Filosofia della medicina. Epistemologia, ontologia, etica, diritto

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La medicina è oggi considerata una disciplina che cerca una sua specifica collocazione tra spiegazione della malattia e comprensione del malato, leggi di natura e fenomenologia del caso singolo, scienza e “arte”. Dietro le molteplici posizioni che animano la discussione attuale intorno a questi temi, vi sono annosi dibattiti sui problemi ontologici, logici, metodologici ed epistemologici che riguardano le scienze della natura e le scienze dell’uomo. Il volume raccoglie contributi specialistici di alcuni tra i più autorevoli studiosi in materia, nell’intenzione di aggiornare le posizioni filosofiche relative a quei dibattiti, di proporre nuove analisi concettuali e ricostruzioni razionali della teoria e delle pratiche mediche, di mettere a disposizione il vocabolario essenziale di diritto ed etica per discutere le implicazioni valoriali della medicina e della cura. Insomma, un vero e proprio “trattato” sistematico, unico nel panorama editoriale internazionale, che offre “tutto quello che avreste voluto sapere di filosofia per discutere correttamente dei problemi filosofici della medicina”.

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FRECCE / 95

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I keep six honest serving men They taught me all 1 knew Their names are What, Why and When and How and Where and Who.

Rudyard Kipling

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore via Sardegna 50, 00187 Roma, telefono 06 42 81 84 17, fax 06 42 74 79 31

Visitateci sul nostro sito Internet: http://www.carocci.it

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Filosofia della medicina Epistemologia, ontologia, etica, diritto A cura di Alessandro Pagnini

Carocci editore

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i* edizione, luglio 2010 © copyright 2010 by Carocci editore S.p.A.. Roma Finito di stampare nel luglio 2010 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

ISBN 978-88-430-5403-9 Riproduzione vietata ai sensi di legge *art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Premessa di Alessandro Pagnini

15

Introduzione. Prolegomeni a una medicina come scienza di Alessandro Pagnini Corpi e persone “Noi spieghiamo la natura e comprendiamo la vita psichica” La spiegazione nella filosofia della scienza postpositi­ vista Sul comprendere, sulle cause e sulle narrazioni La scienza come forma mentis Conclusioni Note

17

17 20

26 3i 38

42 43

Parte prima Scienze mediche: metodo e fondamenti 1.

Salute e malattia di Giovanni Federspil, Pierdaniele Giarctta e Nadia

51

Oprandi Le concezioni della salute e della malattia Prospettiva analitica e prospettiva olistica / Approccio naturalista e critiche normativistc / Entro e oltre la prospettiva evoluzionista / Con­ cezioni nonnativiste: soggettivismo vs oggettivismo / Le prospettive sociologiche

7

51

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

La classificazione delle malattie

65

L’origine della classificazione delle malattie / Realismo e strumentalismo nell’idea delle malattie / Concezione delle malattie e questione degli universali

2.

Note

79

La medicina scientifica di Stefano Canali

8l

Medicina scientifica: un’analisi introduttiva del con­ cetto

8l

L’idea della medicina scientifica nel Flexner Report: debolezze e con­ traddizioni / L’idea di medicina scientifica e il sàzio del presentismo / Naturalismo e razionalismo / Il determinismo

Le origini della medicina scientifica

89

L’aÒermazione dello sguardo anatomico / L’ordine quantitativo e meccanico / La sintesi anatomo-clinica I Teoria cellulare, fisiologia sperimentale e fisiopatologia

Le caraneristiche della medicina scientifica

97

H presupposto metafisico del monismo materialistico / Il meccanici­ smo • .Meccanicismo e causalità medica / Meccanicismo, tecnica e tec­ nologie biomediche / Tecnologia, medicina e idea di progresso / Ri­ duzionismo

Medicina scientifica, medicina clinica e prassi medica

107

Dalla medicina scientifica alla medicina evoluzionistica e genetica / Lsfe-history theory / Pensiero tipologico e pensiero popolazionale: dal­ la biologia alla medicina

Dalla medicina evoluzionistica alla medicina genomica. Verso una nuova logica della malattia

114

Una stessa logica per le malattie somatiche e i disturbi psichiatrici

3-

Note

118

Forme di ragionamento e valutazione delle ipotesi nelle scienze mediche di Roberto Festa, Vincenzo Crupi e Pierdaniele Giaretta

119

Forme fondamentali di inferenza

119

Deduzione e induzione / Plausibilità e conferma induttiva

Inferenze abduttive nelle scienze mediche

124

L'abduzione / Inferenze abduttive nelle scienze mediche: due esempi

Il metodo ipotetico-deduttivo nelle scienze mediche Il metodo ipotetico deduttivo / 11 metodo ipotetico deduttivo nelle scienze mediche: due esempi

8

i

128

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INDICE

Le ipotesi causali e i metodi di Mill nelle scienze mediche

132

Le ipotesi causali / Il metodo della concordanza / Il metodo della differenza

4-

Conclusioni Note

140

Generalizzazioni scientifiche e trial clinici di Raffaella Campaner e Andrea Cavanna

143

Leggi, generalizzazioni, regolarità

143

141

Il dibattito sulle leggi di natura / Le leggi nelle scienze biomediche

5-

Il trial clinico controllato L’effetto placebo Note

156 159 162

Spiegazioni e cause in medicina di Margherita Benzi e Raffaella Campaner

165

Le spiegazioni in medicina Causalità e criteri causali Cause e probabilità I meccanismi delle malattie Cause e controfattuali

165 175 180 183 187

Cause e condizioni / La teoria di Lewis / Controfattuali e inferenza statistica

6.

Cause e interventi Modelli grafici causali Note

192 195 198

Funzioni, meccanismi e livelli di Massiino Marraffa

203

Funzioni biologiche

204

La teoria eziologica / La teoria del ruolo causale

Funzioni psicologiche Funzioni e livelli di meccanismi Una rapida visione d’insieme Note 9

207 211

216 217

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

Parte seconda La clinica e il metodo La metodologia in medicina di Cesare Scandellari

Linee evolutive della metodologia clinica L’ebm: una nuova metodologia? Rapporti tra metodologia e diagnosi L’acquisizione dei rilievi clinici La raccolta dell’anamnesi e dei rilievi obiettivi Gli esami diagnostici Normalità e patologia: valori normali e valori patolo­ gici Le indicazioni di normalità in clinica e gli intervalli di riferimento Positività e negatività dei risultati Il problema della completezza dell’esame del malato Note 8.

La questione del singolo caso clinico di Carlo Gabbani L'indagine sul singolo caso clinico nelle dinamiche della conoscenza medica

221

221

232 233

235 236 238 24O

244 247 250 254

255

257

Caso clinico e nuove patologie / Caso clinico, nuove teorie e/o nuove cure

L’indagine sul singolo caso clinico tra individualità e generalizzazione L'indagine sul singolo caso clinico e le sue funzioni peculiari in medicina Note 9-

262

265 27T

Diagnosi di Giovanni Federspil

277

Storia e problemi della diagnosi in medicina I tipi fondamentali della diagnosi clinica La genesi delle ipotesi e la diagnosi differenziale

280

277 284

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■III !

I

INDICE

IO.

Gli aspetti “storici” della diagnosi clinica Il fenomeno dello shift diagnostico

286

La decisione nella medicina clinica di Vincenzo Crupi e Roberto Festa

291

La teoria della scelta razionale: dal gioco d’azzardo alla medicina clinica Decisioni terapeutiche

287

291 294

Scelte in condizioni di certezza: ponderare costi e benefici / Scelte in condizioni di incertezza: l’utilità attesa / Le determinanti dell’utilità at­ tesa e la loro quantificazione

Decisioni diagnostiche

302

L'utilità della ricerca di informazioni cliniche / Sequenze di esami e trabocchetti decisionali

II.

Conclusioni Note

309 311

L’errore in medicina di Giacomo Deivecchio e Paolo Cherubini

313

L’errore medico

313

Epistemologia dell’errore medico / L’errore del medico / Teorie del­ l’errore / Tassonomia dell’errore

La componente cognitiva nell'errore medico

319

Errori diagnostici, prognostici e terapeutici / Componenti cognitive degli errori medici / Giudizi basati sulla somiglianza / Correlazioni il­ lusorie e pseudodiagnosticità / Persistenza delle convinzioni ed ecces­ siva fiducia / Effetti del “senno di poi’’ e dell'esito / Osservazioni consuntive

I costi dell’errore

326

I costi materiali e immateriali dell’errore / La curva degli errori / 11 costo della diagnosi / 1 costi tra economia ed etica

Note

333

Parte terza La malattia mentale: epistemologia e ontologia 12.

Il concetto di malattia mentale di Alfredo Civita

337

Carattere e specificità della malattia mentale

3 37

11

r

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

M-

Normale e patologico nei disturbi mentali Tipologia dei disturbi Psicosomatica Note

348 352 362 365

Storia e criteri dei paradigmi nosografici di Massimiliano Aragona

371

Alcune influenti classificazioni di patologie mentali Quali paradigmi nosografici? Criteri diagnostici e filosofie di base Conclusioni e scenari futuri Note

373 379 382 387 390

Patologie della coscienza e identità personale di Cristina Meini e Michele Di Francesco

397

Il problema filosofico Criteri di identità personale Patologie della coscienza e identità personale Teorie dell’io e patologie dell’identità Conclusioni Note

398 402 405 408 411

4i3

Parte quarta Medicina, diritto ed etica

15-

La deontologia professionale del medico di Mario Ricciardi

4r7

Pratiche e giustificazioni Medicina, società e istituzioni La natura della deontologia professionale Obbligazioni, doveri naturali e virtù Note

4i7 424 432 446

12

;

45i

INDICE

16.

La responsabilità del medico di Luca Pelliccioli e Maddalena Rabitti

457

La responsabilità: una mappa concettuale

457

Responsabilità-soggezione / Responsabilità per posizione / Responsa­ bilità causale / Responsabilità-capacità

17-

Un problema: uccidere e lasciar morire La responsabilità medica tra “contratto” e “contatto sociale” La diligenza professionale tra obbligazioni di mezzi e di risultato La colpa medica: negligenza, imprudenza e imperizia Nesso causale e danno risarcibile: la perdita di chance Il consenso informato Note

467

Etica ed esercizio della medicina di Sergio Filippo Magni e Armando Massarenti

495

Problemi etici

495

47i

476 481 486 489 49i

L’etica e la bioetica / Conflitti morali / Le questioni di inizio vita: l’a­ borto c la fecondazione assistita / Le questioni della biotecnologia umana: l’ingegneria genetica e la clonazione / Le questioni di fine vita: l’eutanasia e il trapianto d’organi

Quando si comincia a vivere? Note

512

Bibliografia

521

Indice dei nomi

573

13

5i9

-

I

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Premessa

Porrei banalizzare il contenuto di questo libro in una formula che scimmiotta un titolo di Woody Alien: “Tutto quello che avreste volu­ to sapere di filosofia per discutere correttamente dei problemi filoso­ fici della medicina e non avete mai osato chiedere”. Magari potreste replicare che avete eccome osato chiedere, ma che il libraio, o anche il bibliotecario, vi ha detto, e non per mancanza di zelo, che non c’era quasi niente che facesse al caso vostro. Molti titoli interessanti, anche omonimi a questo, ma nessuna introduzione tematica generale, nessun trattato o manuale sistematico recente, niente di così organicamente finalizzato a costituire un campo coerente di discussione filoso­ fica, neppure in una lingua straniera accessibile (per un quadro sinte­ tico sullo “stato dell’arte” della filosofia della medicina con relativa bibliografia ragionata, cfr. Corbellini, 2003. Tra i lavori complessivi recenti, in parte complementari a questo e in parte divergenti, segna­ lo Boniolo, Giaimo, 2008, Biscuso, 2009 e Fagot-Largeault, 2010). Partendo dalla constatazione di questa lacuna, e nella convinzione che l’interesse per i problemi filosofici (non solo bioetici) della medi­ cina è crescente anche da parte di soggetti non specialisti, abbiamo costituito un gruppo di lavoro mettendo insieme le professionalità ita­ liane — molte giovani, altre fra le più autorevoli - che al momento fanno parte del meglio che la nostra Accademia ha formato. Le pro­ venienze dei partecipanti all’impresa sono varie: medicina, filosofia della scienza, filosofia della mente, filosofia morale, filosofia del di­ ritto, giurisprudenza, psicologia, scienze umane. Molti di essi hanno una doppia formazione. La maggior parte si riconoscerebbe nella de­ finizione di medicina data dal grande storico e filosofo Georges Canguilhem (1988, p. 24): la medicina c «una scienza applicata o una som­ ma di scienze applicate» che si occupa della salute del singolo malato o di una popolazione umana, e che, al fine di conseguire al meglio lo scopo, cerca, nel l’osservazione sistematica, nel metodo sperimentale e 15

9 FILOSOFIA DELLA MEDICINA

nelle conoscenze di base che ne sono la linfa vitale, di accrescere il proprio livello di scientificità. Questo libro nasce con lo scopo di offrire il supporto tecnico e bibliografico critico necessario per affrontare i problemi filosofici del­ la medicina così intesa, cercando anche di dar conto degli aspetti più problematici di tale accezione, con l’auspicio di farsi leggere soprat­ tutto da non filosofi. Ringrazio Maurizio Brioni e l’istituto Banfi di Reggio Emilia che hanno ospitato e incoraggiato per più di un anno i nostri incontri e le nostre iniziative; e continuo a ringraziare Brioni per aver assecondato la nostra dedizione alla causa fino al punto di istituire e patrocinare a Reggio Emilia la Società Italiana di Storia, Filosofia e Studi Sociali della Biologia e della Medicina che annovera tra i soci fondatori alcu­ ni autori di questo libro. Un particolare ringraziamento va a Pierdaniele Giaretta, che si è adoprato per la riuscita dell’impresa ben oltre la redazione delle parti assegnategli. Molti amici e colleghi hanno nel tempo incoraggiato il nostro lavoro e sono stati prodighi di consigli. Su tutti Francesco Cataluccio, Gilberto Corbellini, Bernardino Fanti­ ni. Paolo Rossi e il compianto Giovanni Jervis. Un grazie anche a Gianluca Mori e all’editore Carocci che ci hanno creduto. Personal­ mente. devo molto a Mariapia Garavaglia, che ha suscitato in me l’in­ teresse per la filosofia della medicina in questi anni in cui abbiamo collaborato insieme alla rivista di Medicai Humanities “L’arco di Gia­ no”, e devo molto anche ai membri del Comitato Regionale Toscano di Bioetica con cui ho avuto la fortuna di lavorare e di apprendere per otto anni. Ogni autore è stato libero di impostare e svolgere i vari temi a partire da competenze specifiche comprovate, in un personale stile di comunicazione scientifica e talora assumendo posizioni nient’affatto allineate «alcuni capitoli, come il 7 e 1’8 o il 12 e il 13, sono stati concepiti proprio al fine di prospettare una pluralità di posizioni su tematiche particolarmente controverse). Degli eventuali limiti, di pro­ babili omissioni, di qualche disparità nello spazio destinato ai vari ca­ pitoli e soprattutto delle tesi argomentate neW Introduzione, sono l’u­ nico responsabile. Lectori benevolo. ALESSANDRO PAGNINJ

16

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Introduzione Prolegomeni a una medicina come scienza di Alessandro bagnini

Corpi e persone Prendiamo il caso di una paziente che soffre di un carcinoma mam­ mario metastatizzato (Cassel, 1982, pp. 639-45). Siamo negli anni ot­ tanta del secolo scorso, e la terapia che incide nel decorso di questa malattia consiste in irradiazioni, ovariectomia e chemioterapia. La diagnosi e la terapia, in questo caso, sono basate su una spiegazione dei “guasti meccanici” nell’organismo della paziente; esse risultano corrette, e sono anche effettuate con scrupolo professionale, umanità e pietosa partecipazione da parte di medici e operatori sanitari. La spiegazione però sembra non contemplare il problema del rapporto tra sofferenza umana e malattia organica. La comprensione della soffe­ renza della paziente pare non identificarsi con la conoscenza del tipo di malattia e degli effetti collaterali che la cura comporta. La paziente è una scultrice di trentacinque anni. Il tumore le causa dolore, perdi­ ta di forza nella mano destra per le metastasi ai nodi linfatici, effetti collaterali come irsutismo, diminuzione della libido, obesità, nausea, caduta dei capelli, affaticamento, deturpazione estetica della mammel­ la irradiata. Tutti questi sono effetti negativi oggettivamente “calcola­ bili” prima della somministrazione delia terapia. Quello che invece sembra impossibile prevedere dai semplici protocolli di diagnosi e cura è l’interpretazione soggettiva di questi sintomi da parte della pa­ ziente in quanto essere umano autoriflessivo che “prova” personal­ mente il dolore dall’interno di un’esperienza di vita e di una situazio­ ne personale contingenti. Quella particolare paziente non vede la ma­ lattia solo come una minaccia per la sua attesa di vita, ma anche per la sua integrità di persona forgiata da una “storia” unica. Forse non potrà più fare la scultrice ed esprimersi creativamente, dovrà rinun­ ciare al tipo di vita che l’ambiente e i contatti di lavoro le hanno consentito di condurre finora, i suoi rapporti con l’altro sesso saranno inarcati da imbarazzo e persino da vergogna, e anche il suo ruolo di 17

L

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

31

donna giovane e indipendente è seriamente compromesso. In base a osservazioni di questo genere, Cassel (1991, 1997) sostiene che la sof­ ferenza umana può essere compresa solo se al centro della considera­ zione medica c'è la persona nella sua interezza, e cioè se si tiene con­ to della sua esperienza passata, della sua storia familiare, dei significa­ ti che provengono dalla cultura di appartenenza, e se nel processo di comunicazione che il medico instaura col paziente si “dà voce” al cor­ po. all'inconscio, alla paura e alla speranza. È facile constatare da subito, al di là delle conclusioni, che il modo stesso in cui è stato descritto questo caso non è “filosoficamen­ te” neutro. Si è rimarcata una differenza, qualitativa e fors’anche on­ tologica. tra qualcosa di oggettivo (il “guasto” organico) e qualcosa di (“quel che si prova” nel vivere una malattia), tra qualcosa di meccanico e qualcosa di storico e vissuto', implicitamente, si è isti­ tuita una differenza anche tra le cause naturali della malattia e i si­ gnificati che essa assume per la persona che la vive, e si è istituita una dirierenza metodologica tra modalità di approccio a questi diversi re­ gimi in termini di spiegazione, da una parte, e di comprensione/inter­ pretazione, dall'altra. Anche il concetto di corpo sembra dicotomizzarsi. A tal proposito, è stato il filosofo e psichiatra tedesco Karl Jaspers ) l'idea che le scienze naturali esatte e in particolare la fisica matematica costituiscano un ideale e un modello metodologico; c) la peculiare concezione della spiegazio­ ne scientifica come sussunzione di casi individuali sotto leggi generali. Dalla parte della spiegazione finalistica stanno gli antipositivisti (o an­ tinaturalisti), i quali: a) respingono il monismo metodologico; b) ne­ gano che la fisica sia modello unico e sommo ideale cui conformarsi; c) fanno una distinzione tra scienze che mirano a generalizzazioni cir­ ca fenomeni riproducibili e prevedibili e discipline, come la storia o la psicologia, che intendono cogliere le caratteristiche individuali e uniche dei propri oggetti; cl) attaccano la concezione positivistica del21

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

lo spiegare (erklàren) e le contrappongono il comprendere {verstehen\ facendo di queste due modalità diverse di conoscenza i pilastri rispettivamente delle “scienze nomotetiche” (quelle che mirano a spiegare un evento in base a leggi) e delle “scienze idiografiche” (in­ dividualizzanti e descrittive). Anche Karl Jaspers attingeva alla “disputa sui metodi” quando, analizzando i sintomi psichiatrici, distinse tra “sintomi oggettivi” e “sintomi soggettiva”. I primi sono inclusivi di rutti i fenomeni perce­ pibili nel paziente tramite i sensi (i riflessi, i movimenti, le espressioni facciali, le azioni, le parole dette e scritte) oppure tramite una forma di comprensione che viene solo dal pensiero razionale (come quando si comprende il contenuto di certe idee deliranti, o si realizza che certi ricordi non sono veridici). I secondi, quelli soggettivi, non pos­ sono essere colti dalla percezione o dall’intelletto, e necessitano di una sorta di immedesimazione da parte del medico nella psiche del paziente {empatia}^ in modo da divenire una realtà interna a chi os­ serva e partecipa delle esperienze dell’altra persona. Il dolore, per esempio: è conseguenza di stimoli o di disfunzioni corporee misurabi­ li su basi fisiologiche oggettive, ma è anche un qualcosa che “si sen­ te" individualmente, che la coscienza del singolo avverte come tale in modo assolutamente qualitativo, e che l’osservatore può “conoscere” solo cercando il più possibile di “mettersi nei panni dell’altro”, ri­ nunciando a preconcetti di tipo teorico o personale, lasciando «da parte tutte le teorie tramandate, le costruzioni psicologiche o le mito­ logie materialistiche dei processi cerebrali» (Jaspers, 1912, trad. it. p. 395). La conoscenza dei sintomi soggettivi è una conoscenza fenome­ nologica e empatica, e la comprensione in gioco è la comprensione del soggetto come persona che nella contingenza “prova” qualcosa che solo lui o chi ha del suo stato una visione intuitiva “dal di den­ tro” può conoscere. Jaspers (19130, p. 180) puntualizza ulteriormente la distinzione sottolineando una differenza tra la comprensione di ciò che viene det­ to e la comprensione del parlante-.

Quando i contenuti dei pensieri emergono l’uno dall’altro in accordo con le regole della logica, noi comprendiamo le connessioni razionalmente. Ma se comprendiamo il contenuto dei pensieri per come sono nati dagli umori, dai desideri e dalle paure della persona che li ha pensati, comprendiamo le con­ nessioni psicologicamente o cmpaticamente. Solo quest’ultima può esser det­ ta “comprensione psicologica". La comprensione razionale ci permette sem­ pre soltanto di dire che un certo complesso razionale, qualcosa che può es­ ser compreso senza psicologia alcuna, era il contenuto della mente; la com22

1

INTRODUZIONE. PROLEGOMENI A UNA MEDICINA COME SCIENZA

prensione empatica, invece, ci porta dritti nelle connessioni psichiche stesse. Laddove la comprensione razionale è solo un aiuto per la psicologia, la com­ prensione empatica è la psicologia stessa.

Jaspers, lo si è detto, fa queste distinzioni avendo in mente la com­ prensione di manifestazioni psicopatologiche. Ma le sue considera­ zioni possono anche interessare gli aspetti psicologici del caso clinico presentato all’inizio del capitolo (che è un caso standard di dia­ gnosi e trattamento medico), giacché sembra che tutta la vita umana (come pensava Dilthey), tutta la psicologia, non possa che essere co­ nosciuta se non per la via di una descrizione fenomenologica e di una comprensione empatica («la comprensione empatica è la psico­ logia stessa»). A proposito di fenomenologia: essa, per Jaspers come poi per Husserl, non è una forma di pensiero, ma più propriamente un modo di vedere. Essa riguarda, in buona sostanza, tutto quello che cogliamo e comprendiamo in modo immediato, come auto-evidente, senza bi­ sogno del pensiero logico e di una riduzione del dato a una previa evidenza o a una previa teoria. Il primo stadio di un approccio feno­ menologico è chiamato da Jaspers “comprensione statica”, la quale coglie i dati apparenti di quello che appunto si dà, per esempio, come uno stato di sofferenza. In un secondo momento subentra la “comprensione genetica”, che mette in connessione, idealmente e ti­ picamente, uno stato con un altro che lo genera. Tali connessioni, per Jaspers, sono condivise da medico e paziente empaticamente. Nel chiarire i termini della contrapposizione tra spiegare e com­ prendere, Jaspers aggiunge una precisazione, che ci consente di arric­ chire il nostro vocabolario essenziale per trattare i problemi connessi alla distinzione spiegazione/comprensione con l’importante concetto di riduzione'. L’assunzione suggestiva che lo psichico sia l’area della comprensione dei si­ gnificati e il fisico quella della spiegazione causale è errata. Non vi è alcun evento nella realtà, di natura sia fisica che psichica, che non sia accessibile alla spiegazione causale [...]. L’effetto che uno stato psichico può avere po­ trebbe di principio reclamare una spiegazione causale, mentre lo stato psi­ chico stesso deve ovviamente essere compreso fenomenologicamente (staticamente). Non è assurdo pensare che un giorno sarà possibile avere regole tali da spiegare causalmente la sequenza di processi di pensiero connessi da si­ gnificati senza prendere in considerazione le connessioni di significato tra di loro [...]. Non è dunque di principio affatto assurdo cercare sia di compren­ dere sia anche di spiegare lo stesso evento psichico reale. Per queste due

23

FILOSOFIA DELLA MEDICINA ■

connessioni stabilite, comunque, vigono generi di validità completamente diversi (ivi, pp. 182-3).

La differenza tra spiegare e comprendere per Jaspers, dunque, non è di oggetto, ma di metodo e di criterio di intelligibilità e di validazione. I processi di pensiero sono eventi reali che possono comparire in spiegazioni causali legiformi come in interpretazioni che mettono in relazione significati 4. E forse un giorno sarà possibile che la psichia­ tria e la psicologia siano ridotte a fìsica-chimica, e cioè che le spiega­ zioni in termini neurofisiologici rendano superflue quelle in termini psicologici (le eliminino, senza lasciare residui da trattare con un vo­ cabolario mentalistico). Jaspers, occupandosi di psicopatologia, fa seguire ulteriori consi­ derazioni e analisi che qui, interessati più in generale ai problemi del­ la medicina e della cura, omettiamo 5. Cerchiamo comunque di rifor­ mulare i termini da lui posti che riteniamo di stretto interesse per la nostra trattazione generale. Diciamo allora: z) che la comprensione dei fenomeni psichici è empatica, ed è l’unico mezzo per reperire dati che riguardino la psicologia e il vissuto di un soggetto; zz) che Vinter­ pretazione (degli stati mentali delle persone con le quali ci relazionia­ mo) si occupa di connessioni tematiche e di significato, e non di nessi causali, sia che il suo obiettivo sia quello di rilevare i significati ogget­ tivi che coincidono con l’intenzione che una persona, consapevolmen­ te o meno, ha consegnato a un’espressione (o a un sintomo), sia che lo scacco dell’impossibilità di reperire un significato univoco renda “interminabile” il lavoro di costruzione di una cornice (quella del col­ loquio clinico) nella quale sistemare elementi che mirino semplicemente a una condivisione e a un’intesa tra interpretante e interpreta­ to; zzz) che fenomenologia è una sorta di disciplina dello sguardo, di educazione a prendere le apparenze non come segno di una realtà re­ trostante o come elemento da riportare immediatamente sotto una teoria nota, ma come una “struttura emergente” che si rivela solo nel suo essere fenomeno (sia pure fenomeno esemplare, tipico) davanti agli occhi in tutta la sua pienezza, ricchezza e novità (cfr. De Monticelli, Conni, 2008). Mi sono dilungato sulla posizione di Jaspers perché ritengo esem­ plifichi, in modo pertinente alle nostre considerazioni generali sulla medicina, il modello antipositivista dei fautori del comprendere, che peraltro nella storia ha presentato anche articolazioni diverse. Per esempio, per von Wright, e per quelli che come lui si sono ispirati alla filosofia del “secondo” Wittgenstein (più interessati peraltro alle scienze sociali che non alla psicologia), un difetto di tutti i fautori 24

INTRODUZIONE. PROLEGOMENI A UNA MEDICINA COME SCIENZA

delle Geisteswissenschaften è stato quello di prendere per una distinzione tra due tipi di conoscenza — mediante sussunzione del partico­ lare sotto leggi universali e mediante partecipazione empatica che permette di cogliere il particolare stesso - quella che invece è una differenza logica tra due forme discorsive di argomentazione (cfr. Nannini, 1989, 1992). Von Wright vede il fondamento della contrap­ posizione tra positivisti e antipositivisti come contrapposizione tra due modi contrari di analizzare la grammatica logica del linguaggio mediante il quale, nella vita di tutti i giorni, descriviamo, spieghiamo e prevediamo le azioni intenzionali altrui. Alla base dei problemi c’è il significato nell’uso di termini come “azione”, “intenzione”, “moti­ vo”, “decisione” ecc., e c’è il problema di una loro definizione che comporta anche assunzioni di filosofia della mente (i “wittgensteiniani”, per esempio, accusano i teorici dell’empatia di aderire acritica­ mente a un modello cartesiano della mente, ai cui contenuti il posses­ sore avrebbe un accesso privilegiato e incorreggibile e che l’osservato­ re esterno assumerebbe tramite un processo di pura immedesimazio­ ne). Ma anche se von Wright rimprovera i “wittgensteiniani” di dare eccessivo risalto all’importanza delle “regole” sociali per la compren­ sione del comportamento (conseguenza della loro accezione anticarte­ siana, “esternista”, del mentale), condivide però con loro l’idea che comprendere un’azione umana (e potremmo dire anche uno stato psi­ cologico di una persona) significa non trovarne le cause o sussumere l’azione o lo stato psicologico sotto qualche regolarità empirica, bensì trovarne una giustificazione alla luce delle ragioni, dei motivi e delle credenze che l’agente reputa di avere per compiere l’azione o per es­ sere in un certo stato d'animo (giustificazione che perciò non am­ monta a una spiegazione di tipo nomologie© o causale). Il percorso cronologico della distinzione tra spiegare e compren­ dere va dunque dall’originaria “disputa sui metodi” in seno allo stori­ cismo tedesco, interessata allora soprattutto al destino metodologico della filologia e delle discipline socio-storiche, alle accezioni che, dopo la “svolta linguistica”, se ne sono date nell’ambito della filosofia analitica angloamericana, interessata (tra semantica e ontologia) ai problemi dell’attribuzione intenzionale e al ruolo rivestito dalla razio­ nalità nel render conto delle azioni. Un ulteriore sviluppo del tema è maturato nell’ambito dell’ermeneutica 6. Qui la dicotomia spiegare/ comprendere è diventata nel tempo una dicotomia spiegare/interpretare, dove l’interpretare è, da una parte, il metodo tipico dell’esegesi testuale che favorisce la comprensione in una sorta di confronto cir­ colare tra la pre-comprensione del lettore e i significati nel testo che retroagiscono emendando quella pre-comprensione (il cosiddetto 25

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“circolo ermeneutico”, originariamente un principio oggettivo di equilibrazione tra lo strumento filologico e la dimensione a priori del comprendere, e oggi sempre più tematizzazione di quei trascendentali storici e linguistici che assicurano il nesso tra soggetto e oggetto del conoscere 7); ma è, d’altra parte, una condizione ontologica, essenziale all’esistenza umana (Dasein) in quanto possibilità di essere, progetto di “come” rivere, e dunque comprensione del mondo come un con­ testo in cui ogni oggetto dato è relato ad altri oggetti ed è anche una possibilità di essere del Dasein. L’ermeneutica, che in quest’ultima ac­ cezione prende le mosse da Martin Heidegger (e dal suo allievo Hans-Georg Gadamer 8), intende la comprensione non come una for­ ma di sapere che, bensì come una forma di sapere come', un esser competenti nel fare certe cose e nell'impegnarsi in certe pratiche. Nell’ermeneutica, così intesa, la comprensione non è un particolare strumento di conoscenza (non è un metodo), ma una condizione fon­ damentale, un imprescindibile presupposto di ogni «esperienza di ve■ità» (scientifica e non), e non è in alternativa con la spiegazione, ma a precede; così come precede ogni atto particolare di comprensione guidato da un metodo.

La spiegazione nella filosofia della scienza postpositivista Nei dibattiti filosofici fino agli anni settanta del secolo scorso, i termi­ ni della contrapposizione tra spiegare e comprendere sono stati quelli ereditati dalla “disputa sui metodi”, dai filosofi dell’azione e della mente angloamericani e dall’ermeneutica, mentre dalla parte della fi­ losofia della scienza il modello di spiegazione di riferimento è stato quello nomologico-deduttivo di Hempel-Oppenheim (cfr. infra, CAP. 5). Nella letteratura corrente si fa ancora riferimento a quegli autori, a quei modelli e a quella storia (cfr. per esempio Zannini, 2008), for­ se però trascurando colpevolmente che la filosofia della scienza post­ positivista (o meglio, oggi, le “filosofie delle scienze” 9), come leggere­ mo soprattutto nella prima parte di questo volume, ha prodotto ana­ lisi che mutano sensibilmente il significato di quella contrapposizio­ ne IO, fino al punto di dissolverla in una prospettiva metodologica pluralistica e in una visione generale della scienza che accoglie consi­ derazioni “pragmatiche” e “regionali”, senza che ciò comporti neces­ sariamente né forme di relativismo assoluto, né un’ammissione incon­ dizionata a priori dei limiti della spiegazione scientifica, né la negazio­ ne della possibilità di parlare in modo filosoficamente interessante 26

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della scienza in generale e della questione di una “demarcazione” tra scienza e altre forme di sapere (o di pseudoscienza). Dal momento che abbiamo parlato sin qui di scienza e di spiega­ zione scientifica mantenendo una prospettiva generalista, e ora am­ mettiamo una pluralità di scienze (contro il monismo metodologico e una certa accezione dell’unità della scienza), corre l’obbligo di rende­ re esplicita una distinzione: si può parlare di scienza a un macroli­ vello (quello a un più alto grado di generalità), a un livello mediano (quello delle diverse comunità scientifiche, di medici, di fisici, di bio­ logi), e infine anche a un microlivello (quello degli individui scienzia­ ti) 11. Quando si parla di scienza in generale, non si nega che vi sia­ no, e vi siano state storicamente, rilevanti variazioni nel comporta­ mento degli scienziati e delle comunità scientifiche. Tutti gli scienzia­ ti, per esempio, parlando a un macrolivello, sarebbero d’accordo nel dire che la scienza deve essere supportata dall’esperienza; ma questo non significa che quando ci si interroga su come e quanto ciò debba avvenire le risposte date dagli scienziati di comunità scientifiche di­ verse, e talora anche da scienziati all’interno della stessa comunità, possano differire (a un microlivello, per esempio, considerazioni prag­ matiche diventano spesso prevalenti su considerazioni epistemiche). Riteniamo che non tener conto di questi livelli, intrecciati ma diversi, comporti veri e propri “errori categoriali”, come quello che ha porta­ to sovente a minare una immagine complessiva della scienza, che è costruita e difesa tramite argomentazioni di un certo tipo (magari an­ che trascendentali, come vedremo alla fine del capitolo), adducendo, per esempio, controesempi dalla pratica degli scienziati. Preliminarmente al prosieguo della nostra trattazione, vogliamo anche sottolineare l’importanza di un’altra distinzione, screditata nel­ l’ambito della letteratura epistemologica postpositivista di stampo “storicista”, ma oggi tornata ad essere generalmente riconosciuta come euristicamente irrinunciabile: la distinzione tra contesto della scoperta (il momento in cui si formano idee e ipotesi, di interesse più psicologico e sociologico che non logico) e contesto della giustificazio­ ne (in cui le ipotesi sono enunciate, talora variamente formalizzate e comunque trattate nella forma standard di comunicazione scientifica ammessa da una determinata comunità, e quindi giustificate alla luce delle evidenze disponibili e rilevanti). E torniamo allora al tema della spiegazione/comprensione. Nell’o­ dierna filosofia della scienza, resta condivisa da molti l’idea che uno degli scopi principali della scienza sia spiegare, e che tutte le spiega­ zioni scientifiche servano alia comprensione dei fenomeni (il che com­ porta che la comprensione sia intesa come il correlato psicologico 27

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delle attività cognitive dello scienziato e la spiegazione come un mez­ zo finalizzato alla comprensione) '2. Detto in breve, e in modo che faccia risaltare una differenza fondamentale rispetto alla visione radi­ cale dell’ermeneutica che abbiamo sopra presentato, la filosofia della scienza intende che la spiegazione preceda la comprensione; nel senso che dia sistematicità e criterialità a un processo che altrimenti sarebbe soltanto soggettivo e quasi ineffabile (la comprensione è uno stato psicologico, ma non idiosincratico e puramente individuale, bensì di­ sposizionalmente conseguibile da una comunità ideale di interroganti date certe condizioni) Non vi è più, peraltro, chi sostenga un modello unico condiviso che ci dica in che consiste tale comprensione: se ad essa soddisfi ad­ durre leggi da cui dedurre Vexplanandum, oppure individuare cause, oppure se soddisfino requisiti come la visualizzabilità e la rappresentazionalità spazio-temporale (che oltretutto incontrano naturali predispo­ sizioni specie-specifiche dell’essere umano), o come V unificazione (ri­ duzione) dei fenomeni (requisito che ha anche il merito di conformar­ si al «processo psicologico della comprensione umana, dove l’attività del comprendere implica l’identificazione di un modello generale che unifica dati in precedenza considerati irrelati»: Dorato, 2007, p. 66, e requisito per molti caratterizzante non solo la spiegazione scientifica, ma la scienza stessa nella sua dimensione ideal-trascendentale ’4). Nessuno di questi modelli o insiemi di requisiti può essere considera­ to condizione necessaria e sufficiente perché si dia una comprensione dei fenomeni (e tantomeno perché se ne dia una comprensione cor­ retta). Il che ci fa concludere che «la comprensione scientifica dei fe­ nomeni avviene in modi diversi, e può essere differente da contesto a contesto, e da situazione a situazione» (ivi, p. 69). In base al fatto che nella scienza tutti questi modelli e requisiti risultano, nelle varie situa­ zioni problematiche, tutt’al più sufficienti, ma non necessari, alla comprensione, ha preso campo negli ultimi anni un ulteriore modello della spiegazione scientifica cosiddetto pragmatico. Per alcuni, esso sta unicamente a significare la «coesistenza pacifica» (Salmon, 1989, p. 298) dei modelli di cui sopra (nomologico-deduttivo, causale, unificazionista ecc.) da utilizzare di volta in volta “opportunisticamente” in relazione al tipo di “domanda-perché” che si pone e al contesto epistemico particolare in cui essa si pone per altri (van Fraassen, 1980), esso costituisce un modello di spiegazione alternativo, che deve sempre tenere in considerazione la relazione a tre tra teoria che spiega (explanans), fenomeno o tema da spiegare (explanandum) e contesto (costituito da un insieme di credenze, informazioni, in gene­ rale da stati epistemici, da quella che si indica come “conoscenza di 28

INTRODUZIONE. PROLEGOMENI A UNA MEDICINA COME SCIENZA

sfondo”, di coloro che pongono la domanda) ,6. Attenzione, però, al senso particolare della proposta pragmatica di Bas van Fraassen. Essa in parte sembrerebbe accogliere alcune delle istanze relativistiche e individualizzanti degli “storicisti” e dei neowittgensteiniani, ma con una fondamentale differenza: quei modelli ponevano spesso indiscri­ minatamente l’accento sui contesti, sui soggetti, sulla comprensione del particolare, negligendo il fatto incontestabile che, a spiegare, è pur sempre una teoria accettabile (e accettata), dotata di virtù indi­ pendentemente stabilite, che non può essere assolutamente relativiz­ zata ai momenti e agli atti esplicativi. Se un influente storico e filoso­ fo della scienza simpatetico con gli antinaturalisti (e, in filosofia della medicina, con la “casuistica” ’7) affermava che «sono i fisici che “spiegano” i fenomeni fisici, e non la fisica» (Toulmin, 1972, p. 157), van Fraassen (1977, p. 143) risponderebbe che invece «non abbiamo alcuna spiegazione a meno che non abbiamo una buona teoria; una teoria che è indipendentemente degna di accettazione». «La ricerca di una spiegazione - aggiunge van Fraassen (1980, trad. it. pp. 93-4) — è valutata nella scienza perché consiste per la massima parte nella ricerca di teorie che siano più semplici, più unificate e più proba­ bilmente empiricamente adeguate. Questo non perché il potere espli­ cativo è una qualità separata sui generis che, misteriosamente, rende quell’altre qualità più probabili, ma perché avere una buona spiega­ zione consiste per la massima parte nell’avere una teoria con quell’altre qualità». Un’accezione pragmatica della spiegazione alla van Fraassen, dunque, accoglie istanze contestualizzanti e persino sogget­ tive, ma non rinuncia a stabilire criteri (generali e locali) per una va­ lutazione delle risposte alle nostre domande-perché, sulla base di una probabilità epistemica, di una relativa (ma specificabile e “pesabile”) conoscenza di sfondo e, soprattutto, di una comparazione con rispo­ ste alternative (oltreché di una previa comparazione tra teorie esplica­ tive alternative). Da questi aggiornamenti relativi allo stato dell’arte nell’odierna fi­ losofia della scienza, sembra dunque lecito trarre una morale: oggi la filosofia della scienza ha abbandonato i presupposti rigidi a) del mo­ nismo metodologico e dell unità della scienza e c) della spiegazione scientifica (unicamente) come sussunzione di casi individuali sotto leggi generali 18 che caratterizzavano la posizione positivista secondo von Wright. Avendo essa ormai da tempo abbandonato anche il pre­ supposto del punto b), che la fisica sia modello unico e sommo ideale cui conformarsi, ma contemplando pluralisticamente specificità onto­ logiche e metodologiche almeno di scienze come la biologia, per 29

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esempio, sembrano di molto indebolirsi i presupposti del contendere da parte antipositivismo. E invece, tornando a parlare di medicina, constatiamo oggi un “ri­ torno” di posizioni che, pur tra di loro diversificate, sono sodali nel considerarla una disciplina che, nel non poter fare a meno di “com­ prendere”, di trattare “significati” e di far valere un particolare tipo di sapere pratico, non può dirsi a pieno titolo scienza naturale. Abbia­ mo sopra accennato in nota alla posizione, provocatoriamente radica­ le, di Giorgio Cosmacini (2008, p. ex), il quale nega alla medicina lo statuto di scienza e preferisce vederla come «una tecnica con un suo sapere conoscitivo e valutativo [...] che differisce dalle altre tecniche perché il suo oggetto è un soggetto: l’uomo»; e abbiamo citato il re­ cente lavoro di Lucia Zannini (2008), che segue una tendenza già au­ torevolmente consolidata (cfr. soprattutto Charori, 2006 e Montgome­ ry, 2006), in cui si parla di narrative-based-medicine e si affidano le credenziali scientifiche sui generis della medicina a una «epistemologia della complessità» che ne valorizzi gli aspetti “idiografici” e “narratiri”. Sensibile, come questi autori, alle conseguenze epistemologiche della recente centralità assunta dal tema del rapporto medico-paziente nella pratica medica, appare anche uno dei più avveduti storici e filo­ sofi della medicina contemporanei, Dietrich von Engelhardt (2009). Egli si rifà esplicitamente a Jaspers: il modello anatomo-patologico, incentrato sulle spiegazioni causali e funzionali, non è sufficiente per la medicina, per il concetto di malattia e per la relazione medico-pa­ ziente. «La medicina è una scienza della natura e allo stesso tempo una scienza antropologica» (ivi, p. 105). «Un concetto scientifico di malattia non esclude una relazione del medico con il paziente» (ivi, p. 106), la quale relazione però, una volta integrata nel quadro comples­ sivo della disciplina medica ’9, fa sì che la medicina nel suo comples­ so diventi scienza dello spiegare e del comprendere, delle cause effi­ cienti e delle cause finali, delle cause e dei significati. Per von En­ gelhardt, addirittura anche nella prospettiva decisamente “scientista” della Evidence Based Medicine, non si deve dimenticare che nella tradizione filosofica il concetto di “evidenza” non significa solamente la prova empirica e statistica, ma anche il giudizio immediato, valido per la dia­ gnostica, la terapia, la relazione malato-medico e la ricerca medica. In medi­ cina si devono sempre combinare questi tipi di evidenza, che costituiscono la vera scientifica e umana Evidence Based Mediane (ivi, p. 119). Von Engelhardt, mentre affronta la questione dello statuto disciplinare della medicina, non dimentica mai di insignirla del titolo di “scien-

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za” (come, del resto, faceva Jaspers). E se propone di integrare la conoscenza medica di base con conoscenze psicologiche, antropologi­ che e sociologiche, sempre di integrazione con “scienze” parla. Tutta­ via, nel corso della trattazione, richiamando Jaspers e i termini della “disputa sui metodi”, distingue jaspersianamente alcuni tipi di com­ prensione che la spiegazione non soddisfa e di cui la scienza medica (al pari, a quanto sembra, delle scienze umane in generale) ha più che mai bisogno: oltre alla comprensione razionale e a quella fenome­ nologica ed empatica, la comprensione esistenziale (come verifica di quanta “libertà” resti ancora al malato di fronte alle situazioni limite del vivere) e la comprensione metafisica (come comprensione della malattia psichica in quanto modo speciale di essere nel mondo). Non entriamo qui nel merito dei problemi particolari della psi­ chiatria (cfr. infra, CAP. 12), neppure di quelli metodologici che ri­ guardano il trattamento del “caso singolo” in medicina (cap. 8) e neppure di quelli di deontologia e di etica medica (capp. 16 e 17); tutti ambiti in cui, come vedremo, le istanze individualizzanti e “uma­ nizzanti” poste dagli autori di cui sopra reclamano una particolare at­ tenzione. Il filosofo, a questo punto, si pone soltanto il problema se è necessario che la medicina, considerata al macrolivello, nel momento in cui a certi livelli delle sue teorie contempla quei tipi di compren­ sione e nel momento in cui, come sostiene von Engelhardt, allarga il raggio delle evidenze rilevanti pertinenti, diventi ipso facto (e ipso iure} qualcosa di diverso da una scienza naturale. In altre parole, il filosofo si chiede se il punto d} della posizione antipositivista caratte­ rizzata da von Wright (secondo cui il versteben è una modalità di­ versa di conoscenza dalFer^/àre# e caratterizza scienze diverse come quelle “idiografiche”), conservi ancora la sua forza dirimente rispetto al tipo di scientificità da ascrivere alla medicina nel suo complesso.

Sul comprendere, sulle cause e sulle narrazioni

Fin qui abbiamo parlato esclusivamente di spiegazione nella filosofia della scienza e abbiamo cercato di mostrare come la contrapposizione spiegare/comprendere non sembri oggi trattabile nei termini originari della “disputa sui metodi”. C’è inoltre una recente rilevante letteratu­ ra che va nella direzione di un riavvicinamento tra scienze naturali e scienze dello spirito anche relativamente ai problemi del controllo empirico c dei rapporti tra teoria e osservazione. Paolo Panini (2002, pp. 159-82), rifacendosi anche all’autorevole posizione di Mary Flesse (1980), mostra, soprattutto in base a considerazioni di teoria generale 31

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della conoscenza, come ermeneutica ed epistemologia convergano sotto molti rispetti contenutistici e metodologici (persino su quel coinvolgimento del soggetto conoscente nel processo conoscitivo che molti continuano a ritenere una prerogativa esclusiva di una “com­ prensione” ermeneutica). E a proposito di metodo, Dagfìnn Follesdal (1979) mostra come il metodo ermeneutico di interpretazione dei “si­ gnificati” (non solo di un testo, ma anche come contenuti di credenze e di intenzioni in esseri umani pensanti e agenti) possa essere ricon­ dotto in modo da non omettere aspetti cognitivamente rilevanti al me­ todo ipotetico-deduttivo in uso nella scienza 2O. Alla luce di questa letteratura, non sembrerebbe un problema per la medicina come scienza accogliere istanze interpretative se esse fossero confinate al re­ perimento di dati e di evidenze (se cioè espletassero la loro funzione nell’ambito del contesto della scoperta, in cui anche le “scorciatoie” dell’intuizione e di un sapere tacito e automatico, e quelle, già però minimalmente “teoriche”, di una “simulazione” e di una modellizzazione analogica, sono legittime modalità di accostarsi a quel particola­ re oggetto che è un soggetto). Non sarebbe un problema per una scienza medica neppure un’interpretazione dei significati in analogia on la lettura testuale, purché regolata da criteri di oggettività e coruita come un'ipotesi empirica da confrontare con tutta l’evidenza levante disponibile (è il senso per cui, per esempio, dopo Lachmann è appropriato parlare, e non in metafora, di una “scienza” della filo­ logia nel rifiuto di queWemendaiio ope ingerii che ne aveva fatto, fino ad allora, un’“ane” puramente congetturale). E tantomeno sarebbe un problema per una medicina come scienza se l’ermeneutica aiutasse a ripensarne i fondamenti e le assunzioni, gli apriori e i valori in gio­ co, nella tensione massima verso l’ottimale ottemperanza di quegli ideali regolativi della verità e dell’oggettività che restano costitutivi di ogni scienza (cfr. ancora Parrini, 1995). La letteratura qui sopra citata non è molto frequentata, soprattut­ to in Italia, e la conseguenza è che da più parti, tra non esperti di epistemologia, si ripetono stanche litanie sull’ineffabilità scientifica di tutto quello che riguarda essenzialmente l’uomo (soprattutto con la formula a effetto che il “soggetto” non potrà mai essere un “ogget­ to”, oppure con varianti della formula vichiana del veruni factum), sulla irriducibilità di motivi e significati a cause, sulla necessaria con­ siderazione di fonti di conoscenza diverse per tutto quello che riguar­ da la psiche umana, infine sulle narrative come unità di descrizione massimamente adeguate alla complessità del vissuto delle persone ri­ spetto alle spiegazioni della scienza (nonché come criteri di identità 32

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personale; cfr. infra, CAP. 14). Nella tenacia di tali posizioni, dove ol­ tretutto non sembra in questione soltanto una classificazione di tale o tal’altra disciplina tra scienze naturali e umane, ma la loro stessa qua­ lificazione come scienze, è forse lecito avvertire anche una vena anti­ scienza che da sempre, soprattutto in Italia, nei sistemi educativi e nelle ideologie dominanti nella nostra cultura dallo spiritualismo all’ermeneutica e al postmoderno, hanno pregiudicato una corretta comprensione della scienza 21. Di un modo di impostare il problema di una definizione di scienza che, secondo noi, vanificherebbe quelli che sembrano sopravvivere a volte come antagonismi mal concepiti, parleremo nel prossimo paragrafo. Qui intendiamo ricapitolare e trat­ tare brevemente tre capisaldi delle argomentazioni (o, più spesso, del­ le “parole d’ordine”) che vogliono fare della medicina una scienza umana (o un’arte, una tecnica, che soltanto nelle scienze di base ha a che fare con la scienza). 1. L’ineffabilità del «giudizio immediato». Intendiamo qui parlare di quella particolare virtù in cui consiste il comprendere intuitivo che ci consentirebbe di cogliere con immediatezza quello che un “occhio” scientifico è impossibilitato a vedere, e che sembra marcare la tipicità della psicologia («la comprensione empatica è la psicologia stessa») o che, in qualità di «giudizio immediato», come lo definisce von En­ gelhardt, costituisce un tipo di evidenza distinto da quello empirico e statistico 22. Torniamo a ripetere che, nella scienza, è fondamentale distinguere tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione. Nel contesto della scoperta e nell’attività dei singoli scienziati accado­ no più cose, e sono in gioco più processi psicologici e tropismi men­ tali, di quanto una visione ingenua di una logica della scoperta am­ metta. Lo psicologo ci dirà autorevolmente che anche l’intuizione e l’empatia “scoprono” e “inventano”. Ma gli stessi cultori dell’empatia come metodo privilegiato di accesso alle altre menti (cfr. Stueber, 2006), per esempio, non la trattano più con i toni “misteriani” e mi­ stici dell’anima con anima, di una pura percezione autoverificante, ti­ pici di certi inizi della “disputa sui metodi”. Anche i “simulazionisti” 2i, riconoscendo l’importanza del ruolo causale che oltretutto la simulazione svolge nella comprensione degli altri, ammettono che una qualche conoscenza proposizionale gioca un ruolo nel “penetrare” ini­ zialmente nell’altra persona (e che dunque si tratta di una forma tutt’altro che speciale di conoscenza, che ha a che fare con processi di astrazione, di concettualizzazione, di tipizzazione e di generalizzazione già dall’uso del mezzo linguistico e da quella previa, sia pur parziale e provvisoria, anticipazione ipotetica), e ammettono anche che essa non

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gioca alcun ruolo nel contesto della giustificazione (cfr. Stueber, 2006, trad. it. p. 288 in risposta a Bevir, 2002) senza che prima sia vagliata ulteriore informazione evidenziale e senza che si consideri che c’è sempre una pluralità di interpretazioni intenzionali tra cui scegliere prima che il contenuto dell’intuizione empatica diventi un dato ogget­ tivo su cui basare la nostra conoscenza. Così riformulato, quel «giudi­ zio immediato» non comporta niente che la scienza non ammetta da sempre e che la filosofia della scienza (soprattutto dopo Kant) non abbia sistemato nella sintesi conoscitiva. 2. Le ragioni non possono essere cause. Pur concedendo che vi sono molteplici serie motivazioni teoriche per una distinzione tra ragioni e cause relativamente alle diverse finalità del loro impiego nei diversi contesti (in etica e in teoria dell’azione, per esempio M), il problema è valutare la sostenibilità della tesi (basata ora su argomentazioni con­ cettuali, ora empiriche), fatta propria da molti autori che intendono rimarcare i limiti “scientifici” della medicina, secondo cui le ragioni non possono essere cause del comportamento o di uno stato mentale. Qui non c’è spazio per entrare in complicate questioni di filosofia della mente e per avventurarci nell’insidioso terreno del problema nente/corpo 25. Ci basti solo replicare a quella presunta inappellabile sentenza richiamando una concezione della causalità tramite cui si stabilisce filosoficamente un requisito minimale di ogni spiegazione causale, senza entrare nella questione della natura degli stati mentali. Adolf Griinbaum (1984, trad. it. pp. 96 ss.), uno dei maggiori filosofi della scienza postpositivista, ha criticato la contrapposizione ragioni vs. cause imputando ai suoi sostenitori una sorta di fallacia fiscalista e di riduzionismo ontologico: per loro, sembrerebbe che ci fossero spiegazioni causali solo laddove vi sono cause fisiche, e siccome ri­ tengono che desideri e credenze non facciano parte deh'arredo del mondo, desideri e credenze non possono causare alcunché. In realtà nella scienza si danno spiegazioni causali che fanno ricorso, nell’explanans, a antecedenti non fisici (è “scientificamente” ammesso dire, per esempio, che l’inflazione ha causato un impoverimento della po­ polazione, e che termini come “classe”, “razza” o “genere” figurino tra gli antecedenti causali di una spiegazione sociologica) e, ammesso e non concesso che stati ideazionali e conativi non siano stati fisici, resta la loro rilevanza causale relativamente a un determinato evento che ne segue, rilevanza che dipende dal fatto che quell’evento o stato explanans - sia esso fisico, psichico o psicofisico - costituisca una dif­ ferenza per il verificarsi dell’effetto explanandum o influisca sull’inci­ denza di esso. Griinbaum (ivi, p. 72) fa un esempio tratto dalla psi-



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coanalisi freudiana estendibile anche a casi di incidenza dello psichi­ co sul somatico in medicina: Se una rimozione R è, in effetti, l’agente psichico patogeno di una nevrosi N, la presenza di R è causalmente rilevante per l’incidenza di N nella classe di coloro che hanno una R proprio per il fatto che da ciò dipende l’insorgere di N. Si ritiene che R influisca sull’incidenza di N allo stesso modo in cui un agente cancerogeno influisce sull’incidenza somatica del cancro, o nel modo in cui certe disposizioni psichiche, secondo alcuni ricercatori, influiscono a livello psicosomatico sull’incidenza della colite ulcerosa.

Vedremo (infra, Cap. 5) interpretazioni diverse della causalità che funzionano in medicina. Solo in alcuni casi esse si basano sull’idea humiana che si debbano soddisfare condizioni necessarie e sufficienti affinché un evento o uno stato sia annoverato tra le cause, nessuna di esse persegue l’idea di una causalità unilineare e deterministica (la multifattorialità è ormai un’acquisizione nelle interpretazioni della causazione da parte della filosofia della scienza), molte ammettono che vi possa essere una causazione upwards o doivntoards tra livelli ontologici diversi (cfr. Humphreys, 1995), poche e solo in determina­ ti contesti accampano pregiudiziali ontologiche sulla natura delle cau­ se, tutte sembrano compatibili con il requisito generale minimale del­ la rilevanza indicato da Griinbaum. 3. La medicina è narrativa. Quest’ultima sentenza rappresenta uno dei più recenti approdi “epistemologici” delle Medicai Humanities. I sostenitori della cosiddetta narrative-based-medicine non dicono che la medicina non ha a che fare con la scienza o con la causalità, ma in­ tendono soltanto integrare la scienza biomedica con una parte, che riguarda soprattutto la clinica e la pratica medica, centrata sul rap­ porto di comunicazione tra medico e paziente e sulla struttura narra­ tiva di tale rapporto. Essi non negano che la causalità abbia un ruolo centrale in medicina e nel ragionamento diagnostico in particolare (continuando, però, a identificare la causalità nella scienza con la cau­ salità deterministica e con una causalità interpretata fisicalisticamente: cfr. Zannini, 2008, p. 66), ma ritengono che questo non sia l’unico principio che ispira il medico, soprattutto nell’osservazione clinica: tutti i dati forniti dall’osservazione e dalle inferenze scientifiche devo­ no essere sistemati in una trama «al fine di dar loro un senso di coe­ renza» (ivi, p. 67). Tale trama non costituisce Vemplotment di ele­ menti tra i quali sia stato accertato indipendentemente un nesso cau­ sale e non obbedisce dunque ai canoni di validazione di una ipotesi scientifica (come vorrebbe la evidence-based-medicine). 11 suo unico 35

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valore epistemico è la coerenza, e l’unico antidoto all’arbitrio, nel co­ struirla, è dato dal fatto che essa non viene imposta “paternallstica­ mente” dal medico, ma “costruita” in un aperto dialogo con il pa­ ziente e, anzi, finalizzata ad esso, giacché «il colloquio non è uno strumento della relazione terapeutica, ma è esso stesso terapeutico» (ivi, p. 68). L’accento posto su questo aspetto particolare delle finalità della medicina fa sì che essa non appaia più come una scienza appli­ cata, come un sapere che messo al servizio della cura, e neppure sol­ tanto come un saper fare (tipico della chirurgia, per esempio, che può essere considerata come mera téchnéY, essa è invece un saper trattare nel processo di interazione e di comunicazione col paziente, un “sa­ pere frenetico” (nel senso della aristotelica phrónesis), che è una for­ ma di sapere pratico che mette in relazione azioni e valori, che non dipende da regole o leggi generali su cui approntare copioni o proto­ colli, ma dall’esperienza (che, in questo caso, è sinonimo di conoscen­ za inespressa, di saggezza acquisita nel fare e non nel conoscere pro­ posizionale, che è preteorica, e fors’anche addirittura precategoriale). Non è qui in discussione l’importanza in medicina del rapporto medico-paziente, né è in discussione (giacché appare come un’esigena sentita dal di dentro della pratica medica) il fatto che la scienza aedica, già da sempre interdisciplinare, si disponga a una ulteriore apertura all’antropologia, alla psicologia e alle scienze umane e della comunicazione in generale ze>. Quello che ancora una volta il filosofo è costretto a osservare è l’assoluta inadeguatezza delle analisi concet­ tuali e la pochezza della filosofia della scienza che sta dietro a queste prese di posizione. Si è già osservato come, nel rimarcarne i limiti, si attribuisca alla scienza l’applicazione di un modello causale determi­ nistico (ormai inutilizzabile anche in fisica), e si parta dalla constata­ zione della povertà di tale modello per dire che nella clinica ci vuole di più. Quel di più che serve alla clinica apparterrebbe a una non meglio definita “ragione pratica” e alle virtù intrinseche, e oserei dire taumaturgiche, delle narrazioni. Circa la ragione pratica, quando la si intenda come un modo per aggirare le costrizioni che ogni processo di teorizzazione e ogni metodo comportano in nome di una forma di sapere “diverso”, ci appelliamo a quello che avrebbe detto Immanuel Kant - il cui parere va ascoltato non foss’altro perché costituisce un’obiezione a Aristotele motivata dalla presa d’atto della conoscenza dispensata dalla scienza moderna:

Se la critica della ragion pura pratica deve essere completa, credo indispensa­ bile che si debba anche poter dimostrare la sua unita con quella speculativa 36

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in un fondamento comune, perché in fondo non ci può essere che un’unica e stessa ragione, distinta solo nell’applicazione (Kant, 1785, trad. it. p. 9). È sempre soltanto una sola e medesima ragione che, sia sotto il rispetto teo­ rico che quello pratico, giudica secondo principi apriori (Kant, 1788, trad. it. p. 147, corsivo nostro). Queste laconiche citazioni da Kant non vogliono ammontare a un argumentum ad verecundiam (assai poco confacente a una seria discus­ sione filosofica); vogliono solo mostrare come vi sia la possibilità di considerare il sapere pratico in modo tale che esso possa almeno es­ sere “tradotto” in un sapere proposizionale, che in esso siano conte­ nute ipotesi empiriche (sia pur tacite) anche se elaborate da una for­ ma di intelligenza che si esercita (lo diceva Aristotele) in un tempo troppo breve per essere osservato, che lo stesso ricorso a un atteggia­ mento pratico come mezzo più adeguato di quello “teoretico” ad af­ frontare certe situazioni problematiche e certe sfide ambientali possa conseguire a una “ragione” e a un giudizio implicito (che a sua volta o è un’induzione o ha a che fare con moduli mentali selezionati dal­ l’evoluzione) su ciò che è meglio e ciò che è peggio. Per esemplifica­ re, commentando un noto esempio, è vero che i Vichinghi costruiva­ no navi mirabili con un senso pratico cui non corrispondeva alcun sapere che tale da consentire loro di spiegare come facevano. Ma oggi, a partire da quei prodotti, siamo perfettamente in grado di rico­ struire il sapere che sotteso alle pratiche di costruzione di quelle navi e di riprodurle; anzi, elaborando ulteriormente quel sapere, le co­ struiamo anche meglio. Dunque, dietro ogni pratica, anche se non dobbiamo necessariamente presupporre un algoritmo, è lecito aspet­ tarsi ed è doveroso esplicitare un pensiero teorico e inferenziale (per quanto inespresso). Osservazioni analoghe vanno fatte sulle narrazioni 27. Come è pos­ sibile non considerarle ipotesi e sottrarle ad ogni controllo empirico standard? Che significa “fidarsi” della costruzione che scaturisce nel colloquio col paziente? Significa che ci si contenta dell’acquetamento momentaneo di un’ansia (di due ansie, quella del medico e quella del paziente) e della soddisfazione di una perplessità indipendentemente dalla verità di quello che si costruisce? Come si è arrivati alla tutt’altro che scontata idea che le narrazioni nel colloquio terapeutico siano esse stesse terapeuticheaK? Zannini (2008, p. 68) parla di questo come di un presupposto «che è necessario condividere» ($/?!). Su quali basi, se non su quelle empiriche che lo convalidano come ogni ipotesi causale (dire che le narrazioni curano è un’ipotesi causale)? E 37

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perché le sequenze degli eventi narrati non possono costituire una “storia causale” da controllare empiricamente come ogni ipotesi cau­ sale? Zannini fa l’esempio classico, “il re venne a mancare e quindi la regina morì di dolore”, per dirci che questa “trama” si basa semplicemente su una congiunzione, “e allora”, e va valutata per la sua “coe­ renza narrativa”, ma non indica una connessione causale. Non indica una connessione causale, ancora una volta, se si intende la causalità come sorretta da leggi universali, deterministiche. Ma c’è, eccome, una catena causale che lega i due eventi: “il re venne a mancare, la regina soffriva di cuore, l'emozione fu troppo forte per lei, ebbe un infarto...”. E la morte del re sarebbe stata la causa della morte della regina anche se si fosse trattato dell’unica morte di dolore mai verifi­ catasi nella storia! Il modo di selezionare i passaggi e gli accostamenti in una narrazione non può prescindere da forme previe di genera­ lizzazione, di abduzione-induzione, di accostamento analogico (sem­ pre una forma di ragionamento, anche quando lo si rappresenti tra­ mite un modello subcognitivo: cfr. Bianchini, 2008), che sono forme tipiche di ogni costruzione teorica. E nel momento di utilizzare una narrazione, anche quando la si voglia prendere come caso o come esemplare (cfr. Creager, Lunbeck, Wise, 2007 e infra, CAP. 8), a meno di non considerare sufficiente il suo effetto “estetico” e si voglia inve­ ce evitare fallacie del genere post hoc ergo propter hoc o l’errore della pars prò toto, non si può prescindere dal ricorso a costrizioni e a cri­ teri che sono quelli che ci permettono di controllare ogni ipotesi empirica.

