medicina, il Lutherus medicorum97. Oltreché portare la propria contestazione all’interno della cittadella accademica, attaccando consorterie e potentati, egli scende in piazza. Nel grande falò acceso per la tradizionale Sankt Johannesnacht goliardica del 24 giugno 1527 getta con gesto provocatorio il Canone di Avicenna, dichiarando quest’ultimo decaduto dal rango di maestro. Con voce messianica, esclama: «Io sono stato eletto da Dio a questo fine: estinguere e cancellare tutte le fantasie di complicate e false opere, di orgogliose e pretestuose parole, siano esse le parole di Aristotele, Galeno, Avicenna, o i dogmi dei loro seguaci». 97 Così parlò il Supermedico, scritto paracelsiano allegato al saggio di Charles Webster, Il Lutero della medicina, nel fascicolo Un medico svizzero, in «KOS», III, novembre 1986, 27.
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Gesto ed esclamazione sono emblematici: le supreme auctoritates della medicina, a suo avviso, non servono ad altro che a contrastare l’Experienz, l’esperienza di prima mano dei cercatori di verità. L’autorevolezza dei grandi medici citati è un pretesto che si presta a perpetuare lo stereotipo di un medico saputo e non virtuoso, curante più di se stesso che dei propri malati. Il ritornello di Paracelso è che «l’esperienza [è la] sola madre del conoscere» e che i dottori licenziati dalle università sono «una ciurma bastarda di somari patentati», per di più «intolleranti, quasi che sia un crimine per il malato contraddirli»98. Non seguiamo Paracelso nel suo itinerario di ricerca, che lo porta ad acquisire dati empirici con notevoli ricadute in campo terapeutico, soprattutto grazie al personale metodo «spagirico» (da spào, «estraggo», e agèiro, «raccolgo») che gli consente di trasformare l’alchimia in protochimica e questa in matrice della futura chemioterapia. Non lo seguiamo nel suo viaggiare in Europa, tra corti principesche e villaggi di montagna, tra miniere e sorgenti, in cerca dei metalla e delle acque «minerali». I suoi continui spostamenti danno luogo alla diceria che lo squalifica come «zingaro», come nomade allo sbando di cui la storiografia medica amerà descrivere la vita randagia, l’andare e il venire senza fissa dimora, la diversità così simile a quella dell’«ebreo errante», errabondo e in errore. In realtà il medico piromane di Basilea è forse l’esponente più rappresentativo di quella cinquecentesca rivoluzione anti-intellettualistica99 che porta molti uomini di scienza a esaltare, contro la «falsità» del sapere libresco, la «verità» 98 Vedi il capitolo Il «Lutero dei medici»: Paracelso, in Giorgio Cosmacini, La medicina e la sua storia, Rizzoli, Milano 1989, pp. 59-72. 99 Vedi in proposito Eugenio Battisti, L’antirinascimento, Feltrinelli, Milano 1962, e Hiram Haydn, Il controrinascimento, trad. it. di A. Ballardini, Il Mulino, Bologna 1967.
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dell’esperienza diretta e della tecnica imitativa della natura (come quella dei minatori che «estraggono» e degli agricoltori che «raccolgono»). La sua personale rivoluzione ha inoltre una connotazione etico-sociale assai forte, toccando nel vivo i ranghi della professione e minacciandone i poteri all’interno della società. Il mese e l’anno del falò di Basilea sono lo stesso mese e anno del «sacco di Roma» da parte dei lanzichenecchi luterani, devastatori della città papale che Lutero chiama «Babilonia imporporata». Paracelso è il lanzichenecco sciolto che mette a soqquadro la babilonia della medicina. L’analogia è quasi d’obbligo per chi, come lui, si propone quale assertore della «virtù» come «pilastro» – con alchimia, astronomia, filosofia – della medicina nova Philippi Paracelsi100; soprattutto è d’obbligo per chi, come lui, si propone come capofila dei «veri medici» contro i falsi medici, contro tutti quei corrotti e scellerati buffoni che vendono i loro rimedi sia che funzionino oppure no. Basta che uno sia capace di riempire di soldi la sua borsa per acquistare la fama di essere un buon medico. [...] Il falso medico così viene dicendo a se stesso: se la cosa dovesse mettersi male – ciò che appunto accadrà – tu puoi sempre trovare una scusa, addossando su Dio o sul malato la colpa della tua cialtroneria101.
Sacralizzare pretestuosamente la mancata guarigione, addebitandola all’imperscrutabile volere di Dio, è l’esatto rove100 Anche se Paracelso implicitamente sostenne la novità della propria medicina, questa fu detta esplicitamente medicina nova non da lui, ma dai suoi seguaci e, paradossalmente, dai suoi avversari: nell’anno 1571, a Basilea, ebbero pubblicazione quasi simultanea il paracelsiano De medicina veteri et nova di Johann Guinter von Andernach (Guinterio) e le antiparacelsiane Disputationes di Thomas Lieber (Erasto) confutanti la medicina nova Philippi Paracelsi. 101 Paracelso, Contro i falsi medici. Sette autodifese, a cura di Massimo Luigi Bianchi, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 57 e 60.
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scio del Dieu qui guérit in cui – come s’è visto – confida, negli stessi anni, Ambroise Paré. Il sacro sembra essere una fisarmonica che ciascuno tira e suona a modo suo, a senso e a controsenso, nel bene e nel male. Ciò che conta davvero, per Paracelso, è la virtù dell’uomo. Tra i «quattro pilastri» su cui egli poggia la base del nuovo sapere medico, la virtù non è semplicemente la retta via indicata da Botallo per compiere un cammino sicuro nell’esercizio professionale; non è nemmeno la somma delle virtù cardinali – prudenza, giustizia, fortezza, temperanza – indicate dalla teologia. La virtù paracelsiana è invece una via etico-pratica che assomma tensioni e pulsioni verso il meglio, richiedenti impegno, sacrificio, abnegazione. Di abnegazione Paracelso dà ripetute prove, pur non negando il proprio io, che anzi amplifica da medicus gloriosus qual è. La sua virtù è il pilastro morale che fa da supporto alle norme interiori cui deve uniformarsi il «buon medico», norme diverse e più importanti di quelle esteriori, scritte nei regolamenti di facoltà, collegi, corporazioni, ma troppo spesso disattese. Fare il medico è, prima di tutto, un modo d’essere, non di apparire, corrispondente a una religiosità di cui è giudice non il mondo, ma l’autocoscienza. I detrattori di Paracelso, figgendo i loro strali nei dissacranti modi di lui, lo diranno visionario, empio, blasfemo, reo di lesa maestà della medicina consacrata. Offriranno agli estimatori la possibilità di replicare che la religiosità blasfema ed empia fu in lui tutt’uno con la fede dell’eretico, con la visione del profeta, con la virtù dell’uomo nuovo102.
Su Paracelso vedi le biografie intellettuali di Walter Pagel, Paracelso. Una introduzione alla medicina filosofica nell’età del Rinascimento, trad. it. di Michele Sampaolo, Il Saggiatore, Milano 1989, e di Pirmin Meier, Paracelso, medico e profeta, a cura di Maria Paola Scialdone, Salerno, Roma 2000. 102
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13. Ebraismo etico A Seicento inoltrato – nel complesso panorama ideologico europeo tra postumi ed esiti del riformismo protestante e del controriformismo cattolico o, più in generale, tra nuovi conformismi e anticonformismi e tra nuove ortodossie ed eresie – si profilano in medicina paradigmi etico-pratici che, se per un verso cercano di tener conto senza remore degli acquisti della «rivoluzione scientifica», per altro verso cercano d’inquadrare l’accadere storico – ivi compresi i mutamenti delle scienze medico-naturali – in una Scienza nuova che da Giambattista Vico (1668-1744) sarà compiutamente intesa nel 1725 come storia delle idee, dei costumi e dei fatti del genere umano sotto forma di una «teologia civile ragionata della provvidenza divina»103. Di tale indirizzo teologico-provvidenziale sono interpreti, tra gli altri, alcuni medici ebrei di gran nome, custodi e trasmettitori di un’etica medica ancillare della loro fede religiosa, fortificata dalle molte ostilità dell’ambiente circostante. L’etica appartiene de jure e de facto al mestiere di medico. Già nella Guida dei perplessi di Mosè Maimonide (di cui s’è detto nel par. 5) l’arte medica era vista come un’attività finalizzata a conseguire gli stessi scopi dell’etica: il buono, l’utile, il giusto. Addirittura era vista coincidere con essa più che con i propri fondamenti disciplinari: «Il medico, per essere medico, non avrà da investigare troppo i testi della propria disciplina [...]. Gli stessi scopi si possono ottenere con la filosofia e con l’etica». Non si trattava di subordinare la scienza, che è neutra, all’etica, che invece soppesa i valori. Si trattava piuttosto di non dimenticare che, mentre in campo medico-scientifico potevano avvenire mutamenti radicali al punto da legittimare l’uso del termine «rivoluzione», in campo etico-medico le queGiambattista Vico, La scienza nuova, a cura di Fausto Nicolini, vol. I, Laterza, Bari 1928, p. 6. 103
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stioni da affrontare erano ancora quelle di molti anni prima, quando su di esse si interrogavano i medici leggendo la Bibbia. Alla Bibbia ebraica si richiamano, trecento anni dopo Maimonide, tre medici ebrei che impersonano la figura del christão novo portoghese, analoga a quella del cristiano nuevo spagnolo, l’uno e l’altro migrati dalla natia terra iberica dopo il decreto di espulsione firmato a Granada nel 1492 dai Re Cattolici Ferdinando e Isabella e dopo l’adeguamento alla giudeofobia di costoro da parte dei regnanti del Portogallo. João Rodrigo (1514-1568), noto come Amato Lusitano, dopo una vita di peregrinazioni ad Anversa, Ferrara, Ancona, Roma, Pesaro, Ragusa, Salonicco, lasciò un Giuramento che, più che un testamento personale, voleva essere l’esempio di una moralità da condividere: Giuro su Dio immortale e sui dieci suoi santissimi comandamenti, dati sul Monte Sinai per mezzo di Mosè al popolo liberato dalla servitù egizia, [... che] della mercede che suole offrirsi ai medici mai fu eccessivamente sollecito [...]. Sempre uguali per me sono stati gli uomini di ogni religione, sia ebrei che cristiani o musulmani. Mai ho fatto caso alla posizione elevata del malato e con la stessa diligenza ho curato i poveri e i nati in altissimo loco. Non ho mai provocato malattia e nel far la prognosi ho sempre detto quel che pensavo. Non ho mai dato preferenza ad alcun speziale.
Conclude il Giuramento: «Se ho mancato, sia su di me l’ira di Dio e di Repha-El [Colui che risana], suo ministro, e non mi arrida il successo nell’esercizio dell’arte medica»104. Oltre a esercitare una medicina al di sopra delle differenze sociali e religiose, l’autore del Giuramento si professa immune dalle tre colpe gravi che squalificano il mestiere di meIl Giuramento di Amato Lusitano è riportato da Renzo Toaff, Deontologia dei medici ebrei nei secoli, in Daniel Carpi, Augusto Segre, Renzo Toaff (a cura di), Scritti in memoria di Nathan Cassuto, Kedem-Yad Leyakkirenu, Jerusalem 1986, pp. 218-19. 104
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dico: la iatrogenesi delle malattie, il tacere o mentire la verità al malato, l’inclinare riprovevole al comparaggio sui farmaci. Nella conclusione è detto che il cedere a tali peccati recherebbe la maledizione divina, l’interdizione dalla facoltà di guarire, la perdita dell’autostima e del prestigio e vantaggio sociali. Rodrigo de Castro (1547-1627), migrato dalla natia Lisbona ad Anversa e ad Amburgo, è l’autore di una dissertazione De officiis medici seu medicus politicus (Amburgo 1614) in cui «non solo sono espressi i costumi e le virtù dei buoni medici», ma anche «sono svelate le frodi e le imposture dei cattivi». Il riferimento alla «politica» è inerente al fatto che l’etica medica è vista come un ponte fra l’etica civile e l’etica religiosa, in quanto il medico governa il corpo umano così come il monarca governa lo Stato e come Dio governa il mondo: «Ciò è consono alle parole dell’Ecclesiastico che dice: la medicina è creata da Dio e da essa non rifuggirà l’uomo saggio. Per questo l’opera del medico è necessaria e il medico va per conseguenza onorato»105. Abraham Zacuto (1575-1642), conosciuto come Zacuto Lusitano, migrò anch’egli da Lisbona, dov’era nato, alla volta di Amsterdam, la «Gerusalemme olandese», città faro della sola terra dove nel Seicento veniva osservato il principio della tolleranza verso gli ebrei. Egli è l’autore di una Peroratio preposta agli Opera omnia (Amsterdam 1642) dove scrive: «Non ho lasciato mai passare giorno, come Seneca, senza scrivere un rigo con cui dimostrare il mio amore per la res publica della medicina». Animato da questa intenzione di una «cosa medica pubblica», di tutti, cioè super partes, Zacuto si fa interprete del divino: se da Dio dipende l’ordine del Creato, dal medico dipende la salute delle umane creature. È questo il messaggio lasciato da lui, a futura memoria, a un mondo indifferente o 105
Vedi Ruderman, Giudaismo tra scienza e fede, cit., p. 344.
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ostile che gli fa dire amaramente: «Io sono un ebreo e straniero che è fuggito dal Portogallo e dal mio diletto luogo natìo, sballottato qua e là dalla cattiva sorte e dalle tempeste della vita»106. Un quarto medico ebreo seicentesco che si richiama alla Bibbia è rabbi Yacob Zahalon (1630-1693), che nel trattato Il tesoro della vita (Ozar ha-Hayyim), pubblicato a Venezia nel 1683, descrive in dense pagine la peste di Roma dell’anno 1656 che lo ha visto molto attivo nell’assistenza agli appestati. In altre pagine egli affronta l’antico problema circa la liceità, da parte della medicina, d’intervenire e interferire nel corso di eventi naturali – le malattie – che dipendono dalla volontà divina e che stanno interamente sotto il governo di Dio, sia nel male che nel bene. Zahalon cita Maimonide: Quando un individuo ha fame e prende del cibo per sfamarsi, ciò non vuol dire che per questo abbia perso la fede e non creda più in Dio. Come noi ringraziamo Dio dalle nostre mense perché ci ha dato i mezzi per soddisfare e alleviare la nostra fame, così dobbiamo ringraziarlo per aver dato vita ai farmaci con i quali curarci per poter guarire107.
Dato a Dio quel che è di Dio, Zahalon dà al medico quel che è del medico. Questi, prima di iniziare la sua pratica, si accompagni per lungo tempo a un esperto; quando il paziente è guarito, non prolunghi le sue visite se non v’è necessità; non venda lui stesso i farmaci; non accetti 106 I passi della Peroratio di Zacuto Lusitano sono tratti dalla versione in inglese di Aaron J. Feingold, Marriage of Science and Ethics: Three Jews Physicians of the Renaissance, in Natalia Berger (a cura di), Jews and Medicine: Religion, Culture, Science, The Jewish Publication Society, Philadelphia-Jerusalem 1999, p. 108. 107 Questo passo del Tesoro della vita e quello che segue sono riportati da Harry Friedenwalth, The Jews and Medicine, vol. I, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1944 (rist. Ktav Publishing House, New York-Jerusalem 1967), pp. 271-73.
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onorari dal povero; benché visitando un malato compia un dovere religioso e non sia conveniente che riceva per questo un compenso in denaro, tuttavia [...] tale compenso sia corrisposto in quanto rimunerazione del tempo speso.
Umano, troppo umano, verrebbe da dire tenendo conto delle premesse. Quasi a scontare la divagazione monetaria, Zahalon opera una pronta reimmersione nel sacro concludendo il suo discorso con l’affermazione che il medico deve, almeno una volta alla settimana, farsi l’esame di coscienza e recitare una preghiera. La Preghiera del medico è da lui consegnata ai correligionari tra le Perle preziose (Margalioth Tohoth) pubblicate a Venezia nel 1665: Padrone del mondo, [...] mi hai favorito della Tua grazia e mi hai colmato di onori e dignità col concedermi di conoscere parte seppur esigua della scienza medica. Tu sei il medico e non io, che sono come argilla nelle Tue mani. Se mi consulterà un malato, la cui ora si avvicina per un male senza speranza, sia Tua volontà che non sia io ad avvicinarne la fine neanche un momento solo. Fa’ che [...] fra me e gli altri medici regnino l’affetto, la fraternità, la pace, l’amicizia. Ancora una grazia ti chiedo: conservami la memoria. Sia Tua volontà benedire il mio lavoro e la mercede che mi daranno per la mia fatica. I miei alimenti [...] siano in abbondanza, sì che non debba prendere denaro dai malati poveri. Se mi onorerà la gente per la mia scienza, fa’ che non si raggiunga il piede della superbia. Affina i miei sensi. Rafforza nel malato la capacità di parlare. Aiutami a comprendere dalle sue parole e dai sintomi la causa vera della malattia108.
L’insistenza con cui Yacob Zahalon batte e ribatte il chiodo di un’etica medica radicata nel sacro è certamente legata al suo essere un medico-rabbino, come molti nel mondo ebraico. Tuttavia c’è da ribadire la già prospettata ipotesi che I passi della Preghiera del medico sono riportati da Toaff, Deontologia dei medici ebrei, cit., pp. 221-25. 108
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la peste – nel caso di Zahalon quella di Roma del 1656 – fosse sopraggiunta a mettere nuovamente in crisi d’insipienza e d’impotenza una medicina che si presentava dotata di una maggiore scientificità rispetto a tre secoli prima, ma che vedeva i suoi rappresentanti ancora esautorati da ogni capacità di tutela e di guarigione. Il fallimento antiepidemico della medicina seicentesca, proprio nella fase del suo primo dirsi «scientifica», si ribaltava nel riaffermarsi del sacro come unica base di ripartenza affidabile. Yacob Zahalon è il medico che, nella crisi di una professione derisa da Molière e criticata da molti fra i medici stessi, interpreta fedelmente il ritorno a una sacralità tutelare accreditata di maggiori garanzie rispetto a quelle fornite dalla scienza. Quel che conta veramente, per lui, è che il medico segua l’esempio di Dio: «Portare conforto ai malati è un precetto importante [...]; il Signore stesso ha reso visita ad Abramo convalescente (Genesi, 18,1): l’individuo deve dunque seguire l’esempio divino»109. 14. «Religio medici» Precede di ventitré anni la preghiera di Zahalon un opuscolo, Religio medici (Londra 1642), scritto da Thomas Browne (1605-1682), medico londinese ritiratosi in campagna e dedicatosi a una vita schiva in uno sperduto paesello dello Yorkshire. L’anno della pubblicazione è quello in cui gli yeomen inglesi si mutano in ironsides militanti sotto le insegne del Parlamento per abbattere la Old England, monarchica, anglicana, feudale, e instaurare la New England, repubblicana, puritana, borghese. Il tempo è quello della vigilia delle giornate campali che vedono l’esercito di Oliver Crom109 Vedi la voce Malati, visita dei, nel dizionario Ebraismo, di Dan CohnSherbock, trad. it. a cura di Elena Loewenthal, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, p. 348.
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well trionfare a Marston Moore, nel luglio 1644, e a Naseby, nel giugno 1645. Di Browne, lettore a Oxford e nel 1665 membro onorario del Royal College of Physicians (dopo la restaurazione sul trono degli Stuart), «una biografia – quella del dr. Samuel Johnson – racconta che a settantacinque anni [nel 1680] venne sequestrato da un cattolico che, dopo averlo torturato, lo uccise»110. Nel campo della medicina l’opuscolo di Browne precede di una decina o ventina d’anni le grandi opere scientifiche pubblicate a Londra intorno alla metà del Seicento: l’Anatomia hepatis (1654) di Francis Glisson, la Cerebri anatome (1664) di Thomas Willis, la Methodus curandi febres (1668) di Thomas Sydenham, il trattato De corde (1668) di Richard Lower. Tutta questa pubblicistica – sull’anatomo-fisiologia del fegato, del cervello, del cuore e sulla metodologia del trattamento delle febbri – fu per le conoscenze mediche altrettanto rivoluzionaria quanto lo fu in politica l’azione di Cromwell. La religio di Browne anticipa cronologicamente la «rivoluzione scientifica» londinese. L’autore aveva iniziato poco più che trentenne la stesura del suo opuscolo, dopo aver studiato nelle più celebri università d’Europa: Montpellier, Padova, Leida. Aveva assimilato a Montpellier gli stimoli emergenti in una Linguadoca uscita da poco dalle guerre di religione, a Padova quelli provocati dalla condanna di Galileo da parte del Sant’Uffizio, a Leida quelli di un popolo in lotta per liberarsi dal giogo spagnolo e dare avvio alla grande «civiltà olandese del Seicento»111. La laurea di Browne a Oxford era giunta dopo sofferta esperienza e intensa meditazione: l’arte-scienza del neolaureato si era misurata a lungo con una religio in grado di ren-
Botteri, Galateo e galatei, cit., p. 275n. Johan Huizinga, La civiltà olandese del Seicento, trad. it. di Piero Bernardini Marzollo, Antonio Rotondò, Anna Omodeo, Einaudi, Torino 1967. 110 111
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dere il futuro medico, oltreché dotto ed esperto come assicurato dai suoi studi, soprattutto tollerante, disponibile, affabile e saggio. Religio medici: «religione» di un medico o «religiosità» del medico? Un antico aforisma, più che mai di moda nel secolo barocco del libertinage érudit, recita che ubi tres medici, duo sunt athei. L’aforisma non è tanto falso, quanto improprio: Browne respinge l’accusa di ateismo rivolta ai medici. Scrive: «Quella dottrina di Epicuro, che negava la Provvidenza di Dio, non era Ateismo, ma un concetto magnifico ed esaltato della Sua Maestà, ch’egli stimava troppo sublime per por mente alle azioni insignificanti delle creature inferiori»112. Nel professare il proprio naturalismo di stampo epicureo – democriteo, atomistico – accreditato dalla nuova iatrofisica, il medico uniforma inconsapevolmente la propria arte a quella divina, perché, scrive ancora, «la Natura è l’Arte di Dio»113. D’altronde Galileo Galilei aveva detto nella sua opera Il Saggiatore (Roma 1623) che «la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi – io dico l’universo –, ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica»114. Colui che l’ha scritto in tale lingua è Dio stesso: Browne precisa che «Iddio è come un abile Geometra»115. La filosofia del medico, quella corpuscolare della fisica epicurea che sta alla base dei «semi di pestilenza» dei medici contagionisti e alla base dei «minimi quanti» di materia dei medici meccanicisti (iatromeccanici), non può essere tacciata di irreligiosità. Thomas Browne, Religio medici, a cura di Attilio Brilli, trad. it. di Renzo Piccoli, Sellerio, Palermo 1988, p. 43. 113 Ivi, p. 38. 114 Galileo Galilei, Il Saggiatore, a cura di Libero Sosio, Feltrinelli, Milano 1965, p. 38. 115 Browne, Religio medici, cit., p. 37. 112
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Tutt’al contrario, la religiosità è virtù propria del medico, quella che lo avvicina al paziente, che gli consente di assimilarsi a lui come uomo, che lo fa capace non solo di conoscere la malattia, ma anche e soprattutto di comprendere il malato. La religiosità gli permette di com-patire, di patire insieme, di capire la morte, le calamità, l’infelicità. Scrive Browne: «Dimentica di poter morire colui che si lagna dell’infelicità; noi non siamo in potere d’alcuna calamità finché la morte è in poter nostro»116. Dalla religiosità trae ispirazione l’atteggiamento del medico che non si augura i mali altrui per trarne vantaggi e potere: Io non sento in me quei desideri sordidi e non cristiani della mia professione; io non imploro segretamente e non m’auguro la pestilenza, non mi rallegro per la carestia, non sfoglio effemeridi e almanacchi in aspettazione di maligni aspetti, fatali congiunzioni ed eclissi; io non mi rallegro delle primavere insalubri, né degli inverni fuor di stagione117.
Di questi colleghi irreligiosi, non cristiani, dirà, una sessantina d’anni dopo, Bernardino Ramazzini (1633-1714), rilevando che in tempi di pestilenza essi «tornano a casa ben carichi di denaro» e in perfetto «buon umore: ‘Io ho osservato che i medici non stanno mai tanto male quando nessuno sta male’»118. Browne approfondisce il tema della propria meditazione: Ch’io stesso sia malato, se qualche volta la malattia del mio paziente non è un morbo per me; io desidero piuttosto di curare le sue infermità, che non le mie proprie necessità; dove io non gli fo alcun bene, mi sembra che a mala pena sia un guadagno onesto; Ivi, p. 70. Ivi, p. 102. 118 Bernardino Ramazzini, Le malattie dei lavoratori, a cura di Francesco Carnevale, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1982, p. 192. 116 117
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benché io confessi non essere se non il degno guadagno dei nostri sforzi ben intenzionati. [...] Io non solo mi vergogno, ma cordialmente mi dolgo che, oltre alla morte, vi siano morbi incurabili, eppure non per me stesso, o perché essi sono di là dalla mia arte, ma per la causa e l’amore dell’umanità in genere, la cui comune causa io sento come mia propria119.
Infine, in un clima di grandi intolleranze ideologiche e politiche, Browne traccia un «elogio della tolleranza» che risuona intimamente «nel cerchio labile eppure armonico di un’anima» di medico religiosa come la sua120. Scrive: «Io non ho alcun genio per le dispute di religione. [...] Non sono mai stato capace di accettare l’idea che una divergenza di opinioni potesse dividermi da un altro uomo»121. Religiosità della medicina, spirito di tolleranza universale. Terzo e non meno importante motivo ispiratore dell’opuscolo di Browne è il tentativo di accordare scienza e fede per il tramite della religiosità di cui il medico è portatore. Mentre il filosofo Francis Bacon, Bacone, suo compatriota coevo, esalta la scienza in un’età dominata dalla fede, Browne esalta la religiosità in un’età che incomincia a essere dominata dalla scienza. Per lui, il sapere per via di ragione, scientifico, tecnico, è la prima avvisaglia di un sapere settoriale, a cui corrisponderà, prima o poi, una immagine frammentata dell’uomo e del mondo. Ma lo stesso sapere, quando sia intinto o intriso di religiosità antropologica – humanior, atta a rendere «l’uomo più uomo» – è invece un sapere globale, dove tutto si tiene o può tenersi e dove l’uomo, pur strutturato nei suoi vari livelli di vita – fisica, biologica, psichica, sociale, spirituale –, è tuttavia sempre in grado di serbarsi integro, come un tutto indivisibiBrowne, Religio medici, cit., pp. 102-103. Attilio Brilli, Elogio della tolleranza, premessa del curatore a Browne, Religio medici, cit., p. 14. 121 Brilli, Elogio della tolleranza, cit., pp. 12-13, e Browne, Religio medici, cit., p. 25. 119 120
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le, come persona. Scrive Browne: «Perché dapprima noi siamo una rozza massa [...], poi viviamo la vita delle piante, la vita degli uomini e, da ultimo, la vita degli spiriti»122. Religio, ergo, quid est? La religiosità è una qualità fondamentale dell’essere medico, una vocazione silente o un’attitudine conclamata (proprio nel senso della «chiamata» religiosa). Oppure è uno stato di grazia o una precondizione congenita, in taluni privilegiati, oppure una condizione acquisita, conquistata, a seconda dei casi, attraverso un incedere spedito o un procedere faticoso. È comunque il punto di partenza e di arrivo di un itinerario circolare perfetto, di un percorso che può trasformarsi in rimorso, nel rimorso di chi non lo compie, sottraendosi al proprio compito etico. Il viaggio tra le «cose morali» (tà ethikà) è una navigazione che ha il significato «cibernetico» (kibernetiké) dell’«arte» (tèchne) ippocratica, pilotata dal «buon medico» (iatròs agathòs) verso l’approdo. Non ha il significato «tecnologico» della navigazione computerizzata: «dietro il computer ci dev’essere sempre Ippocrate»123. In caso contrario la navigazione, anziché verso il porto sicuro, porta a un’isola che non c’è, a un sito nullius rei popolato da laureati in medicina che non sono medici e da medici che non sono curanti. I medici non-curanti sono una specie che prospera dove fa difetto, o manca del tutto, l’indispensabile religio medici. 15. Desacralizzare il sangue Nella cronologia bibliografica della medicina seicentesca il citato trattato De corde di Richard Lower (1631-1691) segue di quarant’anni il trattato De motu cordis et sanguinis in Browne, Religio medici, cit., p. 59. Dall’intervista a Umberto Veronesi e Giorgio Cosmacini, in «Medicina, Salute, Benessere», numero monografico di «Telèma», III, 1997, pp. 711. 122 123
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animalibus, edito a Francoforte nel 1628 e dovuto a un altro, più famoso medico inglese, William Harvey (1578-1657), fondatore della moderna fisiologia cardiocircolatoria. Assai meno noto di Harvey e anche di Lower è il medico e teologo aragonese Miguel Servet (1511-1553), Serveto, autore dell’opera Christianismi restitutio, pubblicata, settantacinque anni prima del trattato harveyano, a Vienne nel 1553, sotto lo pseudonimo di Villanovano. L’accostamento tra le due opere non è arbitrario. Serveto era un teologo eterodosso: la sua eresia antitrinitaria lo aveva spinto finanche a rifiutare, come medico, la tripartizione galenica dell’organismo – fegato, cuore, cervello – e la conseguente dottrina fisiologica dei tre spiriti – naturale, vitale, animale. La connessione dei tre livelli di spiritualità organica con una fonte spirituale comune e unica, che in base alla servetiana interpretazione letterale della Bibbia era il sangue, aveva spinto Serveto a enunciare la circolazione del sangue nei polmoni (sperimentalmente confermata da Matteo Realdo Colombo nel 1559) con la fermezza della fede più che con la certezza della ragione. Per tale eresia antitrinitaria Serveto aveva perso la vita, arso sul rogo nella calvinista Ginevra. Harvey, di suo, aveva naturalizzato l’idea del moto circolare, applicandola al movimento del sangue. Per lui, il moto circolare non era riservato appannaggio della soprannatura, delle sfere concentriche dell’etere, delle anime motrici dei pianeti; era invece un moto pertinente anche alla natura, organizzata da un unico sovrano principio, tanto cosmologico – il sole, cuore del macrocosmo – quanto antropologico – il cuore, sole del microcosmo. Una unitaria astrobiologia governava, nella visione harveyana, sia i corpi dell’universo con i loro moti orbitari (descritti da Niccolò Copernico nel De revolutionibus orbium coelestium, Norimberga 1543), sia l’universo del corpo con il suo moto cardiocircolatorio propellente il sangue in tutto l’organismo. Questa visione era tutt’uno con la sperimentazione e con il calcolo matematico, come
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risulta dall’opera fondativa della fisiologia del «moto del cuore e del sangue». Il sangue era visto, per antica tradizione, come l’umore vitale per eccellenza, veicolante il «calore innato» e l’«umidità radicale», qualità elementari primarie – il caldo e l’umido – della materia vivente. La controprova della sua vitalità era data dal fatto che l’umore dotato delle qualità elementari opposte – il freddo e il secco – era l’atrabile, l’umor nero, responsabile della melanconia, del risecchirsi proprio della vecchiaia, della frigidità propria della morte cadaverica. Il sangue, nella visione antitrinitaria di Serveto, era la fonte spirituale unitaria, l’anima della vita resa pura dalla circolazione nei polmoni, dove «l’inspirazione la mescola con l’aria e l’espirazione la purga dalle fuliggini». Questo sangue vitale, purificato dal pneuma, aveva un referente biblico. Recita il Genesi (2, 7): «Allora il Signore Iddio formò l’uomo dalla polvere della terra e alitò nelle sue narici un soffio vitale, e l’uomo divenne persona vivente». L’uomo è caratterizzato in tal modo da due opposte entità: il suo essere vivente, animato e sanguificato dal soffio divino che lo ha reso puro, e il suo essere mortale, destinato a ritornare polvere della terra nell’impurità del cadavere. Tutto ciò che è impuro sposta l’uomo verso questa seconda polarità; e il sangue versato è impuro perché ha perso la vitalità trasmessagli da Dio. Nel Levitico (15, 2-3) è detto che quando una donna «colerà sangue dalla sua carne, rimarrà nella sua impurità per sette giorni»124. Da questo complesso di interrelazioni deriva un sillogismo stringente: la fuoriuscita di sangue dall’organismo è una diminuzione della vita; tale diminuzione equivale al venir meno del divino soffio animatore; questo soffio è preservato integro nel sangue non versato. Corollario è che il sangue nel suo moto vitale, com’è veicolo di animazione, così è vettore Vedi in proposito Samuel S. Kottek, Blood in Ancient Jewish Culture, in «Medicina nei Secoli», 17, 2005, 3, pp. 627-49. 124
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di sacralità e di purezza: in Ippocrate sta scritto che «il sangue non è tale solo di nome, esso deve colare rosso e puro»125. L’antica idea della sacralità del sangue, correlata alla purezza, aveva avuto un travisamento nell’«idea del tutto nuova» della limpieza de sangre, una purezza di sangue «di sapore decisamente razzista»126 venuta a permeare di fremiti e impulsi antigiudaici l’Inquisizione spagnola e che nel 1492 aveva contribuito a far partorire il mostruoso decreto di espulsione dalla penisola iberica di tutti gli ebrei, ivi compresi i medici (tra cui quelli menzionati nel par. 13). Nello stesso anno 1492 l’idea della vitalità trasmessa al sangue da Dio era stata però utilizzata da un medico ebreo investito delle funzioni di archiatra pontificio. Scrive Pasquale Villari nella sua Vita di Girolamo Savonarola (Firenze 1859): Le forze vitali di papa Innocenzo VIII svanivano rapidamente. Si cercava invano ogni mezzo per ridestare la spenta vitalità del papa, quando un medico ebreo [Maestro Ventura Bonihominis?] propose di tentare un nuovo strumento, la trasfusione del sangue: cosa tentata fino allora soltanto negli animali. Il sangue del decrepito pontefice doveva passare tutto nelle vene di un giovane che doveva cedergli il suo. Tre volte fu tentata la difficile prova, nella quale, senza alcun giovamento del papa, tre giovinetti perdettero successivamente la vita, forse a cagione di aria introdottasi nelle loro vene. Il giorno 25 aprile 1492 cessava di vivere Innocenzo VIII.
Osserva al riguardo A. Matthew Gottlieb: «Detta e ridetta un cospicuo numero di volte, questa storia è diventata un classico», un topos obbligato, «della storia della trasfusione»127. 125 La citazione, dal De morbis (II, 5), è tratta da Luciana Rita Angeletti, Francesca Romana Romani, Il sangue come segno clinico nel «Corpus hippocraticum», ivi, p. 557. 126 Anna Foa, Ebrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 118. 127 A. Matthew Gottlieb, History of the First Blood Transfusion but a Fable Agreed Upon: The Transfusion of Blood to a Pope, in «Transfusion
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Storia della trasfusione come storia della desacralizzazione del sangue? Si tratta di «una storia avventurosa che può insegnare molto e dar molto da riflettere», ha scritto in premessa della propria tesi di dottorato (Modena 1874) Enrico Morselli, che quindici anni più tardi sarebbe diventato professore di psichiatria e neuropatologia nell’Università di Genova, fondatore della «Rivista di filosofia scientifica» e autore del Trattato di antropologia generale. «È pressoché certo che l’idea della trasfusione di sangue era in qualche modo balenata ai Greci e ai Romani [...]. L’infondere forza, energia, voluttà in chi ha soltanto la reminiscenza del passato è sempre stata, in ogni tempo, l’aspirazione più sentita, l’illusione più caldeggiata, il desiderio perpetuo di una perenne gioventù»128. La credenza che il sangue fosse l’umore perfetto risaliva alla teoria emocentrica di Empedocle, l’antico filosofo e mago agrigentino per il quale il sangue era addirittura il noéma dell’uomo, cioè il suo «pensiero». Quanto all’eterno sogno di ringiovanimento dei vecchi mediante il ricambio del loro sangue senile, Ovidio ne parla nelle «Metamorfosi», dove Medea esorta le figlie di un vecchio malato con queste parole: Di che dubitate? Prendete il coltello, svenate il paziente, di giovane sangue riempite le vene.