! La scienza come forma mentis

Vogliamo concludere cercando di far capire meglio come noi inten­ diamo quello che abbiamo sin qui in buona parte presupposto: che vi siano molte scienze, ma che al contempo vi sia un solo atteggiamento scientifico. Il filosofo Giulio Preti (1968) ha suggerito un modo parti­ colare di considerare la scienza e la mentalità scientifica. Lo ha fatto ripensando i termini in cui Charles Snow (1963) aveva posto la pole­ mica sulle “due culture”, e vedendo l’opposizione tra letteratura e scienza dal punto di vista di una fenomenologia unitaria della cultura. Letteratura e scienza, in senso lato, sono per lui forme, eide, che indi­ vidua come costitutive della cultura occidentale e che gli risultano astrazioni necessarie rispetto all’unità concreta della cultura. Necessa­ rie esattamente come è necessario distinguere, per esempio, tra appa­ renza e realtà quando il concetto di esperienza diventa contradditto-

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rio o troppo generico per dar conto di tanti aspetti rilevanti che da esso sono implicati. Quelli proposti da Preti sono due tipi ideali, una coppia oppositiva che abbia un valore euristico, che ci aiuti a capire le modalità in cui noi costituiamo l’esperienza, gerarchizziamo i valo­ ri, impostiamo le nostre risposte di fronte alle nostre esigenze prati­ che e operative. Letteratura e scienza, così ripensate, non sono alla Snow le comunità “antropologiche” dei letterati e degli scienziati, né sono “materie” di insegnamento, o corpi dottrinali, ma sono appunto costellazioni organizzate e gerarchizzate di esperienze, di valori e di norme, di atteggiamenti verso il mondo e noi stessi. Sono forme che Preti caratterizza anche in base all’opposizione persuadere/convincere (da qui la retorica e la logica rispettivamente come modalità della for­ ma letteraria e della forma scientifica), giacché il discorso umanisticoretorico fa leva sui sentimenti e le emozioni di un uditorio particolare per muovere al consenso, mentre quello scientifico ha come idea regolativa la verità e parla a un pubblico universale. Proprio in virtù dei modi specifici di articolare un loro discorso, letteratura e scienza configurano due formae mentis («forme mentali, se si vuol parlare con linguaggio mentalistico; forme della cultura o dello spirito ogget­ tivo...»; Preti, 1968, p. 14), che portano con sé «due diverse conce­ zioni della verità, due diverse forme di cultura accentrate intorno a valori-base antitetici; due diverse scale di valori, e quindi due diverse forme di moralità» (ivi, p. 48). Nel tracciare la distinzione, Preti si premura di avvertire che la civiltà è una, è sempre stata una, e che i valori dell’una forma e dell’altra si dirimono facendo, in un certo sen­ so, violenza alla sua unità. Se in certi periodi storici prevale una men­ talità scientifica, non scompare la poesia, come non scompare la reli­ gione; ma i loro ruoli quasi certamente non saranno cognitivi, e sa­ ranno comunque sempre subalterni rispetto alla conoscenza oggettiva della realtà. Quello che accade, in quei casi, è relativo a un riasse­ stamento assiologico, a un riordinamento dei valori in base a priorità. Che la retorica diventi la forma della cultura letteraria e la logica la forma della cultura scientifica; che l’opposizione tra persuadere e convincere diventi la chiave per caratterizzare rispettivamente il “di­ scorso” retorico e il “discorso” scientifico; che il discorso epidittico viga come “modello” per l’umanista-letterato così come la dimostra­ zione per il logico c lo scienziato; tutto questo non significa allatto sposare il pregiudizio secondo cui da una parte stanno le emozioni, i valori, la soggettività e, dall’altra, le prove, la neutralità, l’oggettività, né quindi assumere una ingenua divisione tra latti e valori. Nessuna “scienza psicologica” (descrittiva), ci dice Preti, avallerebbe una distinzione del genere. Eppure, però, «dal punto di vista di una feno39

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menologia (storico-empirica) della cultura essa appare ben netta e quasi universalmente riconosciuta» (ivi, p. 150). Fermo restando, dunque, il carattere dialettico e non oppositivoesdusivo della coppia letteratura/scienza, la modellizzazione delle due forme antagoniste ci aiuta a riconoscere tipi reali distinti e definiti di atteggiamento culturale e di disposizione verso i valori. Inoltre, tale coppia è essa stessa costruita in base a un atteggiamento teoreticoscientifico nei confronti dell’intero della cultura, al quale atteggiamen­ to Preti da subito assegna un valore socratico, di missione paragona­ bile a quella di un’autocoscienza morale. Per lui, è la cultura teoretica e quella più specificamente scientifica ad avere una priorità, una fun­ zione critica e una capacità di autotrascendenza, mentre la cultura assiologica appare legata alla prassi, alla doxa, alla contingenza. Preti denuncia insistentemente l’insufficienza di un punto di vista “pragma­ tico" e storicistico che colloca le scienze sullo stesso piano di tutte le altre formazioni culturali, socialmente condizionate. Lo storicismo marxista, la psicoanalisi, certe forme “americanizzanti” di sociologi­ smo, anche certe forme di pragmatismo e di naturalizzazione o psicologizzazione dell’epistemologia vengono visti da Preti come fuorviami >erché ci fanno perdere di vista la dimensione ideal-trascendentale Iella scienza, il suo essere sottesa a ogni discorso che intenda essere onoscitivo. Preti non sta percorrendo la via di un naturalismo ridu­ zionista, né sta cercando di “fondare” la nostra conoscenza sulla base di un ideale di màthesis. Ma rimprovera a ogni impostazione genetica (psicologica o storico-sociologica) di non vedere il télos immanente, la pretesa di oggettività del pensiero logico-scientifico, che diventa la sua dimensione trascendentale e che si esplica nell’individuazione di strutture formali e di procedure di controllo che fungono da ideali regolativi. A “livello pragmatico”, scrive Preti (ivi, p. 58), non si pos­ sono «trovare essenziali differenze: esse riguardano le forme, cioè il criterio formale, ideale di validità». 11 modo di procedere in senso pragmatico, “il modo culturale” di pensare, come lo chiama Preti, è tipicamente umanistico, retorico, valutativo, e non logico-conoscitivo. E qui che diventa chiaro il ruolo fondante della razionalità scientifica; che vuol essere anche forza di emancipazione dai dogmi e dall’inerzia rassegnata che ogni “umanesimo” e ogni storicismo conferiscono ai valori e al sapere costituito; e riesce ad esserlo in quanto, kantiana­ mente, istanza critica trascendente ogni concreto sistema di concetti e di giudizi, appello a principi più liberi e universali di quelli ricavabili per astrazione dalla realtà culturale o dalla storia di una tradizione. Per Preti, inoltre, la razionalità scientifica influisce anche sulle forme dell’esperienza assiologica, ha su di esse un primato ideale. E tale pri40

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mato non ce l’ha in modo soltanto “formale”, come norma di coe­ renza logica, indifferente ai contenuti. Ce l’ha anche nel senso più vicino all’uso comune del termine “ragione”, come raison “illumini­ stica”, come riflessione logica e metodica, ordinata, sulle “sensate esperienze”, che incide sostantivamente sul giudizio valutativo perché incide sulle credenze, sul sistema delle motivazioni di un’argomenta­ zione assiologica (che, come suggerisce Preti, ivi, p. 217, può rivelarsi “teoreticamente falso”, erroneo: «se, cioè, la scienza lo dichiara erro­ neo»). L’idea fondamentale di Preti, che ci sentiamo di condividere oggi più che mai, è che non ci sia una partecipazione, una vita sociale, senza fiducia epistemica: non c’è socialità senza criteri condivisi di ve­ rità. E la verità non è un fine astratto ed esangue, bensì è essa stessa un valore, anzi il massimo dei valori, che come tale porta con sé una forte carica emotiva. Per questo diventa eticamente centrale, in una civiltà, impegnarsi sul tipo di sapere da incoraggiare e perseguire. Pri­ ma della “rivoluzione scientifica” il criterio di verità è coinciso con la forza dell’autorità, anche se ammantata di parvenza “democratica”, come quando l’universalità sembrava garantita dal consensus gentium, dal consenso della gente in generale o più spesso dei dotti, degli esperti (dei saggi): è vero ciò che un soggetto determinato (una per­ sona, un’istituzione, un libro, una vulgata) dice esser vero. Ma questo criterio del consenso, che è più tipicamente ricorrente nelle comunità di umanisti (e che sembra tornare in auge tra i fautori di una “svolta narrativistica” in epistemologia) non ha niente a che vedere con la struttura comunitaria della scienza. E un criterio esterno, ci ricorda Preti, che come tutti i criteri esterni viene messo in crisi da quel nuo­ vo sapere tecnico-scientifico che si afferma tra Sei e Settecento e che contiene in sé un criterio di verità assolutamente vincolante. La storia della civiltà alla quale apparteniamo è la storia della progressiva vitto­ ria della tecnica sulla magia e sul sapere iniziatico, da quando l’in­ troduzione del “metodo compositivo” galileiano produsse un muta­ mento nelle forme costitutive del sapere stesso e nei suoi criteri di validità. La critica galileiana alla cultura libresca dell’ultima Scolastica oppone a una verità fondata sulle auctoritates un diverso «ideale cul­ turale c una ben diversa funzione della cultura: non più il conservare e tramandare un definito patrimonio di cultura monopolio di una de­ terminata classe, ma un sapere aperto, progressivo, operativo» (Preti, 1976, voi. 11, p. 121); utile, certo, c tecnicamente applicabile, ma dove il criterio di applicabilità tecnica diviene norma metodologica e quin­ di criterio di verità. Per Preti, come per il suo maestro Antonio Banfi, emerge nell’evoluzione della società un nuovo sentire — uno “spirito 41

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tecnico” — con una sua universalità ideale: quella che John Dewey ave­ va chiamato “universalità relazionale ”, e che si presenta come autoco­ scienza di una cultura e di un mondo umani in conseguenza della rivo­ luzione scientifica, per cui il metodo aperto dell’intelligenza si estende all'insieme dei comportamenti umani. Questo significa, neoilluministicamente, cultura scientifica: estensione all’insieme della vita umana delle pratiche di mediazione razionale, di dialogo e di analisi dei pro­ blemi umani. E - è bene chiarire - quando si dice che la scienza deve entrare a far pane della vita umana, non si fa necessariamente pro­ fessione di riduzionismo: «non importa, in fondo, di trovare il modo per tradurre le proposizioni della chimica, della biologia, della com­ portamentistica in proposizioni della fìsica: importa che non ci siano sfere o zone della vita dove l’uomo rinunci per principio a fare uso dei procedimenti e degli utensili dell’intelligenza ricorrendo in loro vece alla fede, alla superstizione e alla violenza» (ivi, voi. 1, p. 81). Quello che ci pare interessante nella proposta da parte di Preti di vedere la scienza e la cultura umanistica come due formae mentis è il richiamo a un apriori storico (da non intendere relativisticamente 29), che sia attivamente costruito. Cioè un apriori che chiama in causa una responsabilità nell'assumere quei criteri di validità del sapere, quella particolare accezione di comprensione dei fatti, quell’atteggianento e quella scelta particolare sul piano del discorso razionale. Il soggetto “trascendentale” del sapere, frutto di un’astrazione-limite, è insieme trascendente e immanente; è la società stessa in quanto socie­ tà colta, che è «il depositario delle forme, categorie, significati, attra­ verso e mediante cui viene selezionata e intrapresa l’esperienza, e portata a costituirsi, entro le forme ammesse per la “verità”, in “mon­ do reale”» (Preti, 1957, p. 147). A questo trascendentale appartenia­ mo tutti. Esso condiziona la nostra vita, il nostro modo di vedere le cose, le Erlebnisse del senso comune. Ma noi tutti, come soggetti concreti, siamo responsabili rispetto a questa dimensione trascenden­ tale, e dunque rispetto a quelle che devono diventare normativamente le “necessità” costrittive di ogni nostro discorso.

Conclusioni

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Il caso riportato a inizio capitolo c una narrazione. In quella narrazio­ ne compaiono dati che riguardano la malattia specifica di cui la pa­ ziente è affetta e per la quale è curata e dati che riguardano la sua situazione esistenziale e psicologica di donna che vive quella malattia. La narrazione è veridica. Tutti quei dati che si intrecciano in una sto42

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ria coerente sono stati selezionati non in base alla sola coerenza, né semplicemente in base a un mero consensus con la paziente, bensì in base a inferenze da conoscenze consolidate, a ipotesi plausibili, a in­ tuizioni messe al vaglio di un’evidenza il più possibile completa che ne hanno decretato la rilevanza con l’intento specifico di raccontare una storia vera. Le competenze di cui si è servito il “narratore” di­ schiudono una background knowledge articolata e complessa (nel caso in questione si sommano almeno competenze cliniche, biomedi­ che e psicologiche). Queste competenze possono essere accresciute e, quando lo si reputi rilevante, ne possono essere attinte di nuove anche da altri campi di ricerca, come l’antropologia, la sociologia o l’economia, per esempio. Quello che abbiamo voluto negare in que­ ste brevi annotazioni introduttive (e nello spirito di come è stato concepito questo intero volume) è che l’allargamento di competenze e l’adozione di punti di vista diversi nel considerare i problemi della medicina portino all’adozione di criteri di accettazione non scientifi­ ci e allo snaturamento del suo status di scienza. Agli inizi dell’Ottocento, i medici francesi che inventarono la fisiologia cominciarono a raccontare in modo profondamente diverso le storie dei loro pazien­ ti; per esempio, facendo uso di spiegazioni funzionali (cfr. infra, c?\p. 6), che dovettero suonare davvero astruse a un orecchio scientifico educato soltanto alle cause efficienti. Ciononostante nessuno si so­ gnò di pensare che, raccontando storie in quel modo nuovo e par­ lando di “organismi” (soggetti allora assai poco familiari), non stava facendo più scienza. Nello stesso spirito, noi siamo convinti che le scienze continueranno a raccontare storie sempre nuove, e con sog­ getti sempre nuovi; ma che l’unico “narratore” attendibile sarà sem­ pre quello ispirato ai valori che una forma mentis scientifica gerarchizza e reca in sé.

Note 1. Mi limito a rimandare a Berlin (1979), von Wright (1971), Fornati (2002). 2. Cito i recenti Cosmacini (2008) c Zannini (2008), pur consapevole che le posi­ zioni dei due autori sono assai diversificate, ma solo perché il lettore abbia un’idea dell’attualità dei problemi in questione e disponga di una bibliografia di riferimento, quale quella che soprattutto Zannini olire, adeguata ad approfondirli. j. Nel linguaggio dello storico e filosofo della scienza Thomas Kuhn (1962), un paradigma è un insieme di metodi, teorie e valori che vengono presupposti alla ri­ cerca scientifica in un’epoca storica determinata in un ambito dato, e una scienza e in crisi paradigmatica quando si interrompono periodi di duraturo consenso nel campo della ricerca (periodi cosiddetti di “scienza normale”, conseguiti quando scuole di

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pensiero diverse e in competizione trovano un accordo all’interno di una cornice di riferimento concettuale e metodologica condivisa). In questi periodi di crisi, come os­ servano alcuni, la filosofia entra fatalmente in gioco (esempio ne sia la crisi della fisica del primo Novecento) a stimolare comici di riferimento alternative e a configurare e articolare nuove possibilità a livello metascientifico. Per un esame critico dei tipi di rapporto tra filosofia e scienze, tra cui quello accennato di supporto alle scienze in crisi, cfr. Fricdman (2001). Per una visione storico-critica dei diversi “paradigmi” di medicina che si sono succeduti nel tempo e di quelli che convivono e si confrontano oggi, cfr. Corbellini (20043). 4. Thomton (2007. p. 97) suggerisce che la “filosofia della mente" di Jaspers sia una sona di filosofia spinoziana del “doppio aspetto”, coerente con il cosiddetto “mo­ nismo anomalo" teorizzato in seguito dall’influente filosofo Donald Davidson, per il quale esistono soltanto eventi fisici connessi causalmente, ma di cui si può dar conto con linguaggi tra di loro irriducibili come quelli della psicologia e della fisica. Thom­ ton osserva anche che però non tutti gli eventi fisici sono anche mentali, mentre tutti quelli mentali sono fisici. E fa capire, riportando la stessa citazione di sopra (Jaspers, i9ijb. pp. 182-3), come per Jaspers, a differenza che per Davidson, il linguaggio del­ la fisica un giorno potrebbe eliminare quello della psicologia. Tesi, quest‘ultima, che però non è in genere condivisa dagli amipositivisti che vi vedono la tipica concessione al monismo metodologico dei positivisti. 5. Trascureremo, per esempio, la sua importante accezione dei!'incomprensibilità del delirio, che pure ha una rilevanza per capire sia la particolare prospettiva oggetti­ vante che Jaspers assume in psicopatologia sia i limiti che pone al processo di com­ prensione. 6. Cfr. anche Apel (1982). 7. Curioso come l'idea del circolo ermeneutico, già presente nella filologia c nella retorica ellenistiche, si sia imposto, nella sua versione moderna, per affermare i diritti di una ragione autonoma contro il principio di autorità e oggi, con l’ermeneutica, sia diventato invece principio che riabilita la tradizione e una qualche forma di pregiu­ dizio. 8. Per considerazioni sulla medicina ispirate da questo tipo di ermeneutica, cfr, Gadamer ( 1993). 9. Cfr. Vassallo (2003). 10. Un ripensamento critico è venuto anche dalla storia della scienza e delle idee (cfr. Rossi. 1981 e Cohen, 1993). 11. Cfr. De Regt. Dieks >2005). 12. Vale la pena leggere i capitoli sulla spiegazione in due ottimi manuali recenti di filosofia della scienza: Boniolo, Vadali *1999) e Dorato (2007). 13. Ovviamente la comprensione dei significati viene prima. Qui si intende la comprensione come stato che segue a una risposta data a una domanda-perche. Ed è qui che la differenza che fa la spiegazione scientifica diventa sensibile, lo posso avere una comprensione dei fatti anche ponendo la domanda-perché in modo da non uscire dal circolo dei significati (ponendomi la tipica domanda magica del “perché proprio a me?’. per esempio, e rispondendo autocommiserandomi con la sfortuna). Ma se spie­ go scientificamente un incidente stradale che mi è capitato volendo comprendere come sono andate le cose non parlo di significati, ancorché importanti nella vita e nella condotta umana, né di forze sovrannaturali che regolano il caso, c perseguo una comprensione che valga intersoggettivamente, per me, per l’assicuratore, per il vigile, per il passante curioso, per chiunque intenda la comprensione come una acquisizione di conoscenza oggettiva.

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INTRODUZIONE. PROLEGOMENI A UNA MEDICINA COME SCIENZA

14. Cfr. Parrini (1995, pp. 169 ss.) e Friedman (2001). A proposito di riduzione e dei pregiudizi con cui essa è spesso avversata dai critici della scienza, riporto una illuminante pagina di Dorato (2007, pp. 67-8): «Poiché l’esempio tipico di spiegazioni ottenute via unificazione è dato da riduzioni scientifiche che hanno avuto successo, le cbances di una teoria della spiegazione come unificazione sembrano appoggiarsi a quelle del riduzionismo, una tesi metodologica che viene spesso pregiudizialmente osteggiata, ma che invece va discussa caso per caso o teoria per teoria, e che non può essere valutata in modo generale: il riduzionismo è falso, o il riduzionismo è vero. Quel che è indubbio è che in certi cruciali episodi della storia della scienza il riduzio­ nismo è stata la chiave che ha aperto la porta al nostro progresso conoscitivo, e che se abbiamo ragione a ritenere che ridurre implichi capire meglio, l’unificazione di tutti i fenomeni sotto pochi o addirittura sotto un unico principio deve essere considerata un'/Jct? regolativa della scienza in senso kantiano. Questo significa che l’unificazione dei fenomeni o la loro “riduzione’’ è un importante fine verso cui deve tendere la conoscenza scientifica». 15. Una soluzione opportunistica di questo tipo è suggerita per la medicina da Vineis (1999). 16. Tale concessione alla molteplicità dei modelli di spiegazione e alla dimensio­ ne pragmatica della validazione di una spiegazione non comporta altresì alcuna forma assoluta di relativismo o di antioggettivismo. Non essendoci qui lo spazio per argo­ mentare adeguatamente questo punto importante, rimandiamo a Dorato (2007, pp. 76-85). 17. Cfr. Jonsen, Toulmin (1988). 18. La questione di cosa si debba intendere per legge scientifica, e se scopo della scienza sia scoprire leggi, è tuttora controversa e non univocamente risolta. Ovvia­ mente, quando si parla di scienze sociali, di psicologia c anche di alcuni settori della medicina, tutti sono d’accordo nel dire che, se di leggi si parla, si parla per lo più di regolarità del genere indicato come ceteris paribus o “limitato” (bedged), con un grado assai ridotto di generalità. Oltretutto, quando, per esempio, si nega che in psicologia si diano leggi psicologiche, non si nega che vi possano essere leggi di natura (in termi­ ni microfisici) che determinano quei particolari eventi umani (vedi alla voce “riduzio­ nismo"). Ai fini del nostro tentativo di riavvicinare scienze della natura e scienze dello spirito, non è così dirimente risolvere tali importanti questioni. Certo, una disposizio­ ne scientifica nella comprensione delle cose è sempre una disposizione all’astrazione, alla catcgorizzazione, alla modcllizzazione e alla generalizzazione. Quello che vorrem­ mo fosse chiaro, alla fine del prossimo paragrafo, è che anche nell’attività di descrizio­ ne, di interpretazione e di narrazione sono in gioco quegli stessi processi. 19. Von Engelhardt dà senso specifico all’integrazione necessaria nella medicina odierna citando 17lospice-movenient, la medicina palliativa, la medicina etica. 20. Considerazioni in linea con quelle di Follcsdal vengono spontanee di fronte a una pagina dell’interessante libro di Vineis c Satolli (2009, p. 156) in cui, a un certo punto, si intende ricostruire in chiave ermeneutica quello che fa un ricercatore che studia l’espressione dei geni con un mieroarray, laddove un semplice schema abduttivo (comunemente applicato a ricostruire il ragionamento scientifico a un ceno livello; cfr. infra, gap. 3) sarebbe servito egualmente al caso. 21. Cfr. Bellone (2005), Fuso (2009) c Corbellini (2009). 22. Ci rendiamo conto che diamo qui l'impressione di mettere insieme cose ete­ rogenee della cui diversità abbiamo anche dato analiticamente conto in precedenza: per esempio, della differenza tra lo “sguardo" fenomenologico e l’empatia. Riteniamo corretto escludere dalle considerazioni che stiamo facendo la fenomenologia come “educazione dello sguardo" per parlare solo di presunte forme di conoscenza e di giu-

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FILOSOFIA DELLA MEDICINA

dizio immediate e in quanto tali “diverse’. In genere le definizioni di che cosa sia una sorta di "intuizione immediata’" non sono molto chiare e spesso e volentieri si affida­ no a metafore, quando non a oscure elucubrazioni metafisiche. Nella citazione ripor­ tata da von Engelhardt si dà per scontato che ci sia qualcosa che funge da evidenza e che non è della stessa natura delle evidenze empiriche e statistiche. Cavicchi (2002, p. 204) è più esplicito: quell’evidenza è frutto di un’intuizione, quella comunemente in­ dicata dall'espressione “occhio clinico”, che è una sona di ipotesi non formulata dal­ l’osservatore. ma in qualche modo già contenuta nel segno, semplicemente estrapolata da esso, e come tale alogica e non ragionata (addirittura, in questo caso, «il ragiona­ mento, nel senso della logica, è un inutile intermediario»). Cavicchi non esita a evoca­ re il boeziano «intuito divino» e a consegnare questa cognitio intuitiva a «antiche me­ tafisiche» che hanno a che fare più con l’occultismo che con la scienza. Noi, ovvia­ mente, preferiamo un'analisi diversa di quello che accade anche nel momento più ini­ ziale e meno strutturato di un processo cognitivo; che poi, per essere veramente co­ gnitivo, come sarà chiaro nel seguito della nostra tranazione, dovrà essere (kantiana­ mente) una sintesi che a sua volta rientra in sintesi e categorizzazioni ulteriori e dovrà soddisfare (se la conoscenza, com’è comunemente accettato, è credenza vera giustificata'i una qualche forma di legittimazione (considerazioni ulteriori su questi temi sono in Pagnini, 2010}. 23. Le neuroscienze e le scienze cognitive (cfr. Rainone, 2006, 2008, e Meini, 2007J d dicono oggi che il fenomeno dell’empatia può avvenire in due modi: o per simulazione o per identificazione teorica. La teoria della identificazione teorica (theory theory) sostiene che attribuire atteggiamenti proposizionali e attingere agli stati menta­ li di un'altra persona si basa su un insieme di generalizzazioni o “leggi” di senso co­ mune, concianti stati mentali con altri stati mentali e con comportamenti, che co­ stituiscono una vera e propria “teoria della mente”, sia pure implicita e rudimentale; patrimonio dell'uomo (e anche della “mente” animale) acquisito con l’apprendimento e la socializzazione imparando a usare quelle “leggi” come regole di inferenza sia per spiegare sia per predire il comportamento altrui. La teoria della simulazione, di con­ tro, ipotizza che la comprensione avvenga assumendo il punto di vista e lo stato co­ gnitivo dell’altra persona impegnandosi in una vera e propria attività di finzione e di immaginazione che, nel caso della comprensione del comportamento, produce ipotesi controfattuali in base a quello che il soggetto interpretante avrebbe fatto al posto del­ l’altro date cene premesse cognitive e conative. La teoria della simulazione, che più da vicino ci ricorda la comprensione empatica di alcuni dei fautori delle Geisteswissenschaften. sembra anche, sia pure indirettamente, sostenuta da scopene neurofisiolo­ giche come quella dei neuroni specchio (cfr. Rizzolatti, Sinigaglia, 2006). 24. Cfr. Ceri (2008). 25. Per una prima approssimazione al problema, cfr. Saiucci (1997). 26. Del resto, come vedremo nei vari capitoli di questo volume, anche da parte dei filosofi della medicina considerati più “riduzionisti" e legati all'idea che il reperi­ mento di “cause” sia centrale in medicina c’è stata una seria considerazione degli aspetti “mentah” e “sociali" che intervengono nella complicazione delle spiegazioni mediche. Schaffner (1993) e Thagard (1999), pur nelle diversità dei loro approcci, hanno cercato ora di dar conto di prestazioni cognitive e di componenti etico-sociali del comportamento come funzioni nervose (Schaffner), ora delle spiegazioni mediche come di un complesso intreccio in cui figurano elementi sociali e mentali e dove an­ che la “conoscenza analogica" e metaforica ha un ruolo nei processi esplicativi (Tha­ gard). Lo stesso Federspil oppure a Poland ( 1994); o ancora a Gillett, Barry (2001). 7. Sono enzimi che scindono il dna in punti specifici e consentono di isolare dei frammenti più corti e resistenti facilitando l’identificazione del gene in esame. 8. La reazione a catena della Polimcrasi (Polimerase Chain Reaction), scoperta da Kary Mullis nel 1985 permette la generazione di un enorme numero di copie di una specifica sequenza di dna.

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I

Forme di ragionamento e valutazione delle ipotesi nelle scienze mediche di Roberto Festa, Vincenzo Crupi e Pierdaniele Giaretta

Nelle scienze mediche, come in molte altre aree della ricerca scientifi­ ca, la valutazione di ipotesi sulla base di dati empirici riveste un ruo­ lo centrale. Tale valutazione coinvolge diverse forme di ragionamento 0, in altri termini, diversi tipi di inferenze. Tradizionalmente si distinguono due forme fondamentali di ragio­ namento, vale a dire la deduzione e l’induzione. Cominceremo quindi illustrando i tratti generali delle inferenze deduttive e induttive. Ci concentreremo poi su alcuni specifici e importanti tipi di inferenza e mostreremo, con l’aiuto di esempi tratti dalla ricerca medica, quale sia il loro ruolo nella valutazione di ipotesi. In particolare, considere­ remo il modo in cui le inferenze abduttive, il metodo ipotetico-deduttivo e i metodi di Mill vengono applicati nella valutazione delle ipotesi in medicina.

Forme fondamentali di inferenza DEDUZIONE E INDUZIONE

In ogni tipo di inferenza si mettono in relazione un insieme di enun­ ciati, detti premesse, e un singolo enunciato, detto conclusione. Un caso ben noto di inferenza deduttiva è rappresentato dal sillogismo categorico. Eccone un esempio (1) Premesse: Coloro che presentano livelli elevati di ormoni tiroidei circolanti sono tachicardici. I malati del morbo di Basedow presentano livelli elevati di ormo­ ni tiroidei circolanti. 119

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

Conclusione-. I malati del morbo di Basedow sono tachicardici. L’inferenza (i) si può ricondurre al seguente schema generale: (2)

SILLOGISMO CATEGORICO 1. 2.

Tutti i Q sono R. Tutti i P sono Q. Tutti i P sono R.

In questa notazione le premesse sono indicate dai numeri 1 e 2 sulla sinistra, mentre la linea orizzontale che separa l’ultima premessa dalla conclusione indica il carattere deduttivo di un’inferenza. La cogenza del sillogismo categorico appare alquanto intuitiva. Anche per questo, probabilmente, si tratta di uno dei primi tipi di inferenza valida identificati nella studio della logica, a partire dagli scritti di Aristotele che hanno inaugurato la storia della disciplina. Facendo riferimento agli sviluppi contemporanei della logica, è possibile indicare che cosa stia a fondamento della validità del sil­ logismo categorico, così come di qualsiasi altro tipo di inferenza deduttiva. Innanzitutto, la validità deduttiva riguarda primariamente una forma inferenziale, ad esempio lo schema (2), e può essere intuiti­ vamente presentata nel modo seguente: non è possibile “riempire di contenuti” la forma inferenziale in modo tale che le premesse risul­ tino vere e la conclusione falsa. Nel caso dello schema (2) i “conte­ nuti” possono essere inseriti mediante la sostituzione di “P”, “Q” e “R” con opportune espressioni linguistiche, quali, ad esempio, “neuroni”, “cellule”, “tessuti”. E facile vedere che nessuna di que­ ste sostituzioni può dare come esito delle premesse vere e una con­ clusione falsa e perciò lo schema è deduttivamente valido. In secon­ do luogo, si applica la nozione di validità deduttiva anche alle spe­ cifiche inferenze formulate nel linguaggio naturale definendo un’in­ ferenza deduttivamente valida quando la forma dell’inferenza è de­ duttivamente valida nel senso sopra indicato. Ad esempio, l’inferen­ za (1) è deduttivamente valida poiché la forma (2) lo è. In questo modo la validità deduttiva di una specifica inferenza viene ricon­ dotta alla validità deduttiva della sua forma. In riferimento a questa seconda accezione della nozione di validità deduttiva è bene tenere presente alcune cautele e precisazioni, che possono essere introdot­ te considerando l’esempio seguente: 120

FORME DI RAGIONAMENTO E VALUTAZIONE DELLE IPOTESI

(1*) Premessa: Fido è un cane. Conclusione: Fido è un animale. La forma dell’inferenza (i*) è:

(2*) Premessa: L’individuo x è P. Conclusione: L’individuo x è Q. che non è deduttivamente valida, perché è possibile esemplificare lo schema (2*) in modo tale da ottenere una premessa vera e una condusione falsa. L’inferenza (1*) può essere considerata deduttivamente valida solo se si considera anche l’enunciato “Tutti i cani sono anima­ li” come una sua premessa implicita. Esempi di questo genere sugge­ riscono di prendere in considerazione la forma dell’inferenza solo dopo avere esplicitato con opportune premesse tutto ciò che è impli­ citamente assunto in una specifica inferenza. (Come si può facilmente immaginare, l’individuazione di ciò che è implicitamente assunto può talora rivelarsi un compito alquanto impegnativo.) Per indicare che la conclusione di un’inferenza è conseguenza de­ duttivamente valida delle premesse si impiegano talora anche le se­ guenti espressioni, che nel seguito considereremo interscambiabili: la conclusione segue logicamente dalle premesse; la conclusione è dedu­ cibile dalle premesse; la conclusione segue necessariamente dalle pre­ messe; le premesse implicano (logicamente) la conclusione. L’equiva­ lenza di questi modi alternativi di esprimersi richiederebbe a rigore una specifica discussione, ma tutti hanno in comune l’idea che le in­ ferenze deduttive sono in grado di trasmettere la verità: se si ammette la verità delle premesse, allora si deve anche ammettere la verità della conclusione. Come ora vedremo, lo stesso non accade nelle inferenze induttive. Un ben noto esempio è rappresentato dalle cosiddette gene­ ralizzazioni induttive. Si consideri in proposito la seguente inferenza:

(3) Premessa: Mille malati del morbo di Basedow finora osservati presentano li­ velli elevati di ormoni tiroidei circolanti. Conclusione: 1 malati del morbo di Basedow presentano livelli elevati di ormo­ ni tiroidei circolanti. I2I

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

L’inferenza (3) si può ricondurre al seguente schema generale: (4) GENERALIZZAZIONE INDUTTIVA 1.

Tutti gli n elementi Q finora osservati sono R.

Tutti i Q sono R. Come si può vedere, la linea orizzontale, che nello schema delle infe­ renze deduttive separa le premesse dalla conclusione, viene qui so­ stituita da una doppia linea orizzontale, abitualmente impiegata per indicare il carattere induttivo dell’inferenza. E facile rendersi conto che la generalizzazione induttiva, diversamente dalle inferenze dedut­ tive, non garantisce la verità della conclusione una volta ammessa la verità delle premesse. E infatti perfettamente possibile immaginare che i mille malati del morbo di Basedow finora osservati presentino livelli elevati di ormoni tiroidei circolanti e che nondimeno ciò non valga per tutti i malati del morbo di Basedow - in particolare, che non valga per almeno qualcuno di quelli non ancora osservati. Tutta­ via, è naturale ritenere che la premessa, se vera, fornisca alla con­ clusione un certo sostegno — in un senso su cui ora dovremo soffer­ marci 2. PLAUSIBILITÀ E CONFERMA INDUTTIVA

Nelle scienze empiriche, la valutazione di un’ipotesi H avviene sulla base di dati osservativi o sperimentali - o elementi di evidenza - de­ scrivibili mediante un enunciato E. Normalmente, H non è deducibi­ le da £. Per questo motivo la valutazione di H riflette solitamente l’impiego di diverse forme di inferenza induttiva. Le relazioni indutti­ ve che intercorrono fra E e H possono essere di almeno due tipi di­ stinti, corrispondenti alle due domande seguenti: (i) H è plausibile alla luce di E? (ii) La plausibilità iniziale di H è accresciuta da E? Come si vede, abbiamo formulato le domande (i) e (ii) facendo uso della nozione di plausibilità. Nella maggior parte delle inferenze induttive coinvolte nella vita quotidiana e nella ricerca scientifica, in­ fatti, si impiega un concetto informale di plausibilità, al quale nel se­ guito ci atterremo. Di norma, diciamo semplicemente che “// è plau­ sibile” (o, in modo spesso intercambiabile, che è “probabile”) per in­ dicare che abbiamo una certa fiducia nella verità di H. 122

3- FORME DI RAGIONAMENTO E VALUTAZIONE DELLE IPOTESI

Le domande (i) e (ii) suggeriscono due tipi di inferenze induttive. Operando il primo tipo di inferenza, asseriamo che sulla base della premessa E dobbiamo ritenere plausibile la conclusione H. Operando il secondo tipo di inferenza, d’altra parte, asseriamo che la premessa E accresce la plausibilità iniziale di H, cioè accresce la fiducia che si riponeva nella verità di H prima di venire a conoscenza delle infor­ mazioni contenute in E. Nel seguito ci concentreremo sulle inferenze induttive del secondo tipo, poiché esse sembrano svolgere un ruolo di primo piano - raramente contestato - nella pratica scientifica. Se­ guendo una terminologia consolidata, le indicheremo come inferenze di conferma [induttiva) 3. Nella nostra notazione, la più semplice illu­ strazione dell’inferenza di conferma induttiva può essere così rappre­ sentata: (5) CONFERMA INDUTTIVA

I.

E

H Di solito, la plausibilità iniziale dell’ipotesi H è fondata su una cono­ scenza di sfondo, spesso condivisa da una certa comunità di ricerca, e non sempre esplicitamente verbalizzata. In molti casi, comunque, è possibile e utile formulare esplicitamente, mediante opportuni enun­ ciati, almeno una parte rilevante di tale conoscenza di sfondo, che nel seguito indicheremo congiuntamente con 5. E bene precisare fin d’ora che S comprende solitamente un insieme alquanto composito di enunciati. Alcuni hanno carattere teorico e sono presupposti dai ri­ cercatori in quanto considerati altamente plausibili. Altri hanno ca­ rattere empirico e specificano le particolari condizioni in cui determi­ nate osservazioni o misurazioni sperimentali si verificano. Infine, pos­ sono far parte di 5 enunciati di carattere logico, che stabiliscono rela­ zioni fra altri enunciati (teorici ed empirici) rilevanti. Facendo riferi­ mento alla conoscenza di sfondo 5 è possibile rappresentare lo sche­ ma di un’inferenza di conferma “relativizzata”, che riprenderemo ri­ petutamente nel seguito: (6) CONFERMA INDUTTIVA RELATIVIZZATA

0. 5 I. E

II L23

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

Effettuando l'inferenza (6) affermiamo che la premessa 1, vale a dire l’enunciato E, conferma H relativamente a S; cioè che le informazioni contenute in E, se aggiunte alla conoscenza di sfondo S, accrescono la plausibilità iniziale di H. Ciò a sua volta significa che la plausibilità di H alla luce di (5 & E) è maggiore della plausibilità iniziale di H, valutata alla luce di S soltanto. (Qui e nel seguito indicheremo con la congiunzione logica di due enunciati.)

Inferenze abduttive nelle scienze mediche l’abduzione

Già a partire dall’opera del filosofo statunitense Charles Sanders Peirce (1839-1914), che introdusse il concetto di “abduzione” e svolse le prime ricerche sistematiche sulla natura del ragionamento abduttivo e sul suo ruolo nell’indagine scientifica, si parla di abduzione in due accezioni: (i) con riferimento a un particolare genere di inferenze do­ tate di caratteristiche peculiari che le distinguerebbero sia dalle infe­ renze deduttive sia da quelle induttive - o almeno dalle forme tradi­ zionalmente più discusse di inferenze induttive; (ii) con riferimento a procedure euristiche impiegate nella generazione, o scoperta, delle ipo­ tesi scientifiche. Poiché in questa sede siamo interessati all’analisi del­ le forme di ragionamento coinvolte nella valutazione di ipotesi, ci oc­ cuperemo solo della prima accezione di abduzione, vale a dire delle inferenze abduttive 4. Tra gli studiosi che negli ultimi decenni si sono occupati delle in­ ferenze abduttive vi è ampio consenso su due punti. Il primo è che le premesse di un’inferenza abduttiva comprendono la descrizione di qualche interessante fatto osservato, mentre la conclusione dell’infe­ renza è data da un’ipotesi esplicativa che fornisce una buona spiega­ zione di tale fatto. Il secondo punto è che un’inferenza abduttiva de­ termina un aumento della plausibilità iniziale della conclusione. Nella discussione che segue ci proponiamo di mostrare che l’inferenza ab­ duttiva è appunto una “inferenza a una buona spiegazione”. Mostre­ remo inoltre che essa può venire intesa come una particolare forma di inferenza induttiva, e più precisamente di conferma relativizzata. Un importante aspetto della ricerca scientifica riguarda le relazio­ ni esplicative tra ipotesi ed eventi osservati. Per i nostri scopi, faremo uso di una nozione di spiegazione {deduttiva} che soddisfa i requisiti indicati qui di seguito: J24

3. FORME DI RAGIONAMENTO E VALUTAZIONE DELLE IPOTESI

(7) Data la conoscenza di sfondo 5, l’ipotesi II fornisce una spiega­ zione {deduttiva) di un evento (descritto da un enunciato) E nel caso in cui: (i) siamo certi della verità di E; (ii) S non implica logicamente E; (iii) (5 & H) implica logicamente E.

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Il riferimento alla spiegazione svolge un ruolo di grande rilievo nella ricerca scientifica e, in particolare, nelle inferenze abduttive. Non di rado, infatti, accade che gli scienziati si imbattano in un evento E in qualche misura sorprendente, cioè non pienamente spiegabile (dedu­ cibile) in base alla conoscenza di sfondo 5. Di fronte a un evento sorprendente, una mossa piuttosto naturale è quella di cercarne una spiegazione. Nei casi coronati da successo, si può così giungere alla scoperta che una determinata ipotesi H offre una possibile spiegazio­ ne (deduttiva) di E 5. Molti studiosi sostengono che la scoperta delle potenzialità esplicative di un’ipotesi H rispetto a qualche sorprenden­ te evento E osservato in precedenza conduce a una conferma di H, accrescendone la plausibilità iniziale. Chi condivide questo punto di vista sarà pronto ad adottare il seguente schema di inferenza abduttiva: (8) INFERENZA ABDUTTIVA

o. S 1. H fornisce una spiegazione deduttiva di E

H Si può notare che l’inferenza abduttiva (8) rappresenta una particola­ re forma di conferma relativizzata (si veda lo schema (6)). Effettuan­ do tale inferenza affermiamo che l’ipotesi H è confermata (relativa­ mente a S) dal fatto di fornire una spiegazione dell'evento noto E. Si osservi che in questo caso l’informazione confermante espressa nella premessa 1 non riflette alcuna nuova scoperta di carattere empirico, comprendendo piuttosto la scoperta di relazioni logiche intercorrenti fra // ed E (alla luce di 5). Nella storia delle scienze empiriche, è molto comune che si argo­ menti in favore di un’ipotesi in base alla sua capacità di rendere con­ to di fenomeni già noti ma altrimenti privi di spiegazione, conforme­ mente allo schema di inferenza abduttiva appena descritto. Per esem125

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FILOSOFIA DELLA .MEDICINA

pio, due fra i maggiori successi inizialmente riconosciuti della mecca­ nica newtoniana furono di carattere esplicativo, consistendo nella ca­ pacità di fornire una spiegazione deduttiva del moto dei pianeti (ap­ prossimativamente conforme alle leggi precedentemente formulate da Keplero) e del moto dei gravi (approssimativamente conforme alla legge galileiana) 6.

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INFERENZE ABDUTT1VE NELLE SCIENZE MEDICHE: DUE ESEMPI

Esempi di inferenze abduttive nel senso appena descritto ricorrono anche nelle scienze mediche. Qui ne illustreremo nei dettagli due: il primo è tratto dagli albori della medicina scientifica e riguarda l’ipo­ tesi della contaminazione nell’eziologia della febbre puerperale, for­ mulata da Semmelweis verso la metà dell’Ottocento; il secondo ap­ partiene invece alla ricerca medica più recente e si riferisce a un’in­ fluente ipotesi sulla patogenesi dell’AIDS. esempio 1. L'ipotesi della contaminazione nell’eziologia della febbre puerperale (prima parte). Il medico ungherese Ignaz Semmelweis (1818-1865) condusse le sue ricerche sull’eziologia della febbre puer­ perale tra il 1844 e 1848, mentre lavorava al primo reparto di ma­ ternità dell’Ospedale generale di Vienna. Il punto di partenza delle sue indagini era costituito dall’osservazione (E) che una percentuale preoccupante delle donne che partorivano nel suo reparto contraeva una malattia grave e spesso fatale, nota appunto come febbre puerpe­ rale, e che tale percentuale era ampiamente maggiore di quella ri­ scontrata nei secondo reparto di maternità dello stesso ospedale. Semmelweis considerò diverse ipotesi sull’origine della febbre puer­ perale, fra le quali almeno tre sembravano in grado di fornire una possibile spiegazione dello strano fenomeno E. (i) L’ipotesi iatrogena (Ht) suggeriva di spiegare E come una conseguenza di visite malde­ stre condotte dagli studenti di medicina, alla luce della circostanza che questi ultimi esercitavano il loro tirocinio esclusivamente nel pri­ mo reparto, (ii) Secondo l’ipotesi psicosomatica (H2), invece, le pa­ zienti del primo reparto erano maggiormente vulnerabili alla malattia per il fatto che nel primo repano, a differenza del secondo, il prete che somministrava l’estrema unzione, preceduto da un inserviente che suonava una campanella, doveva attraversare le corsie per raggiungere la morente, terrificando così le pazienti al punto da debilitarle, (iii) Secondo l’ipotesi della contaminazione (/-/,)» infine, a provocare la

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FORME DI RAGIONAMENTO E VALUTAZIONE DELLE IPOTESI

morte delle partorienti era in molti casi la contaminazione da particelle di materia cadaverica trasportate da professori, assistenti e stu­ denti che - nella prima clinica soltanto - passavano direttamente dal­ la dissezione di cadaveri all’esame fisico delle pazienti. Si osservi che H5 postulava una circostanza all’epoca tutt’altro che pacifica, vale a dire che la pratica comunemente adottata - e seguita anche nella pri­ ma clinica - di lavarsi le mani con acqua e sapone fosse insufficiente a rimuovere completamente le particelle cadaveriche. Poiché ciascuna delle ipotesi H,-H} forniva una spiegazione del fe­ nomeno E, tutte e tre le ipotesi risultavano confermate - sulla base di inferenze abduttive - da questo specifico, e comune, successo esplica­ tivo. Tuttavia, nel 1847, Semmelweis venne a conoscenza del tragico evento (E*) della morte di un suo coUega, il professor Kolletschka. Kolletschka si era ferito accidentalmente nel corso di un’autopsia. Poco dopo era deceduto manifestando sintomi molto simili a quelli della febbre puerperale. L’ipotesi Hi offriva una spiegazione anche di E*, mentre e Ha non erano ovviamente in grado di farlo. In consi­ derazione di questo e altri successi esplicativi di Hp non condivisi da H, e H2, Semmelweis concentrò sempre più la sua attenzione sull'ipo­ tesi della contaminazione. Come vedremo più avanti, inoltre, le infe­ renze abduttive appena descritte furono accompagnate e seguite da diversi controlli empirici appositamente escogitati, che condussero in­ fine Semmelweis alla risoluzione del suo problema proprio in favore dell’ipotesi (cfr. Esempio 3) 7. esempio 2. L'“ipotesi del lavandino” nella patogenesi dell’AIDS (prima parte). Negli anni novanta del secolo scorso si considerava ormai sta­ bilita l’esistenza di un legame causale fra l’infezione da hiv e le mani­ festazioni cliniche dell’AIDS. Si supponeva che I’hiv causasse I'aids deprimendo progressivamente un'importante componente del sistema immunitario, cioè i cosiddetti linfociti CD4 + . Si riteneva infatti, sulla base di precedenti osservazioni di laboratorio, che queste cellule rap­ presentassero un bersaglio biologico privilegiato del virus, che sareb­ be stato in grado di distruggerle, per esempio attraverso il comune meccanismo della citolisi. Tuttavia, l’elaborazione di un resoconto pienamente soddisfacente della storia naturale della malattia sembra­ va imbattersi in una notevole anomalia (E), talora indicata come il paradosso centrale della patogenesi virale”: la proporzione di linfociti CD4 + infetti in pazienti malati appariva decisamente troppo bassa (anche secondo le stime più generose, non più di 1 su 100) per de­ terminare l’irrimediabile compromissione del sistema immunitario

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(Sheppard, Ascher, Krowka, 1993). Secondo un’efficace metafora im­ piegata da alcuni studiosi, sembravano esserci “più cadaveri che pal­ lottole” (Ascher et al., 1995). Nel 1995, David Ho e altri studiosi presentarono la cosiddetta “ipotesi del lavandino”, che per qualche tempo ha rappresentato il modello patogenetico dell’AIDS più popolare e discusso (Ho et al., 1995; Wei et al., 1995). In breve, Ho e i suoi collaboratori elaboraro­ no un semplice modello matematico secondo il quale il declino della quantità misurata di linfociti CD4+ (l’abbassamento del livello del­ l’acqua nel lavandino) emergeva come l’effetto relativamente lento di un elevatissimo turn-over (circa due miliardi di cellule al giorno), pro­ dotto dalla continua distruzione da parte dell’Hiv (lo scarico del la­ vandino) e da un continuo sforzo di compensazione del sistema im­ munitario (il rubinetto), che da ultimo, nel volgere di anni, avrebbe condotto al collasso del sistema (il lavandino si svuota). A sostegno dell’ipotesi di Ho (H), alcuni ricercatori argomentarono che essa for­ niva una possibile soluzione del “paradosso delle pallottole”, offren­ do una spiegazione del fatto (E) che la gran parte dei linfociti CD4 + non apparissero infetti. In estrema sintesi, tale spiegazione può essere delineata come segue: i numerosi linfociti colpiti dal virus, una volta infetti, vengono rapidamente distrutti e continuamente sostituiti da nuove cellule; di conseguenza, in ogni istante la maggior parte dei linfociti presenti è di recente creazione, e non è ancora stata infettata (Maddox, 1995). Anche in questo caso, come in quello di Semmelweis, l’argomen­ tazione abduttiva in favore dell’ipotesi di Ho contribuì ad attirare su di essa l’attenzione dei ricercatori, motivando i controlli sperimentali cui fu in seguito sottoposta (cfr. Esempio 4).

Il metodo ipotetico-deduttivo nelle scienze mediche I‘ IL METODO IPOTETICO-DEDUTTIVO

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Alcune procedure deduttive e induttive ampiamente utilizzate nella valutazione delle ipotesi scientifiche sono quelle coinvolte nel cosid­ detto metodo ipotetico-deduttivo. fiale metodo si basa sull’idea che possiamo mettere alla prova un’ipotesi deducendone alcune previsioni di carattere osservativo o sperimentale, e controllando poi se si realiz­ zano oppure no. Per i nostri scopi, faremo uso di una nozione di predizione (deduttiva) che soddisfa i requisiti indicati qui di seguito: 128

■>,. FORME DI RAGIONAMENTO E VALUTAZIONE DELLE IPOTESI

(9) Data la conoscenza di sfondo 5, l’ipotesi H fornisce una predizio­ ne (deduttiva) di un evento (descritto da un enunciato) E nel caso in cui: (i) non siamo certi della verità di E; (ii) S non implica logicamente E; (iii) (S & H) implica logicamente E.

Evidentemente, i controlli osservativi o sperimentali volti ad accertare se un evento predetto E si realizza possono avere due esiti: (i) si sta­ bilisce che E non si realizza o, equivalentemente, che si verifica l’e­ vento non-E; (ii) si stabilisce che l’evento E effettivamente si realizza. Come vedremo tra poco in modo più dettagliato, nel primo caso pos­ siamo concludere (deduttivamente) che l’ipotesi H è falsificata da E (alla luce di 5), mentre nel secondo caso possiamo concludere che H è confermata (induttivamente) da E (relativamente a 5). Molti episodi della storia della scienza possono essere interpretati come applicazioni più o meno consapevoli ed esplicite del metodo ipotetico-deduttivo. Nel 1695, per esempio, l’astronomo Edmund Halley applicò la meccanica newtoniana a una cometa che egli aveva osservato nel 1682 e ne dedusse la previsione che la cometa avrebbe impiegato circa 75 anni per compiere un’orbita completa e tornare visibile dalla Terra. Halley morì nel 1743, quindici anni prima del ri­ torno della cometa, che ricomparve puntualmente il giorno di Natale del 1758. In accordo con il metodo ipotetico-deduttivo, il successo della previsione di Halley apparve ai ricercatori come una straordina­ ria conferma della meccanica newtoniana. Questo tipo di procedura di ricerca e di valutazione delle ipotesi è stato ampiamente usato an­ che nelle scienze mediche fin dai loro esordi, almeno a partire dalle ricerche di William Harvey (De molti cordis, 1628) sul movimento del cuore e la circolazione del sangue negli animali 8. La stessa insistenza di Claude Bernard (Introduzione allo studio della medicina sperimen­ tale, 1865) sulla necessità del “ragionamento sperimentale’’ come base della medicina moderna riflette l’adozione dei principi di fondo di ciò che oggi è appunto comunemente indicato come metodo ipoteti­ co-deduttivo y. Come anticipato, il metodo ipotetico-deduttivo si fonda su due tipi di inferenze, corrispondenti ai due possibili esiti del controllo empirico di un evento predetto E. Cominciamo dal caso in cui l’os­ servazione attcsti che E non si verifica, cioè in cui si osservi non-E. 11 corrispondente tipo di inferenza, che chiameremo falsificazione ipoteticodeduttiva, può essere rappresentata come segue: 129

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

(10) FALSIFICAZIONE IPOTETICO-DEDUTTIVA

1. 5 2. H fornisce una predizione deduttiva di E 3. non-E

non-H È possibile mostrare che lo schema di inferenza (io) soddisfa i criteri della validità deduttiva, vale a dire che dalla verità delle premesse consegue con necessità la verità della conclusione (nella quale si asse­ risce che H è falsa). Esso rappresenta quindi ima particolare forma di inferenza deduttiva xo. Il secondo tipo di inferenza che ci interessa, che chiameremo con­ ferma ipotetico-deduttiva, rappresenta invece una forma di conferma induttiva relativizzata, illustrata come segue: (il) CONFERMA IPOTETICO-DEDUTTIVA

o. 1.

5 H fornisce una predizione deduttiva di E E H

Vale la pena di integrare la presentazione dello schema di inferenza (11) con un principio di carattere quantitativo, formulato in base alla nozione di evidenza sorprendente. Tale nozione deve essere definita in relazione alla conoscenza di sfondo 5: diciamo che l’evento E è tanto più sorprendente quanto meno tale evento appare plausibile in base a S. Nelle analisi filosofiche e nella pratica della scienza è ampiamente diffusa la convinzione che un’ipotesi H che fornisce una predizione dell’evento E è tanto maggiormente confermata dall’osservazione di E quanto più tale osservazione è sorprendente nel senso appena definito. IL METODO IPOTETICO-DEDUTTIVO NELLE SCIENZE MEDICHE: DUE ESEMPI

Riprendendo la discussione dei due casi storici introdotti in prece­ denza, illustriamo qui di seguito due esempi di applicazione del me­ todo ipotctico-deduttivo nelle scienze mediche. Il primo dei due esempi, che sviluppa la precedente esposizione delle ricerche di Semmelweis, illustra sia la falsificazione sia la conferma ipotetico-dedutti130

3. FORME DI RAGIONAMENTO E VALUTAZIONE DELLE IPOTESI

va. Il secondo, ancora tratto dalla recente ricerca sulla patogenesi del­ l’AIDS, illustra invece soltanto la falsificazione di un’ipotesi. esempio 3. L’ipotesi della contaminazione nell’eziologia della febbre puerperale (seconda parte). Avendo concentrato la sua attenzione sulle ipotesi Ht-Hr Semmelweis le sottopose a svariati controlli sperimen­ tali che condussero alla falsificazione di H, e H2 e alla conferma del­ l’ipotesi della contaminazione Hr Consideriamo, per esempio, la fal­ sificazione dell’ipotesi psicosomatica H2. Semmelweis si chiese se vi fossero effetti osservabili deducibili dall’ipotesi che si potessero met­ tere alla prova dell’osservazione. Supponendo che l’arrivo del sacer­ dote non venisse rilevato dalle pazienti, l’ipotesi H2 avrebbe fornito una ben precisa predizione (E): una pronta e significativa diminuzio­ ne della mortalità da febbre puerperale nella prima clinica, in cui Semmelweis operava, a livelli simili a quelli della seconda. Egli decise quindi di persuadere il sacerdote a raggiungere le pazienti morenti silenziosamente e senza farsi notare. Poiché ciononostante non si regi­ strò alcuna diminuzione della mortalità (non-E), l’ipotesi psicosomati­ ca H2 risultò falsificata. Successivamente, Semmelweis sottopose a controllo empirico anche Hy Anche in questo caso, si chiese quali predizioni osservabili conseguissero dall’ipotesi. Pensò così che, se la contaminazione da particelle cadaveriche fosse stata all’origine della febbre puerperale (H.), allora, in presenza di opportune misure anti­ settiche in grado di eliminare chimicamente il materiale infettivo dalle mani di medici e studenti, l’incidenza della malattia nel primo reparto sarebbe dovuta scendere ai livelli del secondo (E). Emise perciò una direttiva che, a partire dal maggio del 1847, faceva obbligo di lavarsi le mani con una soluzione di ipoclorito di calcio prima di procedere alla visita delle pazienti. La mortalità per febbre puerperale nel suo reparto cominciò ben presto a diminuire, e per il 1848 calò fino all’1,27%, a fronte dell’1,33% nel secondo reparto. In tal modo, H, risultava confermata dagli esiti dell’esperimento. Tale conferma appa­ riva inoltre molto forte, per il fatto che l’effetto osservato a seguito del lavaggio delle mani sarebbe apparso altamente sorprendente alla luce della sola conoscenza di sfondo.

esempio 4. L’“ipotesi del lavandino" nella patogenesi dell’AIDS (seconda parte). La medicina sperimentale contemporanea ha elaborato diversi metodi per indagare la “dinamica” di diverse famiglie di cellule del corpo umano in vivo. Una delle procedure più ingegnose e affidabili per questo tipo di osservazioni può essere descritta sinteticamente come segue. In primo luogo, si somministra a un individuo (per via

131

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

orale, o per iniezione) una sostanza (come glucosio o acqua) che è stata arricchita con deuterio, un isotopo dell’idrogeno — la cui assun­ zione non presenta rischi - che viene incorporato nella sintesi del dna durante la riproduzione cellulare. In seguito, a scadenze di tem­ po appositamente programmate, vengono prelevati opportuni cam­ pioni di tessuto o di sangue. Le cellule della popolazione di interesse vengono quindi purihcate in laboratorio e sottoposte alla misurazione dell’arricchimento isotopico del dna. In tal modo si rileva la propor­ zione di dna isotopico in funzione del tempo, dalla quale attraverso metodi di calcolo standard si possono stimare dati come il tasso di riproduzione o la sopravvivenza media nella popolazione di cellule interessate. Le tecniche sperimentali appena descritte si sono rivelate decisive per sottoporre a controllo l’ipotesi di Ho e colleghi (H) sulla patogene­ si dell’AIDS. Come si ricorderà (cfr. Esempio 2), tale ipotesi postulava e rappresentava matematicamente — un frenetico turn-over dei linfociti CD4+ durante l’infezione da htv. Dall’ipotesi H si poteva perciò deri­ vare deduttivamente una ben precisa predizione (E): il calcolo speri­ mentale del tasso di riproduzione dei linfociti CD4+ in pazienti hivpositivi (ma non sottoposti a trattamento antiretrovirale) avrebbe dovu­ to rivelare, in media, livelli significativamente più alti di quelli fisiologi­ ci ottenuti in pazienti comparabili ma Hiv-negativi. In un importante studio sulla dinamica dei linfociti CD4 + , Hellerstein et al. (1999) non osservarono però alcuna differenza fra i due gruppi, mostrando che la previsione E risultava smentita e falsificando così l’“ipotesi del lavandi­ no”. Riferendosi al lavoro di Ho e colleghi, Hellerstein e collaboratori esplicitarono le conseguenze negative dello studio, rilevando che in base ai loro risultati «alcuni modelli possono essere esclusi» (ivi, p. 86). Nel commentare gli stessi risultati, un altro affermato studioso del set­ tore concluse che essi «pongono fine a quattro anni di avvincente (seb­ bene spesso aspro) dibattito riguardo all’ipotesi della produzione/distruzione dei linfociti CD4 + », vale a dire appunto riguardo all’“ipotesi del lavandino” (cfr. Pantaleo, 1999, p. 28). "

Le ipotesi causali e i metodi di Mill nelle scienze mediche LE IPOTESI CAUSALI

Le ipotesi formulate nella ricerca scientifica spesso riguardano rela­ zioni causali. Un’ipotesi di questo genere, vale a dire un'ipotesi causa­ le, asserisce che eventi di un determinato tipo causano eventi di un 132

3. FORME DI RAGIONAMENTO E VALUTAZIONE DELLE IPOTESI

altro tipo o, in altri termini, che una determinata condizione o circo­ stanza è causa di un certo fenomeno. Come ogni altro genere di ipo­ tesi, le ipotesi causali possono figurare come conclusioni di inferenze induttive. L’induzione di ipotesi causali può essere utilmente guidata da metodi di induzione eliminativa, così chiamati perché mirano all’e­ liminazione di tutte le ipotesi causali considerate all’inizio di un pro­ cesso di indagine ad eccezione di una, che viene così inferita indutti­ vamente in base alle informazioni disponibili. Questi metodi - già de­ finiti da Francesco Bacone (1521-1626) e poi ripresi da John F. W. Herschel (1792-1871) e soprattutto da John Stuart Mill (1806-1873) sono generalmente noti come “metodi di Mill”. Come vedremo a bre­ ve, i metodi di Mill forniscono una buona rappresentazione di forme di ragionamento induttivo spontaneamente adottate da coloro che -nella vita quotidiana e nella scienza - si propongono di valutare ipotesi che specificano i rapporti causali fra determinati aspetti, pro­ prietà o fattori qualitativi. A questo proposito occorre segnalare che almeno fino alla metà del xx secolo la maggior parte delle ipotesi causali nella ricerca medica aveva carattere qualitativo, e che ancora oggi questo tipo di ipotesi causali svolge un ruolo centrale nelle scienze mediche. Di conseguenza, una forma assai diffusa di ragiona­ mento induttivo tra i ricercatori medici era ed è ancora oggi costituita dall’impiego tacito e spontaneo di schemi di inferenza essenzialmente riconducibili ai metodi di Mill ,2. Come si è detto, ipotesi causali della forma H = “la condizione C è causa del fenomeno F” sono comuni nelle scienze empiriche, ma il loro significato non è affatto privo di ambiguità. Vi sono infatti alme­ no due modi fondamentalmente diversi in cui H può essere interpre­ tata. H è spesso intesa come l’affermazione che C è condizione ne­ cessaria per il verificarsi di F, cioè come l’asserzione che, in assenza di C, F non può accadere. Per esempio, affermando che il bacillo di Koch - cioè il Mycobacterium tubercolosis - causa la tubercolosi si intende che la tubercolosi non può insorgere senza il bacillo. D’altra parte, FI può anche essere intesa come l’affermazione che C è condi­ zione sufficiente del verificarsi di F, cioè come l’asserzione che, in presenza di C, F non può non accadere. Per esempio, si può dire che la decapitazione è causa sufficiente della morte. dome notato da Fletcher e Fletcher (2005, p. 3), la conoscenza delle cause delle malattie - che nei manuali di medicina sono solita­ mente discusse sotto i titoli di “eziologia”, “patogenesi” e simili — co­ stituisce un essenziale contributo delle scienze mediche alla pratica clinica, l’ale conoscenza guida infatti i medici nel loro approccio a fondamentali compiti clinici quali la prevenzione, la diagnosi e il trat-

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

tamente. Le notevoli implicazioni cliniche della conoscenza delle cau­ se delle malattie stanno alla base del forte interesse per le ipotesi cau­ sali che è da sempre un tratto distintivo delle scienze mediche. Si pensi, per esempio, alla scoperta che C è condizione necessaria della malattia F, cioè alla scoperta che F non può presentarsi in assenza di C. Tale scoperta dà fondamento, tra l’altro, alla ricerca terapeutica: infatti, l'eliminazione della malattia F sarebbe garantita dall’identifica­ zione di interventi opportuni in grado di rimuovere la sua condizione necessaria C. Molti successi nel contrasto delle malattie infettive si sono basati precisamente su ricerche di questo genere: si è dapprima scoperto che un certo tipo di germe era condizione necessaria di una malattia, per poi individuare sostanze o strumenti in grado di debella­ re quel germe così da evitare anche l’insorgenza della malattia *3. La distinzione fra condizioni necessarie e condizioni sufficienti ri­ muove solo in parte l’ambiguità associata all’impiego di ipotesi causa­ li. Essa ci permette comunque di stabilire una stretta relazione fra i due tipi di ipotesi causali e le corrispondenti ipotesi di regolarità. A dispetto delle diverse interpretazioni della causalità discusse nella let­ teratura filosofica (sulle quali ci è impossibile soffermarci in questa sede M), vi è infatti ampio consenso sulle due considerazioni che se­ guono: (i) Dall’ipotesi causale aC è condizione necessaria di F” consegue l’i­ potesi di regolarità “se non si presenta C, allora non si presenta nep­ pure F”. (ii) Dall’ipotesi causale “C è condizione sufficiente di F” consegue l’i­ potesi di regolarità “se si presenta C, allora si presenta anche F”. Occorre notare che in virtù di (i) e (ii) è possibile eliminare un’i­ potesi causale se, sulla base di osservazioni, l’ipotesi di regolarità che ne consegue risulta falsificata. Come emergerà nel seguito, questa semplice considerazione apre la strada all’applicazione dei metodi di Mill nella valutazione di ipotesi causali. Per questo motivo, e per semplicità di esposizione, parleremo d’ora in poi liberamente di “ipo­ tesi causali” anche in riferimento alle corrispondenti ipotesi di rego­ larità.

IL METODO DELLA CONCORDANZA

Nel suo Sistema di logica deduttiva e induttiva (1843), Mill delinca cinque metodi induttivi. Qui ci occuperemo solo dei primi due (per molti versi i più fondamentali), noti come metodo della concordanza e della differenza, che si applicano rispettivamente alle condizioni no­

’34

3. FORME DI RAGIONAMENTO E VALUTAZIONE DELLE IPOTESI

TABELLA I

Fenomeno

Possibili condizioni necessarie

Caso

C.

C

c~4

e,

c,

F

I 2

3

cessane e alle condizioni sufficienti di un determinato fenomeno. Come vedremo, ciascuno dei due metodi consente di selezionare come conclusione di un’appropriata inferenza induttiva - una specifi­ ca ipotesi causale a dispetto di altre inizialmente considerate. Supponiamo di avere formulato un’ipotesi iniziale secondo la qua­ le la condizione necessaria del fenomeno F è una fra le condizioni C,, ..., C5. Possiamo denotare tale ipotesi iniziale come la disgiunzione D = “Hn oppure ..., oppure H5”, dove Hr è l’ipotesi che Ct è condizio­ ne necessaria di F. Il metodo della concordanza viene impiegato per eliminare dalla lista Ct, ..., C5 delle possibilità inizialmente ammesse da D almeno alcune tra le condizioni non necessarie di F. Eliminare una condizione Ct dal novero delle possibili condizioni necessarie di F significa mostrare che in qualche caso F si presenta anche in assen­ za di Cr Di conseguenza, il metodo della concordanza richiede di esaminare casi in cui si presenta F e di controllare, per ciascuna con­ dizione Cz, se essa è presente oppure no. L’applicazione del metodo della concordanza è illustrata dall’acquisizione dell’evidenza E relativa dall’osservazione dei tre casi rappresentati nella tab. i, in cui viene registrata, per ciascun caso, la presenza ( + ) o assenza (—) delle condi­ zioni C,, C5. Vediamo che le condizioni C2, .... C5 si presentiino in alcuni casi, ma non in tutti: ciò significa che nessuna di esse è condizione ne­ cessaria di F. Possiamo quindi concludere deduttivamente, sulla base dell’evidenza E, che le corrispondenti ipotesi causali H2, ...» H5 sono false. L’unica condizione che non viene eliminata da E è C>, poiché essa si presenta in tutti e tre i casi considerati. La circostanza per cui i casi considerati concordano nella presenza di una sola specifica con­ dizione, eliminando in tal modo tutte le altre, è ciò che suggerisce di denominare il primo metodo milliano come “metodo della concor­ danza”. Si noti che, anche se E esclude tutte le ipotesi considerate in D tranne la sola //,, non è possibile concludere che E verifica Ht, nel senso di implicarla logicamente. Infatti, resta logicamente possibile >35

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

che Ht sia falsa anche se E è vera, dal momento che i tre casi de­ scritti da E non ci permettono in alcun modo di escludere che prima o poi ci imbatteremo in un ulteriore caso in cui la concordanza viene meno, essendo C, assente pur in presenza di F. Se ciò accadesse, si­ gnificherebbe evidentemente che le vere condizioni necessarie di F non erano incluse nella lista contemplata dall’ipotesi iniziale D, per quanto essa potesse apparire inizialmente plausibile. Ciò significa che non è possibile dedurre Hl dall’evidenza empirica E, e quindi che diversamente da quanto talora suggerito in alcune esposizioni divul­ gative dei metodi di Alili — il metodo della concordanza non consente di raggiungere, sulla base dell’evidenza empirica, la certezza che una determinata ipotesi causale è vera. Ciò che invece il metodo consente di elaborare è un’inferenza induttiva, e più precisamente - come ora mostreremo - un particolare tipo di conferma relativizzata. In molti casi analoghi a quello che abbiamo appena descritto, sembra naturale sottoscrivere le seguenti valutazioni comparative di plausibilità. (i) Alla luce della conoscenza di sfondo 5, D è più plausibile di Ht. In riferimento a (i) è sufficiente osservare che D contempla una lista di possibili condizioni necessarie di F più estesa della sola C, indicata da H,. (ii) D è almeno altrettanto plausibile alla luce di (5 & E) di quanto lo era alla luce di S. In riferimento a (ii), si noti che E non falsifica D né, più in gene­ rale, fornisce ragioni per ritenerla meno plausibile. (ili)Alla luce di (5 & E), D è tanto plausibile quanto lo è Ht. In riferimento a (iii), si noti che l’evidenza E “restringe” le ipotesi ammesse da D alla sola H,, escludendo tutte le altre. E facile vedere che (i)-(iii) hanno come conseguenza: (iv)H, è più plausibile alla luce di (S & E) che alla luce di S. Notiamo a questo punto che, come si è chiarito più sopra (si veda p. 123), sottoscrivere l’asserzione (iv) equivale ad effettuare la seguen­ te inferenza di conferma relativizzata: o. I.