Milleseicento anni dopo Ovidio, Bacone, nella propria utopia della New Atlantis (Londra 1627), dà credito alla prospettiva avveniristica di ritardare l’arresto della macchina Medicine Review», V, 1991, 3, p. 231. Una esaustiva storia della trasfusione è quella ripercorsa da Paola Frati, Gianluca Montanari Vergallo, Natale Mario Di Luca, La trasfusione di sangue: storia, etica e diritto, in «Medicina nei Secoli», 17, 2005, 3, pp. 769-802. 128 Vedi Giorgio Cosmacini, Il sangue: farmaco dei farmaci, in «Brevi dall’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano», 1993, 1, pp. 22-23.
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umana mediante un ricambio del sangue che alimenta la macchina. I baconiani della londinese Royal Society, formalmente costituitasi nel 1662 dopo la restaurazione monarchica, preconizzarono i benefici che in futuro sarebbero potuti derivare all’uomo dalla sostituzione dei suoi organi avariati con organi sani e dalla sostituzione dei suoi vecchi umori guasti con umori giovani e freschi. In un rendiconto degli esperimenti fisiologici compiuti sotto l’egida societaria è detto di un certo mister Gayant che «trasfuse il sangue di un cane giovane nelle vene di un cane vecchio, il quale due ore più tardi saltava e faceva capriole, mentre prima riusciva appena a muovere la coda»129. Il primo a eseguire con intento medico-scientifico la trasfusione di sangue animale fu il già menzionato Richard Lower. Egli è il «molto abile anatomista» tra i «fisiologi di Oxford»130 che nel 1666, in un rapporto alla Royal Society, dà conto di un esperimento da lui compiuto per mettere allo scoperto e collegare fra loro l’arteria carotide dell’animale donatore e la vena giugulare dell’animale ricevente. Ma il primo a praticare la trasfusione di sangue nell’uomo fu il medico francese Jean-Baptiste Denys (1620-1704), che il 15 giugno 1667 trasfuse tre once di sangue d’agnello a un garzone che – scrive egli stesso nel suo compte-rendu: era stato da madre natura ottimamente dotato, [ma che] dopo che fu affetto da una febbre ostinata per oltre due mesi, aveva perduto quasi completamente il senno, [...] oppresso da un incombente sopore. Si pensò che tale sopore fosse l’effetto originato dalla poca quantità ch’egli aveva di sangue, la poca rimastagli dopo l’ebollizione febbrile. Si pensò quindi di poterlo risanare trasfondendogli
129 La futurologia umoralista, che puntava sul ricambio degli umori, si è realizzata con l’emodialisi; la futurologia organicista, che puntava sul ricambio degli organi, si è realizzata con i trapianti d’organo. 130 Robert G. jr. Frank, Harvey e i fisiologi di Oxford, trad. it. di Davide Panzieri, Il Mulino, Bologna 1983.
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del sangue nuovo. [...] Il malato si mostrò subito molto più ilare e senza più alcun desiderio di continuare a dormire131.
Uno stimolante, tanto fortunato quanto fortuito, ematoshock salutare? L’esito apparentemente fausto non poté non favorire l’introduzione, prematura e pericolosa, dell’emotrasfusione in campo terapeutico. Lo stesso anno 1667 vide effettuarsi la trasfusione di sangue nell’uomo in Inghilterra, in Germania, in Italia. A Roma la praticò più volte il medico Paolo Manfredi, il quale, avvalendosi della collaborazione del chirurgo-barbiere Bartolomeo Simoncelli, «diede luogo a pubblici esperimenti nella casa sua sulla operazione del sangue da individuo a individuo et in bruti et in huomini»132. Per gli «inconvenienti gravi», addebitati da Morselli alla «formazione di coaguli nel sangue» e alla «penetrazione di aria nelle vene», ma addebitabili soprattutto alle incompatibilità gruppali messe a fuoco soltanto nel Novecento grazie alla scoperta dei gruppi sanguigni, l’emotrasfusione venne, sempre al dire di Morselli, «vergognosamente misconosciuta da coloro stessi che col loro entusiasmo ne avevano più affrettata la ruìna, [...] sopraccarica dei delitti di lesa fisiopatologia». L’emotrasfusione venne abbandonata anche perché fu ritenuta colpevole di lesa teologia in quanto profanatrice della sacralità del sangue. La morte di chi riceveva sangue versato era la punizione divina inferta a chi aveva recepito sangue impuro, inanimato e antivitale. La fatale complicanza della «operazione del sangue in huomini» era vista come l’ovvia conseguenza di una colpa dissacrante. Ma le stesse campane di condanna dell’empia operazione 131 Vedi Giorgio Cosmacini, Trasfusione stimolante e salasso anti-stress, in «Brevi dall’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano», 1993, 3, p. 93. 132 Vedi Id., Trecento anni di storia: dalla prima trasfusione di sangue (1667) al primo trapianto di cuore (1967), in «Cardiologia», 43, 1998, 12, p. 1384.
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profanatrice, dopo la novecentesca introduzione in terapia dell’emotrasfusione «salvavita», suoneranno a festa nel celebrare il salvataggio emotrasfusionale della vita umana come un atto avente un fine sacro e nel vantare la donazione di sangue da uomo a uomo come un gesto di solidarietà interumana ad alto tasso di religiosità. L’ostracismo all’emotrasfusione resterà confinato nella fede dei testimoni di Geova. 16. Crisi di coscienza Nella giuntura storica tra XVII e XVIII secolo la «crisi della coscienza europea», elaborata dalla storiografia delle idee133, fu anche, da un lato, una crisi di crescenza dovuta agli sviluppi della nuova scienza sperimentale operati da tutta una schiera di homines novi e, d’altro lato, una crisi di coscienza dovuta ai travagli sofferti da molti di costoro a causa di ideologie d’antico stampo in contrasto con tali sviluppi. In campo medico, i «novatori» trovarono il terreno impantanato nella «cattiva reputazione in cui era precipitata la medicina nella seconda metà del Seicento»134, semisecolo corrispondente a quell’«epoca di transizione fra galenismo e medicina moderna»135 nella quale si verificò una vera e propria crisi della coscienza medica, impaludata in comportamenti professionali più moralisticamente «etichettati» che moralmente autentici e tuttavia impegnata a districarsi da tale palude per ricercare fondamenta etiche stabili e salde. Un esempio di tale duplice «crisi» è reperibile in Italia, nell’ambito napoletano. Qui, il terreno «dove si combatté una più intensa lotta fu nel campo della medicina, ove il con133 Vedi Paul Hazard, La crisi della coscienza europea, a cura di Paolo Serini, Einaudi, Torino 1946. 134 Carlo Maria Cipolla, Public Health and Medical Profession in the Renaissance, Cambridge University Press, Cambridge 1976, p. 86. 135 De Renzi, Storia della medicina in Italia, cit., tomo IV, p. 544.
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trasto fra il nuovo e l’antico era più stridente e non rendeva possibile transazione alcuna»136. Materia del contendere era la «medica novità» della chimica, disciplina che faceva seguito alla fisica moderna nel proporsi come scienza di base della «nuova medicina». Contemporanea alla iatrofisica di scuola galileiana, la iatrochimica, evoluta dall’alchimia «spagirica» di Paracelso alla protochimica medica dei paracelsiani, trovò nel medico campano Leonardo Di Capua (1617-1695) il sostenitore della tesi, da lui espressa nel Parere sull’incertezza della medicina (Napoli 1681), secondo cui quest’ultima, per riscattarsi da secolare «incertezza», dopo essersi arricchita con l’anatomia di Vesalio e la fisiologia di Harvey, doveva aggiornarsi con la chimica di Jan Baptiste Van Helmont (1579-1644). Ma la chimica suscitava una fiera opposizione da parte dei medici tradizionalisti, irretiti nella dottrina galenica e nel sapere scolastico; l’ostracismo di costoro, avallato dalle gerarchie universitarie ed ecclesiastiche, dipendeva dal fatto, visto come misfatto, che la chimica si basava su di una inaccettabile «filosofia corpuscolare» che materializzava lo «spirito», riducendolo a sublimazione della «materia», e che si richiamava all’atomismo materialistico della fisica di Epicuro, la cui etica era considerata fomite d’irreligione e di ateismo. Insomma, la chimica era ritenuta una scienza eretica, dissacrante il sapere e il mestiere di medico. Per questo il protomedico partenopeo Carlo Pignataro, capofila dei medici galenisti, non esitò a chiedere, dei testi che la insegnavano e divulgavano, «la proibizione, la confisca e infine il rogo»137. La reazione di chi, come Di Capua, sosteneva le buone ragioni della chimica quale disciplina scientifica moderna eti136 Nino Cortese, Il governo spagnolo e lo Studio di Napoli, nella silloge Cultura e politica a Napoli dal Cinquecento al Settecento, ESI, Napoli 1965, p. 103. 137 Vedi Maurizio Torrini, Una polemica scientifica (1684-1711), Olschki, Firenze 1979, p. 154.
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camente neutrale non poté esimersi dal bersagliare di critiche l’arroccarsi dei tradizionalisti nel chiuso delle dottrine, ch’era tutt’uno col sacro recinto dei privilegi e dei pregiudizi. Contro la loro arretratezza, alleata a una sacralità pretestuosa, si mosse tra gli altri il medico cosentino Tommaso Cornelio (1614-1684), fondatore in Napoli, con altri, dell’Accademia degli Investiganti promotrice dell’«investigazione» scientifica. Appuntando la sua penna contro i medici ostili alla ricerca e alla libertà della scienza, egli scrive che essi, come «trascurano l’aggiornamento e lo studio», così «cercano con l’inganno e con l’astuzia la gloria e la pubblica fama; e quanto più mancano di nozioni e di buona arte, tanto più cercano di supplirvi con bei modi e affettazioni di gran senno». Cornelio, con tratti degni di Molière, li vede «incedere a capo chino, curare i capelli, coltivare la barba, atteggiare il volto a gravità e severità, profferire in ogni occasione e in ogni sermone aforismi e sentenze con gran varietà di parole o altre cose di quel genere che spande gran sapienza agli occhi delle donnicciole e del popolino»138. Accanto a Cornelio, nel filone storico di questa iatrocritica139, si pongono, nella seconda metà del Seicento e nel primo Settecento, altri medici responsabilmente atteggiati a censori di una medicina che, sotto la facciata del perbenismo ipocrita e dell’agire faccendiero, è moralmente scadente e scientificamente scaduta. Il lombardo Raffaello Carrara (16011676) stigmatizza Le confusioni de’ medici (Milano 1652) coprendo di sarcasmo e d’invettive l’insipienza, la supponenza, 138 La prosa di Tommaso Cornelio è riportata da Alfonso Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, Gamberini e Parmeggiani, Bologna 1865-94, vol. II, rist. Forni, Bologna 1972-73, p. 209. 139 Il filone storico di critica della medicina va da Catone il Censore a Ivan Illich (Nemesi medica, Mondadori, Milano 1977) passando per molti altri esponenti tra cui Francesco Petrarca e Jean-Baptiste Poquelin, in arte Molière. Il filone qui considerato è peraltro quello svolto non da critici esterni, ma da medici viventi dall’interno la crisi del proprio mestiere.
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l’esosità e le ciarle di tanti suoi colleghi. La «crisi di coscienza» assume in lui le fattezze di una vera iatrofobia, di un dileggio del proprio mestiere allo sbando. Con parole di fuoco, sferza «i medicastri del nostro tempo, i quali, in doi anni a pena imparati quattro termini di logica, mandato a memoria a guisa di pappagalli quella cantilena che si recita nella fontione di dottorato, si mettono a esercitare l’arte medica»140. Nello stesso filone «iatrocritico» e/o «iatrofobico», che mette a nudo i nessi (esistenti in ogni tempo, talvolta bene identificabili, talaltra male riconoscibili) tra ciarlataneria e medicina141, si collocano nello stesso periodo storico, scritti medici quali l’Antimedicina (Bergamo 1654) di Leonardo Agosti, la Medicina posta all’esame del tribunale della verità (Brescia 1693) di Francesco Ferdinando Ragazzini, l’Abuso de’ medici nel medicare gli absenti infermi (Milano 1694) di Fabrizio Paravicino, il quale copre di biasimo l’invalsa consuetudine di visitare e curare i pazienti per corrispondenza. Nell’arco cronologico considerato, il filone mette capo al Mondo ingannato da falsi medici, scritto dal medico veronese Giuseppe Gazola (1661-1715) e pubblicato postumo «in Praga e in Trento» nel 1716. Scrive Gazola che ormai «fare il medico» vuol dire «sapere a memoria quattro Aforismi d’Ippocrate e una dozzina di passi di Galieno, [...] essendo Galieno come una gran zucca – tamquam cucurbita magna – [dove] si convertono in catarri, flemme, pituite, flussioni» i mali da «battezzare con un nome che abbia un poco del Greco e dell’Arabo»142. Il lessico gabbamondo bollato da Gazola, che si dice «aletofilo» o amico della verità, è quello stesso che il filosofo Nicolas de Malebranche, in coerenza con la propria Recherche 140 Raffaello Carrara, Le confusioni de’ medici, per Giovan Pietro Cardi in Milano 1652, ante p. 1. 141 Vedi Giorgio Cosmacini, Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, ciarle, Raffaello Cortina, Milano 1998. 142 Il passo di Giuseppe Gazola è riportato ivi, pp. 96-97.
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de la vérité pubblicata nel 1675, ha indicato come uno dei peccati mortali inerenti alla falsità della medicina: «Se i medici citano passi greci e latini servendosi di termini nuovi e fuori dal comune, per quelli che li ascoltano si tratta di grandi uomini. Si dà loro diritto di vita e di morte, si crede loro come ad oracoli»143. La stagione degli oracoli è finita, non è più il tempo di attenersi alla loro sacralità. Gazola dice esser «meglio valersi de’ medici moderni» che «de’ galienisti» e il medico romano Domenico Gagliardi dà alle stampe un libro perché addirittura venga L’infermo istruito nella scuola del disinganno (Roma 1719-20). L’inganno è quello di una medicina «deturpata da quei difetti che deploriamo anche ne’ giorni nostri»144.
Nicolas de Malebranche, La ricerca della verità, trad. it. di Maria Garin, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 389. 144 De Renzi, Storia della medicina in Italia, cit., tomo IV, p. 553. 143
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1. «Abbandoniamo la metafisica» La seicentesca crisi della medicina è la stessa crisi di coscienza che ha investito l’Europa in altri campi: la filosofia, le scienze naturali, le scienze umane, il diritto, la morale, la religione. Il Seicento s’è appoggiato ancora tutto quanto al sostegno della tradizione, in religione come in politica, nella scienza come nell’etica. La filosofia del nascente secolo XVIII – che sarà detto dei «lumi», delle lumières, dell’enlightenment, dell’Aufklärung – rappresenta invece l’ingresso a vele spiegate di una critica avida di libertà nel sacro recinto delle auctoritates, dei dogmi, delle fedi. A dare il segno dei tempi mutati è, in medicina, un ex pastore d’anime, l’olandese Hermann Boerhaave (1668-1738). Figlio di pastore protestante, ha studiato nel Collegium theologiae di Leida addottorandosi con una tesi di laurea «sulla distinzione della mente [res cogitans] dal corpo [res extensa]» di evidente ispirazione cartesiana. In questi stessi anni ha maturato l’idea di unire la condizione pastorale alla vocazione per la medicina. Era abbastanza frequente, quasi tipico, di molti pastori protestanti, specialmente di quelli attivi nelle piccole comunità di villaggio, l’unire alla cura delle anime la cura dei corpi; questi pastori davano al loro gregge consigli anche medici e somministravano rimedi anche corporali. Boerhaave ha concepito l’intenzione d’immettere la religiosità del pastore d’anime in relazioni psicosomatiche non meno coinvolgenti: quelle tra il medico e il paziente1.
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Sia queste che le altre notizie sulla vita di Boerhaave sono tratte dall’o-
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Intrapresi gli studi di medicina, si è laureato nel 1693 ed è divenuto «lettore» nella facoltà medica dell’Università di Leida. In età adulta lo troviamo policattedratico, professore di una tetrade di discipline: medicina teorica e medicina pratica, cardini della diagnostica, botanica e chimica, cardini della terapeutica. Celebre al punto d’essere definito totius Europae praeceptor, «maestro a tutta Europa», la sua fama è all’acme quando tiene dalla cattedra, l’8 febbraio 1715, la prolusione dal titolo De comparando certo in physicis. Dice a colleghi e studenti: «Dobbiamo considerare come vietate quelle ragioni metafisiche in cui tanti filosofi si sono smarriti [...]. Abbandoniamo la metafisica e andiamo verso la fisica: solo allora cominceremo a conoscere i veri caratteri della natura, che sinora abbiamo ignorati»2. L’istanza antimetafisica non pregiudica affatto la valenza etica del rapporto tra medico e paziente, tutt’altro. Boerhaave, di cui la lettura dell’Ethica ordine geometrico demonstrata (Amsterdam 1677) di Baroukh de Spinoza aveva fortemente influenzato le propensioni giovanili, ha assimilato con le pulsioni morali anche la mentalità «geometrica» dello spinozismo. Egli procede infatti con passo assiomatico-deduttivo nella sequenza di definizioni e corollari in cui si articola la sua opera Methodus discendi medicinam (Venezia 1727) dove fissa le basi metodologiche dell’apprendimento clinico e le basi umanologiche di una medicina non dimezzata, cioè non amputata della sua metà etico-pratica di rapporto interumano. Scrive: Si chiama medico colui che possiede questa scienza [la medicina] con l’intelletto ed è in grado di esercitarla. Due cose infatti si richiedono al medico: primo, che sia addottorato nella scienza mepera biografica di Gerrit Arie Lindeboom, Herman Boerhaave: The Man and His Work, Methuen & Co., London 1968. 2 Il passo di Hermann Boerhaave è riportato in Giorgio Cosmacini, La medicina e la sua storia, Rizzoli, Milano 1989, p. 219. Il corsivo è mio.
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dica; secondo, che abbia un suo vivo genio per poter esercitare questa scienza a favore dei malati, perché non basta al medico saper tutto, ma deve anche possedere la predetta facoltà, per esercitare una medicina affabile [ut exerceat medicinam jucundam] a vantaggio dei malati3.
Si tratta di una «rigorosa assiomatizzazione della doppia valenza, scientifica ed etica, del mestiere di medico e, più in generale, della persistente tensione tra scienza e valori umani che innerva, per statuto, la dialettica interna della medicina»4. Uno statuto pregresso? Nel paradigma ippocratico la tèchne del mestiere e l’éthos del rapporto interumano erano coincidenti: l’ispezione coincideva con lo sguardo simpatetico, il tocco della fronte con il contatto fisico, la presa del polso con la stretta di mano, la raccolta dell’anamnesi con l’ascolto del vissuto, la formulazione della prognosi con la risposta all’attesa di vita. Uno statuto solo pregresso, oppure ancor valido oggi e, in prospettiva, perenne? Due secoli e mezzo dopo Boerhaave, il sociologo bostoniano Mark G. Field, in un saggio sulla Scomparsa del medico generale dal sistema di difesa della salute nella società industriale rileva l’esistenza di due diverse risposte di questa società alla minaccia di malattia e di morte prematura: una risposta «tecnologica», scientifico-tecnica, e una risposta «simpatetico-pastorale», che potremmo definire «affabile» nell’accezione dell’ex pastore Boerhaave, il «medico olandese» cui s’è ispirato Carlo Goldoni nel farne il protagonista di una delle sue commedie. Il secondo tipo di risposta è storicamente succeduto, secondo Field, alla risposta «propiziatoria» della società pagana e alla risposta «di rassegnazione» della società cristiana: 3 Hermannus Boerhaave, Methodus discendi medicinam, apud Pasinellum, Venetiis 1727, p. 9. 4 Giorgio Cosmacini, Tecnologia, antropologia e vocazione etica del medico, in Antonio Di Meo, Claudia Mancina (a cura di), Bioetica, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 245.
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esso è oggi indirizzato a una cospicua parte dei «bisogni medici» emergenti dalla società industriale [e post-industriale] poiché «deriva dal bisogno di conforto, rassicurazione, amore, cura, soccorso, consolazione e tenerezza amorevole che il sofferente, l’ansioso, l’impaurito e spesso il paziente psicologicamente turbato [in pratica l’intero orbe dei malati] e qualche volta i familiari esigono nel corso della malattia e della invalidità»5. La jucunditas o «affabilità» boerhaaviana è dunque un requisito fondamentale che, se a ritroso risale fino a Ippocrate, in proiezione attuale e futura si concretizza nella umana religiosità del medico d’ogni tempo e d’ogni luogo. Ha scritto recentemente un autorevole filosofo morale e storico delle idee: «L’età contemporanea è contrassegnata dal progresso scientifico-tecnico, sempre più rapido, [...] irresistibile e quindi inarrestabile». Dunque «si può parlare a ragion veduta di rivoluzione permanente. Di rivoluzione permanente, invece, non si può parlare con altrettanta sicurezza nella sfera dei costumi. Sul tema del progresso morale continuiamo a interrogarci come duemila anni fa»6. 2. Florilegio di aforismi Nel 1709 Boerhaave ha dato alle stampe circa un migliaio e mezzo di Aphorismi allo scopo di completare nei «particolari» il proprio systema medicinae «generale». Tali aforismi si riallacciano, nel nome e nella forma, ai celeberrimi Aforismi di Ippocrate, compendio di consigli e precetti che per oltre 5 Mark G. Field, The Health Care System of Industrial Society: The Disappearance of the General Practitioner and Some Implications, in Everett Mendelsohn, Judith P. Swazey, Irene Taviss (a cura di), Human Aspects of Biomedical Innovation, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1971, p. 159. 6 Norberto Bobbio, Autobiografia, a cura di Alberto Papuzzi, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 258 e 260.
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due millenni ha goduto di grande fortuna, superiore a quella di ogni altra opera ippocratica: un vero pane quotidiano per moltissime generazioni di medici. Gli Aforismi ippocratici «al pari della Bibbia conobbero edizioni innumerevoli fin dall’antichità: 140 manoscritti greci, 232 latini, 70 arabi, 40 ebrei». Paganesimo, cristianesimo, islamismo, ebraismo attinsero tutti alla medesima fonte medica, a prescindere dalle rispettive identità e peculiarità ideologiche. Gli aforismi erano un denominatore comune, dettato da saggezza: «La fortuna degli Aforismi dipende [...] dall’antica fama secondo la quale lo stesso vecchio maestro [Ippocrate] si sarebbe dedicato, giunto al termine della vita, a condensare in essi la propria sapienza»7. Questo deposito sapienziale, analogo a quello dei vecchi, fatti saggi dall’età e dalle meditazioni sulla vita, ha un terminus a quo significativo proprio nel primo degli Aforismi ippocratici (già citato nel par. 11 del cap. I), dove si dice che lo studio del medico non ha mai fine e che il suo mestiere è arduo e insidioso, speso nelle tante occasioni curative che lo mettono a confronto con la brevità dell’esistenza sia di chi fruisce delle cure, sia di chi le cure fornisce. Ma la fortuna degli Aforismi di Ippocrate dipende anche «da ragioni più sottili»8. Una motivazione plausibile è che la medicina ippocratica, pur nella sua coerenza interna di tèchne ed éthos, tendeva tuttavia ad appesantirsi del bagaglio teorico costituito dall’epistemologia quaternaria di elementi, qualità elementari, umori, temperamenti, stagioni ed età. Tale bagaglio, se troppo gravoso per le esigenze di praticità della clinica, avrebbe potuto distaccare il sapere medico dalla sua immediata fruibilità da parte degli esercenti il mestiere. A costoro bisognava dare un testo dove la sistematicità del sapere fosse riversata nell’agilità del pensare; bisognava fornire 7 Mario Vegetti (a cura di), Opere di Ippocrate, UTET, Torino 19762, pp. 420-21. 8 Ivi, p. 421.
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brevi pensieri, espressioni minime in cui condensare idee e istanze mediche massime. «Massime» è, non a caso, un termine etichettante gli aforismi nel linguaggio comune. Nel lessico legato all’etimologia, «aforisma» viene da aphorismòs (apò e hòros) che significa «limite», «confine», cioè «separazione», «definizione». Isidoro di Siviglia afferma nelle Etymologiae (libro IV, 10) che aphorismus est sermo brevis, un «breve sermone» espressivo non di una sentenza assoluta, ma di un pensiero succinto e concluso, utile e pratico9. Gli Aforismi di Ippocrate, revisionati da Galeno sei secoli dopo la loro scrittura originaria, servivano a questo scopo. I medici se ne sono serviti per secoli; non mancò chi, sulle orme di Galeno, li rivisitò ulteriormente con aggiunte, modifiche, riflessioni personali. Alcuni esempi: nell’XI secolo il Regimen sanitatis della Scuola di Salerno è una «summa» di precetti compendiati in 362 versi facilmente memorizzabili e pronti all’uso; nel XIII secolo Mosè Maimonide, oltre a commentare gli Aforismi ippocratici, scrive tra il 1187 e il 1190 un libro di Aforismi propri con iniezioni di sapere talmudico; nel XVI secolo Leonardo Fioravanti (1518-1588), medico bolognese fortemente critico dell’«ingarbugliata medicina» del suo tempo, in un’opera edita nel 1571 dice di affidare ai propri 77 «dottissimi aforismi» il compito d’irradiare «una luce che illumina la memoria e l’intelletto de’ medici [...], perciò che se uno medico non sapesse pronosticare le infermità, far giudicio della vita e antivedere la morte non si potrìa chiamar medico, ma solamente operaio della medicina»10. Pur con il fine esplicito di condensare in pillole le più importanti, essenziali nozioni tecniche, diagnostiche e progno9 Vedi Giorgio Cosmacini, Aforisma e medicina, in Mario Andrea Rigoni (a cura di), La brevità felice, Marsilio, Venezia 2006, p. 121. 10 Leonardo Fioravanti, Il reggimento della peste, appresso agli heredi di Melchior Sessa, Venezia 1571, p. 98. Il passo è riportato da Massimo Baldini, Medicina. La borsa e la vita, Mondadori, Milano 1993, p. 10.
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stiche, tuttavia gli aforismi sono venuti assumendo via via anche la finalità implicita di delineare in parallelo le tracce etiche da seguire. Oltreché configurarsi come un vademecum tecno-pratico, essi prefigurano una sorta di catechismo laico con suggerimenti circa la condotta da tenere nel corso della malattia, ch’è il percorso dove s’incontrano i problemi della vita e della morte. Nel secolo dei Lumi, Anton de Haën (1704-1776), il medico olandese che con il connazionale Gerard van Swieten (1700-1772) trapianta a Vienna il modello clinico-didattico della Scuola di Leida, scrive cinque volumi di «commentari» in Hermanni Boerhaave Aphorismos. Giambattista Morgagni (1682-1771), professore di medicina teorica a Padova dal 1715 al 1770, dice in una sua lezione dalla cattedra che «come il verbo greco aphorìzo presenta, oltre al significato di separare anche quello di costruire, [...] così bisogna intendere per aphorismi pensieri non solo isolati fra loro, ma scelti [anche...] con ragionatissimo progetto»11. Tale progetto, da Morgagni attribuito agli aforismi, ha un suo luogo di coltura elettivo nella stessa Padova, dov’era stato professore di medicina pratica Alessandro Knips Macoppe (1662-1744), autore degli Aphorismi medico-politici centum editi nel 1795 a cura dell’anatomico Floriano Caldani (nipote del più celebre Leopoldo). Questi altri Aforismi, tradotti e commentati a Pavia nel 1813 da Giovanni Luigi Zaccarelli, saranno qui volgarizzati nel 1822 da Giuseppe Antonio Del Chiappa, il quale ventott’anni dopo, divenuto professore di clinica nella stessa Pavia, li riprenderà curando l’edizione degli Aforismi cento medico-politici (Cremona 1850). Nel 1857, infine, essi vedranno la loro traduzione in versi a rima alternata da parte del medico-poeta lombardo Arcangelo Manzolini e godranno di una larga tiratura nell’edizione milanese. 11
Il passo di Morgagni è riportato da Baldini, Medicina, cit., p. 7.
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In poco più di mezzo secolo, il molto ragionato progetto degli aforismi – quello di dare ai medici con le nozioni tecniche indispensabili anche le indicazioni per un corretto comportamento morale e civile – giunge così a vedere il proprio compimento, con il merito aggiunto d’aver fatto da tramite alla fioritura degli ottocenteschi galatei. 3. Teologia della vaccinazione Nella prima metà del secolo dei Lumi (e anche nella seconda) una feroce malattia epidemico-contagiosa oscurò la salute e la speranza di vita di una gran parte della popolazione europea ed extraeuropea, al punto che un celebre scienziato e viaggiatore francese, Charles Marie de La Condamine, nel riferirne in un suo mémoire letto il 24 aprile 1754 nella pubblica assemblea della Académie Royale des Sciences, rilevava che «su cento persone scampate ai primi pericoli dell’infanzia, tredici o quattordici sono portate via da questa malattia e un ugual numero reca di essa il triste marchio per tutta la vita». La marchiatura consisteva in cicatrici indelebili, deturpanti il viso e la vista con sfregi e cecità. «Ecco dunque su cento persone ventisei o ventotto che provano che questo flagello distrugge o degrada un quarto dell’umanità»12: il flagello era il vaiolo. La malattia, da voce di popolo e dalla stessa pubblicista medica paragonata alla peste, aveva peraltro caratteristiche cliniche ed epidemiologiche diverse da questa e del tutto peculiari. Fra tali caratteri c’era il non ritorno in chi ne aveva già sofferto, un fenomeno che oggi sappiamo esser dovuto all’immunità acquisita dai malati che superano l’infezione. Che il vaiolo fosse una malattia acquisita, dovuta come ogni altra malattia infettiva a un 12 Il passo del mémoire di La Condamine è riportato da Claudine Herzlicht, Janine Pierret, Malades d’hier, malades d’aujourd’hui, Payot, Paris 1984, p. 43.
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«veleno» o virus circolante nell’ambiente, era un’idea giusta, corretta, che tuttavia non spiegava il «non ritorno». Quest’ultimo era invece chiarito dal concetto antiquato e inesatto che la malattia fosse congenita, dovuta allo spurgo una tantum della materia peccans presente all’interno del corpo fin dalla nascita, o ancor da prima, poi proiettata in superficie dall’ebollizione degli umori e, nei casi maligni di «vaiolo nero» emorragico (questo sì analogo alla «morte nera» propria della peste), dalla «fermentazione coagulativa» del sangue. La «materia» spurgata dalle pustole vaiolose di cui era ricoperta la pelle dei malati era l’espressione cutanea ed esterna di un «purgatorio» viscerale interiore, necessario per liberare l’uomo dall’originale impurità della carne, così com’era necessario il battesimo per liberare l’anima dal peccato originale. Con simile preambolo pregiudiziale non c’era da stupirsi del blocco ideologico opposto da più parti al metodo preventivo, consistente nel cosiddetto innesto – o «inoculazione» – eseguito provocando ad arte, mediante deposizione sopra un graffio di pelle di una goccia di «materia» prelevata da pustole vaiolose, una piccola malattia «artificiale» rapidamente guaribile in grado di preservare dalla grande malattia «naturale» gravissima e spesso mortale. L’innesto del vaiolo, poi evoluto nella «vaccinazione» e definito favoloso per i benefici arrecati13, era una pratica in uso da tempo nella medicina popolare orientale (cinese e caucasica), resa nota in Occidente da medici d’area veneziana e propagandata in Europa dalla combattiva consorte dell’ambasciatore inglese a Istanbul, la quale aveva fatto qui «inoculare» i propri figli con manifesto successo14. Ma la questione appariva complicarsi sotto l’aspetto teoVedi Bianca Fadda, L’innesto del vaiolo, Franco Angeli, Milano 1983, e Baroukh M. Assael, Il favoloso innesto. Storia sociale della vaccinazione, Laterza, Roma-Bari 1995. 14 Il primo a rendere nota in Europa la pratica orientale dell’innesto fu nel 1714 il medico greco Emanuele Timoni. Nel 1715 il medico Jacopo Pilarino da Cefalonia rese noto il «metodo di provocare nuovi e sicuri vaiuoli 13
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logico, poiché «la protezione preventiva che si intendeva realizzare con l’inoculazione sembrava», ai teologi chiamati a pronunciarsi circa la sua liceità, «contrastare nei suoi disegni imperscrutabili con la Divina Provvidenza, sola arbitra della vita e della morte, della malattia e della sanità»15. Il blocco mentale contrapposto al metodo s’impersonava negli esponenti di un variegato schieramento ostile, composto da preti e da medici. Anche questi ultimi, più che del bilancio tra i rischi e i benefici, si occupavano di diavoleria dei barbari infedeli, d’imponderabile salto nel buio, di eresia ammissibile soltanto in un paese anglicano, di peccaminoso vulnus della sacralità del disegno divino. In definitiva l’innesto del vaiolo, prima di evolvere nella inoculazione di «pus vaccino» (cow pox) attuata per la prima volta nel 1798 dal naturalista inglese Edward Jenner (1749-1823) e che sarà «la più importante scoperta medica fino all’epoca delle moderne scoperte batteriologiche»16, era «un problema che non solo richiedeva un netto pronunciamento fra scienza e religione, ma che, soprattutto, costituiva un momento di confronto [...] con le correnti più avanzate della cultura illuminista»17; era «un reagente capace d’indicare la posizione di ciascuno nei due schieramenti contrapposti – inoculista e anti-inoculista – l’un contro l’altro armato»18. Il punto cruciale del confronto, o dello scontro, è ben rappresentato dal giudizio formulato nel 1757 sulle pagine delle Novelle letterarie, dove si prende atto dell’utilità e non pericolosità del metodo, dimostrate da una sperimentazione cliper transplantationem». Nel 1721 Lady Mary Wortley Montagu si fece promotrice dell’innesto in Inghilterra e nel continente. 15 Ugo Tucci, Il vaiolo tra epidemia e prevenzione, in Franco Della Peruta (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. VII, Malattia e medicina, Einaudi, Torino 1984, p. 391. 16 Lorenzo Del Panta, Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XIV-XIX), Loescher, Torino 1980, p. 66. 17 Fadda, L’innesto del vaiolo, cit., p. 67. 18 Giorgio Cosmacini, Prefazione a Assael, Il favoloso innesto, cit., p. VII.