S E H,

Prima di passare all’esposizione del metodo milliano della differenza, presenteremo sinteticamente un esempio di applicazione del metodo della concordanza nella ricerca medica. i^6

y. FORME DI RAGIONAMENTO E VALUTAZIONE DELLE IPOTESI

5. Le cause genetiche del morbo di Alzheimer. Dopo avere esaminato centinaia di famiglie colpite dal morbo di Alzheimer, un gruppo di ricerca dell’università di Washington è riuscito a eliminare una dopo l’altra tutte le possibili cause genetiche del morbo inizial­ mente ipotizzate - in base alla considerazione che ciascuna di esse era assente in alcuni pazienti - con l’eccezione di una, costituita dalla presenza di una piccola zona con caratteristiche peculiari sul cromo­ soma 14 (Schellenberg et al., 1992). Risultò in tal modo confermato il ruolo causale di questa anomalia, presente solo negli ammalati, come condizione necessaria del morbo *5. esempio

IL METODO DELLA DIFFERENZA

Supponiamo ora di avere formulato un’ipotesi iniziale secondo la quale la condizione sufficiente del fenomeno F è una fra le condizioni C„ ...» C5. Anche in questo caso, denotiamo tale ipotesi iniziale come la disgiunzione D = “H,, oppure ..., oppure H5”, dove H, è l’ipotesi che C, è condizione sufficiente di F. Il metodo della differenza viene impiegato per eliminare dalla lista Cx, ..., C5 delle possibilità inizial­ mente ammesse da D almeno alcune tra le condizioni non sufficienti di F. Eliminare una condizione C, dal novero delle possibili condizio­ ni sufficienti di F significa mostrare che in qualche caso, pur in pre senza di C„ F non si presenta. Di conseguenza, il metodo della diffe renza richiede di esaminare casi in cui non si presenta F e di con­ trollare, per ciascuna condizione C„ se essa è presente oppure no. L’applicazione del metodo della differenza è illustrata dall’acquisizione dell’evidenza E relativa dall’osservazione dei tre casi rappresentati nella tab. 2. TABELLA 2

Fenomeno

Possibili condizioni sufficienti

Caso

c.

G

c,

c,

F

2

3

Si può vedere che la tab. occorrenza, “ + ” con to considerare una tavola ri, tuttavia, sottolinea la

2 si ottiene dalla tab. i sostituendo, in ogni e viceversa. Avremmo, naturalmente, potu­ diversa. 11 riferimento a due tavole specula­ somiglianza strutturale fra il metodo della 137

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

TABELLA 3

Possibili condizioni sufficienti Caso

I 2

C.

e,



Fenomeno

F

+

concordanza e il metodo della differenza. Esso permette altresì di ri­ produrre immediatamente, mutatis mutandis, le osservazioni fatte a proposito della tab. i, con le seguenti conclusioni: (i) l’evidenza E rappresentata nella tab. 2 conduce all’eliminazione di tutte le possibi­ li condizioni sufficienti considerate dall’ipotesi disgiuntiva D tranne Cx; (ii) l’ipotesi causale H, - secondo la quale C, è condizione suffi­ ciente di F - è induttivamente confermata da E (relativamente alla conoscenza di sfondo 5). Nell’esempio della tab. 2, CT è assente in tutti e tre i casi conside­ rati. Ciò significa che i tre casi concordano tra di loro per l’assenza di C,. Non risulta quindi per nulla evidente il significato dell’espressione “metodo della differenza”, coniata da Mill. Tale espressione è invece suggerita dal particolare tipo di esempi - rappresentato nella tab. 3 zhe Mill impiega per illustrare il suo metodo per la ricerca di cause sufficienti. Vediamo qui che la sola differenza tra il caso in cui il fenomeno F si verifica (caso 1) e quello in cui non si verifica (caso 2) è costituita dalla presenza di C, nel primo e dalla sua assenza nel secondo. Con riferimento a esempi del tipo illustrato nella tab. 3, Mill formula il metodo della differenza in questi termini: se abbiamo osservato un caso in cui si verifica il fenomeno F e un altro in cui non si verifica, e se la sola differenza è la presenza di una determinata condizione C, nel primo soltanto dei due casi considerati, allora possiamo indurre la corrispondente ipotesi causale Hit secondo la quale C, è condizione sufficiente di F. Mill delinea quindi il metodo della differenza con riferimento a un particolare genere di evidenza, caratterizzata dall’os­ servazione di due soli casi. Occorre comunque notare che tale formu­ lazione è pienamente compatibile con quella da noi presentata in pre­ cedenza. L’osservazione del caso 2, infatti, conduce all’eliminazione delle ipotesi H2, Hr confermando così //,. A nostro avviso, il caso 1 - che pure risulta logicamente ridondante, nel senso che non con­ duce aU’eliminazione di alcuna delle possibili condizioni sufficienti considerate - viene comunque presentato da Mill per sottolineare che 138

J. FORME DI RAGIONAMENTO E VALUTAZIONE DELLE IPOTESI

l’ipotesi iniziale è appunto D e che essa è compatibile con le osservazioni svolte. Il seguente esempio illustra un’importante classe di applicazioni del metodo della differenza nelle scienze mediche. 6. Il metodo degli interventi simulati. Nelle scienze biomedi­ che un procedimento tradizionalmente impiegato per comprendere le funzioni fisiologiche di un organo consiste nella sua rimozione chi­ rurgica effettuata in animali da laboratorio e nell’attenta osservazione degli effetti che ne conseguono. La rimozione chirurgica, tuttavia, è normalmente accompagnata da alcune circostanze collaterali, quali la concomitante lesione o asportazione di altri organi durante l’interven­ to e lo stress post-operatorio. Di conseguenza, è difficile stabilire se gli effetti osservati dipendano dall’una o dall’altra fra le possibili con­ dizioni sufficienti che si sono determinate con l’intervento, vale a dire dalla rimozione dell’organo in questione o da qualcuna delle circo­ stanze concomitanti. Per far fronte a questo problema, Claude Ber­ nard propose il suo metodo degli interventi simulati. Per stabilire se la scomparsa (o l’attenuazione) di un certo processo fisiologico ri­ scontrato in un animale dovesse essere attribuita alla rimozione di un determinato organo o a qualcuna delle altre circostanze collaterali as­ sociate all’intervento chirurgico, Bernard suggerì di prendere un ani­ male del tutto simile sul quale effettuare un intervento diverso dal primo per la mancata rimozione dell’organo, ma identico ad esso per tutti gli altri aspetti rilevanti (modalità di incisione, durata ecc.). Indi­ chiamo quindi con F la scomparsa (o attenuazione) di un certo pro­ cesso fisiologico, con R la rimozione dell’organo e con Ct-C5 le circo­ stanze collaterali associate all’intervento chirurgico. Supponiamo poi che i risultati ottenuti nell’intervento di rimozione e in quello simula­ to siano compendiati nella tab. 4. Secondo il metodo milliano della differenza, i dati della tab. 4 conducono all’eliminazione di C.-C* come possibili condizioni suffi­ cienti di F, confermando induttivamente l'ipotesi causale che tale ef­ fetto vada attribuito a R, cioè alla rimozione dell’organo *6. esempio

TABELLA 4 Possibili condizioni sufficienti

Caso

R

C,

1. Intervento di rimozione 2. Intervento simulato

139

C,

Effetti fisiologici

C,

F

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

Conclusioni L’idea, oggi largamente accettata, che la filosofia della scienza debba basarsi su una conoscenza approfondita della storia delle scienze ha spinto gli studiosi ad analizzare le procedure, i problemi e i fonda­ menti delle singole discipline scientifiche. In tal modo, a partire dal­ l’ambito della filosofia generale della scienza - rivolta a problemi me­ todologici di ampia portata relativi a qualunque indagine scientifica — si sono ramificate e sviluppate diverse filosofie speciali delle scienze, quali la filosofia della fisica, la filosofia della biologia o la filosofia del­ l’economia ’7. A queste pare del tutto naturale affiancare anche la fi­ losofia delle scienze mediche *8. Di fatto, però, quasi nessuno dei più importanti filosofi della scienza del xx secolo ha discusso dettagliatamente esempi illustrativi delle forme di ragionamento usate dai ricer­ catori medici. Si tratta di una circostanza alquanto sorprendente, con­ siderato che la filosofia generale della scienza, per sua natura, può utilmente avvalersi di esempi tratti dai più disparati settori della ri­ cerca scientifica. Per di più, a quanto ci risulta, un’indagine sistemati­ ca delle forme di ragionamento coinvolte nella ricerca medica non è ancora stata tentata neanche dagli stessi studiosi di filosofia delle ;cienze mediche 19. Per questi motivi, la trattazione qui presentata leve essere considerata ampiamente preliminare, e tale da lasciare inevitabilmente ai margini molti temi che altrimenti meriterebbero un’analisi più approfondita. In conclusione, vorremmo segnalarne so­ prattutto due. In primo luogo, concentrandoci sulla valutazione di ipotesi, abbia­ mo tralasciato di discutere le forme di ragionamento eventualmente coinvolte nella scoperta — cioè nella generazione ed elaborazione — delle ipotesi. La possibilità di una “logica della scoperta” è tema di dibattito ricorrente in filosofia della scienza, che si ripropone nelle scienze mediche come nelle altre discipline. Il lettore interessato può fare riferimento ad alcuni classici testi sull’argomento, come Nickles (1980) e Simon (1977), e a Schaffner (1993, cap. 2) e Thagard (1999) per trattazioni più direttamente legate alla medicina. In secondo luogo, abbiamo limitato la nostra discussione a ipotesi che potessero essere interpretate ed esposte in termini qualitativi. Sia­ mo ben consapevoli, d’altra parte, che le ipotesi di carattere quantita­ tivo — e in particolare le ipotesi statistiche - rivestono un interesse significativo per la scienza medica contemporanea, soprattutto a se­ guito dell’avvento e degli sviluppi dell’epidemiologia clinica. Basti pensare alle ipotesi statistiche relative alla prevalenza di una determi­ nata patologia, alla sensibilità e specificità di un test diagnostico o 140

t

y. FORME DI RAGIONAMENTO E VALUTAZIONE DELLE IPOTESI

alle correlazioni fra una certa condizione - come un fattore di ri­ schio, o un trattamento terapeutico - e le sue possibili conseguenze. Riteniamo comunque che la valutazione di ipotesi quantitative di que­ sto tipo possa essere ricostruita attraverso opportune estensioni e raf­ finamenti delle forme di ragionamento qui esposte 2O. Resta inteso, tuttavia, che tale suggerimento dovrà trovare attuazione in altra sede.

Note 1. Preso a prestito da Federspil (1980, p. 34). 2. Un’analisi più approfondita dei vari tipi di inferenze deduttive e induttive è, per ovvi motivi, al di là dei nostri presenti scopi. Esistono in proposito ottime tratta­ zioni manualistiche, a cui rinviamo il lettore interessato. Si vedano, per esempio, Copi, Cohen (2001); Hacking (2001); Hurley (1999); Salmon (1983); Skyrms (1999) e Varzi, Nolt, Rohatyn (1998). 3. È bene chiarire che, a differenza di quanto fatto per le inferenze deduttive, considereremo alcune forme tipiche di conferma induttiva ma non indicheremo le condizioni generali nelle quali la plausibilità di un’ipotesi H alla luce di E sia maggio­ re della plausibilità iniziale di H. La possibilità e la natura di una teoria generale del­ l’induzione è infatti tema di ricerca a tutt’oggi ampiamente dibattuto. 4. Un’utile trattazione storica e teorica dei diversi aspetti del ragionamento abduttivo, con numerosi ulteriori riferimenti, è fornita da Niiniluoto (1999). 5. Si noti che H può essere un’ipotesi già formulata in precedenza oppure essere stata concepita nel tentativo di spiegare E. 6. Per una trattazione più estesa della nozione di spiegazione e del suo ruolo in medicina (compresi i suoi rapporti con il tema della causalità) rimandiamo al cap. 5 di questo volume. 7. La scoperta di Semmelweis, di cui egli fornì un vivido e dettagliato resoconto (Semmelweis, 1861), è uno degli episodi più noti c romanzeschi della storia della ri­ cerca medica. Per un verso, il pionieristico lavoro di Semmelweis è stato considerato un luminoso esempio dell’inventiva e dell’audacia di un ricercatore osteggiato dal suo ambiente, al punto da attrarre l’attenzione di Celine (1952), medico egli stesso oltre che scrittore geniale e controverso. Per altro verso, le indagini di Semmelweis sono state viste come un caso paradigmatico di ricerca scientifica in medicina. Data la va­ rietà di posizioni metodologiche e teoriche esistenti, non è allora sorprendente che i filosofi della scienza abbiano proposto una ricca rassegna di interpretazioni, talora di­ vergenti, circa la natura dei metodi di Semmelweis e il significato della sua parabola scientifica. Così, studiosi diversi hanno rilevato nelle ricerche di Semmelweis soprat­ tutto la centralità del ragionamento abiliti t ivo (Lipton, 2004, pp. 75-98) o di quello analogico (Thagard, 1999, pp. 137-S), l’adozione di una logica induttiva della scoperta (Pera, 1983) o un'implicita applicazione dell’approccio bayesiano al “problema di Duhem” (Giorello, Moriggi, 2004). Altri ancora hanno ricostruito il lavoro di Semmel­ weis nei termini del modello popperiano per congetture e confutazioni (Antiseri, i977b) o secondo il modello ipotctico-deduttivo (Hempel, 1966, pp. 15-9; si veda an­ che il nostro Esempio 5). Non sono mancati neppure gli studiosi che vi hanno ravvi­ sato un’applicazione dei metodi induttivi di Mill (Copi, Cohen, 2001, p. 504) o un’an­ ticipazione dei metodi statistici oggi impiegati dall’epidemiologia clinica (Salmon, 1983; Vineis, 1999, pp. 17 ss.). Infine, c’è chi ha visto nelle difficoltà di Semmelweis a

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convincere i colleghi della validità delle sue teorie un classico esempio della tenacia dei paradigmi accettati, in linea con le tesi di Kuhn (Gillies, 20056). 8. Secondo Johansson e Lynoe (2008), che ne forniscono una dettagliata esposi­ zione, le ricerche di Harvey sono «giustamente lodate come un eccellente esempio del modo in cui la ricerca medica dovrebbe essere condotta» (ivi, p. 142). Oltre all’impie­ go del metodo ipotetico-deduttivo, Johansson e Lynoe rinvengono nel lavoro di Harvey vari altri tipi di inferenze induttive quali generalizzazioni, inferenze abduttive, analogiche e di altro genere. 9. Secondo Federspil (1980, p. 8), «Non è difficile rendersi conto che tutta la medicina scientifica, nel suo complesso, è stata elaborata con questa metodologia. [...] L’analisi delle conoscenze biomediche, considerate globalmente, rivela una costante aderenza ai principi del metodo ipotetico-deduttivo». 10. Alcuni studiosi, a partire da Karl Popper (1902-1994), hanno considerato la falsificazione ipotetico-deduttiva come la pietra miliare del corretto metodo scientifico. Per un’applicazione dell’approccio falsificazionista di Popper alla ricerca medica, si veda Antiseri (19773). 11. Per una ricostruzione più dettagliata di questo episodio della ricerca sulla patogenesi dell'AIDS, del suo contesto storico e dei suoi sviluppi, rimandiamo a Crupi (2007).

12. Non è quindi un caso che Copi e Cohen (2001), uno dei più completi e diffusi manuali di logica informale, illustri i metodi di Mill attraverso circa tre dozzine di esempi tratti dalla storia, anche recente, della medicina. 13. Storicamente, il ruolo delle ipotesi causali nella ricerca medica è emerso in modo esplicito e sistematico a partire dalla seconda metà dell'Ottocento nell’ambito dell’approccio metodologico biosperimentale, o fisiopatologico, caratterizzato appunto dal tentativo di elaborare spiegazioni causali delle malattie. A questo riguardo, Cor­ bellini (2007, pp. 26 ss.) nota che i due ricercatori ai quali si deve la sistematizzazione li questo approccio - Claude Bernard (1813-1878) e Cari Ludwig (1816-1895) - so­ stengono una concezione del metodo sperimentale in medicina largamente coincidente con quella elaborata da Mill. 14. Si veda ancora il cap. 5 di questo volume, per una trattazione più estesa della causalità in medicina. 15. L'esempio è tratto da Copi, Cohen (2001, p. 498), che lo impiegano con sco­ pi simili. 16. Sulle relazioni concettuali fra il metodo della differenza di Mill e le conside­ razioni metodologiche di Bernard si veda Schaffner (1993, pp. 145-52). Schaffner nota che la raccomandazione, su cui Bernard insisteva con particolare vigore, di effettuare sempre interventi simulati nelle indagini sulle funzioni degli organi è stata ampiamen­ te accolta. L'intervento simulato costituisce infatti una procedura di controllo ormai diffusa in questo tipo di ricerche. Negli anni sessanta è stata utilizzata, per esempio, nelle indagini sperimentali sulle funzioni del timo. 17. Per un’utile panoramica, si veda Vassallo (2003). 18. Si vedano Corbellini (2003); Federspil et al. (2008); Giaretta et al. (2009); Wulff, Pedersen, Rosenberg (1990). 19. Il punto di riferimento più ricco di spunti resta a tutt'oggi Schaffner (1993) (si vedano in particolare i capp. 465). 20. Pensiamo, in particolare, all'arricchimento degli strumenti logici qui impiega­ ti attraverso l’esplicito riferimento alla teoria della probabilità in una prospettiva bayesiana. Per un’introduzione ormai classica alla filosofia della scienza bayesiana, si veda Howson, Urbach (1993), a cui ci permettiamo di aggiungere Festa (1996, 1999).

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4 Generalizzazioni scientifiche e trial clinici di Raffaella Campaner e Andrea Cavanna *

Leggi, generalizzazioni, regolarità Come la maggior parte delle scienze, anche le scienze biomediche presentano una tendenza alla generalizzazione dei fenomeni e delle proprietà ripetutamente osservati, nella convinzione che tali ripetute osservazioni non siano accidentali, bensì dovute a qualche forma di legame stabile. E su questa base che viene adottato il concetto di leg­ ge scientifica. Forme tipiche di leggi sono: - leggi di carattere ineccepibile, (x) (Fx Gx), ovvero: in tutti i casi in cui si dà F si dà anche G; - leggi di carattere statistico, P (G I F) = r, ovvero: in una certa percentuale r dei casi in cui si dà F si dà anche G. In medicina possiamo trovare impiegati entrambi i tipi di leggi, spesso a scopi esplicativi o predittivi: “Tutti i pazienti affetti da cole­ ra presentano il bacillo-virgola” o “La probabilità di avere un infarto del miocardio in chi ha una colesterolemia superiore a 400 mg/100 mi è pari a 0,90” (cfr. infra il paragrafo Le spiegazioni in medicina del cap. 5). La definizione precisa di che cosa sia una legge scientifica conti­ nua a essere oggetto di un’ampia controversia filosofica, che investe anche le varie discipline scientifiche. Il nodo problematico cruciale concerne la caratterizzazione di autentica legge di natura in contrap­ posizione a semplice generalizzazione accidentale: che differenza c’è, ad esempio, tra le leggi del moto di Newton o la legge dei gas ideali, e proposizioni generali del tipo “Tutte le monete nella mia tasca sono da un curo”? O tra la proposizione “Tutte le sfere di uranio arric­ chito hanno un diametro inferiore ai cento metri” e la proposizione “Tutte le sfere d’oro hanno un diametro inferiore ai cento metri”? Quali sono le caratteristiche fondamentali delle leggi? Quelle che vengono battezzate leggi presentano i medesimi caratteri nelle diverse

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discipline scientifiche, o il concetto di legge varia a seconda del setto­ re di cui si tratta? Sono questi alcuni degli interrogativi su cui si è concentrato il dibattito, che ha dimostrato un interesse sempre mag­ giore, come vedremo, per l’uso effettivo della nozione di legge nella pratica scientifica. IL DIBATTITO SULLE LEGGI DI NATURA

Senza la pretesa di fornire una ricostruzione esaustiva delle numero­ sissime posizioni presenti in letteratura, indicheremo anzitutto alcune delle principali proposte volte a tracciare i criteri per definire che cosa sia una legge, per poi passare ad alcune considerazioni più spe­ cifiche sul ruolo delle leggi nelle scienze biomediche Secondo l’approccio chiamato “regolarista”, che viene fatto risali­ re all’impostazione humiana, le cosiddette leggi di natura non rap­ presentano altro che successioni costanti di tipi di eventi 2. Tali rego­ larità sono intese come caratteristiche oggettive del mondo, che non rimandano a nuli'altro, a nulla di diverso o in più rispetto alle ripetu­ te osservazioni su cui si fondano. Non c’è, in altri termini, alcuna “necessità” o “connessione necessaria” sottesa ai fenomeni e respon­ sabile di come essi si manifestano. L’impostazione regolarista, che in­ siste sul carattere empirico di quelle che consideriamo leggi di natura, riene accusata di non essere però in grado di distinguere adeguatamente le leggi autentiche dalle generalizzazioni. Un primo requisito proposto è stato così quello dell’universalità delle leggi di natura: esse devono valere per tutti gli elementi dell’insieme a cui si riferiscono. Il fatto che le leggi contengano un quantificatore universale non risolve tuttavia il problema, poiché ci sono proposizioni del tipo “tutte le mele nel mio frigo sono verdi” che contengono un quantificatore uni­ versale, ma che non possono certo essere annoverate tra le leggi di natura. Si è allora notato come le generalizzazioni accidentali, a diffe­ renza delle leggi, abbiano un campo di applicazione limitato, poiché fanno riferimento a una particolare area dello spazio, o a un partico­ lare momento temporale. Neppure questi criteri superano però la dif­ ficoltà. Ci sono infatti delle leggi di natura autentiche che, a rigore, valgono per regioni spazio-temporali ristrette e hanno applicazione li­ mitata; ad esempio, la prima legge di Keplero (“Tutti i pianeti nel nostro sistema solare si muovono in ellissi”) è una legge, ma fa riferi­ mento al nostro sistema solare e si applica a un numero limitato di fenomeni (i pianeti del nostro sistema solare). Viceversa, ci sono pro­ posizioni che contengono un quantificatore universale, non fanno riJ44

4- GENERALIZZAZIONI SCIENTIFICHE E TRIAL CLINICI

ferimento a particolari regioni dello spazio, hanno un campo di appli­ cazione illimitato, eppure non sono leggi, bensì generalizzazioni empi­ riche plausibili (ad esempio, “Tutte le sfere d’oro hanno diametro in­ feriore a 10.000 metri”). Date le suddette difficoltà, il dibattito si è ben presto concentrato sull’idea che ciò che contraddistingue le leggi pia la loro forza modale-. la legge esprime qualcosa di oggettivo, un qualche legame necessario tra fenomeni o proprietà, che non è riducibile a un nostro atteggia­ mento epistemico, né a una semplice regolarità di fatto (“Tutti gli F osservati sono G”). Una legge, dunque, non indica semplicemente un legame privo di eccezioni per quanto si sia fin qui osservato — cosa che può caratterizzare anche una generalizzazione - bensì un legame privo anche di possibili eccezioni, che ci permette di fare delle affer­ mazioni sui casi non ancora osservati: se x fosse un F, allora sarebbe un G. In questo senso, si afferma che le leggi, a differenza delle gene­ ralizzazioni accidentali, sostengono condizionali controfattuali-, conver­ remo nel dire che “se questo pezzo di metallo fosse stato scaldato, si sarebbe espanso”, e non nel dire che “se questa mela fosse posta nel mio frigo, sarebbe verde”. Questo diverso atteggiamento dei confronti dei due controfattuali sembra fondarsi sulla convinzione che solo il primo ha alle sue spalle una legge (ov­ vero, una connessione nomologica reale tra lo scaldare il metallo e il suo espandersi). La capacità delle leggi di sostenere condizionali controfattuali permette di attribuire un significato preciso all’affermazione che le leggi (a differenza delle proposizioni accidentali) sono dotate di forza modale (Psillos, 2002, pp. 145-6) J.

Il ricorso ai controfattuali permette di comprendere la differenza tra la proposizione “11 diametro di una sfera di uranio arricchito non su­ pera mai i cento metri”, ritenuta una legge, e la proposizione “Il dia­ metro di una sfera d’oro non supera mai i cento metri”, che è una generalizzazione: mentre nel secondo caso si tratta di una mancanza di materiale, mezzi tecnici ecc., che può essere solo provvisoria, nel primo caso la realizzazione di una sfera di uranio arricchito di di­ mensioni maggiori è fisicamente impossibile, poiché porterebbe ad una terribile esplosione. Il controfattuale “Se questa fosse una sfera di uranio arricchito, il suo diametro non supererebbe i cento metri” è vero, mentre il controfattuale “Se questa fosse una sfera d’oro, il suo diametro non supererebbe i cento metri” è falso. Anche il ricorso ai controfattuali come garanti di una relazione nomica autentica non è tuttavia immune da difficoltà. In particolare, se da un lato puntiamo »45

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

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a distinguere le leggi dalle non-leggi sulla base del loro sostenere o meno controfattuali, dall'altro rischiamo di dover definire, a loro vol­ ta, le condizioni di verità dei controfattuali in base alla presenza di leggi di natura, restando così intrappolati in un circolo vizioso. Se, ad esempio, sosteniamo che “se questo materiale fosse un metallo, con­ durrebbe calore”, possiamo poi trovarci a dover dire che questa pro­ posizione è vera in virtù di certe caratteristiche chimiche dei metalli e di certe leggi di natura, che, insieme, implicano il conseguente del controfattuale 4. Al di là di questi problemi, in ogni caso, l’universali­ tà, la capacità di sostenere controfattuali e la mancanza di specifici riferimenti spazio-temporali sono rimaste le caratteristiche tradizional­ mente associate al concetto di legge. Tra le principali proposte filosofiche emerse nel corso del dibatti­ to, una proposta distante dall’approccio empirista è stata avanzata da Richard Braithwaite (1953) e Alfred Ayer (1963), che chiamano in gioco il nostro diverso atteggiamento epistemico nei confronti delle leggi e delle generalizzazioni: lo status di legge risulta attribuibile a «quelle generalizzazioni che svolgono un certo ruolo epistemico: cre­ diamo che siano vere, e lo crediamo perché sono confermate dai loro casi positivi e sono adottate nel ragionamento induttivo. La convin­ zione che una proposizione sia una legge dipende cioè dalle nostre credenze rispetto alla proposizione, e non da qualcosa di intrinseco alla proposizione stessa» (Psillos, 2002, p. 141). Questo approccio viene accusato, com’è facilmente intuibile, di avere un aspetto antro­ pocentrico e un carattere soggettivo troppo forti, che, oltre a non permettere di distinguere in modo chiaro tra leggi e non leggi, am­ mette la possibilità di tracciare tale distinzione in modi sempre di­ versi. A ciò si aggiunge il problema, di carattere più generale, di indi­ viduare esempi che confermino la presunta legge in questione 5. Nel caso, ad esempio, della prima legge di Newton del moto, secondo la quale un corpo sul quale non è esercitata alcuna forza mantiene il suo stato di moto, dobbiamo riconoscere che, a rigore, non c’è nes­ sun corpo in cui, di fatto, nel mondo reale, non venga esercitata alcu­ na forza. Una diversa concezione generale che ha riscosso un certo succes­ so è quella nota come web-of-laws approach, o come “mrl”, che rias­ sume la prospettiva - sviluppata in modi differenti - di Stuart Mill, Frank P. Ramsey e David Lewis. Mill ritiene che sollevare la doman­ da “Che cos’è una legge di natura?” equivalga a porre i seguenti in­ terrogativi: «Quali sono le assunzioni più semplici, e prese nel minor numero, a partire dalle quali è possibile derivare l’ordine di tutti i fenomeni naturali esistenti?, [oppure] Qual è il minor numero di I46

4- GENERALIZZAZIONI SCIENTIFICHE E TRIAL CLINICI

proposizioni generali dall’assunzione delle quali tutte le uniformità dell’universo possono essere dedotte?» (Miil, 1911, p. 207). In questa prospettiva si ritiene che non sia possibile caratterizzare una singola regolarità come legge di natura: un discorso sulle leggi dovrà sempre tenere conto di una rete di regolarità, composta da fili diversi da con­ siderare insieme, sulla base del loro potere di sistematizzare le nostre conoscenze (cfr. Ramsey, 1928). Lewis, a sua volta, nel suo “system approach” suggerisce di considerare una generalizzazione una legge «se e solo se compare come teorema (o assioma) in ciascuno dei si­ stemi deduttivi che raggiunge la migliore combinazione di semplicità e forza» (Lewis, 1973, p. 73). Secondo questa visione, le leggi vanno quindi individuate in rapporto a sistemi assiomatici deduttivi che pre­ sentano un buon grado di semplicità e forza. Tra i problemi che re­ stano aperti vi sono quello di affrontare i casi in cui semplicità e for­ za spingono in direzioni opposte, e quello di identificare, tra i vari sistemi deduttivi in cui può essere organizzato un insieme di assun­ zioni, quello che va preso in esame per individuare le leggi di natura. Tra i vantaggi, invece, si può annoverare il mancato ricorso ai con­ trofattuali e la possibilità di includere tra le leggi anche quelle che non presentano casi positivi che le confermino. Alla fine degli anni settanta, in contrapposizione tanto all'approc­ cio regolarista quanto al web-of-laws approach, Armstrong (1978, 1983), Dretske (1977) e Tooley (1977) hanno spostato l’indagine su un piano diverso, sostenendo che le leggi sono relazioni tra universali. Secondo la loro prospettiva, nota come visione “adt”, una legge del tipo “Tutti i metalli conducono calore” esprime una relazione neces­ saria tra la proprietà universale “essere un metallo” e la proprietà universale “condurre calore”; è tale relazione necessaria che garanti­ sce la compresenza delle due proprietà. La differenza tra leggi e pro­ posizioni universali vere è ritenuta qualcosa di intrinseco: solo le pri­ me descrivono «le relazioni sussistenti tra qualità e quantità universa­ li; non sono proposizioni universali concernenti oggetti particolari. Le proposizioni universali vere non vengono rese leggi dal fatto di acqui­ sire alcune delle proprietà estrinseche delle leggi, quali l’essere inclu­ se in spiegazioni o previsioni, il sostenere controfattuali, o il risultare ben confermate» (Dretske, 1977, PP- 253‘4)- Mentre tali nessi neces­ sari tra universali comportano la presenza delle regolarità humiane che osserviamo, la semplice osservazione di una regolarità empirica non implica la presenza di un’autentica legge di natura: ciò che rende le leggi vere, e del tutto indipendenti dalla nostra mente, sono rap­ porti tra universali. Resta ovviamente aperto il problema di definire in modo chiaro e univoco la relazione di “necessità tra universali” 6. M7

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Ricordiamo, infine, come una porzione rilevante del dibattito re­ cente sulla natura dei nessi nomici abbia riguardato le cosiddette “leggi ceteris paribus”, contrapposte alle leggi in senso stretto. Mentre queste ultime possono essere contraddette da un singolo esempio ne­ gativo, per le prime non è così. L’idea di legge ceteris paribus è stata associata in letteratura soprattutto alle cosiddette scienze speciali, sul­ la base della convinzione che in questi campi disciplinari vengano specificate le condizioni di validità delle leggi con clausole del tipo, appunto, “a parità di condizioni”, o “se non sono presenti fattori di disturbo”, “se non interferiscono altre forze”, e simili. Pur non ri­ spondendo ai principali requisiti delle leggi in senso proprio, princi­ palmente perché soggette ad eccezioni e di portata limitata, le leggi ceteris paribus figurano nelle spiegazioni, possono essere sottoposte a controlli e vengono confermate dai loro casi positivi 7. Una delle proposte a favore della nozione di legge ceteris^paribus ) che è stata più ampiamente dibattuta è dovuta a ^^ancy Cartwright /./ (1983, 1999), secondo la quale nessuna legge è strettanTéntFTmiversa- 'f' le; tutte le leggi di natura «valgono solo ceteris paribus, ovvero valgo- / no solo in rapporto al ripetuto operare con successo di una macchina ’ nomologica», dove^unamacchina n omologica è «un sistema (abba­ stanza) fisso'Hi Componenti, o fattori, con(£apacjtà (abbastanza) stabi­ li che, in un opportunri ambiente (abbastanza) stabile, produrranno, con operazioni ripetute, il tipo di comportamento regolare che rap­ presentiamo nelle nostre leggi scientifiche» (Cartwright, 1999, p. 50). Tutte le regolarità rilevabili valgono fintanto che le macchine nomologiche - che possiamo individuare in natura, come nel caso del siste­ ma dei pianeti, o, più spesso, costruire in laboratorio — funzionano correttamente. In quest’ottica, anche le leggi fondamentali della fisica sono annoverabili tra le leggi ceteris paribus. La legge della gravitazio­ ne universale, ad esempio, è secondo la Cartwright una legge di que­ sto tipo: c’è una sola condizione nella quale la legge vale, ovvero “in assenza di altre forze oltre a quella di gravità”. Così intesa, però, la legge, sebbene vera, non vale se non in situazioni del tutto ideali. La Cartwright propone allora di concepire le leggi come proposizioni re­ lative a poteri causali, definiti “capacità”: le regolarità esprimono il comportamento di “capacità” che lo generano 8. Tra i principali critici, invece, delle leggi ceteris paribus, ricordia­ mo James Woodward, secondo il quale l’idea che le generalizzazioni nelle scienze speciali incorporino delle clausole che ne qualificano le condizioni di validità è soltanto «una glossa filosofica in merito a come tali generalizzazioni dovrebbero essere intese, e non un’idea che tragga alcun supporto dal modo in cui tali generalizzazioni sono reaiI48

4. GENERALIZZAZIONI SCIENTIFICHE E TRIAL CLINICI

mente formulate dai ricercatori che le usano» (Woodward, 2002, p. 305, corsivo nostro). Woodward ritiene che quest’idea debba essere sostituita da un approccio diverso alle leggi, incentrato sulla nozione di generalizzazione invariante nel caso di intervento (cfr. infra, cap. 5), volta a rispecchiare l’effettiva pratica scientifica. Come vedremo nel prossimo paragrafo, è proprio da una maggiore attenzione allo specifico contesto scientifico in cui le leggi possono venire elaborate e utilizzate che viene alimentata la parte più recente del dibattito.

LE LEGGI NELLE SCIENZE BIOMEDICHE

La medicina fa largo uso di proposizioni indicanti comportamenti re­ golari dell’organismo umano e delle patologie che vi si sviluppano. Se non sembra possibile parlare propriamente di leggi mediche, è vero che la ricerca biomedica ricorre largamente a leggi elaborate nell’am­ bito della fisica, chimica, e biologia. L’analisi del significato e dell’uso del concetto di legge in medicina si interseca così con il dibattito sul­ la natura delle leggi biologiche, intese come leggi che governano il comportamento di organismi viventi, soggetti ad evoluzione e a pro­ cessi di crescita e riproduzione. Gli organismi biologici - è stato ripe­ tutamente sottolineato — sono troppo complessi per poter godere di leggi universali: si comportano frequentemente in modi differenti an­ che all’interno della stessa specie e in circostanze analoghe, e sono costantemente soggetti a mutazioni. Queste caratteristiche, che diffe­ renziano i sistemi biologici dai fenomeni studiati dalla fisica o dalla chimica, determinano altresì delle differenze fondamentali tra le leggi della biologia e quelle delle suddette discipline? E possibile parlare di leggi genuinamente biologiche? Proprio nell’intento di rendere conto in modo più adeguato del comportamento di sistemi non solo chimico-fisici, e del ruolo esplica­ tivo che le leggi possono svolgere in rapporto ad essi, alcuni autori contemporanei si sono orientati verso un concetto di legge diverso da quello tradizionale, per certi versi più debole. Date le possibili ecce­ zioni a cui sono soggette e il loro campo di applicazione variabile, Pcter_Machamer, Lindley Darden e Cari Craver (cfr. cap. 5, par. Le spiegazioni in medicina, e cap. 6), ad esempio, preferiscono parlare di ^generalizzazioni*', che governano il comportamento regolare dei si­ stemi-meccanicistici, ritenendo il concetto di legge problematico. «La nozione di legge di natura ha poche applicazioni - se mai ne ha alcu­ na - in neurobiologia o nella biologia molecolare. A volte le regolari149

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tà delle attività possono essere descritte da leggi, a volte no. Ad esempio, [...] non c’è legge che descriva il comportamento regolare delle proteine che si legano al dna». Le generalizzazioni descrivono il comportamento di attività che agiscono nel medesimo modo nelle stesse condizioni. «Quèsfè regolarità non sono accidentali, e sostengo­ no controfattuali che descrivono le attività. [...] Non viene compiuta alcuna ulteriore operazione filosofica che assuma qualcosa di più, che assuma l’esistenza di una qualche legge sottesa alla produttività delle attività» (Machamer, Darden, Craver, 2000, p. 7). Dalla convinzione che le generalizzazioni all’interno delle cosid­ dette scienze speciali (biologia, economia, psicologia, sociologia...) go­ dano di uno status diverso rispetto a quello di cui godono le genera­ lizzazioni elaborate nella fisica e nella chimica sono emerse numerose posizioni differenti. Se Machamer, Darden e Craver pensano princi­ palmente‘alla biologia molecolare e alle neuroscienze, in merito alla ^biologia evoluzionistica Elliott Sobèr (1984, pp. 50-1) osserva, ricor­ rendo ad un’efficace metafora:------ •’ Le leggi fondamentali della fisica hanno l’austera bellezza di un paesaggio deseno. Vengono riconosciuti solo quattro tipi di forze, e alcuni scienziati rendono questa lista persino più cona. Al contrario, la teoria della selezione naturale mostra il lussurioso fogliame di una foresta tropicale. [...] Forse un giorno il loro numero verrà ridotto, ma al momento la teoria evoluzionistica offre una molteplicità di modelli che suggeriscono un migliaio di percorsi attraverso i quali la morfologia, la fisiologia e il componamento degli organi­ smi può essere messo in relazione all’ambiente in modo che si awii un pro­ cesso di selezione.

Data la complessità dei sistemi viventi, il loro carattere evolutivo, l’u­ nicità, singolarità e storicità dei fenomeni biologici, Stephan J. Gould (1970) ha sostenuto che le generalizzazioni concernenti l’evoluzione dei sistemi biologici non riescono ad avere lo status di autentiche leg­ gi poiché sono viziate da numerose eccezioni, non esprimono la pre­ senza di nessi necessari, bensì di semplici tendenze, e non presentano carattere esplicativo, bensì solo descrittivo 9. John Beatty, d’altro can­ to, ha sostenuto che le generalizzazioni che descrivono gli organismi viventi sono o leggi matematiche, fisiche o chimiche, oppure generaliz­ zazioni biologiche concernenti esiti contingenti di processi evolutivi. Secondo la tesi di #eatty,' battezzata ^volutionary contingency thesis, non esistono autentidfeTeggz hiologichei~po\ché «qualsiasi cosa siano le leggi, si ritiene che esse debbano essere più che contingentemente vere» (1995, p. 46) *°. IJO

4. GENERALIZZAZIONI SCIENTIFICHE E TRIAL CLINICI





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In risposta alla posizione di Beatty,wero generalizzazioni che concernono la distribuzione di un tratto all’interno di una certa popolazione (es. “un sistema circolatorio chiuso — ovvero formato da un circuito con­ tinuo di vasi sanguigni — si trova nei vertebrati, in alcuni anellidi, . molluschi cefalopodi, echinodermi, nemertei e trematodi”), e le rego(jafità causalid.es ■ “i tessuti ad alto contenuto di elastina si espandono e si contraggono quando sono soggetti ad aumenti e diminuzioni del­ la pressione dei fluidi interni” "). A suo avviso, mentre le prime esprimono solo caratteristiche storicamente contingenti, sono acci­ dentali e si limitano a fare asserzioni in merito alla prevalenza di cer­ ti particolari, effettivi, casi singoli, le seconde indicano la presenza di rapporti causali sottesi e presentano molte delle caratteristiche tradi­ zionalmente attribuite alle leggi. Per capire se una proposizione usata in biologia designa una distribuzione o una regolarità, dobbiamo prestare attenzione al contesto entro il quale è impiegata. Secondo Waters (1998, p. 5), è perché «tutteJe generalizzazioni m biologi.a__ sembrano ammettere eccezioni» che vari auton“(ad”es. Brandon, 1990; Kitcher, 1984; Llóyd,’" 1988; Rosenberg, 1985) sottolineano come la biologia, piuttosto che usare sistematicamente leggi, elabori e applichi modelli astratti. La differenza tra la fisica e la chimica e le altre discipline in ter­ mini di leggi scientifiche viene risolta da autori quali Daniel Hausman (1992) e Paul Pietroski e Georges Rey (1995) ricorrendo al concetto di legge ceteris paribus'. mentre la fisica e la chimica procedono me­ diante l’elabofazìòne'dT leggi in senso proprio, nelle scienze speciali abbiamo solo leggi ceteris paribus. Il rapporto tra leggi chimico-fisiche e (presunte) leggi biologiche è stato invece affrontato da Marcel We/ber nell’ambito di una più ampia posizione a favore del riduzionismo nella biologia sperimentale. Pur riconoscendo l’autonomia della biolo­ gia, e delle scienze biomediche, per quanto concerne i metodi dell’in. dagine e della scoperta scientifica, Weber si fa sostenitore di un rigoi / roso (riduzionismo e5/>//cw//po:x.ogniqualvolta vogliamo spiegare il com­ portamento-di un sistema organico, ricorriamo in ultima analisi ad entità e leggi fondamentali tratte dalla fisica e dalla chimica. Anche a suo avviso, quindi, non si può parlare di leggi autenticamente biolo­ giche.

I termini genuinamente biologici (come assone o sinapsi) sono termini pura-_~ jnente descrittivi, usati per identificare il tipo di sistema a cui i concetti espli­ cativi, fisico-chimici, sono applicati [c] tutte le leggi di natura autentiche che 151

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svolgono un ruolo nella biologia sperimentale sono in realtà leggi della fisica e della chimica (Weber, 2005, pp. 28 e 272). Anziché allontanare la fisica e la chimica dalle scienze che si occupa­ ndo^ di-sistemi ritenuti più complessi e, soprattutto, variabili, Sandra felit_chell^ proposto una revisione del concetto di legge in direzione pragmatista, spostando l’attenzione dalla necessità di definire cosa do­ vremmo battezzare “legge” a quella di comprendere Vuso_ .delle leggi, nellaj^/w/zra srienrifica Invece di valutare le generalizzazioni candida­ te allo status di leggi sulla base di un insieme di criteri stabiliti prece­ dentemente, come a suo avviso si è tradizionalmente fatto, la Mitchell suggerisce di modificare la nozione di legge tenendo conto che tutte le leggi, non solo quelle della biologia^ sono- l’esitoi_di _un_percorso storico-cKé si sarebbe potuto svolgere diversamente. Tutte le leggi,' cioè, dipendono dalla presenza di certe condizioni e sarebbero potu­ te essere diverse se tali condizioni fossero state differenti. La diffe­ renza tra le leggi-della fisica-.e quelle della biologia va ricondotta così “ semplicemente a una differenza nel grado di stabilità delle condizio­ ni: «le condizioni nelle quali le leggi fisiche sono contingenti possono èssere più stabili nello spazio e nel tempo di quanto non siano le relazioni contingenti descritte dalle leggi biologiche». Ad esempio, «la condizione che il materiale nel cuore della terra sia ferro, da cui dipende a rigore la rappresentazione della legge di Galileo, è più sta­ bile nello spazio e nel tempo delle condizioni da cui dipende la legge di Mendel. L’accelerazione dei corpi in caduta, date le condizioni da cui dipende, ha carattere deterministico, mentre la legge di Mendel è probabilistica. Pertanto, le due leggi differiscono sia in stabilità che in forza» (Mitchell, 2003, pp. 125 e 136). Il tentativo di individuare una definizione precisa, univoca e rigida, di legge scientifica viene dunque sostituito, grazie ad uno sguardo più attento alla pratica scientifica, da un approccio nel quale la differenza tra generalizzazio­ ni accidentali e leggi è una differenza solo di grado. Diventa possibile collocare le une e le altre, a qualunque disciplina appartengano, lun­ go un continuum di gradi di stabilità delle condizioni da cui dipen­ dono (cfr. fig. 1). La posizione della Mitchell ha alcuni aspetti in comune con quel­ la di Woodward. Entrambi, infatti: a) respingono l’universalità e la mancanza di eccezioni quali criteri necessari affinché una generalizza­ zione possa essere considerata una legge, ed essere esplicativa; b) sono contrari alla clausola ceteris paribus, che ritengono volta a forza­ re indebitamente le leggi entro la visione standard; c) credono che le generalizzazioni siano caratterizzate da proprietà che hanno vari gra152

4. GENERALIZZAZIONI SCIENTIFICHE E TRIAL CLINICI

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di. Mentre però la Mitchell identifica vari continua in rapporto ai quali considerare le generalizzazioni (stabilità, ma anche forza, astra­ zione, semplicità, accessibilità cognitiva), secondo Woodward c’è un unico continuum rilevante, quello di invarianza; affinché una genera­ lizzazione risulti causale, e quindi esplicativa, è necessario, e sufficien­ te, che esibisca un certo grado di invarianza nel caso di (almeno alcu­ ni) interventi ,2. Per esemplificare il tipo di generalizzazioni invarianti adoperate nelle scienze, Woodward ricorre più volte proprio a casi medici. Per quanto concerne, ad esempio, i farmaci chemioterapici, in grado di essere efficaci nella cura di tipi diversi di tumore, gli studi procedono in larga misura concentrandosi su singoli casi, poiché, pur essendoci una comprensione generale del funzionamento di tali far­ maci, essi risultano efficaci contro alcuni tipi di tumore e in certi pa­ zienti, e non contro tumori classificati come simili presenti in altri in­ dividui. La validità di una generalizzazione del tipo: “La somministra­ zione di farmaci chemioterapici causa la guarigione dei pazienti” di­ penderà dagli esiti di interventi manipolativi volti a somministrare il farmaco e a dimostrare che esso fa una certa differenza rispetto alla probabilità di guarigione. Essa «sarà sottoponibile a controlli, non va­ cua, e potrà comparire all’interno di spiegazioni anche se una piccola parte dei pazienti che assumono il farmaco migliorano, fintanto che negli esperimenti opportunamente congeniati l’incidenza di guarigio­ ne è maggiore tra i pazienti curati con quel farmaco di quanto non lo sia tra i pazienti che non assumono il farmaco» (Woodward, 2002, p. 311). Analogamente, se affermiamo “il fumo causa il tumore ai polmoni” stiamo usando una generalizzazione secondo la quale esiste un insieme di ipotetici interventi in grado di produrre delle modifiche dell’abitudine di fumare degli individui, modifiche a cui è associata una variazione della loro probabilità di sviluppare un tu­ more ai polmoni. O ancora - suggerisce Woodward - prendiamo in considerazione l’affermazione che un certo circuito neuronaie segue la regola dell’apprendimento di Hebb, (L) A (?) = // y^ (/) (/), dove A (?) è il cambiamento di peso sinaptico del neurone k con i segnali presinaptici e postsinaptici x, e e // è una costante positiva. (L) non risponde ai requisiti tradizionalmente imposti alle leggi di natura, poiché, da un lato, ci sono molti casi di danni anatomici in cui i circuiti neurali non si comportano secondo (L) e, dall’altro, ci sono molti circuiti neurali che seguono altre regole d’apprendi­ mento. La generalizzazione va quindi anche qui compresa nei termi­ ni di possibili interventi, che mostrino come un cambiamento in Xy (/) porti a modifiche di A wkj (/) conformemente a (L): attraverso la 153

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sperimentazione, possiamo stabilire se questa regolarità vale per qualche tipo particolare di circuito (ad es., l’ippocampo) anche se non siamo in grado di enumerare tutte le circostanze in cui (L) viene violata né sappiamo specificare tutte le circostanze nelle quali vale. Sono generalizzazioni di questo tipo, secondo Woodward, ad essere comunemente usate nelle scienze. Oltre ad avere un posto importante, come abbiamo ricordato, al­ l’interno di spiegazioni e previsioni, nelle scienze biomediche le leggi svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione delle teorie scientifi­ che intese a descrivere le caratteristiche e i comportamenti di entità non osservabili quali recettori, ormoni, antigeni. Ad esempio, la teoria endocrinologica afferma l’esistenza di particolari ormoni e ne descrive le proprietà; «essa specifica le leggi che collegano la secrezione di certi ormoni con quella di certi altri, descrive le diverse azioni caratteristi­ che di queste sostanze e attribuisce ai vari fenomeni un significato nel­ l’economia generale dell’organismo» (Federspil, 2004, p. 80). La parti­ colare complessità delle teorie biomediche è sottolineata da Kenneth Schaffner, seconda-if-qnale-ess^ si configurano come teorie di media estensione ( Vengono caratterizzate come serie sovrapposte temporali su più livelli («overlapping series of interlevel temperai models»: 1993, p. 125), dove: per “middle range” si intende che «preso il continuum dei livelli di aggregazione», queste teorie «stanno tra la biochimica, ad un estremo, e la teoria evoluzioni­ stica dall’altro, tra le molecole e le popolazioni»; i modelli temporali sono intesi come raggruppamenti di entità coinvolte in un processo, e sono “interlevel” perché tipicamente includono «entità tratte da diversi livelli di organizzazione (molecolare, macromolecolare, cellulare, o i li­ velli dei tessuti e degli organi)» (ibid.). Anche Schaffner insiste nel rile­ vare come le generalizzazioni che compaiono nelle teorie biomediche abbiano portata variabile, «intermedie tra la semplice osservazione di regolarità empiriche e proposizioni universali sulla natura» (2006, p. 389). Solitamente si tratta di generalizzazioni causali di carattere quali­ tativo che non hanno carattere universale: «la maggior parte delle teo­ rie avanzate in medicina e in biologia non sono ora, né per quanto è dato vedere saranno nel futuro, teorie “universali”» (1993, P- 97)» «neppure entro una certa specie» (ivi, p. 88) ’3. La prospettiva di Schaffner viene abbracciata anche da Paolo Vineis, secondo il quale non si può affermare che le teorie mediche, sempre fondate su una solida base osservativa, includano leggi di natu­ ra universali paragonabili alle leggi della termodinamica o della geneti­ ca molecolare; al tempo stesso, «non possono essere liquidate come *54

4. GENERALIZZAZIONI SCIENTIFICHE E TRIAL CLINICI

FIGURA I

Continuo di gradi di contingenza Leggi ideali: contingenti, universali, vere

Legge di conservazione della massa-energia Legge di conservazione della massa Seconda legge della termodinamica Legge della periodicità Nessuna massa di U2” è superiore ai 55 kg Legge di Galileo della caduta dei gravi Nessuna massa d’oro è superiore ai 55 kg Legge di Mendel dell’assortimento indipendente Tutte le monete nella tasca sono di rame Generalizzazioni accidentali Fonte: Mitchcll (2003, p. 136).

semplici generalizzazioni empiriche» (Vineis, in corso di pubblicazio­ ne, p. 13). Le regolarità espresse in teorie quali quella che conceme il rapporto tra il tabagismo e il tumore ai polmoni o, più in generale, quelle in merito allo svilupparsi di varie forme di tumore appaiono qualcosa di più di semplici generalizzazioni, eppure, ancora una volta, non vengono equiparate a tutti gli effetti alle leggi di natura. Se per Schaffner e per Vineis le teorie mediche sono fondamen­ talmente modelli temporali, ovvero si riferiscono a fenomeni soggetti a un processo (ad es. la carcinogenesi) e coprono) più livelli della real­ tà, la più recente definizione fornita da \Thagard X2006, p. 60) recita: «una teoria medica è una rappresentazione; possibilmente distribuita tra menti umanL L databasc informatici, dei meccanismi il cui com­ portamento corretto e scorretto genera una. malattia e i suoi sintomi». Alle teorie viene assegnato il compito di riassumere i principali aspet­ ti tanto dello sviluppo quanto dell’applicazione delle conoscenze scientifiche, e, in particolare, di spiegare la malattia sia a livello gene­ rale, nella ricerca medica, sia a livello individuale, nella diagnosi com­ piuta sul singolo paziente. In questo senso, le leggi, o, se vogliamo adottare una nozione più “elastica” come molti ormai suggeriscono, le generalizzazioni scientifiche impiegate svolgono un ruolo cruciale e, a nostro avviso, ancora problematico — nel collegare i due suddetti livelli, nel far comunicare ricerca biomedica e pratica clinica. Nel prossimo paragrafo verrà analizzato nel dettaglio uno strumento di grande importanza di cui quest‘ultima si avvale per controllare corre­ lazioni rilevanti, ovvero gli studi clinici randomizzati.

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Il trial clinico controllato Il ricercatore ha a disposizione varie tipologie di studi per la ricerca scientifica. In prima istanza si distinguono gli studi osservazionali, in cui il ricercatore osserva senza intervenire sulla popolazione in studio e registra i dati, e gli studi sperimentali, nei quali le condizioni dello studio sono manipolate dallo sperimentatore. Fra questi ultimi i più importanti sono gli studi clinici controllati randomizzati (randomized controlled tnals, rcts). Nel 1743 James Lind, chirurgo della marina militare inglese, effet­ tuò il primo studio clinico controllato al fine di individuare la terapia più efficace per lo scorbuto (che si rivelò essere il succo d’agrumi). Sebbene la casistica di Lind fosse esigua (12 malati divisi in 6 coppie, per testare 6 terapie diverse) e l’elaborazione statistica dei dati pres­ soché nulla, il risultato fu talmente eclatante da spazzare ogni dub­ bio. Il primo studio randomizzato controllato in doppio cieco venne eseguito da William H. R. Rivers nel 1907 per valutare l’influenza dell’alcool e di altri farmaci sull’affaticabilità. Pochi altri studi com­ parvero durante gli anni venti e trenta e la maggior parte non erano in doppio cieco. A Harry Gold invece si riconosce il merito di aver condotto numerosi studi di questo tipo e aver studiato estensivamen­ te il disegno dello studio clinico randomizzato controllato fra gli anni quaranta e gli anni cinquanta. Negli anni settanta la fda (Food and Drug Administration — istituzione americana per la vigilanza sui far­ maci) ha iniziato a raccomandare che la sicurezza e l’efficacia dei nuovi farmaci fossero testate, quando eticamente possibile, attraverso questa tipologia di studi, che oggi sono il gold standard degli studi clinici. Gli studi clinici controllati randomizzati sono studi sperimentali che permettono di misurare e di paragonare gli effetti di due o più trattamenti in una determinata popolazione. Con il termine “tratta­ mento” si intendono convenzionalmente non solo le terapie, ma tutti gli interventi Idiagnostici, programmi di screening, preventivi, di edu­ cazione sanitaria) o anche l’assenza di intervento. I “partecipanti” sono i pazienti coinvolti nel trial e non sono necessariamente malati. Coloro che progettano ed amministrano il trial sono chiamati “speri­ mentatori”. I parametri da misurare per valutare l’efficacia del tratta­ mento vengono indicati col termine di outeome. Studi di questo tipo si caratterizzano per essere: - sperimentali (trial}-, le modalità di assegnazione dei soggetti alla popolazione da studiare vengono stabilite dallo sperimentatore. Una volta reclutata la popolazione, sulla base di tutte le variabili di signifi156

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4. GENERALIZZAZIONI SCIENTIFICHE E TRIAL CLINICI

cato prognostico noto considerate dal ricercatore (natura e gravità della malattia, età, parità ecc.), si verifica l’effetto di un trattamento (ad esempio, la somministrazione di un farmaco) confrontandolo con l’effetto di un altro diverso trattamento (ad esempio, un altro farma­ co, nessun farmaco o un placebo); - controllati (controlled)-. i soggetti coinvolti nello studio sono sud­ divisi in due gruppi: il gruppo o braccio sperimentale che riceve il trattamento, e il gruppo o braccio di controllo che riceve un diverso o nessun trattamento. Il controllo può essere il trattamento conven­ zionale, cioè quello già comunemente erogato ai pazienti, oppure può essere un trattamento placebo, oppure in maniera esplicita nessun trattamento. Se la sperimentazione è eseguita correttamente, i due gruppi risultano il più possibile omogenei, almeno per tutte le varia­ bili considerate, e quindi comparabili; - randomizzati (randornized)’. l’allocazione dei soggetti nei gruppi di studio si basa sul caso, e se efficace, aumenta la probabilità che altre variabili, non considerate nel disegno dello studio, si distribuiscano in maniera uniforme nel gruppo sperimentale e in quello di controllo. In questo modo, le differenze eventualmente osservate tra i due grup­ pi possono essere attribuite al trattamento. Agli effetti che possono falsare il risultato del trial si fa riferimento, in genere, col termine di bias. La randomizzazione da sola non garantisce però che i gruppi così generati siano perfettamente identici e che le differenze osservate non siano dovute a sbilanciamenti casuali tra i gruppi. L’analisi stati­ stica tiene conto di questa possibilità e la quantifica nella presentazio­ ne dei risultati. Gli studi che non adottano la randomizzazione sono chiamati trial clinici controllati (in altre parole, manca il termine “randomizzati”). Il termine “doppio cieco” si riferisce al fatto che i soggetti in stu­ dio, coloro che somministrano il trattamento e coloro che misurano e analizzano i risultati, sono tenuti all’oscuro dell’appartenenza del sog­ getto al gruppo di controllo piuttosto che al gruppo sperimentale fino al termine dello studio. Ciò è particolarmente importante quando gli “outcome” misurati sono variabili soggettive (es. dolore), che possono essere facilmente distorte se si fosse a conoscenza del trattamento. I rct rientrano indubbiamente tra gli studi ritenuti essere “scien­ tificamente” più validi, tuttavia sono gravati da alcuni limiti. Infatti, si possono studiare solo effetti a breve termine di un trattamento e dato che i soggetti coinvolti necessitano di un follotv tip, cioè devono essere seguiti per un certo periodo, sono per lo più gravati da costi elevati e dal fenomeno dei “persi” al follotv upt cioè alcuni soggetti 157

FILOSOFIA DELLA MEDICINA





per vari motivi, fra cui il decesso, possono scomparire dallo studio. Occorre tenere presente che i trial clinici, sebbene rappresentino un importantissimo strumento di ricerca, non sono una panacea in gra­ do di fornire tutte le risposte e che, quindi, in alcuni casi, è opportu­ no utilizzare altri strumenti di ricerca, in alternativa o congiuntamen­ te. In generale, in una scala gerarchica degli studi scientifici in termi­ ni di validità metodologica, i rct si aggiudicano il primo posto nel­ l’era della medicina basata sulle prove di efficacia (Evidence Based Medicine, ebm). In questa prospettiva, i rct sono da tempo oggetto di dibattito nell’ambito della filosofia della scienza. Le discussioni critiche vertono principalmente sullo statuto epistemologico privilegiato dei rct, e più in generale sulla superiorità metodologica della ebm rispetto alla me­ dicina tradizionale. In particolare, gli epistemologi britannici afferenti alla London School of Economics sostengono che il rct non è né necessario né sufficiente ai fini della ricerca clinica, in quanto a) non è sempre in grado di controllare appropriatamente i bias insiti negli studi clinici; b) non è in grado di generare conoscenze generalizzabili al mondo reale; c) può rappresentare una limitazione non necessaria alla sperimentazione clinica. John Worrall (2007) ha osservato che il processo di randomizzazione non è in grado di controllare il bias di selezione del campione allorché in una data popolazione clinica esi­ stano molteplici variabili in grado di influenzare la prognosi. In via teorica, una soluzione a questo problema consisterebbe nel procedere a ulteriori randomizzazioni sequenziali, ciascuna delle quali introdur­ rebbe nuovi bias, ma renderebbe l’analisi complessiva dei risultati so­ stanzialmente imparziale. Nancy Cartwright (1979) ha evidenziato che l’applicabilità dei risultati di un rct agli scenari clinici del mondo re­ ale può essere molto limitata, dal momento che dipende dalla rap­ presentatività del campione studiato. Jeremy Howick (2008) ha conte­ stato nella pratica la possibilità concreta di realizzare un protocollo in doppio cieco, in virtù del fatto che numerosi fattori, quali ad esempio la presenza degli effetti collaterali di un farmaco, rendono improbabi­ le che i partecipanti ad un rct ignorino di avere ricevuto una so­ stanza attiva. Le argomentazioni critiche nei confronti dei rct convergono sul fatto che l’applicazione sistematica delle metodologie proprie dei rct non consente di derivare conoscenze utili ai fini della medicina a partire dagli studi clinici. In questo senso, la critica epistemologica ai rct si risolve in una confutazione della infallibilità metodologica della ebm. Ij8

4. GENERALIZZAZIONI SCIENTIFICHE E TRIAL CLINICI

L’effetto placebo Il temine placebo, che deriva dal verbo latino piacere e che significa letteralmente “compiacerò”, venne per la prima volta utilizzato in ambito medico alla fine del xvin secolo riferendosi a “qualsiasi medi­ cina atta più a compiacere che a dar beneficio al paziente”. Il compi­ to del placebo, quindi, era dunque quello di compiacere il malato, in assenza di effetti terapeutici sull’organismo. Questa definizione rimase immodificata fino alla metà del secolo scorso, quando per la prima volta venne riconosciuta al placebo la capacità di svolgere un’azione terapeutica vera e propria, attraverso l’induzione di modificazioni quantificabili a livello dei processi patologici responsabili di uno stato di malattia. Venne così introdotta l’espressione “effetto placebo”, per indicare un effettivo cambiamento nello stato di malattia del paziente attribuibile alla valenza simbolica del trattamento piuttosto che ad una proprietà farmacologica specifica. L’esempio più citato è quello della sintomatologia dolorosa: si osserva un effetto placebo tutte le volte che a un soggetto viene somministrata una sostanza nota per non avere proprietà analgesiche (ad esempio una soluzione salina) e il soggetto stesso riferisce una diminuzione nella percezione del dolore nel momento in cui gli viene suggerito che la sostanza che ha assunto è un potente analgesico. Alla luce di questo nuovo concetto, si è andata progressivamente consolidando una visione secondo cui l’effetto di un farmaco non è unitario ma consiste di due componenti, una fisiologicamente mediata (specifica) e una psicologicamente mediata (non specifica) vale a dire l’effetto placebo. Una delle caratteristiche su cui il placebo differisce dai farmaci convenzionali è la maggiore imprevedibilità della risposta. Infatti l’effetto placebo distingue soggetti che rispondono (responders) e soggetti che non rispondono (noH-respotiders} alle istruzioni verbali che vengono fornite loro. La risposta placebo è di regola bidirezionale, può avere infatti sia effetti positivi sia effetti nocivi, in relazione alle specifiche istruzioni verbali che ne accompagnano la somministrazione. La controparte del placebo è chiamata nocebo (futuro del verbo latino nocere, letteral­ mente “nuocerò”), indicando così un atto terapeutico che provochi un effetto negativo su di un sintomo o uha malattia indipendente­ mente dalla sua specifica efficacia. Per ritornare all’esempio classico, la sintomatologia dolorosa, l’effetto nocebo si verifica tutte le volte che ad un soggetto viene somministrata una sostanza innocua insieme alle istruzioni verbali che la sostanza stessa causerà un incremento di dolore che sarà effettivamente percepito dal soggetto. 159

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Le istruzioni verbali non sono l’unico fattore in grado di determi­ nare una risposta placebo. Per esempio, un procedimento terapeutico effettuato in un ospedale presenta una componente placebo maggiore rispetto a una terapia somministrata a domicilio. Ancora, è stato di­ mostrato che le capsule contenenti granuli colorati sono più efficaci delle pastiglie colorate, le quali sono più potenti delle pastiglie bian­ che squadrate, a loro volta superiori alle pastiglie bianche di forma circolare. Analogamente, in generale le iniezioni intramuscolo di solu­ zione salina sono più efficaci di ogni pastiglia, ma meno efficaci delle iniezioni endovena. Secondo alcuni studiosi l’effetto placebo possiede degli elementi in comune alle varie forme di psicoterapia. L’intensa relazione di fi­ ducia con il terapeuta e la capacità di quest’ultimo di rafforzare le aspettative di successo nei confronti della terapia ponendo così una grande enfasi sull’aspettativa del paziente di trarre un beneficio dal­ la terapia, sembrano essere alla base di entrambe le strategie tera­ peutiche. Negli ultimi decenni, grazie a tecniche avanzate quali la risonanza magnetica funzionale (Functional Magnetic Resonance Imaging, fmri) e la tomografia ad emissione di positroni (Positron Emission Thomography, pet), vari autorevoli gruppi di ricerca hanno intrapreso lo stu­ dio delle basi cerebrali neurobiologiche coinvolte in questo fenome­ no. Dal momento che il sollievo dal dolore (come nella malattia cefa­ lalgica) è una delle più comuni applicazioni cliniche dell’effetto place­ bo, rappresenta quindi il campo maggiormente indagato. In base alle ipotesi più accreditate, la semplice aspettativa dell’analgesia sarebbe in grado di attivare il circuito degli oppioidi endogeni, responsabili della ridotta percezione dolorifica riportata dal soggetto sottoposto al placebo. Esistono altri esempi di risposta al placebo che dimostrano come anche fenomeni diversi dalla percezione sensoriale dolorosa possano essere modificati da procedure placebo. Si è visto come è possibile che interventi di chirurgia simulata, come l’intervento di legatura del­ le arterie mammarie senza l’esecuzione di alcuna legatura, possano migliorare la performance fisica e il tracciato elettrocardiografico oltre al dolore in soggetti affetti da angina pectoris e come pazienti affetti da ipertensione arteriosa abbiano dei valori pressori adeguati qualora la terapia farmacologica venga sospesa e proseguita con un placebo ad insaputa del paziente. Il placebo si è dimostrato efficace anche nel ridurre i valori glicemici, la colesterolemia, la secrezione acida dello stomaco e nel campo dell’immunologia. Studi recenti hanno messo in luce l’efficacia del placebo anche nel campo delle malattie neurologi160

4. GENERALIZZAZIONI SCIENTIFICHE E TRIAL CLINICI

che, che rappresentano una finestra privilegiata nello studio dell’effet­ to placebo dato che coinvolgono il medesimo sistema, quello nervoso, che è ritenuto substrato biologico dell’effetto placebo. L’attivazione di specifici circuiti neurochimici da parte dell’aspettativa indotta da una procedura placebo non è confinata al sintomo del dolore. L’a­ spettativa di una buona prestazione motoria in pazienti affetti da ma­ lattia di Parkinson modula l’eccitabilità dei nuclei della base inducen­ do il rilascio di dopamina, che è notoriamente deficitaria in questi soggetti, producendo così un miglioramento dei sintomi, fra cui il tre­ more. Dunque pare che l’attivazione del circuito dopaminergico sa­ rebbe di primaria importanza nell’effetto placebo che si nota fra que­ sti soggetti, mentre il coinvolgimento del circuito serotoninergico sembra essere alla base dell’effetto antidepressivo indotto dal placebo nei pazienti affetti da sindrome depressiva. L’identificazione di un preciso correlato neurale di un processo precedentemente descritto in termini esclusivamente psicologici, qua­ le l’effetto placebo, impone di riformulare in maniera più corretta il problema dell’interazione tra un evento mentale (l’aspettativa place­ bo-indotta) e un evento fisico (la risposta clinica dell’organismo). Alla luce delle attuali conoscenze, la procedura placebo innesca una cate­ na di eventi cerebrali in grado di alterare gli equilibri neurotrasmettitoriali in regioni-chiave del sistema nervoso centrale, dunque parlare di effetto placebo ricorrendo a concetti quali suggestione, autocon­ vincimento oppure inganno non appare più corretto. La comprensione dei meccanismi responsabili dell’efficacia dell’ef­ fetto placebo ha aperto nuove prospettive interpretative per fenomeni noti già da tempo, quale ad esempio l’efficacia della psicoterapia in pazienti selezionati. In Talking Cures and Placebo Effects (2008), Jopling ha recentemente sostenuto l’ipotesi che le modificazioni tera­ peutiche indotte dalle psicoterapie di tipo psicodinamico sitino in molti casi mediate da un potente effetto placebo che innesca le fun­ zioni di autoregolazione dei processi mentali. In altre parole, le spie­ gazioni ed interpretazioni in chiave psicodinamica della patologia mentale costituirebbero potenziali placebo per i pazienti che si sotto­ pongono all’analisi. Tale interpretazione apre una nuova e controver­ sa prospettiva nell’ambito della quale inquadrare la pratica della psi­ coterapia, suggerendo che gli effetti benefici della psicoterapia siano spesso in realtà il risultato di un effetto placebo. Infine, l’effetto placebo viene comunemente utilizzato come con­ dizione di controllo negli studi clinici randomizzati (Randomized Controlled Trial, rct) in cui viene testata per la prima volta l’efficacia di un nuovo farmaco o di un qualsiasi trattamento. 1 pazienti vengono 161

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suddivisi con criterio casuale in due gruppi (randomizzazione), di cui uno viene trattato con il farmaco e l’altro trattato con il placebo. Al fine di evitare ogni forma di interferenza, né i soggetti in esame né gli esaminatori sono al corrente di chi riceve il farmaco e chi il placebo (in questo caso lo studio clinico controllato viene definito “in doppio cieco”). Il nuovo farmaco viene promosso ed entra a far parte della farmacopea solamente nel caso in cui il farmaco sia più efficace del placebo. E in corso un acceso dibattito etico su questo argomento. A riguardo ci sono varie posizioni; quella prevalente è il ritenere che non sia etico l’uso del placebo negli studi clinici nel momento in cui esista un valido trattamento conosciuto, quando il paziente non è in­ formato e quando il placebo sia troppo invasivo o doloroso. Un pro­ blema etico aperto riguarda i principi che motivano la scelta del me­ dico di ricorrere ad un trattamento simulato (ovvero il placebo): si assiste infatti al conflitto fra il primato del principio dell’autonomia del paziente (principio che limiterebbe l’utilizzo dell’effetto placebo nella pratica clinica) oppure della benevolenza del medico (principio che giustificherebbe l’utilizzo dell’effetto placebo). Una posizione in favore di un utilizzo benefico dell’inganno che sta alla base dell’effet­ to placebo è ben rappresentata dalle parole di Thomas Jefferson: «Uno dei medici migliori che abbia mai conosciuto mi ha assicurato che ha utilizzato più pillole di pane, gocce di acqua colorata e inno­ cue polverine rispetto a tutte le altre medicine messe insieme - io considero questa una pia frode».