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nica compiuta da medici competenti: «Non si sa vedere donde nasca la scrupolosità di altri medici e di alcuni teologi, i quali sono d’opinione che questa inoculazione non si debba e non si possa fare»19. Papa Benedetto XIV (cardinale Prospero Lambertini), nel suo pontificato aperto a spirito di tolleranza universale ma al tempo stesso rinserrato nell’autodifesa della religione in un mondo sempre più laico, ascolta con paterna attenzione il parere di due valenti medici fautori del metodo e di alcuni teologi al riguardo assai «scrupolosi». Scrive il suo biografo: «Il Santo Padre, tuttoché persuaso del loro scrupolo mal fondato, non fece di più: il tempo, disse, non è ancora giunto, e prevedo che vi vorrà ancora più d’un papa dopo di me, prima di far adottare un tale preservativo»20. Lo stesso papa scrive al proprio suddito riminese Giovanni Bianchi, ch’è il medico capofila degli anti-inoculisti negli Stati della Chiesa: «Li papi sono gli ultimi che in queste cose debbono innovare. La lentezza de’ loro passi dee corrispondere alle loro età e insieme alla dignità. Se io fossi imperatore o re, l’inoculazione, in vista de’ vantaggi che vi scorgo, sarebbe ormai ammessa ne’ miei Stati. Ma non voglio scandolezzare li timidi e li deboli»21. All’indomani della morte di Benedetto XIV, l’archiatra pontificio Cristoforo Zanettini, in una lettera del 16 dicembre al medico anti-inoculista Roncalli Parolini che, forse, temeva un cambiamento di rotta da parte del nuovo papa Clemente XIII (Carlo Rezzonico), scrive rassicurante che la pratica dell’innesto «in Roma non si è mai creduta ragionevole Il passo delle Novelle letterarie, tratto da un articolo di Giovanni Lami circa le Relazioni d’innesti compiuti nel 1756 dal medico Giovanni Targioni Tozzetti su sei trovatelli dell’Ospedale degli Innocenti di Firenze, è riportato da Fadda, L’innesto del vaiolo, cit., p. 67. 20 Il passo, tratto dalla Vita del Papa Benedetto XIV (Prospero Lambertini) con note istruttive, di Louis-Antoine de Caraccioli (presso Simone Occhj, Venezia 1783), è riportato ivi, p. 60. 21 Il passo della lettera papale è riportato ibid. 19
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da eseguirsi con utile e profitto, poiché li teologi non l’ammettono»22. Peraltro, in seno al blocco teologico, si apre qualche crepa. Il cardinale Valenti Gonzaga, segretario di Stato di papa Lambertini, si mostra favorevole alla pratica. Il padre agostiniano Giovan Lorenzo Berti, teologo dello Studio pisano, in un suo Consulto Teologico del 1762 ammette che «i nemici dell’inoculazione dicono assolutamente non dover essere abbracciata, perché nata tra’ barbari e coltivata da nazioni di religione diversa da quella che noi professiamo»23. Però distingue tra i «dogmi della Chiesa» e «ciò che riguarda tutto il genere umano»; e non esita, tramite il conte di Richecourt, presidente del toscano Consiglio di Reggenza, di rassicurare l’imperatrice Maria Teresa circa la liceità, tuta conscientia, dell’innesto. La sua adesione al concetto inesatto e antiquato che il vaiolo è dovuto a una «materia peccante» connaturata al corpo macchiato dal «peccato originale» e che tale materia, una volta espulsa dalle forze della natura, non ritorna né con il contagio, né con l’innesto, gli fa concludere che quest’ultimo è un utile mezzo messo nelle mani di chi, come il medico, è stato voluto da Dio per difendere l’uomo dalle malattie. Ma l’anno seguente, «nel 1763, a Parigi, la facoltà di teologia si schierò compatta contro l’inoculazione. Veramente la ragione addotta era assai poco scientifica», osserva in proposito l’igienista Ernesto Bertarelli in un saggio su Edoardo Jenner e la scoperta della vaccinazione (Milano 1932). La motivazione contraria dei teologi parigini diceva testualmente: «È sufficiente che questa [l’inoculazione] sia una novità per essere reputata condannabile»24. Il passo della lettera dell’archiatra pontificio è riportato ivi, p. 74. G.L. Berti, G. Veraci, F.R. Adami, Tre consulti fatti in difesa dell’innesto del vajuolo da tre dottissimi teologhi toscani, Galeazzi, Milano 1762, p. 66. 24 Ernesto Bertarelli, Edoardo Jenner e la scoperta della vaccinazione, Istituto Sieroterapico Milanese, Milano 1932, p. 68. 22 23
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A mettere le cose al loro giusto posto è un articolo «illuminato» pubblicato sulla Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des arts et des métiers (Livorno 1770), intitolato Inoculation: Appartiene alle facoltà di teologia e di medicina, alle accademie, ai capi della magistratura, agli scienziati, ai letterati, il compito di bandire gli scrupoli fomentati dall’ignoranza e di far sentire al popolo che la sua propria utilità, che la carità cristiana, che il bene dello Stato, che la conservazione degli uomini sono interessati allo stabilirsi dell’inoculazione25.
È l’ultima parola? Quarant’anni dopo, Luigi Sacco, pioniere della vaccinazione in Italia, nel proprio Trattato di vaccinazione (Milano 1809) riferisce dell’obiezione medica che «coll’innesto del vaccino si possono comunicare i mali propri della natura bovina»26, ma non commenta la sottesa obiezione teologica che l’innesto del pus animale può abbrutire l’uomo «minotaurizzandolo». Se in una congiuntura postrivoluzionaria come quella napoleonica la vaccinazione stenta ad aprirsi un varco tra le ideologie che la contrastano, perché priva dei requisiti previsti dall’ortodossia e dalla devozione, nella susseguente temperie della restaurazione l’alleanza tra medicina e teologia è ancora più tenace nell’affermarsi come un presupposto irrinunciabile. 4. Desacralizzare il galateo Nel primo Ottocento europeo, cioè nel periodo che la storiografia definisce «della Restaurazione» e vede caratterizzato dall’alleanza ideologico-politica riassunta nel binomio 25 Inoculation, in Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des arts et des métiers, Livorno 1770, tomo VIII, p. 691. 26 Luigi Sacco, Trattato di vaccinazione, Mussi, Milano 1809, p. 196.
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«trono e altare», l’«interessato conformismo dei medici [...] impedisce loro di ammettere la loro ignoranza e di accogliere idee nuove»27, intendendosi con queste non solo la nuova idea profilattica della vaccinazione, ma anche quella clinicodiagnostica, posteriore di circa un ventennio, de l’auscultation médiate, come intitola il suo libro rivoluzionario, pubblicato a Parigi nel 1819, il medico bretone René-ThéophileHyacinthe Laënnec (1781-1826), inventore dello stetoscopio, lo «strumento filosofico» che trasforma radicalmente la tecnica e la pratica della medicina, cambiando la percezione della malattia da parte del medico. Lo «stetoscopio», che – come dice il nome – «guarda dentro il petto», è il cilindro ligneo, cavo internamente, che interposto tra il torace del paziente e l’orecchio del medico trasforma tale orecchio in «occhio clinico» permettendo al medico di «vedere» le malattie «interne» di cuore e polmoni – rilevandone toni, soffi e rumori – come se fossero «esterne», riconoscibili a occhio nudo. Si tratta di un metodo nuovo, di non facile apprendimento, che urta la mentalità di medici refrattari (oltreché la sensibilità di pazienti – donne – che considerano troppo intimo l’accostamento al proprio petto del volto del medico durante la stetoscopia). Al vieto conformismo di medici retrivi, che spregiano il nuovo metodo in quanto incapaci di adottarlo aggiornandosi (o che cedono alla moda della novità esibendo lo stetoscopio senza usarlo), si sposa nel contiguo campo dei comportamenti il vuoto conformismo di medici altrettanto incapaci di tenere la religiosità peculiare del loro mestiere nettamente distinta dalla devozione propria della loro fede religiosa. Scrive l’estensore dell’istruttivo opuscolo Il medico giovane al letto del malato (Napoli 1826): «Niun medico poté mai dichiararsi fautore dell’ateismo, macchia per errore di pochissimi ingiustamente contratta». 27
Fadda, L’innesto del vaiolo, cit., p. 30.
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Il medico, nella sua qualità di curante, deve curare anche la salute dell’anima; al malato, se grave, deve «inculcare la Comunione per viatico» e, prima, adoperarsi perché egli «senta il dovere di confessarsi». Quanto al digiuno quaresimale, anche nel caso di malati denutriti e affamati, l’autore dice ai medici: «L’affare non appartiene più a voi. Mandateli [i malati] a consultare il loro confessore, il parroco». Dove la scienza non arriva, arriva infatti la Divina Provvidenza: «Non negate mai i miracoli, e la loro possibilità. [...] Hanno i loro confini le cose possibili. Su certe cose [...] riportatevi a’ dotti e prudenti ministri del santuario»28. Medicus sit christianus: così esortavano le pubblicazioni di tal genere, senza che si dovesse scadere negli eccessi, abbozzati con schizzo caricaturale in talune pagine, dei medici che, ‘pur di ingraziarsi i favori di una famiglia particolarmente devota, nelle case in cui c’è odor di santità, nel trarre di saccoccia il fazzoletto, a bella posta si fan cadere una corona’ del Santo Rosario. Sino all’Unità [d’Italia], l’intervento dei medici interagì molto spesso con quello dei sacerdoti. [...] Medico e sacerdote agirono spesso di conserva», con mutua «intesa o quanto meno reciproco rispetto29.
In periodo preunitario vediamo infatti gli schizzi morali di Carlo Ravizza contemplare il curato di campagna d’accordo con il medico, entrambi nel loro ruolo generico di «valentuomini» («intellettuali organici» dirà Gramsci di loro), ma ambedue nel loro ruolo missionario specifico, «quegli per l’anima e questi per il corpo, ma alla fin de’ conti tutti due per l’uno e per l’altra»30. 28 Estensore dell’opuscolo da cui sono tratte le citazioni è il dotto Luigi Angeli, medico socio di varie accademie nonché archiatra onorario di papa Pio VII. 29 Maria Luisa Betri, Lo «stimatissimo signor dottore». Aspetti della professione medica nel primo Ottocento, in «Prometeo», 23, 2005, 91, p. 40. 30 Carlo Ravizza, Un curato di campagna. Schizzi morali, Tip. BoniardiPogliani, Milano 1852, p. 31.
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È una realtà che ha riscontro anche oltralpe, in seno alla società rurale francese descritta da Honoré de Balzac nel romanzo Il medico di campagna (Parigi 1829): «Non senza ragione [...] si usa mettere insieme le tre vesti nere: il prete, l’uomo di legge, il medico. L’uno medica le piaghe dell’anima, l’altro quelle della borsa, l’ultimo quelle del corpo. Esse rappresentano la società nelle sue tre fondamenta: la coscienza, la proprietà, la salute»31. In un Discorso della morale del medico, pubblicato a Milano nel 1852 e dovuto alla penna di quello stesso docente pavese, professor Giuseppe Antonio Del Chiappa, che abbiamo visto impegnarsi a fondo nella volgarizzazione e ristampa dei celebri Aforismi di Alessandro Knips Macoppe, è detto che «moralità» e «saviezza» ancora «conviene che si abbiano, per così dire, radice nel culto»32. Saggezza ed etica permanevano, in quasi tutta questa pubblicistica, ancora immerse o sommerse nella cultura della devozione. Come l’impegno divulgativo e pedagogico di Del Chiappa ben dimostra, gli aforismi settecenteschi si embricano con tutta una fioritura di breviari per medici: è il florilegio dei galatei, che in campo medico coprono l’arco di un secolo. Il loro prototipo è da considerarsi il Galateo dei medici (Pavia 1791), scritto da Giuseppe Pasta (1742-1823), medico ordinario dell’Ospedale di Bergamo, e otto volte ristampato in poco più di cinquant’anni (Bergamo 18449). Il «breviario», a detta di una studiosa di questa «trattatistica italiana tra antico regime e Stato liberale», «esponeva chiaramente e sinteticamente i tratti salienti e caratterizzanti di un modello di comportamento al quale il medico avrebbe dovuto attenersi nella sua professione e che, a giudizio dell’autore, tutta una 31 Honoré de Balzac, Il medico di campagna, trad. it. di Andrea Zanzotto, Garzanti, Milano 19853, p. 52. 32 Giuseppe Del Chiappa, Due lettere apologetiche e due discorsi. L’uno della fortuna del medico, l’altro della morale del medico, Tip. Guglielmini, Milano 1852, pp. 157-58.
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tradizione confermava. L’opera ebbe grande successo [...]; almeno altri tre galatei si proposero dichiaratamente come prosecutori dell’opera pastiana»33. Tali furono il Galateo pegli ammalati (Bergamo 1821) di Salvatore Mandruzzato (1758-1837), il Galateo di medici per istruzione della gioventù (L’Aquila 1824) di Luigi Petrini (1776-1839), e l’anonimo Galateo di un morto e commento di un vivo (Milano 1829). Seguirono altri trattatelli dello stesso taglio, includenti nel titolo la parola «galateo», come il Nuovo galateo medico (Milano 1836) di Giuseppe De Filippi e il Galateo de’ medici e de’ malati (Padova 1853) di Ferdinando Coletti (1819-1881), ai quali fecero seguito ulteriore, in periodo postunitario e con taglio modificato, le Massime filosofico-critiche di galateo medico italiano (Napoli 1864) di Giuseppe Posta e il Galateo del medico (Napoli 1873) di Raffaele Maturi. Senza contare che altre opere consimili, pur senza intitolarsi «galatei», tuttavia battevano e ribattevano gli stessi tasti34. Nel secolare dipanarsi di tale pubblicistica, tessuta e ritessuta tra i poli della buona creanza ligia e devota e del bon ton deontologico cui i medici dovrebbero attenersi, è possibile cogliere tre fasi. La prima è quella in cui si disegna «il profilo del medico esemplare [che] si imperniava sull’esercizio delle virtù della prudenza e della temperanza». La seconda è quella in cui, oltreché sul modello predetto, «molte pagine dei galatei insistevano su una precettistica politico-morale al fine di orientare il ‘saper fare’ del medico nella società». La terza fase, infine, è quella in cui «nel codice etico fondato sulle civili virtù dell’abnegazione, della serietà, dell’onestà, alcuni Inge Botteri, Galateo e galatei, Bulzoni, Roma 1999, pp. 245-46. Per più dettagliate notizie bio-bibliografiche vedi Massimo Baldini, Antonello Malavasi (a cura di), I galatei del medico e del paziente, Viviani, Roma 2005. Il volume riproduce in extenso i testi di Knips Macoppe, Pasta, Mandruzzato, Petrini, Coletti. 33 34
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trattati inclusero anche declinazioni politiche» ispirate a «orientamenti democratici» e ad «afflato umanitario»35. Tra le «qualità morali che fornir debbono il medico», Petrini scrive nel 1824: «La ragione dimostra che la sola Cattolica è la vera Religion di Cristo. Or se ad ogni uomo s’impone la osservanza de’ precetti religiosi, molto più ciò conviene a quella classe di cittadini, a’ quali è affidata la salute, l’onore e la quiete delle famiglie. I medici debbono essere in sommo grado religiosi». L’identificazione dell’essere religioso con l’essere cattolico, credente e praticante, è dato per scontato al punto che un commentatore dei giorni nostri, Concezio Alicandri Ciufelli, nel comparare il «galateo» di Petrini al prototipo di Pasta, ha ritenuto di poter scrivere: Il Pasta, pur volendo il medico religioso, lo esonera tuttavia da ogni intromissione, nei riguardi del malato, per i fatti che si riferiscono alla fede [...]. Per il Petrini, invece, i medici prima di tutto debbono essere in sommo grado religiosi. Attraverso la morale cristiana il medico regola i suoi rapporti con l’infermo [...]. Col Petrini, in altre parole, comincia a delinearsi quella forma di medico cattolico meglio precisata in seguito e glorificata, infine, dall’alto magistero di Pio XII36.
Il percorso non è però lineare. Già la transizione tra la prima e la seconda fase fu infatti una svolta, resa manifesta da affermazioni come quella che trapela in Del Chiappa quando, nel 1852, al citato asserto che la moralità va opportunamente radicata nel culto, aggiunge la nota che la stessa moralità si Vedi alla voce Galateo medico, di Maria Luisa Betri, in Giorgio Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi, Roberto Satolli (a cura di), Dizionario di storia della salute, Einaudi, Torino 1996, p. 246. Della stessa autrice vedi La crisi del ruolo medico. I galatei dell’Ottocento, in «Federazione medica», XL, 1987, 7, pp. 685-88. 36 Il brano del testo petriniano e il commento di Ciufelli sono riportati in Baldini, Malavasi (a cura di), I galatei del medico e del paziente, cit., pp. 121 e 111. 35
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sviluppa meglio se il medico ha «impreziosito lo ingegno delle sublimi massime della socratica filosofia». È il segno dei tempi che stanno per cambiare; ed è il segno di una incipiente laicizzazione che si colora via via di toni umanitari contendenti al prete il riservato dominio dei tempi e dei luoghi dove «la professione del medico è [essa stessa] una maniera di sacerdozio», perché sa «volare ne’ ricetti sacri al dolore, e addurvi, secondo che più lice, sanitade, speranza, consolazione», nonché sa «palliare ove il guarir non ha luogo». Nei luoghi e nei tempi della malattia inguaribile e del vivere morendo, «pochi uomini sanno morire». Aggiunge Del Chiappa: «Anche più pochi sanno in qual modo deesi regolare la morte degli altri»37. Fra questi pochi, in prima fila sul terreno che separa la vita dalla morte e dove si misura la vera qualità del medico, questi deve attestarsi con tutta la religiosità che è propria del suo nobile mestiere. Il medico viene assumendo in proprio un’importante funzione antropologica e un’altrettanto importante funzione sociale. Nell’Ottocento maturo, dilatandosi la competenza e l’impegno dalla sfera privata (terapeutico-curativa) alla sfera pubblica (igienico-preventiva), il termine «sociale» ingloba gradatamente il significato di «morale». Lo stesso Del Chiappa scrive: «Né i doveri suoi [del medico], ancorché molti e gravi, si restringono al piccolo cerchio di un malato [...], ma egli debbe inoltre assai [...] alla salute generale e alla tutela, secondo che è possibile, a tutta la specie umana. [...] Estesi, per fermo, sono i suoi doveri verso la società»38. Nella seconda fase evolutiva dei galatei e della prosa loro affine un’ampia e partecipe antropologia medico-sociale si giustappone al «guarir qualche volta, alleviare sovente, con-
37 Del Chiappa, Due lettere apologetiche e due discorsi, cit., pp. 114, 15455, 158, 165. 38 Ivi, pp. 167-68.
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solare sempre»39. In tale ottica l’intervento medico non solo va e viene tra il successo e l’insuccesso della cura condita da premura e da buone parole, ma anche spazia nel vasto campo di una prassi fatta sempre di partecipazione e di aiuto, però ispirata da una filosofia antropologica che si chiama «filantropia» e che è la versione laica, umanitaria, della «carità» cristiana e della divina «pietà»40. Il medico diventa così il credente-praticante o addirittura il sacerdote di una professione definita, in un discorso Dei doveri del medico (Fano 1869) di tale dottor Olivi, religione dell’onesto. Non più alleato delle altre due «vesti nere», egli è ora, nella terza fase storica, l’alleato del maestro di scuola: «Due sole professioni non furono e non saranno mai pagate abbastanza: quella del maestro e quella del medico». È quanto afferma nel Galateo del medico (Napoli 1873) il dottor Raffaele Maturi che, annoverando i medici tra i «benefattori dell’umanità» aggiunge: «Il medico si aggira e vive in mezzo al popolo, e pensa come il popolo; è depositario di suoi dolori e di sue speranze, ed anche a non volerlo diviene democratico d’indole». Non basta. Oltreché «democratico», il medico, nella temperie ideologica dove «materiale» è sinonimo di «sperimentale» e di «positivo», diviene anche «materialista»: «La nuova generazione è materialista. E di che vi meravigliate o spaventate? [...] Carattere della filosofia moderna è il materialismo. [...] Il nostro secolo [...] ha messo la metafisica alla porta»41.
39 È l’ottocentesco detto d’oltralpe, prescrivente al medico di guérir parfois, soulager souvent, consoler toujours. 40 Vedi Giorgio Cosmacini, L’igiene e il medico di famiglia, in Piero Melograni (a cura di), La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, Laterza, RomaBari 1988, p. 613. 41 Raffaele Maturi, Galateo del medico, Tip. Androsio, Napoli 1873, pp. VI-VII, 9, 15, 85, 94.
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5. Desacralizzare il dolore (atto primo) Luogo e data di edizione del Galateo del medico di Raffaele Maturi sono rivelatori del clima che si respirava nell’Università di Napoli (e in tutte le altre università del neonato Regno d’Italia) dopo l’unificazione politico-territoriale del paese. Era il clima in cui Carlo Cattaneo aveva chiesto al fisiologo Carlo Matteucci, ministro per la Pubblica Istruzione nel governo Rattazzi, di sostituire con cattedre di «utili e caritatevoli studi» scientifici le cattedre di «ambiziosa e turbolenta teologia»42. Faceva eco il clinico medico di Napoli Salvatore Tommasi (1831-1888) che, aprendo il corso di studi per l’anno 1865/66, aveva detto dalla cattedra ai futuri medici: «Siamo condannati a essere materialisti in quanto siam medici. Noi rispettiamo il cielo della filosofia: anche noi serbiamo fede al progresso delle scienze morali; ma in quanto siam medici, negheremmo noi stessi se non fossimo materialisti»43. Nella prolusione dell’insigne cattedratico, esponente di spicco del mondo medico nell’Italia postunitaria, è indicata a chiare lettere l’istanza che il medico, lasciando da parte la fedeltà alla religione e alla Chiesa (il cui Stato osteggiava l’unità d’Italia), rimanesse più che mai fedele alle cosiddette «scienze morali», che non erano affatto appannaggio obbligatorio del sacro e che anzi si presentavano come patrimonio laico – agnostico o addirittura ateo – peraltro suddito di un nuovo dogma, la metafisica «religione della materia». Di una «scienza della moralità» completamente svincolata da ogni dogma aveva scritto un moralista sui generis, Jeremy Bentham, filosofo dell’utilitarismo e autore dell’opera Lettera di Carlo Cattaneo a Carlo Matteucci, riportata in Carlo Cattaneo, Scritti sull’educazione e sull’istruzione, a cura di Luigi Ambrosoli, Le Monnier, Firenze 1963, p. 230. 43 Salvatore Tommasi, Le dottrine mediche e la clinica, prolusione (1865), in Id., Il naturalismo moderno. Scritti vari, a cura di Antonino Anile, Laterza, Bari 1913, pp. 89-90. 42
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Deontology or the Science of Morality pubblicata a Londra nel 1834. La «scienza della moralità» era dunque, all’origine, la deontologia, da Bentham teorizzata come disciplina concreta contrapposta all’astrattezza dei diritti dell’uomo che avevano inaugurato la Rivoluzione francese. «Deontologia è un termine altisonante, quasi aulico», costruito sulla radice greca déon, déontos, «dovere». Come scienza dei doveri essa «equivale all’insieme codificato degli obblighi che impone ai professionisti l’esercizio della loro professione». In ciò essa si discosta dalla scienza della moralità concepita da Bentham come filosofia morale che prescindeva da ogni appello al dovere. Bentham affermava: «Compito del deontologo è quello di insegnare all’uomo come debba dirigere le sue emozioni, in modo che siano subordinate per quanto possibile al proprio benessere»44. La deontologia d’oggi è cosa diversa: «Si tratta piuttosto di un insieme di regole tradizionali che indicano come comportarsi in quanto membri di un corpo sociale determinato»45 e, in particolare, come membri di un determinato consorzio professionale. Il nome «deontologia» era entrato in medicina con lo scritto del medico francese Maximilien Isidore Simon Déontologie médicale, pubblicato a Parigi nel 1845. L’anno seguente, in campo medico, una pratica empirica antichissima incominciò a diventare una tecnica scientifica moderna, via via sempre più consolidata e perfezionata. Dopo che il chimico Humphrey Davy aveva osservato, nel 1799, l’inebriante effetto del «gas esilarante» (protossido d’azoto) e dopo che Michael Faraday aveva rilevato, nello stesso 1799, una simile «ebbrezza da etere», i dentisti americani Horace Wells (18151848) e William Thomas Morton (1819-1868) nel 1846 impiegarono in chirurgia odontoiatrica le due sostanze per at44 Vedi Sandro Spinsanti, Etica bio-medica, Edizioni Paoline, Milano 1987, p. 9. Ivi è riportato il citato passo di Bentham. 45 Ivi, p. 10.
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tenuare il dolore nelle avulsioni dentarie. Nel 1847 si aggiunse il cloroformio, impiegato da James Young Simpson (18111870) in ostetrica e chirurgia con analoga finalità antidolorifica. Era il trucco yankee o «arte di produrre insensibilità al dolore mediante inalazione di gas chimici»46. L’arte di produrre insensibilità al dolore era tra quelle che Prometeo, dopo aver rubato una favilla del maglio divino, diede agli umani per farli «pari agli dèi». Da qui nacque il mito, elaborato poeticamente da Esiodo, di Pandora, la donna forgiata da Efesto per volere di Zeus, sdegnato contro Prometeo. Pandora è la donna attraente che, come dice il suo nome, possiede «tutti i doni», contenuti nel vaso che porta con sé, e li elargisce, anche quelli malvagi. È dal suo orcio che fuoriescono tutti i mali dell’umanità, tra cui la fatica, la malattia inguaribile, la vecchiaia, il dolore. Fino allora, dice Esiodo, viveva sulla terra, lontana dai mali, la stirpe mortale, senza la sfibrante fatica e senza il morbo crudele che trae gli uomini alla morte rapidamente, infatti, invecchiano gli uomini nel dolore. Ma la donna, levando di sua mano il grande coperchio disperse i mali preparando agli uomini affanni luttuosi47.
Dal vaso di Pandora il dolore, come ogni altro affanno, esce spontaneamente, sganciato dall’intervento degli dèi. Il dolore diventa una cosa a sé stante, la cui spontaneità e indipendenza ne fanno una cosa tutta dell’uomo, dove la causalità soprannaturale cede il passo alla causalità secondo natura, contenuta entro i limiti di questa. All’uomo gli dèi dell’Olimpo, dopo aver lasciato che Pandora sciorinasse dal suo orcio il dolore, concessero benignamente la possibilità di porvi riparo, proprio con l’arte prometeica di cui erano stati 46 Jürgen Torwald, Il secolo della chirurgia, trad. it. di Giovanni Galtieri, Feltrinelli, Milano 1958, p. 81. 47 Il mito di Pandora è narrato da Esiodo nella Teogonia (vv. 570-612) e nelle Opere e i giorni (vv. 47-105). La narrazione esiodea conobbe numerose varianti successive.
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derubati. Desacralizzato il dolore, restava però sacra la facoltà di lenirlo. Nel mondo greco antico il narratore omerico racconta che «Elena, figlia di Zeus, buttò improvvisamente nel vino, di cui bevemmo, un farmaco che l’ira e il dolore calmava, oblìo a tutte le pene». Questa droga antidolorifica capace di dare l’oblio faceva parte dei phàrmaka che i Greci avevano ereditato dagli Egizi. Infatti «tali rimedi sapienti aveva la figlia di Zeus, efficaci, che Polidamne le diede, la sposa di Tone l’egizia»48. Il «rimedio sapiente» – il misterioso nepente – in grado di «calmare i neri dolori» era appartenuto ai «due figliuoli di Asclepio», i «buoni due guaritori» Podalirio e Macàone citati da Omero nell’Iliade (libro II, vv. 731-732, e libro IV, vv. 190-191); ed era parte integrante e importante delle cure amministrate da Chirone, il centauro figlio di Zeus dimorante sul Pelio (monte della Tessaglia ricco di piante medicinali) e prescelto da Apollo perché ad Asclepio suo figlio «insegnasse a guarire le dolorose malattie» di cui parla Pindaro nelle Pitiche49. Nella classicità il «nepente» divenne l’helenium, che Plinio ipotizzò traesse origine dalle lacrime di Elena. Meno misterioso nel suo potere analgesico fu il giusquiamo – o «fava di porco», dal greco iùs, porco, e kùsmos, fava – che, pestato nel mortaio, entrava come sostanza principale nelle pozioni usate a scopo soporifero50. Altri phàrmaka similari appartenevano a una medicina che, in virtù della sua lotta contro il dolore a volte vittoriosa, era definita «divina» o «magica»: 48 Omero, Odissea, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 19724, libro IV, vv. 219 sgg. 49 Pindaro, Pitiche, a cura di Bruno Gentili, Paola Angeli Bernardini, Ettore Cingano e Pietro Giannini, Mondadori, Milano 1995, p. 93. 50 Il giusquiamo è una pianta solanacea il cui impiego in terapia è legato agli alcaloidi (atropina, iosciamina, scopolamina) di cui sono ricche soprattutto le foglie. Attivo sulla corteccia cerebrale, che deprime inducendo il sonno, e sul sistema neurovegetativo, in cui deprime il parasimpatico elidendo gli spasmi, attraversò la storia della farmacologia come ipnotico.
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màgoi, «maghi» o «magi», erano coloro che esercitavano la therapèia theòn, la «cura degli dèi»51. Divinum est opus sedare dolorem, si dirà. Se sedare il dolore è opera divina, il «dono degli dèi» si presentò non solo nelle pozioni magiche della medicina greco-romana, ma anche nei rimedi apparecchiati da altre civiltà curative sotto tutt’altre forme, quali l’«agopuntura» cinese, i «fiori di loto» prescritti a Buddha dal suo medico, le inalazioni di «dhuma» menzionate nell’Ayur Veda del mitico Dhanvantar∞, il maestro della medicina indiana propugnatore dello «yoga»52. Ma nelle civiltà dell’Occidente la «lotta contro il dolore» fu vista non solo come opus Dei, come impresa guidata dalla provvida mano di Dio e mediata dalla sapiente mano dell’uomo. Dalla cultura pagana fu anche vista come prova di forza umana. Lottare contro il dolore, rinunciando a lenirlo e anzi sopportandolo, significava pati fortia, «patir ciò che è forte», come lo erano i forti dolori, urenti o laceranti: ciò era – romanum est – una virtù virile di cui Muzio Scevola, con la volontaria ustione-amputazione della propria mano, aveva dato l’esempio. Affrontare e accettare il dolore era una prova esistenziale e morale che costituiva un valore; un disvalore era invece il sottrarsi a esso ricorrendo ad artifici. Parimenti, dalla cultura non pagana ma paleocristiana, il dolore fu visto in positivo, considerato il supremo cimento di una fede autentica al banco di prova del martirio. I protomartiri cristiani, a imitazione di quanto aveva fatto il Cristo nella sua «passione», andavano al supplizio fortificati, non debilitati, da un «patimento» che sublimava il loro sacrificio nel tragitto estremo verso la vera vita. Anche qui il dolore era un valore, un utile tramite all’incontro con Dio, un valore afVedi Fritz Graf, La magia nel mondo antico, trad. it. di Giovanni Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 21. 52 Vedi Thomas Dormandy, The Worst of Evils: The Fight against Pain, Yale University Press, New Haven-London 2006, pp. 14-15. 51
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fermato come un bene e non negato come «il peggiore dei mali». «Il rifiuto del dolore da parte dei martiri della Chiesa primitiva è stato considerato con ammirazione come un atto di eroismo umano per quasi duemila anni»53. Anche qui la tradizione ha fissato un riferimento esemplare: Cosma e Damiano, santi patroni dell’arte medica, vissuti nella seconda metà del III secolo, non sopravvissero alle persecuzioni religiose dell’imperatore Diocleziano. Per quanto apprezzati per il loro talento, pagarono con la vita il loro zelo cristiano e il loro rifiuto ad abiurare. Il prefetto romano incaricato di giudicarli ne ordinò la tortura. Ma «tra la costernazione degli aguzzini, più venivano torturati, più felici sembravano. Dicevano: ‘Tormentateci ancor di più, perché noi non soffriamo’. Né il bruciarli, né il lapidarli si dimostrarono efficaci. Alla fine vennero decapitati»54. Anche la filosofia di Seneca e dell’imperatore Marco Aurelio contribuì a fare del dolore un oggetto di sopportazione, non di rifiuto. Se i seguaci dello stoicismo disprezzavano il piacere e valorizzavano il dolore, i seguaci dell’epicureismo consideravano il piacere medesimo come alupìa, «assenza di dolore»: in entrambe le «filosofie della salvezza» il dolore non richiedeva analgesici, ma forza d’animo, per gli stoici, e «imperturbabilità» o atarassia, per gli epicurei. Anche nella «teologia della salvazione» il dolore richiedeva rassegnazione cristiana. In questo univoco intreccio di ideologie diverse, destinato ad avere una durata lunghissima, non c’è posto per la spongia somnifera dei medici medievali, né per il laudabile medicamentum, il «laudano» o tintura d’oppio confezionato da Paracelso. Non c’è posto per la morfina ricavata dall’oppio nel 1807 da Friedrich Wilhelm Adam Sertürner (1783-1841), né servono l’etere e il cloroformio usati in medicina dalla 53 54
Ivi, p. 34. Il passo citato è reperibile ivi, p. 37.
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metà dell’Ottocento in poi. Il principe di Salina, Fabrizio, protagonista del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, è un testimone attendibile della difficoltà degli analgesici a farsi strada: «Salina pensò a una medicina scoperta da poco negli Stati Uniti, che permetteva di non soffrire durante le operazioni più gravi, di rimanere sereni fra le sventure. Morfina lo avevano chiamato, questo rozzo sostituto chimico dello stoicismo antico, della rassegnazione cristiana»55. 6. Bioetica «ante litteram»? «Scienza e umanità»: non era questo un binomio di facciata, ma una vera e propria parola d’ordine che fra Ottocento e Novecento coinvolgeva la medicina nelle persone di molti suoi rappresentanti. In una temperie culturale che, sulla scorta delle conquiste medico-scientifiche del maturo e tardo Ottocento (asepsi e antisepsi, scoperte microbiologiche, scoperta dei raggi X56), veniva sempre più celebrando la scienza e la tecnica, risaltavano figure di medici la cui identità professionale era anche connotata da valori integrativi di umanitarismo, di filantropia, di religiosità laica, d’impegno etico-sociale. 55 Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1959, p. 46. 56 Dopoché Ignaz Philipp Semmelweis (1818-1865) aveva dimostrato nel 1847 che la febbre puerperale, infettiva spada di Damocle pendente sul capo delle puerpere, era un «avvelenamento» (setticemia) dovuto a un «veleno» (virus) trasmesso alle pazienti dalle mani infette degli ostetrici, Louis Pasteur (1822-1895), riconosciuto nella putrefazione un processo biologico e non meramente chimico, enunciò nel 1857 la «teoria dei germi», ponendo il problema delle infezioni e delle dis-infezioni. L’asepsi, o difesa dai germi, e l’antisepsi, o eliminazione dei germi, entrarono nella pratica medica nel 1867 grazie al chirurgo Joseph Lister (1827-1912). La teoria pasteuriana venne poi avvalorata nel 1882 dalle scoperte al microscopio dei «batteri» da parte di Robert Koch (1843-1910). A tali scoperte si aggiunse quella di «una nuova specie di raggi», compiuta da Wilhelm Conrad Röntgen (1845-1923) e resa nota il 28 dicembre 1895.