Note * A Raffaella Campaner si deve il paragrafo Leggi, generalizzazioni, regolarità-, ad Andrea Cavanna si devono i paragrafi II trial clinico controllato e L’effetto placebo. 1. Volendo qui occuparci del ruolo che le leggi hanno nella scienza, non trattere­ mo delle posizioni secondo le quali esse non sono affatto una componente essenziale dell’impresa scientifica, che può fame, viceversa, tranquillamente a meno. Per delle posizioni antirealistc in merito alle leggi, si vedano van Fraassen ( 1989), Giere (1999) e Mumford (2004). 2. Psillos (2002, pp. 137-8) ricorda come la concezione regolarista della causalità, di stampo humiano, implichi la concezione regolarista delle leggi, mentre il contrario non vale: il fatto che le leggi di natura siano semplicemente delle successioni regolari non comporta, né nega, che siano di carattere causale; in altri termini, non tutte le leggi sono causali, possono esserlo o meno. 3. Sul rapporto tra leggi c controfattuali, si vedano, in particolare, Goodman (1947, 1983) e Chisholm (1946, 1955). Ovviamente è possibile avere controfattuali veri che non corrispondono a enunciati universali necessari. 4. Su questo si veda, ad esempio, Salmon (1989, pp. 219-20 e 306). IÓ2

4. GENERALIZZAZIONI SCIENTIFICHE E TRIAL CLINICI

5. Assumeremo qui, in ogni caso, che le leggi siano dotate di contenuto empirico e derivate dalla raccolta di osservazioni e dati sperimentali. Per una posizione a favore, viccversa, dell’esistenza di leggi a priori in biologia, cfr., ad esempio, Sobcr (>997). 6. In merito alle difficoltà relative alla definizione precisa di tale “necessità" che connetterebbe degli universali, si veda Psillos (2002, pp. 164-172). 7. Sostegno a questa impostazione viene dato, ad esempio, in Lange (2000, 2002); Lipton (1999). Per alcune obiezioni all’idea di legge ceteris paribns, si vedano invece, ad esempio, Earman, Roberts (1999); Earman, Roberts, Smith (2002); Mitchell (2002).

8. Per alcune critiche all’introduzione del concetto di “capacità”, si veda, ad esempio, Psillos (2002, pp. 192-6). 9. Per una critica alle argomentazioni di Gould, cfr. Mclntyre (1997). 10. Cfr. anche Beatty (1997). 11. Esempi portati in Waters (1998, p. 7), tratti da Wilson (1972, pp. 482 e 484)12. Secondo la Mitchell, la stabilità «include il dominio dell’invarianza di Woodward. Tuttavia, la stabilità può essere una caratteristica di relazioni che non sono in­ varianti nel caso di interventi» (Mitchell, 2002, p. 346). Per un’analisi dei concetto di invarianza e una trattazione della posizione di Woodward, si veda il cap. 5, par. 1 meccanismi delle malattie. 13. Sul concetto di generalizzazione in Schaffner, si veda anche il cap. 5, par. Le spiegazioni in medicina.

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Spiegazioni e cause in medicina di Margherita Benzi e Raffaella Campaner'1'

Le spiegazioni in medicina

Quello della spiegazione è stato uno dei principali temi di indagine per la filosofìa della medicina sin dai suoi albori *. I modelli filosofici a cui si è inizialmente guardato sono stati quelli inferenziali hempeliani, base del cosiddetto “vecchio consenso” sulla spiegazione scientifi­ ca. Secondo il modello nomologico-deduttivo (“D-N”, Hempel, Op­ penheim, 1948) la spiegazione di un evento singolo ha la forma di un argomento inferenziale deduttivo valido, la cui conclusione è costitui­ ta dall’enunciato che descrive l’evento da spiegare (explanandum) e le cui premesse (explanans) sono costituite da una o più leggi scientifi­ che di carattere ineccepibile e da alcune circostanze particolari che accompagnano l’evento. L’evento viene spiegato sussumendolo, ovve­ ro facendolo ricadere, sotto le leggi incluse nelle premesse. L„ La, L3, ...

Leggi ineccepibili

Explanans C2, C}, ...

Circostanze particolari

E

Evento da spiegare

Explanandum

Perché una spiegazione nomologico-deduttiva sia valida, l’argomento deve avere forma logica corretta e tutte le sue parti devono essere dotate di contenuto empirico; sia Vexplanandum che le circostanze particolari devono essere veri, e le leggi incluse devono essere suffi­ cientemente confermate. Il ruolo esplicativo fondamentale è assegnato alle leggi, alle quali l’evento può essere ricondotto in virtù delle con­ dizioni iniziali. 11 modello nomologico-deduttivo nasce, inoltre, come modello di spiegazione e, insieme, di previsione: spiegare l’evento equivale a renderlo “nomicamente attendibile”, ovvero a mostrare 165

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

come, in presenza delle leggi incluse nelle premesse, ci si dovesse at­ tendere il suo verificarsi. Il modello D-N è stato talora invocato come modello di spiegazio­ ne in medicina. Ad esempio:

Ogniqualvolta immuno-complessi sono presenti nel pericardio in quantità significativa, si verifica una pericardite !

La signora Halprin ha nel suo pericardio immuno-complessi in quantità significativa La signora Halprin ha una pericardite (Albert, Munson, Resnik, 1988, pp. 116-9).

75

I’

La malattia della signora Halprin viene qui spiegata invocando una legge, e facendo così ricadere il suo caso in un insieme più ampio di casi dello stesso tipo. La maggioranza degli eventi di cui si occupa la ricerca biomedica non è, però, regolata da leggi di tipo ineccepibile, bensì da leggi stati­ stiche. Il primo modello di spiegazione volto a rendere conto degli eventi governati da leggi statistiche è stato il modello statistico-indut­ tivo (“I-S”, Hempel, 1962), secondo il quale la spiegazione ha la for­ ma di un argomento induttivo. La conclusione è l’evento da spiegare, mentre le premesse sono costituite da circostanze particolari e da una o più leggi di carattere statistico. Anche qui V explanandum viene sus­ sunto sotto leggi, ma, a differenza del modello D-N in cui la con­ clusione è cena, nel modello I-S le premesse conferiscono alla con­ clusione un certo grado di supporto induttivo. Al fine di mantenere la simmetria tra spiegazione e previsione, Hempel richiede inoltre che le spiegazioni I-S soddisfino il cosiddetto “requisito di alta probabili­ tà induttiva”, secondo il quale il grado di supporto induttivo, [r], deve essere molto alto, prossimo a uno.

L„ L2ì L„ ...

G, c2t cv... E

Leggi statistiche

Explanans Circostanze particolari [r] Grado di supporto induttivo Evento da spiegare Explanandum

Un’ulteriore caratteristica di questo modello di spiegazione è la “rclativizzazione epistemica”: nelle spiegazioni I-S l’individuazione dell’evi166

SPIEGAZIONI E CAUSE IN MEDICINA

denza rilevante dal punto di vista esplicativo per il verificarsi di un certo evento non può non riferirsi che a quella disponibile in un certo contesto conoscitivo 2. Come quello D-N, anche il modello I-S ha suscitato un certo inte­ resse in medicina. Un esempio di possibile applicazione viene suggerito da Giovanni Federspil e Roberto Vettor (1994, pp. 113-4), secondo i quali «la maggior parte delle leggi fisiopatologiche che vengono uti­ lizzate in medicina [ha] natura induttiva e pertanto la maggior parte delle spiegazioni mediche [sono] spiegazioni statistico-induttive»: La probabilità di avere un infarto del miocardio in chi ha una colesterolemia superiore a 400 mg/100 mi è pari a 0,90

L’individuo P ha il colesterolo pari a 450 mg/100 mi

[r] P ha avuto un infarto al miocardio

Così come D-N, anche I-S presenta numerosi limiti. Il più serio deri­ va dal requisito di alta probabilità induttiva: se ammettiamo, come il modello richiede, che una spiegazione statistica adeguata debba asse­ gnare un alto grado di supporto induttivo alla conclusione, ci trovia­ mo costretti a relegare nell’ambito dell’inesplicabile tutti gli eventi che hanno bassa probabilità di verificarsi. In medicina, questo porte­ rebbe a escludere, ad esempio, tutte le malattie rare, che tuttavia si verificano e delle quali si cerca, e si può trovare, una spiegazione 3. Questo e altri limiti del modello I-S hanno spinto Wesley Salmon a proporre un modello di spiegazione statistica basato, invece, sul concetto di rilevanza statistica, noto come modello “S-R” (1971). So­ stenendo con forza che la validità di una spiegazione statistica è del tutto indipendente dal valore di probabilità attribuito al verificarsi dell’evento da spiegare, Salmon incentra il suo modello sull’idea che una spiegazione deve includere tutta e solo l’informazione statisticamente rilevante per l’evento in questione 4. La spiegazione viene otte­ nuta compiendo successive partizioni della classe di riferimento ini­ ziale, a cui l’evento da spiegare è assegnato, mediante tutte e solo proprietà statisticamente rilevanti, fino a giungere alla classe di riferi­ mento massimamente omogenea, ovvero ad una classe che non am­ mette ulteriori partizioni rilevanti e non include nessuna partizione irrilevante. La spiegazione è dunque data dall’incremento di informa­ zione ottenuto passando dalla classe di riferimento iniziale, non omo­ genea, a quella finale, omogenea: il procedimento esplicativo ci per­ mette di assegnare l’evento da spiegare ad una classe definita da n 167

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

!

proprietà rilevanti, e di assegnargli una certa probabilità r di verifi­ carsi in base alla sua appartenenza a tale classe (P (B I A • Ct • C2 •

...• C„) = r). Il modello S-R sottolinea la centralità del concetto di rilevanza nell’individuazione per fini esplicativi delle caratteristiche dell’indivi­ duo e delle condizioni in cui si trova. Disancorando la bontà della spiegazione dal particolare valore di probabilità che l’evento ha di ve­ rificarsi, diviene in linea di principio possibile spiegare nel medesimo modo tanto le malattie molto comuni quanto quelle rarissime. Nep­ pure questo modello, tuttavia, è esente da difficoltà. In primo luogo, in molti dei casi oggetto di indagine delle varie scienze, incluse le scienze biomediche, è assai difficile soddisfare la condizione di omo­ geneità. Consideriamo un individuo che guarisce da un’infezione da streptococchi grazie alla penicillina: è molto plausibile che, oltre al­ l’infezione, alla somministrazione di penicillina e alla legge probabili­ stica che regola la guarigione da questa infezione nel caso di assun­ zione di penicillina, entri in gioco un gran numero di altri fattori, quali lo stato del sistema immunitario del paziente, vari aspetti del suo generale stato di salute, il particolare tipo di infezione e così via. Come si potrà essere certi di avere tenuto conto di tutti e solo i fatto­ ri rilevanti? In molti casi dovremo accontentarci, come riconosciuto dallo stesso Salmon, di raggiungere classi di riferimento epistemicamente omogenee, ovvero omogenee relativamente al corpus di in for­ mazioni a cui abbiamo effettivamente accesso (Salmon, 1989, p. 114).

Un ulteriore problema di carattere generale deriva dal fatto che anche il modello S-R fa uso di leggi, di forma — come abbiamo visto — P (B I A ■ C, ■ C2 • ...• C„) = r. Il ragionamento esplicativo si arresta quando ci troviamo nelle condizioni di attribuire all’evento da spiega­ re un certo valore di probabilità finale, r, perché riconosciamo la sua appartenenza alla classe A • C, • C2 • C„. Le leggi sono però dota­ te, di per sé, di autentico potere esplicativo? Tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, il dibattito sulla spiegazione scientifica ha assunto in larga parte come fulcro il concetto di causa: mentre le leg­ gi ci permettono di descrivere che cosa accade, la spiegazione richiede di esplicitare perché un certo evento si è verificato, ovvero di indi­ carne le cause. Salmon assegna così al modello S-R il ruolo di primo livello della spiegazione, dove il secondo livello è costituito dall’indi­ viduazione dei processi causali sottesi ai fenomeni e delle interazioni causali tra tali processi. I processi vengono definiti come entità spa­ zio-temporalmente continue in grado di trasmettere un marchio, ov­ vero una modifica della propria struttura; le interazioni causali vengoIÓ8

SPIEGAZIONI E CAUSE IN MEDICINA

no definite come eventi puntuali in cui due processi causali, interse­ candosi, vengono modificati, e trasmettono tali modifiche dal punto dell’intersezione in poi5. Le relazioni di rilevanza statistica contenute nella base S-R fungono da indicatori delle relazioni di rilevanza cau­ sale, alle quali facciamo appello ai fini esplicativi. Processi e interazioni causali costituiscono una rete meccanicisti­ ca, in larga parte di carattere probabilistico, sottesa ai fenomeni: spie­ gare un evento equivale a identificare la porzione di rete responsabile del suo verificarsi. A differenza della concezione hempeliana, che ri­ specchia un approccio epistemico, quella proposta da Salmon è di stampo ontico: fulcro della conoscenza scientifica è la collocazione dei fenomeni in un quadro più ampio di relazioni fisiche e oggettive. Ciò ben corrisponde alla prospettiva assunta nelle scienze biomedi­ che: spiegare il presentarsi di una patologia significa esibire l’insieme di fattori e relazioni che, di fatto, la producono. L’analisi della causalità compiuta da Salmon include anche un; distinzione tra causalità eziologica e costitutiva. Quando vogliamo spiegare un certo evento E possiamo pensare che E occupa un certo volume spazio-temporale. Se vogliamo mostrare perché E si è verifica­ to, indichiamo i processi e le interazioni causali rilevanti collocati nel passato di E. Questo è l’aspetto eziologico, che illustra la storia causa­ le che ha portato al verificarsi dell’evento. Se vogliamo invece mo­ strare perché E manifesta certe caratteristiche, individuiamo i meccani­ smi causali interni, collocati nel volume occupato da E. Questo è l’a­ spetto costitutivo. La medicina tiene conto di entrambi questi aspetti, concentrandosi a volte sull’uno o sull’altro 6, ma, più spesso, su en­ trambi, mirando ad «unire l’individuazione della causa [del processo patologico] alla comprensione del meccanismo con cui il processo si è sviluppato ed evolve nel tempo. [La medicina] [...] interpreta la malattia del paziente alla luce del suo meccanismo eziopatogenetico» (Azzone, 1991, p. 214). L’idea che la spiegazione medica non possa essere semplicemente definita come un argomento deduttivo, né possa fermarsi ad un li­ vello statistico, ma debba giungere a individuare le cause del fenome­ no, è fortemente sostenuta da Paul Thagard. Se l’identificazione di correlazioni rilevanti è il primo passo su cui fondare il ragionamento esplicativo, è importante non dimenticare che le correlazioni non hanno di per sé forza esplicativa. Thagard sottolinea come, una volta rilevata un’associazione particolarmente frequente, si debba poi pun­ tare alla conoscenza dei meccanismi, ovvero di ciò che accade tra la comparsa delle cause e quella degli effetti, e che conduce dalle une agli altri. L’emergere di una patologia è sempre il risultato di un in169

i

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

i ;

FIGURA 2

Rappresentazione dei rapporti causali nella manifestazione clinica delle malattie venose croniche

Fattori di rischio per le malattie venose croniche: - Fattori genetici - Sesso femminile (progesterone) - Gravidanza -Età - Altezza - Stare a lungo in piedi - Obesità Ipertensione venosa

Dilatazione venosa —►

Deformazione valvolare, infiltrazione

T

Infiammazione 4— Alterata pressione di rottura

Reflusso cronico

Modificazioni delle pareti valvolo-venose

Ipertensione capillare -> Infiltrazione capillare

Infiammazione

Ulcere venose

Edema

P(cisti)

ottenendo:

(15)

P(tumore)/P(cisti) > io

Per come è stato definito il problema, quindi, non è sufficiente - come prevedeva la prassi clinica usuale — che un tumore sia più probabile di una cisti perché iniziare dall’arteriografia rappresenti la scelta ottimale; è necessario, piuttosto, che sia almeno dieci volte più probabile! Per concludere la nostra discussione delle decisioni diagnostiche, vorremmo rilevare come la teoria della scelta razionale chiarisca il problema della pianificazione diagnostica anche al di là di specifici risultati quantitativi come quello appena presentato. Essa mette in 307

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

luce, infatti, una condizione generale che deve essere soddisfatta af­ finché un’indagine sia meritevole di considerazione. Ci riferiamo a ciò che Léonard Savage ha denominato “principio della cosa sicura” (sure thing principlé) e illustrato attraverso l’esempio di un imprenditore che debba decidere a proposito di un investimento in tempo di ele­ zioni. Se l’investimento gli appare conveniente quale che sia lo schie­ ramento politico che andrà al governo, osserva Savage, allora non c’è motivo per cui il decisore ricerchi informazioni per prevedere l’esito della consultazione elettorale, o ne attenda lo svolgimento (si veda Savage, 1954, p. 21). Non tutte le informazioni possibili, quindi, me­ ritano di essere ricercate. Perché una tale ricerca possa risultare utile ai fini di una decisione, essa deve riguardare un’informazione che, una volta ottenuta, sia in grado di influenzare in un senso o nell’altro le scelte future. Nel contesto clinico, ciò si applica immediatamente ai test diagnostici, che per definizione possono avere esiti diversi. Ebbe­ ne, devono esserci almeno due diversi esiti possibili (nel caso più semplice, il test è positivo oppure negativo) a seguito dei quali risulta opportuno perseguire corsi d’azioni fra loro differenti (per esempio, eseguire o non eseguire un intervento chirurgico). E in effetti possibi­ le dimostrare formalmente che se una certa ricerca di informazioni non soddisfa questa condizione minima, allora la sua esecuzione non può apportare un contributo positivo in termini di utilità attesa. L’apparente ovvietà del “principio della cosa sicura” non ne elimi­ na la rilevanza come guida del comportamento, soprattutto perché, come ora vedremo, in certe condizioni i decisori in carne e ossa si rivelano inclini a violarlo, con spiacevoli conseguenze. Immaginate, per esempio, di essere uno studente e di aver appena sostenuto un esame molto impegnativo. Se foste stati promossi, comprereste un bi­ glietto in offerta per una vacanza in un posto rinomato? E se invece foste stati respinti? Tversky e Shafir (1992) hanno osservato che i due terzi di un gruppo di studenti universitari avrebbe scelto nello stesso modo in entrambi i casi, cioè che l’esito dell’esame non influenzava la loro decisione in un senso o nell’altro. Eppure una consistente mag­ gioranza (61%) di un secondo gruppo di studenti, ai quali non veniva detto se erano stati promossi o respinti, avrebbe preferito subire una piccola penale pur di rinviare la scelta dell’acquisto del biglietto a dopo la comunicazione dei risultati. Pagando così di tasca propria pur di ottenere un’informazione che fornisse loro una “buona ragione” per decidere. Un’identica scelta come quella di partire, infatti, avrebbe potuto essere motivata dal bisogno di riposo in vista della necessaria ripetizione dell’esame, nel caso fossero stati respinti; oppure dal le­ gittimo desiderio di “premiarsi”, nel caso fossero stati promossi. 308

IO. LA DECISIONE NELLA MEDICINA CLINICA

L’esigenza psicologica di trovare “buone ragioni” per decidere può quindi promuovere una ricerca di informazioni cui è associato un dispendio di risorse a conti fatti inutile (Shafir, Simonson, Tversky, 1993). E non solo nel pianificare le proprie vacanze, ma anche in contesti clinici le cui conseguenze hanno ben altra portata. David Ed­ dy ha per esempio analizzato nei dettagli l’impiego della mammogra­ fia in casi di sospetto cancro al seno, osservando nel comportamento di medici esperti la tendenza a cadere in un trabocchetto del tutto analogo (Eddy, 1982). Per determinare la natura (benigna o maligna) di un nodulo, molti di loro ordinano infatti una mammografia anche se poi, qualunque sia il risultato, procederanno comunque prescriven­ do una biopsia: per escludere definitivamente la diagnosi di cancro (nel caso la mammografia sia risultata negativa); oppure per confer­ mare definitivamente quella stessa diagnosi (nel caso la mammografia sia risultata positiva). In questo modo, evidentemente, si stabilisce di eseguire un esame clinico i cui risultati di fatto non influenzeranno il successivo trattamento. In una situazione del genere, quindi, il test mammografie© può essere senz’altro omesso, a favore di un’esecuzio­ ne più tempestiva dell’intervento bioptico (che in seguito, lo ripetia­ mo, verrebbe svolto in ogni caso} 11. A questo proposito, occorre os­ servare che i costi associati a una ricerca di informazioni comprendo­ no anche il tempo necessario per il suo completamento, durante il quale c’è sempre un rischio (più o meno alto, ma ineliminabile) che le condizioni del paziente, se malato, peggiorino o si complichino. In questo senso, gli esiti indesiderati di una ricerca di informazioni priva di valore non riguardano soltanto lo sperpero di risorse economiche, ma possono incidere sulla stessa efficacia delle cure.

Conclusioni

Nei paragrafi precedenti abbiamo presentato la teoria della scelta razio­ nale e ne abbiamo discusso alcune applicazioni di potenziale interesse per chi sia chiamato ad esercitare la medicina clinica o a riflettere su di essa. Come abbiamo più volte segnalato, il carattere di questa trattazio­ ne è introduttivo. Non abbiamo alcuna difficoltà a riconoscere che gli scenari clinici qui discussi rappresentano per molti versi delle idealizza­ zioni. Essi andrebbero quindi considerati come esempi puramente illu­ strativi delle due grandi classi di problemi decisionali che abbiamo identificato, vale a dire le scelte terapeutiche c quelle diagnostiche. Inoltre, il ricorso ad approfondimenti bibliografici, ai quali abbiamo regolarmente rimandato il lettore interessato, riflette la quantità di temi 509

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

rilevanti che sono stati soltanto sfiorati - non meno importanti di quel­ li che è stato possibile esporre più estesamente. Vorremmo ora con­ cludere la nostra discussione con alcune brevi osservazioni generali sul­ la teoria delle decisioni e i suoi rapporti con la medicina clinica. Secondo il premio Nobel per l’economia Herbert Simon, la teoria della scelta razionale è un vero e proprio «gioiello intellettuale» dei nostri tempi (Simon, 1983, p. 3). A fronte di questo riconoscimento, peraltro, Simon non ha esitato a discutere in modo molto critico il significato della teoria. A partire dai suoi primi fondamentali contri­ buti (cfr. Simon, 1957), egli ha sottolineato con forza che i decisori in carne e ossa non compiono le loro scelte come efficienti calcolatori di probabilità e utilità attese, a causa della limitatezza delle risorse com­ putazionali disponibili alla mente umana. In effetti, la successiva ri­ cerca sulla psicologia della decisione ha ampiamente documentato il ricorso prevalente all’intuizione e a procedure di ragionamento sem­ plificate che producono violazioni sistematiche dei principi della scel­ ta razionale (Kahneman, 2002). Si tratta di risultati di notevole inte­ resse per qualsiasi disciplina interessata al tema della razionalità, a co­ minciare dalla filosofia (Stich, 1990; Marconi, 2001). Occorre tuttavia sottolineare che nella decisione - così come, poniamo, nell’aritmetica o nella grammatica — l’identificazione degli errori e la loro correzione presuppongono una teoria che indichi le soluzioni corrette in base a principi il più possibile rigorosi. In breve, i limiti descrittivi della teo­ ria non ne intaccano il valore normativo’, semmai, lo enfatizzano. In questo senso, la teoria della scelta razionale resta un punto di riferi­ mento importante per la medicina, specie nel momento in cui si va affermando un interesse costruttivo per il tema dell’errore clinico (cfr. Deivecchio, 2005; Crupi, 2008; e infra, CAP. n). I medici, per parte loro, risultano particolarmente sensibili a due principali rilievi critici riguardo alle applicazioni cliniche della teoria delle decisioni. In primo luogo, è ricorrente l’osservazione che l’anali­ si decisionale è incompatibile con i ritmi serrati cui le attività di cura sono spesso sottoposte. Proprio perché nella medicina clinica il tem­ po rappresenta una risorsa importante e talvolta cruciale, di cui di­ sporre opportunamente nella scelta e nell’azione, la preoccupazione appare ragionevole. A un esame più attento, tuttavia, essa è destinata a ridimensionarsi almeno in parte. Innanzi tutto, la teoria delle deci­ sioni identifica alcuni principi generali e puramente qualitativi (è il caso del “principio della cosa sicura” nella ricerca di informazioni) la cui applicazione può migliorare le scelte pur richiedendo uno sforzo di riflessione minimo e molto circoscritto. In secondo luogo, la sem­ plice identificazione degli elementi costitutivi di un problema di scel310

IO. LA DECISIONE NELLA MEDICINA CLINICA

ta - cioè la corretta definizione di un albero decisionale - può in molti casi determinare un approccio più chiaro e coerente per il me­ dico e il paziente anche senza che si proceda a una elaborazione quantitativa. Il ricorso a quest’ultima risulta poi potenzialmente utile (e spesso effettivamente vantaggioso) solo in un limitato sottoinsieme di casi particolarmente problematici. Secondo un’altra obiezione alquanto diffusa, l’analisi delle decisio­ ni svilirebbe e deformerebbe la pratica della medicina clinica trascu­ rando che la cura è un’“arte” più che una scienza, basata quindi sul­ l’esercizio del “giudizio clinico” piuttosto che sull’utilizzo di diagram­ mi e formule. A questo proposito, è utile ricordare un’efficace analo­ gia di Weinstein e Fineberg (1980, p. 390): il rapporto fra un albero decisionale e la realtà clinica richiama quello fra una mappa e il rela­ tivo territorio. In entrambi i casi, una rappresentazione adeguata ri­ chiede una notevole capacità di giudizio e l’imprescindibile contribu­ to di competenze esperte. Nel caso medico, ciò si riflette nella sele­ zione e nella valutazione dei corsi d’azione da includere fra le opzioni e delle conseguenze a breve e lungo termine che meritano considera­ zione. In questo modo, l’analisi decisionale non discredita il giudizio clinico; piuttosto ne sollecita l’impiego rispetto a problemi i cui sin­ goli elementi vengono opportunamente esplicitati e organizzati. Discutendo di questi temi ormai trent’anni fa, William Schwartz ha riflettuto sul modo in cui la conoscenza esperta si consolida ed evolve nel tempo (Schwartz, 1979). Si dà per scontato che tale evolu­ zione implichi l’acquisizione di nuove informazioni, in particolare i più aggiornati e affidabili risultati accumulati dalla ricerca medica. Curiosamente, osserva Schwartz, non è altrettanto comune il ricono­ scimento dell’esigenza di arricchire e raffinare «le nostre capacità di elaborare le informazioni» (ivi, p. 559). Servendosi di un’altra utile analogia, è come se all’impegno nel tenere in ordine il data-base non si accompagnasse la preoccupazione di migliorare il software. A di­ stanza di tre decenni, si può dire che l’invito a compensare questa asimmetria non abbia perso la sua rilevanza.

Note * Desideriamo ringraziare Giovanni Federspil, Pierdanielc Giarctta e Katya Tentori per le fruttuose discussioni sui temi trattati in questo capitolo. 1. Per un’avvincente ricostruzione storica, si veda Devlin (2008). 2. Al di là del suo perdurante interesse filosofico (cfr. Jordan, 1994). la “scom­ messa di Pascal” è rimasta un vivido caso illustrativo della teoria delle decisioni, ri­ preso perciò dalla manualistica, come in Baron (2000, p. 250). Del resto, il filosofo c

JII

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

storico della scienza lan Hacking ha identificato proprio nell’argomento di Pascal «il primo contributo convincente alla teoria delle decisioni» (Hacking, 1975. P- vili). 3. È tanto semplice spiegare che cosa sia un trade-off quanto è difficile tradurre il termine in italiano, al punto che non sembra esservi alcuna traduzione generalmente accettata. In certi contesti, può essere utile riferirsi alla nozione di “conflitto” decisio­ nale; il conflitto, cioè, fra due possibili ragioni per la scelta che spingono in direzioni opposte. Un altro termine talvolta impiegato è quello di “compromesso", come nell’e­ spressione “compromesso qualità-prezzo”. Un’ulteriore possibilità è quella di far rife­ rimento al termine “equilibrio”, considerando che il decisore deve valutare quale fra le opzioni di scelta realizzi l’“equilibrio” più soddisfacente fra gli attributi rilevanti. 4. Un agente con preferenze non transitive preferirebbe quindi A a B, B a C, e al contempo C ad A. Ecco come si può trasformare un agente siffatto in un “bancomat” (money-pump). Gli si mette a disposizione l’opzione C. Poiché l’agente preferisce B a C, sarà disposto a ottenere B in cambio di C più una qualche somma di denaro. A questo punto, poiché preferisce A a B, sarà disposto a ottenere A in cambio di B più una qualche somma di denaro. Infine, poiché preferisce C ad A, sarà ora disposto a ottenere C in cambio di A più una qualche somma di denaro. L’agente è allora incor­ so in un esborso monetario pur ritrovandosi esattamente al punto di partenza, vale a dire in possesso di C. E la serie delle transazioni può essere ripetuta a piacimento. Riguardo alla fondazione assiomatica della teoria della scelta razionale, si veda la det­ tagliata esposizione fornita da Hargreaves Heap et al. (1992, cap. 1). 5. Il repertorio dei metodi suggeriti per guidare tale interrogazione è ormai piut­ tosto esteso. Per una rassegna e discussione, si possono vedere Karel (2000) e Stiggelbout (2000).

6. Si veda Asch et al. (1994) per uno studio analogo relativo a un vaccino reale contro la pertosse. 7. Sull’affascinante problema della previsione delle proprie utilità future - che, per quanto rilevante, ci è qui impossibile trattare - rimandiamo all’importante discus­ sione di Kahneman (2000) e a quella, più direttamente legata all’ambito clinico, di Ubel et al. (2005). 8. Riguardo ai rapporti fra teoria della decisione e bioetica, si veda l’ampia e stimolante discussione offerta da Baron (2006). Si veda anche il cap. 17, in questo volume. 9. Tale processo di aggiornamento probabilistico trova la sua più diffusa forma­ lizzazione nel cosiddetto approccio bayesiano al ragionamento clinico. Per una tratta­ zione recente ed estesa, che comprende ulteriori riferimenti bibliografici, ci permettia­ mo di rimandare a Festa, Buttasi, Crupi (2009). 10. Il lettore più accorto noterà forse che le espressioni presentate di seguito im­ piegano direttamente le probabilità delle diagnosi in sostituzione di quelle dei corri­ spondenti risultati dei test. Con ciò si suppone implicitamente che tali risultati si pos­ sano considerare perfettamente affidabili. 11. Si potrebbe obiettare che l’immagine mammografica risulterebbe utile per guidare l’eventuale rimozione chirurgica del nodulo. Questa osservazione, tuttavia, non indebolisce l’analisi di Eddy. Se infatti è questo il contributo che si attribuisce alla mammografia, allora l’indagine diagnostica dovrebbe comunque iniziare dalla bi­ opsia, prevedendo l’esecuzione della mammografia solo nel caso di una biopsia positi­ va, che indica la necessità di una nodulectomia.

312

II

L’errore in medicina di Giacomo Deivecchio e Paolo Cherubini *

L’errore medico EPISTEMOLOGIA DELL’ERRORE MEDICO

Mai come oggi l’errore medico è oggetto di analisi. Il concetto di errore è però assai più sfumato e meno ingenuo di quanto possa sembrare. Quando si parla di errore medico questo va prima storicizzato e quindi va distinto l’errore della medicina, che sbaglia per inadeguatezza di conoscenze, dall’errore del singolo medico, il quale sbaglia nell’applicare conoscenze e precetti accolti dalla scienza medica in quel momento storico (Baldini, 1991). Vi è un errore della medicina di cui il medico non ha colpa. Vi è un du­ plice errore colpevole del medico: questi sbaglia di fronte alla medi­ cina ignorando le conoscenze mediche disponibili c sbaglia di fron­ te al malato nell’applicare le conoscenze che la medicina rende di­ sponibili. L’errore della medicina appartiene alla storia e alla scienza; l’erro­ re del medico alla cronaca e alla pedagogia. La medicina si compone di molteplici conoscenze che nessuno può padroneggiare del tutto così che ogni medico ha una propria ine­ liminabile ignoranza; le conoscenze sono rapidamente mutevoli e por­ tano le varie opzioni diagnostico/terapcutichc fino alle estreme conse­ guenze che a volte sono più problematiche del problema iniziale. Nel frattempo, complice la mutata epidemiologia morbosa, è un rincorrersi di nuovi problemi di salute che richiedono soluzioni inno­ vative e il medico è chiamato ad intervenire quando l’intero sviluppo della storia naturale della malattia non è disponibile e gli è richiesta una diagnosi precoce se non anticipatoria o predittiva. Il medico, poi, lavora in condizioni di incertezza e nell’epoca del­ la medicina industriale è elevato il numero delle decisioni che deve 3B

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

assumere in un tempo limitato riferendosi alla tecnologia che genera informazioni che richiedono di essere interpretate e che esaspera l’at­ tenzione al dettaglio in subspecialisti. Spesso questi non sanno più ricomporre tutti i singoli dettagli in una diagnosi unitaria e cadono nell’errore da difetto di visione globale del malato (Teodori et al., I97?)Così l’errore in medicina è inevitabile e cambia continuamente. Cambia la fattualità dell’errore; non cambia però la natura dell’errore (Deivecchio, 2005, pp. 1-6). L’errore è sempre generato da un mix invariato di condizioni: nuovi problemi per presentazioni morbose nuove e malattie nuove ed inattese; ignoranza di conoscenze teoriche e di informazioni tratte dal contesto; complessità del problema; dati incompleti su cui basare le decisioni; natura della mente umana che è tutt’altro che perfetta quando formula giudizi e processa informazioni. Se le vie dell’errore sono molteplici e se si considera che per ogni diagnosi esatta sono assai più numerose le alternative errate, va detto anche che il confine tra verità ed errore in medicina può essere sfu­ mato ad un punto tale da risultare non sempre facile da cogliere nemmeno per i più esperti tra i medici. l’errore

DEL MEDICO

Hanno ricevuto molta enfasi ma anche molte critiche estrapolazioni secondo cui negli ospedali USA tra i 44.000 e i 98.000 pazienti mori­ rebbero per eventi lesivi (Leape, 2005). Questo indicatore è appro­ priato nella misura in cui è quantificabile e idoneo ad uno scopo risarcitorio ma non distingue l’errore da altre condizioni come l’inci­ dente, l’effetto collaterale, l’effetto inintenzionale, che portano all’in­ successo senza che vi sia errore. La differenza tra insuccesso ed errore era già presente nella medi­ cina greca. Mirko Grmek (1996, p. 93) ricorda che la distinzione operata da Aristotele tra giusto e sbagliato si applica alla medicina per cui «se si produce un danno contrariamente ad ogni aspettativa si è semplicemente sfortunati. Quando invece si poteva prevederlo, ma si è agito senza malizia, si tratta di un errore. Infatti si commette un errore quando lo sbaglio origina in noi; se l’origine è altra da noi, si ha invece sfortuna». A questo riguardo l’esito della cura non prova nulla, potendosi dare l’equivoco criterio post hoc, propter hoc o la fallacia dell’afferma­ zione del conseguente. 3M

II.

l’errore

IN MEDICINA

Non è facile una classificazione degli errori e delle modalità del­ l’errore. Ciò non di meno sono necessarie una definizione e una clas­ sificazione, perché attraverso questa si rendono possibili le esperienze del mondo nella misura in cui la tassonomia ordina le conoscenze e permette l’apprendimento (Wulff, Pedersen, Rosenberg, 1990, trad. it. p. 177). Per quanto riguarda la prima, convivono una logica e una funzio­ nale. La prima è conforme alla medicina-scienza teoretica; l’altra alla medicina-pratica applicativa. L’approccio logico concepisce l’errore come la falsità di un enunciato o di una rappresentazione rispetto al vero. E la definizio­ ne dei dizionari in cui l’errore è l’allontanamento dal vero quando la verità è corrispondenza tra conoscenza e fatti (Antiseri, 1980, pp. 23-7). Rimane però da spiegare il concetto di verità, che oggi nella scienza non è più da intendersi come sicuro possesso così come lo voleva la scienza positivistica, ma come ideale regolativo (Antiseri, 1999, pp. 68-9). Dato che non è possibile stabilire una volta per tut­ te l’accordo tra teoria e fatti (Baldini, 2005), ne deriva che la verità, anche nella scienza medica, è contestualizzata e storicizzata ed è proprietà di un’asserzione piuttosto che di una cosa (Federspil, Sicolo, 1998). L’approccio funzionale è invece finalistico e si declina in maniera strumentale, per cui l’errore è inteso come un difetto di pianificazio­ ne rispetto ad uno scopo. E la definizione di errore che si diffonde nella medicina odierna che parla il linguaggio della qualità e del risk management (Novaco, Damen, 2004, pp. 263-4). Purtroppo questa definizione ha il rischio di portarsi dietro una concezione ingegneri­ stica e costruttivistica dei fatti sociali tra cui rientrano anche quelli medici. Tale approccio va molto bene quando ci si muove nell’ambi­ to del paradigma di semplificazione, ma non va bene per un oggetto complesso come la salute/malattia che è contemporaneamente biopsico-socio-antropologico ed economico. Di fatto si procede in maniera empirica nell’analisi di casistiche pratiche di negatività che per essere valida non può essere solo una raccolta indiscriminata di generici e multiformi fatti esperienziali sen­ za un minimo di rigore. Anche al livello più semplice, infatti, la rac­ colta empirica richiede un approccio descrittivo-interpretativo che ha a che fare con chi, cosa, come e perché legati all’evento. La segmentazione in chi, cosa, come e perché dell’evento incontra la mentalità dei medici. È quel procedimento localistico e patogenetico, o per sede e natura di Morgagni, che dallo studio del malato è 315

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

stato trasposto da Enrico Poli allo studio metodologico e pedagogico dell’errore (Poli, 1965, pp. 137-65). Si può affrontare l’errore o prendendone atto in modo casistico e utilizzandolo per un ammaestramento empirico valido solo per con­ tingenze analoghe, o analizzandolo in modo sistematico da un punto di vista fisiopatologico per individuarne i difetti di metodo e per trar­ ne un insegnamento permanente e generalizzabile. In questo approc­ cio vanno considerate sede, natura e motivazione dell’errore. Sede e natura rappresentano la qualificazione metodologica dell’errore, men­ tre la motivazione abbraccia le cause psicologiche. La sede è il punto in cui l’errore si localizza nei vari momenti del discorso interpretativo che fanno riferimento alle osservazioni, alle nozioni, ai termini linguistici utilizzati, alle modalità della catalogazio­ ne diagnostica e alla logica deduttiva e induttiva. La natura dell’errore è il modo con cui il procedimento che ha generato Terrò re diverge dal procedimento corretto. La motivazione è il perché dell’errore ed è costituito da condizio­ ni quali disattenzione, ignoranza, trascuratezza, suggestione.

TEORIE DELL’ERRORE

Il giudizio medico-legale codifica l’errore per commissione, omissione o cattiva esecuzione di una procedura ossia per inosservanza di leggi o regolamenti accolti dalla cultura medica (fnomcco, 1993, p. 82). Se il ben operare richiede prudenza e diligenza, all’errore si per­ viene per condotta incongrua. Questa è l’inadeguatezza di chi con la sua condotta imprudente, negligente o imperita ha commesso o non ha impedito l’evento dannoso che si è verificato con causa determini­ stica o probabilistica. L’errore si identifica così in quella prestazione eseguita con moda­ lità inaccettabilmente inferiori allo standard e, per questo, è inescusa­ bile e colposo. Succede che l’errore si lega alla congruità della condotta quasi che, per esclusiva virtù di questa, i giusti mezzi “necessariamente” non possono che condurre al giusto fine. Viene recuperata la definizione funzionale dell’errore e si ritorna a chi ritiene che bisogna fare le cose fin dalla prima volta con zero di­ fetti (jcaho, 1992, p. 4) anche se il mito dello zero difetti, variante del mito del rischio zero (Fantini, 2008), nasconde una utopia perfettistica che rigetta il trial and error come modalità di crescita del sape316

II. L’ERRORE IN MEDICINA

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re scientifico, cozza contro la vulnerabilità e la fallosità degli organi­ smi biologici e sociali e trasforma ogni esito infausto in un errore da imputare a un colpevole che spesso è solo un capro espiatorio. L’intolleranza diffusa ai difetti è una pretesa garantistica che non fa giustizia delle molte difficoltà esistenti. E che l’errore misura il gra­ do di verità in quanto la certezza è ridotta alla probabilità massima cui un evento possibile può arrivare (Antomarini, 2007, p.16) ma suc­ cede poi che in un organismo complesso anche l’errore è a sua volta complesso (Deivecchio, Bettineschi, 2008). Anche per questo alle for­ me dell’errore medico (Giaretta, Federspil, 2008), corrispondono ap­ procci diversi con diversa storia e letteratura. I metodologi si occupano dell’errore nell’analisi logica dell’argo­ mentazione clinica; i laboratoristi dell’errore per incoerenza tra pro­ dotto delle macchine e variabilità biologica; i radiologi dell’errore nel­ la interpretazione delle immagini generate dalla tecnologia e nella loro trasposizione metalinguistica ad uso di altri. In aggiunta gli psi­ cologi investigano l’interferenza delle emozioni e gli scienziati cogniti­ vi indagano le euristiche mentali. Ciò non è ancora tutto perché le teorie moderne spostano il focus dell’errore dalla medicina alla sanità. Derivate dalle teorie sulle cata­ strofi, le nuove concezioni dell’errore sono arrivate al sistema (Catino, 2002, pp. 13-57). Andando oltre l’approccio ingegneristico, quello er­ gonomico tra uomo e macchina e quello psicologico, i modelli attuali sono centrati sul sistema inteso non come semplice contenitore ma come regolatore di azioni congiunte di uomini, macchine e organiz­ zazioni. Viene meno la dimensione individuale e prende forma la dimen­ sione collettiva e organizzativa insita nel sistema di lavoro (Reason, 2000). In questa prospettiva l’errore non è più imputabile al singolo che agisce in prossimità al malato, quanto piuttosto è generato entro un continuum falloso collocato dentro e nell'interfaccia tra i singoli sottosistemi che costituiscono la trama dell'organizzazione di cui l’at­ tore che sbaglia è solo l’effettore periferico. L’errore, elemento gene­ ratore di evento avverso o inatteso, è il prodotto finale - che si realiz­ za con vario grado di occasionalità - dell’intervento in successione di singoli sottosistemi. L’errore è sempre favorito in maniera inavvertita ma non per questo inesistente da una serie di condizioni latenti na­ scoste nel sistema e che agiscono come cause remote dell’errore in modo che chiunque, messo in quel contesto e in quella organizzazio­ ne permissiva, lo avrebbe egualmente commesso. 317

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

TASSONOMIA DELL’ERRORE

In conclusione, l’errore medico può essere ordinato secondo due assi principali. Il primo è individuale con tre classi che riguardano diagnosi, pro­ gnosi e terapia e in cui convergono i modi cognitivo e operativo con forma occasionale o ripetitiva. L’errore cognitivo è epistemico e si identifica col falso. Vero o fal­ so non appartengono al reale ma alla conoscenza del reale e in medi­ cina sono tali in rapporto a un giudizio formulato su un pezzo di mondo. Così, per esempio, la diagnosi, in quanto giudizio, può essere vera o falsa rispetto ai fenomeni — l’explicandum — e alle teorie Vexplanans. Gli errori cognitivi hanno radice a livello intellettivo, metodologi­ co e metacognitivo. Al primo si producono errori per difetti di cono­ scenze di base e specialistiche. Al livello metodologico si producono errori per violazione delle regole del metodo. Al livello metacognitivo si commettono errori per attivazione di modelli e mappe di azioni mentali incongrui o inadeguati (Deivecchio, 2008, pp. 82-7). In tutti i casi, col linguaggio dell’epidemiologia (Signorelli, 1989, p. 90), l’errore cognitivo è un errore alfa o beta. L’errore alfa consiste nel rifiutare l’ipotesi quando in realtà è vera; l’errore beta consiste nel non rifiutare l’ipotesi quando in realtà è falsa. Ogni decisione clinica ha una ricaduta pratica. L’errore operativo non riguarda il vero o il falso ma variazioni dello stato del mondo ed è generato quando si interviene o non si interviene per modificare gli eventi in corso. All’errore alfa corrisponde l’atteggiamento consistente nel fare troppo poco; all’errore beta corrisponde l’atteggiamento con­ sistente nel fare troppo. Che siano cognitivi od operativi, gli errori hanno forma occasio­ nale o ripetitiva. Gli sbagli accidentali o fortuiti sono commessi per un difetto di conoscenze focali o di addestramento o sono riconducibili a deficit nell’attenzione al compito o nell’attenzione al contesto o in una tem­ poranea alterata percezione del rischio. Gli errori ripetitivi o ricorrenti o sistematici mostrano una perva­ sivi tà assai pericolosa. Sono metodologicamente importanti perché commessi per bias mentali, per inadeguatezza di mappe mentali, e qui si è nell’ambito della privata conoscenza e metaconoscenza, o di procedure esplicite codificate, e qui si è nell’ambito della pubblica conoscenza sociale. Il secondo asse è sovraindividuale ed attiene all’organizzazione. 3j8

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di errori sovraindividuali sono a carico del sistema socio-istitu­ zionale di cura e sono rintracciabili nel difetto organizzativo collocato nelle subunità che compongono il sistema o nella connessione tra le subunità. Anche qui vi è un livello sovraordinato con due ordini generatori di errori. Il primo è nell’organizzazione così com’è con gli errori “in atto” presenti nelle regole sociali che presiedono al governo del sistema stesso e che si comportano da errori latenti. Il secondo è costituito dagli errori generati nei processi di riconcettualizzazione dell’organiz­ zazione. Questi sono errori “in potenza” perché appartengono ad un pensiero sulla futura organizzazione ma sono più gravi perché con­ sentiranno di perpetuare nel tempo tutti gli altri errori del primo or­ dine (Argyris, Schon, 1996, trad. it. p. 43).

La componente cognitiva nell’errore medico ERRORI DIAGNOSTICI, PROGNOSTICI E TERAPEUTICI

La maggior parte degli errori medici riportati nelle casistiche sono er­ rori terapeutici, particolarmente frequenti in medici inesperti o quan­ do sono appena state introdotte nuove forme di trattamento (Kohn, Corrigan, Donaldson, 1999; Weingart et al., 2000; Cao, Stetson, Hripcsak, 2003). Molti di questi sono dovuti a scarsa attenzione o momentanei vuoti di memoria (a loro volta associati, sul piano orga­ nizzativo, ad alti carichi di lavoro, stress, eccessiva pressione tempora­ le, disorganizzazione delle procedure). Altri sono causati da cono­ scenze imprecise o sbagliate sull’azione di un farmaco o di un tratta­ mento (“errori basati su regole”, Reason, 1990), o dall’assegnazione di un trattamento inopportuno (o mancata assegnazione di un tratta­ mento opportuno) a seguito di una diagnosi imprecisa. Gli errori dia­ gnostici si configurano come “errori di conoscenza” {ibid.) nel rico­ noscere una situazione e crearsene una rappresentazione mentale. Sono difficili da riconoscere c censire. Le informazioni sulla frequenza degli errori diagnostici provengo­ no soprattutto da studi di confronto clinico-autoptici, e sono quindi applicabili solo a patologie potenzialmente fatali. In due studi su casi­ stiche autoptiche random, la prevalenza di diagnosi mancate o sba­ gliate in vita e riscontrate all’autopsia era fra il 20% (Kirch, Schafii, 1996) e il 14% (Sonderegger-lscli et al., 2000); in circa la metà dei casi, se la diagnosi fosse stata posta in vita, un trattamento appro­ 319

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

priato avrebbe presumibilmente allungato la vita del paziente. In un altro studio le discrepanze di rilievo tra le diagnosi cliniche e quelle autoptiche superavano il 26%, mentre la piena concordanza delle due diagnosi fu osservata solo nel 44% dei casi (Balaguer Martfnez et al., 1998). L’incidenza di errori diagnostici potrebbe quindi avere proporzio­ ni rilevanti, anche considerando che queste stime escludono tutti i casi di scorretta diagnosi non seguiti da morte e autopsia del pazien­ te, piuttosto difficili da individuare e registrare (Weingart et al., 2000) . Sui 14 errori medici analizzati da Neale (1995), io si verifica­ vano nella diagnosi, mentre solo quattro erano errori di trattamento avvenuti dopo una corretta diagnosi. Gli errori diagnostici si traduce­ vano in decisioni terapeutiche tardive, in omissioni o in trattamenti inappropriati. Dal 2001 “Lancet” ha inaugurato la pubblicazione di una serie di brevi sintesi di casi clinici in cui si è verificato un errore (Horton, 2001) . In ognuna di queste sintesi un medico racconta uno o più er­ rori commessi durante la vita professionale. Negli interventi finora pubblicati prevalgono gli errori di diagnosi. A prescindere dalla loro frequenza, forse alta, gli errori diagnostici sono errori ritenuti impor­ tanti, che attirano una notevole attenzione da parte della letteratura medica. Meno si sa sugli errori prognostici. La previsione sul decorso di una condizione clinica è intrinsecamente complessa. Ai medici è chiesto spesso di pronosticare, ma pochi si sentono a loro agio nel farlo. Gli errori prognostici sembrano essere all’ordine del giorno (Christakis, 1997, 1999; Christakis, Iwashyna, 1998; Christakis, Lamont, 2000), e il disaccordo tra medici su una prognosi è comune (Poses et al., 1990). Gli studi che si sono occupati direttamente della precisione prognostica si sono concentrati proprio sulle previsioni re­ lative alle aspettative di vita di malati terminali. Riportano un grado di precisione molto basso, e alta variabilità. Pur essendo frequenti an­ che le sottostime, gli errori più comuni sono sovrastime dell’aspettati­ va di vita del paziente. COMPONENTI COGNITIVE DEGLI ERRORI MEDICI

Rianalizzando i dati di uno studio sulla qualità del sistema sanitario australiano, Wilson et al. (1999) riportano che gli errori “cognitivi” da loro intesi come errata diagnosi o errata prescrizione di una cura avevano maggior probabilità di essere evitabili, e maggior probabilità di causare disabilità permanenti rispetto agli altri errori. Si tratta di 320



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errori difficili da individuare, e con gravi conseguenze potenziali, che coinvolgono vizi di ragionamento, giudizio e presa di decisione. Molti studi sul pensiero umano incoraggiano a ritenere che in media le per­ sone, pur potenzialmente capaci di ragionare analiticamente e talvolta disposte a farlo, preferiscano ragionare superficialmente, avvalendosi di euristiche intuitive nell'esprimere le loro valutazioni su un qualche argomento o problema (Gilovich, Griffin, Kahneman, 2002; Stanovich, West, 2000; Hershberger et al., 1997). I giudizi intuitivi, espres­ si in base a poche caratteristiche salienti di una situazione (Kahne­ man, 2003), possono rivelarsi corretti, e spesso lo sono. Tuttavia, pos­ sono anche generare errori sistematici, ripetitivi, detti “biases” nella letteratura specializzata. Il primo passo del ragionamento, secondo la più influente delle teorie cognitive contemporanee (Johnson-Laird, 2006), è la costruzio­ ne di una prima rappresentazione mentale del significato dei dati di­ sponibili. Quando si ragiona analiticamente alla prima rappresenta­ zione e alle prime conclusioni segue il tentativo di trovare rappresen­ tazioni e ipotesi alternative, interpretazioni e punti di vista diversi. Al contrario, nel pensiero euristico si tende a costruire una sola rappre­ sentazione mentale della situazione, e si accettano le conclusioni ini­ ziali, senza sottoporle ad ulteriore vaglio. Dalla bontà di questa com­ prensione iniziale segue la bontà delle conclusioni iniziali, o - vice­ versa - la probabilità di commettere un errore. Molte tendenze co­ gnitive guidano l’interpretazione iniziale di alcuni tipi di dati medici. Qui ne illustriamo solo alcune, limitandoci a quelle riscontrate in stu­ di empirici su personale medico. GIUDIZI BASATI SULLA SOMIGLIANZA

Molti giudizi sono espressi basandosi su gradi di somiglianza. I fatti, percepiti o pensati, sono attribuiti alla fattispecie che più li rassomi­ glia. Tuttavia, ove non si valutino dei pattern percettivi, ma il signifi­ cato di informazioni potenzialmente ambigue e che presentano molte chiavi di lettura, i giudizi di somiglianza possono essere fuorviami. Due tipi di giudizi di somiglianza sono particolarmente importan­ ti, tanto da meritarsi nomi specifici: “euristica della rappresentatività” e “euristica della disponibilità” (Kahneman, Slovic, Tversky, 1982). Tradotto in sillogismo, un giudizio basato sull’euristica della rappre­ sentatività mostra la sua invalidità: ad esempio, “i pazienti ammalati di X sono, di solito, positivi al test Y”; “Tizio è positivo al test Y”; 321

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

“Quindi Tizio è probabilmente malato di X”. A questa euristica è dovuto un errore tipico, il confondere la sensibilità di un test clinico con la sua predittività positiva, considerando analoghe due proprietà formalmente molto diverse, e giungendo così a gravi distorsioni dia­ gnostiche (Gigerenzer, Hoffrage, Ebert, 1998; Stine, 1996). Oltre questo classico errore, sono stati illustrati molti altri casi in cui l’euri­ stica della rappresentatività indirizza le ipotesi del medico verso dia­ gnosi poco probabili, o le devia da diagnosi molto probabili (Dawson, Arkes, 1987). Nel caso dell’euristica della disponibilità il giudizio di somiglianza si basa sul confronto con i ricordi più disponibili. La disponibilità di ricordi di un certo tipo di eventi è solo indirettamente legata alla pro­ babilità di quegli eventi: più un evento è probabile, più è probabile averlo incontrato, più è probabile ricordarlo. Tuttavia, è direttamente legata a molti altri fattori: ricordiamo maggiormente gli eventi che ci coinvolgono in prima persona, quelli con spiccate connotazioni emo­ tive o che associamo a pericoli di rilievo, e gli eventi insoliti e rari, cui di solito si presta grande attenzione. Tutti questi fattori influenza­ no il ricordo, ma non la probabilità, e rendono insicuri i giudizi che ;i avvalgono di stime di somiglianza con i ricordi più disponibili. Tal­ volta il medico è portato a ritenere probabile una diagnosi molto im­ probabile, solo perché quel caso clinico somiglia ad un altro che si è fissato nella sua memoria grazie alla sua peculiarità, rarità, o salienza emotiva (Balla, lansek, Elstein, 1985).

tl CORRELAZIONI ILLUSORIE E PSEUDODIAGNOSTICITÀ

Nel valutare la forza diagnostica di sintomi e segni il pensiero intuiti­ vo è soggetto a distorsioni, alla base di fenomeni noti come “correla­ zioni illusorie” e “giudizi pseudodiagnostici”. Alcune correlazioni illu­ sorie sono l’effetto della riverberazione di conoscenze precedenti basate sul senso comune, o su teorie ormai superate, o non applicabi­ li al contesto specifico (Chapman, Chapman, 1967, 1969). Ad esem­ pio, nonostante l’ipertensione e il diabete non siano indicatori efficaci dell’infarto miocardico nei reparti di emergenza, le previsioni dei me­ dici di quei reparti sono influenzate da quegli indizi (Green, Yatcs, 1995). Altre volte è la ricerca di informazioni che può portare a giu­ dizi diagnostici distorti. Gruppen, Wolf, e Billi (1991) hanno mostra­ to che nonostante i medici da loro esaminati fossero in grado di esprimere giudizi corretti quando tutte le informazioni necessarie era322

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no disponibili, non erano altrettanto precisi quando si chiedeva loro di scegliere - tra alcune informazioni non disponibili - quali conside­ rare più importanti. Queste tendenze sono dovute a effetti di “feca­ lizzazione”: i medici si focalizzano su un’ipotesi alla volta, e cercano di raccogliere più informazioni possibili relativamente a quell’ipotesi, in questo modo tralasciando la raccolta di informazioni relative a ipo­ tesi alternative (Doherty, Mynatt, 1986). Altre correlazioni illusorie sono dovute a difetti nel campiona­ mento. Si valutano associazioni sul campione di osservazioni in no­ stro possesso, che può essere viziato dalla modalità di raccolta (Einhorn, Hogarth, 1978; Bushyhead, Christensen-Szalanski, 1981). Ad esempio, un medico ospedaliero vede e può ricordare i pazienti am­ messi nel suo reparto per una certa malattia, ma non quelli non rico­ verati o ammessi in un altro reparto con altre malattie. Se nota che una buona proporzione dei pazienti con quella malattia da lui visti presenta una certa caratteristica, può essere portato a pensare che quella caratteristica è diagnostica per quella malattia, senza considera­ re che potrebbe essere altrettanto o addirittura più frequente in pa­ zienti affetti da malattie diverse, non ricoverati nel suo reparto. Le correlazioni illusorie e i giudizi pseudodiagnostici non sono solo dovuti alla selettività dei ricordi e dei campioni, ma anche al gra­ do di importanza che attribuiamo alle diverse informazioni. Nel valu­ tare l’associazione tra due attributi - ad esempio un sintomo c una malattia - sono rilevanti tre tipi di casi: i casi in cui gli attributi sono entrambi presenti, i casi in cui è presente l’uno e non l’altro, e infine i casi in cui entrambi gli attributi sono assenti. Diverse ricerche han­ no mostrato che attribuiamo più attenzione e importanza ai primi, e meno a tutti gli altri, in particolar modo agli ultimi (Smedslund, 1963; Mandel, Lehman, 1998). PERSISTENZA DELLE CONVINZIONI ED ECCESSIVA FIDUCIA

Uno dei fenomeni più importanti rivelati dallo studio del pensiero umano è la tendenza alla conferma delle proprie opinioni: cerchiamo conferme — più che falsificazioni — delle nostre ipotesi, e di solito la fiducia nelle nostre ipotesi è eccessiva rispetto a quanto garantito dai dati a disposizione. Si tratta di fenomeni complessi, causati da più fattori, alcuni cognitivi ed altri motivazionali (Nickerson, 1998). La tendenza alla conferma provoca inerzia delle opinioni, che persevera­ no oltre il dovuto. Il fenomeno, ampiamente noto in molti contesti, è 323

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: FILOSOFIA DELLA MEDICINA ■

presente anche in ambito medico (Wallsten, 1981; Nott, 2001). In uno degli studi più suggestivi (Poses et al., 1990), si chiesero per al­ cuni mesi giudizi prognostici a due medici diversi al momento del ricovero di ogni paziente in un reparto di terapia intensiva. Numero­ si erano i casi in cui i due pareri erano fortemente discordi. La pro­ gnosi per ogni caso era nuovamente richiesta, ad entrambi i medici, da due a quattro giorni dopo il ricovero. Data la divergenza delle due prognosi iniziali, si sarebbe dovuta osservare una graduale con­ vergenza di una verso l’altra, alla luce delle ulteriori informazioni raccolte in quel lasso di tempo. Questo non si verificava: il disaccor­ do iniziale tendeva a mantenersi invariato, e ciascuno dei due medici ribadiva una prognosi molto simile a quella formulata al momento del ricovero. Tra i fattori interpretativi che inducono la tendenza alla conferma si enumerano: 1. tendenza a dar più peso alle informazioni confer­ manti, piuttosto che a quelle falsificanti; 2. tendenza a interpretare come confermanti i dati ambigui; 3. tendenza ad attribuire maggior importanza alle prime informazioni raccolte, piuttosto che a quelle successive. Altri fattori sono intrinsecamente legati ai nostri valori e desideri: anche in medicina è presente il wisbful tbinking, ovvero la tendenza a considerare poco plausibile un’ipotesi solo perché deside­ riamo sia falsa, o a considerarla plausibile solo perché desideriamo sia vera (Poses, Anthony, 1991; Poses et al., 1985). Infine, possono con­ tribuire alla tendenza alla conferma Vego bias (un bias al servizio del nostro amor proprio) e il fenomeno àe\\'overconfiderice. L'ego bias in medicina è stato suggestivamente illustrato da una ricerca di Detmer, Fryback e Gassner (1978). Gli autori chiedevano di stimare il tasso di mortalità di alcune operazioni chirurgiche effet­ tuate dal medico stesso, o dai suoi colleghi. La mortalità media stima­ ta per operazioni eseguite da colleghi era sistematicamente più alta di quella reale, mentre quella per operazioni condotte dal medico stesso era sistematicamente più bassa. L’overconfidence è una generale sovrastima delle proprie presta­ zioni, anche quando non sono migliori di quelle altrui. Aumenta con il grado di esperienza: medici più anziani hanno maggior fiducia ver­ so i propri giudizi rispetto a medici con minor anzianità, anche in contesti dove la precisione di tali giudizi è la stessa sia per gli esperti sia per i meno esperti (Dawson et al., 1993). Questa eccessiva fiducia in sé stessi, proporzionale al grado di esperienza, potrebbe tradursi in una minor propensione del medico esperto a rivedere criticamente i suoi giudizi (Klein, 2005).

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EFFETTI DEL “SENNO DI PO1” E DELL’ESITO

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L’eccessiva fiducia nelle proprie competenze e conoscenze può essere dovuta a molti fattori. Uno particolarmente noto è Vhindsight bias, o “errore del senno di poi”. Una volta noto l’esito di una situazione, la prevedibilità di quell’esito è sovrastimata. Alla luce del senno di poi sembra spesso di avere le competenze che ci avrebbero portato a ri­ solvere un caso, un senso di conferma che può progressivamente comportare un sistematico aumento della fiducia in sé stessi (Arkes et al., 1981). In parte simile all’bindsight bias è Voutcome bias, o “effetto dell’esito”. Non è opportuno giudicare un intervento come erroneo o non erroneo in base al suo esito: in medicina un intervento può esse­ re corretto, persino il migliore possibile, ma ciò nonostante si può osservare un esito negativo; ed è d’altra parte possibile che un pa­ ziente guarisca, anche se nel trattarlo si sono fatte scelte sbagliate. Tuttavia, è tipico del pensiero spontaneo giudicare buona o non buo­ na una decisione basandosi sul suo esito: un esito negativo suggerisce una cattiva decisione, un esito positivo suggerisce che la decisione era buona. L’effetto si riscontra non solo nel valutare la qualità delle de­ cisioni altrui (Caplan, Posner, Cheney, 1991), ma anche delle proprie (Sacchi, Cherubini, 2004), ed è sufficientemente forte da cambiare le preferenze diagnostiche del medico al ripresentarsi di casi simili a quelli su cui una precedente decisione è stata seguita da un cattivo esito. OSSERVAZIONI CONSUNTIVE

Anche se nello studio e nella prevenzione dell’errore medico sono importantissimi i fattori organizzativi, è pur vero che - alla fin delle fini — ogni errore è commesso da un individuo, o da un ristretto nu­ mero di individui in cooperazione. A questo livello tutti - o quasi gli errori hanno una componente cognitiva. Molto spesso ha a che fare con l’attenzione o con la memoria: la mente è “altrove" (per stanchezza, distrazione o altro), e il medico non riesce a fare ciò che vorrebbe fare. Se da una parte questi sono forse gli errori più fre­ quenti, dall’altra sono i più riconoscibili, e quelli per cui è più agevo­ le ideare contromisure. Altre volte, tuttavia, la componente cognitiva degli errori è di più alto livello: la cattiva attribuzione di significato a un'informazione, l’incapacità di prevederne le conseguenze, la difficoltà nell’integrare diversi clementi di conoscenza, affidandosi invece a giudizi sommari basati su pochi indizi salienti. Questi errori sono più difficili da indi325

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viduare, da prevedere e da evitare, e non è facile prevenirli con misu­ re di tipo ergonomico-organizzativo. Certamente potrebbe essere utile un maggior investimento in ambito educativo: al medico o aspirante tale non deve essere fornito solo lo stato dell’arte sulle conoscenze mediche, ma anche approfondite conoscenze su come ragionare, come decidere, quali tendenze spontanee espongono il giudizio al ri­ schio di errore.