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Nel panorama europeo, accanto al modello tutto italiano dei «galatei» e accanto alle elaborazioni d’oltralpe della neonata déontologie médicale, prendeva piede il portato delle dottrine anglosassoni relative all’etica medica57. «Etica» è parola grossa, che etimologicamente viene da éthos, «costume», o con maggior penetranza significativa da tà ethikà, «le cose morali», secondo Aristotele. Etica e morale: le due parole circoscrivono la medesima area di sapere, come sinonimi di diversa derivazione linguistica (rispettivamente greca e latina), interscambiabili nel comune parlato, oppure indicano nel lessico due modi distinti di accostarsi ai problemi attinenti al bene e al male, al giusto e all’ingiusto? In passato «il termine morale è stato usato prevalentemente in riferimento alla problematica dei valori così come è vissuto nell’ambito individuale; l’etica, invece, serviva a designare la stessa problematica in rapporto all’uomo inteso come società, come Stato». Una diversificazione più recente è quella che nel linguaggio corrente contrappone l’etica alla morale, riferendo l’una all’approccio razionale, l’altra a quello fideistico [...]: la prima procederebbe unicamente alla luce della ragione, mentre la seconda si farebbe guidare dalla rivelazione divina. [...] Nei Paesi di lingua latina è frequente che la morale venga ulteriormente qualificata come morale religiosa. La connotazione del termine «morale» è in genere piuttosto svalutante e tende a confondersi con il «moralismo» [...]. «Fare la morale» equivale a un comportamento predicatorio che vuole imporre i propri criteri di bene e di male attraverso la colpevolizzazione dell’altro. [...] Molti, perciò, anche facendo una riflessione di natura teologica, preferiscono parlare di «etica»58. Vedi Laurence B. McCullough, Bioethics in the Twenty-first Century: Why We Should Pay Attention to Eighteenth Century Medical Ethics, in «Kennedy Institute Ethics Journal», 6, 1996, 4, pp. 329 sgg. 58 Spinsanti, Etica bio-medica, cit., p. 21. 57
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In medicina, l’etica si lega a una concezione alta del mestiere di medico, più elevata in grado della «deontologia» contemplante – al dire di Simon – «i doveri e i diritti dei medici nello stato attuale della civiltà», e ancor più elevata in grado dei «galatei», riguardanti – come s’è visto – anche temi d’importanza inferiore rispetto ai princìpi, quali le convenienze, il cerimoniale, la ritualità, l’utilità. Nella seconda metà del secolo dei Lumi l’empirismo angloscozzese s’era impersonato, nel campo etico-medico, in alcune figure autorevoli, a cominciare da John Gregory (17241773), professore di medicina teorica a Edimburgo. Nelle sue Osservazioni sui doveri e compiti di un medico (Londra 1770) e nelle sue «letture» di due anni dopo59, Gregory aveva delineato un paradigma di etica medica basato su di una sintesi originale tra la filosofia naturale di Bacone, la scienza fisica di Newton e la filosofia morale del proprio conterraneo e amico David Hume. Questi, nel dirigere la propria riflessione filosofica verso la psicologia e la morale, diceva di voler «muovere direttamente alla capitale, al centro di queste scienze», alla stessa «natura umana», mediante «una vigorosa applicazione alla filosofia morale del metodo sperimentale di derivazione newtoniana»60. Le idee di Gregory erano state sviluppate dal suo allievo Benjamin Rush (1745-1813), medico anticonformista e spirito libero, migrato negli Stati Uniti e qui firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza. Fervente assertore dell’imporVedi John Gregory, Observations on the Duties and Officers of Physician and on the Method of Prosecuting Enquiries in Philosophy, London 1770, e Id., Lectures on the Duties and Qualifications of a Physician, Strahan and Cadell, London 1772. Su Gregory vedi Meinolfus Strätling, John Gregory (1724-1773) and His Lectures on the Duties and Qualifications of a Physician Establishing Modern Medical Ethics on the Base of the Moral Philosophy and the Theory of Science of the Empiric British Enlightenment, in «Medicina nei Secoli», 9, 1997, 3, pp. 455-75. 60 L’affermazione humeana è così riferita da Mario Dal Pra, Hume e la scienza della natura umana, Laterza, Roma-Bari 19732, pp. 65 e 73. 59
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tanza dell’educazione popolare quale mezzo per assicurare stabilità democratica alla nascente Repubblica americana, aveva sostenuto l’esigenza di fondare l’educazione stessa sull’autorità indiscussa dei docenti sui discenti, modello della sottomissione che i cittadini dovevano allo Stato. Con parallelismo politico ed etico-medico, in una Inchiesta sulle influenze delle cause fisiche sulla facoltà morale (Filadelfia 1786) aveva sottolineato la necessità che il medico mantenesse nei confronti del paziente una «autorità inflessibile»61. Nel pensiero di Rush, educare il paziente non aveva per scopo la sua promozione a interlocutore, così come informarlo non significava avere rispetto per la sua autodeterminazione. Educazione e informazione, capisaldi costitutivi di un’etica medica in fieri, miravano pragmaticamente solo a una miglior comprensione da parte del paziente di quanto veniva a lui prescritto dal medico «in modo autoritario e non contrattabile». L’ingresso in medicina dell’etica dell’enlightenment anglosassone era avvenuto senza traccia di considerazione per l’aspetto dialogico del rapporto medico-paziente (e senza riguardo per le premesse fondative delle moderne dottrine del consenso informato)62. Un altro discepolo di Gregory era stato Thomas Percival (1740-1806), il cui Codice di istituzioni e precetti adatti alla Vedi Benjamin Rush, Thoughts Upon the Mode of Education Proper in a Republic, Thomas Dobson, Philadelphia 1786, e Id., An Oration, Delivered Before the American Philosophical Society, Held in Philadelphia on the 27th of February 1786, Containing an Enquiry into the Influence of Physical Causes upon the Moral Faculty, Charles Cist, Philadelphia 1786. Su Rush vedi Chester R. Burns, Setting the Stage: Moral Philosophy, Benjamin Rush, and Medical Ethics in the United States Before 1846, in Robert B. Baker, Arthur L. Caplan, Linda L. Emanuel, Stephen R. Latham (a cura di), The American Medical Ethics Revolution, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1999. 62 Vedi in proposito la tesi di laurea, ancora non pubblicata, di Andrea Enrico Colonnelli, Considerazioni teorico-sperimentali sul consenso informato in ambito medico. La dottrina e le sue applicazioni, relatore Andrea Gentilomo, correlatore Giorgio Cosmacini, facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Milano, a.a. 2003-2004. 61
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condotta professionale di medici e chirurghi (Manchester 1803) s’era proposto come testo di orientamento comportamentale. Basandosi su di esso, l’American Medical Association aveva elaborato nel 1847 il proprio Codice di etica medica, posteriore di un paio d’anni al trattato parigino di Simon sulla «deontologia». Nel codice americano veniva proposto, tra l’altro, il paradigma della «reticenza benevolente» (benevolent deception), secondo cui l’inganno del paziente non era menzogna se giovava al suo benessere, permettendogli di sperare anche quando si trovasse in condizioni disperate63. Quanto al diritto del paziente all’informazione, in una prospettiva di riconoscimento della sua autonomia e dignità personale, s’era però schierato nettamente il dottor Worthington Hooker (1806-1867), che nel suo Medico e paziente del 1849 s’era fatto patrocinatore dei «diritti del malato» a fronte dei «doveri del medico». In particolare aveva sostenuto che dire il vero poteva arrecare al malato più vantaggi che svantaggi e che comunque era preferibile alla benevolenza reticente che taceva o mentiva. La sua voce trovò in America, tra Ottocento e Novecento, echi sempre più consonanti che permisero al paradigma del «dire la verità» (truth telling), di sostituirsi via via a quello precedente64. In questa «radicale riforma» della deontologia americana ebbe un ruolo decisivo Richard Clarke Cabot (1868-1939), professore di medicina a Harvard65. Tra etica e deontologia era venuto a instaurarsi, sullo scor-
Vedi Thomas Percival, Medical Ethics, or a Code of Institutes and Precepts, Adapted to the Professional Conduct of Physicians and Surgeons, Russell, Manchester 1803. Su Percival, nonché su Gregory e Rush, vedi Lisbeth Haakonssen, Medicine and Morals in the Enlightenment: John Gregory, Thomas Percival and Benjamin Rush, Rodopi, Amsterdam-Atlanta 1997. 64 Vedi David F. Musto, Worthington Hooker (1806-1867), Physician and Educator, in «Connecticut Medicine», 48, 1984, 9, pp. 569 sgg. 65 Vedi Chester R. Burns, Richard Clarke Cabot (1868-1939) and Reformation in American Medical Ethics, in «Bulletin of the History of Medicine», 51, 1977, 3, pp. 353 sgg. 63
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cio dell’Ottocento e alle soglie del Novecento, un rapporto tautologico basato sull’idea di dovere: «agire moralmente significa anzitutto conformarsi a una o più regole o princìpi, i quali stabiliscono ciò che qualunque agente razionale deve fare in circostanze simili»66. L’origine remota di questo modo di vedere è rintracciabile nella nozione di comandamento e di legge presente nella tradizione giudaico-cristiana e mediata dalla tradizione giuridica latina. Questa nozione si è coniugata per lungo tempo con la nozione classica di virtù, secondo cui il saggio – da Solone a Socrate – era il virtuoso (prudente, forte, temperante e soprattutto giusto) di cui Platone nella Repubblica e Aristotele nell’Etica Nicomachea avevano disegnato il modello. In età medievale al sostantivo «legge» si associò l’attributo «naturale»: la legge naturale indicava ciò che l’uomo doveva fare per essere autenticamente se stesso, cioè per non perdere di vista il bene autentico che realizzava il fine assegnatogli dalla natura; e poiché quest’ultima era opera divina, la riflessione morale era indissolubilmente legata alla sua elaborazione in chiave teologica e i «doveri dell’uomo» erano coincidenti con i «dieci comandamenti» dati da Dio. In età moderna, dopoché le guerre di religione nei secoli XVI e XVII avevano messo in luce la difficoltà di tenere bloccati in un decalogo i precetti morali delle varie confessioni, venne ad assumere un ruolo centrale, nel XVIII secolo, l’idea di ragione, in cui si identificava l’«idea di dovere»: la ragione prescrive alla coscienza quel che si deve e non si deve fare, dettando certi tipi di comportamento e vietandone altri. È l’etica del dovere razionale, o etica deontologica, formulata nel modo più rigoroso e sistematico da Immanuel Kant nella Metafisica dei costumi del 1797 (preceduta dalla «fondazione» Roberto Mordacci, Le ragioni della bioetica, parte seconda del libro di Giorgio Cosmacini, Roberto Mordacci, Salute e bioetica, Einaudi, Torino 2002, p. 71. Da qui, pp. 72-73, sono tratte le considerazioni fino alla fine del capitolo. 66
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della stessa metafisica nel 1785). Per Kant, l’origine della moralità non è l’inclinazione a ricercare il bene o la felicità secondo il principio di utilità (come teorizzerà la filosofia utilitaristica), bensì la consapevolezza che alcune azioni sono assolutamente sbagliate e altre assolutamente doverose. L’«imperativo morale» emerge spontaneamente quando si lasciano parlare la «ragione pura», indenne da condizionamenti irrazionali, e la «critica», immune da dogmi. Con questo bagaglio d’idee, trasfuse in maggiore o minor misura e in modi diversi nelle varie problematiche deontologiche ed etiche della medicina ottocentesca, tendenti a diversificarsi da luogo a luogo proprio quando gli sviluppi della scienza medica tendevano a unificare le tecniche, i medici si affacciavano al Novecento scientificamente preparati e tecnicamente agguerriti, umanamente partecipi e civilmente impegnati, ma ancora sprovveduti di un codice morale universalmente condiviso. 7. La morale codificata La parola d’ordine «scienza e umanità», perché non rimanesse una dichiarazione d’intenti dei più consapevoli e responsabili membri della classe medica, ma diventasse il pronunciamento unanime dell’intero consorzio, aveva bisogno di un ordinamento associativo – un ordine dei medici – che riunisse tutta la categoria nel progetto e nell’applicazione programmata di una «carta dei doveri» condivisa. Tale programma sarebbe dovuto approdare alla codificazione di obblighi vincolanti, ma anche all’affermazione in veste nuova dell’antica, perenne religiosità del mestiere. Non si trattava solo di rafforzare e tutelare l’identità professionale contro l’abusivismo e la ciarlataneria mediante iscrizione in appositi elenchi detti «albi», né solo di costituire dei giurì interni alla categoria per dirimere le controversie (tra medici, tra medici e pazienti) sottraendone il giudizio al-
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l’opinione pubblica e alle aule di giustizia. Né tantomeno si trattava soltanto di rivendicare per l’arte misera67 dei medici di condotta e d’ospedale condizioni normative e retributive più giuste e più eque di quelle che, in carenza di una legislazione mirata, erano spesso imposte da controparti prevaricatrici (amministrazioni comunali o ospedaliere, notabilato e potentato locali). Uno dei primi rappresentanti di categoria, tale dottor Gianelli, scrivendo all’indomani dell’Unità d’Italia Sugli scopi, mezzi e primordii dell’Associazione medica italiana (Milano 1862) aveva affermato: «Il nostro ministero è missione di carità». Ma dalla carità cristiana e dai suoi ministri si era ormai passati alla «religione dell’onesto», di cui s’è già detto, e ai ministri di una «medicina sociale» che predicavano «non l’ossequio alla religione, ma il socialismo»68. Si doveva dunque fare anche altro. Nella congiuntura ideologica di un culto celebrante «non la scienza per la scienza, ma la scienza tutta per l’umanità», come proclamava nel 1902 il maggior clinico italiano del tempo, Augusto Murri69, si trattava d’innalzare a potenza e di ampliare alla società la dimensione antropologica del mestiere di medico, portatrice di un’etica non soltanto «duale», ma anche «plurale» (di etica della pòlis o politica). Così facendo, si sarebbero date all’intera categoria la consapevolezza piena e la responsabilità morale di dover costituire la «coscienza sanitaria» dell’Italia del Novecento. La figura del medico prometteva dunque di stagliarsi, nel firmamento scientifico-umanitario del nascente secolo XX, Sono di pubblico dominio i due versi a rima baciata dello scrittore veneto Arnaldo Fusinato (Poesie, 1853-54) i quali recitavano: «Arte più misera, arte più rotta / non c’è del medico che va in condotta». Né migliori erano, nell’Ottocento, le condizioni economiche dei medici ospedalieri. 68 Anna Lucia Forti Messina, I medici condotti e la professione del medico nell’Ottocento, in «Società e Storia», 7, 1984, 23, p. 21. 69 Augusto Murri, Per la scienza, discorso letto nell’Archiginnasio di Bologna il 19 gennaio 1902, Bologna 1902, p. 11. 67
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«più eccelsa» che mai. Excelsior! era il titolo di una dimenticata, ma ricuperata poesia dell’americano Longfellow che vent’anni prima aveva dato il nome al famoso ballo del coreografo Luigi Manzotti che nei teatri della belle époque celebrava il trionfo della luce della scienza sul buio dell’ignoranza. Si ribadivano certezze, si proclamava fiducia, si vaticinava progresso. Il medico del Novecento aveva il dovere di configurarsi come primo tra i primi in favore di «quell’essere per la vita nella sua pienezza – contro la morte, la malattia, la fame, la povertà – che rappresenta uno degli elementi più positivi della dinamica sociale» e morale di ogni tempo70. Fu in tale contesto socioculturale che, quindici anni dopo la trasformazione del Codice per la pubblica igiene in una legge dello Stato, inserita da Benedetto Croce tra i fatti memorabili della «vita politica e morale» della storia d’Italia71, nacque l’esemplare prototipico della codificazione etico-medica italiana, il Codice di etica e deontologia «dell’Ordine de’ medici della Provincia di Sassari», compilato dalla Commissione composta dai dottori Usai, Desara-Cao e Pugioni, approvato dal Consiglio nella tornata del 18 gennaio 1903, avallato dall’Assemblea nella seduta del 26 marzo successivo e licenziato in aprile con le firme del presidente Roth e del segretario Devilla72.
70 La formazione del medico in una società che cambia, in «Quaderni della Fondazione Smith Kline», 1980, 2, p. 13. 71 Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 19283, p. 78. Il Codice per la pubblica igiene, elaborato dal medico e parlamentare Agostino Bertani su committenza del capo del governo Agostino Depretis, approdò alla legge Crispi-Pagliani, approvata dal Parlamento il 22 dicembre 1888 e nota come legge di «riforma sanitaria». 72 Codice di etica e deontologia dell’Ordine de’ medici della Provincia di Sassari, Tip. Gallizzi, Sassari 1903. Il Codice consta di 50 articoli: 11 (1-11) relativi ai «doveri e diritti dei sanitari verso il pubblico», raccolti nel capitolo I; 37 (12-48) relativi ai «doveri dei sanitari verso i colleghi», raccolti nel capitolo II; 2 (49-50) relativi l’uno ai «provvedimenti disciplinari» e l’altro ai «provvedimenti pei rapporti verso i medici non aderenti all’Ordine».
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«I medici di Sassari», è stato scritto, ancor prima della istituzione legislativa degli Ordini provinciali avvenuta nel 1910, sentirono l’esigenza di formulare un proprio codice di autoregolamentazione interna. Il fatto che si tratti di una normativa relativa a un organismo privatistico e non pubblicistico, come di lì a sette anni sarà con gli Ordini provinciali di diritto pubblico, nulla toglie all’estremo interesse che il testo presenta da un punto di vista storico-professionale73.
Il Codice sassarese esplicita già nel titolo il suo riferimento a due diversi livelli, se non di valenza, almeno di competenza, l’uno concernente le «cose morali» dell’etica classica, l’altro cose affini, ma diverse in quanto di minor conto, già contemplate in parte nella prosa moralistica o moraleggiante degli ottocenteschi «galatei». Si può dire che il Codice tende al superamento di questi ultimi nel testo «deontologico» protonovecentesco, consegnando la deontologia medica alla sua evoluzione secolare ulteriore. Nel testo sono reperibili alcune arretratezze, ma anche alcuni precorrimenti, com’è proprio delle opere che segnano una transizione, una promozione dal vecchio al nuovo. L’articolo 3 recita che la comunicazione deve svolgersi «nei debiti modi», cioè – come detto all’articolo 1 – con diligenza, pazienza, benevolenza, abnegazione, peraltro ravvisando l’interlocutore destinatario della verità al malato non nel malato stesso, ma in un membro della sua «famiglia o [in] chi ne fa le veci, perché possa prendere quei provvedimenti che sono del caso». Però il medico, com’è detto all’articolo 4, «non intraprenderà alcun atto operativo senza aver prima ottenuto il con-
Rossella Procino, I codici deontologici in Italia. Il percorso di una evoluzione, in Aldo Pagni (a cura di), Per una storia degli Ordini dei Medici, Federazione nazionale degli ordini dei medici-chirurghi e degli odontoiatri, Roma 1996, p. 110. 73
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senso dell’ammalato o delle persone dalle quali questo dipende se minorenne o civilmente incapace». Nel Codice il paziente naviga, per così dire, nel mezzo di una titolarità di diritti che per metà è misconosciuta, quando si ravvisa nei familiari le figure investite della sua rappresentanza, e per metà è invece riconosciuta, quando si ravvisa la necessità preliminare del suo consenso, non sappiamo se molto, o molto poco, informato. La deontologia novecentesca ha davanti due strade, praticabili entrambe: l’una è che la classe medica diventi un corpo organico di tecnici della salute e di educatori sanitari, l’altra è che essa evolva in una corporazione rivendicante al mestiere di medico il carattere di professione libera. La prima non esclude la seconda e viceversa, in una prospettiva d’integrazione reciproca. Il punto cruciale sarà quello di evitare interpretazioni divaricanti e contrapposizioni senza intesa. La classe medica sarà o non sarà la «coscienza morale» della sanità italiana, improntata da vigore etico unitario, radicato nella religiosità del mestiere; oppure sarà o non sarà un’organizzazione di professionisti cementati da colleganza, collegialità, autodisciplina, autovalutazione, autodifesa. Queste le vie – convergenti o divergenti – che si aprono ai neonati Ordini provinciali dei medici, istituiti con legge n. 455 del 10 luglio 1910. 8. Ordinamento dei medici L’Ordine dei medici, preceduto da lunga e travagliata gestazione, nasceva nel clima di costruzione materiale e morale dell’Italia del Novecento. Sensibili alla funzione elevata loro affidata in seno alla società, molti medici consideravano tale funzione non solo legata al loro sapere tecnico-scientifico e al loro potere di stimolo e di controllo (anche di autocontrollo), ma altresì congiunta al loro dovere di elevarsi dall’impegno contro l’illegalità, a legittima difesa dei propri interessi e di-
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ritti, all’impegno contro l’immoralità, a nobile difesa dei diritti dei malati e degli interessi sanitari di tutta la popolazione. Nel progettato ordinamento legislativo della categoria entravano a pieno titolo obiettivi di vasto respiro, costituenti il retaggio di quella volontà di farsi creative teste pensanti della sanità pubblica che i medici già precedentemente raccolti negli Ordini dei sanitari, formati spontaneamente qua e là da quanti erano disposti a impegnarsi attivamente per una soluzione concordata e concorde della «questione sanitaria» agitante il paese, avevano lasciato in eredità ai loro colleghi del Novecento. C’era da chiedersi, senza mezzi termini: dall’ordinamento della professione medica l’«Italia nuova» si aspettava «una vera o una falsa grandezza»? Così s’interrogava, già sul finire del secolo XIX, la coscienza di Augusto Murri, uno dei più autorevoli interpreti di tale diffusa sensibilità. Diceva: «Medico vero non può essere chi non sente imperioso nel cuore l’amore degli uomini; e quando uno di noi con questo sentimento nell’animo è condannato tutta la vita a contemplare, impotente, di quante calamità gli ordinamenti sociali e politici son fecondi per tanti sventurati, egli diventa nemico di questo che pomposamente si suole chiamare ordine»74. Egli, passando dalla riprovazione dell’ordine esistente alla proposizione di un ordine futuro, proseguiva dicendo: Col comodo pretesto del fato o della natura umana, altri si rassegni pure a mirare, spettatore egoista, tanto dolore, tanto sconcio della propria specie; ma il medico, fidando nelle evoluzioni benefiche, chiede rimedi morali, invoca giustizia sociale, anela a un ordine meno mendace. Chi più di lui è persuaso delle strettissime relazioni che corrono tra lo stato economico ed igienico, tra le condizioni fisiche e morali dell’uomo? Chi meglio di lui comprende come il germe degli alti e nobili sentimenti debba rimanere assidera-
Augusto Murri, La vera e la falsa grandezza dell’Italia nuova, discorso politico detto a Fermo il giorno 4 gennaio 1891, Bologna 1891, p. 6. 74
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to dove non spira che il gelido soffio della miseria? Per questo noi ci schieriamo tra coloro che combattono più ardentemente per un ordine nuovo75.
L’identificazione del progetto di ordinamento professionale con il rinnovamento dell’ordine sociale era una mozione implicita nel dire del grande medico. Nel 1909, anno precedente la trasformazione in legge del progettato ordinamento dei medici, il presidente dell’Associazione sanitaria milanese, Giuseppe Forlanini (fratello di Carlo, l’inventore del pneumotorace artificiale nella cura collassoterapica della tubercolosi polmonare), preannunciava l’ormai prossima sistemazione ordinistica della professione rammemorando agli iscritti l’impegno etico, quasi religioso, di sempre: «I medici sono uomini di scienza che hanno conosciuto ciò che è utile e buono» e che pertanto «assillano la lenta società, maestri di igiene, maestri di morale»76. Il loro magistero era anche morale, frutto maturo di una religiosità del mestiere che doveva dar nerbo a ogni ordinamento deontologico costituendone la base irrinunciabile. Approvata dopo un lungo iter parlamentare, la legge istitutiva degli Ordini provinciali dei medici venne ad affiancarsi a tutto il complesso legislativo, tra l’articolato e il frammentario, che era stato precedentemente fuso nel Testo Unico delle leggi sanitarie, datato 1° agosto 1907 (un testo che si presentava come allargamento e perfezionamento della riforma sanitaria crispina del 1888). Nel «rigoglio economico» dell’Italia di Giolitti, Benedetto Croce aveva ancora modo di elogiare questa «attivissima legislazione sociale»77 moralmente ispirata, rispondente a quel binomio – «economica ed etica» – con cui egli stesso Ibid. Giuseppe Forlanini, Discorso inaugurale del presidente per l’anno 1909, in «Atti della Società medico-biologica» dell’Associazione sanitaria milanese, 1909, 2, p. 16. 77 Croce, Storia d’Italia, cit., pp. 234 e 237. 75 76
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aveva sottotitolato nel 1908 il proprio libro Filosofia della pratica, tomo III della tetralogia sulla «filosofia dello spirito»78. Una filosofia dello spirito sostanziata di laica religiosità sottintendeva le due facce, economica ed etica, di un’unica pregiata moneta da investire nel nuovo ordinamento dei medici e nell’incremento del bene comune. 9. Ritornare al Medioevo Nel quasi mezzo secolo di pace europea compreso tra lo scontro franco-prussiano del 1870 e lo scoppio del primo conflitto mondiale è emerso in Italia – così come in Francia, Germania e Regno Unito, anche se in ritardo rispetto a tali paesi – un modello di medicina nel quale, in complementarietà o a completamento dello sviluppo scientifico e dell’avanzamento delle tecniche, un’antropologia medica dove il somatico s’è fatto «umano» e l’umano s’è fatto «sociale» – e dove il sociale s’è identificato per larga parte nel «morale» – ha costituito un indiscutibile progresso etico, a specchio di una rinnovata identità, integrata e consona ai nuovi tempi, del mestiere di medico. In Italia il neonato Ordine dei medici si modella solo in parte su tale paradigma. Già nel quinquennio precedente l’inizio della Grande Guerra, la classe medica rinuncia all’unanimismo ottocentesco e incomincia ad apparire quale sarà: un raggruppamento eterogeneo, privo di coesione, cementato da una posticcia collegialità. La medicina «sociale», rinunciando a identificarsi appieno in una medicina «morale» al di sopra di ogni mischia corporativa e al di sopra d’interessi mascherati da ideali, da un lato si radicalizza nell’ideologia «socialista», dall’altro assume una maschera ideologica di segno nettamente contrario. Un esempio: nel 1912 la dirigenza del 78
Id., Filosofia della pratica. Economica ed etica, Laterza, Bari 1909.
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milanese Ordine dei medici è fortemente contrastata da quegli iscritti che ravvisano nella politicizzata gestione ordinistica l’espressione inaccettabile di un «socialismo medico» che, come scrive biasimando il medico e frate Agostino Gemelli, futuro fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, «oggi fa tanto chiasso a Milano»79. Edoardo Gemelli (1878-1959), poi padre Agostino, è un socialista e materialista pentito. Laureato in medicina nel 1902 a Pavia, allievo di Camillo Golgi (1844-1926) premio Nobel nel 1906 per i suoi studi neuroistologici, ha conosciuto una crisi di coscienza che lo ha portato alla conversione e alla scelta francescana, salutata da parte cattolica come «opera della Provvidenza» e da parte socialista, con la penna di Filippo Turati, come «suicidio di un’intelligenza»80. Il fatto era rimbalzato nella pubblica opinione con una eco amplificata dall’essere Gemelli un medico già rumoroso alfiere di ateismo. «Il dirsi ateo gli sembrava troppo poco», aveva scritto in data 28-29 novembre 1903, stigmatizzandone la conversione, il settimanale socialista «La Plebe» (di cui Gemelli era stato collaboratore), perché per lui «era logicamente assurda la negativa di un fatto che è scientificamente discutibile». Divenuto «il fraticello di Rezzato»81, dal nome del paese nel Bresciano che ospita il convento francescano dove egli è entrato «novizio», Gemelli coltiva l’ideale di una scientia ancilla fidei e vede la medicina – a partire dalla neuropsicologia che costituisce il campo elettivo del suo interesse scientifico – come «quella che reclamava più vivamente un completamento filosofico»82, neoscolastico, onde trasformarsi in uno Agostino Gemelli, Pro veritate, Tip. Artigianelli, Monza 1912, p. 1. Filippo Turati, Il suicidio di un’intelligenza, in «Il Tempo», 27 novembre 1903. 81 Renato Simoni, Il fraticello di Rezzato, in «Corriere della Sera», 4 dicembre 1903. 82 Agostino Gemelli, Il mio contributo alla filosofia neoscolastica, Vita e Pensiero, Milano 1926, p. 12. 79 80
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«strumento apologetico», in una «introduzione razionale alla fede»83. Quanto al moderno «organizzarsi di una medicina sociale», nel 1908 Gemelli riconosce che esso è «prodotto dagli intimi rapporti che si sono andati stabilendo tra le meravigliose conquiste delle scienze sperimentali, che sono alla base della medicina, e le dottrine sociologiche». Peraltro obietta che «a svolgere un programma di medicina sociale si frappongono in Italia difficoltà gravissime», talché una legislazione sociale completa è assurdo per ora sperarla. Nazione giovane per la sua costituzione politica, lo è ancor più per lo sviluppo industriale. Ogni giorno le industrie prendono nuovo sviluppo, ogni dì sorgono nuove industrie; di qui il formarsi di nuovi bisogni che richiedono nuovi provvedimenti in difesa dell’operaio. Ma provvedimenti legislativi avrebbero nell’attuale periodo più che la efficacia di canalizzare e di regolare il lavoro quella di soffocare alcune iniziative ancora nascenti. Di più le difficoltà finanziarie in mezzo alle quali si muovono molte delle nostre industrie nascenti richiedono che esse siano piuttosto aiutate che intralciate nel loro sviluppo mediante norme restrittive anche se queste sono di natura igienica84.
Nello stesso anno, in un articolo dal titolo Le guarigioni di Lourdes dinnanzi alla scienza, scrive: «Ho creduto opportuno [...] riprendere in esame critico, puramente da un punto di vista medico, gli avvenimenti di Lourdes»85. 83 Gustavo Bontadini, Padre Gemelli e la filosofia, in «Vita e Pensiero», XLII, agosto-settembre 1959, p. 582. 84 Agostino Gemelli, Il progresso degli studi scientifici fra i cattolici italiani, relazione alla III Settimana sociale dei cattolici d’Italia, Palermo 27 settembre-4 ottobre 1908, rifusa nelle Osservazioni sulle malattie dei lavoratori in rapporto alla legislazione sociale, in «Rivista internazionale delle Scienze sociali», XVII, fasc. 195-196, estratto, pp. 6 e 28-29. 85 Agostino Gemelli, Le guarigioni di Lourdes dinnanzi alla scienza, in «La Scuola cattolica», a. XXXVI, serie IV, vol. XIV, 1908, p. 15.
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Successivamente, con prediche e conferenze, reagisce alla campagna d’opinione «laicista» sostenuta da quei medici che vogliono demistificare i «presunti miracoli» asseverati dai «lourdisti». Il 10 e 11 gennaio 1910, nella sede dell’Associazione sanitaria milanese, è protagonista di un serrato dibattito contro il presidente Giuseppe Forlanini e altri medici, tra cui Angelo Filippetti e Paolo Pini86. Dopo un esordio cauto, dove rileva l’«opportunità anche per un medico di studiare le asserite guarigioni miracolose» e dove indica la pluralità dei livelli – medico, storico, psicologico, sociologico, archeologico, apologetico – nei quali può essere studiato il miracolo, definisce quest’ultimo come «effetto sensibile straordinario, il quale si fonda non sulle cause naturali a noi note e nella misura della causalità in esse operante, ma su una causalità, immediata o mediata, di Dio. [...] Ne consegue che il miracolo dev’essere oggetto di studio di un’ultima scienza: la teologia»87. Considerare la teologia una scienza era apparso «discutibile», dieci anni prima, allo stesso Gemelli. Questi, in veste di relatore, riferisce ora che dal 1882, anno d’istituzione in Lourdes del Bureau des constatations médicales, la media annuale delle guarigioni è stata di 125. Nella statistica esibita figurano accozzate, accanto a malattie organiche (cardiopatie e tubercolosi) e a gravi infermità (cecità, sordità, mutismi), affezioni con substrato organico dubbio oppure francamente funzionali (107 casi di gastrite, 82 di neurastenia, 53 di isteriGiuseppe Forlanini fu primario medico nell’Ospedale Maggiore di Milano; Angelo Filippetti, impegnato nei campi della «sanità e spedalità» e della educazione igienico-sanitaria, fu sindaco di Milano dal 1920 al 1922; Paolo Pini fu tra i primi assertori della incidenza dei fattori psicologico-ambientali nella genesi delle malattie fatte oggetto di ricovero manicomiale. 87 La relazione gemelliana è pubblicata in extenso in Agostino Gemelli, La lotta contro Lourdes, resoconto stenografico della discussione sostenuta alla Associazione sanitaria milanese (10-11 gennaio 1910) con note e commenti, Firenze 1911. Da qui sono tratte, fino a diversa annotazione, le citazioni che seguono. 86
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smo). Numerose sono inoltre le entità morbose che per essere caratterizzate da un solo sintomo e per di più soggettivo (58 casi di gastralgia, 76 di dispepsia, 12 di cefalea, 65 di nevralgia, 17 di debolezza generale) danno alla casistica la parvenza d’essere per così dire gonfiata. Ma non è con il metodo statistico che vanno valutati i miracoli: anche uno solo, se veramente tale, è per sé in grado di vincere ogni scetticismo. Gemelli, ad abundantiam, ne riferisce due: il primo è il caso di una pseudo-artrosi ciondolante della gamba sinistra, conseguente a frattura biossea non consolidata e complicata da osteomielite, miracolato nel 1875, sette anni prima dell’entrata in funzione del Bureau, e certificato come evento miracoloso non solo dal parroco del paese, ma anche da un borghese libero pensatore e da un medico tosto convertitosi al cattolicesimo; il secondo caso è quello di una spondiloartrite vertebrale di presunta (in epoca pre-radiologica) natura tubercolare (morbo di Pott) in cui la paziente, incapace di camminare, è stata miracolata nel 1897 muovendo i primi passi come da certificazione del Bureau. Gemelli, come medico, si arresta qui, davanti a fatti inesplicati, inesplicabili alla luce della scienza. Ma il suo «non so» conclusivo va oltre i limiti di quest’ultima, quei limiti che ogni scienza deve darsi – egli dice – «modestamente, rigorosamente, senza preventive generalizzazioni, senza postulati anticipati, senza ipotesi metafisiche». Egli non affaccia un’ipotesi metafisica, egli afferma una metafisica verità: «Qui, al confine tra le scienze biologiche e la filosofia, qui [...] dobbiamo rinunciare allo studio sperimentale per affidarci alla analisi e alla sintesi che può compiere la indagine metafisica». Tralasciamo le voci mediche che si alzano pro e contra88. Per una dettagliata descrizione del dibattito societario e degli echi di stampa successivi vedi il capitolo VII, La lotta per Lourdes, della parte seconda del libro di Giorgio Cosmacini, Gemelli. Il Machiavelli di Dio, Rizzoli, Milano 1985, pp. 126-37. 88
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Limitiamoci a prendere atto che la metafisica, bandita in medicina da clinici come Boerhaave nel primo Settecento e come Tommasi nell’Ottocento maturo, riafferma per bocca di un medico il suo diritto di cittadinanza. È un sintomo premonitore del fatto che la cultura medica tende a mutare nel clima novecentesco di «reazione alla scienza» che ha per protagonisti congiunti, pur se attestati su diversi versanti, un idealista come Croce e uno spiritualista come Gemelli. Quest’ultimo, stendendo il 1° dicembre 1914 l’editoriale del primo fascicolo della nuova rivista «Vita e Pensiero. Rassegna italiana di Coltura», scrive: Ecco il nostro programma: noi siamo medioevalisti. Noi ci sentiamo profondamente lontani, nemici anzi della cosiddetta coltura moderna [...]. Non ci si fraintenda. Non vogliamo un puro ritorno al Medioevo; non diciamo che si debba rivivere senz’altro il passato. La storia del passato non si ripete mai. Noi siamo medioevalisti, perché abbiamo compreso essere necessario che l’anima che ispirava la coltura medioevale, proprio quell’anima, ma maturata, ispiri pure la nostra coltura, vivifichi il nostro pensiero contemporaneo. Noi ritorniamo cioè al Medioevo non per arrestarci e cristallizzarci in esso, ma per trovare in esso le armi efficaci a conquistare l’avvenire, ossia per far sì che, come la Chiesa Cattolica era allora l’anima della coltura, lo sia, o meglio lo divenga anche oggi. Ritorniamo adunque al Medioevo89.
Anche in medicina, la scienza egemone dell’ideologia positivista tende a diventare la scienza ancillare dell’ideologia cattolica90. Colui che annuncia il nuovo verbo, dirà Giusep-
89 L’editoriale della rivista «Vita e Pensiero» è ristampato in Agostino Gemelli, Idee e battaglie per la coltura cattolica, Vita e Pensiero, Milano 19402, pp. 1-33. 90 Vedi Giorgio Cosmacini, Scienza e ideologia nella medicina del Novecento. Dalla Scienza egemone alla scienza ancillare, in Franco Della Peruta (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. VII, Malattia e medicina, Einaudi, Torino 1984, pp. 1221-67.
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pe Dalla Torre, per circa quarant’anni direttore dell’«Osservatore romano», somiglia splendidamente alle grandi figure della Controriforma. Perché anche qui occorreva, si preannunciava una Controriforma. E più vasta ancora [...]. Se i lottatori della Controriforma religiosa partirono da fonti spirituali, quella contemporanea fattasi ormai Controriforma sociale e civile, vide questo suo lottatore partire dalle fonti culturali e scientifiche91.
Quanto alla metafisica, indipendentemente dalla sua realizzata o mancata inserzione nel sapere medico, sarà perdente la sua negazione e sarà perdente la tesi di Bertrand Russell, secondo cui «cercarla è come inseguire in una stanza buia un cane nero che non c’è».
10. Il medico sacerdote Già all’indomani della loro istituzione, gli Ordini provinciali dei medici sono teatro di una profonda divaricazione tra chi si fa interprete della prioritaria vocazione ordinistica a un’analisi approfondita della realtà sociosanitaria, e a un’auto-analisi altrettanto approfondita della realtà professionale, e chi invece si fa interprete solo di quest’ultima realtà e solo sul versante rivendicativo e corporativo, contando sulla propria forza contrattuale e facendosi portatore della tesi ambigua (e tuttavia riaffacciata più volte in futuro) che al miglioramento economico della professione avrebbe certamente fatto seguito, per meccanica sequenza di causa-effetto, il miglioramento della sanità e della società. Con questa divaricazione, che incide trasversalmente nelle varie componenti or-
Giuseppe Dalla Torre, La figura e l’opera di Padre Gemelli, in «Vita e Pensiero», XLII, agosto-settembre 1959, p. 699. 91
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dinistiche, si intersecano le tensioni e gli scontri che spaccano verticalmente, politicamente, il mondo medico-sanitario. Un codice deontologico «unificato», abbozzato nel 1912 ma compiutamente elaborato soltanto nel 1924 per iniziativa dell’Ordine dei medici di Torino, si arena, suo malgrado, nelle secche della delegittimazione sindacalista degli Ordini, sancita nel 1926; tant’è che tre anni dopo, nel 1929, gli organi dirigenti degli Ordini cessano di essere espressioni di libere elezioni democratiche per essere nominati dall’autorità politica, sentito il parere dei sindacati di regime. I medici vengono inquadrati, a livello nazionale, nella Corporazione dei professionisti e degli artisti e, a livello locale, nei Sindacati provinciali fascisti dei medici, i quali assorbono anche le competenze degli Ordini, finché questi vengono soppressi con decreto n. 184 del 5 marzo 1935. Sono gli stessi sindacati a occuparsi della tenuta degli albi e della regolamentazione deontologica della professione, dando spazio a distinzioni di principio e a discriminazioni di fatto. Nessuna organizzazione sindacale, ad esempio, viene concessa ai medici dipendenti dalle amministrazioni pubbliche, che si vedono inquadrati nelle associazioni del pubblico impiego e regolati dalla normativa vigente per queste: un medico condotto, in pratica, è un burocrate che non può esercitare se non è iscritto al partito unico. Alla guida del Sindacato nazionale fascista dei medici è il clinico tisiologo di Roma Eugenio Morelli (1881-1961), il quale addita agli iscritti il modello da imitare: «Il Duce ha detto nel suo discorso: il medico è come il sacerdote»92. «Accompagna l’uomo dal principio alla fine. Il sacerdote tutela la nostra anima e fa in modo che sia degna della beatitudine ul92 Eugenio Morelli, Il medico nel Regime Fascista, discorso pronunziato alla inaugurazione dell’anno accademico della Scuola di applicazione di Sanità Militare di Firenze il giorno 22 febbraio 1934, in «Le Forze sanitarie», III, 1934, 9, p. 533. Il riferimento è al «Discorso del Duce», rivolto da Benito Mussolini ai medici in Campidoglio nell’anno X dell’era fascista.
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traterrena. Il medico ci protegge la salute del corpo, che anch’essa è essenziale»93. Cinque anni dopo, il cambio della guardia tra Morelli e il chirurgo romano Raffaele Bastianelli (1863-1961) alla testa del sindacato non scalfisce minimamente il modello indicato: «Io penso che l’ideale perfetto del medico sarebbe il curato medico». Oltreché fare propria l’analogia medico-sacerdote, Bastianelli tiene a precisarla in chiave autobiografica: «Se io potessi rinascere vorrei diventare monaco benedettino, vorrei essere cioè l’uomo che studia e pratica la medicina con spirito di religione e solo a questo fine». Tale è il messaggio edificante indirizzato al consorzio medico perché resti «lontano da ogni tentazione terrena»94. Per Bastianelli, come prima per Morelli, la mistica fascista è l’usbergo etico del ruolo medico apparentato al ruolo sacerdotale. Tuttavia Bastianelli, al proprio uditorio sindacale che è interessato a problemi più prosaici e meno sacri, non si esime dall’ammiccare: «Questa grande aspirazione di essere monaco benedettino e medico nello stesso tempo forse non si avvererà mai»95. Sei anni più tardi, passata la bufera della guerra e tramontata l’ideologia dominante per un ventennio, con decreto n. 233 del 13 settembre 1946 sono ricostituiti gli Ordini provinciali dei medici soppressi dal fascismo. In concomitanza con la rinascita del paese, la Federazione nazionale degli ordini ricupera il testo di Torino e lo porta a conoscenza di tutIl passo del discorso mussoliniano ai medici è riportato, insieme al «Giuramento d’Ippocrate», in premessa del Manuale medico di diagnostica e terapia, redatto dal prof. dott. Anton Spartaco Roversi, edito a cura della S.A. Farmaceutici Italia, Pirola, Milano 1940, p. X. 94 Parla il prof. Bastianelli, parole conclusive del Raduno dei sindacati fascisti dei medici in Sicilia, Palermo 8 gennaio 1939, in «Le Forze sanitarie», suppl. al n. 2 del 31 gennaio 1939, p. XXXV. 95 Ibid. 93
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ti gli iscritti in vista di un referendum mirante alla redazione di un codice deontologico nazionale96. Nel 1953 la stessa Federazione affida la redazione a una commissione di cui è presidente il clinico medico di Roma Cesare Frugoni (1881-1978). La commissione conclude i suoi lavori nel 1954: il testo definitivo è approvato non prima del 1958. Suoi enunciati sono, ai primi posti: che il medico si ispira a «scienza e coscienza»; che «prevenzione», «cura delle malattie», «sollievo della sofferenza», «difesa della vita», «rispetto della persona» sono i suoi compiti inderogabili; che il medico «obbedisce ai principi della solidarietà umana»; che «il rapporto fra medico e malato è essenzialmente fondato sulla fiducia»; che «la tutela della salute collettiva impegna l’opera del medico come quella della salute individuale e secondo gli stessi principi morali»97. Si ripresenta un’etica medica dove il comportamento «morale» torna a caricarsi di contenuto «sociale». Tramontata la retorica di regime? Dimenticato il repertorio metaforico mussoliniano? Il clinico chirurgo di Roma Raffaele Paolucci di Valmaggiore (1892-1958), in veste di presidente della Società italiana di chirurgia al 54° Congresso societario (Venezia 1952), esorta a ricuperare la «non errata concezione che quella del medico, oltre una professione, sia un sacerdozio»98. È l’ennesima enunciazione di una identità usata strumentalmente: la «missione» sacerdotale è la maschera tendente a sublimare una «professione» spesso esercitata in modo niente affatto sublime. Tanto più che lo stesso Paolucci, procla96 Vedi il Codice deontologico (anno 1924 e anno 1947), in Cento anni di deontologia medica, a cura della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, pubblicazione in occasione della giornata celebrativa del centenario, Roma 30 ottobre 2003, pp. 19-34. 97 Vedi il Codice di deontologia medica (anno 1958), ivi, pp. 35-46. 98 Raffaele Paolucci, Discorso inaugurale del 53° Congresso della Società italiana di medicina interna (congiunto al 54° Congresso della Società italiana di chirurgia), Venezia 3 ottobre 1952, in «Atti congressuali», Pozzi, Roma 1953, pp. 10-11.
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mandosi nel 1957 «contrario in maniera assoluta a ogni forma di mutualità»99, specifica che il medico-sacerdote da lui vagheggiato deve albergare in cuor suo «la umana speranza che la sua lunga fatica», svolta come libera professione scevra da burocratismi, «lo porti a riscuotere un più alto premio»100. Il premio per il medico-sacerdote idoleggiato da Paolucci, e da non pochi medici appartenenti al suo nobile rango, è cosa diametralmente opposta a tutto ciò che, a suo avviso, penalizza il «medico della mutua» nell’esercizio quotidiano del suo pur nobile mestiere. Che il medico abbia il diritto di autoqualificarsi sacerdote – non però per mascherare a parole una religiosità carente nei fatti – è cosa deontologicamente e moralmente lecita. Ma è lecito anche l’inverso: che il sacerdote si richiami alla figura del medico ricollegandosi a quella del Cristo sotèr, «salvatore», «guaritore». Ciò sancisce di fatto quanto affermato fin qui: che l’essere medico comporta una religiosità strutturale, sostanziale, che può essere presa a modello perfino nell’ambito del sacerdozio. «Medicina Sacerdozio» è, dal 2006, un corso elettivo della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Vita-Salute dell’Istituto scientifico Ospedale San Raffaele di Milano. È emblematico che il primo laureato, honoris causa, in tale corso di elezione sia per l’appunto un sacerdote, Carlo Maria Martini, preclaro per l’attività pastorale come arcivescovo (oggi onorario) di Milano e per il suo magistero intellettuale e morale, del quale sono parti integranti assai significative la particolare attenzione alla «cultura del corpo» e l’istituzione della «cattedra dei non credenti»101.
Id., Discorso ai medici, in «Battaglie sanitarie», VI, 1957, 10, p. 7. Vedi supra la nota 98. 101 Il conferimento della laurea, honoris causa, in medicina e chirurgia, corso elettivo «Medicina Sacerdozio», all’arcivescovo emerito di Milano Carlo Maria Martini da parte del rettore dell’ateneo don Luigi Verzè e del ministro dell’Università e della ricerca Fabio Mussi è avvenuto il 13 ottobre 2006, nell’occasione celebrativa del 10° anno di fondazione dell’ateneo mi99
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11. Il miracolo della guarigione Il clinico medico di Roma Cesare Frugoni, che abbiamo visto coordinare i lavori di redazione del Codice di deontologia (1958), è lo stesso che dieci anni prima, all’indomani del secondo conflitto mondiale, indicando ai medici italiani riuniti a congresso i «grandi regali» recentemente elargiti dalla medicina all’umanità, ha messo al primo posto la penicillina dicendo: «Finché io viva, mai scorderò l’emozione con la quale ho licenziato dalla mia Clinica i primi malati guariti da endocardite lenta, dalla terribile malattia che fino a poco fa ci obbligava a preannunciare come inevitabile e fatale la morte»102. Frugoni non ha pronunciato la parola miracolo. A farlo ci pensano la pubblicistica e l’industria medica. C’è chi, a proposito dei «prodigi della medicina moderna», scrive: «Ogni medico che ricorda i giorni in cui egli seguiva il malato mentre Dio decideva se il paziente doveva superare la crisi nella polmonite lobare oggi nutre indiscriminata fiducia nei moderni miracoli»103. Non è un caso che il foglietto pubblicitario che reclamizza la prima penicillina prodotta in Italia – la «Supercillin» della Società prodotti antibiotici (SPA) di Milano – abbia la struttura iconografica dell’ex voto: «Un letto in cui giace una bimba con gli occhi chiusi e il volto arrossato, divorata dalla febbre e, accanto a lei, i genitori con lo sguardo angosciato e implorante rivolto al medico, che seduto su quel letto di do-
lanese. Circa «quella realtà sintetica per eccellenza che è il corpo umano» vedi, di Carlo Maria Martini, Sul corpo, Centro Ambrosiano, Milano 2000. 102 Cesare Frugoni, Discorso inaugurale del 47° Congresso della Società italiana di medicina interna (congiunto al 48° Congresso della Società italiana di chirurgia), Firenze, 14 ottobre 1946, in «Atti congressuali», Pozzi, Roma 1948, p. 10. 103 Steven M. Spencer, I prodigi della medicina moderna, trad. it. di Teresa Casarotto, Francesco Vallardi, Milano 1960, pp. XXVI e XXIX.
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lore osserva una fiala di penicillina che tiene con cura in mano e dalla quale dipende il miracolo della guarigione»104. Di questa ideologia medica del miracolo, condivisa da molti addetti e cui fa da cassa di risonanza gran parte della stampa medica e non medica, si lamenta pubblicamente, durante una conferenza tenuta a Torino il 9 ottobre 1946, lo stesso Alexander Fleming, premio Nobel «per la scoperta della penicillina e dei suoi effetti curativi in molte malattie infettive». Egli dice: «La molta pubblicità sui giornali, non sempre accurata dà l’idea che con la penicillina noi abbiamo qualcosa di miracoloso». Ciò «ha fatto parecchio male e continuerà a farne, se l’errore non sarà corretto»105. L’errore non sarà corretto e assumerà vari aspetti, tutti deteriori. Uno di tali aspetti sarà appunto «il miracolismo, condito magari da una certa diffidenza nei confronti degli uomini di scienza [che] indulge all’aneddotica e prevede spettacolari colpi di scena»106. È il caso, ad esempio, delle cure miracolose, tra cui ben 43 «cure contro il cancro che non hanno dimostrato la loro efficacia, e che tuttavia hanno ottenuto grande successo commerciale» dal 1945 al 1982107. Si ricordano il «siero Bonifacio» negli anni Cinquanta, la «cura Vieri» negli anni Sessanta, l’«immunomodulatore biologico» dell’oncologo Zora negli anni Settanta. A questa serie prolungata s’è aggiunta, negli anni Novanta, la «multiterapia Di Bella». Lo spettacolo è stato ed è quello consueto, rappresentato tra farsa e dramma: Vittorio A. Sironi, Le officine della salute. Storia del farmaco e della sua industria in Italia, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 164. 105 Le parole di Alexander Fleming sono riportate da Giorgio Cosmacini, Vittorio A. Sironi, La storia insegna, in «Vanvitelli 32», III, 1992, 14, p. 4. 106 Giuseppe Gaudenzi, Le cure miracolose: le responsabilità della stampa e della comunità scientifica, in Marco Geddes, Giovanni Berlinguer (a cura di), La salute in Italia. Rapporto 1997, Ediesse, Roma 1997, p. 137. 107 L’elenco è nel libro di Gianni Bonadonna, Gioacchino Robustelli Dalla Cuna, Medicina oncologica, Masson, Milano 1994. 104
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«folle tumultuose vocianti; richieste pressanti e illogiche; patrocini incoerenti e demagogici; illusioni e delusioni che aggravano il drammatico e doloroso calvario dei malati»108. Un altro aspetto deteriore della mancata correzione dell’errore denunciato sessant’anni fa da Fleming è che il miracolismo è contagioso e induce anche in seno alla medicina ufficiale la vanteria di risultati straordinari illimitati, fuori dall’ordine e oltre i limiti della natura. Esso, interpretato in buona o più spesso mala fede, si presta a legittimare comportamenti avventurosi che sfruttano la suscettibilità a pulsioni emotive delle persone in difficoltà o che, peggio ancora, «sfruttano la sensibilità del corpo sofferente a influenze irrazionali»109. Un terzo aspetto, inoltre, è il fatto che il miracolismo si presta a commistioni ambigue con l’ambito della religione e della sacralità. Ove la malattia sia ancora vista come alterità ontologica, come «un vero e proprio parassita» o addirittura «un piccolo demonio» o «spirito maligno» (donde trae formulazione anche il concetto di malignità clinica applicato a malattie inguaribili come purtroppo molte forme tumorali)110, l’intervento dell’esorcista, non di rado un prete ritenuto depositario di un potere sacro, è sì deriso dalla scienza medica, ma spesso accettato o tollerato dalla gerarchia ecclesiastica se il ruolo sacerdotale del guaritore accredita costui di un carisma con larga presa sulla credulità popolare. Si ricordano, tra i casi storici più noti (in area lombarda), quello del «pret de Ratanà», don Giuseppe Gervasoni, e quello del parroco di Cascina Amata presso Cantù, don Gennaro Laurora; nonché il caso contemporaneo, internazionalmente noto, di Adelfio Elio Cardinale, Cure del cancro tra farsa e dramma, in «Corriere della Sera», 1° febbraio 1998, p. 23. 109 Vedi Tobie Nathan, Isabelle Stengers, Medici e stregoni, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 119. 110 Vedi Werner Leibbrand, Medicina romantica, trad. it. di Giovanna Federici Ajroldi, Laterza, Bari 1939, pp. 103-104. 108
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monsignor Milingo, estroverso vescovo guaritore ed ennesimo interprete della «figura del prete nelle leggende di magia»111. Solo folklore? Nel 1998 il famigerato «siero Bonifacio» degli anni Cinquanta viene riproposto, dopo mezzo secolo, con il nome aggiornato di «Oncoclasina». «Questione di giorni», è il commento alla notizia in previsione del suo imminente reingresso tra le «cure miracolose»: «Il preparato sarà distribuito a San Giovanni Rotondo, davanti alla Casa Sollievo della Sofferenza di Padre Pio». A riproporlo è il figlio dell’inventore del «siero», che non si esime dal miscelare sacro e profano nella mozione degli affetti e delle emotività: «C’è anche una motivazione religiosa se ho deciso di ricominciare. Lo faccio soprattutto per le mamme dei bambini malati che mi chiedono aiuto. A loro non riesco più a dire di no»112. A San Giovanni Rotondo, nel grande Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) «Casa Sollievo della Sofferenza», sorto dove il santo frate Pio da Pietrelcina fece i miracoli a lui riconosciuti113, medici valenti non fanno miracoli per cui non sono titolati, ma con «scienza e coscienza», cioè con la tecnica e la religiosità di cui sono titolari in quanto medici, studiano le malattie e curano i malati. Non sono ispirati da miracolismo guaritore; sono invece motivati da istanze morali e da idee razionali che hanno per fine le cure migliori e le guarigioni possibili. 111 Vedi Massimo Pirovano, La figura del prete nelle leggende di magia, in «La Ricerca folklorica», ottobre 1997, p. 36. 112 Adriana Bazzi, Ritorna in vendita anche il siero Bonifacio, in «Corriere della Sera», 18 gennaio 1998, p. 4. 113 Il padre francescano Agostino Gemelli, che abbiamo visto nel 1910 farsi strenuo assertore – da frate e da medico – delle miracolose guarigioni di Lourdes, inviato nel 1920 dal Sant’Uffizio a San Giovanni Rotondo per verificare l’eventuale natura miracolosa delle stimmate del padre cappuccino Pio da Pietrelcina (al secolo Francesco Forgione), di fronte al dilemma o inganno o miracolo, non poté o non volle avallare questa seconda interpretazione, cui peraltro aderì oltre trent’anni dopo.
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12. Religiosità della religione Le istituzioni operanti nel campo dell’assistenza e della salute sotto il segno della religione cristiana si sono coperte di molte benemerenze nella storia ospedaliera d’Italia e, più latamente, d’Europa. Dagli ospedali medievali dedicati a Dio, allo Spirito Santo, alla Madonna, alla Santa Croce – emblematici l’Hôtel Dieu di Parigi, il Santo Spirito di Roma, il Santa Maria Nuova di Firenze, il Santa Maria della Scala di Siena, il Santa Cruz di Barcellona – fino ai numerosi e diversi «luoghi pii», la religione cattolica ha battezzato nei secoli molteplici istituzioni di assistenza e di cura ideate, promosse, organizzate, gestite da sacerdoti e da suore esemplari per autentica religiosità e per vero amore verso «fratelli» e «sorelle» in difficoltà esistenziale e con bisogno d’aiuto. Nel 1890, in Italia, la legge Crispi sulle «opere pie», nota come legge di riforma ospedaliera, ebbe lo scopo o la pretesa di laicizzare tali opere, fino allora sostenute da elargizioni volontarie e donazioni benefiche, in «servizi di pubblica assistenza» da sostenere con stanziamenti e finanziamenti programmati. Ma la perdita degli afflati di pietas e di charitas non fu compensata a sufficienza dalle nuove istanze di filantropia e apostolato laico. Nel proseguire del tempo e nel mutare delle ideologie, le istituzioni ispirate ai valori cristiano-cattolici, lungi dal declinare, sopravvissero e anzi si potenziarono, con pieno riconoscimento dei loro meriti; meriti tanto più riconosciuti al giorno d’oggi, quando in analoghe istituzioni le medesime attività assistenziali e curative (di prevenzione, diagnosi, terapia, riabilitazione) sono svolte con religiosità nel rapporto interumano, tra curanti e curati, oltreché da posizioni tecnico-scientifiche d’avanguardia. Tale, in Roma, l’Ospedale San Giovanni Calibita all’Isola Tiberina, gestito dal 1584 dall’Ordine ospedaliero San Giovanni di Dio o dei Fatebenefratelli114. Il portoghese Giovan114
Vedi Giorgio Cosmacini, L’Ospedale Tiberino. Assistenza e sanità dal
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ni di Dio, Juan Ciudad (1495-1550), fu con Camillo de Lellis (1550-1614) il protagonista rinascimentale di quella rivoluzione antropologica, «umanistica», compiuta «dal basso» e propria di persone «del popolo» che, in veste di umili infermieri, si volsero alla cura degli infermi (e di cui s’è detto nel par. 10 del cap. I)115. Si trattò – giova ribadirlo – di un umanesimo con valenza non inferiore a quella dell’assai più noto e celebrato umanesimo «dall’alto» proprio delle persone che in veste di «umanisti» riscoprirono l’importanza delle humanae litterae e riportarono in auge la letteratura dei classici. Fu un umanesimo non meno elevato e più profondo, che affondò le radici nella natura dell’uomo, di tutti gli uomini, a prescindere dalMedioevo all’età moderna, nel volume L’isola della salute. L’Isola Tiberina dall’antichità ai nostri giorni, Associazione amici dell’Ospedale Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina di Roma, Roma 1996, pp. 107-76. 115 Giovanni Ciudad nacque a Montemor-o-Novo da famiglia contadina. Alle soglie della giovinezza fu arruolato nell’esercito imperiale di Carlo V, itinerando per l’Europa. Congedato, lavorò come manovale in Marocco e come venditore ambulante di almanacchi a Gibraltar e a Granada. A quarantatré anni era ancora un uomo senz’arte né parte e senza radici. Il suo errare era tanto un andare errabondo, quanto un vivere nell’errore. Folgorato dalla parola di Giovanni d’Avila, grande predicatore, fu colto da una crisi mistica, mediata da un’apparente follia. Erano gli anni in cui la follia aveva ricevuto da Erasmo il proprio elogio: era la follia la vera ragione, non omologata agli stili di vita mondani e perciò anticonformista e «diversa». Giovanni trovò la sua vocazione in quella società di «diversi» che era la comunità dei folli rinchiusi nell’Hospital Real di Granada. Dimesso libero da infermità e liberato da ogni passata nequizia, intraprese l’opera di assistenza agli infermi e di proselitismo degli infermieri elemosinando per le strade della città andalusa al grido: «Fate bene fratelli, per l’amore di Dio». Ventidue anni dopo la sua morte, nel 1572, papa Pio V conferì ai continuatori della sua opera il primo riconoscimento ufficiale. Giovanni di Dio fu beatificato nel 1630 da papa Urbano VIII, proclamato santo nel 1690 da papa Alessandro VIII, dichiarato «patrono degli ospedali e degli ammalati» nel 1886 da papa Leone XIII e «patrono degli infermieri» nel 1930 da papa Pio XI. La vita e l’opera di Giovanni di Dio hanno avuto numerosi biografi e agiografi. Chi non è sospettabile di agiografia fu Cesare Lombroso, che nel libro sull’Uomo di genio (1892), scrisse: «Giovanni fu un riformatore [...]; fu il primo che pensò di dividere i malati in categorie, fu insomma il creatore dell’ospedale moderno».
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le loro condizioni culturali e sociali; perché la malattia, la sofferenza, il dolore prescindono da tali condizioni, e perché la cura dovrebbe prescinderne. Giovanni di Dio «non si proponeva di fondare una comunità religiosa. Il suo maggiore interesse era di servire i poveri e gli ammalati». Nel corso dei secoli, «essere un istituto di religiosi fratelli è [stato] un elemento importante dell’identità ospedaliera»; oggi si può dire che «i risultati sono andati ben oltre l’intuizione e la follia del Santo della carità»116. Il modello operativo attuato – al di fuori da una visione agiografica che lo propone come «modello per le istituzioni sanitarie pubbliche» – è un «riflesso della forza fondativa [...], di un’ospitalità alimentata dal vangelo della carità»117. In termini meno celebrativi, è un modello che tende a coniugare al meglio l’attività relazionale, in cui la carità cristiana si aggiunge alla laica religiosità potenziandola, e l’attività tecnico-scientifica, in cui le competenze medico-infermieristiche e le specializzazioni medico-chirurgiche sono potenziate dall’«aggiornamento continuo del personale» e da «grandi attrezzature biomediche»118. La garanzia, a ricoverati e non ricoverati, delle migliori condizioni di assistenza e di cura è tale da far ritenere auspicabile che non sia minore il tasso qualitativo di altri centri, il cui modello non contempla aggiunte di fede alla laica religiosità dei curanti. D’altra parte, nella stessa istituzione che vanta una tradizione semimillenaria di cure all’insegna della religione cristiano-cattolica, il retaggio tradizionale è così prestigioso, e nel contempo rispettoso della libertà di coscienza, da non contemplare esigenze o richieste vincolanti a una dichiarata professione di fede: medici e infermieri non 116 «I Fatebenefratelli nel mondo», pubblicazione dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio, Curia Generalizia, Roma 2006, pp. 13-15 passim. 117 Ivi, p. 14. 118 Ivi, p. 36.
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devono essere necessariamente credenti o praticanti; devono essere soprattutto provvisti di tecnica sapiente e di grande umanità. Il loro mestiere non ha da essere una professione di fede religiosa, ma una professione sanitaria ad alto grado di religiosità. Per l’Ordine ospedaliero citato, un conto è il curante ideale, personificato da Erminio Pampuri (1897-1930), fra Riccardo, medico e confratello fatto santo, «dottore della mutua di Dio»119 che ritenne incompatibile con i propri principi morali l’appartenenza al Sindacato nazionale fascista dei medici120; un altro conto sono i curanti reali, impersonati nei tanti medici e infermieri che depositano un’alta tecnologia e una religiosità tutta umana nel lavoro quotidiano svolto in una istituzione concepita e fondata come opera di Dio. «Senza la collaborazione dei laici oggi noi non potremmo sussistere», scrive nel 1983 il padre generale Pier Luigi Marchesi, promotore in Italia della «umanizzazione» degli ospedali121. Un altro paradigma che si allaccia alla sacralità dei princìpi, ma che si realizza nella religiosità, anche laica, delle opere, è quello che dal secondo dopoguerra è stato elaborato, proposto, attuato dal pensiero precorritore e dall’azione anticipatrice di don Carlo Gnocchi (1902-1956), «prete ambrosiano» fondatore nel 1948 della Federazione pro infanzia mutilata, evoluta nel 1951 nella Fondazione pro juventute per i «mutilatini» di guerra, ma poi anche per i colpiti da «paralisi infantile» (poliomielite)122. Motivato dall’idea che la medicina è un mezzo umano per realizzare un disegno divino, cioè «un modo con il quale Dio
119 Gianfranco Radice, Un dottore della mutua di Dio. Fra Riccardo Pampuri, Garzanti, Milano 1982. 120 Vedi la lettera di Pampuri riportata ivi, pp. 199-200. 121 Padre Pier Luigi Marchesi, Umanizzazione, parte II, Roma 1983, p. 83. 122 Vedi Giorgio Rumi, Edoardo Bressan, Don Carlo Gnocchi. Vita e opere di un grande imprenditore della carità, Mondadori, Milano 2002.
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dimostra di voler bene all’uomo»123, don Gnocchi è stato l’antesignano di una restaurazione della persona umana124, intesa come «riabilitazione integrale»: una riabilitazione che, superando da un lato l’inerzia di un’assistenza meramente misericordiosa e dall’altro l’ottica meccanicistica riducente la persona all’organismo e l’organismo alla macchina organica, ha assunto valenza «umanologica», cioè anche psicologica, occupazionale, sociale, globale, supportata dalla tecnologia medica più aggiornata e avanzata. Don Gnocchi non era un medico, né un pediatra, né uno psicologo dell’età evolutiva. Ma da curante vero fu insieme tutto ciò, avendo compreso, pur senza averlo appreso da alcuno, che al di là di ogni guarigione impossibile colui che assiste e cura con amore un bambino in stato di bisogno può molto. Tanto più può se il bisogno è un deficit e un handicap dove la mancanza e l’ostacolo diventano sofferenza. Per questo il modello da lui proposto è stato ed è proponibile come modello da imitare per ogni sorta di «disabilità» o «diversa abilità»125. Oggi il mondo della «disabilità» o «diversa abilità» – un mondo che attraversa ogni età della vita – è una terra assai popolata che, al contrario dei ghiacci che si riducono, può essere paragonata a un iceberg che emerge sempre più vasto dalla complessa società nella quale viviamo. La sempre più ampia e diversificata gamma di compiti medico-sanitari, di impegni scientifico-tecnici, di opere di rapporto interumano, il moltiplicarsi delle persone – clinici, ricercatori, tecnici, infermieri, volontari – che scelgono di dedicarsi a questa affollata città dolente, l’affermarsi, tra non 123 Parole di don Gnocchi riportate da mons. Aldo Del Monte, Don Gnocchi. Ritorno alle sorgenti, Piemme, Casale Monferrato 1996, p. 93. 124 Don Carlo Gnocchi, Restaurazione della persona umana, La Scuola, Brescia 1946. 125 Vedi Giorgio Cosmacini, «La mia baracca». Storia della Fondazione Don Gnocchi, prefazione del cardinale Dionigi Tettamanzi, Laterza, RomaBari 2004.
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poche difficoltà, della convinzione condivisa che non tutto si monetizza e non su tutto si deve lucrare, rendono il nostro tempo, almeno in prospettiva, migliore di quanto spesso appare dalla cronaca quotidiana. Anche e soprattutto nel campo delle «fragilità» umane, la tecnologia terapeutica e l’antropologia curativa coniugate nel paradigma della religiosità laica del medico costituiscono un modello vincente che non ha paragone126. 13. Medicina cattolica Don Gnocchi, sacerdote non medico, fu più che un medico. Padre Gemelli, sacerdote e medico, fu addirittura un creatore di medici127. A lui si deve il modello forse più cospicuo dell’apporto alla professione medica da parte del pensiero cattolico nell’età contemporanea: la fondazione della facoltà di Medicina e Chirurgia nel seno della sua creatura, l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Scrive Gemelli nel 1958: «Noi cattolici vogliamo una Fa126 Vedi Id., Storia antropologica della riabilitazione, prolusione al Convegno internazionale su «Le fragilità: progetti e speranze nel terzo millennio», Firenze, 26-28 ottobre 2006. Oltre al modello riabilitativo di don Gnocchi – esteso dalla Fondazione a lui intitolata alle «fragilità» di ogni grado ed età –, modelli riconducibili a esponenti del clero altrettanto religiosamente ispirati sono stati, tra gli altri, quello della «Nostra Famiglia», opera fondata nel 1938 da don Luigi Monza e volta alla rieducazione neuropsichiatrica infantile, e quello, nello stesso campo, di Adriano Milani Comparetti (1920-1986), fratello di un altro «prete speciale», don Lorenzo Milani, la cui battaglia per una scuola non discriminatoria fu parallela all’«avventura educativa» del fratello fisiatra e neuropsichiatra (vedi Serenella Besio, Maria Grazia Chinato, L’avventura educativa di Adriano Milani Comparetti, Edizioni e/o, Roma 1996). 127 Padre Agostino Gemelli e don Carlo Gnocchi ebbero stretti rapporti nel triennio 1946-48. I temperamenti diversi e i progetti differenti ne spiegano le «disaffinità elettive»: vedi al riguardo Giorgio Cosmacini, L’assistente ecclesiastico don Carlo Gnocchi e padre Agostino Gemelli, relazione al Convegno nazionale «Don Gnocchi e il suo tempo: nel segno della profezia», Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 16 novembre 2002.
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coltà medica cattolica, perché siamo, per grazia di Dio, in un paese cattolico, e vogliamo che la carità che si ispira al nome di Cristo venga esercitata per i nostri malati in guisa di sollevarli dalla tristezza in cui la malattia li ha costretti»128. Il 4 agosto dello stesso anno il suo trionfo è di pubblico dominio: la «Gazzetta Ufficiale» pubblica il decreto del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che istituisce formalmente la facoltà con sede in Roma. Gemelli, che vede coronarsi il suo sogno, non farà in tempo a vederlo compiutamente realizzato: l’inaugurazione della facoltà medico-chirurgica avviene il 5 novembre 1961, due anni dopo la sua morte. Dopo altri tre anni, il 10 luglio 1964, inizia ufficialmente l’attività didattico-assistenziale e di ricerca nel Policlinico universitario intitolato al suo nome. Padre Gemelli ha pensato la nuova facoltà cattolica come un faro di sapere e di etica medica, irradiante, dall’alto della collina che domina Roma, la luce della scienza e della morale cattolica sul mondo sanitario, sul mondo universitario, sulle «due culture», umanistica e scientifica. Egli ha legittimato di fatto il monopolio cattolico sulla religiosità del medico, come se questa religiosità sia un appannaggio esclusivo del «medico cattolico» e non un prerequisito di diritto (e di dovere) del medico in quanto tale129. È una ideologia della medicina che ha avuto fortuna e che vanta un precedente autorevole. Infatti, vent’anni prima che il Policlinico Agostino Gemelli aprisse le sue porte ai malati d’ogni confessione e ai medici cattolici, era stata posta mano allo statuto di quella che nel settembre 1944, nella stessa capitale liberata dall’occupazione tedesca, era diventata l’Associazione medici cattolici italiani (AMCI), «associazione privata di fedeli», modellata sul Codice di diritto canonico, la 128 Agostino Gemelli, Perché i cattolici italiani aspirano ad avere una Facoltà di medicina, in «Vita e Pensiero», XLI, 1958, 1, p. 12. 129 Vedi Cosmacini, Gemelli. Il Machiavelli di Dio, cit., p. 276.
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quale «non svolge attività partitica» (art. 1) e «trova in Gesù Cristo, medico del corpo e dello spirito, il fondamento della propria spiritualità» (art. 2). L’Associazione ha prosperato130. Cinque anni dopo, il 30 settembre 1949, nell’imminenza del primo Anno Santo postbellico, una folla di medici cattolici, guidati dal presidente dell’Associazione professor Luigi Gedda (1902-2000), insigne genetista e creatore dei Comitati civici protagonisti della campagna elettorale del 1948, era stata ricevuta in udienza benedicente da papa Pacelli, Pio XII, che aveva detto loro: La morale naturale e cristiana conserva ovunque i propri diritti imperscrittibili; da essi, e non già da considerazioni di sensibilità, di filantropia materialista, naturalista, derivano i principi essenziali della deontologia medica: dignità del corpo umano, preminenza dell’anima sul corpo, fraternità di tutti gli uomini, sovrano dominio di Dio sulla vita e sul destino131.