I costi dell’errore I COSTI MATERIALI E IMMATERIALI DELL’ERRORE

Il costo è l’equivalente in moneta del valore delle risorse necessarie per disporre di un bene ovvero la perdita delle risorse che è necessa­ rio impiegare per godere di un bene (Ruffino, 1998, p. 125). I costi in sanità sono riferiti a beni immateriali o intangibili e materiali o tangibili (Zanetti et al., 1996, pp. 264-6). I costi materiali sono diretti e indiretti. Quelli diretti sono quanti­ ficabili oggettivamente e sono costituiti dalle spese sostenute dalle persone malate e dalle strutture sanitarie che vedono incrementare i costi variabili per materiali di consumo e per utilizzo di personale di assistenza. Quelli indiretti sono costituiti dall’assistenza fornita dai fa­ miliari, dalle cure domiciliari erogate in proprio, da mancato guada­ gno per malattia e per assenza dal lavoro con impoverimento del sin­ golo e della comunità nel suo complesso. L’enfasi che viene posta su alcuni costi sociali è il reciproco dei vantaggi secondari apportati al­ l’individuo dalla malattia sotto forma di tutela sociale per assenza dal lavoro e previdenza economica. I costi immateriali sono legati alle sofferenze psicologiche e morali e al disagio individuale e familiare provocati dalla malattia e dalle sue complicanze, dagli effetti penosi delle cure, dalle insufficienze del si­ stema sanitario. Se i costi materiali sono più facilmente calcolabili, quelli immate­ riali non lo sono altrettanto sia come conseguenza di una malattia o di un errore. Prescindendo dalla perdita sociale di un valore relazionale tra me­ dico e malato, che è un costo non computabile a tutto svantaggio del capitale sociale, vi è un altro sommerso da considerare: anche la “se­ conda vittima” dell’errore (Editorials, 2000) paga costi materiali e im­ materiali consistenti (Schwappach, Boluarte, 2008).

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l’errore in medicina

Il medico, per paura di sbagliare, prescrive indagini e farmaci al solo scopo di tutelarsi, anche se ciò comporta spreco e incremento ingiustificato dei costi incidendo sul totale della spesa sanitaria in percentuali che variano dal 12% al 20% (Falconi et al.y 2008). Al di là di queste cifre si è stimato che negli usa il costo degli eventi avver­ si possa arrivare a bilioni di dollari e a circa il 4% delle spese del servizio sanitario (Kohn, Corrigan, Donaldson, 1999, pp. 34-5). In queste situazioni medici e ospedali corrono il rischio di vedersi rifiutare coperture finanziarie ed assicurative in assenza delle quali potrebbero minacciare chiusure di servizi (Mello, Studdert, Brennan, 2003). Emerge un costo dell’errore che non viene considerato. Non si tratta più di quantificare i costi di una medicina difensiva, quanto cal­ colare il costo sommerso di un impoverimento diffuso: per i medici che abbandonano la clinica per rivolgersi a pratiche senza malati (Schneider, 1991, trad. it. pp. 170-1) e per i cittadini che vengono privati di opportunità. LA CURVA DEGLI ERRORI

La qualità scadente ha un costo misurabile come frequenza di difetti in rapporto all’attesa di difetti (jcaho, 1992, trad. it. p. 86). Alcune imprese si sono poste l’obiettivo di ridurre la tolleranza a difetti di produzione a meno di 3,4 per milione di unità. Questo è il numero di eventi che si ritrovano al di fuori di 6 deviazioni standard di una distribuzione normale. In medicina, al confronto con le industrie, vi sono eventi che si ritrovano al di là di 6, 5, 4, 3, 2, 1 deviazioni stan­ dard (Bonaldi, 1999). Questi dati permettono di evidenziare un modello matematico dell’errore, ben studiato per esempio nell’industria delle costruzioni, in cui la probabilità degli eventi si distribuisce secondo una curva detta “normale” o di Gauss che ha una forma a campana simmetrica. Dalla forma della curva si vede che gli errori più piccoli e meno gravi sono più frequenti di quelli grandi perché cadono nell’area prossima­ le al valore medio centrale rispetto all’area distale in cui cadono inve­ ce gli errori gravi. Ecco perché pochi errori sono chiamati in causa per gravi danni e molti errori causano effetti insignificanti o inavverti­ ti dal malato. La curva indica anche la probabilità con la quale un errore può verificarsi: è minore la probabilità di un errore che cade nell’area più lontana dalla media rispetto ad uno che cade nell’area più vicina alla media. Così può essere affrontato razionalmente il problema della si327

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

curezza intesa come probabilità dell’accadimento dell’evento sapendo che, ai fini della sicurezza, interessa solo l’estremo inferiore della cur­ va (Miti, 1992, pp. 21-34). Anche il rischio ha una misura che è data dalla combinazione tra gravità e probabilità dell’evento dannoso e che viene riportata in una matrice di accettabilità (Ministero della Salute, 2004). All’interno del sistema sanitario e nelle sue singole subunità, que­ sti modelli aiutano a costruire prima e a interpretare poi una mappatura delle aree, delle funzioni e dei momenti - nonché del personale e del percorso dei pazienti - in cui la probabilità dell’errore è più elevata. La curva di Gauss distribuisce anche i successi ed è possibile co­ struire per ogni struttura sanitaria una curva in cui si distribuiscono i successi raggiunti nei vari ambiti di cura. Raccogliendo i dati di più strutture in maniera omogenea è possi­ bile distribuirli rispetto alla media comune e osservare come i vari centri si discostano da questa e tra di loro. Ciò permette di predire gli esiti dei pazienti di ogni singolo centro, ma soprattutto permette di confrontare i risultati dei vari centri e di individuare quelli che si posizionano agli estremi della curva per tassi di successo e di insuc­ cesso. I primi diventano riferimento per buone pratiche cliniche e or­ ganizzative da esportare anche se la traslazione delle conoscenze e delle esperienze è un problema non risolto (Sung et al., 2003). Queste esigenze di comparazione sono ben divulgate anche al grande pubblico (Gawande, 2008) dopo essere servite per reingegnerizzazioni di strutture con risultati inaccettabili, che hanno trasforma­ to l’insuccesso clinico in costi organizzativi ed evidenziato altresì che la radice profonda del successo e dell’insuccesso sul malato non è mai solo ed esclusivamente clinica. Non è possibile parlare di curve di performance di una struttura senza far riferimento a quelle dei sin­ goli professionisti e alle curve di apprendimento (Treasure, 2004). L’analisi delle curve di apprendimento è più semplice di fronte agli atti operatori (Deivecchio, 2008, pp. 103-10). Le innovazioni na­ scondono nella fase d’implementazione la possibilità che si verifichino dei costi per allungamento dei tempi di intervento e complicanze operatorie (Ikena et al., 1999). I costi degli insuccessi vengono meno solo quando la curva di apprendimento dei singoli è satura, ovverosia quando l’innovazione è incorporata come routine nelle organizzazioni perché ormai è diventata patrimonio condiviso sotto forma di cono­ scenza tacita posseduta da tutti. Anche se normalmente, ossia entro il perimetro delle proprie competenze, l’esperto dispone di strategie diagnostiche vantaggiose,

328

I i. l’errore in medicina

l’expertise non è l’inverso dell’errore. L’esperto è dominio-competen­ te e commette comprensibili errori al di fuori del suo territorio, ma non è questa la dimensione più importante del suo errare. L’esperto genera costi quando sbaglia perché interpreta esclusivamente alla luce della propria competenza specialistica ogni fenomeno presentato dal malato. Paradossalmente, all’apice dell’expertise ci si può imbattere in un calo di efficacia diagnostica perché aumentano gli errori di identificazione e interpretazione dei dati (Groves, O’Rourke, Alexander, 2003), che in un problema difficile hanno pro­ prio la caratteristica di essere ambigui. Quando l’esperto riveste la qualifica di opinion leader i suoi errori trovano difficilmente correzione. Da una parte, se il giudizio dell’e­ sperto è riferito a cose molto difficili, l’errore passa inosservato; dal­ l’altra parte, pochi hanno la forza di smentirne il giudizio. Così non solo gli errori dell’esperto vengono difficilmente corretti, ma addirit­ tura diventano errori insegnati, soggetti ad essere replicati. LL COSTO DELLA DIAGNOSI

La tecnologia ha trasformato l’atto diagnostico generando molte in­ formazioni in breve tempo. Vi sono dei sicuri vantaggi in questa mo­ dernità, ma conseguiti a un costo relazionale immateriale altrettanto sicuro (Cagli, 2007, pp. 83-91). Non è tanto necessario che le informazioni che il medico racco­ glie siano numerose - e oggi è fin troppo facile raccogliere numerose informazioni - perché corrono il rischio di essere solo replicative, cioè ridondanti, quanto piuttosto che siano utili, cioè incrementali. L’utilità dell’informazione clinica permette al medico di arrivare ad una conoscenza di qualità supcriore, ossia di passare dal piano feno­ menico, che è quello dei sintomi e segni, a quello della diagnosi, che è esplicativa e interpretativa dei fenomeni. Una volta era la prolungata osservazione del decorso clinico per comporre sintomi e segni in un ordinato complesso sindromico ad aprire utilmente alla diagnosi tassonomica. Ora è sufficiente una se­ lettiva informazione tecnologica per una rapida diagnosi strumentale e di laboratorio. L’informazione, per essere utile, non deve essere solo rapida, cioè tempestiva, ma deve essere cruciale per la diagnosi e per disporre l’o­ peratività conseguente, e il medico si deve attrezzare per selezionare tra le tante possibili quell’informazione che apra la diagnosi e che giustifichi un atto terapeutico piuttosto che un altro. 329

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

Si introduce un concetto di economia della diagnosi che non è un concetto mercantile volto a un risparmio nella spesa sanitaria. E pri­ mariamente un concetto cognitivo la cui traduzione operativa può, come ricaduta auspicata ma non necessitante la scelta, accompagnarsi a un risparmio nei costi sanitari. All’interno dei costi sanitari trovano così spazio i costi diagnostici, che sono quelli legati al procedimento diagnostico. Dall’economia si passa alla metodologia. La diagnosi giusta è una, a fronte di assai più numerose alternati­ ve sbagliate, così che il percorso diagnostico è spesso articolato (Giaretta, Federspil, 1999). Per arrivare alla diagnosi si passa attra­ verso falsificazioni delle ipotesi alternative la cui esclusione compor­ ta costi che solo ad occhi profani sembrano inutili sperperi, ma si passa anche attraverso errori e il costo complessivo della diagnosi comprende tutti questi costi. I medici vorrebbero formulare - a tutela del malato e della loro professionalità — diagnosi di certezza. Però, ad un certo punto, biso­ gna chiudere il giudizio trasformando una diagnosi di certezza in una probabile (Malavasi, 2005, pp. 97-122), sapendo che l’inverso della probabilità della diagnosi misura un errore inversamente probabile. Ogni clinico si comporta da probabilista ingenuo e aggiusta, più o meno bene, ogni volta di fronte ad ogni nuova informazione, la pro­ babilità soggettiva globale con cui stima e confronta tra di loro le al­ ternative diagnostiche che ha a disposizione. Anche il momento della conclusione ha una componente soggettiva. Questa variabilità sogget­ tiva è temperata dalla conoscenza sociale racchiusa nelle prassi collet­ tive, vere linee-guida implicite che determinano caso per caso il li­ vello sociale, ossia l’intensità di indagini cliniche da effettuare e quin­ di la soglia probabilistica, di accettabilità e viceversa di errore. Solo in casi particolari si giustifica una precisione ulteriore, come per una terapia particolarmente impegnativa o per un giudizio medi­ co-legale o a scopo di insegnamento o di ricerca o in caso di studio di una malattia rara. II perfezionamento diagnostico non è raccomandabile perche genera costi ed errori. Dal punto di vista metodologico genera costose informazioni ag­ giuntive. Dal punto di vista della sicurezza espone a rischi il malato perché si riservano alla fine le indagini più pericolose. Dal punto di vista economico genera costi marginali. Questi indi­ cano gli incrementi dei costi totali necessari per ottenere un’unità ag­ giuntiva di bene o servizio (Ruffino, 1998, p. 126) così che la valuta330

II.

l’errore

IN MEDICINA

zione del costo diagnostico marginale è data dal costo globale dimi­ nuito dal costo già pagato per le precedenti indagini (Scandellari, 2005, p. 119).

Dal perfezionamento si può passare con facilità all’accanimento diagnostico. Come l’accanimento terapeutico è la condizione in cui vi è una sproporzione tra mezzi e fini comportante spreco ingiustificato di risorse costose o rischiose, altrettanto avviene per l’accanimento diagnostico, condizione in cui la ricerca dell’informazione aggiuntiva non trova assolutamente giustificazioni. Anzi: anche se l’informazione è incrementale e non semplicemente replicativa o ridondante, diventa futile quando il beneficio per il malato e per la medicina è nullo. I COSTI TRA ECONOMIA ED ETICA

Quando le risorse sono limitate i costi intervengono nel comporre la decisione. Nella scelta tra alternative diverse va considerato il rappor­ to costo/efficacia (Riegelman, 1995, trad. it. p. 89). Questo obbliga a pensare ai costi dei servizi erogati e non solo a favore del malato o a perseguire una bella diagnosi che appaghi i clinici (Delvccchio, 1993). Volendo massimizzare l’utilità attesa, sceglie l’alternativa che supera al massimo grado i possibili rischi compatibilmente col vincolo di spesa e senza errori costosi di allocazione di risorse (Riegelman, 1995, trad. it. pp. 85-96). Poiché in medicina alternative diverse portano a esiti diversi, vi è necessità di un parametro comune per rendere possibile il confronto sul malato. Si entra in un campo del tutto particolare in cui quello che si misura è la qualità della vita, dove l’equivalente di una vita trascorsa in piena salute è definita come una vita di utilità unitaria (ivi, p. 89). Questo non è ancora sufficiente, e sono stati introdotti i quality-adjusted life years (qalys). 1 qalys sono una unità di misura che combina la qualità di vita con la durata (Sassi, 2006) c si portano dietro una grandezza nota come aspettativa di vita, facente riferimen­ to non a quante vite ma a quanti anni di vita vengono salvati da un intervento. Se la salute non ha prezzo, ha un costo. I qalys sono funzionali all’economia sanitaria di cui sono strumento irrinunciabile, sono van­ taggiosi per la salute pubblica, ma non possono garantire il massimo beneficio ad ogni singolo cittadino (ivi, pp. 85-96). I medici riconoscono che le indagini di costo/efficacia sono rile­ vanti in medicina perché solo raramente gli interventi salvano vite e 331

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

riducono costi (aa.w., 1998, p. 50), ma questo è un linguaggio lonta­ no da quello delle corsie dove ci si chiede, come in un diffuso pron­ tuario, «quali volontà e quali desideri si nascondono dietro a queste immagini» (Hope et al., 1998, p. 13). La comparazione tra benefici e costi in economia corre il rischio di tradursi in corsia in una contrapposizione tra individuo e società. Questo aspetto è di particolare attualità oggi, nei sistemi sanitari uni­ versalistici e solidaristici e in un’epoca di risorse limitate in cui la me­ dicina ha ereditato una popolazione di pazienti anziani, fragili e cro­ nici svantaggiati dai qalys nella misura in cui le cure rivolte ai giova­ ni producono più anni di vita utile. Quantità e qualità di vita sono soggetti a tensione, così che in maniera controversa si possono pro­ porre limiti per l’assistenza medica. La quantità di vita è facile da misurare. La qualità della vita, inve­ ce, è soggetta a variabili riconducibili al singolo paziente in una ma­ niera che non è linearmente riproducibile in altre persone (Legrenzi, 1999) mentre la medicina, che non corrisponde esattamente alla sani­ tà, punta invece alla qualità delle cure, definite come il trattamento da cui ci si aspetta il massimo livello di benessere dei pazienti consi­ derando il bilancio tra profitti e perdite (Torsoli, 1997, pp. 12-3). Sembrerebbe recuperato con altre parole il rapporto costi/benefici. In pratica, al letto del malato, la scelta diagnostico/terapeutica compone la qualità delle cure scegliendo tra una gradazione di criteri. Al primo posto figura la sicurezza del paziente, e qui il medico sceglie in base al principio del rischio calcolato. Al secondo posto si sceglie in base all’efficacia clinica misurata sul risultato positivo atteso. Solo in ulti­ mo vengono le “misure addizionali” tra le quali rientra il rapporto costo/beneficio (ibid.). Nonostante un’attribuzione di normatività, i criteri di efficienza economici non chiudono il campo alle decisioni, ma obbligano il me­ dico ad attrezzarsi per risolvere problemi una volta impensati. Di fronte al malato la decisione non si riempie nel rispetto di un imper­ sonale principio di efficienza economica o di mero risparmio finanzia­ rio a scapito della beneficialità. Medico e malato sanno che non si possono confrontare tra loro salute e finanze né appiattire sui mezzi, che sono tecnologici, i fini, che sono antropologici. E questa la riflessione naturale del clinico il quale adempie al suo mandato nel curare, costi quel che costi, dando a ciascuno il suo, l’esclusivo interesse delle singole persone che hanno valore ognuna per sé (Spagnolo et al., 2004, pp. 71 e 141-6) indi­ pendentemente da ogni invalidità e da ogni utilità.

332

I i. l’errore

in medicina

Note * A Giacomo Dclvccchio si devono i paragrafi L'errore medico e I costi dell'erro­ re, a Paolo Cherubini il paragrafo La componente cognitiva nell'errore medico. Si ringrazia l’ingegner Luisella Bettineschi, della asl di Bergamo, per il contributo sulla curva degli errori.

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i I

Parte terza La malattia mentale: epistemologia e ontologia

:

12

Il concetto di malattia mentale di Alfredo Civita

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Il presente capitolo si svilupperà lungo due prospettive di ricerca di­ stinte ma necessariamente destinate a intersecarsi. La prima prospettiva ha di mira i problemi filosofici posti dal concetto di malattia mentale. L’indagine in questa prima prospettiva avrà un carattere eminentemente speculativo e ci condurrà a una con­ clusione interlocutoria che possiamo così anticipare: una caratterizza­ zione filosoficamente e scientificamente inoppugnabile del concetto di malattia mentale sembra inaccessibile in linea di principio. La malattia mentale, d’altra parte, non costituisce ovviamente un problema puramente filosofico. La malattia mentale è uno stato di cose concreto che colpisce innumerevoli esseri umani, procurando sofferenze spesso inimmaginabili. La seconda prospettiva si cimenta pertanto con il concetto di malattia mentale su un piano concreto, più precisamente su un piano pragmatico. Perché, malgrado gli enig­ mi forse insolubili che la malattia mentale solleva, è comunque ne­ cessario adottare una prospettiva in grado da un lato di ordinare ra­ zionalmente le conoscenze disponibili, dall’altro di fornire risposte utilizzabili sotto il profilo operativo. Nella prima prospettiva procederemo dunque con l’intransigenza dei filosofi, nella seconda porremo al centro del discorso le esigenze pratiche della ricerca e della clinica. Non abbiamo naturalmente la pretesa di esplorare in modo esaustivo queste due aree quanto mai vaste, cercheremo soltanto di fornire informazioni e spunti di rifles­ sione.

Carattere e specificità della malattia mentale

Il carattere e la specificità della malattia mentale sollevano due pro­ blemi strettamente intrecciati che è però utile, per ragioni espositive, trattare separatamente. Cominciamo dunque dalla specificità. 337

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

Il problema della specificità riguarda ciò che è peculiare della ma­ lattia mentale e che la differenzia pertanto da ogni altra specie di ma­ lattia. Più in concreto ciò che qui è in questione è la differenza tra le malattie mentali e quelle fisiche. La specificità è in certo modo già racchiusa nell’espressione stessa di malattia mentale (o psichica) ’. Non occorre un’argomentazione particolarmente raffinata per rendersene conto. Le malattie del fegato colpiscono il fegato; le malattie cardiache colpiscono il cuore; le ma­ lattie polmonari colpiscono i polmoni e così via. Fegato, polmoni e cuore sono organi del nostro corpo: sono entità fisiche obiettive che possono essere esplorate con metodiche che di anno in anno si fanno sempre più raffinate. Seguendo il medesimo ordine di idee, ci troviamo spinti ora ad affermare che la malattia mentale colpisce la mente. Questa banale affermazione dischiude la dimensione filosofica del nostro problema a partire da una domanda tanto semplice in apparenza quanto insidiosa nella sostanza: in cosa consiste e dove si trova la mente, la quale si ammala nella malattia mentale? Le principali questioni filosofiche re­ trive alla specificità della malattia mentale sono già interamente conenute in questa domanda. In particolare sono tre i quesiti più significativi che si fanno avan­ ti: che cos’è la mente da un punto di vista ontologico? Con quali me­ todi essa può essere studiata così da pervenire a teorie universalmente condivise dalla comunità scientifica? Infine, quale rapporto sussiste tra la mente e l’organo fisico da cui essa dipende, ossia il cervello e più precisamente il sistema nervoso? 2 Che si tratti di quesiti eminentemente filosofici risulta dalla se­ guente considerazione. Non è disponibile una metodologia scientifica in grado non di risolvere ma anche solo di affrontare razionalmente i tre quesiti. Non esistono né sono immaginabili situazioni sperimentali in grado di fornirci risposte attendibili. Nella storia del pensiero filosofico, scientifico e medico la mente è stata definita nei modi più diversi. E la cosa al tempo stesso più inte­ ressante e singolare è che le caratterizzazioni della mente che sono state elaborate nel corso del tempo, pur escludendosi reciprocamente, sono sempre, o quasi, plausibili e convincenti. Si confrontino, per esempio, la concezione psicoanalitica della mente con quella delle scienze cognitive. Nonostante i recenti tentativi di gettare un ponte tra l’una e l’altra (Bucci, 1997; Fonagy, Target, 2001; Migone, Liotti, 1998), le due concezioni appaiono incompatibili alla radice. È innega­ bile tuttavia che ambedue delineano un modello della mente, che se pur non suscettibile di una validazione empirica conclusiva 5, è prò33«

,!

12. IL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE

fondo, coerente ed efficace sul piano pratico. Questo fatto configura un paradosso la cui origine, a nostro parere, può essere rintracciata unicamente nel carattere polivalente della mente in quanto oggetto di studio: la mente, e insieme a essa la condotta dell’uomo, può essere proficuamente studiata da prospettive che si escludono e che nondi­ meno producono conoscenze rilevanti per la ricerca e la pratica. La mente, a quanto pare, ha uno statuto ontologico debole, che si mani­ festa nel fatto che essa può essere indagata con profitto in molti e diversi modi4. Lo stesso discorso vale per il rapporto tra la mente e il cervello. Le teorie costruite in proposito da filosofi e scienziati sono state e continuano a essere numerose, andando a delineare una situazione al­ trettanto paradossale della precedente: sebbene incompatibili, esse sono interessanti e talvolta utili sul piano pratico. Facciamo anche in questo caso un esempio. Mettiamo a confronto le teorie che, dal pun­ to di vista della conoscenza, riconoscono autonomia alla mente, so­ stenendo che lo studio delle attività mentali esige un atteggiamento e un sistema concettuale differenti da quelli richiesti nello studio dell’a­ natomia e della fisiologia del cervello; confrontiamole con le teorie che negano tale autonomia, sostenendo che una conoscenza autenti­ camente scientifica della mente potrà essere realizzata solo quando di­ venterà possibile rappresentare gli stati della mente con il linguaggio e i metodi della neurobiologia. Esistono o sono pensabili esperimenti o argomenti realmente at­ tendibili a favore dell’una o dell’altra posizione? Allo stato attuale delle conoscenze, la risposta è assolutamente negativa - si tenga pe­ raltro conto anche del fatto, non irrilevante sotto il profilo filosofico 5, che dopo secoli di riflessione intorno al problema mente/cervel­ lo un elemento conclusivo sarebbe pur dovuto emergere! Si deve però anche riconoscere che, in un futuro non sappiamo quanto lonta­ no, potrebbero rendersi disponibili conoscenze e tecniche d’indagine in grado di fornire le condizioni per formulare una risposta definitiva. Un simile futuro tuttavia non è, al momento, incluso in ciò che è ra­ zionalmente prevedibile; esso è prefigurato dalla fantascienza e anche, se vogliamo, dalla fantasia di non pochi scienziati che quando specu­ lano, lontani dai loro laboratori, deflettono volentieri dai principi del­ la razionalità 6. Anche le tesi apparentemente più evidenti in merito al problema mentc/cervcllo sono attaccabili da teorie rivali. Si pensi alla tesi se­ condo la quale ogni attività mentale presuppone un’attività cerebrale. E impensabile uno stato o un processo mentale, se non vi è un cer­ vello in funzione. Mettiamo da parte le teorie fondate sulla tesi onto339

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

logica secondo cui la mente è espressione di un’anima immateriale ed eterna. Le mettiamo da parte, pur riconoscendone la rilevanza cultu­ rale e sociale, perché traggono origine da postulati di natura teologica o metafisica, intesa nel senso classico del termine. Stiamo pensando piuttosto alle interpretazioni radicali dell’intelligenza artificiale. In che senso le operazioni matematiche effettuate da un computer non con­ figurano un’attività mentale? In che senso si può sostenere che un computer che gioca a scacchi mirabilmente non svolge, mossa dopo mossa, complesse operazioni di natura intellettuale? E, argomento an­ cora più forte: cosa dire dei sistemi informatici in grado di apprende­ re, di fornire risposte o prestazioni imprevedibili, ossia non program­ mate nel software? Si obietterà forse che la questione qui in gioco è proprio quella di stabilire che cosa si debba intendere per attività mentale, per pensie­ ro o intelletto. Ma il problema che stiamo discutendo è precisamente questo. Come appare impossibile fornire una definizione universal­ mente condivisibile del concetto di mente, allo stesso modo non sem­ bra possibile, allo stato attuale, costruire una teoria inconfutabile Fe­ stiva al rapporto tra l’attività mentale e la base materiale da cui essa lipende.

Le difficoltà e i paradossi filosofici che abbiamo rapidamente illustra­ to in merito alla natura e alla conoscibilità della mente, e al problema mente/cervello, si riverberano necessariamente sul concetto di malat­ tia mentale. Al pari della mente, anche la malattia mentale può essere studiata e definita in molti modi, come emergerà in piena evidenza quando più avanti ci occuperemo del suo carattere. Tutto ciò trova conferma sia nella storia della psichiatria sia nelle concezioni attuali. Apriamo una digressione storica. Dall’antica medi­ cina greca fino al tardo xvm secolo è esistita una sostanziale unità nel modo di concepire la malattia mentale. Quali fattori caratterizzavano e garantivano tale unità? Giacché, come è naturale, nel corso dei se­ coli sono emerse sempre nuove teorie, come non sono mancate di­ vergenze di opinione, anche profonde. Si pone allora una seconda domanda che va a intrecciarsi con la precedente: per quale ragione l’emergere di sempre nuove teorie non metteva in crisi il paradigma? Alla prima domanda possiamo rispondere facendo riferimento a due fattori storici: al perdurare nella medicina accademica della spie­ gazione umorale delle malattie, comprese quelle mentali; allo sviluppo sempre più intenso, a partire dal Rinascimento, delle conoscenze scientifiche concernenti l’organismo umano; si trattava inizialmente di conoscenze dell’anatomia, ma col passar del tempo anche la fisiologia 340

12. IL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE

e la patologia raggiungono i loro primi traguardi. Tutto ciò vale an­ che per il sistema nervoso e per il cervello stesso, il quale da oggetto misterioso e inconoscibile qual è stato per secoli, lentamente, a parti­ re dai grandi anatomisti rinascimentali, diventa oggetto di indagini scientifiche sempre più rigorose. La medicina ippocratico-galenica è costretta poco alla volta a cedere il passo a prospettive completamen­ te nuove (Civita, 19993, 19998). Il punto però, e arriviamo così alla seconda domanda, è che tale evoluzione del pensiero medico e anche psichiatrico non intacca la sopravvivenza del paradigma7, il quale permane così com’era ai tempi di Galeno e perfino di Ippocrate. I tratti essenziali di questo paradigma relativo alla malattia mentale sono tre. Il primo è l’organicismo: la malattia mentale scaturisce da un’alte­ razione dell’organismo. Per esempio, secondo la teoria umorale classi­ ca, la malattia origina da una diminuzione, da un eccesso o da una corruzione degli umori che circolano nel corpo. Se gli umori e gli organi solidi del corpo sono in armonia vi è salute, se l’armonia viene a mancare l’organismo si ammala. Con l’età moderna la teoria degli umori comincia a entrare in crisi, e la malattia mentale tende ad esse­ re attribuita a un’alterazione del comportamento degli spiriti animali che percorrono i nervi, i quali, fino al xvm secolo, erano concepiti come strutture vascolari. Una lesione organica del sistema nervoso o un’alterazione del comportamento degli spiriti animali che percorro­ no le vie nervose provoca, secondo una causalità lineare, il quadro sintomatico della malattia. Il secondo tratto del paradigma riguarda l’atteggiamento conosci­ tivo, che è di ordine essenzialmente descrittivo. E un tratto, questo, che deriva logicamente dal primo. Se i sintomi sono la conseguenza causale di un danno organico, allora l’interesse verso la sintomatolo­ gia non potrà che essere descrittivo, nel senso di limitarsi a un'accu­ rata elencazione e descrizione dei sintomi riconoscibili in ciascun di­ sturbo mentale. Restiamo così su un piano fenomenico. Un interesse non già per la causa, che è ritenuta in via pregiudiziale di ordine or­ ganico, ma per il significato dei sintomi all’interno della vita del pa­ ziente, non trova ancora le condizioni per affiorare. Da qui discende il terzo tratto del paradigma: la medicalizzazione della malattia mentale. Non ci riferiamo al fatto del tutto ovvio, alme­ no per quell’epoca, che le malattie mentali debbano essere studiate e curate da un medico. Ci riferiamo piuttosto al rapporto medico/paziente. La soggettività del malato mentale, l’ambiente in cui vive, la storia stessa della sua vita non possono in linea di principio suscitare 341

FILOSOFI/V DELLA MEDICINA

alcun interesse medico. Giacché, se ogni sintomo deriva da un’altera­ zione organica, per quale motivo si dovrebbero indagare la soggettivi­ tà e le esperienze di vita del paziente? Sarebbe tanto assurdo quanto interrogarsi sul significato soggettivo della febbre in un caso di pol­ monite. L’atteggiamento del medico resta il medesimo se il paziente è affetto sia da una malattia fisica, sia da una malattia mentale. Questi tre tratti definiscono il paradigma della malattia mentale che ha conservato la sua egemonia fino a tutto il xvm secolo. La messa in discussione di questi tre punti porterà non tanto a un cam­ biamento di paradigma - ed è in questo senso che il riferimento a Kuhn è poco rigoroso - quanto a una frammentazione del sapere psi­ chiatrico, il quale, soprattutto dal secolo scorso, entra in una fase di pluralismo, caratterizzata dalla coesistenza di concezioni antagoniste della malattia mentale. Prendiamo brevemente in esame la progressiva messa in discussio­ ne dei tre tratti del paradigma. Il medico e alienista che, anticipando di gran lunga i tempi, smantella l’intero paradigma è Philippe Pinel, allorché nel 1800 dà alle stampe un testo di psichiatria che senza en­ fasi si può qualificare come rivoluzionario: il '‘Traité médico-philosophique sur l’aliénation méntale, ou la manie (Pinel, i8ooa). Il primo punto da rammentare riguarda le idee che Pinel espone in ordine all’eziologia e alla cura della malattia mentale. Contrappo­ nendosi a più di due millenni di pensiero medico, Pinel sostiene au­ dacemente tre tesi tanto innovative quanto, possiamo ben dirlo, com­ pletamente immature per la sua epoca. La prima è che la malattia mentale, fatta eccezione per i pochi casi in cui l’alterazione organica è evidente (come nell’idiotismo) 8, non scaturisce da una lesione del cervello, ma da passioni esacerbate che sconvolgono la mente, preci­ pitandola nel disordine. Che si tratti di moti amorosi o erotici, reli­ giosi oppure politici, la passione portata all’eccesso è in grado, disor­ ganizzando la mente e il comportamento, di condurre l’individuo alla follia. La seconda tesi è che il disordine della mente, provocato da un tale eccesso di passione, non è mai completo. Persiste nella mente dell’alienato un residuo di ragione. La terza tesi deriva dalla seconda: se nell’alienato la ragione continua a vivere, sia pure ridotta a un te­ nue lumicino, allora la speranza della guarigione non può in nessun caso essere abbandonata. Pinel elaborerà allora un metodo di cura, il 'Trattamento morale, che di fatto configura la prima, arcaica forma di psicoterapia. Se la causa della malattia è di ordine mentale, solo un’a­ zione sulla mente del malato potrà venire a capo del suo disordine 9. 342

12. IL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE

Forse però il contributo più sorprendente che Pinel apporta allo sviluppo del pensiero psichiatrico è contenuto nel seguente brano, tratto àa\T introduzione al Trattato, che vale la pena citare per intero. Sappiamo quanto l’opinione pubblica sia mal disposta nei confronti della medicina, ed io non faticherei molto a dimostrare che fra tutte le arti della storia naturale, la più diffìcile è l’arte di osservare le malattie interne e identi­ ficarle attraverso le loro caratteristiche esteriori. Nello studio dell’alienazione mentale queste difficoltà sono ancora più ardue; in primo luogo c’è un natu­ rale distacco ed una forte ripugnanza per degli uomini, alcuni dei quali incu­ tono timore per urla continue e grida di furore, altri vi respingono con una durezza rustica e selvaggia; altri ancora vi stordiscono con una sorta di conti­ nuo cicaleccio senza ordine ed illogico [...]. E ancora bisogna armarsi di co­ raggio e di costanza contro un ostacolo di altro genere: ovvero l’umore om­ broso e l’estrema diffidenza degli alienati per tutto ciò che li circonda; il che li conduce spesso a dissimulare o a condannarsi a una taciturnità che non s' riesce a vincere. Sarebbe maldestro mostrare loro un’aperta intenzione di os servarli e di penetrare il segreto dei loro pensieri attraverso una quantità d domande sul loro stato di salute; la paura di tradirsi ispira a questi malati una sorta di riserbo e di ritegno che li fa apparire affatto diversi da quello che sono, quando conservano ancora un po’ di discernimento [...]. Quanti espedienti ho dovuto utilizzare per superare gli ostacoli potenti c talvolta in­ sormontabili costituiti dall’estrema diffidenza o piuttosto dalla selvaggia mis­ antropia di certi alienati, sempre guardinghi nei confronti di tutti coloro che li avvicinano! Essi possono essere vinti solo adottando un’espressione di can­ dore, un’estrema semplicità e dei modi affettuosi (Pinel, i8ooa, trad. it. pp. 19-21).

Una prima fulminea affermazione che va a colpire l’atteggiamento descrittivo, tipico del paradigma classico, è che i pensieri dei malati mentali celano un segreto. Come dire: si può descrivere accurata­ mente il quadro sintomatico del malato, se ne può ricostruire l’a­ namnesi individuale e familiare, ma in tal modo, per quanta perizia si profonda, non si oltrepassa la superficie, lo strato meramente fe­ nomenico della malattia, la quale ha invece il suo nucleo generatore in un segreto inconfessabile che, con una terminologia dei nostri giorni, potremmo caratterizzare come un’esperienza emotiva trau­ matica. Se il segreto rimane ignoto, o peggio ancora, se non vi si presta alcuna attenzione perché lo si ritiene irrilevante dal punto di vista medico, la malattia mentale si prospetta inevitabilmente come inguaribile. Interrogarsi sul segreto, al contrario, apre una prospet­ tiva di cura. Come mostra con estrema limpidezza il brano sopra citato, la co­ noscenza del segreto è però ostacolata da due differenti barriere: la

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ripugnanza e il distacco del medico nei confronti dell’alienato; la dif­ fidenza di questi verso il medico. La medicalizzazione della malattia mentale viene in questo modo, per la prima volta, messa radicalmente in discussione. Pinel in fondo ci sta dicendo semplicemente questo: per comprendere e quindi curare una malattia mentale è necessario istituire col malato una relazione sta generis, che coinvolga entrambi come esseri umani, e che si differenzia profondamente dall’atteggia­ mento e dalla relazione di distacco del medico fisico verso i suoi pa­ zienti ,o. Le idee di Pinel ci consentono di virare dalla riflessione filosofica sulla malattia mentale alla prospettiva pragmatica, vale a dire alle esigenze della ricerca e della pratica clinica. La prima tesi che pos­ siamo proporre, ispirati dal pensiero di Pinel, è la seguente: per studiare e quindi per avere la speranza di curare un paziente men­ tale è necessario entrare in relazione con lui. Lo sguardo attento ma emotivamente distaccato dell’alienista della tradizione classica si rivela insufficiente, restando allo strato fenomenico della malattia. Occorre eliminare l’atteggiamento distanziante del medico somatico e intrattenere una relazione intima col paziente. Di quale natura debba essere il carattere di tale relazione, è una questione insolubi­ le che ci riporta al paradosso del pluralismo degli atteggiamenti psi­ chiatrici e psicoterapeutici. L’unico punto fermo è che la conoscen­ za della malattia mentale implica necessariamente che il terapeuta istituisca con il paziente mentale una relazione in cui al tempo stes­ so sono al lavoro due coppie: un medico e un paziente mentale; un essere umano e un altro essere umano. Facciamo ora un balzo dai tempi di Pinel ai giorni nostri. Ma pri­ ma una precisazione. Non solo all’inizio del xix secolo, ma anche fino alla metà del secolo scorso, lo psichiatra non disponeva di rimedi fisici specifici per trattare i disturbi mentali. I farmaci disponibili, bromuro, barbiturici, oppiacei, avevano un effetto tranquillante, ma generico nel senso di non essere in grado di assumere come bersaglio singoli sintomi o gruppi di sintomi. L’effetto era in ogni caso una se­ dazione più o meno profonda. Dagli anni cinquanta del secolo scorso la situazione è mutata so­ stanzialmente. A distanza di pochi anni viene sintetizzata una serie di psicofarmaci che appartengono alle tre tipologie di farmaci psicotropi tuttora in uso: tranquillanti minori o ansiolitici (benzodiazepine), tranquillanti maggiori o antipsicotici (neurolcttici), antidepressivi. Nei decenni successivi la ricerca psicofarmacologica è progredita in modo sempre più intenso, e oggi lo psichiatra dispone di un ingente arsena344

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le di farmaci, in grado di agire in maniera sempre più mirata sui di­ versi quadri clinici. Nonostante questo fondamentale progresso in materia di psicofar­ maci, tende ormai ad affermarsi nel mondo della psichiatria la con­ vinzione secondo la quale, per dirla nel modo più semplice, i farmaci da soli non guariscono. Le molecole hanno bisogno di esser affiancate dalle parole, ossia da un supporto psicologico, o, se le condizioni lo consentono, da una vera e propria psicoterapia 11. La specificità della malattia mentale consiste dunque nel fatto che, nella generalità dei casi, il trattamento farmacologico deve essere af­ fiancato da un trattamento psicoterapico. La domanda, “quale psico­ terapia?”, ci riconduce al nodo filosofico da cui siamo partiti. La ma­ lattia mentale può essere concettualizzata in maniere diverse, a cia­ scuna delle quali corrispondono una teoria della malattia e una teoria della tecnica terapeutica. Queste ultime considerazioni c’introduconc al tema del carattere della malattia mentale.

Il problema del carattere della malattia mentale può essere illustra­ to in via preliminare chiedendosi quali siano gli elementi che defi­ niscono l’essenza del concetto di malattia mentale. Abbiamo impie­ gato il termine essenza, e questo dischiude da subito la dimensione filosofica del problema. L’essenza di un determinato concetto, astratto o concreto che sia, comprende ciò che deve necessariamen­ te inerire a un’entità qualsivoglia affinché questa possa essere inclu­ sa nel concetto in questione. Per esempio, se affermiamo che i nu­ meri primi possono, per loro essenza, essere divisi solo per l’unità e per sé stessi, allora di un numero che soddisfi queste condizioni si potrà legittimamente affermare che a esso inerisce l’essenza dei nu­ meri primi. Ora, se il concetto di essenza si dimostra, come è noto, problema­ tico già in matematica, tanto più lo sarà in discipline, ben lontane dal regno dell’astratto, quali la psichiatria, la psicopatologia, la psicologia clinica. Questo ci riporta alle considerazioni svolte in precedenza. La ricerca dei caratteri essenziali della malattia mentale si scontra con il fatto che, pur limitandoci al secolo scorso, l'essenza della malattia mentale è stata descritta da vertici profondamente diversi. Vale la pena a questo punto fare brevemente tre esempi illustri. Per semplifi­ care il discorso, ci riferiremo alla schizofrenia che costituisce, nell’am­ bito delle psicosi, la patologia più severa ,a. Emil Kraepelin concepiva tutte le malattie mentali, compresa la schizofrenia, che egli chiamava Dementia praecox, come entità natura­ li, non dissimili da una pianta. E, al pari di una pianta, anche la de345

J FILOSOFIA DELLA MEDICINA

menza precoce nasce da un seme, una sconosciuta alterazione cere­ brale, ed è predestinata a una precisa e ineluttabile evoluzione: esor­ dio, decorso, e come esito la demenza. A ciascuna di queste fasi, la demenza precoce manifesta dei caratteri sintomatici immancabili. Kraepelin aveva una visione longitudinale della demenza precoce. Eugen Bleuler ha della schizofrenia - fu lui a introdurre questo termine nel 1911 - una visione non orizzontale bensì verticale. Anche Bleuler era convinto che questa malattia derivasse da un danno orga­ nico sconosciuto, i cui effetti vengono però visti verticalmente, su due piani. Il primo è costituito dai sintomi fondamentali, i quali sono ca­ ratterizzati da due aspetti ben precisi: determinano, in primo luogo, un profondo disturbo del pensiero; il paziente è cognitivamente e an­ che emotivamente del tutto disorientato; in secondo luogo, questi sin­ tomi di fondo, scaturendo direttamente da una lesione cerebrale, si sottraggono in linea di principio alla sfera del senso. Il secondo piano della schizofrenia è formato dai sintomi seconda­ ri, i quali sono generati da una reazione dell’individuo alla devastazio­ ne cognitiva ed emotiva prodotta dalla sintomatologia fondamentale. Per cercare di ordinare il caos che domina la sua mente, il paziente ricorre a una ricca produzione delirante e allucinatoria. Diversamente dalla sintomatologia fondamentale, i sintomi secondari, nascendo da un’azione finalistica e inconscia del paziente, sono suscettibili di esse­ re interpretati e di ricevere un senso. Negli anni venti del secolo scorso Freud ha delineato una conce­ zione molto semplice ed elegante della psicosi, la quale, per il fonda­ tore della psicoanalisi, comprende la paranoia e la schizofrenia. E una concezione che si basa sul tipo di alleanze che si stabiliscono tra le tre istanze dell’apparato psichico - seconda topica - e la realtà. La nevrosi scaturisce da un’alleanza tra l’io, il Super-io e la realtà, con­ tro l’Es, il serbatoio delle pulsioni. Dalla lotta intransigente dell’io contro la pressione pulsionale derivano le tipiche manifestazioni ne­ vrotiche, il cui denominatore comune è l’inibizione, la paura di affer­ marsi in questo o in quel campo della vita. I fronti belligeranti della psicosi sono i seguenti: l’io si allea con l’Es in una lotta spietata contro il Super-io e la realtà. La conseguen­ za è un’alterazione profonda del rapporto con la realtà e di conse­ guenza lo sviluppo di deliri e allucinazioni. Abbiamo tratteggiato tre differenti visioni della schizofrenia. Dob­ biamo solo aggiungere che le teorie attuali della schizofrenia sono ben più numerose. Ci limiteremo a notare questo. La psicoanalisi postfreudiana ha sviluppato concezioni che si sono sostanzialmente allontanate dalle idee di Freud. Esistono poi importanti spiegazioni 346

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della schizofrenia elaborate dalla teoria sistemico-familiare e dal co­ gnitivismo clinico. Esistono infine studi neurobiologici che, se non sono ancora giunti a una soluzione conclusiva, hanno però accumula­ to una gamma ingente di evidenze sperimentali che fanno ragione­ volmente prevedere che presto si perverrà a un’attendibile compren­ sione biologica della schizofrenia. Nell’attesa che ciò accada 13 resta tuttavia il problema di come orientarsi in questa pluralità di posizioni tutte ugualmente convincen­ ti. Un aiuto ci viene dal dsm *4. Citiamo daWIntroduzione al dsm-iv un’interessante definizione di disturbo mentale: I

Sebbene il titolo di questo volume sia Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, la dizione disturbi mentali implica sfortunatamente una di­ stinzione tra disturbi “mentali” e disturbi “tìsici”, che rappresenta un ridutti­ vo anacronismo riguardante il dualismo mente/corpo. Un’ampia letteratura documenta che c’è molto di fisico nei disturbi “mentali”, e molto di “menta­ le” nei disturbi “fisici”. [...] Inoltre, sebbene in questo manuale venga fornita una classificazione dei disturbi mentali, si deve ammettere che nessuna defi­ nizione specifica adeguatamente i confini precisi del “disturbo mentale”. Questo concetto, come molti altri in medicina e nella scienza, manca di una definizione operativa coerente che copra tutte le situazioni. Tutte le condi­ zioni mediche vengono definite a diversi livelli di astrazione - ad es. patolo­ gia strutturale (es. colite ulcerosa), presentazione dei sintomi (es. emicrania), deviazione da una norma fisiologica (es. ipertensione), eziologia (es. polmoni­ te da pneumococco). Anche i disturbi mentali sono stati definiti tramite una varietà di concetti (es. stress, alterato controllo, menomazione, disabilità, mancanza di flessibilità, irrazionalità, quadro sindromico, eziologia, deviazio­ ne statistica). Ognuno rappresenta un utile indicatore di disturbo mentale, ma nessuno di essi equivale al concetto, e situazioni diverse richiedono di­ verse definizioni. Nonostante questi moniti, la definizione di disturbo mentale inclusa nel DSM-in e nel dsm-iii-r viene presentata in questa sede in quanto utile, come qualsiasi altra definizione disponibile, e per il contributo dato nella scelta delle condizioni al confine tra normalità e patologia da includere nel dsm-iv. Nel dsm-iv ogni disturbo mentale è conccttualizzato come una sindrome o un modello comportamentale o psicologico clinicamente signifi­ cativo, che si presenta in un individuo, ed è associato a disagio (es. un sinto­ mo algico), a disabilità (es. compromissione in una o più arce importanti del funzionamento), ad un aumento significativo del rischio di morte, di dolore o disabilità, o a un’importante limitazione della libertà. In più questa sin­ drome o quadro non deve rappresentare semplicemente una risposta attesa o culturalmente sancita ad un particolare evento, ad esempio la morte di una persona amata. Qualunque sia la causa, esso deve essere al momento consi­ derato la manifestazione di una disfunzione comportamentale, psicologica o biologica dell’individuo. Non rappresentano disturbi mentali un comporta­ mento deviarne (es. politico, religioso o sessuale), né conflitti sorti tra l’indi-

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viduo e la società, a meno che la devianza o il conflitto siano il sintomo di una disfunzione dell’individuo, come sopra descritto (apa, 1994, pp. 7*8)* Vale la pena commentare questo brano. Sebbene in esso non si faccia riferimento alle implicazioni filosofiche del problema, è chiaro che gli autori hanno in mente in sostanza gli stessi problemi che abbiamo discusso in precedenza. Il passaggio al livello pragmatico è fornito dalla definizione di disturbo psichico. - I parametri che concorrono alla definizione di disturbo mentale sono i seguenti. - Il disagio, ossia una sofferenza soggettiva psichica o fisica. - La disabilità, ossia una compromissione del funzionamento della persona nell'affrontare i vari aspetti della vita: studio, lavoro, relazio­ ni familiari, sentimentali, sociali. - Un aumento significativo del rischio di morte, di dolore o disabi­ lità. - Una limitazione della libertà, per inibizioni sociali. Importanti sono le precisazioni conclusive del brano citato. II quadro sintomatico non deve rappresentare una risposta culturalmen­ te attesa o sancita; per esempio, devianza e conflittualità sociale non configurano un disturbo psichico, a meno di non riconoscerle chiara­ mente come manifestazioni di una condizione patologica. .

Normale e patologico nei disturbi mentali Affrontiamo questo arduo problema prendendo le mosse da una fon­ te quanto mai autorevole nel mondo della medicina, l’Organizzazione mondiale della Sanità (oms), che nel 1948 ha così definito la salute: «La salute è uno stato di completo benessere fìsico, psichico e sociale e non semplicemente l’assenza di malattia o infermità». Non abbiamo qui modo di entrare nel merito delle motivazioni che sono alla base di questa definizione dell’oMS; una cosa, più e più volte ribadita '5, appare però certa: se la salute va intesa in quel modo, allora evidentemente nessuno potrà definirsi sano, se non per effimere frazioni di tempo. L’oms non ci aiuta dunque a sbrogliare il nostro problema. Una posizione antitetica a quella or ora considerata proviene da Freud e riguarda specificamente la salute o normalità psichica. In uno dei suoi ultimi capolavori, Analisi terminabile e interminabile (1937), discutendo dello scopo del trattamento psicoanalitico, Freud svolge le seguenti considerazioni:

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12. IL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE

Com’è noto la situazione analitica consiste nell’alleanza che noi stabiliamo con l’io della persona che si sottopone al trattamento al fine di assoggettare - cioè includere nella sintesi del suo Io - porzioni incontrollate del suo Es. Il fatto che questa collaborazione fallisca invariabilmente quando abbiamo a che fare con psicotici rappresenta per il nostro giudizio un punto fermo ’6. Un patto di questo genere possiamo concluderlo soltanto con un Io normale. Ma tale Io normale è, come la normalità in genere, una finzione ideale [...]. Ogni persona normale è appunto solo mediamente normale (Freud, 1937, pp. 517-8).

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Ciò che Freud sembra volerci dire è che anche le persone che si giu­ dicano e sono giudicate normali dagli altri portano necessariamente in sé un tratto, sia pur lieve, di patologia nevrotica ’7. E un’afferma­ zione senz’altro ragionevole, ma che, a sua volta, non ci aiuta ad af­ frontare il problema. E a ben vedere, la ragione è la medesima che rende inutilizzabile sul piano teorico e operativo la definizione di sa­ lute dell’OMS. In entrambi i casi non ci viene fornito un criterio prag­ matico per tracciare una linea di confine tra chi è malato mentale, e ha bisogno di cure, e chi non lo è. L’opposizione tra la visione della salute dell’OMS e quella di Freud si dimostra tuttavia preziosa da un altro punto di vista: in essa trova espressione con chiarezza e sobrietà la principale questione filosofica implicata nel problema normalità/patologia. Le due concezioni confi­ gurano rispettivamente una visione idealistica e una realistica della sa­ lute. Per I’oms la comunità umana deve assumere come modello di salute al quale ispirarsi un benessere pieno e duraturo. Freud, per contro, respinge l’idealità e punta la sua attenzione sulle possibilità e i limiti della realtà fattuale. Occorre adesso scendere sul piano della concretezza e del prag­ matismo. Ogni trattato di psicopatologia o di psichiatria si pone im­ mancabilmente la domanda se sia possibile tracciare un confine tra la normalità e la patologia. Qui prenderemo in esame un unico autore, Karl Jaspers, un autore del passato ma la cui opera principale in ma­ teria di malattia mentale, Psicopatologia generale (1913), può ancora essere letta con profitto a quasi un secolo di distanza l8. In quest’opera egli dedica molte e protonde riflessioni, sia filosofiche sia empiriche, al concetto di salute, di malattia, e al rapporto normale/patologico. La conclusione cui perviene conferma in certo modo quella alla quale noi stessi eravamo giunti confrontando la po­ sizione dell’OMS e quella di Freud. Cosa sia salute e cosa malattia, dove occorra tracciare il confine tra normale e patologico, sono que­ stioni che si sottraggono a una risposta definitiva. Jaspers, riferendosi

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alle patologie del carattere, esprime quest’ordine di idee con la chiarezza che gli è propria: Alla domanda quando e per quali ragioni i caratteri siano anormali, non è possibile dare una risposta univoca. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che “anormale” - detto in generale — non è una constatazione di fatto, ma una valutazione (Jaspers, 19133, trad. it. p. 473) *9. Interpretiamo in questi termini. L’anormalità psichica, che riguardi le patologie del carattere oppure i disturbi mentali in generale, non può essere costatata in modo obiettivo e incontrovertibile. Non esistono criteri universali per stabilire, sub specie aeternitatis, se una persona è psichicamente anormale. Diventa indispensabile valutare, e la valuta­ zione è un atto storicamente condizionato da molteplici variabili 2O. Ci limiteremo a prenderne in considerazione due: il carattere storico sia della figura del malato di mente, sia delle stesse malattie mentali. Proporremo in proposito due brevi esempi. Fino al grande inter­ namento, mirabilmente descritto da Foucault (1963), il malato di mente non veniva escluso dal consesso sociale. Il malato mentale, o meglio il matto, era socialmente tollerato, così da rendere possibile talvolta un ceno grado di integrazione, per esempio attraverso lavori facili. Se il matto era anche pericoloso, il suo destino era il carcere. Con il grande internamento, dal xvi secolo, tutto cambia: i matti, in­ sieme ad altre figure di deviami, dovevano essere emarginati e reclusi in campi d’internamento, dove per lo più erano abbandonati a sé stessi. Con raffermarsi del manicomio nel xvm secolo il matto divie­ ne un malato da custodire, da proteggere e curare. La crisi dell’o­ spedale psichiatrico nel secolo scorso ha apportato un nuovo muta­ mento alla figura del malato di mente, soprattutto per quanto concer­ ne la percezione sociale. Il malato di mente non è un matto, non è condannato alla reclusione, né a degenze manicomiali lunghe talora quanto la loro intera vita - di queste degenze interminabili la lettera­ tura psichiatrica ha dimostrato inconfutabilmente il carattere patoge­ no. Il malato mentale è percepito ai giorni nostri come una persona difficile, sofferente, problematica, che non di rado crea problemi a sé stesso o agli altri, ma che, malgrado le difficoltà interpersonali facil­ mente intuibili, viene accolto come persona bisognosa dalla comunità sociale cui appartiene. Il secondo esempio riguarda il problema alquanto intrigante della storicità delle malattie mentali. Consideriamo brevemente due tipi di malattia. La malinconia, intesa nel senso moderno, ossia nel senso della depressione o del disturbo bipolare, ha fatto ingresso nell’uni-

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verso delle patologie mentali solo nel xix secolo, soprattutto a partire dagli studi clinici del più eminente allievo di Pinel, Etienne Esquirol. S’impone allora una domanda: forse che prima dell’Ottocento non esistevano i depressi o i bipolari? Certo che esistevano, ma venivano percepiti diversamente, e venivano loro attribuite altre categorie, che oggi, nonostante l’ingente letteratura in materia, risultano francamen­ te difficili da ricostruire con un minimo di attendibilità storica. U secondo tipo di malattia è l’anoressia mentale, ossia il rifiuto volontario di alimentarsi. L’anoressia mentale è stata descritta per la prima volta, come patologia psichica, solo nel tardo xlx secolo da Lasègue (1873) e Culi (1873) *n modo indipendente l’uno dall’altro. Da questo momento il rifiuto di alimentarsi diviene a tutti gli effetti una malattia psichica col suo ben preciso quadro sintomatico. La storia successiva dell’anoressia è ben nota, soprattutto per quanto concerne la sua vertiginosa diffusione negli ultimi decenni del secolo corso. Non è nostro compito soffermarci sulle ragioni della sua eclatante espansione. Ci preme piuttosto interrogarci anche in questo caso sul passato: forse che prima della sua mcdicalizzazione l’anoressia non esisteva, non vi erano persone, soprattutto di sesso femminile, che ri­ fiutavano il cibo? Esistevano certamente, solo che non erano percepi­ te socialmente come malate, ma secondo altre categorie sociali. La ca­ tegoria più nota e studiata è la santità: il rifiuto del cibo, la consun­ zione del corpo, le conseguenti visioni mistiche, formavano un estre­ mo sacrificio che avvicinava la donna a Dio e alla santità (cfr. Vandereycken, van Deth, 1994). A questo punto il nostro compito è duplice: da un lato dobbiamo prendere atto, come filosofi, del carattere irrimediabilmente storico dei criteri in base ai quali la patologia psichica viene distinta dalla normalità; dall’altro si tratta di rinunciare a ogni pretesa di universali­ tà e di occuparci degli elementi con i quali distinguiamo oggi patolo­ gia e normalità. Ci viene in aiuto anche in questo caso il brano del dsm che abbiamo citato in precedenza. I parametri da prendere ora in considerazione sono il disagio e la disabilità. Un individuo può pa­ tire una sofferenza (disagio) e una limitazione del suo funzionamento sociale (disabilità), senza tuttavia avvertire il bisogno di modificare il suo stato. Ovvero, senza chiedere un aiuto sanitario. Egli ritiene, per così dire, di poter accettare e convivere con i limiti posti dalla sua condizione. Non sono naturalmente in possesso di dati statistici, ma ritengo che situazioni di questo tipo siano numerose. Se invece disagio e disabilità oltrepassano una determinata soglia, il soggetto sente di non potercela fare da solo e si affida a uno psi­ chiatra o a uno psicologo clinico. Il punto è che questa soglia non è 351

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suscettibile di una misurazione o di una valutazione obiettiva. Troppe sono le variabili in gioco, di ordine soggettivo, familiare, sociale - tali variabili peraltro s’intrecciano in maniera inestricabile. Le due situazioni che abbiamo illustrato si collocano necessaria­ mente nell’ambito della nevrosi o in quello dei disturbi di personali­ tà 21. Se ora ci affacciamo al campo delle psicosi, la situazione muta sostanzialmente. Per quanto il concetto di psicosi sia problematico e dal punto di vista teorico e da quello pratico e diagnostico, come ve­ dremo nel prossimo paragrafo, non vi è alcun dubbio che nelle au­ tentiche psicosi i valori del disagio e della disabilità aumentano in maniera nettissima. Nei classici manuali di psichiatria, tra gli elementi che contraddistinguono il soggetto psicotico vi è l’assenza di consape­ volezza, oppure una consapevolezza attenuata e confusa, della malat­ tia. Come dire: lo psicotico non ha una chiara percezione della pro­ pria patologia. Il punto fondamentale in ordine al rapporto tra normalità e pato­ logia è il seguente. Mentre nella nevrosi e nei disturbi di personalità non particolarmente severi è il soggetto a decidere se la sua soffe­ renza e le sue inibizioni configurino o meno una malattia di cui occu­ parsi chiedendo un aiuto terapeutico, nella psicosi sono per lo più gli altri - la famiglia, i vicini di casa, il medico di famiglia, le forze del­ l’ordine - a svelare, in occasione di acuzie, la malattia del soggetto.

Tipologia dei disturbi ino a qualche anno fa erano tre le principali tipologie dei disturbi mentali quasi universalmente riconosciute: nevrosi, psicosi, disturbi di personalità. Nelle ultime due edizioni del dsm il termine nevrosi è stato soppresso. Le ragioni della soppressione di questo termine che ha una lunga e tormentata storia sono probabilmente due. La prima è da ricercare proprio nella storia secolare della parola, la quale col tra­ scorrere del tempo e con la proliferazione degli orientamenti psicopa­ tologici si è andata fatalmente caricando di una profonda ambiguità semantica. Un’ambiguità che del resto è già racchiusa nell’etimologia stessa della parola, col suo riferimento ai nervi e al sistema nervoso. Del resto è precisamente in questa accezione che le nevrosi erano in­ tese in medicina fino alla seconda metà dell’ottocento. In seguito, con Janet e soprattutto con Freud la parola nevrosi muta radicalmen­ te di significato: non designa più una patologia, sia pure solo funzio­ nale del sistema nervoso, ma un disturbo mentale privo di base organica 352

12. IL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE

La seconda ragione risiede, a nostro parere, nel fatto che gli auto­ ri del dsm sono giunti alla conclusione che anche le patologie che fino a pochi anni fa venivano qualificate come nevrotiche - in parti­ colare i disturbi d’ansia - possono raggiungere livelli di tale gravità o pervasività da prefigurare una diagnosi di psicosi o di disturbo di personalità. Non intendiamo addentrarci in questa problematica quanto mai delicata e sfuggente. Preferiamo in ogni caso non aderire alla visione del dsm e affidarci alla tradizione psichiatrica e psicopa­ tologica, confermando pertanto che le tipologie che prenderemo in esame restano quelle classiche: nevrosi, psicosi, disturbi della perso­ nalità. Come nei precedenti paragrafi prendiamo le mosse da un esame filosofico dei problemi che sono qui in gioco. Sul concetto di nevrosi ci siamo già dilungati nel precedente paragrafo ragionando sulla linea di demarcazione tra normalità e patologia. Ci soffermeremo penante su due domande: cosa dobbiamo intendere con psicosi? Che cos’è un disturbo di personalità? Cominciamo dal problema più semplice - si fa per dire. Cos’è un disturbo di personalità? La questione filosofica che viene qui sollevata riguarda naturalmente il concetto di personalità. Per sapere in che modo la personalità si ammala, bisogna essere in possesso di un con­ cetto rigoroso di personalità. Ma delineare il concetto di personalità costituisce per l’appunto un dilemma filosofico che in quanto tale si sottrae a una soluzione conclusiva. Dobbiamo dunque ancora una volta spostarci su un terreno pragmatico, per cercare un concetto di personalità che si dimostri proficuo sul piano della ricerca c della cli­ nica. Partiamo da una citazione che ricaviamo da un autorevole ma­ nuale di psichiatria:

La complessità del concetto di personalità e le difficoltà che s'incontrano nella definizione delle sue componenti hanno condotto all’adozione di nume­ rose modalità di approccio senza che nessuna di esse abbia fornito un mo­ dello psicopatologico sufficientemente valido sia per la pratica clinica che per la ricerca. Ne è conseguita un’estrema eterogeneità nelle descrizioni sia della personalità che della sua patologia [...]. Nei sistemi classificativi più re­ centi (icd 24, dsm) i disturbi di personalità (dp) sono presentati primariamen­ te come disturbi della condotta sociale - percezioni, cognizioni, o risposte poco funzionali o maladattive in contesti interpersonali — piuttosto che entità cliniche definite secondo criteri psicopatologici. Caratteristica fondamentale è la modificazione dei tratti di personalità; i “tratti” sono «modi costanti di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell’ambiente e di se stessi che si manifestano in contesti sociali e interpersonali importanti»; quando tali tratti sono rigidi e non adattivi, e causano quindi una significativa compro353

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

missione del funzionamento sociale e lavorativo, oppure una sofferenza sog­ gettiva, costituiscono i “dp”; tali caratteristiche specifiche devono essere «ti­ piche del funzionamento a lungo termine dell’individuo e non limitate ad episodi ben definiti di malattia» (Mauri, Sarno, Armani, Cecconi, 1994, p. 501).

Ci troviamo qui di fronte a una rigorosa caratterizzazione descrittiva del disturbo di personalità, la quale viene implicitamente definita come un insieme di modalità costanti di percepire, pensare e rappor­ tarsi all’ambiente e a sé stessi in situazioni sociali o interpersonali im­ portanti. Se questi tratti o modalità sono rigidi e non adattivi ne deri­ va una compromissione del funzionamento sociale e/o una sofferenza soggettiva. Ove ciò si verifichi, è lecita una diagnosi di disturbo di personalità. Si tratta, come abbiamo notato, di una caratterizzazione efficace ma descrittiva del disturbo di personalità, in quanto si resta in una posizione teoricamente neutrale rispetto al problema di stabilire in cosa consista concettualmente la personalità, in che modo essa si deli­ nei e poi si consolidi nella vita dell’individuo, in particolare nell’età evolutiva, e quali motivi o circostanze possono condurre un individuo a sviluppare una personalità patologica. Questa linea di pensiero, che ha il suo fulcro nella neutralità teoretica, ha trovato la sua più alta espressione nel dsm al quale dobbia­ mo nuovamente rivolgerci prendendo in considerazione uno dei di­ sturbi di personalità clinicamente e statisticamente più importanti: il disturbo borderline. Consideriamo i criteri diagnostici del dsm-iv:

Una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, deH’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività, comparse nella prima età adulta e presenti in vari contesti, come indicato da cinque (o più) dei se­ guenti elementi: 1. Sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono. Nota Non includere i comportamenti suicidari o automutilanti considerati nel Crite­ rio 5. 2. Un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione. 3. Alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili. 4. Impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto, quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffa­ te. Nota Non includere i comportamenti suicidari o automutilanti considerati nel Criterio 5. 5. Ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari, o comportamento automutilante.

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12. IL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE

6. Instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore (per es., episodica intensa disforia, irritabilità o ansia, che di solito durano poche ore, e soltanto raramente più di pochi giorni). 7. Sentimenti cronici di vuoto. 8. Rabbia immotivata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia (per es., frequenti accessi di ira o rabbia costante, ricorrenti scontri fisici). 9. Ideazione paranoide, o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress (apa, 1994, p. 714). La natura descrittiva di questi criteri diagnostici scaturisce da due aspetti tra loro correlati. Il primo risiede nel fatto che è sufficiente accertare cinque dei nove sintomi elencati per formulare la diagnosi di disturbo borderline di personalità. Questo significa che la filosofia del dsm non prevede sintomi patognomonici, la cui presenza conduce di necessità a porre la diagnosi, indipendentemente da ogni altra cir­ costanza. Questo punto si può anche esprimere osservando, in lin­ guaggio tecnico, che le liste dei sintomi sono politetiche. Il secondo aspetto ci viene illustrato da Migone (1998, p. 202). Il carattere politetico dei criteri diagnostici del dsm dà al sistema maggiore flessibilità, anche se al prezzo di un’eterogeneità a volte eccessiva (ad esempio, si pensi che vi sono ben 93 modi per soddisfare i criteri diagnostici del disturbo borderline del DSM-m 2’. e che due pazienti possono ricevere diagnosi di disturbo schizotipico senza avere in comune al­ cun criterio diagnostico.

Il dsm, come già osservato, non va oltre lo strato fenomenico. Ci for­ nisce di certo un dispositivo diagnostico altamente raffinato che sca­ turisce da una rigorosa elaborazione statistica di un’ingente massa di esperienze cliniche, distribuite quasi in tutto il mondo. L interesse strutturale viene soppresso in linea di principio. Il dsm vuole offrire uno strumento rigoroso ma ateoretico: siano poi i clinici e i ricercato­ ri dei diversi orientamenti a estendere l’esplorazione oltre i dati ac­ certabili in modo obiettivo! Vogliamo ora prendere in considerazione un modo completamen­ te diverso di indagare il disturbo borderline e in generale il concetto stesso di personalità. Ci riferiremo allo psichiatra e psicoanalista Otto Kernberg che fin dagli anni settanta del secolo scorso ha portato sulla patologia borderline una serie di contributi di grande rilevanza. La peculiarità dell’approccio di Kernberg alla patologia borderline sta nel non considerarla come un particolare disturbo di personalità, bensì come un’organizzazione e un modo di funzionare della perso­ nalità, compatibile con svariati disturbi di personalità descritti dal

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FILOSOFIA DELLA MEDICINA

DSM. Il punto di forza della posizione di Kernberg risiede nell’aver descritto, con precisi criteri, una speciale forma di organizzazione della personalità, e virtualmente anche un concetto generale di per­ sonalità. L'Organizzazione borderline di personalità (bpo) è definita da tre specifici tratti patologici, di natura cronica, che caratterizzano il fun­ zionamento di tale organizzazione della personalità. Consideriamoli brevemente. Il primo tratto è costituito dai meccanismi di difesa utilizzati. Sono meccanismi arcaici, tipici di un funzionamento psicotico: scis­ sione, proiezione, introiezione, identificazione proiettiva 2Ó. Sulla base dell'azione di queste difese, se ne aggiungono altre esse pure di tipo psicotico: «L’onnipotenza, il controllo onnipotente, l’idealizzazione primitiva, la svalutazione e la negazione sono gli altri meccanismi pri­ mitivi dominanti che accompagnano o rinforzano la scissione e l’i­ dentificazione proiettiva» (Clarkin, Yeomans, Kernberg, 1999, trad. it. p. 7). Al pari del primo, anche il secondo tratto avvicina il bpo alla psi­ cosi. E ciò che Kernberg chiama diffusione d’identità. Tale concetto rappresenta sicuramente l’apporto teorico e clinico più originale ela­ borato da Kernberg per la comprensione di questa forma di orga­ nizzazione della personalità. Così scrive:

La sindrome di diffusione di identità è caratterizzata dalla mancanza di un concetto integrato di sé e dalla mancanza di un concetto integrato degli altri significativi. Questa mancanza di integrazione diventa evidente nella raccolta dell’anamnesi, quando si indaga sull’esperienza di sé del paziente. La man­ canza di integrazione dei concetti di sé e degli altri significativi, sia al mo­ mento che nel tempo, diventa evidente nelle descrizioni del paziente non ri­ flessive, contraddittorie o caotiche di sé e degli altri e nell’incapacità di inte­ grare o persino di divenire consapevole di queste contraddizioni. La mancan­ za di integrazione dei concetti di sé e degli altri ha un impatto fondamentale nell’esperienza dell’individuo nel mondo (ivi, pp. 6-7). Il paziente borderline ha dunque una cronica incapacità a conservare un’immagine coerente sia del proprio sé sia di quello degli altri si­ gnificativi. È come se il soggetto non fosse riuscito a costruire, nel corso del suo sviluppo, una rappresentazione solida e costante del suo Sé e di quello delle figure importanti della sua vita, con la conse­ guenza che la propria e le altrui identità, sotto la spinta di stress o di stimoli disturbanti, tendono a diffondersi in maniera contraddittoria c caotica. L’identità non è compatta ed è soggetta a perdere o diminui­ re la coesione.