Dopo altri quattro anni, il 7 settembre 1953, ai genetisti riuniti a Roma per un congresso organizzato dall’Istituto Gregorio Mendel di genetica medica e gemellologia, fondato e diretto dallo stesso professor Gedda, Pio XII aveva detto: La rivelazione, cioè la testimonianza formale ed esplicita del Creatore, interferisce anche con certi settori delle scienze naturali 130 Simmetrica, pur se numericamente meno rilevante, rispetto alla Associazione medici cattolici italiani è la Associazione medica ebraica d’Italia, nata nel 2004 dalla fusione tra l’Associazione medica ebraica di Roma, i Medici ebrei del Nord Italia e il Gruppo Maimonide di Ferrara, Bologna, Firenze. 131 Pio XII, Discorsi ai medici, vol. I, Orizzonte Medico, Roma 1954, p. 60. Luigi Gedda battezzò con il nome del monaco boemo Johann Gregor Mendel (1822-1884), fondatore della «scienza dell’eredità» o genetica, l’Istituto di ricerca romano che, inaugurato nel 1953, ospitò la prima cattedra e la prima scuola di specializzazione genetica in Italia. Egli intuì le potenzialità del metodo «clinico-gemellare», basato sul riscontro che nei gemelli uniovulari ciò che è uguale dipende dal patrimonio genetico, mentre ciò che è diverso dipende dall’ambiente.
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e con alcune tesi della vostra specializzazione. Ma il Creatore risponde in massimo grado all’esigenza di verità e di veracità: voi stessi giudicate perciò se sia secondo l’oggettività scientifica non accettare siffatta testimonianza quando la sua realtà e il suo contenuto offrono ogni dovuta garanzia.
A tale affermazione dell’oggettività scientifica fondata sull’ontologia della rivelazione, Pio XII aveva aggiunto l’enunciazione di alcuni criteri epistemologici: Ci sono sì delle barriere, ma lungi dal tenere prigione la verità, esse hanno la funzione d’impedire che ipotesi non provate siano prese per fatti certi, che si dimentichi la necessità di completare una fonte di conoscenza con un’altra e che si passi ad un’interpretazione errata della scala dei valori e del grado di certezza d’una fonte di sapere. Vi sono barriere per evitare cause d’errori, non per limitare la verità132.
Nello stesso anno il pontefice aveva reso espliciti alcuni «principi fondamentali», riportati dal periodico «La Civiltà Cattolica» in data 21 novembre 1953: Il controllo ultimo e più elevato è lo stesso Creatore: Dio. Noi non faremmo giustizia dei principi fondamentali del vostro programma, se lo volessimo caratterizzare solo come esigenze dell’umanità, come scopi umanitari. Lo sono certamente; ma sono essenzialmente ancora qualcosa di più. L’ultima sorgente, da cui derivano la loro forza e la loro dignità, è il Creatore della natura umana. Se si trattasse di principi elaborati dalla sola volontà dell’uomo, la loro obbligazione non avrebbe più che la forza degli uomini; essi potrebbero applicarsi oggi ed essere sorpassati domani; un paese potrebbe accettarli, un altro respingerli. È tutt’altro se interviene l’autorità del Creatore.
Aveva continuato il pontefice: «I principi fondamentali della morale medica fanno parte della legge divina. Ecco il 132
Pio XII, Discorsi ai medici, cit., vol. I, pp. 190-91.
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motivo che autorizza il medico a riporre fiducia incondizionata in questi fondamenti della morale medica»133. Il sommo pontefice aveva ribadito gli stessi principi l’anno seguente, parlando alla platea dei medici di tutto il mondo, riuniti in occasione dell’VIII assemblea dell’Associazione medica mondiale (Roma, 30 settembre 1954). Aveva soggiunto: «Comprenderete che, percorrendo l’elenco dei risultati che avete già ottenuto nel corso di sette anni di esistenza, l’elaborazione di un Codice internazionale di morale medica, già accettato da 42 Paesi, abbia suscitato particolarmente il nostro interesse». E aveva chiosato: Riguardo alla morale medica, Noi vorremmo proporre alla Vostra considerazione le tre idee-basilari seguenti: 1. La morale medica deve poggiare sopra l’essere e la natura. [...] 2. La morale medica deve essere conforme alla ragione, alla finalità ed orientarsi a seconda dei valori. [...] 3. La morale medica deve essere radicata nel trascendente134.
Nella prospettiva del pensiero cattolico espresso al suo vertice massimo ed echeggiato poi autorevolmente in campo accademico, «trovano accoglienza alcune idee fondamentali che gettano luce sull’etica e sul modo in cui se ne propone l’applicazione»: «La prima idea è quella di una fonte esterna (Dio) di valori che l’uomo si limita a scoprire mediante la ragione illuminata dalla fede. L’etica non è dunque costruzione interamente interna all’orizzonte umano, dipendendo da presupposti indipendenti dalla volontà degli uomini». Altre idee fondamentali sono quelle di un «finalismo intrinseco al processo vitale», del riconoscimento di «competenza e autorità» alla «struttura gerarchica della Chiesa cattolica», dell’esistenza di «almeno un principio di dovere as133 134
Ivi, pp. 231-32. Ivi, pp. 275-77 passim. I corsivi sono miei.
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soluto che vale indipendentemente dalle conseguenze a cui conduce, vale a dire il principio della sacralità della vita»135. 14. Bioetica «post litteram» È all’ambito cattolico che va riconosciuta la tempestiva traduzione sul piano istituzionale dell’interesse suscitato nel mondo medico, ed etico-scientifico in senso lato, del presentarsi in Italia, all’inizio degli anni Ottanta, di una disciplina nuova: la bioetica. Se nel nostro paese l’attenzione per essa è sorta dapprima in ambito laico – come rivela il fascicolo speciale della «Rivista di filosofia» dedicato al «diritto alla vita» e progettato nel 1979 (anche se pubblicato con grave ritardo cinque anni dopo) – già nel 1984 l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha aperto un ben organizzato Centro di bioetica presso la facoltà di Medicina e Chirurgia al Policlinico Gemelli e la rivista «Medicina e Morale», edita dalla stessa Università Cattolica, ha incluso nel sottotitolo la parola «bioetica»136. La parola, assente nei dizionari della lingua italiana editi negli anni Ottanta, è presente in quelli editi negli anni Novanta. La disciplina che essa esprime è stata etichettata metaforicamente «un ponte verso il futuro», intendendo designare i problemi morali e normativi destinati a interessare sempre più le «scienze della vita» con al primo posto la medicina137. 135 Patrizia Borsellino, Bioetica tra autonomia e diritto, Zadig, Milano 1999, pp. 18-19. Il corsivo è mio. 136 Vedi il saggio di Maurizio Mori, La bioetica: che cos’è, quando e perché, in «Bioetica», I, 1993, 1, pp. 115-43. 137 Il nome bioetica e l’allegoria relativa si devono a Van Rensselaer Potter, che nel 1970 pubblicò un saggio dal titolo Perspectives in Biology and Medicine dove la parola appare per la prima volta (Bioethics: The Science of Survival) e che nel 1971 pubblicò un libro intitolato Bioethics: Bridge to the Future (Bioetica: ponte verso il futuro, Sircania, Messina 2000).
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L’impennata conoscitiva e applicativa delle «bioscienze», con le sue molte importanti ricadute sul mestiere di medico, ha determinato una crescita esponenziale degli stimoli inducenti a riflettere sul significato e sulla portata delle nuove acquisizioni, per inferenze teoretiche ed etiche un tempo inimmaginabili. Si è avvertita la necessità che la medicina, in crisi di crescenza scientifico-tecnica, dovesse prima de-strutturarsi, ricuperando la propria identità e originalità statutaria (donde i ripetuti richiami al magistero ippocratico, ricorrenti nei tempi critici), e dovesse poi ri-strutturarsi, innestando, nel patrimonio tecnologico in fase di vertiginoso incremento, la ricuperata antropologia delle origini nell’intento di realizzare una «medicina antropologica» dove l’odierna civiltà delle macchine (diagnostiche e terapeutiche) avesse sempre al proprio centro l’uomo nella sua integrità e piena dignità. Prenozione di tutto ciò era stata, negli anni Venti e Trenta del Novecento, la tesi di un medico d’oltralpe, Ludolf Krehl, clinico a Heidelberg, secondo cui in medicina esistono solo soggetti (i malati) e non oggetti (le malattie). La prenozione è diventata coscienza piena in Viktor von Weizsäcker (1886-1957), medico, psiconeurologo e «bioeticista» ante litteram, che negli anni Cinquanta si è fatto portavoce dell’istanza di «[re]introdurre il soggetto in medicina» e di «umanizzare» quest’ultima, ricuperando a essa il senso e il valore suoi propri e fondando una «antropologia medica» ad alto tasso di religiosità centrata sull’uomo nella sua interezza: «corpo, psiche, spirito, storia, società»138. Negli anni Ottanta, tra le questioni di vita su cui la bioetica è impegnata a riflettere e a pronunciarsi, si annoverano quelle di frontiera, ai confini della vita, che vanno dallo statuto dell’embrione umano e dalle tecniche di fecondazione assistita all’accanimento terapeutico e all’eutanasia attiva e 138 Vedi al riguardo Sandro Spinsanti, L’antropologia medica di Viktor von Weizsäcker: conseguenze etiche, in «Sanità, Scienza e Storia», 1985, 2, pp. 29-40.
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passiva; quelle di etica professionale o del quotidiano, che vanno dal rapporto tra medico e assistito al rapporto tra medico e società; quelle di etica della ricerca, che vanno dalla sperimentazione biologica su animali o su parti o particelle dell’uomo alla sperimentazione clinica sul malato e sul sano; quelle, infine, di economia ed etica, cioè di giusta allocazione e distribuzione delle risorse disponibili139. Alcuni aspetti sono antichi, altri nuovi o nuovissimi. Tra i primi sono quelli contemplati da un’etica medica tradizionale aggiornata, il cui scopo precipuo è ancora e sempre l’orientamento del giudizio morale nelle scelte della professione. È un’etica medica correlata ai vari contesti storico-culturali succedutisi via via, a partire dall’originario «giuramento d’Ippocrate» fino ad arrivare all’odierno rispetto dell’autonomia del paziente con particolare riguardo alla partecipazione informata di questi al percorso di cura. Tra gli aspetti nuovi o nuovissimi figurano invece quelli attinenti a una sanità fattasi critica tra limitatezza di risorse e scelte etiche, ma soprattutto quelle inerenti a una biologia sviluppatasi in una vasta gamma di applicazioni biotecnologiche e divenuta capace di interventi biomedici di massima rilevanza sia all’inizio che alla fine della vita. «La bioetica in Italia è cresciuta moltissimo»140, si scrive già nel 1992. L’asserzione è pienamente valida se intesa come consolidamento disciplinare; lo è meno se intesa come arricchimento problematico, qualitativo, del mestiere di medico. Come disciplina, essa si attesta stabilmente nei programmi d’insegnamento e nei percorsi di apprendimento: è un’etica di nuovo conio, affiancata alla vecchia medicina legale sul finire del corso di studi. Ma l’etica è una qualità attinente a ogni tappa del processo formativo, inerente cioè tanto alla biologia e alla genetica quanto alla patologia generale e spe139 Vedi il saggio di Giovanni Berlinguer, Bioetica quotidiana e bioetica di frontiera, in Di Meo, Mancina (a cura di), Bioetica, cit., pp. 5-18. 140 «Tempo medico», 20 maggio 1992 (articolo di Fabio Terragni).
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ciale, tanto alle cliniche quanto all’anatomia patologica e all’igiene; e sempre inerisce allo spirito della ricerca e al modo di rapportarsi al malato. Ogni professore in cattedra ne è, o dovrebbe esserne, a modo suo titolare. La grande crescita della bioetica viene certificata prendendo atto che essa, oltreché istituzionalizzata nelle facoltà universitarie, è stata favorita dallo slancio nel nuovo agone di filosofi e teologi, non pochi dei quali animati dalle contrastanti ideologie, ambedue assolutiste, della natura imitatio artis, manipolata dall’uomo, e della natura sacra, intoccabile da mano umana. Si tratta di ideologie catturate l’una dai partigiani dello scientismo e della tecnocrazia, l’altra dai devoti della sacralità141. L’affermarsi e il consolidarsi della bioetica come disciplina autonoma ha registrato in Italia l’infittirsi dei dibattiti e il moltiplicarsi delle pubblicazioni. Tra queste, nell’impossibilità di dar conto di tutte, si ricordano le più diffuse (di cui talune già menzionate in altre note), espressive delle diverse convinzioni e interpretazioni: Elio Sgreccia, Bioetica. Manuale per medici e biologi, Vita e Pensiero, Milano 1987; Dionigi Tettamanzi, Bioetica. Nuove sfide per l’uomo, Piemme, Casale Monferrato 1987; Spinsanti, Etica bio-medica, cit.; Di Meo, Mancina (a cura di), Bioetica, cit.; La bioetica, Questioni morali e politiche per la vita dell’uomo, Atti del Convegno indetto da «Politeia» (Roma, 1990), Bibliotechne, Roma 1991; Adriano Bompiani, Bioetica in Italia. Lineamenti e tendenze, Edizioni Dehoniane, Bologna 1992. Nei restanti anni Novanta, fino al Duemila, si sono aggiunte, tra le altre: Stefano Rodotà (a cura di), Questioni di bioetica, Laterza, Roma-Bari 1993; Carlo Romano, Goffredo Grassani, Trattato di bioetica, UTET, Torino 1995; Sandro Spinsanti, La bioetica. Biografie per una disciplina, Franco Angeli, Milano 1995; Paolo Cattorini, Roberto Mordacci, Massimo Reichlin (a cura di), Introduzione allo studio della bioetica, Europa Scienze Umane Editrice, Milano 1996; Paolo Cattorini, Emilio D’Orazio, Valerio Pocar (a cura di), Bioetiche in dialogo. La dignità della vita umana, l’autonomia degli individui, Zadig, Milano 1999; Borsellino, Bioetica, cit.; Caterina Botti, Bioetica ed etica delle donne. Relazioni, affetti e potere, Zadig, Milano 2000; Giovanni Berlinguer, Bioetica quotidiana, Giunti, Firenze 2000. Si ricordano inoltre le riviste dedicate totalmente o in gran parte ad argomenti, questioni, discussioni di bioetica: «Bioetica. Rivista interdisciplinare» edita dal 1993 a cura della Consulta di Bioetica; «L’Arco di Giano. Rivista di Medical Humanities» edita dal 1993 a cura dell’Istituto per l’analisi dello stato sociale; «Janus. Rivista di Medicina, Cultura, Culture» edita dal 2001 a cura di Sandro Spinsanti. 141
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Ha scritto recentemente Umberto Veronesi: «Esponenti di non poche confessioni religiose ci ripetono che la vita è sacra. In quanto proprietà di Dio, non sarebbe lecito interferirvi in alcun modo, dal concepimento alla dipartita». «Tutto ciò dovrebbe restare naturale», è l’obiezione dell’oncologo. Però anche quest’altra ideologia del naturam sequi trova molti adepti tra quanti ammoniscono di «non toccare il DNA altrimenti giocheremmo a fare come Dio». Veronesi concede che «modificare il genoma significa modificare per intero la vita, ossia cambiarne il programma» così da «puntare direttamente alla ridefinizione dell’uomo»; ma ammette con Christian de Duve che pare «non esservi alcuna giustificazione per attribuire al genoma umano carattere sacro»142. A riprova della grande crescita della bioetica in Italia già nel primo decennio della sua acquisizione, si scrive ancora: «Stanno nascendo numerosi Comitati etici» e «sta crescendo la sensibilità da parte dei medici anche nel rapporto con il malato». Se l’etica medica si trasforma e migliora, tuttavia «sulle questioni dette di inizio e fine della vita, come eutanasia, statuto dell’embrione umano, contraccezione, tecniche di riproduzione assistita, le opinioni divergono e gli schieramenti in campo sembrano poco disposti a mediare»143. In generale, da parte cattolica si afferma che la bioetica è la riaffermazione, problematizzata e approfondita, di principi morali perenni e di criteri deontologici tradizionali, fissati dallo ius iurandum ippocratico, visto come presentimento del messaggio cristiano in quanto pone divieti alla contraccezione e all’aborto, all’eutanasia e al suicidio. Da parte laica si ritiene invece che il giuramento d’Ippocrate dev’essere rivisto in quanto dà poco spazio all’autonomia del paziente, della 142 Le parole di Umberto Veronesi sono tratte dal dialogo tra il medico oncologo, capofila della lotta contro i tumori in Italia, e il filosofo della scienza Giulio Giorello, pubblicato nel libro di Chiara Tonelli (a cura di), La libertà della vita, Raffaello Cortina, Milano 2006, pp. 31, 34 e 52-53. 143 Vedi supra la nota 140.
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quale si riconosce oggi universalmente l’importanza; e si ritiene che i principi e criteri in esso contenuti vanno ripensati e riscritti, così da collegarsi alla realtà attuale in cui il pluralismo etico è un valore riconosciuto. In proposito, agli inizi degli anni Novanta, è stato autorevolmente osservato che dalle due parti «traspare più l’ansia di inquadrare i nuovi sviluppi della biologia e della medicina nel sistema ideologico o teologico preferito che di affrontare con pacata razionalità l’evoluzione scientifica che stiamo vivendo»144. Peraltro, nello stesso periodo, la voce di un «bioeticista» quale Hugo Tristram Engelhardt jr. ha rilevato con altrettanta autorevolezza il delinearsi della tendenza a prefigurare il «futuro della bioetica» come quello di una tollerante «struttura laica di razionalità in un’era di incertezze» e di una pluralistica «lingua franca di un mondo che si interessa all’assistenza sanitaria»145. Quali riflessi ha avuto tutto ciò sul Codice di deontologia medica prodotto nel 1995 e da allora sottoposto ad aggiornamento e approfondimento continuativi dei propri contenuti? Nel 1998 un «nuovo Codice» reca in premessa la frase di Bentham secondo cui «l’etica ha raccolto il nome più espressivo di deontologia». C’è da chiedersi se, parafrasando lo stesso filosofo, si debba parlare di bio-deontologia per definire un sistema etico in cui l’idea di dovere prevale su quella di diritto e si debba parlare di bio-diritto laddove si mira alla definizione degli aspetti giuridici dei problemi bioetici. Nella nostra cultura giuridica il principio di legalità impone al giudice di attenersi alla lettera della legge, evitando di fare riferimento alla morale e alla religione; a sua volta il principio di legitti-
Umberto Veronesi, Introduzione al Manuale di bioetica di Hugo Tristram Engelhardt jr., Il Saggiatore, Milano 1991, p. VIII. 145 Ivi, p. 11. Engelhardt jr. è l’autore di The Foundations of Bioethics, Oxford University Press, New York 1986. 144
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mità pretende che la legge sia fondata sul rispetto dei valori di democrazia e sulle garanzie dello Stato di diritto146.
Esiste dunque anche un livello di bio-politica in cui la bioetica «indica soprattutto il confronto fra ragioni e comportamenti che pretendono un riconoscimento nell’ambito della ragione pubblica, cioè che esigono uno spazio di tutela dei diritti sulla vita, la salute, la malattia, la morte»147, cioè su tutto ciò che attiene ai problemi esistenziali dell’uomo come essere naturale e come essere sociale. A proposito di «giuridificazione del bios», con più o meno implicita estensione problematica al campo politico, viene rilevato che il biodiritto ha una sua propria logica corrispondente alla epistemologia della biotecnica cui è correlato. Questa assume il corpo umano come oggettività fisica e la vita che lo concerne come cosa di cui è possibile trasformare in oggetti perfino il nascere e il morire. Il biodiritto trascende i singoli soggetti concreti considerandoli in modo impersonale, secondo forme generali astratte. Nel caso, ad esempio, della fecondazione artificiale, paradigmatica della tecnologia applicata alla vita (nascente), il diritto naturale di riconoscere la propria filiazione cede il campo a un diritto totalmente diverso, in-naturale quanto l’artificio tecnologico al quale si collega. Biotecnica e biodiritto rivestono dunque gli oggetti loro propri di significati «in-naturali»? «Eventi soffusi di mistero – vita, corpo, nascere, morire – sono ormai dissacrati e ridotti a calcolata oggettività. Essi non ci vengono più dettati dal di fuori e dall’alto (da qualcosa che chiamavamo divinità o destino) ma sono da noi prodotti: non li troviamo, ma li facciamo» per «insanziata volontà di produrre». Diciamo piuttosto che corpo, vita, nascere, morire, tutti eventi che la scienza ha desacralizzato da «sovra-naturali» a «naturali»; possono diIl passo è tratto dall’editoriale di Alberto Ronchey pubblicato dal «Corriere della Sera», 8 novembre 2006. 147 Roberto Mordacci, Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, Feltrinelli, Milano 2003, p. 10. 146
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ventare «in-naturali» quando siano investiti da una tecnologia povera di antropologia o da questa non arricchita e priva di umana religiosità. In tal caso essi si prestano inevitabilmente a innescare un biolitigio, fomentando «conflitti di fedi religiose, di ideologie [etico-politiche], di visioni del mondo» dove «nessuno è in grado di scorgere il futuro»148. Il «nuovo Codice» varato nel 1998 segue a quarant’anni di distanza il Codice del 1958 noto come «Codice Frugoni» (dal nome del suo ispiratore). Questo è stato più volte rivisto e aggiornato fino alla elaborazione di un codice ulteriore, approvato il 7 gennaio 1978. Dodici anni dopo, un’altra aggiornata revisione ha prodotto un nuovo testo, approvato il 15 luglio 1989, preceduto da un «giuramento», tòpos classico e perenne a cui il consorzio medico è solito richiamarsi nei momenti di crisi della propria identità professionale. In tale codice, nato in tempi di bioetica consolidata, hanno fatto la loro comparsa nuovi enunciati quali il «consenso valido» del paziente, l’«assistenza agli handicappati», l’«assistenza ai morenti», il «dovere dell’informazione nella consapevolezza dei limiti delle conoscenze mediche», con cenni ai trapianti d’organo, alla contraccezione, all’interruzione volontaria di gravidanza, alla fecondazione artificiale149. Insediata una commissione permanente al fine di apportare con tempestività variazioni dettate da istanze etiche nascenti via via dall’incessante avanzamento delle biotecnologie, è stato prodotto un ulteriore codice, approvato il 24-25 giugno 1995, comprensivo di tutta l’area disciplinare dove ogni presente o futuro acquisto scientifico-tecnico in campo biomedico tende a essere considerato, valutato, utilizzato in modo bioetico allo scopo di migliorare la «qualità della vita». 148 Vedi al riguardo l’elzeviro La biotecnica sfida il diritto, di Natalino Irti, in «Corriere della Sera», 29 maggio 2007. 149 Vedi Giorgio Cosmacini, Un secolo di codice deontologico, relazione introduttiva del Convegno della Federazione nazionale degli ordini dei medici-chirurghi e degli odontoiatri, Roma 30 ottobre 2003.
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La suddetta commissione permanente ha poi varato il 3 ottobre 1998 il «nuovo Codice di deontologia medica» da cui è partita la nostra breve ricognizione retrospettiva. Esso è calibrato tra Costituzione repubblicana ed etica ed è composto di 79 articoli: Come spesso succede per i documenti importanti, anche questo è passato quasi inosservato tra l’indifferenza dell’opinione pubblica e forse di una parte degli stessi medici. Il codice offre, invece, innovative risposte deontologiche a temi di grande attualità e di forte impatto sociale, tra i quali, in particolare, quelli dell’emergenza dei diritti dei malati, del quadro universalistico dell’assistenza, degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti terapeutici, degli orientamenti della bioetica. Il nuovo codice non fa riferimento né alla bioetica religiosa, né alla bioetica laica, ma affronta le nuove tematiche mediche e biomediche con un esplicito riferimento ai principi fondamentali della Costituzione italiana e ai diritti e doveri costituzionali dei cittadini, il cui espresso richiamo conferisce al codice un alto profilo normativo e una significativa scelta culturale autonoma150.
Sono passati altri otto anni, transitati a cavaliere dell’anno Duemila: una transizione epocale, tanto più sotto l’aspetto bioetico. Il filosofo politico ed etico Norberto Bobbio ha scritto (1997) che la rivoluzione permanente della scienza e della tecnica ci rende oggi pienamente avvertiti del fatto che «il progresso tecnico-scientifico non cessa di suscitare la nostra meraviglia e il nostro entusiasmo», aggiungendo (come già detto nel par. 1 di questo stesso capitolo) che «sul tema del progresso morale continuiamo a interrogarci come duemila anni fa»151. Nel 2002 un organismo internazionale che vede affiliate quattro importanti associazioni mediche ha elaborato una 150 Giancarlo Del Sasso, Il nuovo codice di deontologia medica tra Costituzione ed etica, in «La Ca’ Granda», XLI, 2000, 4, p. 2. 151 Bobbio, Autobiografia, cit., p. 260.
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Carta della professionalità medica ispirata da tre istanze fondamentali – centralità del benessere dei pazienti, loro autonomia, principio della giustizia sociale – e impegnata nell’osservanza di un decalogo includente: competenza, onestà, riservatezza, correttezza, miglioramento della qualità delle cure, miglioramento dell’accesso alle cure medesime, equa distribuzione delle risorse limitate, conoscenza scientifica, acquisizione di fiducia facendo fronte ai conflitti d’interesse, assunzione delle responsabilità professionali. Si tratta di «affrontare sfide senza precedenti», si scrive. Tali sono «le crescenti disparità tra i legittimi bisogni dei pazienti, le risorse disponibili alla loro soddisfazione, la maggiore dipendenza dei sistemi sanitari dalle forze di mercato e la tentazione dei medici di rinunciare al loro tradizionale impegno verso il benessere e l’interesse dei pazienti». Scopo della Carta, si chiosa, è proprio quello di far sì che i medici «debbano riaffermare la loro attiva dedizione»; ed è quello di «incoraggiare tale dedizione» e di «promuovere iniziative e linee d’azione che abbiano valore e portata universali»152. È un aggiornato richiamo al paradigma ippocratico con autointerrogazione aperta al tema scottante del progresso morale e della religiosità laica del medico? È piuttosto un aggiornato riferimento canonico ai problemi della competenza e della disponibilità indicati da Boerhaave come pertinenti al mestiere di medico. La Carta, in definitiva, non è un «dialogo sui massimi sistemi» bioetici, ma – come dice il nome stesso – una «carta dei doveri» dove, pur evitando antistorici ritorni, tuttavia si riassumono «corsi e ricorsi» storici della deontologia tradizionale. Carta della professionalità medica, a cura dell’American Board of International Medicine (ABIM), American College of Physicians (ACP), American Society of International Medicine (ASIM), European Federation of International Medicine (EFIM), nel supplemento del «Bollettino della Società italiana di Medicina interna», 2002, 1, pp. 4-7 passim. Per l’Italia ha partecipato all’iniziativa il clinico medico Alberto Malliani. 152
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Più dialogante con la bioetica, nella fase di ulteriore consolidamento di quest’ultima, è l’attuale «nuovo Codice di deontologia medica», varato dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici, chirurghi e odontoiatri, il 16 dicembre 2006. Peraltro, nel presentare il recentissimo Codice, il presidente della FNOMCeO Amedeo Bianco è costretto ad ammettere l’«obiettiva difficoltà nel trattare i temi più complessi, quali ad esempio quello dell’etica di inizio e fine vita». Rileva infatti che «il Codice in alcuni casi pone divieti netti. Tuttavia l’ispirazione di fondo, che ha guidato la revisione degli articoli, è assolutamente quella di una cultura positiva della professione medica che prevede maggiori obblighi e minori divieti»153. La cultura positiva dovrebbe essere quella che nega le negazioni contenute nei divieti o, nella fattispecie, quella che, nell’odierna congiuntura del «boom» tecnologico e della «forbice» economica, agevola il medico nell’acquisire il necessario senso del limite: un limite tecnologico, perché la tecnomedicina, pur avendo fatto e facendo passi da gigante, non può fare tutto, non è onnipotente; un limite economico, perché la stessa tecnomedicina, che non può fare tutto, non può neanche dare tutto, indiscriminatamente. Questo duplice limite sarebbe in perfetta sintonia con il minimo possibile dei divieti reso esplicito nella presentazione del Codice. Infatti non è propriamente un divieto, ma una ragione antropologica, un’idea filosofica. Il Codice attinge ai livelli dove sono enunciati e aggiornati i «doveri generali», gli «obblighi peculiari», le «regole di comportamento con il cittadino», i «doveri di assistenza ai soggetti fragili» e «ai malati inguaribili», nonché altri temi e problemi di più viva attualità quali il «consenso informato», l’«appropriatezza delle prescrizioni su farmaci ed esami» e il «conflitto d’interesse». La ricerca di norme comportamenta153
p. 7.
«La Professione. Medicina, Scienza, Etica e Società», dicembre 2006,
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li è certamente meglio soddisfatta che in passato, vicariando – come rileva commentando Aristide Paci – le carenze di cui dà prova «il mondo accademico che, salvo qualche rara ma lodevole iniziativa, non risulta che abbia inserito in maniera organica la deontologia nella formazione del medico»154. «Evitando di farsi coinvolgere nella sterile tendenza allo scontro» – come scrive Aldo Pagni anch’egli commentando – il Codice non legifera in campo bioetico. Egli rileva che le leggi di etica dovrebbero, infatti, stabilire principi generali ‘cornice’, e non disciplinare rigidamente le scelte tecniche dei medici, lasciando alla loro coscienza e competenza ed all’intesa con il malato e con i suoi familiari, le decisioni da prendere caso per caso. Il dovere principale del medico è e rimane quello di promuovere il bene di ‘quel paziente in quella situazione particolare e irripetibile’, e nessuna legge potrà mai disciplinare in dettaglio le sue scelte, compiute responsabilmente secondo scienza e coscienza
cioè dando prova di laica religiosità, anche «anticipando e sfidando [...] i ritardi della legislazione italiana»155. 15. Desacralizzare il dolore (atto secondo) Malattia, sofferenza: tramite o ponte fra esse, il dolore umano. Nella stessa età in cui si estraeva dalla «sostanza» dell’oppio la sua «essenza» o morfina, la visione romantica della vita contemplava il dolore, con la malattia che ne è la matrice, come l’esperienza che «segna la superiorità dell’uomo sulle piante e sugli animali». Così scriveva il poeta Novalis poco prima di morire prematuramente, estenuato da un male «sottile» e sublime, cioè dalla tisi156. Ivi, p. 35. Ivi, p. 40. 156 Vedi Giorgio Cosmacini, Dolore, malattia e medicina nell’età del romanticismo, nel volume collettaneo Schmerz in Wissenschaft, Kunst und Literatur, Guido Pressler, Tübingen 2000, pp. 94-102. 154 155
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Dalla medicina coeva lo «stato di dolore» era considerato «una espressione più o men forte di controstimolo»157. Poiché la maggior parte delle malattie erano ritenute causate da iperstimolazione infiammatoria e curate da controstimolazione terapeutica, ciò significava attribuire al dolore un’azione curativa. Questo concetto del dolore come controstimolo benefico, in un periodo antecedente gli studi di fisiologia sperimentale sui rapporti tra stimoli e sensazioni, prefigurava un’alternativa teorica in cui il dolore era considerato non tanto in una dimensione sensoriale, quanto come una sorta di contro-affezione opposta all’affezione vitale, così come nella teoria aristotelica degli affetti e passioni il dolore è contrapposto al piacere. In tale concezione, il dolore non solo investiva il settore della sensibilità dolorifica, ma coinvolgeva l’intero complesso, sensoriale ed emozionale, dell’esperienza dell’individuo. Questa mozione esistenziale da dolore, insieme alla nozione del dolore come valore anche positivo, si inscriveva coerentemente nella visione romantica dell’uomo e del mondo, in seno alla quale la malattia, con il dolore che ne è il prodotto, avevano uno statuto privilegiato costituendo, sempre secondo Novalis, «il tirocinio per l’arte della vita». Il dolore, se dal punto di vista antropologico è una delle esperienze di maggior rilevanza nella vita dell’uomo, da contrastare o da accettare a seconda dell’ideologia in cui essa è inserita, dal punto di vista neuroscientifico, dopo essere stato nel Settecento un modo d’essere della vis nervosa o «sensibilità» (forza o proprietà della materia sperimentalmente dimostrata dal fisiologo Albrecht Haller), era diventato nell’Ottocento, prima e dopo la scoperta dell’anestesia, uno dei campi di ricerca e di studio da parte dei neurofisiologi e degli psicologi. 157 Giacomo Tommasini, Della nuova dottrina medica italiana, prolusione alle lezioni di clinica medica nella Pontificia Università di Bologna per l’anno scolastico 1816/17, in Id., Opere minori, Cardinali, Firenze 18352.
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Del dolore si erano studiate le sedi neuroanatomiche, i rapporti tra le sensazioni e le stimolazioni, la soglia dolorifica della sensibilità termica e tattile, la specificità della sensibilità dolorifica; si sono poi aggiunte, nel Novecento, le ricerche sulla presenza del dolore anche in assenza di stimoli, la sua spontaneità, la tolleranza verso di esso, la sua memorizzazione e, infine, la perdita del potere di controllo nei suoi confronti e l’acquisto da parte sua di quell’aspetto afinalistico che ne fa qualcosa di assolutamente enigmatico: «l’enigma del dolore»158. I neurofisiologi hanno detto che il dolore è un meccanismo biologico d’allarme, e gli psicologi che le alterazioni neuropsichiche da esso indotte costituiscono il peculiare «linguaggio del dolore». Molti, degli uni e degli altri, si sono fatti assertori del dogma secondo cui, poiché senza l’allarme provocato da esso non si innescano le reazioni difensive finalizzate alla sopravvivenza dell’individuo e alla conservazione della specie, «il dolore è il migliore amico dell’uomo». Il dogma ha imperato o comunque influito pesantemente, insieme ad altri pregiudizi, in campo clinico. Anche il senso comune è stato ed è indotto a riconoscere l’aspetto benefico del dolore dal momento che questo ci avverte che qualcosa di biologicamente dannoso sta per accadere o già accade nel nostro organismo. Tuttavia chi abbia osservato, sperimentato, sofferto un dolore violento, o un dolore prolungato, persistente, recidivante, è portato a considerarlo un’afflizione e una pena; e a volte il dolore diviene così insopportabile che la persona che ne soffre ha un bisogno assoluto d’esserne sollevata. Nel 1939 René Leriche (1879-1955), nell’opera sulla «chirurgia del dolore» rispecchiante un’intera vita spesa nel met-
Ronald Melzsack, L’enigma del dolore, trad. it. di Giovanni Grasso, Michela Muscettola, Antonio Viti, Zanichelli, Bologna 1976. 158
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tere a punto una serie di tecniche neurochirurgiche in grado di abolire il dolore, ha scritto: Reazione di difesa? Fortunato avvertimento? [...] In realtà la maggioranza delle malattie, perfino le più gravi, ci attaccano senza preavviso. Quando il dolore si manifesta, è troppo tardi. Il dolore ha soltanto reso più dolorosa e più triste una situazione già compromessa da tempo. Infatti il dolore è sempre un dono funesto, che debilita il soggetto e lo rende ammalato più di quanto lo sarebbe senza di esso159.