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I

12. IL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE

Presento un breve esempio clinico per dare concretezza a un aspetto particolare e importante del concetto di diffusione dell’identi­ tà. Giulia, chiamiamo così la paziente, ha vent’anni e ha una rappre­ sentazione scissa della madre. Non esiste, nel suo mondo interno, un’unica madre verso la quale Giulia ha, come sarebbe naturale, una relazione ambivalente, che riconosce pregi e difetti, e verso la quale prova amore ma anche ostilità. No, è come se esistessero due madri, sia nella realtà esterna, sia nel suo inconscio. Una di queste due ma­ dri è fonte di sicurezza, dà protezione; l’altra è inaffidabile e persecu­ toria. L’oscillazione, in momenti di crisi, dalla madre buona a quella cattiva esemplifica il movimento di diffusione della sua personalità, priva di coesione. Il terzo tratto riguarda l’esame di realtà. Nel paziente con bpo l’e­ same di realtà non è raffinato e saldo come nella persona normale, posto che esista, o nel nevrotico; ma non è neanche assente o alta­ mente carente come nello psicotico. L’esame di realtà, la capacità di valutare realisticamente il mondo che ci circonda, è sostanzialmente conservato, e questo preserva il paziente con bpo dalla profonda alte­ razione della percezione, della valutazione e del contatto con la realtà che caratterizza invece tipicamente lo psicotico. Kernberg, tuttavia, fa notare giustamente che l’esame di realtà nella bpo è fluttuante, fragi­ le, può quindi allentarsi o addirittura scomparire sotto la pressione di situazioni stressanti, generando talvolta episodi deliranti o allucinatori. Giulia, durante una piacevole gita in montagna, telefona alla ma­ dre per sentire la sua vicinanza. Ma la madre non risponde al telefo­ no, più e più volte; cosicché alla madre rassicurante si sostituisce la madre infida e persecutrice. La paziente apre a questo punto un regi­ stro delirante e si convince fermamente che la madre non voglia più parlare con lei, che non voglia più vederla, che voglia abbandonarla al suo destino infelice. La teorizzazione di Kernberg sulla bpo rappresenta evidentemente un saggio perspicuo e profondo di indagine strutturale sulla persona­ lità. Al di là del contributo specifico dedicato alla patologia borderli­ ne, egli ci fornisce anche implicitamente tre criteri controllabili per costruire un concetto elegante e operativo di personalità. Proviamo rapidamente a delineare tale concetto. Sono tre i fattori dai quali dipendono la struttura e il funzionamento della personalità. Il primo è costituito dai meccanismi di difesa che la parte incon­ scia, o anche preconscia, dell’io impiega per affrontare il compito ar­ duo e quanto mai faticoso che gli è toccato in sorte. L’Io, “servitore di tre padroni”, deve misurarsi in maniera razionale con le richieste e 357

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

le minacce che provengono dalla realtà esterna; deve tenere a bada e intrattenere compromessi con la pressione pulsionale che promana dalTEs; deve, infine, moderare la severità del Super-io, facendo in modo che essa non si trasformi in distruttività. La gamma delle difese dell’io è ampia e flessibile; sulla base della letteratura possiamo tuttavia distinguere tre categorie di difese: primi­ tive e tipiche di un funzionamento psicotico; difese di natura inibito­ ria, caratteristiche di un funzionamento nevrotico; difese mature, ra­ zionali *7. Il secondo fattore che contribuisce a delineate un concetto di per­ sonalità riguarda il grado di solidità e coesione dell’identità. Natural­ mente la domanda che chiede quale sia l’essenza dell’identità negli esseri umani è prettamente filosofica e pertanto dobbiamo qui lasciar­ la sullo sfondo. Sollecitati da Kemberg, ci limitiamo a tratteggiare ra­ pidamente tre strutture dell’identità che si differenziano in base al grado di coesione. Nel soggetto normale o affetto da una nevrosi non severa, l’identità si mostra solida. Il rischio di una diffusione o di una disorganizzazione dell’identità è remoto. Anche in presenza di eventi stressanti, l’identità resta salda. Il senso del sé permane, e la frustra­ zione e il dolore psichico vengono tollerati ed elaborati. Occorre però non dimenticare che anche le personalità più forti sono suscettibili di vacillare, anche in maniera catastrofica, se l’evento è talmente trauma­ tico da smantellare ogni difesa. L’Io, in casi del genere, è del tutto impreparato a fronteggiare il dolore psichico che lo sommerge. Situa­ zioni altamente drammatiche come queste possono essere provocate, per esempio, della morte improvvisa di una persona amata, come un figlio o un coniuge. Oppure da traumi psichici inattesi e devastanti, come lo scoppio di una granata sul campo di battaglia, o un inci­ dente automobilistico o ferroviario. Il soggetto resta fisicamente ille­ so, ma la sua mente non dispone di alcuna difesa per fronteggiare il dolore psichico sopraggiunto inopinatamente. La seconda struttura dell’identità riguarda le patologie della per­ sonalità. Nella bpo l’identità ha una coesione debole. Ciò significa che se anche l’evento stressante o ansiogeno non è particolarmente drammatico, l’identità può smarrire il fragile ordine che la caratte­ rizza, e diffondersi seguendo, come abbiamo visto, i vettori posti in essere dal meccanismo della scissione. La terza struttura concerne il campo della psicosi. Esprimendoci in maniera colorita, possiamo affermare che nello psicotico l’identità non è salda, né ha uno scarso tasso di coesione, ma è piena di buchi. Ricaviamo liberamente questa espressione da Bion (1962), il quale, a nostro parere, ha svolto una delle più profonde riflessioni sulla genesi 358

12. IL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE

e sul funzionamento della mente psicotica. Non possiamo qui entrare nel merito degli argomenti, peraltro molto complessi e talvolta enig­ matici, di Bion. Ci limiteremo ad accennare al punto che tocca di­ rettamente il tema dell’identità personale. La barriera che, nella men­ te dello psicotico, separa la coscienza dall’inconscio è andata co­ struendosi, nell’infanzia, in modo difettoso, così da risultare per l’ap­ punto bucherellata. Altrettanto friabile è la barriera che separa il so­ gno dalla veglia. La conseguenza è che contenuti dell’inconscio o del sogno possono invadere inopinatamente l’area della consapevolezza, provocando una profonda disorganizzazione dell’identità. Per esem­ pio, in una seduta con uno psicotico, il terapeuta può chiedersi se il suo paziente lo stia vivendo come una persona reale o come il perso­ naggio di un sogno. Il terzo fattore che contribuisce a configurare la personalità è la qualità dell’esame di realtà; a questo punto non dobbiamo far altro che trarre qualche conclusione dalle riflessioni fin qui svolte. Nella persona normale o non gravemente nevrotica, l’esame di realtà non può essere scalfito, a meno di stimoli traumatici catastrofici. L’esame di realtà è dunque saldo. Forse fin troppo saldo, potendo andare a detrimento della creatività 28. Nei pazienti con un disturbo di personalità compatibile con la bpo, l’esame di realtà è conservato, ma assai fragile: anche stimoli non catastrofici sono in grado di alterarlo, producendo un episodio psicotico. Infine, nella psicosi 29 l’esame di realtà è profondamente alterato o addirittura assente. Il paziente psicotico non ha sviluppato la capa­ cità di valutare in modo realistico il mondo che lo circonda, le cose e soprattutto le persone con cui viene a contatto. Non si sente in grado di comprendere e padroneggiare il mondo umano, che di conseguen­ za tende a configurarsi ai suoi occhi come altamente pericoloso. Da qui le manifestazioni psicotiche più eclatanti: il ritiro autistico oppure le produzioni deliranti e allucinatorie che alla realtà obiettiva ne so­ stituiscono una completamente diversa. Kernberg ci ha condotto a delineare un concetto strutturale di personalità, un concetto alquanto convincente, a nostro giudizio. Va da sé, d’altra parte, che può lasciarsi convincere da tale concetto solo chi condivide una visione psicodinamica della mente. Riaffiora dun­ que ineluttabile il problema del pluralismo. Dobbiamo adesso occuparci della psicosi. Sotto il profilo filosofico, il concetto di psicosi è il meno problematico, soprattutto per quanto concerne l’eziologia. La domanda sull’essenza della psicosi ha infatti 359

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trovato una risposta soddisfacente, sotto il profilo filosofico, proprio negli sviluppi più recenti del pensiero psichiatrico. La psicosi - la fol­ lia, potremmo anche dire - è sempre il risultato di un concorso di fattori di differente natura, che schematicamente possiamo raggrup­ pare in due categorie: una predisposizione o vulnerabilità di probabi­ le origine genetica; un ambiente familiare o sociale che nell’infanzia, o in tutta l’età evolutiva, si dimostra assolutamente incapace di favori­ re la crescita psicologica del soggetto, come pure di comprendere e soddisfare i suoi bisogni fondamentali. La psicosi richiede dunque un concorso di colpa di natura e cultura. Questa è una buona soluzione filosofica al problema della causa della follia. E una soluzione buona in quanto, dicendo tutto e nulla, lascia vivo e affascinante il dilemma della follia. Il problema della psicosi si dimostra invece più ostico sul piano pratico. Come per la nevrosi, anche sul termine psicosi si sono sedi­ mentati nei secoli innumerevoli significati che hanno reso ambiguo il suo dominio semantico. Ciò è dimostrato per esempio da alcune si­ gnificative revisioni linguistiche assunte dalla comunità psichiatrica. Facciamo due esempi, tra i più rilevanti. La kraepeliniana Psicosi ma­ niaco-depressiva figura, nel linguaggio psichiatrico attuale, come Di­ sturbo bipolare. La Psicosi paranoica si è frammentata in tre etichet­ te diagnostiche: il Disturbo paranoide di personalità; il Disturbo deli­ rante; la Schizofrenia di tipo paranoide. Da questi esempi, e da molti altri che potremmo fare, emerge l’esigenza di limitare al minimo l’im­ piego del termine psicosi che il tempo ha reso ambiguo e impreciso. Si pensi solo all’uso che il linguaggio quotidiano e quello giornali­ stico fanno di questa parola. Per esempio, l’espressione psicosi collet­ tiva che starebbe a indicare una paura più o meno giustificata che aleggia in una comunità è del tutto destituita di un fondamento scientifico 3°. Un altro fattore che rende ambiguo il concetto di psicosi deriva dall’uso spesso disinvolto che viene fatto di questo termine nella let­ teratura clinica, soprattutto di indirizzo psicoanalitico. Con uso disin­ volto del termine intendiamo questo: si dà per scontato che cosa sia la psicosi, si ritiene superfluo soffermarsi sui tratti essenziali che la caratterizzano. La realtà è invece che non sono per nulla chiari i con­ fini che separano la psicosi dalle altre patologie mentali, in particolare dai disturbi di personalità o anche da forme severe di nevrosi. Classi­ camente i sintomi psicotici, come il delirio e l’allucinazione, sono ri­ condotti a un’alterazione del rapporto con la realtà. La domanda che però s’impone è questa: un’esperienza delirante o allucinatoria è suffi­ ciente per diagnosticare una psicosi? La risposta non può essere che }6O

12. IL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE

negativa. Non solo nei disturbi di personalità, tipo bpo, ma anche in nevrosi ansiose particolarmente gravi, l’esame di realtà può alterarsi, e il soggetto può produrre deliri e allucinazioni. Un mio paziente, affet­ to da un grave disturbo ossessivo che lo costringeva a esaminare per ore e ore la pelle del suo corpo per verificare che non vi fossero fo­ runcoli, ferite o altre lesioni, una volta, in una situazione esistenziale particolarmente critica, si vide allo specchio come un mostro, lette­ ralmente. L’unica psicosi che parrebbe sfuggire a ogni ambiguità è la schi­ zofrenia, alla quale, in conclusione del paragrafo, dedicheremo una breve riflessione. La schizofrenia si sottrae all’ambiguità perché lo svi­ luppo secolare del pensiero psichiatrico e psicopatologico ha condot­ to a individuare una serie di sintomi patognomonici: se essi sussisto­ no, sussiste la schizofrenia. Tuttavia, alla fine della nostra riflessione, vedremo che anche nel caso della schizofrenia non mancano diver­ genze di opinione. Un contributo fondamentale per la comprensione della schizofre­ nia lo dobbiamo a Kurt Schneider: nel suo classico Psicopatologia cli­ nica (1946), egli scrive:

Tra le varianti abnormi dell’“Erlebnis”, così numerose nella schizofrenia, ve ne sono alcune che noi chiamiamo sintomi di primo ordine, non perché li abbiamo creduti “disturbi fondamentali” **, ma perché essi hanno un’impor­ tanza e un peso tutto particolare ai fini della diagnosi [...]. Essi sono: eco del pensiero (sonorizzazione del pensiero), udire voci sotto forma di sonorizzazioni e repliche, udire voci che accompagnano le proprie azioni sottolineandole con osservazioni, esperienze di influenzamento somatico, furto del pensiero e altri influenzamenti del pensiero, diffusione del pensiero, percezione delirante, e così pure tutto ciò che viene "fatto" suggerito e influenzato da altri nel campo del sentimento, delle tendenze (degli impulsi) e del volere. Là dove questi modi dell’esperienza sono presenti, sicuramente e senza equivoci, c non è possibile trovare nessuna malattia somatica di base, parliamo allora clinicamente, e in tutta modestia, di schizofrenia (Schneider, 1946, trad. it. p. 162).

Per almeno due decenni i sintomi di primo ordine di Schneider han­ no rappresentato, per la comunità psichiatrica, il dispositivo di elezio­ ne per diagnosticare la schizofrenia. In particolare erano due le tipo­ logie di sintomi che sembravano assurgere a un valore patognomonico: le allucinazioni uditive, descritte con grande precisione da Schneidcr, e la gamma dei deliri o dei vissuti di influenzamento. In breve, l’udire voci e il produrre deliri bizzarri ha legittimato per molto tem­ po la diagnosi di schizofrenia. }6l

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

Dagli anni settanta del secolo scorso la situazione si è complicata. Faremo brevemente riferimento a due temi che hanno reso al tempo stesso più ricco e complesso lo studio della schizofrenia. Il primo è l’introduzione della dicotomia tra sintomi positivi (deliri, allucinazioni, disturbi del pensiero) e sintomi negativi (appiattimento affettivo, po­ vertà del linguaggio e del pensiero, apatia), della schizofrenia. Crow (1980), che per primo introdusse questa distinzione, delineò di conse­ guenza due tipi di schizofrenia: il Tipo 1, caratterizzato dalla preva­ lenza di sintomi positivi, e il Tipo 2 dove prevalgono i sintomi negativi. In seguito Andreasen, sulla base di analisi fattoriali, perfezionò questa distinzione, contrapponendo, a una netta dicotomia tra le due forme di schizofrenia, un continuum ai cui poli si dispongono il Tipo 1 e il 2 (Andreasen, Olsen, 1982). Questo modello in seguito fu invalidato da ulteriori studi fattoriali. Occorre tuttavia riconoscere che la presenza di sintomi negativi, che Schneider non includeva nel suo elenco, costitui­ sce tutt’oggi un importante criterio diagnostico della schizofrenia. Il secondo tema concerne le molteplici difficoltà della diagnosi differenziale, soprattutto rispetto ai disturbi dell’umore e al disturbo schizoaffettivo. Ci limitiamo a osservare a questo proposito che i di­ spositivi diagnostici delle due più importanti opere nosografiche oggi in circolazione, l’iCD e il dsm, offrono ben poco aiuto al clinico, per­ ché poco maneggevoli ed eccessivamente analitici 32. Anche la schizofrenia non si sottrae, dunque, sul piano pratico della diagnosi e quindi del trattamento, a importanti divergenze di interpretazione. Ci pare tuttavia lecito affermare che, diversamente da altre psicosi, la schizofrenia rappresenti la patologia psicotica più chiaramente riconoscibile sul piano empirico.

Psicosomatica Cominciamo con una breve panoramica storica; forniremo successiva­ mente qualche cenno orientativo in ordine al dibattito attualmente in corso. L’origine deDa riflessione sui processi di somatizzazione va rin­ tracciata nelle ricerche sull’isteria di Charcot, Janet, Brcuer e Freud. Fu quest’ultimo a delineare un concetto, la conversione isterica, che dopo più di un secolo è ancora presente nei sistemi diagnostici con­ temporanei. La conversione isterica consiste nella trasformazione di una sofferenza psichica in un sintomo fisico privo di base organica. Al dolore psichico si sostituisce una sofferenza fisica: una paresi, un disturbo visivo, respiratorio o altro. Sia I’icd-io sia il dsm-iv includo362

12. IL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE

no tra i disturbi somatoformi una diagnosi che discende direttamente da Freud. L’icd-io parla di Sindrome dissociativa (da conversione), il dsm-tv di Disturbo di conversione. E solo con il grande sviluppo del pensiero medico e biologico, della prima metà del secolo scorso, che la psicosomatica si attesta come una specifica disciplina medica che si presenta con la seguente particolarità: interessa da un lato la psichiatria, dall’altro, trasversal­ mente, tutte le specialità mediche. Seguendo Lipowski (1986) e Grassi (2007), si possono distinguere tre modelli di spiegazione delle patologie psicosomatiche. Il primo è chiamato psicogenetico e nelle sue espressioni più significative può es­ sere considerato come una diretta filiazione del pensiero freudiano. Secondo questo modello, la malattia psicosomatica è generata da un conflitto inconscio e dai corrispondenti meccanismi di difesa. L’auto­ re più rappresentativo di tale indirizzo è Franz Alexander. Nella sua Medicina psicosomatica (1950) sostiene che le malattie psicosomatiche sono prodotte dal sistema nervoso vegetativo, suddiviso in due sotto­ sistemi antagonisti: il simpatico e il parasimpatico. Secondo Alexan­ der, la funzione del simpatico è di predisporre l’organismo all’azione, per esempio alla lotta o alla fuga. Il simpatico è rivolto alla pronta risoluzione dei problemi posti dal mondo esterno. La funzione del parasimpatico è opposta: la sua attivazione ha l’effetto di distogliere l’individuo dai problemi esterni, e di porre in primo piano l’interio­ rità. Sotto l’azione di conflitti inconsci, il sistema neurovegetativo vede alterata la sua regolare azione omeostatica, con la conseguenza di produrre cronicamente un’azione patogena sui diversi organi interes­ sati. In base alla natura del conflitto, Alexander distingue due tipi di disturbi psicosomatici. Il primo dipende da un’irregolare attivazione del simpatico che induce l’individuo a prepararsi all’azione, senza che questa venga mai posta in essere. Rientrano in questa classe patologie quali le cardiopatie, l’ipertensione essenziale, le cefalee. L’alterazione del parasimpatico dipende da conflitti che generano ritiro e inibizione dell’azione. Tra le patologie che ne conseguono, vanno elencate le malattie gastrointestinali, l’ulcera peptica, la colite ulcerosa, l’asma bronchiale. Queste tesi di Alexander non sono oggi più sostenibili (Canali, Pani, 2003), sia per quanto concerne la conoscenza attuale della fisio­ logia del sistema neurovegetativo, sia in rapporto all’eziologia delle patologie psicosomatiche prese in esame. Occorre tuttavia dare atto alla ricerca di Alexander di due contributi che ci paiono tuttora rile­ vanti. Il primo è l’opposizione alla congettura, francamente fantasie* 363

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

sa, secondo la quale la malattia psicosomatica esprime sempre un si­ gnificato simbolico che rinvia al conflitto di base; questa tesi venne sostenuta, tra altri, da Georg Groddeck. Il secondo è la chiara de­ marcazione tra sindrome di conversione isterica e malattia psicosoma­ tica: nell’isteria di conversione il paziente lamenta una sintomatologia fisica, in assenza di qualsiasi reperto organico; nella malattia psicoso­ matica, al contrario, la sofferenza soggettiva si affianca ad obiettive alterazioni dell’organismo. Il secondo modello è stato denominato psicofisiologico ed è cen­ trato sull’azione patogena di uno stress prolungato. Il primo autore a delineare questo modello fu Hans Seyle, nel lontano 1936. Questi considerava lo stress come una risposta aspecifica dell’organismo a ri­ chieste impellenti dell’ambiente. Lo stress attiva una sequela di rea­ zioni fisiologiche che, in condizioni organiche sfavorevoli, possono produrre una sindrome somatica. Col progredire della ricerca neurobiologica, il modello psicofisio­ logico è andato sempre più raffinandosi. L’indagine si è orientata in due direzioni correlate. La prima, prettamente medica, ha avuto come obiettivo la comprensione delle risposte messe in atto, in condi­ zione di stress, dal sistema nervoso, centrale e vegetativo, dal sistema neuroendocrinologico e da quello immunitario. La seconda direzione ha cercato di stabilire una correlazione tra le conoscenze neurobiolo­ giche e la vulnerabilità individuale ai fattori stressanti (Pancheri, 1984; Biondi, 1997). Il modello psicofisiologico ha trovato un suo naturale sviluppo nel terzo modello, detto olistico, che nasce con la ricerca di Engel (1977) ed è tuttora in pieno sviluppo. Il tratto essenziale del modello olistico consiste, come indica la stessa parola, nell’indagare la totalità della persona. Scrive Grassi (2007, p. 623):

Secondo questa prospettiva è necessario considerare ogni malattia in senso multicausale e multifattoriale, partendo dal presupposto che non vi è pro­ cesso possibile in cui le dimensioni biologiche, psicologiche e sociali-intcrpersonali non interagiscano variamente tra loro In quest’ottica, la storia dello sviluppo individuale assume un senso specifico nella modulazione dei processi psicologici e fisiologici sia in salute sia in malattia. Un’importante implicazione di quest’ordine di idee risiede nel fatto che l’interesse della medicina psicosomatica non è più rivolto a una determinata classe di malattie, ma, almeno in linea di principio, si estende all’intero universo della patologia. Il modello olistico può es­ sere inteso come il superamento dialettico delle posizioni precedenti,

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e ciò in un senso ben preciso: esso rende ragione delle esigenze dei precedenti modelli, privandole d’altra parte della cornice dogmatica in cui erano inserite. Sebbene il panorama attuale relativo alla psicosomatica presenti, com’è naturale, una varietà di posizioni differenti, il modello distico sembra essere largamente condiviso, almeno da quanti credono in una medicina psicosomatica. Le ragioni di tale consenso sono due. Alla prima abbiamo già accennato: l’approccio olistico alla malattia psico­ somatica non è totalitario, ma si sforza di rendere conto sia dei fattori psicologici che attengono in particolare alla vulnerabilità emotiva di ogni singolo individuo, sia delle componenti biologiche. La seconda ragione è che il punto di vista olistico implica una profonda revisione nel rapporto medico-paziente. Che sia di famiglia o specialista, il me­ dico è chiamato a occuparsi della persona del paziente nella totalità dei fattori che ne determinano la salute o la malattia: fattori familiari, sociali, psicologici e biologici. Si potrà obiettare che la soluzione distica si presenta in realtà tanto soddisfacente e addirittura affascinante, quanto sterile. Come può un medico, per quanto preparato e devoto al suo lavoro, posse­ dere le competenze necessarie per occuparsi dell’intera complessità psicofisica del paziente? Naturalmente una simile richiesta appartiene al mondo dell’utopia. Ma proprio l’immagine di una cura ideale spo­ sta ora il discorso dal dover essere al piano pragmatico della forma­ zione e della pratica medica quotidiana. A tale proposito abbiamo da aggiungere solo un’ultima osserva­ zione che tocca un punto cruciale e drammatico della medicina con­ temporanea: l’opposizione, che non di rado assume un significato ideologico, tra l’esigenza, nata dai progressi straordinari della ricerca scientifica, di conseguire un’alta e quasi esclusiva specializzazione in un particolare ambito della patologia, e l’esigenza opposta di occu­ parsi del malato nella totalità del suo essere persona. L’opposizione, per dirla in termini più crudi, è tra una medicina altamente tecnologi­ ca e una medicina che conserva una vocazione umanistica. Come si vede, il nostro discorso ha riportato in primo piano un dilemma fi­ losofico.

Note 1. In questo capitolo useremo i termini mentale e psichico come sinonimi. 2. Naturalmente, come dimostra il presente Manuale, non stiamo attenuando che gli altri rami della medicina siano esenti da complicazioni filosofiche. Semplicemente,

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FILOSOFIA DELLA MEDICINA

questo capitolo si occupa delle peculiarità filosofiche della malattia mentale e quindi della psichiatria e delle altre discipline non mediche che trattano la malattia mentale. 3. La validazione può avvenire naturalmente all’interno di ciascun modello. Pen­ siamo in particolare alla psicologia cognitiva e alla psicologia dello sviluppo. Non esi­ stono invece dei criteri di validità universali per stabilire quale modello è il più vero o, per dirla con Lakatos, quale ha un carattere progressivo, a differenza degli altri che hanno natura regressiva. 4. Il paradosso è ulteriormente complicato dal fatto che il pluralismo non coin­ volge soltanto i grandi orientamenti filosofici o scientifici. Esso si manifesta in realtà anche all’interno dei singoli orientamenti. L’esempio più clamoroso riguarda la psi­ coanalisi di origine freudiana. A partire dagli anni trenta, e nei decenni successivi con sempre maggiore intensità, la psicoanalisi è andata perdendo l’unità originaria, fram­ mentandosi in una pluralità di teorie che, pur conservando alcuni elementi di unità, sono profondamente diverse a tutti i livelli: teoria, clinica, tecnica. Per esempio, che cosa hanno in comune, al di là della parola inconscio, la psicoanalisi di Bion o di Winnicott, con la Psicologia dell’io o quella del Sé? In psicoanalisi la frammentazione è ceno eclatante, ma un fenomeno analogo si sta verificando anche nell’ambito del cognitivismo sia teorico sia clinico. 5. Affermo che è un fatto filosoficamente rilevante perché è mia convinzione che la peculiarità degli autentici problemi filosofici risieda nella loro eternità, ossia nell’im­ possibilità di pervenire a una soluzione empirica o sperimentale. 6. Ci riferiamo, per esempio, a metodiche di visualizzazione cerebrale capaci di offrirci una conoscenza del funzionamento del cervello che permetta una volta per sempre di risolvere, poniamo, il problema dei disturbi di apprendimento nell’età evo­ lutiva. Che ciò costituisca un futuro non razionalmente prevedibile è dimostrato dal fatto che oggi non esistono le condizioni anche solo per prevedere e rappresentare la natura di queste conoscenze risolutive. 7. Impieghiamo il termine paradigma pensando a Kuhn, ma come vedremo questo riferimento è utile per intendersi, ma non è del tutto corretto. 8. Col termine idiotismo, che da tempo è ormai uscito dalla terminologia psichia­ trica, Pinel si riferiva a pazienti che, insieme a un profondo ritardo mentale, mostrava­ no evidenti alterazioni somatiche, specialmente nella conformazione del cranio. Si può ragionevolmente supporre che le patologie a cui faceva riferimento, parlando di idioti­ smo, derivassero da gravissime patologie neurologiche, come l’idrocefalia. 9. Che la prospettiva di Pinel fosse fin troppo innovativa è dimostrato storica­ mente dal fatto che, nel corso dell'Ottocento, non ha trovato alcuna effettiva applica­ zione. Col risultato che, fino all’avvento della psicoanalisi, il precedente paradigma nella sostanza ha continuato a dominare. 10. Parlando di un atteggiamento di distacco, non vogliamo dire naturalmente che il medico organico non debba provare emozioni e non debba stabilire una rela­ zione umana con il suo paziente. Ci riferiamo unicamente al fatto che la relazione con il paziente mentale è parte integrante della conoscenza e della cura della malattia. 11. La convinzione che la cura della malattia mentale richieda sempre l’associa­ zione di una terapia farmacologica e di una psicologica non vale in tutti i casi - e questo conferma che ci stiamo movendo adesso su un terreno pragmatico. È un dato di fatto che molti pazienti possono uscire dal tunnel del disturbo psichico solo con l’aiuto dei farmaci. Due casi. Le crisi depressive, anche ricorrenti, in età adulta: un’appropriata e sapiente somministrazione di una terapia antidepressiva in non pochi casi è sufficiente a risolvere il problema; ugualmente, molte persone risolvono i propri moderati disturbi d’ansia attraverso un oculato utilizzo di ansiolitici. Ma la condizione affinché ciò accada è che la persona disponga delle condizioni mentali, familiari, prò-

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12. IL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE

fessionali che gli consentano di impiegare l’effetto dei farmaci in maniera costruttiva. Se tali condizioni mancano, l’effetto può essere allora disastroso. Per fare l’esempio estremo: un paziente depresso può impiegare lo stato di benessere procurato dagli antidepressivi per trovare il coraggio di uccidersi o di uccidere. Lo stesso discorso vale per la psicoterapia: quando il trattamento psicoterapico può rappresentare l’unica cura necessaria? È un gravoso compito del clinico rispondere, caso per caso, a tale domanda. 12. Della tipologia della malattia mentale ci occuperemo nel terzo paragrafo del presente capitolo. 13. Il raggiungimento di una conoscenza attendibile delle alterazioni neuronali e magari genetiche della schizofrenia rappresenterà indubbiamente un conseguimento scientifico e medico di grande rilevanza. Occorre però osservare che anche una simile evenienza non risolverebbe una volta per sempre il problema clinico della schizofre­ nia. Perché, come abbiamo già osservato, la disponibilità di psicofarmaci altamente specifici non esclude la necessità di affiancare alla terapia farmacologica interventi ria­ bilitativi o psicoterapici. 14. dsm sta per Diagnostic and Statistica! Marmai of Meritai Disorders. Curato dall’American Psychiatric Association, costituisce la più autorevole e diffusa opera nosografica e diagnostica nel campo della patologia mentale. Cfr. in proposito infra, CAP. 13.

15. Si veda per esempio l’autorevole commento di Sims (1988, trad. it. p. 4). 16. Com’è noto, Freud riteneva che i pazienti psicotici non potessero giovarsi della cura analitica, perché incapaci di instaurare un transfert con l'analista. Nel pen­ siero postfreudiano questa controindicazione è caduta soprattutto a partire dagli studi di Melanie Klein. Nella comunità psicoanalitica oggi si ritiene che il trattamento psi­ coanalitico possa essere utile allo psicotico a condizione di variare opportunamente la tecnica. 17. Questa tesi di Freud può in realtà essere letta in due diverse maniere in base alla concezione freudiana della guarigione che si prende in considerazione. In Analisi terminabile e interminabile, Freud sostiene che una completa guarigione è inarrivabile in linea di principio a causa di due ostacoli che la psicoanalisi non può oltrepassare in quanto hanno radice nella “roccia biologica" dell’essere umano: l’invidia del pene nel­ la donna, la ribellione «contro la propria impostazione passiva o femminea nei riguar­ di di un altro uomo» (Freud, 1937, p. 533). Questa posizione è perfettamente compa­ tibile con l’affermazione, prima citata e tratta dal medesimo testo, secondo cui la nor­ malità è soltanto una funzione ideale. In altre opere Freud adombra un concetto di guarigione che, pur non essendo contraddittorio col primo, è tuttavia diverso. Il suc­ cesso della cura analitica, e quindi il livello di guarigione a cui essa può arrivare, con­ siste nel sostituire all’infelicità nevrotica la comune infelicità degli esseri umani (cfr. Freud, 1985, p. 439). Questo ordine di idee costituisce anche la soluzione pragmatica alla quale Freud perviene in Analisi terminabile e interminabile. Per quanto riguarda Freud, la conclusione è dunque questa: una guarigione perfetta è un ideale irraggiun­ gibile; ciò a cui si può pragmaticamente aspirare è, pcr così dire, uno stato sufficientemente buono di salute mentale che riconsegni al paziente, in luogo dell'infelicità ne­ vrotica, la sofferenza e le infelicità che appartengono ineluttabilmente alla condizione umana. 18. Il fatto che un libro di medicina scritto un secolo or sono sia ancora scienti­ ficamente vivo, da un lato dimostra, seppure ce ne fosse bisogno, la grandezza dell’autore, dall’altro ci porta a trarre la conclusione che la psicopatologia è, in medicina, una disciplina sui generis. In quale altro ramo della medicina potrebbe verificarsi una cosa del genere?

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; FILOSOFIA DELLA MEDICINA

19. Traduzione lievemente modificata. 20. Il tema della valutazione, e in particolare della natura dei valori che concor­ rono a stabilire cosa sia la malattia mentale, è stato trattato riccamente da studiosi di diversa formazione che dal 1994 hanno fondato la rivista “Philosophy, Psychiatry, Psychology" (ppp). Per un’eccellente introduzione a questi temi cfr. Thomton (2007). 21. Per i concetti di nevrosi, psicosi e disturbo di personalità rinviamo al succes­ sivo paragrafo. 22. J.-M. Charcot, per fare un esempio illustre, concepiva l’isteria come una ma­ lattia funzionale del sistema nervoso, ossia una malattia neurologica priva di lesione anatomica. Si trattava chiaramente di una concezione alquanto ambigua, tanto più se consideriamo che Charcot caratterizzava come funzionali anche malattie francamente neurologiche quali il morbo di Parkinson. L’espressione nevrosi funzionale veniva uti­ lizzato per nascondere e, se vogliamo, anche per non ammettere un deficit di cono­ scenza, come dimostra ad esempio la storia successiva del morbo di Parkinson. Cfr. Charcot (1989). 23. A proposito dell’antiorganicismo di Freud è utile una precisazione. Sicura­ mente il suo pensiero dominante lo portava a considerare le nevrosi come patologie puramente psichiche. In qualche occasione, tuttavia, egli avanza un’opinione contra­ ria. In uno dei suoi ultimi lavori, Il compendio di psicoanalisi, egli scrive: «Noi ci oc­ cupiamo qui di terapia solo nella misura in cui essa opera con mezzi psicologici; al momento non ne abbiamo altri. Può darsi che in futuro qualcuno ci insegnerà come influenzare direttamente, con speciali sostanze chimiche, le quantità energetiche e la loro ripartizione nell’apparato psichico. E forse verranno alla luce potenzialità della terapia che adesso non possiamo neppure sospettare; per ora non abbiamo nulla di meglio a disposizione che la tecnica psicoanalitica; per questo, nonostante i suoi limi­ ti, non bisognerebbe disprezzarla» (Freud, 1938, p. 609). Le due posizioni sono in contraddizione solo in apparenza, giacché in ultima analisi, secondo Freud, l’origine di tutte le patologie mentali dipende da un eccesso energetico, e dunque quantitativo, delle cariche pulsionali. Le speciali sostanze chimiche a cui qui egli allude avrebbero pertanto lo scopo di modulare e distribuire l’azione delle pulsioni, le quali, nella teo­ ria freudiana, hanno la loro fonte in stati di tensione dell’organismo. 24. L'icd (International Classification of Deseases) è un sistema intemazionale di classificazione e codificazione delle malattie, curato dall’organizzazione mondiale del­ la Sanità. Al pari del ds.m viene periodicamente revisionato. Attualmente è in vigore la decima revisione, icd-io, ufficializzata nel 1992. È in preparazione l’undicesima edi­ zione. 25. Migone fa riferimento al dsm-iji, ma il suo ragionamento vale ugualmente anche per il dsm-iv e dsm-iv-r, pubblicato nel 2000. 26. Questi meccanismi di difesa furono descritti originariamente da Melanie Klein; essi sono tipici della posizione schizo-paranoidc, la quale, secondo la Klein, rappresenta la forma di organizzazione della personalità che l’essere umano adotta, nei primi 3-4 mesi di vita. Cfr. Civita (2008). 27. Per un’approfondita disamina dei meccanismi di difesa cfr. Lingiardi, Madeddu (1994). 28. Affermando che un roccioso esame di realtà può inibire la creatività, pensia­ mo alla teoria di Winnicott dello spazio transizionale (Winnicott, 1971), inteso come un luogo mentale a metà strada tra la realtà esterna e quella interiore. In questo spa­ zio l’individuo può sperimentare, senza danno, la creatività come pure la disorganiz­ zazione. 29. Più avanti ci occuperemo della problematicità del concetto di psicosi.

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12. IL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE

30. A proposito della discrepanza tra il linguaggio quotidiano e il gergo degli specialisti, un altro esempio altrettanto e forse ancor più significativo riguarda l’uso della parola maniaco. 31. Parlando di disturbi fondamentali, Schneider fa riferimento alla concezione della schizofrenia di Bleuler, alla quale abbiamo in precedenza accennato. 32. Su questo argomento altamente specialistico rinviamo a Siracusano, Rubino (2007, pp. 229-68).

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Storia e criteri dei paradigmi nosografici di Massimiliano Aragona



Parlare di “storia” e di “paradigmi” nosografici all’interno di un trat­ tato di Filosofia della medicina rende necessaria una breve premessa di metodo. In primis, quale storia? E che tipo di storia? Moltissimi manuali di storia della psichiatria partono perlomeno dall’antica Grecia e conducono il lettore dai tipi ippocratici a Galeno, giù giù fino ai giorni nostri. Ora, se è vero che parole della psichiatria contemporanea (es. melancolia, ipocondria, isteria) sono nate nel con­ testo di teorie dell’antica Grecia, è però da sottolineare che la psi­ chiatria come disciplina medica e la nosografia psichiatrica come clas­ sificazione scientifica delle patologie mentali non sarebbero state pen­ sabili senza l’illuminismo. Da qui la prima delimitazione di campo: quella qui presentata sarà una breve storia della psichiatria moderna, che partirà dalle prime sistematizzazioni del Settecento per concen­ trarsi soprattutto sui giorni nostri, non disdegnando di gettare uno sguardo sui possibili sviluppi futuri. In questa scelta chi scrive si sen­ te sostenuto anche da ragioni filosofiche, se è vero che gli stessi ter­ mini tecnici significano cose diverse all’interno di riferimenti epocali/ teorici differenti ’. Delimitato così l’arco temporale di cui si tratterà, occorre ri­ spondere alla domanda su quale tipo di storia si intenda fare. Visto il contesto, la risposta non può che essere “una storia filosofica­ mente orientata”, ovvero una ricostruzione storica “tagliata” da esi­ genze filosofiche. In altre parole, si leggerà la storia delle recenti classificazioni psichiatriche partendo da riflessioni teoriche apparte­ nenti al dibattito attuale (il che significa sostanzialmente mettere in guardia da una inevitabile “illusione di prospettiva” che porrà in ri­ lievo alcuni aspetti più di altri). Aver chiarito questo punto consen­ te anche di giustificare il motivo per cui non si farà una storia si­ stematica delle recenti classificazioni psichiatriche, ma verranno 37i

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

considerati soltanto alcuni autori: da un lato ciò risponde ad evi­ denti ragioni di spazio, ma dall’altro è anche legato alla scelta me­ todologica di puntare alle opere di alcuni autori particolarmente importanti e influenti, la cui disamina consentirà di illustrare me­ glio i punti filosofici in discussione. Il secondo vocabolo da chiarire brevemente è “paradigma”, che come termine tecnico della filosofia della scienza acquista senso sol­ tanto all’interno del lavoro di Thomas Kuhn (1962) sulle rivoluzioni scientifiche. Ora, senza entrare nel merito dei problemi filosofici rela­ tivi a questo termine, che Kuhn stesso dovette presto sostituire, resta il fatto che esso è entrato nel linguaggio comune non solo della filo­ sofia della scienza, ma anche di molti scienziati. Boniolo e Vidali (1999, p. 182) definiscono i paradigmi come

grandi sistemi di riferimento concettuale [...] che forniscono nozioni, proce­ dure, problemi, tecniche e valori, accettati dalla comunità scientifica e ripro­ dotti al proprio interno. Il paradigma corrisponde dunque a una visione del mondo, mediante la quale si determina la lista dei problemi verso cui indi­ rizzare la ricerca, si individuano le tecniche e le strategie di base per la solu­ zione di tali problemi [...], si stabiliscono le procedure di verifica sperimen:ale e si imposta la formazione dei futuri scienziati. Tra gli effetti dell'instaurarsi di un paradigma è tipica la scomparsa delle scuole alternative di pensiero, con gli scienziati che nella stra­ grande maggioranza finiscono per avere, nel modo di pensare, riferi­ menti e obiettivi comuni definiti all’interno del paradigma. Per quan­ to possa sembrare a prima vista improprio parlare di paradigmi a proposito di sistemi di classificazione (i paradigmi avendo probabil­ mente più a che fare con il piano esplicativo che con quello descritti­ vo), tuttavia la classificazione psichiatrica di fatto opera come un pa­ radigma, seppure in modo implicito 2. Infatti, gli psichiatri che seguo­ no una data impostazione diagnostica finiscono per vedere la realtà fenomenica con le lenti che essa gli fornisce e, cosa molto importan­ te, in questo modo passa nel loro operare, in modo spesso inconsape­ vole, l’impostazione teorica di fondo che sta dietro a ogni classifica­ zione }. In questo senso lo scritto sarà in linea con uno dei cardini della Filosofia della psicopatologia (Aragona, 2009C), ovvero il fondamenta­ le ruolo che Jaspers attribuisce alla filosofia nel portare alla luce i pregiudizi impliciti dell’operare psichiatrico, perché 372

13. STORIA E CRITERI DEI PARADIGMI NOSOGRAFICI

chi crede di poter escludere la filosofia e di poterla lasciare da una parte perché senza importanza, ne è sopraffatto in forma oscura: così nasce negli studi psicopatologici quella intrusione della peggiore filosofia. Solo colui che sa e padroneggia concretamente, può mantenere la scienza pura e nello stes­ so tempo in rapporto con la vita dell’uomo, che si esprime nel filosofare (Ja­ spers, 19133, trad. it. p. 819).

Fatte queste doverose premesse, è giunto il tempo di affrontare la storia e i criteri delle classificazioni psichiatriche. Lo si farà prima se­ guendo la storia di alcune di queste classificazioni fino ai nostri gior­ ni, quindi ponendosi alcune questioni filosofiche: a) Per quali di esse si può parlare di paradigma? E in che senso? b) Quali sono gli impli­ citi filosofici che sottendono queste classificazioni? E sono cambiati al cambiare della classificazione? c) In che senso l’attuale paradigma è entrato in crisi? d) Questa crisi coinvolge solo questo sistema diagno­ stico, o anche l’intero sistema concettuale che vi è sotteso?

Alcune influenti classificazioni di patologie mentali

Come si diceva, è nel quadro culturale reso possibile daH’Illuminismo che può nascere l’alienista, il medico che si occupa specificamente di problemi mentali, strappandoli alla competenza della morale. Signifi­ cativa in questo senso è, all’inizio dell’Ottocento, l’opera di Philippe Pinel, noto per essere stato tra i primi moderni a intuire che la follia era uno stato patologico che necessitava di idonee cure, e non di emarginazione e catene. Il periodo precedente l’opera di Pinel è ben descritto da Giuliana Kantzà (1985, p. 9), che nota che la follia, abbandonate le ragioni del divino, era stata oggetto nel Settecento di studio e ricerca, da parte di fisiologi e medici: da Hecquet e Boerhaave, da Boissieu a Hoffmann, si indaga sulle lesioni organiche, sulle alterazioni fisiche, sulla corteccia cerebrale, sul midollo e sulla membrana, si ricercano le prove tangibili dell’alienazione nell’anatomia. Il progresso delle scienze fi­ siche, matematiche e naturali è il modello ispiratore, lo schema di riferimen­ to intorno a cui si orienta l’indagine degli alienisti: richiede l’ordinamento della materia, ma si intrecciano in modo confuso e disorganico tesi dogmati­ che e posizioni empiriste. È su questa linea che Pinel da un lato si pone in continuità con gli autori che lo precedono 4, mentre dall’altro lato introduce delle inno­ vazioni che non sono soltanto la notissima liberazione dei folli dalle

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FILOSOFIA DELLA MEDICINA

catene o il meno noto ma molto significativo spostamento di enfasi dal cervello alle passioni5, ma soprattutto il cambiamento nel metodo che consiste nel fondarsi in primis su una rigorosa analisi fenomenica, evitando di avventurarsi in rischiose speculazioni metafisiche. Così, quando Pinel rilegge gli autori del suo tempo li critica sia quando esemplificano una tendenza alla sistematizzazione dogmatica e scola­ stica che non si preoccupa di osservare direttamente i fatti, sia quan­ do a prevalere sono le descrizioni di singoli casi che illustrano risulta­ ti di ricerche su lesioni cerebrali organiche, il cui scopo è spesso di «interessare i competenti con qualche novità piccante». Infine, anche quando apprezza il rigore con cui sono presentate alcune ampie casi­ stiche (come nel caso del dr. Perfect), resta l’annotazione che «una semplice casistica è ben lontana dal potersi costituire come corpo dottrinario organico o come un trattato generale e approfondito del­ l’alienazione mentale» (Pinel, i8oob, p. 43). E dunque, anche se la classificazione di Pinel delle diverse forme di alienazione mentale in mania (o delirio totale), melanconia (o delirio esclusivo), demenza (o aberrazione del pensiero) e idiotismo (o perdita delle facoltà intellet­ tive e affettive) non è poi così innovativa 6, tuttavia ciò che è signifi­ cativo è il rigore con cui Pinel applica il suo metodo, che si fonda sull’evitare accuratamente di «perdendosi in fumose diatribe circa la sede dell’intelletto e la natura delle lesioni, argomento oscuro e impe­ netrabile» (ivi, p. 35) e sull’attenersi esclusivamente all’osservazione dei fatti, nella certezza che «i risultati dell’osservazione in medicina, o comunque nella storia delle malattie in generale, raramente danno luogo a differenze di opinioni, se sono stati raggiunti con indagini approfondite» (ivi, p. 59) 7. Con Pinel si entrava nell’Ottocento, che Zilboorg considera

l’età aurea della psichiatria descrittiva; infatti, in nessun periodo precedente lo psichiatra aveva avuto a sua disposizione un numero e una varietà così grande di malattie mentali. [...] I francesi rivolsero per lo più la loro atten­ zione a separare una serie di sintomi, o un gruppo di sintomi, che potevano costituire probabilmente un’entità clinica autonoma, una malattia ben distin­ ta, così che non crearono nessuna teoria nuova, né alcun complesso nosologico (Zilboorg, Henry, 1941, trad. it. p. 344). Tra i successori di Pinel un posto di rilievo deve esser dato a Esquirol, il quale tra le altre innovazioni (ad es. la differenziazione delle lipomanie e l’introduzione del termine allucinazione) definì un qua­ dro psicopatologico che influenzò fortemente il dibattito dell’epoca: quello di monomonia, con cui l’autore indicava un complesso di sin-

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13. STORIA E CRITERI DEI PARADIGMI NOSOGRAFICI

tomi (esaltazione del tono dell’umore, eccessivo aumento di energia ecc.) tra i quali spiccava la prevalenza di una particolare idea (o di un ristretto gruppo di idee correlate), che preoccupavano il soggetto tan­ to da condizionarne fortemente il comportamento (Esquirol, 1819). Infine, un altro autore francese che occorre menzionare è Morel (1857), il quale pose al centro della sua nosografia un concetto, quel­ lo di degenerazione, che ebbe ampia eco all’estero arrivando a in­ fluenzare il Mòebius (1893), il quale su questa base introdusse in psi­ chiatria il concetto di malattie endogene; concetto che, attraverso la sistematizzazione di Kraepelin, avrebbe caratterizzato il dibattito psi­ copatologico sulle psicosi per tutto il Novecento 8. Questo passaggio è significativo perché, come afferma Zilboorg, con Morel «finì il pre­ dominio della psichiatria francese in Europa. Il centro del pensiero psichiatrico si spostò in Germania» (Zilboorg, Henry, 1941, trad. it. p. 356). Anche se questo giudizio così netto non può essere condiviso da chi ha apprezzato gli altri contributi francesi alla psicopatologia (si pensi alla sindrome di automatismo mentale di De Clérambault, alla psicastenia di Janet, alla psicopatologia fenomenologico-strutturale di Minkowski e agli studi sulla coscienza di Ey), è però vero che da al­ lora l’interesse francese si volse sempre più all’analisi di singoli quadri morbosi, in sempre più evidente contrasto con la tendenza alla siste­ matizzazione dei tedeschi. E dunque in Germania che occorre saltare se si vuole seguire la storia delle classificazioni psichiatriche. Qui

la predilezione per le classificazioni si era manifestata presto nel secolo [...]. Il numero delle classificazioni crebbe. Il numero dei criteri aumentò con il numero delle tendenze individuali, che possono variare di volta in volta, quando lo sviluppo scientifico del classificatore subisce dei cambiamenti. Il creare una nosologia definitiva, il classificare con minuzia e con ordine, di­ venne apparentemente l’ambizione nascosta di ogni psichiatra abile e pro­ mettente (ivi, p. 398). E però le classificazioni si succedevano in modo difforme senza che su nessuna di esse si coagulasse un vero consenso, fino alla nascita del sistema kraepeliniano. Si è molto discusso sull’originalità o meno del Kraepelin, che secondo molti non avrebbe fatto altro che racco­ gliere i metodi e le intuizioni che contemporanei e predecessori gli fornirono. In ogni caso è indubbio che il suo sforzo di sistematizza­ zione fu poderoso e il risultato così influente da direzionare tutte le classificazioni psichiatriche importanti che da allora si sono sussegui­ te. Kraepelin scrisse e riscrisse varie versioni del suo famoso trattato di psichiatria, modificando spesso sostanzialmente l’impianto classifi-

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FILOSOFIA DELLA MEDICINA

catorio. È così difficile illustrare la sua classificazione in modo com­ pleto in poche righe; giusto per esemplificare il suo sistema, ci si ba­ serà qui sulla settima edizione, che è una versione già matura del suo lavoro: in questo testo Kraepelin (1904) divide le patologie psichiche in un primo gruppo che deve la sua origine a cause esterne (pazzia infettiva, psicosi da esaurimento 9 e avvelenamenti), cui collega per somiglianza le autointossicazioni (psicosi tireogene); in un secondo gruppo pone le forme dipendenti da malattie cerebrali (diffuse, come la sclerosi multipla, le coree, o l’atrofia cerebrale arterio-sclerotica, e circoscritte, come tumori cerebrali, traumi, emorragie e trombosi), quindi tratta la “pazzia dell’età involutiva” (melanconia, delirio prese­ nile di nocumento e demenza senile) la cui origine «sembra sempre più essere determinata da predisposizioni morbose» (Kraepelin, 1904, trad. it. p. 7), la psicosi maniaco-depressiva, la paranoia e la pazzia epilettica (tutte accomunate dal ruolo importante della «predisposi­ zione patologica speciale dell’individuo»). Un ulteriore gruppo è quello della “pazzia degenerativa” (nevrosi psicogene come la pazzia isterica, la nevrosi da spavento e la nevrosi da attesa ansiosa; stati psi­ copatici originari come ad esempio la pazzia coatta, la pazzia impulsi­ va e le aberrazioni sessuali; personalità psicopatiche come quella del delinquente nato, degli instabili e dei bugiardi e truffatori morbosi), per finire con gli arresti dello sviluppo psichico (imbecillità e idiozia). Restano la demenza precoce e la demenza paralitica (paralisi progres­ siva), che Kraepelin ritiene di dover mettere vicino alle patologie au­ toimmuni della tiroide perché anch’esse, a suo giudizio, dipendono «da autointossicazioni, l’essenza e l’origine delle quali è certo ancora interamente sconosciuta, quantunque per la paralisi abbiamo da regi­ strare, come remota causa, la infezione sifilitica» (ivi, p. 7). Ad una valutazione superficiale questa classificazione appare basa­ ta fondamentalmente su criteri eziologici (per quanto in alcuni casi solo ipotetici), il che basterebbe a confermare tanta letteratura che in anni passati si è affrettata a licenziare Kraepelin come il sostenitore di un anacronistico e infondato organicismo. Eppure lo stesso Kraepelin sottolinea che i due cardini dell’organicismo di allora (l’individuazio­ ne di lesioni anatomo-patologiche e di cause specifiche) sono proble­ matici 1O, ammettendo che «molto più frequentemente le alterazioni psichiche sono state classificate a seconda dei loro caratteri clinici» (ivi, p. 3), e dunque che «solo il quadro complessivo del caso clinico, presente in tutto il suo decorso dal principio alla fine, può fornire la guida per l’analisi clinica e per la valutazione dei fenomeni morbosi» (ivi, p. 4). In qualche modo Kraepelin non intende rinunciare ai fon­ damenti organici delle sue patologie", ma al contempo sa che essi 376

13- STORIA E CRITERI DEI PARADIGMI NOSOGRAFICI

solo in alcuni casi sono sufficienti, mentre nelle patologie più pro­ priamente psichiatriche come le psicosi essi non sono per nulla chiari, e dunque occorre fondarsi su una rigorosa osservazione clinica di sin­ tomi e decorso. E dunque, come sottolinea Tamburini, un indirizzo di indagine che «si è affermato e svolto con metodi e risultati pienamente ecletti­ ci» (Tamburini, 1907, p. vili). 12 Anni dopo, Jaspers (19133) analizze­ rà metodologicamente questo modo di procedere di Kraepelin, indivi­ duando nel concetto derivatogli da Kahlbaum di Unità morbosa il criterio ordinatore primario *3. Ciò per quanto riguarda i criteri ordi­ natori del sistema kraepeliniano il quale, indipendentemente dalle successive modifiche apportate dallo stesso Kraepelin e dagli studiosi seguenti ’4, condurrà la sistematizzazione psichiatrica lungo una via ben determinata *5. La via kraepeliniana avrà ampia eco in Europa e al di fuori di essa, e mentre nel vecchio continente la nostra storia può fermarsi alla influente classificazione di Kurt Schneider (1946) ,6, nel frattem­ po saranno gli Stati Uniti d’America a conquistarsi un posto di pre­ minenza nel dibattito psichiatrico, fino a riuscire ad imporre al mon­ do il loro Diagnostic and Statisiical Manual of Mental Disorders (il dsm). E dunque dagli Stati Uniti che occorre riprendere il filo del discorso per arrivare sino ai giorni nostri. Pur con un ingresso tardi­ vo nel dibattito internazionale sulle classificazioni psichiatriche, l’A­ merica recupererà in fretta e così mentre, come si è visto, l’Europa della prima metà del xx secolo è fortemente influenzata dal Kraepe­ lin, in America nel 1952 vede la luce il dsm (American Psychiatric Association, 1952). In precedenza gli Stati Uniti avevano già lavorato su una terminologia comune, confluita nella Standard Classified No­ menclature of Disease del 1933. Durante la guerra mondiale, però, questa classificazione si era dimostrata inadeguata perché solo il 10% dei casi visti al fronte rientrava nelle classificazioni in uso, rimanendo fuori una gran parte di casi che presentava sintomi psicosomatici e reazioni acute allo stress e ai traumi. Su questa base i militari iniziarono a rivedere la classificazione, con il risultato finale che nel 1948 erano in uso almeno tre sistemi paralleli di classificazione, con conseguente confusione terminologica. Fu per questo che si sentì l’esigenza di un nuovo sistema comune, che portò alla prima edizione del dsm. Esso era incentrato sul con­ cetto di “Malattie dell’Unità Psicobiologica” e distingueva i disturbi mentali ’7 in due gruppi: «quelli in cui c’è un’alterazione del fun­ zionamento mentale derivante da, o scatenato da, un ostacolo al funzionamento del cervello, di solito dovuto a una alterazione diffusa 377

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

del tessuto cerebrale» e «quelli che derivano da una difficoltà più ge­ nerale di adattamento dell'individuo, ed in cui ogni disturbo dell’as­ sociata funzione cerebrale è secondario al disturbo psichiatrico» (American Psychiatric Association, 1952, p. 9). Su questa base veniva­ no elencati da un lato i disturbi causati da o associati ad alterata fun­ zione del tessuto organico (disturbi cerebrali acuti e cronici) e le defi­ cienze mentali, e dall’altro i disturbi di origine psicogena o mancanti di una causa fisica chiaramente definita. In questo secondo gruppo venivano inclusi i disturbi psicotici (reazioni affettive, reazioni schizo­ freniche e reazioni paranoiche), i disturbi psicofisiologici del sistema autonomo e viscerale (ad es. reazione psicofisiologica gastrointestina­ le, reazione psicofisiologica muscoloscheletrica ecc.), i disturbi psico­ nevrotici (ad es. reazione ansiosa, reazione depressiva, reazione fobica ecc.), i disturbi di personalità (quelli classici, come la personalità schi­ zoide e quella cidotimica, ma qui vengono inserite anche le deviazio­ ni sessuali e le dipendenze da alcool e sostanze) e infine i disturbi di personalità situazionali transitori (ad es. reazioni da stress e reazioni di adattamento). Come il lettore avrà notato, una parola chiave è il concetto di rea­ zione, che segnala la forte influenza che su questa classificazione eb­ bero le idee di Adolf Meyer. Al primo dsm seguì il dsm-ii (American Psychiatric Association, 1968), frutto di uno sforzo di avvicinare la nosografia americana del dsm alla classificazione internazionale dell’Organizzazione mondiale della Sanità (1CD-8). Fu l’occasione per una revisione della precedente edizione che portò a cambiare la di­ zione “reazione schizofrenica” nella più classica “schizofrenia”, a in­ serire il concetto di “malattia maniaco-depressiva”, a inserire il capi­ tolo delle “nevrosi” (che il primo dsm volutamente non considerava come termine, parlando di reazioni ansiose ecc.) e aggiungendo i di­ sturbi comportamentali dell’infanzia e dell’adolescenza. Un cambia­ mento terminologico significativo era l’eliminazione del termine “rea­ zione”, prima quasi ubiquitario, da molti settori, rimanendo ancora largamente presente solo nei disturbi transitori e in quelli infantili. Per il resto, l’impianto rimase sostanzialmente simile all’edizione pre­ cedente, e solo nel 1980, con il dsm-iii, si sarebbe assistito a un cam­ biamento drastico. Nel dsm-iii (American Psychiatric Association, 1980) si elimina di fatto il termine “nevrosi” (rimasto solo tra paren­ tesi e definitivamente eliminato con il dsm-iii-r) e il criterio di inqua­ dramento è quello multiassiale, con quasi tutte le patologie psichiche in Asse 1 (senza distinzione tra nevrosi e psicosi, sono tutti “distur­ bi”), con i Disturbi di Personalità in Asse n e le condizioni mediche degne di rilievo in Asse ni (per cui vengono di fatto eliminate molte, 378

13- STORIA E CRITERI DEI PARADIGMI NOSOGRAFICI

ma non tutte, sindromi psico-organiche che il dsm-ii inquadrava come Sindromi cerebrali organiche). Infine, escono di scena alcune diagnosi su cui si è fatta una battaglia anche politica e di civiltà 18 e la nevrosi isterica viene smembrata in una miriade di piccoli disturbi (somatoformi, di coscienza ecc.). Successivamente, con il dsm-iii-r (1987) e il dsm-iv (1994) si ope­ rano altre modifiche, ma da allora l’impostazione generale rimarrà so­ stanzialmente invariata sino all’attuale dsm-iv-tr, per cui si può consi­ derare conclusa questa breve disamina dell’evoluzione delle classifica­ zioni psichiatriche ed iniziare a ragionare su di esse da un punto di vista filosofico.

Quali paradigmi nosografici? Una prima questione da affrontare è quella dei paradigmi nosografici, introdotti dal titolo di questo lavoro. Ammessa nell’introduzione la legittimità deU’utilizzo del termine anche per le classificazioni psichia­ triche, occorre chiedersi a quali dei sistemi nosografici descritti sia appropriato attribuire questo status I9. Seguendo Kuhn, un modo pratico e molto efficace di affrontare e dirimere la questione è quello di basarsi su criteri esterni, vedendo cioè in pratica cosa ne hanno fatto gli scienziati (in questo caso gli operatori della salute mentale). Gli effetti caratteristici conseguenti alla nascita di un paradigma sono la fine delle distinzioni polemiche tra scuole di pensiero oppo­ sto, con la diffusione del modo di pensare e di operare proprio del paradigma a tutta la comunità scientifica “ufficiale” (gli irriducibili delle vecchie scuole e i nuovi adepti di scuole alternative minoritarie sono di fatto estromessi dal dibattito scientifico ufficiale). Inoltre, la ricerca e il dibattito scientifico acquistano una forma caratteristica, venendo meno le polemiche tra scuole e sui fondamenti della disci­ plina, ora ben fondata, e dunque concentrandosi su una ricerca orientata, codificata e selettiva su singoli aspetti dei campo di ricerca, da pubblicare su riviste altamente specializzate che usano un linguag­ gio per lo più comprensibile solo ai membri che utilizzano il para­ digma in questione (Kuhn, 1962). Dunque, se una classificazione è diventata paradigmatica, ciò che ci si deve aspettare è che abbia influenzato con le sue categorie il lavoro della maggior parte dei clinici e dei ricercatori, finendo per essere generalmente accettata come il linguaggio comune condiviso attraverso cui parlare di patologie psichiche. Ora, molti dei grandi si sterni discussi nel precedente paragrafo hanno avuto una forte in 379

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fluenza sui contemporanei e i successori. Così, se è indubbio che Pi­ ne! abbia avuto un grande impatto sui suoi contemporanei e sugli im­ mediati successori, che si estese ben al di là della Francia, è però an­ che vero che le sue idee influenti furono soprattutto quelle che so­ stenevano la necessità di riformare le modalità e le strutture per la cura degli “alienati”, mentre per quanto molto nota la sua classifica­ zione non sembra aver avuto un ruolo altrettanto imponente, tanto che molto presto i suoi successori iniziarono a individuare nuove ca­ tegorie di malati mentali e a descrivere nuove sindromi. Tra gli autori che lo hanno seguito, una influenza grandissima la ebbe Esquirol, le cui Des Maladies mentales considérées sous le rapport médical, hygiénique, et médico-légale, «non solo si impongono storicamente come un testo basilare, ma per più di venti anni dopo la loro comparsa, furono considerate un manuale fondamentale» (Zilboorg, Henry, 1941, trad. it. p. 347). In particolare il concetto di mo­ nomania divenne quasi un dogma per la psichiatria francese dell’epo­ ca (Goldstein, 1987), al punto da rendere difficile l’accettazione delle nuove scoperte sul rapporto tra sifilide e paralisi progressiva perché ammettere «la diagnosi di paralisi generale metteva in pericolo lo sta­ tus di malattia della monomania» (Brown, 1994). Del resto anche l’impostazione “eziologica” di Morel ebbe grande eco in patria e al­ l’estero 2O, eppure nessuna di queste impostazioni riuscì a fornire una classificazione veramente sistematica. Per questo occorre attendere il lavoro di Kraepelin, che, come si è detto, influenzò fortemente non solo la psichiatria europea dell’epoca 21, ma in qualche modo anche quella futura 22. Malgrado ciò anche di Kraepelin si è ritenuto non dover parlare in senso proprio di paradigma, soprattutto in quanto «da un lato l’impostazione kraepeliniana è ampiamente accettata nella sostanza (seppure non sempre nella terminologia), dall’altro ogni autore pro­ pone la sua propria impostazione, enfatizzando un aspetto piuttosto che un altro» (Aragona, zooób, p. 36). Così, volendo fare un quadro generale, si può sostenere che uno stato preparadigmatico di tassono­ mie molteplici, legate a varie scuole di pensiero spesso in contrasto tra loro, si può riscontrare anche nel xx secolo: ad esempio nell’Ame­ rica degli anni venti 2J, nell’Europa della prima metà del secolo 24 e nell’America degli anni cinquanta 2?. I tentativi che di volta in volta si operarono per uscire da questa situazione portarono all’elaborazione di nomenclature comuni che dovevano consentire di uscire dalla babele diagnostica trovando un accordo comune sui termini diagnostici (la Standard Classified No38O

13- STORIA E CRITERI DEI PARADIGMI NOSOGRAFICI

menclature ofDisease del 1933, il dsm del 1952, I’icd-8 e il dsm-ii del 1968). Questo tentativo non riuscì a pieno, e infatti il problema si ripresentò nuovamente all’inizio degli anni settanta, quando una ri­ cerca di Kendell e collaboratori (1971) dimostrò in maniera inoppu­ gnabile che anche gli psichiatri occidentali che parlavano la stessa lin­ gua e avevano un modello di società e di cura non troppo dissimile (la ricerca valutava come facevano la diagnosi gli psichiatri americani e britannici), messi di fronte alla stessa intervista clinica allo stesso paziente, si trovavano spesso in disaccordo sulla diagnosi da fare (gli americani “vedevano” più spesso uno schizofrenico laddove i colleghi britannici rilevavano la presenza di una psicosi maniaco-depressiva). La conseguenza di un tale stato di fatto era l’impossibilità di una co­ municazione scientifica adeguata 26 e in generale un discredito sull’in­ tera psichiatria 17. La soluzione che fu trovata passò nel considerare che se un accor­ do sulle parole non era bastato, allora doveva essere necessario accor­ darsi non solo su di esse, ma anche sull’#//© diagnostico, ovvero sulle procedure concrete attraverso cui si arriva a formulare il giudizio dia­ gnostico. È su questa base che nacquero i cosiddetti “criteri di Feighner” 28 (Feighner et al., 1972) e che partì un processo che avrebbe condotto al dsm-iii (American Psychiatric Association, 1980). E stato proposto di considerare la creazione del dsm-iii come la nascita, per la prima volta nella psichiatria, di un vero e proprio paradigma dia­ gnostico (Aragona, zooób), e si è supportata questa affermazione sia sulla base delle importanti novità introdotte rispetto ai modelli prece­ denti (di questo si parlerà meglio in seguito), sia sulla base degli ef­ fetti concreti che l’introduzione del dsm-iii comportò per la psichia­ tria mondiale: progressivamente sempre più persone hanno comincia­ to a considerare il dsm come la “bibbia della psichiatria” (Wilson, Skodol, 1994), e per quanto ciò possa apparire improprio (e danno­ so!) è comunque il segno esteriore più evidente del fatto che da allo­ ra il linguaggio dsm è di fatto divenuto il linguaggio standard interna­ zionale per la comunicazione clinica, i rilievi epidemiologici, la ricerca e la definizione medico-legale delle patologie psichiche. In altre paro­ le, come per ogni paradigma kuhniano, anche nel caso del dsm gli psichiatri2y hanno finito per accettare quel determinato modo di pensare la loro disciplina che è passato attraverso l’uso delle categorie diagnostiche fornite dal manuale e, almeno per quel che riguarda le procedure diagnostiche, si sono sostanzialmente uniformati ponendo fine alle diatribe tra scuole di pensiero c concentrandosi su altri aspetti specialistici della disciplina ,o. 381

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Criteri diagnostici e filosofie di base In questo paragrafo si analizzeranno più da vicino alcuni criteri segui­ ti dagli autori sopracitati per individuare e classificare le patologie psichiche. Nel farlo il discorso si intreccerà inevitabilmente con le idee filosofiche che guidano la scelta di questi criteri, le quali sono a volte esplicite ma altre volte influenzano il sistema in modo occulto. Una prima cosa da mettere in risalto è una rilevante continuità di fondo tra alcuni dei sistemi discussi: quando Pinel scrive il suo tratta­ to il rimando è decisamente esplicito ai «principi metodologici delle scienze naturali, così avanzate e progredite» (Pinel, i8oob, trad. it. p. 55) 3XMa l’influenza fondamentale è anche filosofica, perché se da un lato «l’ideale è la perfezione descrittiva raggiunta da Linneo nelle classificazioni botaniche» (Kantzà, 1985, pp. 10-1), dall’altro lato è grazie all’influenza di Locke e Condillac 32 che si spiega la polemica di Pinel contro le precedenti sistematizzazioni scolastiche:

Studiare la follia alla luce dell’empirismo di Locke e del sensismo di Condillac significava dunque rinunciare ai grandi interrogativi e descriverla nel suo divenire apparente che doveva in sostanza fornirne anche la chiave di inter­ pretazione. Compito che Pinel svolse con impegno e passione (ivi, p. ir). Dunque, sin dall’inizio della nostra storia scienze naturali ed empiri­ smo convergono nel punto fondamentale: l’inquadramento delle pato­ logie psichiche in una tassonomia si basa fondamentalmente sull’accu­ rata descrizione dei fenomeni psicopatologici così come essi si pre­ sentano a un’osservazione e ad un ascolto accurati. Pinel inaugura così quell’ascolto sistematico e prolungato 33 dei malati mentali che da allora rimarrà come la fonte primaria e più affidabile su cui fonda­ re le tassonomie psichiatriche. Così, l’esigenza del dsm-iii di fondarsi sul piano esclusivamente descrittivo prescindendo dalle cause dei di­ sturbi mentali (la famigerata ateorelicità) è da considerare rivoluziona­ ria solo rispetto al confronto interno con la psichiatria nordamericana che aveva prodotto il dsm e il dsm-ii, mentre sul piano più generale si pone in sostanziale continuità con molte classificazioni europee. Infat­ ti, dopo Pinel l’esigenza di basarsi rigorosamente sull’osservazione e la descrizione dei quadri clinici passerà alla psichiatria tedesca dell’Ottocento 34 per sfociare infine nella psicopatologia descrittiva del Novecento. Un secondo movimento legato a questo ancorarsi al piano descrit­ tivo è l’estromissione della filosofia dai riferimenti teorici espliciti dei

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13- STORIA E CRITERI DEI PARADIGMI NOSOGRAFICI

vari autori, che comporterà quel passaggio al piano implicito sulla cui pericolosità avrebbe messo in guardia il già citato Jaspers. Ciò sembra essere avvenuto abbastanza presto nell’Ottocento:

la psichiatria della metà del secolo, soprattutto quella francese, sembra aver abbandonato la sua dipendenza ufficiale da filosofi come l’Hartly, l’Hume, il Berkeley, il Condillac e il Locke. L’ospedale e la clinica si affermarono come l’unica fonte degna di fiducia e come il laboratorio naturale della psicologia umana (Zilboorg, Henry, 1941, trad. it. p. 351). Ora, se in epoca moderna è raro trovare autori di tassonomie psichia­ triche che citano esplicitamente i loro riferimenti filosofici, ciò non significa che essi non ci siano. E allora, come è potuto succedere che il dsm-iii abbia ideato questo mostro linguistico dell’ateoreticità, che come da subito notò Michels (1984, p. 550) esprime un concetto im­ possibile, visto che «non si può essere concettualmente ateoretici a meno che non si sia muti»? Per comprendere questo punto occorre innanzitutto partire dalle problematiche che si trovarono ad affronta­ re gli autori del dsm-iii; da un lato Spitzer e collaboratori dovevano prendere posizione rispetto a quella impostazione locale della psichia­ tria nordamericana, prevalentemente psicodinamica, che aveva porta­ to al dsm-ii, avendo dal lato opposto l’influenza determinante della scuola di Saint Louis che invece proponeva un modello “organicista” della malattia mentale. Sull’altro versante c’era il grande problema dell’eziologia delle pa­ tologie psichiatriche, che al di là delle impostazioni di scuola e delle preferenze dei singoli autori per questo o quel modello esplicativo delle patologie mentali si scontrava (e purtroppo si scontra tuttora) con la non conoscenza dell’eziologia della maggior parte di queste condizioni patologiche i5. Non potendo così basarsi su dati eziologici certi, gli autori del dsm-iii hanno valutato che «l’inclusione di teorie eziologiche risulterebbe di ostacolo per l’uso del manuale da parte di clinici di diversi orientamenti teorici, dato che non si potrebbero pre­ sentare tutte le teorie eziologiche proposte» (American Psychiatric Association, 1980, trad. it. p. 9). Precedenti ricostruzioni storiche hanno così sostenuto che è su questa base (eziopatogenesi ignota c esigenza di non sposare una teoria etiopatogenetica a scapito di altre) [che] si spiega cosa sia l’ateoreticità, che non è la mancanza di teorie, ma il sospendere il giudizio circa la pos­ sibile etiologia dei disturbi definiti su un piano descrittivo (Aragona, ioo6b, p. 48).