Tre decenni dopo, nel 1973, lo psicologo canadese Ronald Melzsack, affrontando il problema enigmatico del dolore nei suoi vari aspetti, scrive che spesso accade «come se qualche meccanismo normale di adattamento impazzisca e, similmente al criminale pericoloso la cui mente può essere lucida ma contorta, abbia bisogno di essere isolato»160. Questo «dono funesto», questo «meccanismo impazzito» è «il dolore inutile, la pena in più del malato»161, la sofferenza aggiuntiva di molti malati, soprattutto neoplastici; è «il dolore non necessario»162 di molti malati al termine della vita. Di fronte a tale dolore «inutile» e «non necessario» non serve dire che «l’uomo è nato per soffrire», non vale ripetere – ed è ipocrita il farlo – che «il dolore dev’essere sopportato con rassegnazione». L’uomo contemporaneo non è il «saggio stoico avvolto nella sua apatheia», né il «monaco o cavaliere medievale che l’etica del tempo voleva impassibili al dolore»163. Il malato oggi afflitto da un dolore atroce che lo afferra e stringe come un granchio – «granchio» in greco si dice kàrkinos e in latino cancer – è un uomo mortale giunto al caIl passo di Leriche è riportato ivi, p. 3. Ibid. 161 Sergio Zavoli (a cura di), Il dolore inutile. La pena in più del malato, Garzanti, Milano 2002. 162 Il dolore non necessario, fascicolo monografico di «Janus», 2001, 1. 163 Franco Zambelloni, Ri-cognizione del dolore, ivi, p. 19. Vedi anche Georges Duby, Il millennio dei vinti, in «Sfera», 1994, 39, pp. 199-200. 159 160
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polinea, la cui vita residua, pur quantitativamente ridotta, può tuttavia essere qualitativamente bene vivibile solo se liberata dal dolore, secondo un’etica nuova. Un’etica nuova, ma anche antica e perenne: Euripide, nelle Troiane (v. 657), fa dire ad Andromaca, sopraffatta dalle pene, che «è meglio esser morta che vivere tra i dolori». Fino a non molti anni or sono c’erano medici, in condizioni di arretramento culturale e di blocco ideologico, che negavano la morfina – emblematico farmaco contro il dolore, sostitutivo della «rassegnazione cristiana» secondo Tomasi di Lampedusa (vedi il par. 5 di questo capitolo) – asserendo che gli «oppiacei», come appunto la morfina, riducono la quantità della vita e pensando in cuor loro che la virtù della rassegnazione e della sopportazione è inscritta nel disegno provvidenziale dove trova posto il Giobbe della Bibbia. C’era da ricordare loro quanto scritto in Kafka da Max Brod: «Al medico che gli negava la morfina necessaria a lenire il dolore dal suo male inguaribile [diceva]: ‘Dottore, mi uccida, perché altrimenti lei è un assassino’». Se la cultura era arretrata e bloccata, l’asserto è vero; però contraddice la verità che quando quel che resta del giorno è l’ultimo bene fruibile, il dolore che ribalta il bene nell’ultimo male intollerabile va tolto a qualunque costo da parte di un medico che sia religioso nei fatti e non soltanto a parole. L’ottocentesco comandamento di «palliare ove il guarir non ha luogo» – incipit storico delle odierne «cure palliative» – si è aperto un varco nel XX secolo tra molte inerzie e non poche difficoltà. Lo Stato italiano per lungo tempo non ha legiferato. L’Italia cattolica, che pur ha sconfessato alcuni principi della religione nei referendum sul divorzio e l’aborto, non ha tuttavia battuto ciglio se non per commiserare e confortare. Dato e riconosciuto che «in varie parti del mondo le Chiese svolgono un ruolo fondamentale nell’educazione e nell’assistenza sanitaria», va anche detto che «le Chiese generalmente offrono linee guida etiche che regolano la condotta dei propri membri influenzando spesso anche il diritto
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positivo»164, nella fattispecie il biodiritto dei malati alla sedazione del dolore mediante analgesici. Di fatto, si è spesso lasciato che il «senso» della sofferenza come imitatio Christi obliterasse nelle coscienze la «sensazione» del dolore come redimibile fenomenologia. Il consumo di morfina a scopo analgesico nella popolazione italiana afflitta da dolore cronico – un dolore che non è più un sintomo, ma una vera e propria malattia aggiuntiva a quella che provoca il dolore – era stimato nel 1990 ancora soltanto del 15%; nel 2004 è stimato intorno al 95%. Il progresso è stato grande; però l’Italia, in questo campo, è ancora all’ultimo posto tra i paesi del mondo occidentale. Ancor oggi, su 160.000 morti annui di cancro, il 40% non fruisce di terapie antidolore. Soltanto dal 2001, alle soglie del terzo millennio dell’era cristiana, le cure palliative, con legge votata dal Parlamento in data 24 gennaio, sono pienamente legittimate ad assolvere le loro opere di umana e cristiana pietà165. Di data recentissima è la notizia, pubblicata dalla rivista «Nature Medicine», che una ricerca finanziata dal National Institutes of Health degli Stati Uniti è approdata alla scoperta di un gene – il GCH-1 pertinente al cromosoma 7 – il quale regola la soglia di percezione del dolore. Ciò rafforza la tesi che il dolore è nel corpo e non esiste fuori di esso. Tuttavia esistono le vie della sensibilità dolorifica che conducono nei labirinti neuropsichici della sofferenza – fisica, mentale, morale – che fanno dell’uomo che ha dolore un «paziente» che patisce. In questa sfera di oggettività intrisa di soggettività la «terapia del dolore», ch’è un atto farmacologico, diventa la «cura del dolore», ch’è un farsi carico dell’altrui sofferenza: esempio preclaro di un umanesimo biomedico ad alto tasso di religiosità. 164 Christian de Duve, Come evolve la vita, trad. it. di Cristina Serra, Raffaello Cortina, Milano 2003, pp. 394-95. 165 I dati riportati sono emersi dalle relazioni presentate al Convegno su Il dolore nella valutazione del medico-legale, Piacenza 29 settembre 2006, di prossima pubblicazione negli Atti congressuali.
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16. Desacralizzare la vita L’evoluzione, nell’ultimo cinquantennio, della codificazione deontologico-medica in Italia ha seguito passo dopo passo, anche se con caratteristiche sue proprie e spesso con ritardo, la dinamica evolutiva delle istanze e dichiarazioni etiche formulate via via, nello stesso semisecolo, in Europa e nel mondo. Nel 1948, a Ginevra, sede dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) fondata due anni prima a New York allo scopo di promuovere il più alto livello possibile di salute (intesa come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale»), l’Associazione medica americana (AMA) aveva approvato una dichiarazione che sanciva, per i medici, i fini umanitari rispettosi della vita: Al momento di essere ammesso quale membro della professione medica, io mi impegno solennemente a consacrare la mia vita al servizio dell’umanità. [...] Non permetterò che considerazioni d’ordine religioso, nazionale, razziale, politico o di rango sociale si inseriscano fra il mio dovere e i miei pazienti; manterrò il massimo rispetto per la vita umana dal momento del concepimento166.
L’importanza della dichiarazione era anche legata al suo implicito riferimento ai crimini commessi, dentro e fuori i confini della Germania, da parte del regime nazista al potere fino al 1945. Fra tali crimini c’erano quelli abominevoli perpetrati contro l’umanità intera: oltre ai campi di sterminio, c’erano le sperimentazioni condotte dai «medici nazisti»167 Vedi la silloge dei Documenti di deontologia e etica medica, a cura di Sandro Spinsanti, Edizioni Paoline, Milano 1985, p. 33. I corsivi sono miei. 167 Vedi, in proposito, Robert Jay Lifton, I medici nazisti, trad. it. di Libero Sosio, Rizzoli, Milano 1988. I «medici nazisti», con al primo posto Josef Mengele detto l’«Angelo della morte», si prestarono alla realizzazione dei programmi di «sterilizzazione» ed «eutanasia» del regime hitleriano, utilizzando «materiale umano» per «esperimenti disumani». Al riguardo vedi anche Raffaella De Franco, Nel nome di Ippocrate. Dall’olocausto medico nazi166
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su soggetti umani senza alcun riguardo alle sofferenze e alle lesioni fisiche e mentali provocate. L’indignazione suscitata aveva portato alla formulazione nel 1946 del cosiddetto Codice di Norimberga, integrante la sentenza del tribunale militare insediato nella città bavarese, da parte delle potenze vincitrici della guerra, per giudicare i mandanti e gli esecutori dei crimini. Il Codice, che si apriva con la dichiarazione di principio che «il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale» per qualsivoglia sperimentazione, era stato poi rimpiazzato da un documento dell’AMA, approvato nel 1962 e modificato a Helsinki nel 1964: esso ribadiva la proibizione al medico di compiere atti non giustificati dall’interesse del paziente ed era anch’esso aperto da una dichiarazione affermante che «la missione del medico è di salvaguardare la salute dell’uomo»168. Servizio all’umanità, rispetto per la vita, salvaguardia della salute; il triplice principio, o il triplice fine, del mestiere di medico era stato riproposto dall’AMA, a Tokio nel 1975: «Il medico ha la prerogativa di esercitare la sua professione per servire l’umanità. Egli deve conservare e ristabilire la salute fisica e mentale di tutti senza discriminazione, confortare e sollevare i suoi pazienti. Il medico deve osservare l’assoluto rispetto della vita fin dalla concezione»169. Sempre l’AMA, a Venezia nel 1983, aveva ribadito: «La missione del medico è di guarire e, nei limiti del possibile, di sta all’etica della sperimentazione contemporanea, Franco Angeli, Milano 2001. 168 Vedi la silloge di cui supra, nota 166, pp. 37 e 39. I corsivi sono miei. Al riguardo si rileva che il Codice di Norimberga e le sue rivisitazioni successive non impedirono per almeno un ventennio la continuazione degli abusi sperimentali (tra cui, clamorosa, la non-interruzione negli Stati Uniti dello studio sperimentale della sifilide su una comunità di soggetti neri, continuato anche dopo i successi antiluetici della terapia penicillinica). Solo alla fine degli anni Settanta si pervenne negli Stati Uniti alla elaborazione di un report sui «principi etici e lineamenti-guida per la protezione dei soggetti umani sottoposti a ricerca». 169 Vedi la silloge di cui supra, nota 166, p. 46. I corsivi sono miei.
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alleviare la sofferenza [...]. Questo principio non ammette eccezioni neppure in caso di malattia inguaribile». Il medico, peraltro, può agire anche «astenendosi da trattamenti terapeutici d’accordo con il paziente o con i parenti più prossimi». Ciò «non esime tuttavia il medico dall’obbligo di assistere il morente e di somministrargli i calmanti e i medicamenti idonei a rendergli meno dolorosa la fase terminale della malattia. Il medico si asterrà da ogni accanimento terapeutico»170. Si ricuperavano doveri antichi e si recepivano doveri nuovi. Tra i primi ci sono quelli, d’ottocentesca memoria, che prescrivono di «consolare» e «alleviare» quando non si possa «guarire»; tra i secondi assume grande e giusta rilevanza il rispetto della vita nascente e morente, cioè della persona che incomincia e che finisce di vivere. È un rilievo sacrosanto. Sacro e santo? Valore fondativo d’ogni altro valore è la vita umana. Una dichiarazione del 5 maggio 1980, emanata dall’autorità dottrinale centrale della Chiesa cattolica, precisamente dalla Sacra Congregazione per la dottrina della fede che si occupa di difendere e promuovere l’integrità del patrimonio delle verità da credere171, recitava al punto primo: «La vita umana è il fondamento di tutti i beni, la sorgente e la condizione necessaria di ogni attività umana e di ogni convivenza sociale. Se la maggior parte degli uomini ritiene che la vita abbia un carattere sacro e che nessuno ne possa disporre a piacimento, i credenti vedono in essa anche un dono dell’amore di Dio»172. Siamo, cronologicamente, alla data d’esordio della bioetica iuxta propria principia, che ha segnato nella codificazione deontologico-medica una svolta sincrona alla transizione epocale tra secondo e terzo millennio dell’era cristiana. Prendendone atto, nel 1991, l’autore dei Fundamentos de Bioetica Ivi, p. 51. Ivi, p. 53 in nota. 172 Ivi, p. 55. Il corsivo è mio. 170 171
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(Madrid 1989) Diego Gracia Guillén, docente nella madrilena Università Complutense, rileva che nei paesi latino-mediterranei, per lungo tempo e con le debite eccezioni, l’etica medica è stata la pura e semplice applicazione alla medicina dei principi e delle norme della morale confessionale (nei paesi latini si trattava, in concreto, della morale cattolica). Era perciò una pura e semplice morale da confessionale [...]. L’etica medica la facevano i moralisti e l’applicavano i medici. Per questo i medici non fecero mai etica, nel senso stretto della parola, ma solo ascetica ed etichetta. Ne deriva[va] la funzione propria dei codici deontologici, che erroneamente sono [stati] considerati come dei veri e propri codici etici. Se li si analizza accuratamente, si vedrà che la loro funzione era diversa, più superficiale, ascetica e di etichetta, appunto173.
Si può dire, con buona approssimazione, che in passato l’etica medica è stata dettata prevalentemente dall’osservanza dei dogmi, comandamenti e precetti della religione, più che dall’aderenza a una sentita e vissuta religiosità del mestiere. «La situazione attuale è completamente diversa», e lo è per tre motivi: Il primo motivo è che viviamo in una società pluralista, nella quale è molto difficile, per non dire impossibile, pensare a un’uniformità morale del tipo di quella propugnata dagli antichi trattati di etica medica. Il secondo è la sua secolarizzazione: non accetta facilmente le etiche confessionali, e ancor meno quelle monoconfessionali. È un fatto che la Chiesa cattolica ha visto molto chiaramente nel Concilio Vaticano II174. Diego Gracia Guillén, Bioetica clinica, in Sandro Spinsanti (a cura di), Bioetica e antropologia medica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1991, p. 43. 174 Ivi, pp. 43-44. Di «antropologia medica come strada alla bioetica» ha scritto pagine importanti Pedro Laín Entralgo, caposcuola nella stessa università di Madrid e autore, tra l’altro, del trattato Antropología medica (Salvat, Barcelona 1984) pubblicato in Italia nel 1991. 173
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Il terzo motivo è quello che tiene conto del fatto che «la velocità del tempo è cambiata» ancor più di quanto avesse avuto modo di rilevare nell’Ottocento lo storico Jules Michelet175, e del fatto che la medicina, con la società di cui è parte integrante e spesso determinante, si è evoluta nell’ultimo cinquantennio con impennata asintotica sia della sua portata sociale (socializzazione), sia delle sue conoscenze e applicazioni tecnopratiche (tecnologizzazione), con inevitabili ricadute mutanti sul rapporto medico-paziente, cioè tanto sul paziente, dotato di più autonomia e di maggior capacità decisionale, quanto sul medico, dotato anch’egli di un’autonomia maggiore, caratteristica dell’uomo di oggi, ma sempre più sovente chiamato a prendere decisioni in condizioni d’incertezza176. Corollario di ciò è che il medico «non può limitarsi ad applicare soluzioni trovate da altri, anche per il semplice fatto che questi altri non sono medici e non conoscono le caratteristiche reali delle malattie e le condizioni specifiche del lavoro nell’ambito sanitario. L’etica clinica può e deve farla il clinico»177. Deve farla il medico ispirato dalla sua religione di appartenenza o deve farla il medico religiosamente motivato dalla vocazione antropologica, «umanistica», del proprio mestiere? Michelet rilevava: «Noi inventiamo dieci volte di più che nel secolo di Voltaire, il quale inventò dieci volte di più del secolo di Galileo, il quale inventò dieci volte di più del secolo di Lutero». Il rilievo dello storico francese è riportato da Giorgio Cosmacini, Scienze naturali, scienze umane ed educazione alla salute, in Giovanni Danieli (a cura di), Scienze umane in medicina, Il lavoro editoriale, Università Politecnica delle Marche, Ancona 2005, p. 16. 176 Il tema attualissimo della «terapia e decisioni in condizioni d’incertezza» (vedi Giorgio Cosmacini, Claudio Rugarli, Introduzione alla medicina, Laterza, Roma-Bari 20063, pp. 87-96) muove da lontano: si veda Leonardo Di Capua, Parere sull’incertezza della medicina (Napoli 1691), Hermann Boerhaave, De comparando certo in physicis (Leida 1715), Pierre-JeanGeorges Cabanis, Du degré de certitude de la médecine (Parigi 1797). 177 Gracia Guillén, Bioetica clinica, cit., p. 44. 175
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Al riguardo si è rilevato che «il fatto che la conoscenza medica abbia a che fare con i segreti della vita e della morte implica che il medico sia coinvolto con lo spaventoso problema di dare la vita e la morte [...]. Non c’è da stupirsi, allora, se il sapere medico sia [stato] spontaneamente dalla parte del principio della sacralità della vita». Tale principio, superata la fase dell’«etica clinica» in cui chi decideva era il medico destinatario dei codici deontologici, è stato cimentato dalla «bioetica» e dalle sue molte idee nuove e nuovissime (tra cui quella che il paziente divenuto titolare della propria autonomia è cittadino di uno Stato che ha pienamente recepito il principio della laicità scritto nella Carta costituzionale). Il panorama è cambiato perché la storia precorre le norme e le leggi; se queste non ne tengono conto, sono metastoriche, oltreché metafisiche, e si pongono fuori del tempo e del mondo. Oggi «una delle questioni cruciali della bioetica sembra ruotare intorno alla contrapposizione tra una concezione della vita ispirata al principio della sacralità della vita e un’altra ispirata al principio della qualità della vita»178. È innegabile che le «questioni etiche» cruciali del dibattito contemporaneo s’incentrano nella contrapposizione «sacralità» versus «qualità»: una contrapposizione attestata «sui confini della vita»179. Nella terra di nessuno, ma di ognuno di noi, che separa la non-vita dalla vita e questa dalla morte, i problemi riguardano, a un estremo, lo statuto dell’embrione umano anteriormente alla differenziazione del nevrasse, cioè prima dell’abbozzo delle neurostrutture depositarie del progetto di persona senziente e autocosciente; e riguardano, al178 Giovanni Guerra, La medicina come istituzione e il suo sapere, in Spinsanti (a cura di), Bioetica e antropologia medica, cit., p. 93. 179 Vedi Eugenio Lecaldano, Questioni etiche sui confini della vita, in Di Meo, Mancina, Bioetica, cit., pp. 19-39. Sulla «qualità della vita» vedi il fascicolo monografico dei «Quaderni di Castel Ivano» relativo al Convegno «Qualità di vita e malattia» promosso dall’Associazione per la qualità della vita (AQV) e svoltosi a Castel Ivano (Trento) il 13-14 aprile 1991.
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l’altro estremo, la personalità del soggetto umano posteriore o postuma rispetto all’irreversibilità oggettiva della morte cerebrale, quando il soggetto sopravvivente in modo artificiale (tramite macchine cuore-polmoni) è in realtà un cadavere naturale (a cuore battente), dei cui organi si discute la liceità dell’espianto. Questi e altri nodi problematici-limite costringono spesso entro steccati contrapposti le opinioni, opzioni ed emozioni di schieramenti ideologicamente armati, con vasta eco nei mass-media e nel pubblico180. Ha detto, al riguardo, un filosofo del diritto già docente in Cattolica: «È terribilmente importante che, invece di limitarci a contrapporci, cooperiamo diventando dei pluralisti sensibili gli uni alle ragioni degli altri e superando perciò gli storici steccati; è bello pensare a una società in cui non ci siano più laicisti vecchia maniera, vale a dire anticlericali, né cristiani vecchia maniera, cioè antimoderni». La piattaforma in comune per un lancio d’idee, o la base unitaria di una possibile condivisione, non può essere che laica. «La chiamo laica perché», prosegue il filosofo, «con questo termine intendo ciò che va bene per tutti gli uomini che cercano di ragionare con la propria testa, di percepire con i propri sensi e di amare con il proprio cuore. Questa verità laica è probabilmente una verità religiosa»181. Benedetto Croce laicamente disse che «non possiamo non 180 Ne è un esempio la contestazione della legge italiana da parte della Lega nazionale contro la predazione di organi e la morte a cuore battente: mentre per la legge la morte coincide con la cessazione irreversibile di tutte le attività del cervello, la Lega non riconosce validi i criteri usati per decretare la morte da parte dei medici, accusati di «far fuori» i malati terminali «dopo una frettolosa e falsa dichiarazione di morte cerebrale a cuore battente, per espiantarli caldi e pulsanti, sotto farmaci paralizzanti, mentre respirano». 181 Luigi Lombardi Vallauri, Quale filosofia per la bioetica?, in Spinsanti (a cura di), Bioetica e antropologia medica, cit., p. 115. L’autore, professore di filosofia del diritto nell’Università di Firenze e nell’Università Cattolica del Sacro Cuore, è stato fondatore nel 1975 del primo Centro italiano di aiuto alla vita.
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dirci cristiani»182. Si può oggi cristianamente dire che «non possiamo non dirci laici»? La laicità di base può essere un ambito non di contrapposizione, ma di condivisione, perché in medicina essa è naturalmente religiosa, attinente alla religiosità antropologica statutaria del mestiere, laico, di medico183. Come tale, essa è un possibile terreno d’incontro, una base di partenza congiunta, del medico credente e osservante di una data confessione e del medico non credente, agnostico o ateo. Nell’attuale complessa transizione dalla modernità al post-moderno – periodo d’incerta durata, caratterizzato da globalizzazione, biotecnologie, civiltà della rete e meticciato delle civiltà – una nuova laicità184 viene proposta dal patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, per consentire al «credente di operare nella convinzione che Dio regge ultimamente la storia, con decisive implicazioni sul vivere civile» e per riconoscere «pari diritti e doveri a chi nega questa ipotesi». Tale nuova e «piena laicità» viene detta la «istanza superiore» di uno Stato cui compete la «non identificazione con nessuna delle parti in causa», ma cui necessita di non essere «indifferente alle rispettive identità e alle loro culture»185. Questa non indifferenza, o profondo coinvolgimento, altro non è, in campo medico, che la religiosità laica di cui s’è detto fin qui186. 182 Benedetto Croce, Perché non possiamo non dirci «cristiani», in «La Critica», 20 novembre 1942, rist. Laterza, Bari 1944. 183 Circa l’opportunità di definire «laica» la bioetica, vedi le voci consonanti e dissonanti emerse in Emilio D’Orazio, Maurizio Mori (a cura di), Dibattito sul Manifesto di Bioetica laica, in «Politeia», 12, 1996, 41-42, pp. 87122. 184 Angelo Scola, Una nuova laicità, Marsilio, Venezia 2007. 185 Id., Laico, non indifferente, articolo sul «domenicale» del «Sole-24 Ore», 13 marzo 2007. 186 Nel saggio L’Hospitale. La medicina tra arte terapeutica ed atto clinico (Cantagalli, Siena 2001) Angelo Scola, allora rettore della Pontificia Università Lateranense, licenziando il suo scritto dal Laterano l’8 dicembre 2000, scriveva che «in un articolo del domenicale de ‘Il Sole-24 Ore’ del 10 settembre scorso, Giorgio Cosmacini riprende una tesi sostenuta nel suo recente volume Il mestiere di medico. Il giornale vi appone un titolo significa-
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L’agnostico è convinto che non esistono basi positive per credere in Dio, l’ateo nutre la convinzione che Dio non esiste. La confessione professata dal credente e la convinzione espressa dall’agnostico o ateo sono cose aggiuntive, che per se stesse non aumentano la religiosità di fondo propria del mestiere. Costituiscono un eventuale plus-valore aggiunto, non un accrescimento né tantomeno un perfezionamento necessario. Entro questa prospettiva sarebbe opportuno rinunciare all’affermazione perentoria, ripetuta spesso e talora profferita banalmente, che «la vita è sacra». In bocca a un medico, tale mistica della vita non inerisce alla religiosità del mestiere, ma si riferisce all’eventuale plus-valore aggiunto: è legittima in chi crede che la vita è donum Dei, però rischia di dividere coloro che hanno questa fede da coloro che questa fede non hanno. Se anche costoro fanno uso della dizione, tale uso è un’usanza, espressiva non di una fede, ma di un luogo comune (come quando di una guarigione si dice, per invalsa consuetudine, che è stato «un miracolo»). Tuttavia «sacro» non è parola comune: essa attiene al divino e quindi dovrebbe essere usata ad hoc, con appropriatezza, riservatezza e parsimonia187. tivo: ‘Desacralizzare fa bene alla vita’. [...] Questo invito avanza un’ipotesi di risposta: espellere il sacro dall’ambito della salute». L’argomentazione precitata, oltre a leggere nel mio articolo la predetta presunta ipotesi, affermava testualmente che «sarebbe inaccettabile la proposta» di «espungere dall’ambito della salute», in particolare dalla comprensione della malattia e della morte, il «senso religioso». Concordo pienamente – e questo libro lo dimostra – che in medicina non si può e non si deve prescindere dalla religiosità; discordo invece dalla tesi che l’«espellere il sacro» sia l’equivalente dell’«espungere il senso religioso» dal patrimonio della medicina e dal significato dell’esistenza. Tale tesi è, a mio avviso, impropria e fuorviante, perché rischia d’ingenerare una falsa sinonimia tra «religiosità» e «sacralità» e perché rischia d’indurre a ritenere quest’ultima una qualità non aggiuntiva, ma sostitutiva, della religiosità che umanamente compete al mestiere di medico. 187 Circa l’inopportunità di definire «laica» la bioetica, vedi nel Dibattito succitato (cfr. supra, nota 183) l’affermazione di Evandro Agazzi, filosofo della scienza nell’Università di Genova, secondo cui l’«ottima intenzione»
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Dire che «la vita è sacra» comporta il rischio di far regredire l’auspicato incontro bioetico, evolvente nel segno di un’auspicata tolleranza188, a scontro e a «biolitigio», bloccato all’insegna di una intransigenza con affinità fondamentalista; e si presta a far circolare l’idea «che l’etica sia possibile solo per coloro che credono in Dio e, in generale, per coloro che aprono la loro vita alla religione e al trascendente»189. È un’idea che fa torto ai medici religiosi senza religione. Questi non sono «atei devoti», come ironizzando si sussurra da parti opposte, poco comunicanti ma convergenti nel mormorio. Non sono atei devoti perché, da un lato, «l’ateismo è in qualche modo una religione»190; e perché, d’altro lato, la «devozione» è pertinente al sacro e non alla morale da essi professata. Non lo sono allo stesso modo in cui non lo è l’homo religiosus incarnato nel «pastore errante dell’Asia» che Leopardi fa parlare alla luna rivolgendo a questa domande che non hanno risposte. L’etica medica e la bioetica non hanno vincoli di confessione e di trascendenza. L’immanenza del mestiere fa di questo un ministerium inteso come «servizio» reso da un uomo della «bioetica laica» di «sbloccare una situazione di stallo che si è venuta a creare particolarmente in Italia» purtroppo «risulta in buona parte frustrata dalla scelta inopportuna dell’aggettivo laico». Di Agazzi vedi anche il volume collettaneo, da lui curato, Quale etica per la bioetica?, Franco Angeli, Milano 1990. 188 Su «tolleranza e bioetica» vedi soprattutto il magistrale saggio fondativo di Umberto Scarpelli, filosofo del diritto nelle Università di Perugia, Pavia, Torino, Milano, dal titolo La bioetica. Alla ricerca dei principi, in «Biblioteca della Libertà», ottobre-dicembre 1987, 99, pp. 7-32. 189 Eugenio Lecaldano, Un’etica senza Dio, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. VIII-IX. 190 De Duve, Come evolve la vita, cit., p. 46. Al centro delle attuali discussioni sull’ateismo, il libro Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale (Raffaello Cortina, Milano 2007) di Daniel C. Dennett, direttore del Center of Cognitives Studies presso la Tufts University, Medford (Mass.), indaga il modo in cui la religione si è evoluta a partire da credenze popolari e sostiene che la fede non è che un risultato dell’evoluzione darwiniana.
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ad altri uomini. Esso – si ribadisce – ha qualcosa del misterium, in quanto religioso. L’immanenza del servizio fa del medico un tecnico attento al valore della vita umana e al valore della scienza a vantaggio dell’uomo. È la religiosità laica a fare di lui un uomo di valore.
Conclusione RELIGIOSITÀ NEL TEMPO DEL MORIRE
Desacralizzazione del corpo morto, desacralizzazione della morte improvvisa: dal duplice processo, del quale s’è detto, la medicina è proceduta a grandi passi nell’acquisire le nuove conoscenze e le nuove tecniche che l’hanno condotta fino all’era dei trapianti d’organo. Il prelievo d’organo dal corpo del donatore, colto da morte improvvisa (incidentale), e il trasferimento dell’organo prelevato in altro corpo, quello del ricevente, ha segnato una svolta epocale all’insegna di una omeopatia somatica dove «il simile si cura col simile», l’organo guasto del malato con l’organo sano del suo simile. Se breve è la distanza reale, logistica e tecnica, che intercorre tra l’espianto e l’impianto, enorme è invece la distanza simbolica, antropologica ed esistenziale, intercorrente tra il cadavere da cui l’organo viene prelevato e il corpo del defunto che dell’organo è donatore. È una distanza incommensurabile al punto che si può dire con Spinoza quanto da questi affermato nell’Ethica (1677): «Il corpo muore soltanto se si muta in cadavere». A parte la trapiantologia, la distanza che passa, quando passa la vita, tra cadavere e defunto è quella che intercorre tra l’anonimato del primo e l’identità del secondo, tra il frantumarsi fisico-chimico dell’uno e la sopravvivenza genetica, in chi ha figli, dell’altro. «Già la filosofia presocratica spiegava la morte come fenomeno naturale, sostituendo le parole nascita e morte con i concetti fisici di aggregazione e disaggregazione» poi ripresi da Lucrezio nella sua visione atomistica sulle orme del maestro Epicuro; e già Platone ravvisava l’im-
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mortalità nella generazione dei figli affermando (Simposio, 206c): «Ecco che cos’ha di immortale una creatura mortale, il concepimento e la creazione»1. A fare la differenza – di concetto e di valore – si aggiungono, in chi resta, il rito dell’onoranza e il culto della memoria, per i quali la medesima antichità classica ha accumulato esempi memorabili ricercando, per la morte, «vie di fuga non già nell’aldilà, ma piuttosto nell’aldiqua», nei lasciti delle gesta e del pensiero, come assevera l’oraziano non onmis moriar e come fa eco Seneca indicando in essi le vie per transilire mortalitatem2. Per rimarcare la differenza o distanza si può dire che, se fra biologia e biografia il denominatore comune è la vita, fra tanatologia anatomica ed elaborazione della morte tramite il lutto c’è di mezzo una vita, cioè il morire di una data persona. In tutto ciò, al di là della suggestione della parola, non c’è nulla di propriamente «sacro», anche se quasi tutte le culture attribuiscono al defunto un carattere di sacralità dovuto al suo accostarsi al «divino», al suo sperato incontrarsi con esso. Ma ciò fa parte di una speranza, di una credenza, di una fede, non da tutti condivisa. Come abbiamo visto che il valore teologico della «sacralità» della vita si confronta con il valore antropologico della «naturalità» della vita medesima, così oggi assistiamo al confronto tra il valore della «sacralità» della morte con il valore della «buona morte» secondo natura, cioè con quello di una eutanasia vissuta – si vive anche il tempo del morire – entro i confini dell’«umano», entro i limiti dell’umana ragione, qualità, dignità. Un unico disegno di vita comprende sia l’evoluzione della specie, per cui mori necesse est, sia l’evoluzione dell’individuo, a cui morire non piace. Il disegno biologico è insieme generativo, programmato per la nascita, e tanatologico, pro1 Vedi al riguardo Ivan Dionigi, Nel segno del due, premessa al volume collettaneo Mors, finis an transitus, BUR, Milano 2007, pp. 10-12 passim. 2 Ivi, p. 12.
Conclusione. Religiosità nel tempo del morire
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grammato per la morte. «Nasce l’uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento», ci dice la filosofia poetica di Giacomo Leopardi mettendo in stretta connessione il nascere con il morire. «Nascita e morte appartengono entrambe alla vita», ci dice il filosofo Arthur Schopenhauer descrivendoci Il mondo come volontà e rappresentazione (1819). Le contrapposte visioni della «sacralità» della vita donataci da Dio e della «naturalità» della vita vissuta dall’uomo si ripercuotono anche sulla nascita, all’altro estremo del vivere, segnando questo in tutto il suo decorso, dall’alba al tramonto. Vent’anni prima che Leopardi e Schopenhauer ci consegnassero la loro visione non sacra, ma religiosa, del mondo, un medico francese, François-Xavier Bichat (1771-1802), avanti di morire trentenne stroncato dalla tisi, apriva le proprie Recherches physiologiques sur la vie et la mort (1801) con questa frase: «On cherche dans des considérations abstraites la définition de la vie; on la trouvera, je crois, dans cet aperçu général: la vie est l’ensemble des fonctions qui résistent à la mort»3. La morte era la pietra di paragone e la chiave di comprensione della vita. Dal punto di vista fisiopatologico, ch’era quello di Bichat, la malattia altro non era che una «morte nella vita», un morire di questa o quella parte corporea tessutale (Bichat è lo scopritore dei «tessuti» o membranes) nel tutto dell’organismo vivente. La caverna tubercolare era il prodotto inevitabile del processo necrobiotico (bio-tanatologico) della tisi che consumava – «tisi» vuol dire «consunzione» – e che mortificava il tessuto del polmone. Dal punto di vista clinico, ch’era quello di molti medici del tempo, l’incontro con la morte del proprio paziente era il banco di prova della religiosità del mestiere. La partecipe familiarità con la vita a termine e con il tempo del morire era il metro di misura della qualità del medico. «Cominceremo col visitare due defunti», diceva Il medico di campagna (1831) deFrançois-Xavier Bichat, Recherches physiologiques sur la vie et la mort, «nouvelle édition», Masson, Paris 1862, p. 1. 3
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scrittoci da Honoré de Balzac, avviandosi «in una bella mattina di primavera del 1829» a compiere il giro delle visite mattutine nel villaggio del Delfinato affidato alle sue cure. Dal punto di vista antropologico-medico, vita e morte appartenevano alla cultura del «fare visita», del «visitare»: erano una categoria mentale unitaria che apparteneva al modo di comportarsi dei medici di campagna e di città, dei medici di condotta, dei medici di famiglia. Da questi medici, esercenti il mestiere sul campo, la morte era considerata un evento naturale, connaturato all’essere mortale proprio dell’uomo. La morte era un evento ippocraticamente inserito nelle armonie-disarmonie del corpo umano (salute, malattia) e dei suoi cambiamenti (dall’infanzia alla vecchiaia), a cominciare dal cambiamento originario, la nascita, per giungere al cambiamento finale, la morte. L’ottocentesca arte della cura era espressa compiutamente dall’adagio d’oltralpe guérir parfois, soulager souvent, consoler toujours e dal nostrano, succitato, «palliare ove il guarir non ha luogo» prescritto dalla Morale del medico (1852), prima menzione storica in Italia della necessità di fare ricorso alle «cure palliative». L’estensore della «morale», come già ricordato, aggiungeva che «la professione del medico è una maniera di sacerdozio», alludendo alla religiosità propria di quei «pochi che sanno in qual modo deesi regolare la morte degli altri». Era l’epoca in cui, restando l’apparato diagnostico tutto sommato rudimentale, la prognosi era ancora più importante della diagnosi. Il medico sapeva che l’esplicita e dichiarata previsione della morte lo impegnava tanto quanto enunciare una futura guarigione. La risposta alla speranza o alla disperazione di vita del malato non escludeva, anzi includeva, il dire la verità. La verità al malato praticata in nome della nuova «religione dell’onesto», lacerava i veli della finzione in un quadro che anticipava di oltre un secolo il «consenso informato» conforme alla bioetica dei bisogni e diritti dei pazienti sancita dalla Convenzione di Oviedo nel 1997.