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Si comprende così il primo dei motivi che ha fatto vedere il dsm-iii come una rivoluzione: rispetto alle due edizioni precedenti, infatti, il DSM-ni prova ad espellere ogni riferimento eziologico; cadono così definitivamente il concetto di reazione e anche tutti i riferimenti ezio­ logici psicodinamici ancora presenti nel DSM-II, compreso il termine “nevrosi” 36. Tutto ciò avviene con una chiara finalità; la scelta di es­ sere ateoretici e di fondarsi sul piano descrittivo è «primariamente ri­ volta all'esigenza di rendere il dsm-iii utilizzabile dai clinici di diverso orientamento» {ibid.}. Di fatto, il dsm-iii è riuscito in quest’impresa al punto che oggi è usato da clinici (e non solo) dagli orientamenti teo­ rici i più disparati, i quali sono generalmente concordi che l’utilità principale di questo strumento sia stata proprio quella di favorire la comunicazione al di là delle scuole di appartenenza. A questo punto, il problema che gli autori del dsm-iii si trovarono ad affrontare fu sostanzialmente: come ottenere tutto ciò? La già cita­ ta ricerca di Kendell e collaboratori (1971) suggeriva che un accordo sui termini non fosse sufficiente, e ciò portò a pensare che occorresse anche un accordo sbatto diagnostico, ovvero sulle operazioni con­ crete da farsi al fine di poter attribuire il nome di una patologia al quadro clinico che si sta osservando nel paziente. È per questa via che quello che verrà chiamato “operazionismo” 37 entra, venendo concre­ tamente adattato, nella nosografia psichiatrica. E vi entra già prima del dsm-iii, ad opera della scuola di Saint Louis, con la proposta dei criteri diagnostici operativi di Feighner e collaboratori (1972). Si è così giunti ai due punti al centro dell’analisi: da un lato l’in­ troduzione dei criteri diagnostici operativi nel cuore del concetto chiave del DSM, quello di disturbo mentale; dall’altro l’innestarsi di questa svolta sul programma neokraepeliniano. Partendo dal primo di questi punti, si è recentemente sostenuto (Aragona, zoo9d, pp. 3-4) che la definizione esplicita del concetto di disturbo mentale che si trova nell’introduzione del dsm è generica e vaga non a caso, ma pro­ babilmente in modo intenzionale, proprio perché il concetto doveva essere sufficientemente generico da poter essere utilizzato da tutti gli operatori, indipendentemente dalla scuola di appartenenza. Al con­ trario il significato implicito proprio di disturbo, che si evince dall’u­ so concreto che il dsm fa del termine, è estremamente specifico e si fonda sulle seguenti caratteristiche (Aragona, 2oo9d): r. Approccio descrittivo; 2. Uso di criteri diagnostici operativi espliciti: «un set de­ finito di criteri diagnostici, ognuno con una definizione chiara ed esplicita dei criteri che io soddisfano. Una volta che il clinico ha con­ trollato che le caratteristiche del paziente effettivamente combaciano con quelle elencate nei criteri diagnostici, la diagnosi diviene automa-

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13- STORIA E CRITERI DEI PARADIGMI NOSOGRAFICI

tica»; 3. Assenza di un ordinamento gerarchico tra i sintomi elencati; 4. Uso di criteri politetici con soglie diagnostiche quantitative, nel senso che di solito qualunque dei sintomi elencati ha la stessa impor­ tanza ai fini della diagnosi, purché si superi il numero di sintomi mi­ nimo previsto dal criterio. Il risultato finale dell’introduzione di questa modalità “operativa” sarà che

la diagnosi non è più il punto di arrivo di un’operazione di valutazione com­ plessa fatta dal clinico, operazione nella quale ampio è lo spazio lasciato alla soggettività del giudizio clinico. Ora la diagnosi si avvicina a un’operazione più obiettiva, quasi meccanica visto che risulta necessariamente dal fatto che i criteri richiesti sono soddisfatti (Aragona, zooób, pp. 42-3).

Per quanto inappropriato possa suonare tutto ciò dal punto di vista clinico, è però indubbio che comportò un aumento verificato speri­ mentalmente del grado di concordanza degli operatori (inter-rater reliabilily) nel fare la stessa diagnosi, contribuendo fortemente a supe­ rare il problema che era stato posto da Kendell e collaboratori (1971). Il dsm-iii ne ha così ricavato una solida credibilità scientifica rispetto alla sua capacità di risolvere i problemi posti, e ciò gli ha consentito di diventare la classificazione standard della psichiatria ,8, instaurandosi come' primo paradigma diagnostico della storia delle moderne classificazioni psichiatriche. Infine, il secondo dei punti nucleari da discutere: la radice teorica implicita neokraepeliniana che sottende il dsm. Wilson (1993) sottoli­ nea che tra Spitzer, a capo del progetto che avrebbe portato al dsmiii, c il gruppo neokraepeliniano di Saint Louis vi erano molte conso­ nanze (ad esempio la convinzione dell’importanza cruciale dell’affida­ bilità diagnostica per la ricerca e il rifiuto del modello psicodinamico visto come un intralcio per la validazione delle diagnosi) che spiegano perché più della metà degli psichiatri chiamati da Spitzer a collabora­ re al progetto fossero accomunati dall’essere stati formati in quel gruppo. A tal proposito Rogler (1997) parla di un vero e proprio cre­ do neokraepeliniano che entrando nel dsm-iii impose una nuova Weltanschauung attraverso il progetto di “rimedicalizzazione” della psichiatria. E in effetti si è notato che

sotto una superficie descrittiva, i criteri di Feighncr sembrano basarsi su una implicita concezione generale delle patologie mentali come vere e proprie malattie, simili a quelle riscontrabili nella medicina (malattie idiopatiche). At­ tcstano questa posizione il ripetuto utilizzo del termine ilbiess e il richiamo 385

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al concetto di “storia naturale” della patologia, così come l’importanza attri­ buita agli esami di laboratorio e agli studi familiari (Aragona, 2oo6b, p. 47).

Ora, nel passaggio al DSM-ni questa componente “organicista” che i neokraepeliniani condividerebbero con Kraepelin scompare in favore di una ateoreticità: i dsm «non hanno seguito Kraepelin in un punto importante: hanno rifiutato di speculare sull’eziologia, cosa che invece Kraepelin fece liberamente» (Decker, 2007, p. 354) 39. Ma questa non è l’unica differenza, perché anche l’impostazione diagnostica che usa i criteri operativi (che è tipicamente neo-kraepeliniana in quanto intro­ dotta dai criteri di Feighner) è in realtà distante dall’impostazione di Kraepelin che usa fare delle accuratissime descrizioni delle patologie considerate, ma senza dettare criteri operativi espliciti (all’epoca non esistenti). E dunque, se finora si evincono molte differenze tra il sistema kraepeliniano e la derivazione neokraepeliniana che arriva al DSM-m, in che consistono le somiglianze? Decker sottolinea che tanto quella che lui chiama la “composite picture” di Kraepelin, quanto i criteri diagnostici dei neokraepeliniani e del DSM contengono entrambi il messaggio «questo è tutto ciò che si può fare allo stato attuale» (ivi, p. 355), nel senso che non nascondono i propri limiti e sono aperti alla critica e alla revisione. Il problema è che questo non può essere un punto fondante, occorre che il dsm debba essere “neokraepeliniano” in modo più specifico per giustificare l’affermazione di una somi­ glianza (e non solo di una filiazione storica) tra i due sistemi. Proba­ bilmente il punto caratterizzante che accomuna Kraepelin, i neokrae­ peliniani e il dsm-iii è l’idea implicita che in qualche modo miglioran­ do le procedure diagnostiche si ottenga di enucleare sempre meglio degli enti di natura, in modo che da questa base (dall’individuazione di queste patologie sul piano descrittivo) si possa partire per andare al piano sottostante, ovvero l’individuazione delle cause che le sotten­ dono. Ciò è ben visibile già nelle risposte dei sostenitori del dsm-iii alle critiche di trascurare la validità in favore della reliability: nella loro risposta, sebbene ammettano che la reliability di per sé non ga­ rantisca la validità, tuttavia ritengono che essa sia un presupposto ne­ cessario per stabilire la validità delle classi diagnostiche, perché finché i criteri diagnostici saranno unreliable le diagnosi non potranno esser valide (Spitzer, 1984; Klerman, 1984). È qui da sottolineare che que­ sto modo di pensare (l’enucleazione di diagnosi affidabili porterà a scoperte che ne confermeranno la validità) non è cambiato, tanto che la mancata validità delle diagnosi è la critica più forte che viene mos­ sa oggi al dsm-iv-tr 40 e la necessità di una validità intesa in senso

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13. STORIA E CRITERI DEI PARADIGMI NOSOGRAFICI

realista è uno dei temi sostenuti con forza anche nell’ambito di nuove proposte di tassonomia psichiatrica che vengono dalle neuroscienze cognitive 41.

Conclusioni e scenari futuri In questo scritto si è discusso di come siano nate le moderne nosolo­ gie psichiatriche, del loro sviluppo, dell’importanza relativa che ebbe­ ro per contemporanei e successori, delle idee teorico-filosofiche che le sottendevano e del ruolo di queste idee, solo a volte esplicitate, nell’organizzazione della struttura della nosografia. Si è visto che no­ nostante la grande importanza di alcuni sistemi nosografici del passa­ to, solo in anni relativamente recenti il dibattito nosologico ha acqui­ sito caratteristiche “paradigmatiche”, grazie all’affermazione del dsmiu. L’analisi storico-filosofica ha poi messo in evidenza un tratto co­ mune che ha legato le varie classificazioni da Pinel al dsm-iii, ovvero l’importanza di basarsi in modo rigoroso e affidabile sul piano de­ scrittivo. Si è notato come, in una certa misura, ciò valesse anche per Kraepelin 42. Se è vero che la sottolineatura esplicita sulla pura de­ scrizione si è avuta in modo netto solo con il concetto di “ateoreticità” del dsm-iu, è però anche vero che questa non sia la sua innova­ zione più importante. In definitiva, nonostante siano moltissimi gli autori che considerano il dsm-iii “rivoluzionario” per esser passato da un sistema eziologico su base psicodinamica a un sistema ateoreticodescrittivo, questa è una rivoluzione solo locale, perché solo negli Stati Uniti la classificazione era psicodinamica. Scegliendo la via della descrizione come fondamento principale della diagnosi psichiatrica, il dsm-iii operava una rottura rispetto al panorama psichiatrico nordamericano, ma nel farlo si poneva in so­ stanziale continuità con la storia della psichiatria moderna che di fat­ to sin da Pinel aveva privilegiato queste basi, e che aveva dato vita a una tradizione che (esclusi gli Stati Uniti) continuava ad essere quella su cui si fondava la gran parte delle nosografie di rilievo. Dunque, diversamente dall’opinione corrente, per chi scrive il punto veramen­ te innovativo del sistema non fu il passaggio al piano descrittivo ma piuttosto l’introduzione, sull’esempio dei criteri di Feighner, di criteri diagnostici operativi espliciti. In sostanza, questo rappresentò il pas­ saggio da una modalità diagnostica più tipologica (il manuale descrive il quadro clinico, e poi è il singolo psichiatra che deve valutare quan­ to il paziente con cui sta parlando somigli o meno a ciò che è de­ scritto nel manuale, e quindi se dargli o no quella data diagnosi) a 387

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una modalità nuova, in cui il giudizio soggettivo del clinico si trova fortemente ridimensionato dalla necessità di verificare che i singoli criteri diagnostici elencati dal manuale siano effettivamente soddisfat­ ti, altrimenti non può fare la diagnosi. Fu con questo artificio che il DSM-ni ottenne un successo scientifi­ camente misurabile sulla affidabilità diagnostica {reliability) che gli consentì di presentarsi in modo credibile come la soluzione all’esi­ genza di ripristinare un’affidabile comunicazione scientifica in psichia­ tria. Tutto ciò, però, portò a enfatizzare alcuni punti e a trascurarne altri, con il risultato di una serie di problematiche irrisolte che il si­ stema si è trascinato negli anni, sino ai giorni attuali. Recenti ricerche (Aragona, 2oo6b, 20090) hanno reinterpretato alcune delle apparenti problematiche “empiriche” del dsm (es. eterogeneità interna e comorbidity) come vere e proprie “anomalie” kuhniane, ovvero come pro­ blematiche che non sono il semplice risultato di una qualche sorta di “resistenza” della natura a lasciarsi inquadrare dal DSM, ma come problemi che nascono proprio perché il dsm è fatto così, essendo le­ gati al modo in cui il nucleo del sistema (l’approccio quantitativopolitetico al cuore del concetto di disturbo secondo il dsm) ne de­ termina struttura e applicazione pratica. Questa riformulazione, che sembra possa essere supportata anche dalle prime misurazioni bibliometriche dello stato dell’arte (Aragona, zooóa), indica che il dsm, primo paradigma della nosologia psichiatrica moderna, oggi sia entrato in crisi. Ne consegue il profilarsi di una pos­ sibile rivoluzione scientifica i cui esiti sono al momento poco delineabili, e ciò perché sul tappeto vi sono più possibili sistemi rivoluzionari. Di alcuni di essi si è già operata un’analisi comparativa rispetto alle possibilità o meno, considerate le loro caratteristiche intrinseche e gli eventuali limiti, di soppiantare il paradigma dsm dominante 43. Non essendo qui il luogo per queste analisi si rimanda ai lavori già pubblicati, lasciando un ultimo brevissimo spazio per porre due que­ stioni più filosofiche: a) quale rivoluzione filosofica sottendono le più recenti proposte di diagnosi “eziologica” che vengono da autori che si ispirano ai risultati delle moderne neuroscienze cognitive?, b) la crisi del dsm è anche la crisi finale della psicopatologia descrittiva? Rispetto alla prima domanda, tre proposte recenti (Murphy, 2006; Kendler, 2008; Sirgiovanni, 2009) sono accomunate dal tentativo di rifondare la diagnosi sulla base di una validazione causale multilivel­ lo 44. Benché non esistano ancora analisi approfondite delle implica­ zioni filosofiche di questi modelli, una prima cosa su cui si può inizia­ re a puntare l’attenzione è l’abbandono del piano puramente descrit­ tivo per cercare di ripartire dalla funzione cognitiva (Kendler parla

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ad esempio di una ingegneria al contrario, che per capire a cosa ser­ vano i pezzi di un vecchio apparecchio di cui non si ricorda più l’uso cerca prima di capire a cosa servisse, e una volta compresa la funzio­ ne risale al contributo di ogni singola parte). Si può azzardare che su questa via si possa arrivare dritti a un punto rivoluzionario: si profile­ rebbe così la necessità di abbandonare gli assunti neokraepeliniani impliciti, cioè quelli che suggeriscono che si debba partire dal piano descrittivo per individuare enti di natura di cui, in un successivo mo­ mento, si possa scoprire l’eziologia da cui dipendono. Al loro posto si dovrebbe invece, almeno secondo questa prospettiva, instaurare un modello che parta non più dalle diagnosi ma da aspetti disfunzionali dei sistemi cognitivi, emotivi e comportamentali, dei quali individuare gli elementi che ne consentono il funzionamento normale e le altera­ zioni che portano alla disfunzione 45. Infine l’ultimo punto: col dsm muore definitivamente la psicopa­ tologia descrittiva? A ben vedere quest’ultima non ha beneficiato molto dell’impostazione descrittiva del dsm. Ad esempio. Velia e Ara­ gona (2000) hanno parlato al proposito di “scarsa determinazione fe­ nomenica” dei sintomi presi in considerazione dal dsm per le sue dia­ gnosi, sottolineando come ciò rendesse ragione di una serie di pro­ blemi pratici contro cui il dsm si è andato a scontrare. Più recente­ mente Andreasen (2007) ha ulteriormente approfondito la questione, considerando un paradosso il fatto che proprio il neokraepeliniano dsm, figlio dei pochi psichiatri nordamericani che negli anni settanta tenessero in seria considerazione la psicopatologia europea, abbia fi­ nito col provocare, come unintended consequence, la morte della fe­ nomenologia in America. A suo giudizio questo stato di cose è deso­ lante, ma

per fortuna gli europei hanno ancora una fiera tradizione di ricerca clinica e psicopatologia descrittiva. Un giorno, nel ventunesimo secolo, dopo che il genoma e il cervello umani siano stati mappati, qualcuno potrà aver bisogno di organizzare un piano Marshall al contrario, in modo che gli europei pos­ sano salvare la scienza americana aiutandoci a capire chi realmente ha una schizofrenia o cosa sia in realtà la schizofrenia (ivi, p. 112). Ma tutto ciò pone lo psicopatologo di fronte a un dilemma: ralle­ grarsi che un autore così influente preconizzi il ritorno in auge della psicopatologia descrittiva europea, e quindi continuare a lavorare nel solito modo, fino a che quel giorno si compia? Oppure leggere con più attenzione le parole della Andreasen e chiedersi se abbia effetti­ vamente senso porsi oggi questioni come “chi realmente ha la schizo-

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frenia” o “cos’è in realtà la schizofrenia”? È indubbio che queste sia­ no questioni classiche della psicopatologia, ma da un lato è proprio la storia della psicopatologia che ci dice che per questa via non si sono raggiunti risultati risolutivi, dall’altro la riflessione in filosofia della psicopatologia (Aragona, 20093) suggerisce che solo di recente si è entrati in una crisi dei paradigmi di riferimento che, partendo dal dsm, coinvolge più in generale l’intera impostazione neokraepeliniana (la quale, lo si è visto, è fondamentalmente in continuità con due se­ coli di psicopatologia che dalla descrizione del quadro morboso vole­ va risalire alle cause sottostanti):

Delle due teorie principali che sottendono “l’ateoretico” dsm, ovvero il modo di vedere di derivazione neopositivista su come i concetti scientifici vanno resi operativi e il modo di vedere neokraepeliniano su oggetti e scopi di una classificazione psichiatrica, la prima è quella responsabile dell’emergere delle anomalie, mentre la seconda sembra essere quella che entra in crisi perché queste anomalie configgono con i suoi assunti di base (ivi, p. 32).

In questo senso il sollecito della Andreasen alla fenomenologia affin­ ché raffini i propri strumenti descrittivi in modo da migliorare l’indi­ viduazione di categorie diagnostiche sempre più vicine alla realtà può essere letto come il frutto della nostalgia per il fallimento dell’origina­ le progetto realista neokraepeliniano. Ma è proprio il fallimento di questo approccio che suggerisce al contrario di cambiare drastica­ mente strada, ovvero divenire consapevoli che: a) le diagnosi psichia­ triche elencate nelle nostre nosografie sono costrutti frutto di una ela­ borazione concettuale culturalmente e storicamente situata (cfr. Ara­ gona, 2oo9d); e b) la crisi dell’attuale paradigma nosografico (il dsm) comporta la crisi del paradigma neokraepeliniano che lo sottende, e con esso una crisi più generale dell’intera psicopatologia descrittiva che impone «la necessità di un ripensamento radicale sul futuro della psicopatologia» (Aragona, 2009C, p. no).

Note 1. Il che non implica che l’incommensurabilità sia anche intraducibilità, però è senz’altro ingenuo pensare che col termine “mania” si intendesse la stessa cosa nella Cappadocia del 1 secolo e negli ospedali psichiatrici nord-americani della fine del xx secolo. 2. Per una discussione più ampia degli aspetti teorici inerenti l’uso del termine kuhniano “paradigma” nel contesto della nosografia psichiatrica si rimanda ad Arago­ na (20093).

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3. Come si vedrà, anche le classificazioni che si dicono ateoretiche e puramente descrittive hanno alla base delle radici teoriche forti e spesso molto influenti. 4. «Lo sfondo culturale in cui Pinel agiva aveva già maturato 1 germi del cambia­ mento; si trattava ora di evidenziarli, di compiere il passo ultimo e decisivo: Pinel risponde a questo bisogno del suo tempo» (Kantzà, 1985, p. io). 5. «Non si potrebbe capire il concetto stesso di alienazione se non si risalisse alla causa che più spesso la provoca, intendo dire le passioni violente o esasperate dalle contraddizioni» (Pinel, i8oob, trad. it. p. 28). 6. Egli stesso sottolinea che i risultati ottenuti in Ospizi nei quali si segue il suo metodo sistematico sono «garantiti da un’unanime concordanza sui principi fonda­ mentali comuni ai medici dell’antichità e a quelli moderni più illuminati» (Pinel, i8oob, trad. it. p. 35). 7. E dunque «bisogna aderire ai fatti, e contemporaneamente tener presente la storia generale e ben definita dell’alienazione mentale, risultato che si può ottenere solo con scrupolosità nel decorso e nelle diverse fasi della malattia, dall’insorgenza fino all’esito finale» (Pinel, i8oob, trad. it. p. 56). 8. Per una revisione storico-filosofica della distinzione concettuale tra somatogeno, endogeno e psicogeno nella psicopatologia continentale si veda Aragona (zoogb). 9. Delirio da collasso, Confusione mentale acuta (Amcntia) ed Esaurimento ner­ voso cronico, «in quanto esse sono generate di regola da gravi lesioni somatiche» (Kraepelin, 1904, trad. it. p. 6) 10. Ad esempio: «A causa della insufficienza dei nostri mezzi d’esame e delle nostre cognizioni anatomo-patologiche, come anche per la difficoltà di collegare i pro­ cessi morbosi somatici a quelli psichici, tutti i tentativi fatti finora per una classifica­ zione anatomo-patologica delle alterazioni psichiche hanno naufragato» (Kraepelin, 1904, trad. it. p. 2), e «Per contro le cause della pazzia sono completamente oscure per noi, come l’apprezzamento sincero della esperienza giornaliera ci fa senz'altro confessare. Ciò non dipende solo da circostanze esterne [...] ma ha la sua ragione di essere nella natura stessa dei disturbi psichici» (ivi, p. 3). 11. Anche perché «noi dovremo attribuire tanto maggiore importanza ad un sin­ golo sintomo, quanto più sicure sono le conclusioni che esso ci permette di trarre sulla causa e sull’esito del caso in discorso» (Kraepelin, 1904, trad. it. p. 4). 12. Tamburini fa risalire questa metodologia della ricerca a Krafft-Ebing, «il quale adottando a un tempo il criterio eziologico, quello sintomatico, c quello anato­ mico, a seconda che nella conoscenza delle varie forme morbose si erano fatti maggio­ ri progressi nell’un senso o nell’altro, ha dato forma e corpo a una serie di quadri nosografici» (Tamburini, 1907, pp. vn-vni). 13. Analizzando il lavoro kraepcliniano dal punto di vista della ricerca delle uni­ tà morbose, Jaspers (19133, trad. it. p. 609) scrive: «Quadri morbosi che hanno le stesse cause, le stesse forme psicologiche fondamentali, lo stesso sviluppo e decorso, lo stesso esito e lo stesso reperto cerebrale, che quindi concordano nel quadro generale, sono le vere, naturali unità morbose». 14. Il risultato finale di queste successive modifiche ed evoluzioni porterà all’e­ sclusione di molte delle patologie qui elencate dalla competenza specifica della psi­ chiatria, per diventare di pertinenza primariamente neurologica o internistica. 15. A Kraepelin si devono, ad esempio: la distinzione tra psicosi maniaco-depressiva e quella che poi sarebbe diventata la schizofrenia, ovvero la demenza precoce; l’accorpamento in quest'ultima di una serie di sindromi precedentemente considerate separate; il restringimento del campo della paranoia da cui vengono estromessi tutti i deliri paranoidei ricondotti alla demenza precoce; la separazione delle grandi psicosi dai quadri isterici, fobici e ossessivi come anche dalle perversioni e dalle psicopatie.

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16. Schneider (1946) fonda il suo sistema su un dualismo empirico che lo porta a distinguere le varianti abnormi dell'essere psichico (disposizioni abnormi dell'intelligen­ za, personalità abnormi e reazioni abnormi all’avvenimento) dalle sequele di malattie. Per queste ultime l’ordinamento è a doppio binario, con da un lato l’ordinamento eziologico (intossicazioni, paralisi progressiva, infezioni, malformazioni cerebrali, trau­ mi cerebrali, arteriosclerosi cerebrale ecc.) e dall’altro lato il corrispettivo ordinamen­ to sintomatologico (presentazione acuta: obnubilamento della coscienza, presentazione cronica: destrutturazione della personalità e demenza). È da notare che schizofrenia e cidotimia sono inquadrate tra le sequele di malattie dal punto di vista sintomatologi­ co, mentre sul corrispettivo piano eziologico non c’è come negli altri casi la malattia cerebrale o intemistica che provoca i sintomi, ma un punto interrogativo per ognuna delle due condizioni psicopatologiche. E però Schneider avverte che questi due punti interrogativi «non sono interrogativi dubitativi (“Ob”) ma interrogativi di oggetto (“Was")» (ivi, trad. it. p. 27), nel senso che non si dubita se alla base vi sia una ezio­ logia somatica, ma solo non si sa quale essa sia. 17. 11 Disturbo mentale è qui definito così: «Questo schema diagnostico usa il termine “disturbo” in modo generico per designare un gruppo di sindromi psichiatriche correlate» (American Psychiatric Association, 1952, p. 9), e «La parola “disturbo" è basilare per la terminologia, ed è usata nel suo senso più ampio per indicare un gruppo di condizioni correlate che colpiscono l’unità psicobiologica. Ogni gruppo di disturbi consiste in sindromi psichiatriche o condizioni a cui ci si riferisce come a “reazioni"» (ivi, p. 105). 18. Ad esempio l’omosessualità, prima considerata una patologia mentale, viene distinta in egosintonica ed egodistonica e solo quest’ultima, in quanto fonte di soffe­ renza, viene considerata come diagnosi dal DSM-III. L’eliminazione della variante ego­ distonica, e dunque la rimozione definitiva dell’omosessualità dai disturbi mentali, av­ verrà invece con il dsm-ui-r. 19. La questione sarebbe solo terminologica se non fosse che l’analisi kuhniana dei paradigmi è recentemente entrata nel dibattito con la pretesa di essere determi­ nante per la risoluzione degli attuali problemi della classificazione. 20. Attraverso il già citato lavoro di Mòebius (1893). Ad esempio, Tamburini (1907, p. vi) scrive: «L’indirizzo enologico ebbe il suo grande rappresentante in Morel colla dottrina antropologico-psichiatrica della degenerazione, la quale amplificata e applicata anche con eccessiva larghezza dai suoi seguaci, specialmente da Moreau de Tours, invase per qualche tempo tutto il campo della nosografia psichiatrica, dive­ nendo il fondamento e il criterio quasi esclusivo nella divisione e nella patogenesi e perfino nella sintomatologia e nei metodi d’esame delle malattie mentali». 21. «L’influenza delle idee lanciate dal Kraepelin nel mondo psichiatrico è ormai riconosciuta in tutti i paesi, in cui esse si adottano o si discutono» (Tamburini, 1907, p. xiv). 22. Ad esempio, il semplice fatto che la rivista “World Psychiatry" abbia ritenu­ to di dover dedicare il numero di giugno 2007 al dibattito se non sia il caso di supe­ rare la distinzione kraepeliniana tra schizofrenia c psicosi maniaco-depressiva la dice lunga su quanto essa sia tuttora influente. 23. «[...] ogni centro di insegnamento sufficientemente grande impiegava un pro­ prio sistema, nessuno dei quali serviva a qualcosa che andasse oltre i bisogni immedia­ ti dell’istituzione locale. Nonostante la loro origine locale, dovuta alla mancanza di adeguate alternative, questi sistemi si erano diffusi in tutta la nazione, portati in vari posti da individui che si erano formati in un dato centro e che erano abituati a quello specifico sistema di nomenclatura. Si resero immediatamente necessarie delle modifi­ che alle nomenclature cosi trapiantate, c venivano fatte in base a necessità contingenti.

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Ne risultò un sistema poliglotta di etichette e sistemi diagnostici, che effettivamente bloccava la comunicazione e la raccolta delle statistiche mediche» (American Psychiatric Association, 1952, p. v). 24. Ad esempio, Minkowski (1966, trad. it. p. 76) scriveva che la nosografia fran­ cese «è fatta di polemiche che la medicina non conosce [...]. Polemiche fra Paese c Paese, fra scuola e scuola, e spesso perfino tra psichiatra e psichiatra». 25. «Intorno al 1948 la situazione della nomenclatura psichiatrica si era deterio­ rata ritornando più o meno al punto di confusione che esisteva nella nomenclatura medica degli anni venti. Venivano usate almeno tre nomenclature diverse (la Stan­ dard, quella delle Forze Armate e quella della Veterans Administration), e nessuna di esse si accordava bene con la Classificazione Statistica Internazionale. Una agenzia si trovò così a dover usare una nomenclatura per l’uso clinico, un’altra per la valutazio­ ne di invalidità e quella internazionale per le statistiche. In pratica ogni centro di inse­ gnamento aveva apportato proprie modifiche [...]» (American Psychiatric Association, 1952, p. vii).

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26. «La conseguenza del rilievo di così eclatanti differenze diagnostiche tra le due sponde dell’Atlantico era molto scria: in mancanza di una concordanza diagno­ stica, diventava difficile confrontare le ricerche fatte in America con quelle fatte in Inghilterra, poiché nessuno poteva garantire che un gruppo di pazienti schizofrenici selezionati per la ricerca in America fosse comparabile a un gruppo di pazienti con la stessa diagnosi selezionato in Inghilterra. La comunicazione scientifica rischiava di chiudersi!» (Aragona, zooób, p. 39). 27. Si è sottolineato che l’esigenza di rendere più precisa e credibile la nosografia psichiatrica nascesse in quegli anni anche dall’esigenza di difendere la scientificità del­ la psichiatria dagli attacchi che le venivano rivolti dal movimento antipsichiatrico (Mayes, Horwitz, 2005), attacchi che ovviamente trovavano terreno fertile nelle di­ scusse debolezze dei riferimenti diagnostici. 28. I criteri di Feighner non sono una vera classificazione psichiatrica, in quanto in quell’articolo vengono inquadrate solo alcune patologie psichiche, alle quali vengo­ no assegnati dei criteri diagnostici a fini di ricerca. Tuttavia, pur non essendo una classificazione completa, tali criteri sono generalmente considerati come il primo esempio concreto di applicazione dei criteri operativi alla diagnosi, metodo che anti­ ciperà tutte le future classificazioni fondate su un procedimento analogo. Nello speci­ fico, i criteri di Feighner erano fondati su cinque “fasi” definite in modo operativo: descrizione clinica, studi di laboratorio, diagnosi differenziale, studi di follotv tip e studi familiari. Ciò era in continuità con il modello medico neokracpeliniano che in quegli anni veniva proposto da autori come Robins e Guze. Come si vedrà il DSM-m ne recepirà l’impostazione operativa, ma non le parti più strettamente mediche (es. dati di laboratorio e familiarità). 29. E in verità non solo essi. Quello del DSM è diventato il linguaggio standard anche di psicologi, infermieri psichiatrici, riabilitatoti, educatori, assistenti sociali, giu­ dici, operatori delle compagnie assicurative ecc. 30. Ad esempio, i referees che decidono se un articolo scientifico vada accettato o meno fanno critiche su vari aspetti di esso (razionale della ricerca, metodi di valuta­ zione impiegati, appropriatezza delle analisi statistiche e della discussione dei risulta­ ti), ma non sulla parte della selezione diagnostica se questa è stata fatta con procedure standard previste dal dsm. 31. Pinci chiude così la prefazione alla prima edizione della sua opera: «Un’ope­ ra di medicina pubblicata in Francia alla fine del diciottesimo secolo, deve avere un'impronta particolare e diversa da quelle scritte prima; deve avere un aperto svi­ luppo di idee, un’immagine di saggezza c di libertà e soprattutto deve essere caratte-

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rizzata dal metodo chiaro e distinto proprio delle scienze naturali». (Pinel, i8oob, trad. it. p. 49). 32. Come rimarca lo stesso Pinel, il medico «può indagare sulle distorsioni delle funzioni dell’intelletto umano, se non ha meditato sui testi di Locke e di Condillac fino ad avere con la loro dottrina un’intima familiarità?» (Pinel, i8oob, trad. it. p. 36). Di recente Alessandrini (2008, p. io) ha sottolineato anche l’importanza, per l’o­ pera di Pinel, di Rousseau come «la vera fonte che gli consente di ricollegare il sapere profano, appreso dai sorveglianti, con giustificazioni di portata filosofico-scientifica», riferendosi in particolare agli aspetti pedagogici del metodo curativo. 33. Si leggano al proposito le belle pagine in cui parla del tempo e della pazienza dedicati all’ascolto dei ricoverati. 34. E come si è visto ciò riguardò addirittura anche Kraepelin, il quale nono­ stante la sua attenzione alle alterazioni organiche cerebrali basò di fatto gran pane della sua classificazione sui dati descrittivi di sintomatologia, decorso ed esito. 35. Spitzer nell’introduzione al DSM-IU (American Psychiatric Association, 1980, trad. it. p. 9) scrive esplicitamente che per la gran parte dei disturbi mentali «l’eziolo­ gia è sconosciuta. Una varietà di teorie sono state proposte, con prove non sempre convincenti, per spiegarne l’origine». 36. Il concetto di reazione era onnipresente nel primo dsm e «rifletteva l’influen­ za della concezione psicobiologica di Adolf Meyer secondo la quale i disturbi mentali rappresentavano reazioni della personalità a fattori psicologici, sociali e biologici» (American Psychiatric Association, 1980, p. 4). Il dsm-u aveva già iniziato un’opera di allontanamento dal piano interpretativo per cercare di fondarsi il più possibile su quello descrittivo («Si è cercato di evitare i termini che portano con sé implicazioni circa la natura di un disturbo o le sue cause e si è stati espliciti circa le assunzioni causali quando esse sono fondamentali»; American Psychiatric Association, 1968, p. vii), però poi di fatto definiva le nevrosi in modo psicodinamico, come difese contro l'ansia sottostante (ad es., «L’ansia è la caratteristica principale delle nevrosi. Può es­ sere esperita ed espressa direttamente, oppure può essere controllata inconsciamente e automaticamente tramite conversione, spostamento e altri numerosi meccanismi psico­ logici»; ivi, p. 39). Il termine “nevrosi” nel dsm-in viene lasciato tra parentesi dopo la dizione “disturbo”, e verrà definitivamente eliminato con il dsm-iii-r. 37. L’introduzione dei criteri operativi non si basa, come il termine porterebbe ad equivocare, sull’operazionismo di Bridgman. Il riferimento è piuttosto all’evoluzio­ ne del concetto di operativismo nella tarda impostazione neopositivista, che aveva in­ fluenzato le riflessioni americane sulle tassonomie attraverso il contributo di Hempel (i96jb). Occorre notare che per questo autore l’operativismo per venir applicato alla psichiatria andava “liberalizzato”, così da poter considerare anche le semplici descri­ zioni sintomatologiche come una sorta di operazione. 38. E ciò nonostante tutta una serie di altre problematiche che il dsm non ha risolto e che ora sono all’ordine del giorno del dibattito (si vedano le conclusioni). 39. Anche se ciò è vero solo sul piano esplicito, visto che l’ufficiale ateorcticità del dsm non ha impedito a molti autori di considerare i disturbi del dsm come “quasi-malattie”. 40. «Più di 30 anni dopo l’introduzione dei criteri di Feighner da parte di Robins e Guze, che alla fine portarono al dsm-iii, l’obiettivo di validare queste sindromi e le comuni criologie è rimasto sfuggente» (Kupfer, First, Regicr, 2002, p. xvm). 41. «Penso che noi nella classificazione miriamo a individuare effettive strutture nella natura, sulla base di teorie causali che spiegano perché la natura ha le strutture che ha. Come dice Kendell la fonte più forte di validazionc è la comprensione causa­ le. Alla fin fine, noi non vogliamo solo una correlazione di effetti osservabili tra loro.

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ma una comprensione dei processi naturali che provocano questi effetti» (Murphy, 2006, p. 224).

42. Nonostante per anni si sia preferito enfatizzare il suo organicismo a scapito del fatto evidente che le psicosi da lui individuate si basavano principalmente su crite­ ri descrittivi, come decorso e sintomatologia. 43. Per la diagnosi dimensionale cfr. Velia, Aragona (2000) e Aragona (20068); per la diagnosi di spettro Aragona et al. (2006) e Aragona (zooób); per la diagnosi eziopatogenetica su base genetica Aragona (zooób). 44. Questi autori, a quanto sembra di capire, rifiutano il riduzionismo “duro” che vuole riportare tutto al piano esclusivamente biologico (generico-molecolare) in favore di una multicausalità che non escluda il ruolo dei fattori psicologici, sociali e culturali. 45. Queste considerazioni vangono qui avanzate indipendentemente dal fatto se questa sia l’effettiva intenzione degli autori, che non sembra impostino la questione esattamente in questi termini.

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Patologie della coscienza e identità personale di Cristina Meini e Michele Di Francesco



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Dal punto di vista filosofico il problema dell’identità personale chia­ ma in causa complesse tematiche metafisiche, etiche ed epistemologi­ che, ed è strettamente intrecciato allo sviluppo della filosofia della mente contemporanea *. Esso può essere descritto come il tentativo di rispondere alle seguenti domande: chi sono e che cosa sono? Quali sono le proprietà che mi rendono un certo individuo e mi distinguo­ no da ogni altra cosa che esiste nel mondo? Si tratta di proprietà puramente fisiche oppure anche di caratteri mentali? Qual è la natura delle persone umane? Che cosa fa sì che una data persona esista in tempi differenti, sopravvivendo a una drastica serie di cambiamenti, ma restando sempre la stessa entità? E a quali cambiamenti, invece, non potrebbe sopravvivere? Per esempio, in che senso posso affer­ mare che io sono stato un embrione e potrei divenire un vegetale umano? Da Cartesio in poi la riflessione sui criteri di identità personale si intreccia con quella sulla natura dell’io. Il dibattito classico si interro­ ga sulla nostra esperienza dell’io: esiste l’io di cui parla Cartesio? Ne abbiamo esperienza nell’introspezione? (Cartesio risponde positivamente, Hume e Nietzsche lo negano, Kant ha una posizione notoria­ mente più articolata). Più recentemente, la discussione si è spostata sulla compatibilità tra l’immagine scientifica e le proprietà tradizio­ nalmente associate all’io. 1 dati scientifici - viene spesso affermato — mettono in discussione l’esistenza di un soggetto unitario e perduran­ te nel tempo, dotato di una integrazione abbastanza robusta da ga­ rantire una chiara identità personale. In questo quadro, lo studio dei disturbi neuropsicologici e psichiatrici ha influenzato e influenza tut­ tora la riflessione filosofica sull’identità personale. Tra i risultati della ricerca che sono interpretati come evidenze in favore delle teorie che decostruiscono la nozione filosoficamente clas­ sica di soggetto, alcuni sono di carattere generale, come la natura mo­ dulare e distribuita del pensiero e la presenza di una molteplicità di 397

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meccanismi automatici che governano l’azione senza alcun contributo del pensiero cosciente. Altri sono più specifici, e di essi ci occupere­ mo in particolare: le sindromi dissociative dell’identità come il blindsight, il neglect, l’anosognosia, gli split brains, le varie sindromi neuro­ psicologiche che mettono in discussione l’unità della coscienza, così come gli studi sugli stati alterati di coscienza o sui rapporti tra consa­ pevolezza, sonno, anestesia, coma. Questi risultati rappresentano una sfida al senso comune e chiamano in causa una riflessione filosofica attenta agli sviluppi della conoscenza scientifica. Prima di interpretarli come evidenze prò o contro la decostruzione dell’io occorre uno sfor­ zo di ulteriore chiarificazione che distingua tra vari sensi di “io” e varie teorie dell’identità personale. Soltanto a questo punto sarà infat­ ti possibile discutere il contributo specifico delle varie indagini scien­ tifiche. In queste pagine distingueremo in particolare tra io fenome­ nologico, io sociale e io narrativo-autobiografico, e cercheremo di sta­ bilire quali di questi caratteri dell’io sono messi in discussione dalle varie patologie. Una volta operata questa distinzione offriremo una diagnosi preliminare circa l’impatto della ricerca empirica sulle varie teorie dell’io e dell’identità personale.

Il problema filosofico Come abbiamo detto, dal punto di vista filosofico il problema dell’i­ dentità personale può essere descritto come il tentativo di rispondere alle seguenti domande chi sono e che cosa sono? Che cosa mi rende l’individuo che sono? Che tipo di entità mi definisce essenzialmente? Quali sono le proprietà che mi appartengono e che non posso cessare di avere senza nello stesso tempo cessare di essere me stesso? Si trat­ ta di questioni che vertono sulla ricerca di criteri che ci permettono di individuare una data entità come una particolare persona e di par­ lare della permanenza di una medesima persona nel tempo. Va notato che i criteri a cui siamo interessati sono concettuali, non empirici. Un criterio empirico per stabilire l’identità personale di qualcuno può essere quello delle impronte digitali, o dell’esame del dna. Le impronte digitali forniscono un buon criterio empirico per­ ché di fatto non si danno due persone che le abbiano identiche; ma la cosa è contingente: sembra difficile ammettere che, se le mie im­ pronte per qualche ragione variassero, io cesserei di essere l’individuo che sono. Il caso potrebbe essere diverso per il dna, ma solo perché potremmo decidere che l’identità biologica (codificata dal dna) è l’es­ senza dell’identità personale. Parlare di essenza è parlare di criteri 398

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concettuali: andare alla ricerca di proprietà che stabiliscono in ogni possibile situazione le condizioni di individuazione e permanenza nel tempo di una persona. Il primo tipo di questioni (individuazione) ha a che fare con le proprietà che mi rendono un certo individuo e mi distinguono da ogni altra cosa che esiste nel mondo. E qui incontriamo subito un’al­ ternativa rilevante sul piano metafisico: si tratta di proprietà pura­ mente fisiche oppure anche di caratteri mentali? Qual è la natura del­ le persone umane? Un’autorevole tradizione, risalente in epoca mo­ derna al pensiero di Cartesio, privilegia il lato mentale: io sono essen­ zialmente “una cosa che pensa”, quindi un soggetto di esperienza, quindi essenzialmente una entità mentale. Oggi tuttavia molti riter­ rebbero che una cosa che pensa è altrettanto essenzialmente una “cosa materiale”: il pensiero, essendo niente altro che attività cere­ brale e/o elaborazione dell’informazione, è un processo altrettanto fi­ sico dello scatenarsi di un temporale o del riprodursi di una colonia di batteri. Il secondo tipo di questioni (permanenza) ha a che fare con la continuità della persona. Ognuno di noi subisce nel corso della pro­ pria esistenza numerosi cambiamenti sia fisici che psicologici, ma ciò non ci impedisce di concepirli pur sempre come cambiamenti che concernono noi stessi. Ciascuno di noi a dieci anni era molto diverso che a trenta, ma era nondimeno la stessa persona. Ciò che è cambiato sono le proprietà di cui godevamo, ma per ognuno sembra naturale dire che io sono sempre io, la medesima entità che sta leggendo ora queste righe. Ma che cosa è questa entità, e cosa fa sì che essa esista in tempi differenti, sopravvivendo a una drastica serie di cambiamen­ ti, ma restando sempre la stessa entità? La formulazione stessa di questa domanda mette in luce il rapporto tra le due questioni dell’in­ dividuazione e della permanenza: per sapere che tipo di ente è la per­ sona debbo chiedermi quali sono le sue condizioni di identità nel tempo; quali sono le proprietà che deve mantenere, pena la scompar­ sa. Un modo interessante per porre lo stesso problema è chiedersi a quali cambiamenti un dato individuo non potrebbe sopravvivere. Pro­ prio rispetto a queste tematiche, come vedremo, la riflessione sulle patologie neuropsicologiche e psichiatriche appare particolarmente pertinente. Prima di proseguire, una nota terminologica che sarà di importan­ za cruciale per il prosieguo del nostro lavoro: ci stiamo esprimendo come se “io” e “persona” fossero termini univoci e sinonimi. Questo riflette forse l’uso comune, ma cela complicate tematiche filosofiche. Mentre “persona” è un termine che si riferisce indubbiamente a 399

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un’entità pubblica, che ha una dimensione sociale indiscutibile, il ri­ ferimento di “io” ha un carattere molto più sfuggente, elusivo e dia­ fano, specie se ci addentriamo nelle rarefatte regioni dell’analisi meta­ fisica. Una distinzione è in particolare importante per noi: “io” può denotare un’entità pubblica e oggettiva del mondo sociale, alla quale ci si riferisce attraverso il pronome di prima persona (si parla del locutore, di colui che proferisce un determinato enunciato in una situa­ zione comunicativa), oppure può designare il soggetto di esperienza come si dà a sé stesso, il Sé dell’autocoscienza, che mi è dato di espe­ rire ogni volta che mi imbatto, per così dire, nel possessore dei miei stati mentali (dato che non stiamo fornendo definizioni, possiamo ignorare la circolarità di quel “miei” 2). Potremmo così distinguere tra una componente nucleare dell’io, legata all’esperienza fenomeno­ logica (originaria, privata, interna), e una componente estesa, sociale e pubblica, legata all’attribuzione e all’auto-attribuzione al soggetto di determinati tratti psicologici (carattere, personalità). In questo quadro la persona può essere così concepita come dotata di una struttura egologica concentrica. Secondo Damasio (1999), per esempio, abbia­ mo un primo centro di esperienza che possiamo definire pre-linguistica e pre-concettuale che si articola intorno al sé nucleare, a cui si aggiunge in seguito, attraverso l’interazione sociale e l’azione di lin­ guaggio, un io “autobiografico” esteso. Qualcosa di simile (sebbene con una terminologia differente) sostengono Edelman e Tononi (2000).

Intorno al sé autobiografico si costituisce l’identità pienamente di­ spiegata del soggetto umano, inteso come colui che riesce, per così dire, a tessere una trama narrativa a partire dalle esperienze vissute, inglobando in tale trama le esperienze del sé nucleare. Questa attività di tipo narrativo possiede ai nostri occhi una fondamentale connota­ zione sociale. L’io narrativo è anche un attore sociale. Le due nozioni di io non coincidono perfettamente, in quanto la dimensione sociale dell’autocoscienza non si riduce alla sola componente narrativa. Ma tra esse vi è ovviamente uno stretto rapporto, ben evidenziato da au­ tori come Liotti (2005) e Siegei (1999). Mossi entrambi dall’osserva­ zione degli effetti disgreganti che relazioni disfunzionali possono arre­ care all’unità della personalità, i due psichiatri sono giunti a vedere nella coscienza un’essenziale componente sociale, o, per citare Liotti, una dimensione interpersonale 3. L’io sociale è il corrispettivo del “tu” della interrelazione di due soggetti che si riconoscono come tali; questo io sociale è il protagoni­ sta di un’autobiografia in perenne progresso. Per comporre la quale 400

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non solo attinge alle risorse linguistiche e concettuali della sua comu­ nità, ma si pone in continua interazione con gli altri e con i ruoli sociali che tali interazioni comportano, definendo e costituendo la sua identità anche in relazione a tale dimensione interpersonale. Non è questo il momento per discutere i complessi rapporti tra queste no­ zioni di io 4, ma è opportuno tener conto del fatto che il concetto di persona ha a che fare in vario modo con tutti e tre questi sensi. Di conseguenza, nel discutere di patologie dell’identità personale, sarà importante sapere a quale di questi concetti di io esse sono associa­

bili. Tornando al dibattito sull’identità personale, possiamo sintetizzare le nostre osservazioni dicendo che esso cerca di fornire risposta a due questioni principali: il problema della natura delle persone e quello dei criteri della loro identità attraverso il tempo. Partiamo dal primo problema: che tipo di entità sono le persone. Tra le varie soluzioni proposte 5, le più significative sono le seguenti: 1. le persone sono es­ senzialmente sostanze immateriali semplici (anime, spiriti); il nucleo essenziale della mia identità coincide con il mio ego: una sostanza semplice e immutabile, che possiede mutevoli stati mentali ma non si identifica con essi; 2. le persone sono corpi, ovvero entità fisiche come tutte le altre, con status metafisico e modi di persistenza identi­ ci a quelli di ogni ente materiale - qui ciò che è preservato è l’idea dell’unità del mondo come descritta dal punto di vista materialistico, negando ogni statuto ontologicamente speciale ai soggetti di esperien­ za; 3. le persone sono animali umani del genere homo sapiens — in un certo senso questa è una variazione di 2, ma, sottolineando la natura biologica delle persone, ammette la loro relativa specificità; 4. le per­ sone, per usare la terminologia classica, sono “modi" di sostanze sem­ plici, la cui natura funzionale è indifferente al sostrato che le realizza - il nucleo di questa proposta è che le persone non sono “sostanze” vere c proprie (sono il prodotto della sostanza pensante, indipenden­ temente da cosa essa sia); parlare di persone è descrivere le proprietà di qualcos’altro: per esempio possiamo affermare che un dato animale umano acquisisce alla nascita (o al concepimento) lo status giuridico di persona e lo perde al momento della sua morte cerebrale; 5. sono illusioni che si originano a partire da fasci di percezioni, o costruzioni logiche a partire da stati mentali - l’idea è legata al dibattito sull’io: a noi sembra di possedere un io, un centro di autocoscienza a cui attri­ buiamo l’origine delle nostre azioni e dei nostri progetti, ma questo è illusorio e smentito daH’introspezione e soprattutto dalla ricerca scientifica - , su ciò torneremo più avanti. A queste definizioni princi4OI

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pali possiamo aggiungerne altre (che spesso sono variazioni sul tema): 6. una versione metafìsicamente meno compromettente di 1 afferma che le persone sono entità primitive, indefinibili in termini di pro­ prietà mentali o fìsiche, in quanto l’attribuzione di queste ultime pre­ suppone l’esistenza di persone; 7. una versione di 2 e 3 afferma che le persone sono entità metafisiche costituite a partire da un sostrato fisico (tipicamente un corpo umano), ma che non si identificano con esso perché hanno diverse condizioni di persistenza (si pensi all’ana­ loga tesi secondo cui la statua non si identifica con il marmo che la costituisce); 8. una rilettura di 4 le concepisce invece come costrutti sociali, la cui esistenza dipende da convenzioni, volta a volta stipulate dalle varie comunità umane; 9. infine possiamo anche considerare la tesi secondo cui la domanda non ha una risposta chiara, dato che al concetto ordinario di persona non corrispondono criteri definiti di identità: se le persone sono entità, lo sono solo in un senso vago e in determinato. Per ovvi motivi di spazio nel prosieguo del nostro di­ scorso non prenderemo in esame tutte queste posizioni, ma ci con­ centreremo soprattutto sulla distinzione tra teorie psicologiche, teorie biologiche e teorie sociali della persona (e dell’io). Per mettere a fuo­ co questa distinzione è pero opportuno aggiungere poche parole sui criteri di identità personale nel tempo.

Criteri di identità personale Anche il problema dei criteri di identità attraverso il tempo presenta un ventaglio di soluzioni, che sono ovviamente connesse a quelle ap­ pena elencate (dato che la natura di un’entità stabilisce i modi della sua identità e, verosimilmente, viceversa). Qui le soluzioni principali sono due: 1. quella che propone il criterio fisico-biologico; 2. quella che opta per il criterio psicologico. Ad esse possiamo aggiungere quelle posizioni che negano l’esistenza di criteri universali per motivi opposti: 3. la teoria sociale, che nega l’esistenza di un criterio univo­ co, sulla base dell’idea che essere una persona sia in qualche modo il frutto di convenzioni, una proprietà governata da decisioni sociali guidate da contingenze storiche; 4. la teoria della semplicità, che prende la nozione di persona come un primitivo, che non può essere definita — di quest’ultima tuttavia non ci occupiamo 6, Benché il criterio fisico-biologico sia in un certo senso quello più ovvio (noi siamo il nostro corpo, la nostra vita è quella di un dato organismo fisico-biologico), il dibattito filosofico moderno inizia con 402

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la proposta da parte di John Locke del criterio psicologico. Nel Sag­ gio sull’intelligenza umana (1690) Locke prende le distanze dal duali­ smo sostanzialistico di Cartesio, il quale, pur considerando le persone umane come un mélange di anima e corpo, ritiene che sia la res cogitans, la mente, a costituire la nostra essenza e la base della nostra identità: noi possiamo sopravvivere alla fine del nostro corpo, ma non a quello della nostra anima (intesa come la sostanza pensante che co­ stituisce il nostro ego). Locke sostiene invece che l’identità personale è il prodotto di una funzione cognitiva: è la serie degli stati mentali, unificati grazie al meccanismo della memoria, che crea l’identità per­ sonale. Ciò significa che di per sé non è necessario rispondere alla domanda metafisica intorno a quale sia la sostanza pensante - è mate­ riale o spirituale. Locke distingue così tra essere lo stesso uomo, lo stesso spirito e la stessa persona, e afferma che mentre nei primi due casi l’identità implica una continuità di sostanza, nel terzo ciò che conta è la continuità della coscienza, resa possibile dalla memoria. Fin dove si estendono coscienza e memoria si estende il soggetto. Molto rilevante dal punto di vista contemporaneo è l’uso di esperi­ menti mentali introdotto da Locke per difendere la sua tesi. Egli im­ magina così di trasferire i ricordi di un principe nel corpo di un cia­ battino, e argomenta che in questo caso la persona del principe si ritroverebbe in un nuovo corpo. Correlativamente, il trasferimento dell’anima di un individuo, priva di ogni ricordo e tratto psicologico, nel corpo di un altro, non renderebbe minimamente quest’ultimo identico al primo: l’identità di sostanza pensante senza coscienza e memoria non basta a fare l’identità della persona. Il ricorso a esperi­ menti mentali è una prassi molto comune in filosofia, la quale tuttavia incorre sovente in critiche puntuali (per il caso dell’identità persona­ le, cfr. Wilkes, 1988). Anche per questo motivo il riferimento alla pa­ tologia può essere molto utile: in questi casi siamo in presenza di ‘■esperimenti” operati dalla natura stessa, che ci offrono l’opportunità di saggiare le nostre intuizioni sullo sfondo di casi reali e non imma­ ginari. Secondo le tesi lockiane l’identità di sostanza pensante (o di “uomo”, ovvero di individuo biologico) non fornisce una condizione necessaria né sufficiente per l’identità personale. E in questo senso che possiamo considerare Locke come l’inventore del criterio psicolo­ gico dell’identità personale. Questo tuttavia è stato contestato con numerosi argomenti dai sostenitori del criterio fisico-biologico. Il nu­ cleo concettuale della proposta lockiana è la tesi secondo cui nel de­ terminare la nostra esistenza nel tempo ciò che conta non è la conti403

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nuità spazio-temporale del corpo e dell’organismo, ma la continuità psicologica. L’idea che noi potremmo sopravvivere al nostro corpo purché sia garantito un grado sufficiente di continuità psicologica è messa in dubbio in vari modi: a) mostrando come la nozione di con­ tinuità psicologica sia tutt’altro che chiara; b) affermando che essa viene a mancare anche in casi in cui siamo ugualmente tentati di par­ lare della stessa persona; c) sottolineando la dipendenza delle funzioni psichiche dall’attività cerebrale; d) criticando la duplicazione “carte­ siana” tra continuità dell’organismo e continuità della mente e così via 7. Dietro a molte delle obiezioni al paradigma psicologico si avver­ te il dubbio che - in assenza di un qualche criterio biologico forte che fondi la continuità psichica - la natura, il grado e la qualità delle connessioni psichiche necessarie per preservare l’unità del soggetto siano troppo indeterminate per fornire un modello adeguato. Da qui due tentazioni opposte: da un lato si può sposare fino in fondo il criterio fisico-biologico, secondo cui è la continuità dell’organismo che giustifica la nostra intuizione di continuità dell’io. Per esempio, si potrebbe affermare che l’io è una funzione del cervello, ovvero che la continuità dell’io si basa su processi causali che sono normalmente originati dall’attività cerebrale: finché il cervello è sufficientemente in­ tegro, la funzione unificante è abbastanza coerente perché le nostre intuizioni ordinarie abbiano un facile campo di applicazione. Ma quando l’integrazione viene meno le cose cambiano. Anche questo è un punto rilevante da ricordare discutendo di patologie della coscien­ za. In alternativa, è possibile rinunciare all’idea di trovare un criterio oggettivo, psicologico o fisico, che ci permetta di stabilire in termini astratti e universali se e quando vi è continuità dell’io, e adottare una qualche forma della teoria sociale. Venuto meno il rimando a una specifica classe di entità facilmente caratterizzabili (una specifica clas­ se di stati psichici, o di processi biologici), il concetto di persona ap­ pare perdere le sue connotazioni precise, assumendo tratti sempre più sfumati e avvicinandosi a quella visione “forense” (adombrata dallo stesso Locke) secondo cui una persona è una costruzione socia­ le. Va detto che quella che vede l’io come una mera costruzione so­ ciale è una tesi molto radicale, e in parziale conflitto con i risultati delle scienze cognitive: esistono motivi seri per ritenere che anche i processi di costruzione della nostra identità “pubblica” si basino an­ che su processi biologici e cognitivi, che rendono possibile e interagi­ scono con il milieu sociale. E facile però immaginare modelli misti che riconoscano le basi sociali dell’identità personale senza entrare in rotta di collisione con i risultati delle scienze della mente 8. 4O4

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Patologie della coscienza e identità personale Pur se storicamente sorte in ambito di analisi filosofico-concettuale, le questioni fondamentali relative alla persona - il criterio di individua­ zione e le sue condizioni di continuità - si prestano a venire sottopo­ ste al vaglio empirico. Neuropsicologia, psicologia clinica e psichiatria hanno descritto casi clinici spesso drammatici e nondimeno estremamente interessanti per mettere alla prova le nostre intuizioni più soli­ de. Limiti di spazio ci obbligano ad operare scelte radicali 9. Così, a un mero elenco di patologie pertinenti per la discussione abbiamo preferito una selezione ragionata di casi clinici provenienti da diverse discipline di studio. Nel prossimo paragrafo questi stessi casi clinici saranno letti e commentati alla luce della già citata suddivisione tra diversi aspetti dell’io, che verrà in quella sede elaborata.

Eniinegligenza spaziale (neglect) Si tratta di un disturbo provocato da lesioni cerebrali localizzate nell’emisfero parietale destro, in segui­ to al quale la persona perde la consapevolezza di una parte dello spa­ zio - tipicamente la parte sinistra - pur preservando un’elaborazione esplicita degli stimoli. Un paziente tipico, quindi, sosterrà di vedere solo la parte destra di uno stimolo percettivo, ma situazioni speri­ mentali adeguate evidenzieranno un’analisi residua della situazione. Supponiamo per esempio di presentare due immagini di una casa, identiche nella parte destra ma differenti a sinistra per il fatto che una sola delle due presenta un inizio di incendio. Il paziente sosterrà che le due case sono identiche, ma, dovendo sceglierne una, opterà per quella senza fiamme. Le tre principali ipotesi interpretative vedo­ no nel neglect un deficit percettivo - di sintesi dei dati sensoriali oppure un deficit della rappresentazione dello spazio o ancora un di­ sturbo attentivo IO. Anosognosia È un grave disturbo dello schema corporeo causato da una lesione dell’emisfero cerebrale destro, in particolare di regioni sottocorticali o del lobo parietale posteriore. Le persone affette da anosognosia sono inconsapevoli di un loro stato patologico. In una delle forme più note del disturbo, pazienti gravemente emiplegie! ar­ rivano a negare completamente la loro menomazione, sostenendo per esempio di essere perfettamente in grado di muovere un arto che è invece palesemente immobilizzato. La negazione della realtà può por­ tare ad affermazioni paradossali, testimoniate in numerosi resoconti scientifici. Messi alle strette di fronte alle loro affermazioni contrad­ dittorie rispetto alla realtà, alcune persone anosognosiche arrivano ad 4° 5

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affermare che “la mano sinistra è andata a fare due passi” 11. Non si tratta, come verrebbe spontaneo pensare, di una strategia messa in atto per compensare emotivamente una seria invalidazione. Il distur­ bo è infatti strettamente legato a lesioni della parte destra del cervello (Bisiach, Geminiani, 1991), mentre non vi è ragione di supporre che un meccanismo di difesa debba avere una analoga “specializzazione emisferica”. Amnesie a lungo termine Un paziente amnesico presenta qualche problema di memoria. A seconda della tipologia del deficit si defini­ scono diverse forme di amnesia, a lungo e a breve termine. Limitan­ doci alle seconde, un’ulteriore distinzione riguarda le forme anterograda e retrograda. Poiché nella realtà un incidente cerebrale spesso provoca disturbi ad entrambi i componenti, si tratta di una distinzio­ ne prevalentemente teorica, ma non per questo meno interessante. Il paziente affetto da amnesia anterograda pura non conserva più i ricordi di ciò che gli accade a partire dal momento della lesione cerebrale che ha provocato il disturbo. La sua memoria a breve ter­ mine è intatta — ciò gli permette, per esempio, di costruire anche frasi lunghe e complesse - ma dopo pochi istanti ogni nuova informazione acquisita non è più recuperabile, sebbene tracce possano rimanere a livello implicito e procedurale. L’amnesia retrograda pura comporta al contrario una perdita defi­ nitiva della possibilità di ricordare eventi accaduti prima dell’inciden­ te. Capace di costruirsi un’autobiografia da quel momento in poi, il paziente amnesico retrogrado dovrà confidare, per il suo passato re­ moto, al ricordo degli altri o ai suoi diari, che sentirà comunque come estranei ’2.