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L’odierna vulgata retrospettiva, sospinta dal legittimo scopo di dare il giusto valore all’autonomia oggi riconosciuta al paziente nei confronti del pregresso paternalismo «benevolo» o autoritarismo «dolce» del medico, tende a insistere su questo cliché tradizionale a impronta paternalistico-autoritaria. Ciò fa torto a quei medici che in passato hanno dato prove di un’antropologia relazionale improntata a una modalità etica nominata come «socratica filosofia» dall’estensore della «morale» anzidetta. Nell’Ottocento maturo, cioè nell’età dello scientismo positivista, la morte, massimo evento nella sua globalità «biografica», assumeva l’aspetto concettuale della morte minimizzata, ridotta alla realtà «biologica» di un organismo cellulare degradato, di un complesso biomolecolare demolito. Il clinico medico Arnaldo Cantani (1837-1893), nella prolusione dalla cattedra sul Positivismo nella medicina (1868) diceva ai futuri medici: Signori, dacché gli studi positivi hanno accolto la malattia e la morte stessa fra i fenomeni fisicamente necessari alla trasformazione della materia; dacché la morte di un individuo intiero ha nella vita dell’universo lo stesso significato che per l’organismo umano ha la morte di migliaia di cellule epiteliali che in ogni momento si staccano senza che noi ce ne accorgiamo menomamente, [l’uomo] ha dovuto concedere [...] che la vita dell’universo avanza imperturbabile sopra il suo cadavere, e che egli stesso, per le medesime leggi che l’hanno fatto diventare uomo, trasformando in ossa, carne e nervi, l’acqua, l’aria, la pietra, la pianta, contribuisce ad alimentare quegli esseri che lo nutriscono e torna a trasformarsi in quegli stessi corpi che già fornirono il materiale della sua macchina organica4.
Peraltro i futuri medici, che nelle aule di lezione e nei gabinetti d’analisi imparavano a «conoscere la morte» come Arnaldo Cantani, Il positivismo nella medicina, in «Morgagni», 1868, p. 265. 4
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«fenomeno fisico-chimico» e come «sostrato cadaverico», poi imparavano sul campo a «comprendere la morte» a un più alto livello, grazie a una vocazione realizzata nel comportamento di curanti disponibili, coinvolti, partecipi. Tali caratteristiche qualitative, qualificanti l’attività curativa, per cui il medico cura non solo con i farmaci, ma anche con la propria persona («il buon medico è la prima e la miglior medicina»), si realizzavano nei comportamenti di un medico inserito in un contesto di rapporti umani dove anche l’evento più cruciale della vita – la morte – era compreso e affrontato in termini di partecipazione e di aiuto. Il drammatico ricorrere della morte era compreso dal medico con i mezzi culturali propri del contesto sociale cui apparteneva il morente e nel quale egli operava come apportatore di una pratica che andava facendosi sempre più tecnica. Ma egli era anche portatore, nel medesimo contesto, di valori umani insostituibili e non delegabili. Il suo prestigio era ora dovuto sempre più alla sua abilità di diagnosta e di terapeuta, ma era ancora e sempre dovuto al suo saper essere un compagno di strada, un accompagnatore, un amico. Tanto più nel tempo, breve o lungo, del morire. Il medico del primo Novecento ne era perfettamente consapevole. In una nota dal campo (il campo è quello della condotta medica), pubblicata dal periodico «L’Italia sanitaria» nel 1909, si legge: La vecchietta moriva. Il male onde era tormentata nei suoi ultimi giorni non consentiva illusioni. Moriva. Tuttavia l’inferma aveva detto al medico condotto con un filo di voce: ‘Torna ancora a vedermi nella notte?’. E il medico aveva promesso di tornare. Anche i parenti, tutti raccolti intorno al letto della morente, avevano ripetuto la preghiera: ‘Torni, dottore’. Ed egli, chinando la fronte, aveva replicata la promessa: ‘Tornerò’.
Sotto il manto agiografico «compassionevole» di questo medico si cela, ma si svela, l’abito «appassionato» di un me-
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dico solidale. Entro questo guscio affettivo, il medico riusciva a esorcizzare lo scacco rappresentato per lui dalla morte di un paziente. In questa forma di aiuto egli poteva ancora giovare al malato morente, in questa forma di «cura» poteva ancora trovare un compenso all’insuccesso della propria «terapia». Poteva trovare un sostegno assai valido nell’esperienza dolorosa propria e altrui. Nella terminalità della vita, quando il tempo oggettivo, fisico, si dilata nel tempo soggettivo, psichico, corrispondente alla «durata» di cui ci ha parlato Henri Bergson in Matière et mémoire (1896), la memoria del malato giunto al capolinea ricupera e include la vita intera negli interminabili istanti della vita a termine. È questo il luogo temporale delle «rimembranze». A proposito di quelle di un grande malato come Leopardi, ha scritto Ugo Dotti: «L’ufficio della memoria realizzato nella [sua] poesia è quello di ancorare l’immaginazione, sollecitata dal presente, a un mondo sì vissuto ma che, ormai perduto [come la salute], rimane vivo soltanto nell’interiorità, reliquia di ciò che è stato e che, in quanto tale, la memoria ha trasfigurato»5. È quanto accade al malato che ricapitola la propria vita tanto più quanto questa finisce. La memoria seleziona gli eventi accaduti, appuntandosi, soffermandosi su di essi, trasfigurandoli e presentandoli come la vera vita, la vita finalmente tratta dal più profondo di sé. Alla memoria oggettivante del medico, intesa come anamnesi della storia clinica remota e recente del malato, si giustappone la memoria soggettiva di questi, spinto a rievocare. Quest’altra memoria, interiore, intima, tanto più nel corso di una malattia inguaribile, non si scolora affatto, specialmente nel tempo breve o lungo del morire cosciente, anzi assume colori più vividi, edificanti o struggenti, misteriosi e segreti. Tale diversa memoria è fatta di ricordi talora ineffabili, ma taUgo Dotti, Lo sguardo sul mondo. Introduzione a Leopardi, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 88-89. 5
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laltra comunicabili a pochi. Tra questi pochi ci può ben essere il curante, se questi sia un medico che abbia tempo e che sappia ascoltare. Ma in questo luogo temporale estremo l’uomo è troppo spesso lasciato solo, sovente sperduto in una selva oscura popolata da menzogne: «Il maggior tormento era la menzogna che lo voleva malato, ma non moribondo, una menzogna accettata da tutti». Queste parole, scritte da Lev Tolstoj a commento della Morte di Ivan Il’ic (1881), suonano nel tardo Ottocento come una paradossale, provocatoria richiesta di abbandono: «Andatevene, andatevene, lasciatemi solo». Sono parole non solo ottocentesche, ma risonanti anche un secolo dopo, evocate a rovescio da Norbert Elias nel libro sulla Solitudine del morente (1985): «Chi sta morendo ha bisogno di affetto, di aiuto, di non essere lasciato solo». La sua infinita solitudine «dev’essere assistita da una partecipazione più viva che mai, attraverso una comunicazione fatta di fiducia e di speranza». Quale speranza? Quella di una morte concepita come nuova nascita con un suo proprio travaglio, come passaggio a un’altra vita, migliore? Da un geriatra, esperto di terza e quarta età (o, secondo sant’Agostino, della sesta e settima), il ruolo della medicina contemporanea, in tema di Medicina e sopravvivenza (2000), è visto in questi termini: Il sacro, che accompagnava il morente, ha ceduto il posto alla razionalità nichilista [...]. L’ordine delle antiche credenze ci difendeva dal dubbio e dallo scetticismo. Le sue promesse non potevano essere verificate, la vita eterna mai dimostrata e mai smentita. Oggi, nella società del profano, la medicina è come costretta a promettere quello che veniva una volta garantito [...]. Così è la medicina, e non più la religione, a costruire il campo privilegiato per esaminare il rapporto tra l’uomo e la morte6. Lorenzo De Caprio, Medicina e sopravvivenza. Un invito alla bioetica, ESI, Napoli-Roma-Benevento 2000, p. 24. 6
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La medicina contemplata nel passo citato è una medicina alternativa alla religione, come al tempo del medico ippocratico, alternativo e competitivo nei confronti del sacerdote asclepiade; è una medicina che pretende o presume di sostituire la religione nella mediazione tra l’uomo e la morte. Non è affatto la medicina ad alto tasso di religiosità interumana richiesto nel tempo del morire. Proprio per questo è una medicina ad alto rischio di disumanizzazione. Allo sguardo oggettivante del medico che professa questa medicina, la morte appare come un oggetto equivalente a un arresto cardiaco definitivo, a un silenzio cerebrale assoluto. Chi muore non è visto come morente: il malato che muore è visto come un malato al pari degli altri e al pari degli altri sottoposto ad analisi e terapie, talora ai limiti dell’accanimento diagnostico e terapeutico. «Oggi si muore perlopiù di malattie lunghe e, contrariamente al passato quando un morbo acuto in pochi giorni chiudeva l’esistenza, un capitolo nuovo si apre all’esperienza propria e altrui: il convivere con il tempo che, tramonto dopo tramonto, conduce sino alla fine». Così ha scritto Renato Boeri, che fu presidente della Consulta di Bioetica, in una sua bella pagina, aggiungendo: «La morte non è solo una falce che taglia, ma una lunga ombra che copre la qualità di un tempo della vita. Medici e ospedali sono attrezzati nella loro propria forma di cultura e nella loro propria organizzazione pratica. La cura della sconfitta, e quindi anche la percezione frustrante di questa, non rientra nello scenario previsto»7.
Attenuando la frustrazione propria di chi non si rassegna a essere impotente, ad accettare e confessare l’inanità dei suoi
Da una pagina dattiloscritta letta da Renato Boeri al convegno su La conoscenza della morte tenuto nel 1995 presso la sede dell’Amministrazione provinciale di Milano. I passi citati sono pubblicati nel saggio di Giorgio Cosmacini, Il tempo del morire nella storia del pensiero medico, nel volume collettaneo Senso della morte e amore per la vita, a cura dell’AMCI, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2007, p. 110. 7
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sforzi, l’assillo tecnicistico ingloba il medico per un certo periodo. Poi questo assillo cessa e il paziente viene visitato di meno, controllato di meno e, in ospedale, isolato, fatto oggetto, invece che di premure, di uno zelo prettamente igienista con lo scopo di sottrarlo alla vista dei vivi. Il morente, a questo punto, diventa nel lessico medico un «malato terminale». Una dizione per negarne fino all’ultimo la morte oppure per segnarne anzitempo il termine della vita? Una medicina siffatta è una medicina irreligiosa, coerentemente inserita nella irreligiosità culturale che fa della morte un tabù, da ignorare o rimuovere, con il corollario della scomparsa sociale del lutto e la comparsa in sua vece della finzione per cui la morte non esiste più, rimossa sia dal senso comune, per cui si muore di nascosto, sia dal sapere scientifico, per cui si muore quando l’elettrocardiogramma e l’elettroencefalogramma sono piatti. Tale «morte mortificata», negata, è l’altra faccia della morte medicalizzata a oltranza, dominata dalla tecnomedicina talora oltre il lecito, scissa dall’antropologia relazionale, deprivata o derubata della religiosità laica del medico. Il morire è cosa «umana». Anche il medico senza fede o speranza nella provvidenza «divina» può dirla «sacra» per spirito di carità o per consuetudine. Più universalmente condivisibile è il dirla «religiosa», perché la religiosità è dicibile anche theologia absente e soprattutto è fattibile da una medicina che sappia applicarsi con partecipazione e passione alla vita del paziente tanto più nella sua fase più cruciale. È in questo, e non in altro, contesto – culturale, civile (Kultur e Civilisation sono in Europa sinonimi) – che può essere affrontato con saggezza, tolleranza e concordia il problema della «buona morte». Oggi si usa e si abusa non solo della dizione «sacralità della vita»; si usa e si abusa anche della nozione che fa riferimento alla «dignità del malato». Ammonisce al riguardo Didier Sicard, presidente del Comité consultatif national d’éthique de France: «Questa nozione è in
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realtà estremamente personale, evolve e si modifica in funzione delle persone e delle circostanze»8. Altrettanto e ancor più personale è il riferirsi alla religione, che vincola in funzione delle fedi e dei dogmi. Più universalistica è una nozione che faccia riferimento alla «religiosità» laica della medicina. «Nel dibattito sull’eutanasia non ci sono buoni e cattivi, non c’è chi è nel giusto e chi si sbaglia». Tutti possono concordare sul fatto che «una buona morte non è una morte solitaria, ma un distacco assistito in cui le sofferenze siano ascoltate, comprese e rispettate [...]. Soltanto una società che si sarà riconciliata con la propria finitezza potrà capirlo e finalmente accettarlo».
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In «KOS», gennaio-febbraio 2007, pp. 26-31.
INDICI
INDICE DEI NOMI Adami, F.R., 108n. Agazzi, Evandro, 186n, 187n. Agosti, Leonardo, 93. Agostino di Ippona, santo, 198. Agrimi, Jole, 37n, 42n. Alessandro VIII (Pietro Ottoboni), papa, 152n. Alicandri Ciufelli, Concezio, 114. al-Kindi, 30. Amato Lusitano (João Rodrigo), 74 e n. Ambrosoli, Luigi, 117n. Angeletti, Luciana Rita, 86n. Angeli, Luigi, 11n. Angeli Bernardini, Paola, 120n. Anile, Antonino, 117n. Arcagato di Sparta, 23. Aristotele, 16, 28, 30-31, 33, 69, 124, 128. Arnaldo di Villanova, 36, 37 e n, 63. Asaf ha-Rofè, 24-25. Asclepiade di Bitinia, 23. Assael, Baroukh M., 22n, 105n, 106n. Avanzini, Giuliano, 22n. Averroè (Ibn Rushd), 31. Avicenna (Ibn Sina), 28 e n, 29, 31, 37, 69. Bacone (Francis Bacon), 82, 87, 125. Baker, Robert B., 126n. Baldini, Massimo, 102n, 103n, 113n, 114n.
Balzac, Honoré de, 112 e n, 194. Barbara, santa, 43. Bastianelli, Raffaele, 144. Battisti, Eugenio, 70n. Bazzi, Adriana, 150n. Benedetto XI (Niccolò di Boccassio), papa, 37. Benedetto XIV (Prospero Lambertini), papa, 107-108. Benedetto da Norcia, santo, 26. Benigni, Roberto, VIII. Ben Sira, Yeshua, 7. Bentham, Jeremy, 117, 118 e n, 166. Berger, Natalia, 76n. Bergson, Henri, 197. Berlinguer, Giovanni, 148n, 163n, 164n. Bertani, Agostino, 131n. Bertarelli, Ernesto, 108 e n. Berti, Giovan Lorenzo, 108 e n. Besio, Serenella, 156. Betri, Maria Luisa, 111n, 114n. Biagio, santo, 43. Bianchi, Enzo, VIII. Bianchi, Giovanni, 107. Bianchi, Massimo Luigi, 71n. Bianco, Amedeo, 171. Bichat, François-Xavier, 193 e n. Bobbio, Norberto, 100n, 169 e n. Boerhaave, Hermann, 97 e n, 98 e n, 99 e n, 100, 141, 170, 182n. Boeri, Renato, 199 e n. Bogetti Fassone, Anita, 63n. Bompiani, Adriano, 164n.
206 Bonadonna, Gianni, 148n. Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), papa, 37, 46. Bonifacio, Liborio, 148, 150. Bontadini, Gustavo, 138n. Borruso, Andrea, 28n. Borsellino, Patrizia, 161n, 164n. Botallo, Leonardo, 63 e n, 64, 65n, 66 e n, 67, 68, 72. Botteri, Inge, 62n, 79n, 113n. Botti, Caterina, 164n. Bressan, Edoardo, 154n. Brilli, Attilio, 80n, 82n. Brod, Max, 176. Browne, Thomas, 78-79, 80 e n, 81, 82 e n, 83 e n. Buddha (Siddhπrtha Gautama), 121. Burkert, Walter, 5n, 11n. Burns, Chester R., 126n, 127n. Cabanis, Pierre-Jean-Georges, 182n. Cabot, Richard Clark, 127. Caldani, Floriano, 103. Caldani, Leopoldo, 103. Camillo de Lellis, santo, 60-61, 152. Cantani, Arnaldo, 195 e n. Caplan, Arthur L., 126n. Caraccioli, Louis-Antoine de, 107n. Cardinale, Adelfio Elio, 149n. Carerj, Leonardo, 63n. Carlo Magno, imperatore, 43n. Carlo V, imperatore, 50, 152n. Carnevale, Francesco, 81n. Carpi, Daniel, 74n. Carrara, Raffaello, 92, 93n. Castiglione, Baldesar, 62 e n, 63. Castro, Rodrigo de, 75. Catone, Marco Porcio, detto il Censore, 92n. Cattaneo, Carlo, 117 e n. Cattorini, Paolo, 164n. Celso, Aulo Cornelio, 23, 69. Cerchiai, Geri, 30n. Charcot, Jean-Martin, 22. Chauliac, Guy de, 41, 42n.
Indice dei nomi
Chevalier, A.G., 36n. Chinato, Maria Grazia, 156n. Cicatelli, Sanzio, 59. Cicerone, Marco Tullio, 5. Cingano, Ettore, 120n. Cipolla, Carlo Maria, 90n. Ciriaco, santo, 43-44. Ciudad, Juan (Giovanni di Dio), santo, 152 e n. Clemente V (Bertrand de Got), papa, 37. Clemente VI (Pierre Roger), papa, 41 e n. Clemente VII (Giulio de’ Medici), papa, 49. Clemente XIII (Carlo Rezzonico), papa, 107. Cohn-Sherbock, Dan, 78n. Coletti, Ferdinando, 113 e n. Colombo, Matteo Realdo, 84. Colonnelli, Andrea Enrico, 126n. Copernico, Niccolò, 84. Cornelio, Tommaso, 92 e n. Corradi, Alfonso, 47 e n, 92n. Cortese, Nino, 91n. Cosma, santo, 122. Cosmacini, Giorgio, 12n, 13n, 16n, 19n, 22n, 23n, 25n, 27n, 30n, 54n, 56n, 61n, 70n, 83n, 87n, 89n, 93n, 98n, 99n, 102n, 106n, 114n, 116n, 126n, 128n, 140n, 141n, 148n, 151n, 155n, 156n, 157n, 168n, 172n, 182n, 185n, 199n. Crisciani, Chiara, 12n, 37n, 42n. Crispi, Francesco, 131n, 151. Croce, Benedetto, 131 e n, 135 e n, 141, 185 e n. Cromwell, Oliver, 78-79. Dahan, Gilbert, 34n. Dalla Torre, Giuseppe, 141, 142 e n. Dal Pra, Mario, 125n. Damiano, santo, 122. Danieli, Giovanni, 182n. Dante Alighieri, VIII, 28.
207
Indice dei nomi
Davy, Humphrey, 118. Debray, Régis, V-VI. De Caprio, Lorenzo, 198n. de Duve, Christian, V e n, 5, 165, 177n, 187n. De Filippi, Giuseppe, 113. Defoe, Daniel, 44, 45n. De Franco, Raffaella, 178n. Del Chiappa, Giuseppe Antonio, 103, 112 e n, 114, 115 e n. della Casa, Giovanni, 62-63. Della Peruta, Franco, 106n, 141n. Del Monte, Aldo, 155n. Del Panta, Lorenzo, 106n. Del Sasso, Giancarlo, 169n. Dennet, Daniel C., 187n. Denys, Jean-Baptiste, 88. Depretis, Agostino, 131n. De Renzi, Salvatore, 46n, 90n, 94n. de Sade, Laura, 41. Desara-Cao, medico, 131. Devilla, medico, 131. Dhanvantar∞, 121. Di Bella, Luigi, 148. Di Capua, Leonardo, 91, 182n. Di Luca, Natale Mario, 87n. Di Meo, Antonio, 99n, 163n, 164n, 183n. Diocleziano, Gaio Valerio, imperatore, 122. Dionigi, santo, 43. Dionigi, Ivan, 192n. D’Orazio, Emilio, 164n, 185n. Dormandy, Thomas, 121n. Dotti, Ugo, 197 e n. Duby, Georges, 175n. Edelstein, Ludwig, 14n. Egidio, santo, 43. Elias, Norbert, 198. Emanuel, Linda L., 126n. Empedocle, 87. Engelhardt, Hugo Tristram jr., 166 e n. Epicuro, 80, 91, 191.
Erasmo, santo, 43, 152n. Erasto (Thomas Lieber), 71n. Esiodo, 119 e n. Esquirol, Etienne, 22. Euripide, 176. Fadda, Bianca, 105n, 106n, 107n, 110n. Falloppio, Gabriele, 50-51. Faraday, Michael, 118. Federico II, imperatore, 35, 37. Feingold, Aaron J., 76n. Ferdinando, detto il Cattolico, re d’Aragona e di Sicilia, 74. Field, Mark G., 99, 100n. Filippetti, Angelo, 139 e n. Filippo II, re di Spagna, 50-51. Fioravanti, Leonardo, 102 e n. Firpo, Luigi, 59n. Fleming, Alexander, 148 e n, 149. Foa, Anna, 86n. Forlanini, Carlo, 135. Forlanini, Giuseppe, 135 e n, 139 e n. Forti Messina, Anna Lucia, 130n. Frank, Robert G. jr., 88n. Fränkel, Hermann, 51n. Frati, Paola, 87n. Friedenwalth, Harry, 76n. Fritsch, Gustav, 22. Frugoni, Cesare, 145, 147 e n, 168. Fusinato, Arnaldo, 130n. Gagliardi, Domenico, 94. Galeno, Claudio, 11, 15, 17, 23, 28, 37, 49, 54, 66, 69, 102. Galilei, Galileo, 79, 80 e n, 182n. Galimberti, Umberto, 40n. Garofalo, Ivan, 17n. Gaudenzi, Giuseppe, 13n, 114n, 148n. Gayant, mister, 88. Gazola, Giuseppe, 93 e n, 94. Gedda, Luigi, 158 e n. Geddes, Marco, 148n. Gemelli, Edoardo, poi padre Ago-
208 stino, 137 e n, 138 e n, 139 e n, 140, 141 e n, 150n, 156 e n, 157 e n. Gentili, Bruno, 120. Gentilomo, Andrea, 126n. Gervasoni, Giuseppe, 149. Gesù Cristo, 12, 21, 158. Giacomo II, re di Sicilia e d’Aragona, 37. Giacomo di Savoia, principe, 63. Gianelli, medico, 130. Giannini, Pietro, 120n. Gilino, Gian Giacomo, 56n. Giobbe, 43, 176. Giolitti, Giovanni, 135. Giorello, Giulio, VIII e n, 165n. Giovanni d’Avila, santo, 152n. Glisson, Francis, 79. Gnocchi, Carlo, 154, 155 e n, 156 e n. Goldoni, Carlo, 99. Golgi, Camillo, 137. Gottlieb, A. Matthew, 86 e n. Gracia Guillén, Diego, 181 e n, 182n. Graf, Fritz, 121n. Gramsci, Antonio, 111. Grassani, Goffredo, 164n. Grassi, Paolo, 53n. Gregory, John, 125 e n, 126, 127n. Grmek, Mirko D., 37n. Gronchi, Giovanni, 157. Grünpeck, Joseph, 11. Guerra, Giovanni, 183n. Guinterio (Johann Guinter von Andernach), 71n. Haakonssen, Lisbeth, 127n. Haën, Anton de, 103. Haller, Albrecht, 46 e n, 173. Hang, dinastia, 23. Harvey, William, 84, 91. Haydn, Hiram, 70n. Hayoun, Maurice-Ruben, 31n. Hazard, Paul, 90n.
Indice dei nomi
Heberden, William, 22. Herzlicht, Claudine, 104n. Hitzig, Eduard, 22. Hooker, Worthington, 127. Hughlings Jackson, John, 22. Huizinga, Johan, 79n. Hume, David, 125. Illich, Ivan, 92n. Ingrassia, Giovanni Filippo, 50. Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo), papa, 86. Ippocrate di Cos, 10, 12-13, 15, 17, 19-22, 25, 28, 37, 63n, 83, 86, 93, 100-102, 163, 165. Irti, Natalino, 168n. Isabella, detta la Cattolica, regina di Castiglia, 74. Isidoro di Siviglia, santo, 30, 102. Jacquart, Danielle, 37n. Jenner, Edward, 106. Johnson, Samuel, 79. Kant, Immanuel, IX, 128-29. Knips Macoppe, Alessandro, 103, 112-13. Koch, Robert, 123n. Kottek, Samuel S., 85n. Krehl, Ludolf, 162. Kuhn, Thomas S., 49n. La Condamine, Charles de, 104 e n. Laënnec, René-Théophile-Hyacinthe, 110. Laín Entralgo, Pedro, 10n, 16n, 181n. Lami, Giovanni, 107n. Lando, Ortensio, 59n. Laras, Giuseppe, 32n. Latham, Stephen R., 126n. Laurora, Gennaro, 149. Lauterbach, Anton, 59n. Lecaldano, Eugenio, 183n, 187n. Lee, Tao, 24n. Leibbrand, Werner, 149n.
209
Indice dei nomi
Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Pecci), papa, 152n. Leopardi, Giacomo, 188, 193, 197. Leriche, René, 174, 175n. Lifton, Robert Jay, 178n. Lindeboom, Gerrit Arie, 98n. Lister, Joseph, 123n. Liuzzi, Raimondo de’, detto Mondino, 45. Lombardi Vallauri, Luigi, 184n. Lombroso, Cesare, 152n. Longfellow, Henry Wadsworth, 131. Lower, Richard, 79, 83-84, 88. Luca, evangelista, 25. Lucrezio Caro, Tito, 191. Luigi IX, detto il Santo, re di Francia, 46. Lutero, Martin, 58, 59 e n, 71, 182n. Maimon, padre di Mosè Maimonide, 30. Maimonide, Mosè, 30, 31 e n, 32-33, 34 e n, 67, 73-74, 76, 102. Malavasi, Antonello, 113n, 114n. Malebranche, Nicolas de, 93, 94n. Malliani, Alberto, 170n. Mancina, Claudia, 99n, 163n, 164n, 183n. Mandruzzato, Salvatore, 113 e n. Manfredi, Paolo, 89. Manzolini, Arcangelo, 103. Manzoni, Alessandro, 44. Manzotti, Luigi, 131. Maometto, 26. Marchesi, Pier Luigi, 154 e n. Marco Aurelio, imperatore, 122. Margherita, santa, 43. Maria Teresa d’Asburgo, imperatrice, 108. Martini, Carlo Maria, 146 e n, 147n. Massimiliano I d’Asburgo, imperatore, 11. Matteo, evangelista, 21. Matteucci, Carlo, 117 e n.
Maturi, Raffaele, 113, 116 e n, 117. Mazliak, Paul, 29n. McCullough, Laurence, 124n. Meier, Pirmin, 72n. Melograni, Piero, 116n. Melzsack, Ronald, 174n, 175. Mendel, Johann Gregor, 158 e n. Mendelsohn, Everett, 100n. Mengele, Josef, 178n. Michelet, Jules, 182 e n. Milani, Lorenzo, 156n. Milani Comparetti, Adriano, 156n. Milingo, Emmanuel, 150. Molière, pseud. di Jean-Baptiste Poquelin, 78, 92 e n. Montagu, Mary Wortley, Lady, 106n. Montanari Vergallo, Gianluca, 87n. Monza, Luigi, 156n. Mordacci, Roberto, 128n, 164n, 167n. More, Thomas, santo, 59 e n. Morelli, Eugenio, 143 e n, 144. Morgagni, Giambattista, 103 e n. Mori, Maurizio, 161n, 185n. Morselli, Enrico, 87, 89. Morton, William Thomas, 118. Mottura, Giacomo, 10n, 18n, 24n, 37n, 38n. Muralto, Francesco, 12 e n. Murri, Augusto, 130 e n, 134 e n. Mussi, Fabio, 146n. Mussolini, Benito, 143n. Musto, David F., 127n. Nasr, Seyyed Hossein, 27n. Nathan, Tobie, 149n. Newton, Isaac, 125. Nicolini, Fausto, 73n. Novalis, pseud. di Friedrich von Hardenberg, 172-73. Olivi, medico, 116. Omero, 7, 9, 51 e n, 120 e n. Osler, William, V. Ovidio Nasone, Publio, 87.
210 Paci, Aristide, 172. Pagel, Walter, 72n. Pagliani, Luigi, 131n. Pagni, Aldo, 132n, 172. Pampuri, Erminio, 154 e n. Pantaleone, santo, 43. Paolo di Tarso, santo, 25. Paolucci, Raffaele, 145 e n, 146. Papuzzi, Alberto, 100n. Paracelso (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim), 6970, 71 e n, 72 e n, 91, 122. Paravicino, Fabrizio, 93. Paré, Ambroise, 57, 72. Pasta, Giuseppe, 63n, 112, 113n, 114. Pasteur, Louis, 123n. Pastore, Alessandro, 50n. Pausania, 11. Pecchiai, Pio, 56n. Percival, Thomas, 126, 127n. Petrarca, Francesco, 41, 92n. Petrini, Luigi, 113 e n, 114. Pico della Mirandola, 29 e n. Pierret, Janine, 104n. Pignataro, Carlo, 91. Pilarino, Giacomo, 105n. Pindaro, 8, 120 e n. Pini, Paolo, 139 e n. Pio V (Antonio Michele Ghislieri), papa, 152n. Pio VII (Gregorio Luigi Barnaba Chiaramonti), papa, 111n. Pio XI (Achille Ratti), papa, 152n. Pio XII (Eugenio Pacelli), papa, 114, 158 e n, 159 e n. Pio da Pietrelcina, santo, 150 e n. Pirovano, Massimo, 150n. Platone, 15-16, 128, 191. Plinio Secondo, Gaio, detto il Vecchio, 120. Pocar, Valerio, 164n. Popper, Karl, 65n. Posta, Giuseppe, 113. Pott, Percival, 140.
Indice dei nomi
Potter, Van Rensselaer, 161n. Preti, Giulio, 62n. Procino, Rossella, 132n. Pugioni, medico, 131. Radice, Gianfranco, 154n. Ragazzini, Francesco Ferdinando, 93. Ramazzini, Bernardino, 81 e n. Rattazzi, Urbano, 117. Ravizza, Carlo, 111 e n. Reale, Giovanni, 51n, 52n. Reichlin, Massimo, 164n. Rigoni, Mario Andrea, 102n. Ripamonti, Giuseppe, 44n. Robustelli Dalla Cuna, Gioacchino, 148n. Rocco, santo, 40-41, 43. Rodotà, Stefano, 164n. Romani, Francesca Romana, 86n. Romano, Carlo, 164n. Roncalli Parolini, Francesco, 107. Ronchey, Alberto, 167n. Röntgen, Wilhelm Conrad, 123n. Rossi, Pietro, 34n. Rota, Giovanni, 30n. Roth, medico, 131. Roversi, Anton Spartaco, 144n. Ruderman, David B., 31n, 32n, 75n. Rugarli, Claudio, 23n, 182n. Rumi, Giorgio, 154n. Rush, Benjamin, 125, 126 e n, 127n. Russell, Bertrand, 142. Sacco, Luigi, 109 e n. Saladino (Yus∂f ibn Ayy∂b Salπh alD∞n), sultano d’Egitto, 30. Sanagustin, Floréal, 29n. Sannazaro, Pietro, 60n. Satolli, Roberto, 13n, 114n. Scarpelli, Umberto, 187n. Scevola, Gaio Muzio, 121. Schopenhauer, Arthur, 193. Scialdone, Maria Paola, 72n. Scola, Angelo, 185 e n. Sebastiano, santo, 40-41.
211
Indice dei nomi
Segre, Augusto, 74n. Semmelweis, Ignaz Philipp, 123n. Seneca, Lucio Anneo, 75, 122, 192. Serini, Paolo, 90n. Sertürner, Friedrich Wilhelm Adam, 122. Serveto (Miguel Servet), 84-85. Sgreccia, Elio, 164n. Sicard, Didier, 200. Signorelli, Spalato, 53n. Simon, Maximilien Isidore, 118, 125, 127. Simoncelli, Bartolomeo, 89. Simoni, Renato, 137n. Siri, Giuseppe, 41n. Sisto IV (Francesco Della Rovere), papa, 49. Socrate, 9, 14, 69, 128. Solone, 128. Sosio, Libero, 27n, 80n, 178n. Spencer, Steven M., 147n. Spinelli, Salvatore, 55n. Spinoza, Baroukh de, 98, 191. Spinsanti, Sandro, 14n, 24n, 118n, 124n, 162n, 164n, 178n, 181n, 183n, 184n. Stelling-Michaud, Sven, 35n. Stengers, Isabelle, 149n. Strätling, Meinolfus, 125n. Swazey, Judith P., 100n. Swieten, Gerard van, 103. Sydenham, Thomas, 79.
Tonelli, Chiara, 165n. Torrini, Maurizio, 91n. Torwald, Jürgen, 119n. Tosti, Antonio, 12n, 42n. Tucci, Ugo, 106n. Turati, Filippo, 137 e n.
Talete di Mileto, 8. Targioni Tozzetti, Giovanni, 107n. Taviss, Irene, 100n. Terragni, Fabio, 163n. Tettamanzi, Dionigi, 155n, 164n. Timoni, Emanuele, 105n. Toaff, Renzo, 74n, 77n. Tolstoj, Lev, 198. Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, 123 e n, 176. Tommasi, Salvatore, 117 e n, 141. Tommasini, Giacomo, 173n.
Young, Simpson, 119.
Urbano VIII (Maffeo Vincenzo Barberini), papa, 152n. Usai, medico, 131. Valenti Gonzaga, Silvio, 108. Van Helmont, Jan Baptiste, 91. Vegetti, Mario, 13n, 16n, 17n, 19n, 22n, 101n. Veraci, G., 108n. Veronesi, Umberto, VIII e n, 83n, 165 e n, 166n. Verzè, Luigi, 146n. Vesalio, Andrea, 49-51, 91. Viano, Carlo Alberto, 34n. Vico, Giambattista, 73 e n. Vieri, Aldo, 148. Villari, Pasquale, 86. Vito, santo, 43-44. Voltaire, pseud. di François-Marie Arouet, 182n. Webster, Charles, 69n. Weizsäcker, Viktor van, 162. Wells, Horace, 118. Wightman, William P.D., 45n. Willis, Thomas, 79.
Zaccarelli, Giovanni Luigi, 103. Zacchia, Paolo, 50. Zacuto Lusitano (Abraham Lusitano), 75, 76n. Zahalon, Yacob, 76-78. Zambelloni, Franco, 175n. Zanettini, Cristoforo, 107. Zavoli, Sergio, 175n. Zonta, Mario, 31n. Zora, Giuseppe, 149.
INDICE DEL VOLUME Premessa
V
I. Dal mondo antico all’«ancien régime»
3
1. In principio era il sacro, p. 5 - 2. Religiosità ippocratica, p. 12 3. Desacralizzare la malattia, p. 18 - 4. Umanesimo orientale, p. 23 - 5. Il Mosè della medicina, p. 29 - 6. Cautele scolastiche, p. 34 - 7. Risacralizzazione, p. 39 - 8. Desacralizzare il corpo (morto), p. 45 - 9. Desacralizzare la morte (improvvisa), p. 49 10. Umanizzare l’ospedale, p. 54 - 11. Doveri del medico (e del malato), p. 62 - 12. Il Lutero dei medici, p. 68 - 13. Ebraismo etico, p. 73 - 14. «Religio medici», p. 78 - 15. Desacralizzare il sangue, p. 83 - 16. Crisi di coscienza, p. 90
II. Dall’età dei Lumi al mondo d’oggi
95
1. «Abbandoniamo la metafisica», p. 97 - 2. Florilegio di aforismi, p. 100 - 3. Teologia della vaccinazione, p. 104 - 4. Desacralizzare il galateo, p. 109 - 5. Desacralizzare il dolore (atto primo), p. 117 - 6. Bioetica «ante litteram»?, p. 123 - 7. La morale codificata, p. 129 - 8. Ordinamento dei medici, p. 133 - 9. Ritornare al Medioevo, p. 136 - 10. Il medico sacerdote, p. 142 - 11. Il miracolo della guarigione, p. 147 - 12. Religiosità della religione, p. 151 - 13. Medicina cattolica, p. 156 - 14. Bioetica «post litteram», p. 161 - 15. Desacralizzare il dolore (atto secondo), p. 172 16. Desacralizzare la vita, p. 178
Conclusione. Religiosità nel tempo del morire
189
Indice dei nomi
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