Demenza di Alzheimer In questa malattia degenerativa si riconosco­ no, con diversa gravità a seconda dello stadio di progressione, tanto gravi disturbi della memoria quanto anosognosia. Un paziente effetto da demenza di Alzheimer allo stadio iniziale fatica a ricordare eventi recenti, nonché stimoli impersonali immagazzinati nella memoria se­ mantica, quali nomi di posti o persone. Il progredire del disturbo ag­ giungerà l’oblio delle azioni quotidiane di cura della persona, e l’inte­ ra esistenza quotidiana si farà più confusa. Il paziente potrà essere sorpreso a vagare senza meta, e talvolta sopravvengono episodi di rabbia o violenza *3. Automatismi epilettici Sono situazioni che talvolta accompagnano o seguono immediatamente una crisi epilettica. Il paziente, pur restan406

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do in uno stato di veglia, improvvisamente si blocca, smette l’attività in cui era impegnato, fissa il vuoto con un volto privo di espressione. Durante questa fase, che dura da tre a una decina di secondi, il pa­ ziente conserva il normale tono muscolare. A questa fase fa seguito il momento di vero automatismo: improvvisamente la persona si sbloc­ ca dalla situazione di immobilità, si guarda in giro ancora senza espressione e si mette in movimento con decisione, fino al momento in cui, riprendendo piena coscienza, si mostra confuso, disorientato. Non è rimasto alcun ricordo di ciò che è accaduto nel momento di incoscienza '4. Disturbo dissociativo dell’identità Si tratta del disturbo che una volta veniva definito di personalità multipla e comporta la scissione, all’in­ terno di uno stesso corpo, di personalità diverse che possono trovarsi in diverse relazioni reciproche. A fronte di pazienti portatori di per­ sonalità completamente ignote l’una all’altra vi sono pazienti nei quali una personalità domina le altre. Spesso la personalità dominante è co­ sciente delle altre, senza che queste ultime “si accorgano” di lei. Il quadro delle relazioni reciproche di conoscenza e dominanza fra le varie personalità, inoltre, può cambiare col tempo e la terapia. In conseguenza del continuo passaggio di identità, il paziente (o forse dovremmo dire la sua identità principale) è spesso disorientato, confuso e frammentato, con vuoti di memoria. Talvolta compaiono disturbi, quale l’udire voci o presenze che controllano la condotta, che inducono erroneamente a pensare a una vera schizofrenia ‘5.

Autismo Si tratta di una patologia che non viene tradizionalmente presentata nelle rassegne di dati empirici volte a illustrare i disturbi dell’identità personale. Per quanto compromessa, la persona autistica ha una rappresentazione corretta del proprio schema corporeo, non presenta specifici problemi di memoria, tantomeno evidenzia fenome­ ni di dissociazione. Attente osservazioni sembrano inoltre suggerire che le persone autistiche non abbiamo problemi specifici nel monitoraggio dei propri stati mentali (Nichols, Stich, 2003). Ciò che più ca­ ratterizza i vari disturbi dello spettro autistico, in qualunque forma e gravità si presentino, sembra piuttosto essere la difficoltà di relazio­ narsi con gli altri, dovuta all’incapacità di capire quali stati mentali muovono le azioni altrui ,6. Le azioni dell’altro diventano così contin­ genti, prive di una causa profonda quale può essere un desiderio, un pensiero, un timore. Parrebbe quindi, di primo acchito, che in questo caso l’io sia fondamentalmente preservato, e tuttavia nelle pagine se­ 407

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guenti vedremo come questa intuizione possa essere messa in discus­ sione.

Teorie dell’io e patologie dell’identità A questo punto dovrebbe essere chiaro in che senso la scienza della mente e in particolare gli studi sulle patologie della coscienza possa­ no avere importanti impatti sulle teorie filosofiche dell’identità perso­ nale. Come affrontare questi studi? Occorre evitare conclusioni trop­ po generiche e discutere piuttosto le loro implicazioni alla luce delle differenti nozioni di io, volta a volta coinvolte. Tutti i disturbi sopra considerati, per quanto gravi e invalidanti, non mettono evidentemente in discussione l’individuazione e la per­ manenza dell’io se i criteri che li guidano non sono psicologici, o quanto meno misti (costituiti da una sintesi di criteri fisici e psicolo­ gici). Sul piano della continuità dell’organismo, i pazienti, pur vittime di lesioni cerebrali, non sono gravemente mutilati. La continuità cor­ porea è assicurata, e la loro menomazione riguarda, a seconda dei casi, la rappresentazione del corpo, la memoria, la sensazione di esse­ re responsabili delle proprie azioni, il riconoscimento sociale ecc. Parlare di criteri psicologici in generale tuttavia è piuttosto vago, es­ sendo la nozione di continuità del soggetto di esperienza ovviamente dipendente dal nostro concetto di io. Riteniamo quindi che l’analisi dei disturbi dell’identità personale possa diventare molto più fruttuo­ sa riprendendo la distinzione tra le diverse accezioni dell’io introdotta nelle prime pagine di questo capitolo. In particolare, è interessante riprendere la distinzione tra io fenomenologico, il soggetto dell’espe­ rienza, e l’io narrativo-sociale, che sulla base del ricordo di una serie di esperienze si è costruito un’autobiografia. Analogamente, l’analisi terrà in considerazione anche la dimensione sociale, interpersonale del sé. La prima patologia considerata è stata l’eminegligenza spaziale. Non c’è motivo di dubitare che il paziente possieda un sé nucleare dotato di una piena struttura fenomenologica, poiché istante per istante ha una rappresentazione cosciente dello spazio, dotata di una sua coerenza. Il paziente è un soggetto di esperienza: “fa un certo effetto”, per lui, avere il suo tipo di esperienza dello spazio. Ciò che appare danneggiato è la coerenza tra la sua rappresentazione del mondo e quella delle persone intorno a lui. Egli è però in grado di tener conto della discrepanza, inserendola nella propria auto-narra­ zione: l’intervento altrui non può modificare il sé nucleare, ma modi408

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fica l’io autobiografico. Il prezzo da pagare per questa coerenza inter­ na, soggettiva, dell’identità vissuta del soggetto è una costosa ri-con­ cettualizzazione del suo rapporto con il mondo esterno. Il soggetto deve mediare tra il dato fenomenologico interiore e l’organizzazione oggettiva dell’ambiente in cui opera. Ciò può ovviamente creare dis­ sonanze a livello dell’io sociale. Anche il paziente anosognosico ha esperienza di un sé nucleare. Per quanto disturbato e privo di accesso ad informazioni rilevanti sul proprio stato, egli ha una autorappresentazione coerente e non perce­ pita come lacunosa. Inoltre, lasciato a sé stesso è in grado di svilup­ pare un’autobiografia altrettanto consistente. Tuttavia, di fronte alle pressioni sociali che mettono in luce le tensioni tra immagine esperita di sé (come non invalidato) e immagine pubblica, si impegna in espe­ dienti narrativi volti a difendere la validità della propria esperienza soggettiva. A differenza del paziente neglect, potremmo ipotizzare quindi due momenti autobiografici: uno “ingenuo”, che è deviarne ri­ spetto alla situazione reale, ma è coerente, l’altro, più in sintonia con la situazione, ma spesso palesemente assurdo. Chi, colpito da amnesia anterograda, non è più in grado di tratte­ nere nuovi ricordi, è condannato a una vita perennemente confusa. La sua memoria a breve termine, preservata nei casi puri, gli consen­ te di costruirsi un sé nucleare che tuttavia ha una vita di pochi istanti (un sé fenomenologico “minimale” potremmo dire). Il suo io autobio­ grafico invece è fossilizzato, limitato ai ricordi residui risalenti alla vita precedente il danno neurologico, incapace di quella vitalità e continua narrazione che sembrano costituire la sua essenza più genui­ na. La dimensione sociale non ha alcuna possibilità di intervenire ef­ ficacemente: possiamo raccontare a un amnesico anterogrado le espe­ rienze delle quali siamo stati testimoni, ma queste verranno dimenti­ cate con velocità analoga a quella dell’oblio dei ricordi in prima per­ sona. Di conseguenza, anche la percezione esterna che possiamo ave­ re di una persona amnesica anterograda sarà quella di un io grave­ mente mutilato. Il suo io sociale si riduce a una dimensione statica, priva di vitalità. Una persona che, soffrendo di amnesia retrograda, ha perso il passato ma riesce a costruirsi un presente man mano che il tempo passa, ha conservato il proprio io fenomenologico, e può ricominciare a costruirsi una narrazione costruendo così un io autobiografico alme­ no parziale. Ricordi di altre persone relative alla sua vita aiuteranno ad arricchire la narrazione, contribuendo con quella dimensione in­ terpersonale dell’io a preservare l’integrità della persona tanto d< 409

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punto di vista del paziente quanto dal punto di vista dell’osservatore. Il suo io sociale è ancora vitale. Con il progredire della demenza di Alzheimer, e l’estendersi dei disturbi alle componenti della memoria a breve termine, si dissolvono tanto il sé nucleare quanto l’io autobiografico, a testimonianza della gravità di una delle patologie che più sembrano in grado di minare l’identità personale. Nella misura in cui ciò comporta una grave soffe­ renza anche a livello di io sociale, assistiamo a un progressivo svanire di tutte le dimensioni dell’io. Analogamente, di un paziente Alzhei­ mer come di un amnesico retrogrado è verosimile sostenere con in­ tento non puramente metaforico che “non è più la stessa persona”, mettendo così in primo piano un criterio psicologico. In altri termini, casi come questi mettono in evidenza una tensione tra i criteri sociale-narrativo e psicologico, da un lato (per i quali la continuità è per­ sa), e il criterio biologico dall’altro: l’identificazione del paziente Alz­ heimer in stato avanzato con una persona sembra fondarsi sulla di­ mensione della continuità biologica mettendo in secondo piano il cri­ terio psicologico lockiano. Anche nel caso dell’automatismo epilettico, verosimilmente assi­ stiamo a una patologia del sé nucleare. La possibilità di costruire una narrazione è però teoricamente preservata, o meglio è legata alla fre­ quenza degli episodi di automatismo, che creano vuoti narrativi più o meno consistenti ma comunque colmabili grazie alla dimensione so­ ciale, ovvero alla narrazione fatta dagli eventuali spettatori. La natura temporanea dell’interruzione del sé nucleare rende possibile, infatti, colmare i vuoti dell’autobiografia. Una persona che soffre di disturbi dissociativi della coscienza è, nell’ottica lockiano-psicologistica, costituita in realtà da più persone frammentate. Qualora esista un ego dominante, noi osservatori ester­ ni siamo propensi ad attribuire a quest’ultimo il concetto di persona in quanto ente psicologico associato a un corpo. Ma per quanto ri­ guarda la prospettiva alla prima persona, ogni alter possiede un io fenomenologico, poiché, quando esiste, vive pienamente le sue azioni. La possibilità di costruire io autobiografici dipende dal numero e dal­ le modalità di alternanza delle personalità. Qualora esista una perso­ nalità dominante e relativamente stabile, questa disporrà di un’auto­ biografia ragionevolmente completa e coerente, a fronte di “spezzoni” di autobiografie costruite dagli alter nei momenti in cui sono loro ad avere il controllo. Qualora la personalità dominante abbia conoscenza degli altri io, la sua biografia ne conterrà curiosamente un riferimen­ to, sarà cioè una narrazione che contiene degli io che non sono io (o 410

14- PATOLOGIE DELLA COSCIENZA E IDENTITÀ PERSONALE

meglio, dei sé che non sono io, seguendo Di Francesco, 1998). Va comunque notato come i disturbi dissociativi della coscienza mettono in rilievo in modo abbastanza spettacolare la tensione tra la dimensio­ ne esperienziale e privata e quella sociale dell’io: noi vogliamo curare la persona che ne soffre, ripristinando la coerenza e l’unità dell’io - e non viviamo questo processo come la soppressione di genuine “per­ sone” che abitano lo stesso corpo. Per completare l’elenco, l’io della persona con disturbo dello spettro autistico, tanto più se con alto quoziente intellettivo, come nel caso della sindrome di Asperger, ci sembra preservato nelle due di­ mensioni nucleare e autobiografica, mentre il problema sembra atte­ nere prettamente alla dimensione sociale. Mentre il caso dei disturbi dissociativi dell’identità mette in rilievo il peso della dimensione so­ ciale, l’autismo mostra come anche un grave disturbo della relazione possa associarsi all’idea della presenza e della continuità di un sé nu­ cleare e di un io autobiografico.

Conclusioni L’esame dei dati scientifici relativi ai disturbi mentali, volto a valutare il possibile impatto della ricerca neuropsichiatrica sulla definizione del concetto di identità personale, ha evidenziato una duplice valen­ za. In primo luogo esso permette di esaminare da una diversa pro­ spettiva impostazioni filosofiche con una lunga tradizione spesso fon­ data su esperimenti di pensiero più che su evidenze empiriche. D’al­ tro canto questi stessi dati ci inducono, in una prospettiva più ampia, a sottolineare la differenza tra l’immagine ordinaria della mente e i risultati della ricerca scientifica. Si tratta di una differenza che, collo­ candosi a vari livelli dell’indagine, mette in luce differenti caratteristi­ che della mente stessa e più specificamente del concetto di persona. Complessivamente, il quadro che ne emerge ancora una volta rappre­ senta una sfida al senso comune e chiama in causa la necessità di una riflessione filosofica attenta agli sviluppi della conoscenza scientifica. Esaminando più da vicino i risultati della nostra indagine, i criteri di identità personale introdotti nel dibattito filosofico tradizionale si rivelano troppo rigidi per fondare un approccio sistematico e offrire una risposta univoca all’applicabilità di un dato criterio in ogni occa­ sione. L’eventualità che un criterio si applichi meglio di un altro sem­ bra dipendere dalle varie patologie indagate, e talvolta dallo stesso 411

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

stadio di avanzamento del disturbo. Nel caso della demenza di Alz­ heimer, per esempio, abbiamo visto come l’intuizione psicologistica tenda con l’aggravarsi della patologia a lasciare il passo a un’intuizio­ ne di tipo biologistico. In secondo luogo, i fenomeni patologici esaminati mettono chiara­ mente in discussione tanto l’idea della mente come unitaria e inte­ grata quanto il ruolo dell’io cosciente nel governare l’azione. Ai casi qui considerati potremmo aggiungere varie altre patologie neuropsi­ cologiche e psichiatriche di cui non ci siamo occupati direttamente, quali il blindsight e le diverse forme di delirio di controllo. Il concet­ to di io o sé suggerito dall’analisi complessiva di questi dati risulta molto articolato, e copre differenti dimensioni in cui si esprime l’e­ sperienza in prima persona degli esseri umani. Di conseguenza, si po­ trà parlare di patologie dell’identità personale in senso preciso solo differenziando adeguatamente le varie dimensioni. In questa sede, ri­ cordiamo, abbiamo introdotto alcune differenziazioni a titolo mera­ mente illustrativo. Ma quanto evidenziato mostra, a nostro parere, come molto lavoro debba essere fatto per arrivare a una classificazio­ ne soddisfacente. Nel concludere, vorremmo sottolineare come, alla luce della di­ stinzione dei vari aspetti dell’io emersa in questa sede, sia da conside­ rare prematuro l’utilizzo dei dati clinici relativi a questioni di identità personale quali premesse per un argomento diretto circa la non esi­ stenza dell’io - o la sua natura epifenomenica, o la sua inutilità teori­ co-esplicativa. Ogni disturbo riguarda alcuni aspetti dell’io, mentre al­ tri ne sono preservati. I dati neurologici e clinici da soli non permet­ tono quindi di fornire una risposta semplice. Un approfondimento in questo ambito risulta quanto mai opportuno non solo per l’interesse teorico intrinseco in una ricerca volta a mettere in luce le diverse ac­ cezioni dell’io, ma anche perché, considerando l’indubbia dimensione etica legata al concetto di io, la discussione di queste tematiche ha evidenti conseguenze morali. Anche ammettendo che il nostro impe­ gno morale non debba dipendere dall’integrità di tutte le dimensioni egologiche dell’essere persona - verosimilmente un malato di Alzhei­ mer in stadio terminale conserva il suo status di persona — la respon­ sabilità etico-giuridica individuale del malato appare invece legata al livello di integrità del suo io. Si tratta di questioni che meritano in­ dubbiamente di essere approfondite, ma il passaggio dalla metafisica e dall’epistemologia dell’io all’etica appartiene ad una sfera ulteriore rispetto alle riflessioni qui proposte. 412

14- PATOLOGIE DELLA COSCIENZA E IDENTITÀ PERSONALE

Note * Sebbene i due autori abbiano discusso insieme ogni parte di questo capitolo, Michele Di Francesco è responsabile della stesura definitiva dei paragrafi II problema filosofico e Criteri di identità personale, mentre Cristina Meini ha redatto i paragrafi Patologie della coscienza e identità personale c Teorie dell'io e patologie dell'identità. 1. Per una introduzione generale al dibattito sull’identità personale, cfr. Di Fran­ cesco (1998); Noonan (1989); Olson (2007). 2. Pcr esigenze di semplicità ignoreremo le possibili differenze di significato tra "io" e “sé”, usando queste impressioni in modo intercambiabile. 3. Una presentazione delle teorie di Liotti c Sicgel, inserite nell’ambito di una più ampia riflessione sullo sviluppo e la natura della conoscenza degli stati mentali propri e altrui, si trova in Mcini (2007). 4. Per un’analisi relativa alle teorie dell’io qui presentate cfr. Zahavi (2005); Di Francesco, Marraffa (2009, Introduzione). 5. La letteratura in merito è sterminata. Tra le analisi introduttive cfr. Di France­ sco (1998); Noonan (1989); Olson (2007); Sparti (1996). Discussioni classiche delle teorie psicologiche, fisico-biologiche, sociali e della semplicità sono avanzate tra gli altri da Parfit (1984); Shoemaker (1984); Williams (1973); Olson (1997); Nozick (1981); Taylor (1989); Strawson (1959). 6. Anche in questo caso cfr. Di Francesco (1998); Noonan (1989); Olson (2007); Sparti (1996). 7. Cfr. Di Francesco (1998); Noonan (1989); Olson (2007). 8. Cfr. Liotti (2005); Meini (2007). 9. Altre patologie della coscienza non meno rilevanti per il dibattito filosofico potrebbero essere prese in esame: prosopoagnosia, disturbi della percezione dello spazio prossimale, blindsigbt, varie forme di delirio. Per una descrizione dei vari sinto­ mi si vedano per esempio Berti, Làdavas (2002); Farah (2004); Weiskrantz (1986); Young (2000).

10. Per una descrizione della patologia e una rassegna dei principali modelli esplicativi cfr. Berti, Làdavas (2002). Si vedano Berti et al. (1998) c, per una rassegna, Beni, Làdavas (2002). 12. Cfr. Papagno (2003). *3- Cfr. Papagno (2003). 14. Si veda Damasio (1999). 15- Una descrizione del disturbo dissociativo d'identità si trova in Liotti (2005). 16. Per una rassegna delle teorie esplicative dei disturbi dello spettro autistico si veda Mcini (2007).

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Parte quarta Medicina, diritto ed etica

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La deontologia professionale del medico di Mario Ricciardi

Pratiche e giustificazioni Secondo Max Weber, quella del medico è certamente la più antica tra le professioni liberali *. Essa sarebbe infatti la prima ad assumere una fisionomia distinta come attività svolta regolarmente da persone appositamente qualificate, che rivendicano la legittimazione esclusiva a fornire un tipo di prestazioni in ragione di una preparazione speci­ fica e pubblicamente riconosciuta. A pensarci bene, il primato del medico rispetto agli altri professionisti rilevato da Weber non è sor­ prendente. Sebbene il modo di intendere salute e malattia sia cambia­ to nel corso dei secoli, ed è ancora oggetto di un vivace dibattito nel­ l’ambito della filosofia della medicina, ciò non ha messo in discussio­ ne l’assunto di fondo che una parte dei malanni che affliggono gli esseri umani si possono alleviare - e talvolta perfino curare - avendo a disposizione le conoscenze rilevanti. Anche chi dissente sui concetti di salute e malattia è d’accordo che abbiamo bisogno di qualcuno che se ne occupi 2. Compulsando il catalogo delle utopie politiche si scoprirebbe che - perfino in una società ideale - è difficile fare a meno delle funzioni centrali attribuite alla medicina. Se l’opera del medico è probabilmente indispensabile, ciò non vuol dire che essa sia sottratta alla valutazione. Al contrario, alcune delle testimonianze scritte più antiche di cui disponiamo sulla medici­ na si occupano degli standard di tale pratica. Sovente ciò avviene per indicare il modo più efficace di trattare la malattia - ad esempio, se attraverso l’impiego della chirurgia o di un farmaco - ma talvolta ci sono anche indicazioni di carattere etico. In questi testi, infatti, quella che oggi descriveremmo come “precettistica tecnica” dell’arte o della professione medica appare in un contesto in cui è problematico - e forse impossibile - isolarla da considerazioni normative che rimanda­ no a dimensioni di valutazione morale o giuridica dell’operato del medico \ 417

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

Presentare in maniera dettagliata anche solo i più importanti testi antichi rilevanti per l’etica del medico in un lavoro introduttivo come questo sarebbe fuori luogo perché richiederebbe una ricognizione ap­ profondita dell’imponente letteratura che riguarda sia la storia sia l’antropologia della medicina. Stiamo parlando di documenti di di­ versa natura, redatti in società e in momenti storici molto distanti l’u­ no dall’altro, che presentano sovente considerevoli problemi di inter­ pretazione. In questo paragrafo ci limiteremo quindi a riassumere al­ cuni tratti caratteristici del profilo della medicina e del ruolo del me­ dico che si evince dalle testimonianze rilevanti per l’etica medica. In particolare, quelle che provengono dalla cultura greca. Per una pano­ ramica generale della storia della medicina, che dedica molta atten­ zione anche all’etica, rimandiamo aU’ormai classico The Greatest Be­ nefit to Mankind di Roy Porter, e all’imponente bibliografia che con­ tiene 4. Curare le malattie è indiscutibilmente un’attività che apporta un beneficio. Perché questo effetto si realizzi, tuttavia, è necessario che il malato si rivolga al medico, lasciandogli libero accesso al proprio cor­ po e seguendone le indicazioni terapeutiche. Affidandosi al medico per ricevere la cura, il malato si pone anche in uno stato di dipen­ denza nei suoi confronti, che istintivamente accetta a malincuore. Le espressioni che impieghiamo normalmente per descrivere questa rela­ zione ne illustrano il carattere. Non si tratta soltanto della qualifica di “paziente” attribuita al malato. Un intero lessico allude a quella tra medico e malato come a una relazione di autorità in cui una delle parti ha il controllo della cura, che comporta anche il potere di “or­ dinare” o “prescrivere” ciò che è necessario per impartirla, e l’altra in qualche misura la subisce, adeguandosi a ciò che le vien detto di fare La peculiarità di questa situazione è evidenziata dal fatto che lo stesso sapere che mette il medico in condizione di curare la ma­ lattia gli consentirebbe anche di nuocere al suo paziente. L’ambiva­ lenza del “farmaco” - rilevata dai greci - si proietta su chi lo di­ spensa 6. L’evidenza con cui si manifesta sin dall’antichità l’ambiguità della medicina - il suo poter essere cioè dispensatrice di benefici oppure di danni per chi le si affida - è verosimilmente la spiegazione della ri­ vendicazione, da parte di chi la pratica, di un riconoscimento pub­ blico della propria funzione. Per poter svolgere tranquillamente la propria attività il medico ha bisogno infatti di un’autorizzazione, che lo metta al riparo dal sospetto di aver approfittato del proprio sapere per nuocere al paziente. La somministrazione di un farmaco o l’am­ putazione di un arto devono essere giustificate - o almeno giustifica418

IJ. LA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE DEL MEDICO

bili - per corroborare l’assunto che il destinatario di tali interventi le accetti spontaneamente, e non reagisca come farebbe normalmente una persona che ritenesse a ragione di essere vittima di un avvelena­ mento o di una violenza ingiustificata. A tale scopo bisogna convincere il pubblico che l’opera del medi­ co è necessaria, fondata su un sapere affidabile e insostituibile. Che curare le malattie o alleviarne gli effetti sia indispensabile, come si è detto, è fuori discussione. Come ha scritto Roy Porter (2002, p. 21), «[Emergendo da un ambiente infestato dalla malattia, la civiltà cerca forme di propiziazione e di conforto». Meno pacifica è invece la pre­ tesa di un monopolio della cura da parte del medico. Sin dai tempi più remoti, la cura «diviene la specialità di indovini e stregoni, che combattono disordini che piovono dall’alto e offrono rimedi» {ibid.}. Nelle testimonianze più antiche, l’uso di droghe, la chirurgia e il ri­ corso alle fasciature per curare ferite o riparare fratture si accompa­ gnano alla divinazione, all’esorcismo e agli incantesimi. In tali testi si cercherebbe invano un criterio che consenta di distinguere ciò che noi caratterizzeremmo come medicina da altri tipi di pratiche tera­ peutiche (ivi, p. 23). Nella parte iniziale del suo percorso, la storia della medicina è segnata dalla convivenza e dalla commistione tra quelle che oggi de­ scriveremmo come pratiche magico-religiose e terapie mediche. Se in un certo senso lo scopo di curare la malattia o di alleviarne le conse­ guenze è la costante di queste pratiche, ciascuna di esse prende for­ ma in un contesto in cui sono il rito o la convenzione a stabilire il modo appropriato di comportarsi sia per chi cura sia per chi si sotto­ pone alla cura. La giustificazione della medicina ha dunque - sin dal principio - diverse dimensioni, che eccedono la valutazione dell’effi­ cacia delle terapie per sconfinare in quella della correttezza dell’azio­ ne. In particolare, dal punto di vista etico, essa riguarda non solo l’autorità del medico nel fare ciò che ritiene necessario per la cura, ma anche il titolo esclusivo a farlo. Perché abbia successo, la rivendicazione del monopolio della cura da parte del medico deve attendere una rivoluzione culturale, che ha luogo soltanto quando si impone un nuovo paradigma “naturalistico” di spiegazione della malattia. La storia dell'emersione di tale paradig­ ma è stata studiata in modo approfondilo, rivelandone la dinamica complessa, segnata da uno sviluppo niente allatto lineare e dall'inte­ razione fruttuosa con i diversi campi delle scienze naturali e dei me­ todi di indagine a esse associate. Solo con l’allermazione della scienza nel senso moderno - basata sul metodo sperimentale e sull’ideale di pubblicità dei sapere - la medicina rivendica con successo la propria 419

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

insostituibilità e il monopolio sulla cura della malattia 7. La giustifica­ zione della medicina in quanto insieme di pratiche terapeutiche di­ pende da questo cambiamento culturale. Nella modernità non è più il singolo medico a dover render ragione della legittimità della propria arte, convincendo il pubblico della sua efficacia, ma è la professione nel suo complesso a godere di uno statuto privilegiato, per cui si pre­ sume che normalmente essa venga esercitata con lo scopo di miglio­ rare la situazione del paziente, e non di nuocergli. Ovviamente, la le­ gittimità della medicina in quanto pratica terapeutica non rimuove l’ambiguità rilevata dagli antichi greci. Pur avendo un riconoscimento pubblico della sua capacità di curare, l’arte medica rimane in grado di nuocere. La distinzione che abbiamo introdotto tra giustificare una pratica e giustificare le azioni che appartengono a una pratica è stata formu­ lata per la prima volta in questi termini da Stephen Toulmin 8. In seguito, è stata ripresa da John Rawls, che ne ha fatto una delle idee fondamentali della sua teoria della giustizia 9. Per quel che riguarda la medicina, si può distinguere ulteriormente tra giustificazione rispet­ to allo scopo e giustificazione morale, sia della pratica nel suo com­ plesso, sia di ciascuna delle azioni che a essa appartengono. In en­ trambi i casi, la giustificazione comporta un giudizio dalla struttura complessa. Infatti, sia la pratica sia l’azione devono soddisfare al con­ tempo requisiti di scopo - ad esempio l’efficacia, valutata in termini probabilistici, nell’ottenere il risultato di curare la malattia o alleviare la sofferenza - e morali. Assumiamo che, con l’emersione della medi­ cina scientifica, la questione della giustificazione rispetto allo scopo della pratica medica nel suo complesso sia superata - anche se può sempre porsi rispetto a un aspetto di essa, per esempio un certo pro­ tocollo di cura o di trattamento — mentre quella relativa alla giustifi­ cazione morale rimane aperta. Tuttavia, per quel che riguarda la pra­ tica medica in generale, e le istituzioni che la sorreggono, essa non è altro che un caso particolare del problema che si pone per qualsiasi pratica sociale o istituzione, che devono essere compatibili con i prin­ cipi di giustizia che si applicano alla “struttura di base della socie­ tà” 1O. Sullo sfondo di pratiche e istituzioni che soddisfano questi re­ quisiti, l’azione del medico è giustificata se rientra tra quelle che la comunità scientifica considera normalmente adeguate a ottenere il ri­ sultato di apportare un beneficio al paziente e se non è ingiusta mo­ ralmente. La deontologia professionale del medico si occupa di quelli che Rawls chiama “principi per individui”, ovvero dei principi che si ap­ plicano all’azione delle persone Per individuarli, essa muove da 420

1$. LA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE DEL MEDICO

una riflessione sulle nostre intuizioni, soffermandosi in particolare sulle circostanze in cui potremmo sostenere che un medico ha agito in modo non giusto nei confronti del paziente I2. Un’illustrazione em­ blematica della salienza del giusto {right) nel valutare il danno che il medico può cagionare si trova in un testo che appartiene all’epoca in cui l’esigenza di giustificazione della medicina emerge per la prima volta in modo esplicito. Si tratta del giuramento attribuito tradizio­ nalmente a Ippocrate di Kos, l’esponente più significativo del pensie­ ro medico greco antico I3. Tra l’altro, alla scuola che da lui prende nome si deve la formulazione di un primo abbozzo del paradigma “naturalistico” di spiegazione della malattia I4. La seconda parte di tale giuramento recita:

Farò uso delle misure dietetiche per il giovamento dei pazienti secondo il mio potere e il mio giudizio e mi asterrò da nocumento e ingiustizia. Non darò un farmaco mortale a nessuno per quanto richiesto, e nemmeno pro­ porrò un tal consiglio; e ugualmente neppure darò a una donna un pessario abortivo. Sarò casto e religioso nella mia vita e nella mia arte. Non procede­ rò a incisioni, neppure su chi ha il mal della pietra, ma lascerò questo inter­ vento agli operatori di tale pratica. Ogni volta che entrerò in una casa, lo farò per aiutare i malati e mai con l’intento di causare danno o ingiuria, par­ ticolarmente da atti sessuali sulle persone sia di donne sia di uomini, sia libe­ ri sia schiavi. Quel che nel corso della cura o anche a prescindere da essa veda o senta della vita degli uomini, che non bisogna in nessun caso andare fuori a raccontare, lo tacerò ritenendo che in tali cose si sia tenuti al se­ greto '3. Pur essendo stato scritto da qualcuno che viveva in una società lon­ tana da quella odierna — e che assumeva sullo sfondo spiegazioni della malattia e metodi di cura molto diversi da quelli accettati ai giorni nostri - il giuramento di ippocrate formula standard di valu­ tazione dell’operato del medico che conservano in parte la propria attualità ,6. Vale la pena di sottolineare che alcuni precetti richiamati in que­ sto documento — le cui origini sono avvolte nel mistero - non rispec­ chiano affatto le convinzioni morali diffuse, quella che si potrebbe chiamare la “moralità positiva”, dei greci tra il v e il in secolo a.C., che è il periodo nel corso del quale fu composto. In particolare, come ha osservato lo stesso Porter (1999, p. 62), «la santità che esso accorda alla vita umana è anomala per il pensiero e la pratica morale classica» che ammettevano sia l’aborto sia l’infanticidio. Alla rivendi­

cazione della legittimità del ruolo del medico come persona autoriz­ zata a dispensare cure si accompagna l’ammissione che il suo inter

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FILOSOFIA DELLA MEDICINA

vento è fallibile e può rivolgersi intenzionalmente al male, provocan­ do un danno ingiusto o dando luogo ad altri tipi di ingiustizia. Inol­ tre, è degno di nota che nel giuramento non c’è traccia della polemi­ ca nei confronti della superstizione, e in generale di chi pretende di essere in grado di guarire i malanni senza avere un’adeguata cono­ scenza della natura della malattia, che si trova in altri scritti che ap­ partengono alla tradizione ippocratica 17. L’unica allusione a questo tema c’è nella prima parte della formula del giuramento, che impegna l’apprendista medico a entrare a far parte di una confraternita che custodisce in modo esclusivo la propria arte l8. L’interpretazione più plausibile di questo testo è che l’estensore o gli estensori - intende ricordare al neofita, attraverso la formula da recitare, l’esistenza di standard di comportamento condivisi dal grup­ po. Sono questi standard che consentono a chi appartiene alla con­ fraternita - cioè a chi ha professato il giuramento — di riconoscere i casi in cui un confratello ha agito in modo scorretto. Gli esempi menzionati nella formula sono intesi verosimilmente come illustrazio­ ni di tali scorrettezze. Leggendola si direbbe che alla categoria del danno non giusto appartengono il dare un farmaco mortale, il sugge­ rirne l’uso e il procurare i mezzi per un aborto. A quella dell’iniquità gli ultimi due casi, che hanno a che fare con il tradimento della fidu­ cia di chi si è rivolto al medico invitandolo a entrare nella propria casa. Di difficile collocazione è invece il divieto di praticare la chi­ rurgia. Apparentemente tale attività non si può classificare in quanto tale come non giusta o contraria all’equità, e il testo non ne mette in questione l’efficacia. Tra l’altro, vale la pena di sottolineare che, an­ che in questo caso, il testo del giuramento non rispecchia affatto l’o­ pinione comune del tempo in cui venne redatto, perché sappiamo che molti medici greci praticavano normalmente la chirurgia come ri­ medio per certe malattie ’9. Forse l’inserimento della chirurgia nel ca­ talogo delle attività proibite a chi professa il giuramento rivela il desi­ derio dei seguaci di Ippocrate di distinguersi dagli altri medici greci adottando un atteggiamento di superiorità nei confronti di chi adope­ ra metodi di cura percepiti come degradanti perché comportano un lavoro manuale 20. Se il giuramento di Ippocrate si limita a menzionare alcuni esempi - forse i più frequenti o i più gravi - di scorrettezza nello svolgi­ mento delle proprie funzioni da parte di un medico, altre opere del corpus ippocratico contribuiscono ad ampliare la nostra conoscenza degli standard della professione. Da segnalare sono le indicazioni re­ lative alla remunerazione. Tra le raccomandazioni c’è quella di tener 422

IJ. LA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE DEL MEDICO

conto delle disponibilità del paziente nello stabilire il compenso e di non cominciare un consulto parlando della propria parcella. La pre­ occupazione espressa dall’estensore in questo caso è di non provocare ansia al paziente, inducendolo a temere che non verrebbe curato se non fosse in condizione di soddisfare le richieste del medico. Leggen­ do questi trattati - che appartengono alla fase più tarda della produ­ zione ippocratica - si ha l’impressione che la professione medica sia concepita dagli estensori come un’attività cui si applicano considera­ zioni che la distinguono dal commercio. O quantomeno che essa si allontani in modo significativo dal caso paradigmatico dello scambio di una cosa - in questo caso una prestazione - in cambio di un prez­ zo. Se la situazione normale è che il medico venga remunerato per aver curato un paziente, ci sono circostanze in cui invece è auspicab le che lo faccia senza chiedere un compenso. Come si è detto, le spiegazioni della malattia c i metodi di curi adottati dagli estensori dei testi che appartengono al corpus ippocra­ tico sono molto diversi da quelli della medicina contemporanea. Ren­ der conto in modo esaustivo di queste differenze sarebbe difficile, e in ogni caso eccederebbe i limiti della presente trattazione. C’è tutta­ via un ulteriore profilo della storia della medicina che è rilevante per la nostra indagine. Si tratta della dimensione della ricerca che, in una disciplina che si fonda sulla conoscenza del funzionamento del corpo umano, presenta problemi di non facile soluzione. Pur essendo di­ versa dalla medicina contemporanea, anche quella greca faceva uso - sia pur limitato - del metodo sperimentale per confermare le pro­ prie ipotesi. Ciò spinge alcuni autori a interrogarsi sulla giustificazione degli esperimenti che coinvolgono esseri umani. Ci si chiede, ad esem­ pio, se sia legittimo praticare la vivisezione o testare un farmaco 2 *. Una ricognizione sommaria di alcuni aspetti del pensiero e della pratica medica nella cultura greca dell’antichità mostra che la que­ stione della giustificazione dell’operato del medico è presente sin da­ gli albori della disciplina, e che essa assume ben presto una specifica coloritura etica. La storia della medicina e quella dell’etica medica si svolgono da allora in parallelo 22. Prima di presentare un profilo della deontologia professionale del medico, è opportuno accennare ad al­ cuni cambiamenti profondi che avvengono - a partire dal periodo cui risale il testo del giuramento — nel contesto sociale della medicina. Senza avere la pretesa di ricostruirle nel dettaglio, queste trasforma­ zioni culturali e istituzionali vanno prese in considerazione perche in­ fluenzano il modo in cui oggi valutiamo le azioni del medico, sia sul piano morale sia su quello giuridico. 423

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

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Medicina, società e istituzioni La straordinaria fortuna avuta dal giuramento di Ippocrate — che, sia pure in versioni aggiornate, è tuttora imposto a chi accede alla pro­ fessione — potrebbe indurre a credere che la natura dell’attività del medico e il suo ruolo nella società siano rimaste grosso modo le stes­ se dall’antica Grecia a oggi. In realtà - come è ovvio — ci sono stati mutamenti significativi. La medicina odierna può contare su straordi­ nari progressi scientifici e tecnologici che hanno accresciuto in modo drammatico l’efficacia delle cure per la malattia e dei rimedi per la sofferenza che essa ci mette a disposizione. Inoltre, alle dimensioni della terapia si affianca oggi quella della prevenzione i3. Sempre più al medico si rivolge chi vuole conservarsi in buona salute e non sol­ tanto - come accadeva fino al passato recente — il malato che avverte un sintomo che lo preoccupa. Tutti questi cambiamenti pongono nuovi problemi morali e giuridici, oppure conferiscono dimensioni inedite a quelli tradizionali. Nuovi, ad esempio, sono i problemi posti dalla possibilità di separare l’attività sessuale e la riproduzione. Molto antico è invece il dissenso sulle giustificazioni dell’aborto 24. Ciò no­ nostante, tale problema assume dimensioni inedite per via di due ac­ quisizioni recenti: la capacità di praticare aborti sicuri e quella di ave­ re informazioni più affidabili sullo stato di salute del feto 25. Prima di delineare un profilo della deontologia del medico, è op­ portuno accennare alle trasformazioni non meno importanti cui è an­ dato incontro il contesto culturale e istituzionale che fa da sfondo al­ l’esercizio della medicina. Ciascuno di questi mutamenti ha avuto un impatto sui modi di concepire l’etica medica e contribuisce a spie­ garne le dimensioni. Cominciamo da una domanda: chi è il medico? Sappiamo poco di chi esercitava la medicina nel periodo più remoto della storia greca, anche se non mancano le tracce - a cominciare dai poemi epici - della presenza di persone specializzate nella cura della malattia tra le figure di spicco della società. Come è noto, l’affidabili­ tà dei testi letterari antichi come fonti di informazione sugli albori della civiltà greca è oggetto di controversia. Tuttavia, essi non sono privi di interesse, dal nostro punto di vista, perché illustrano la ten­ sione tra saperi e pratiche che è una costante della medicina per buo­ na parte della sua storia - anche recente - e contribuisce a plasmarne l’immagine pubblica. NeWIliade, i medici che accompagnano la spedizione degli Achei appartengono all’aristocrazia. Odissea invece essi vengono de­ scritti come demiourgoi, ovvero artigiani. La prima testimonianza ha condotto qualcuno a ipotizzare che la medicina e la chirurgia ncll’e424

IJ. LA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE DEL MEDICO

poca omerica fossero attività riservate agli aristocratici, ma tale ipotesi non trova conferma. Forse la qualifica di artigiani è la più realistica, soprattutto se considerata alla luce degli sviluppi posteriori della me­ dicina greca, su cui non mancano le testimonianze. Nel v secolo, che come si è detto è il periodo in cui comincia a prender forma la tradi­ zione ippocratica, ci sono «diverse figure professionali ormai ben ri­ conoscibili: il medico laico, il sacerdote guaritore e indovino {iatrornantis), il medico filosofo» (Manuli, 1992, p. 232). Ciascuna inter­ preta il proprio ruolo in modo peculiare, adottando modelli di spie­ gazione e standard di comportamento distinti26. Dalla compresenza di queste figure che competono nello stesso campo emerge verosimil­ mente l’esigenza di rendere esplicita una concezione della professio­ ne, di cui il giuramento e gli scritti metodologici della scuola ippo­ cratica sono la manifestazione più eloquente. Prende forma in questo modo un profilo riconoscibile:

[c]aratterizzato da un forte indice di professionalità, in cui il lavoro intellet­ tuale non è mai separato da quello manuale, ma ancora sprovvisto di spazi istituzionali come la scuola, il medico laico del quinto secolo offre il suo ser­ vizio nella propria bottega [...] o sulla piazza della città, dove mette in vendi­ ta il suo sapere; proprio come ogni altro uomo delle tecniche {tbid.ì.

Un artigiano dunque, sia pure di tipo particolare 27. La caratterizza­ zione del medico laico del v secolo che abbiamo appena menzionato può essere considerata in qualche misura rappresentativa anche delle fasi posteriori dell’evoluzione della professione. Tuttavia, questa rela­ tiva continuità nel profilo sociale del medico, che lo distingue dalle figure del guaritore o dell’indovino, non deve indurci all’anacronismo di proiettare all’indietro una concezione unitaria della professione che emerge soltanto nel corso del xix secolo. Nel medio evo, ad esempio, la figura del medico “naturalista” specialista della diagnosi e della cura - e dispensatore di farmaci - che è per certi versi paragonabile a quella del suo predecessore nell’antichità classica, si affianca a quelle di altri operatori che impiegano tecniche di intervento prevalente­ mente manuale sulla malattia. Chirurgo, cerusico, barbiere praticano interventi di vario genere, che normalmente si rivolgono a diverse classi di utenti, ma che hanno comunque scopi terapeutici *8. Per buona parte della sua storia la medicina non è una professione come la intendiamo oggi, ma una costellazione di attività che hanno grosso modo in comune lo scopo - ovvero la cura della malattia e il rimedio della sofferenza - ma si distinguono sia sul piano del ruolo sociale sia su quello dei saperi e delle pratiche. 425

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Spingendo lo sguardo fino a epoche più vicine a noi, quella del medico rimane una figura atipica tra le “professioni intellettuali” per l’importanza che - nello svolgimento della sua attività - riveste il la­ voro manuale. Per via dell’influenza esercitata dal modello ippocrati­ co, questa dimensione artigianale del lavoro del medico pone spesso problemi di riconoscimento a professionisti che sono ansiosi di di­ stinguersi dai ceti popolari. La differenziazione interna alla professio­ ne conserva a lungo una dimensione di prestigio sociale, che corri­ sponde alla diversa considerazione in cui vengono tenute dal pubbli­ co le varie figure che la compongono 29. Ciò ha conseguenze dal pun­ to di vista della valutazione dell’operato del professionista. L’idea di un’etica medica unitaria non può affermarsi fino a quando c’è una tensione tra modelli di comportamento che rispecchiano sia le specia­ lizzazioni - che talvolta acquisiscono una propria autonomia — sia la stratificazione sociale del ceto professionale, riflettendosi sulle valuta­ zioni appropriate a ciascun ruolo. Ovviamente la caratterizzazione artigianale della professione medi­ ca è oggi problematica alla luce dello straordinario sviluppo delle tec­ nologie applicate alla medicina cui abbiamo accennato. L’immagine del medico greco che, nella sua bottega, riceve i pazienti, prepara i farmaci e pratica interventi chirurgici adoperando strumenti elemen­ tari, appare ben lontana da quella dello specialista odierno che - di concerto con altri specialisti - è la figura tipica di medico }O. Tutta­ via, qualcosa dell’eredità classica permane. Ciò dovrebbe spingerci a riflettere sulla possibilità stessa di una medicina che — per riprendere la felice espressione di Benjamin Farrington (1947) - faccia compietamente a meno della “mano”. Per quanto tecnologicamente sofisticata, la medicina rimane al fondo un’arte nel senso classico. Un pensare che non è mai del tutto indipendente dal fare (Gadamer, 1993). Se lo sviluppo delle tecnologie modifica la percezione del medico, mettendone in discussione il ruolo di artigiano, anche i contesti in cui egli svolge la sua attività hanno un impatto significativo sull’identità della professione. Cominciamo dal luogo di lavoro. Dal sommario esame dei testi ippocratici e della letteratura sulla storia della medici­ na antica si evince che il medico greco presta la sua opera nella pro­ pria bottega, oppure presso il domicilio del cliente. Questo ovvia­ mente può avere caratteristiche diverse a seconda della posizione so­ ciale del paziente. Le società antiche, ad esempio, conoscono la figura di medici di corte, che si trovano in una posizione diversa dal pro­ fessionista che si reca presso l’abitazione del paziente menzionato nel giuramento di Ippocrate. Tuttavia, se lasciamo sullo sfondo questi casi particolari - e i problemi, anche di natura morale, che pongono 426

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al medico -, il lavoro a domicilio ha caratteristiche relativamente uni­ formi nel tempo. Lo schema di relazioni tra medico e paziente assun­ to nel giuramento, e gli standard di valutazione che esso propone, conservano quindi la propria cogenza. Per il medico, non approfittare della fiducia del padrone di casa per sedurne la sposa rimane un principio morale anche in una società in cui le strutture della famiglia sono cambiate enormemente rispetto alla Grecia antica 51. Casa e bottega non esauriscono i luoghi della medicina. A partire dal medio evo, essa si diffonde anche in altri contesti, che ne condi­ zionano in modo decisivo lo sviluppo. Prima ci sono le comunità mo­ nastiche, che ospitano al proprio interno religiosi che praticano sia la medicina sia la chirurgia. Poi viene una delle grandi innovazioni sani­ tarie dell’età di mezzo, l’ospedale. Si tratta di una novità la cui porta­ ta non può essere ignorata perché, oltre a influenzare profondamente l’evoluzione successiva della medicina, ha conseguenze importanti an­ che dal punto di vista dell’etica medica. A seguito della diffusione delle strutture ospedaliere, la relazione tra medico e cliente si coni plica per via dell’ingresso sulla scena di un nuovo soggetto, che per il medico è un datore di lavoro mentre per il paziente è un dispensatore di assistenza e di cura L’ospedale non è l’unico “spazio istituzionale” in cui la medicina si diffonde a partire dal medio evo. Ci sono altri due contesti che plasmano in modo significativo i processi di formazione e di selezione del medico contribuendo a dare alla professione la fisionomia distinti­ va che essa ha nella società contemporanea. Il primo è quello degli organismi collettivi cui appartengono i medici. Queste istituzioni han­ no sia la funzione di rappresentare gli interessi dei membri del grup­ po professionale sia quella di regolarne l’attività, stabilendo requisiti di accesso alla professione e controlli sulle corrette modalità del suo esercizio ii. Il secondo è l’università, che diviene progressivamente il luogo di formazione accademica del medico, deputato istituzional­ mente alla trasmissione dei saperi che garantiscono la legittimazione sociale della professione e il riconoscimento del suo monopolio sulla cura della malattia w. Con l’emersione di queste istituzioni il contesto sociale in cui opera il medico assume caratteristiche non molto di­ verse da quelle che si riscontrano nella società contemporanea. Ov­ viamente, anche in questo caso, come in quelli degli altri mutamenti di cui abbiamo parlato, si tratta di fenomeni che maturano nel lungo periodo ,5. Di recente si è affermata un’ipotesi che consentirebbe di gettar luce sull’origine, a partire da rituali di affiliazione come quello pre427

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supposto dalla formula del giuramento di Ippocrate, delle organizza­ zioni professionali moderne. Come ha scritto Paola Manuli (1992, p. 229), tali rituali testimo­ niano: l’esistenza di artigiani, lavoratori manuali, attivi nelle città e nelle campagne e quotidianamente impegnati con problemi di sussistenza materiale. Sono, que­ sti, i cosiddetti medici itineranti, con tutta probabilità uomini liberi, dato che agli schiavi era interdetto l’apprendimento e l’esercizio della medicina. Sa­ rebbe proprio a partire da questi medici itineranti che si coagulano nel corso del tempo le corporazioni di medici, che riconducono il loro albero genealo­ gico al dio Asclepio e si chiamano perciò Asclepiadi. Essi si sarebbero comu­ nicati il loro sapere in una tradizione orale, almeno fino alla fine del sesto secolo e forse proprio per questo rappresentano la loro paideia come un dono divino. Un dono offerto prima ad Asclepio da parte di Apollo, o di Chitone, e poi raccolto dagli uomini.

Proprio ad Asclepio veniva fatta risalire la genealogia di Ippocrate. Nella mentalità della Grecia antica, la discendenza da un dio del pa­ dre della disciplina spiega l’efficacia del sapere medico e lo caratte­ rizza come un “dono” che la divinità ha fatto al genere umano. La stessa idea viene ereditata dalla cultura cristiana. L’immagine del sa­ pere come dono divino ha conseguenze importanti sullo sviluppo di una moralità della professione perché spiega la tendenza costante nel­ la storia delle professioni liberali a tentare di distinguere la prestazio­ ne del professionista dal commercio. La nozione di dono appare in­ fatti incompatibile con quella del pagamento di un prezzo per l’ac­ quisto di un bene o l’esecuzione di un servizio. Con il cristianesimo emerge dunque un altro elemento di ambiguità morale della medici­ na, che in questo caso non riguarda l’arte medica ma il suo esercizio come professione. Negli scritti dei pensatori scolastici - in particolare francescani — che si occupano del mercato e della sua giustificazione morale il lavoro di un professionista ha un valore elevato perché è un bene scarso. Da questo punto di vista, essi non fanno distinzioni tra professionalità diverse. Un buon mercante e un buon medico sono entrambi degni di lode perché contribuiscono, ciascuno secondo le sue competenze, al bene pubblico 3Ó. C’è però anche un “lato oscu­ ro” del commercio. Quando questa attività viene svolta con lo scopo esclusivo di accumulare ricchezze, essa non è giustificabile. La lettera­ tura dei teologi morali e la casistica dei confessori delinca una feno­ menologia dei vizi che si associano a questo aspetto immorale del commercio 37. Rispetto a queste distorsioni gli esponenti delle pro­ fessioni liberali che appartengono alla nascente borghesia urbana scn428

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tono il bisogno di distinguersi. Attingono dai modelli classici il di­ sprezzo per il lavoro manuale e ne fanno uno degli elementi di una diversa concezione della propria “vocazione” che pone l’accento sulla dimensione intellettuale dell’attività professionale e cerca di distin­ guersi dal commercio respingendo gli atteggiamenti comunemente as­ sociati allo stereotipo negativo del mercante. La prestazione del pro­ fessionista deve essere remunerata, ma egli non contratta il prezzo. Al contrario, deve mostrarsi superiore, manifestare disinteresse per il lu­ cro i8. A partire da queste premesse, si comprende perché certi auto­ ri medievali giungano a interrogarsi sulla possibilità che - nel riscuo­ tere un pagamento per i propri servigi — il medico commetta il pecca­ to di “simonia”, cioè di vendita di un bene spirituale J9. Dall’esigenza di tenere distinta la remunerazione moralmente giu­ stificabile della prestazione del professionista dal pagamento di un prezzo per un bene o un servizio nasce la riflessione medievale sulla nozione di “onorario” professionale. Non è facile giustificare in ma­ niera persuasiva il fondamento di tale distinzione. L’idea di fondi come suggerisce il nome, è che l’onorario sia correlato alla dignità d professionista. Sul piano dell’azione, l’aspetto che appare predoni, nante negli scritti che si occupano di questo tema è la preoccupazio­ ne degli autori di caratterizzare l’atteggiamento proprio del professio­ nista distinguendolo da quello del mercante. Per questo essi escludo­ no che il professionista possa contrattare un prezzo per la propria prestazione 4°. Buona parte degli ideali e degli standard di comporta­ mento che confluiscono nella concezione moderna del “professionista gentiluomo” - che si afferma a partire dal xvm secolo - dipende da queste considerazioni4’. Si pensi, ad esempio, al ruolo che le rifles­ sioni sull’etica professionale attribuiscono alla virtù della “magnanimi­ tà” - che manifesta il disinteresse nei confronti del profitto da parte del professionista — e alla raccomandazione di agire sempre con “gra­ zia” nei rapporti con il paziente 42. L’importanza di questi ideali per lo sviluppo di un senso dell’identità distintivo della professione medi­ ca - e in generale delle professioni liberali - è evidente se si tiene conto del fatto che la ricerca del profitto è invece considerata la mo­ tivazione principale del modo di agire del mercante. Riassumendo, vista in una prospettiva mondana, la rivendicazione di un legame con la divinità - ribadita nella parte iniziale della for­ mula del giuramento di Ippocrate - ha un certo peso in un contesto in cui non esiste ancora un sistema pubblico di certificazione della qualifica professionale, e chi esercita la medicina deve fare i conti con una concorrenza molto agguerrita, non solo da parte di “guaritori” che adoperano diversi approcci alla cura della malattia e al sollievo 429

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della sofferenza, ma anche da parte di altre figure professionali. La polemica nei confronti della superstizione - cui abbiamo accennato è un tratto distintivo di alcuni scritti della tradizione ippocratica che si può interpretare come un momento dello scontro tra gli esponenti di un ceto professionale “in stato nascente” e i propri concorrenti. La medicina contemporanea con i propri ordini professionali “protetti” dalla legge è il punto di arrivo di un’evoluzione che ha la propria origine nell’antichità e che si consolida anche grazie all’elaborazione progressiva di giustificazioni sia dell’efficacia rispetto allo scopo della pratica medica sia della sua legittimità morale e giuridica. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, si tratta di un esi­ to relativamente tardo. Per buona parte della sua storia la medicina convive, e talvolta si confonde, con pratiche terapeutiche che non sono giustificate a partire da spiegazioni naturalistiche 43. L’assetto at­ tuale della professione, che prevede un’organizzazione articolata in brutture - gli ordini professionali - che garantiscono ai medici un •nsiderevole livello di autonomia, entro limiti stabiliti dalla legge, si ibilizza soltanto nel xix secolo, e assume forme diverse in ciascun aese. Con una certa approssimazione, si può distinguere un modello europeo continentale e uno britannico44. Per quel che riguarda il primo, si può dire che esso ha origine in Francia e in Germania, e prevede l’istituzione di organismi professionali sotto controllo pubbli­ co, la cui attività è disciplinata da un’apposita legislazione. Per quel che riguarda il secondo, invece, bisogna distinguere la versione bri­ tannica da quella che prende forma negli Stati Uniti. Entrambe sono caratterizzate da un maggior livello di autonomia delle corporazioni professionali rispetto al pubblico potere. Tuttavia, mentre il Regno Unito si uniforma in parte al modello continentale nel periodo vitto­ riano, negli Stati Uniti i legislatori sia locali sia federali rimangono a lungo riluttanti a intervenire sull’organizzazione della professione. Ciò comporta una maggiore tolleranza di quelle che Roy Porter (1999, pp. 289 e 355) caratterizza come “sette mediche” e la più lenta affer­ mazione di un monopolio degli ordini tutelato dalla legge. Vale la pena di sottolineare che questa evoluzione dei modelli di organizzazione della professione dipende in parte anche dal modo in cui si struttura nelle diverse realtà locali il rapporto tra l’accesso alla professione e la formazione. Anche in questo caso ci sono considere­ voli variazioni all’interno di uno schema di evoluzione generale, che prevede la preparazione universitaria come un requisito necessario per ricevere la qualifica a esercitare la professione, lasciando tuttavia agli ordini un certo livello di controllo sulle procedure di accesso 45. 430

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A questa evoluzione verso lo statuto di professione protetta dalla legge non è estranea probabilmente una trasformazione complessiva del ruolo della medicina nella società, che ne accentua progressiva­ mente il rilievo pubblico. Da un sistema basato essenzialmente sullo schema di un rapporto individuale tra paziente e medico - per esem­ pio, una persona che esercita la professione in modo autonomo, come un piccolo imprenditore, oppure il dipendente di un datore di lavoro che può essere un ente ecclesiastico, un signore o una comunità loca­ le, come avviene quando si affermano i contratti di “condotta” - si passa progressivamente a uno in cui la medicina è anche un bene pub­ blico, che il sovrano controlla e distribuisce al pari di altri beni pub­ blici, come la sicurezza. Ciò comporta una trasformazione della natura delle istituzioni che dispensano la cura, e la nascita di sistemi di sanità pubblica che, nel tempo, finiscono per svolgere non solo la funzione di curare la malattia ma anche di prevenirne l’insorgere 4Ó. A partire dagli anni sessanta del secolo scorso - soprattutto in se­ guito alla pubblicazione del pionieristico lavoro di Michel Foucault (1972) sulla “nascita della clinica” - la sensibilità degli studiosi nei confronti di questa dimensione “politica” della medicina si è accen tuata notevolmente. Ciò ha avuto un impatto anche sul modo di con cepire la questione della giustificazione della medicina e della valuta zione dell’operato del medico. Nei suoi scritti, infatti, Michel Fou­ cault ha sostenuto che la medicina è una delle tecniche attraverso cui si esercita il potere di disciplina sui corpi e dunque si regolamenta la vita degli esseri umani. Per Foucault (1976, p. 199): [nlon esiste la medicina sociale, dato che tutta la medicina è sociale. La me­ dicina è sempre stata una pratica sociale. Quel che non esiste è la medicina non sociale, la medicina individualista, clinica, quella del rapporto singolo, che è stata piuttosto un mito con cui si e giustificata e difesa una certa forma di pratica sociale della medicina, vale a dire l’esercizio privato della profes­ sione. Appare evidente che il filosofo francese mette radicalmente in que­ stione la neutralità del sapere medico presupposta dal giuramento di Ippocrate e recepita dal paradigma naturalistico di spiegazione della malattia. Come si è detto, chi ha scritto il giuramento assume che la conoscenza del medico — per quanto incerta - sia affidabile, e ciò lo mette in condizione di curare la malattia o alleviarne le conseguenze. Sulla base di questa premessa si legittima la tutela legale del monopo­ lio sulla cura da parte dell’ordine professionale e il riconoscimento di una posizione di relativa autorità del professionista nei confronti del 431

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paziente47. La medicina in quanto tale è un beneficio, anzi «il più grande beneficio per il genere umano» 48. Sono le azioni del singolo medico che talvolta possono essere rivolte al male. Per questo è op­ portuno ricordare al neofita che certi comportamenti sono proibiti e vigilare per evitare che uno dei membri dell’ordine possa agire in modo scorretto gettando in questo modo discredito sui confratelli. La riflessione sull’etica medica in tale prospettiva è una sorta di filosofia morale applicata. Le sue diverse dimensioni abbracciano una varietà di comportamenti che vanno da quelli relativamente triviali regolati dall’etichetta - la bedside manner su cui ironizza una piccante vignet­ ta in età vittoriana - a veri e propri dilemmi morali 49. La prospettiva che si delinea negli scritti di Foucault, e che viene sviluppata nel dibattito sulla “biopolitica” in corso da qualche tempo, mette in questione le premesse da cui dipende lo schema di giustifi­ cazione che abbiamo assunto all’inizio del capitolo. Ci limiteremo dunque a rimandare alla crescente letteratura su questi temi 5°. Prima di concludere questa schematica rassegna dei cambiamenti cui sono andate incontro la percezione sociale della pratica medica e i contesti in cui essa si svolge, vale la pena di segnalare un altro pro­ filo che distingue la medicina odierna da quella greca. L’immagine della medicina ippocratica che si ricava dal giuramento è quella di un monopolio maschile5*. Dal testo è evidente che gli appartenenti alla confraternita sono uomini legati da un rapporto molto stretto plasma­ to nel corso dell’apprendistato presso un maestro. Da questo punto di vista, la medicina greca si distingue da quella di altre culture anti­ che - come quella dell’Egitto o della Mesopotamia - che invece rico­ noscevano un ruolo alle donne 52. Oggi la situazione è cambiata pro­ fondamente da questo punto di vista 53. La presenza di professionisti di ambo i sessi che lavorano fianco a fianco nei diversi contesti in cui si esercita la professione segnala la necessità di tener conto della va­ riabile “di genere” - quando essa sia rilevante - nella riflessione sul­ l’etica medica 54.

La natura della deontologia professionale

Cominciamo con una precisazione terminologica. La parola “deonto­ logia” ha una caratteristica piuttosto rara: ne conosciamo l’autore, e siamo persino in grado di identificarne con una certa precisione il primo uso. Essa, infatti, è stata ideata - probabilmente nell’agosto del 1814 - dal filosofo britannico Jeremy Bentham, che l’ha coniata dal sostantivo greco tò déon, che significa “ciò che è proprio” o “ciò che 432

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si deve” 55. Convinto sostenitore della necessità di una nomenclatura adeguata per l’esposizione sistematica di saperi e discipline, Bentham è stato un prolifico creatore di neologismi ’6. In questo caso, la nuova espressione viene introdotta per designare ciò che nei lavori prece­ denti egli chiamava semplicemente “etica”, in ossequio a una tradizio­ ne che risale alla filosofia greca 57. Bentham distingue due parti della deontologia, una che riguarda l’etica pubblica e l’altra quella privata. Tuttavia, l’uso prevalente del termine da parte del filosofo britannico è quello che si trova in Deontology, uno scritto sull’etica privata, e in particolare sulle virtù della prudenza, della probità e della beneficen­ za. Come l’etica degli antichi greci, anche la deontologia di Bentham ha una funzione direttiva. Per attuarla, egli immagina una figura - il “deontologo” o espositore dell’etica privata - che ha appunto il com­ pito di mostrare alle persone come devono agire ’8. Dopo Bentham, la parola “deontologia” viene ripresa negli scritti del filosofo del diritto John Austin, che la usa sostanzialmente nelle stesso modo. Nelle sue Lectures on ]urisprudencey egli distingue k studio del diritto positivo e dei costumi - i “mores” degli antichi, che egli chiama “moralità positiva” - dalla deontologia 59. Per Bentham e per il suo seguace Austin la deontologia è quindi l’etica normativa che riguarda sia le azioni sia pratiche e istituzioni. Nella letteratura contemporanea il termine “deontologia” ha as­ sunto un altro significato, che potrebbe dar luogo a qualche confusio­ ne, e del quale è quindi opportuno rendere conto. Si qualificano come deontologiche - e talvolta semplicemente come “deontologia” - le teo­ rie del giudizio morale che non specificano il bene (good) indipenden­ temente dal giusto (righi), o non interpretano il giusto come la massi­ mizzazione del bene. In questo senso, si distingue tra etiche deontolo­ giche ed etiche teleologiche 6o. Tale distinzione può fuorviare il lettore inesperto, che potrebbe essere indotto a credere che l’autore del pri­ mo trattato di deontologia - che è anche l’ideatore del termine - pro­ ponga un’etica non deontologica. Infatti, nella teoria etica di Bentham, il bene - ovvero l’utilità - è specificato indipendentemente dal giusto, che a sua volta viene interpretato come massimizzazione dell’utilità 6l. In questa sede, impiegheremo la parola “deontologia” nel senso inteso da Bentham - cioè come etica privata normativa - senza per questo sottoscrivere la teoria del bene e la derivazione del giusto proposte dal padre dell’utilitarismo 62. L’uso della distinzione tra etica privata e etica pubblica da parte di Bentham suggerisce l’opportunità di un’altra precisazione, anche in questo caso per evitare che essa dia luogo a fraintendimenti. Qualcu­ no potrebbe pensare, inlatti, che l’etica privata coincida con la rifles433

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sione sui principi che dovremmo adottare come guida per le azioni che non coinvolgono altre persone (self-regarding actions), mentre l’etica pubblica si occuperebbe di quelli che hanno a oggetto azioni le cui conseguenze coinvolgono altre persone {other-regarding ac­ tions). Si tratta, come è noto, di una distinzione portata all’attenzione dei filosofi morali da John Stuart Mill, che ha avuto un’importanza notevole nel dibattito sui limiti dell’interferenza da parte dei pubblici poteri nella sfera privata di una persona. Per Mill, l’uso della coerci­ zione da parte del pubblico potere per impedire un’azione - intesa nel senso più ampio, in modo da includere anche la manifestazione del pensiero - sarebbe legittimo solo nel caso in cui l’azione in que­ stione coinvolga altre persone (sia, cioè, other-regarding) 6}. Per quan­ to suggestiva e intuitivamente plausibile, la distinzione non è di facile applicazione, come lo stesso Mill aveva immediatamente notato, e si presta a diverse interpretazioni. Se considerata in senso causale, essa coprirebbe qualunque tipo di conseguenza che un’azione può avere nella vita altrui, estendendo l’ambito della proibizione legittima ben oltre i limiti che Mill è disposto ad accettare. Ciò ha spinto alcuni interpreti a sostenere che l’interferenza sarebbe giustificata solo nel caso in cui essa leda gli interessi delle altre persone, così come essi sarebbero individuati nell’etica normativa di Mill, che è una variante dell’utilitarismo proposto da Bentham. Anche questa lettura, tuttavia, ha sollevato la perplessità di diversi interpreti, che hanno fatto notare come essa conduca a una soluzione più conservatrice di quella che sarebbe verosimile attribuire a Mill64. Comunque, qualunque sia l’interpretazione corretta di Mill, e nonostante l’indubbia importanza che tale questione ha per il dibattito sui limiti del diritto penale e sui fondamenti del liberalismo, non è questo il senso in cui Bentham usa la distinzione tra etica pubblica e privata. L’etica pubblica, per Bent­ ham, è quella che si occupa dei principi che dovrebbero dirigere la legislazione 6\ L’aggettivo “pubblico” è usato dunque nel senso che ci è familiare dal diritto romano - come ciò che attiene alla sfera collettiva - mentre “privato” è invece ciò che riguarda quella indivi­ duale, e quindi i principi per gli individui 66. Ciò non vuol dire che l’etica privata ammetta solo principi che promuovono l’interesse indi­ viduale. Seguendo Rawls, assumeremo che i principi di giustizia per le istituzioni entrano nella concezione del giusto {righi) per gli indi­ vidui 67. Un’ultima precisazione è necessaria per sgombrare il campo da un’ulteriore possibile fonte di fraintendimenti. Nella letteratura sull’e­ tica professionale si impiega talvolta la distinzione tra etica della con­ vinzione {Gesinnungsethik) ed etica della responsabilità {Verantwor434

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tungsethik) che è stata introdotta nel dibattito contemporaneo da Max Weber68. Tale distinzione viene caratterizzata contrapponendo un modo di agire che sarebbe guidato esclusivamente dalla considera­ zione di ciò che sarebbe giusto fare, senza curarsi delle possibili con­ seguenze, e un modo di agire che invece prende in considerazione gli effetti prevedibili di un comportamento nel valutarne la doverosità dal punto di vista etico. In realtà, si tratta di una contrapposizione che dipende da una caricatura dell’idea che l’intenzione con cui si agisce sia uno degli elementi da prendere in considerazione nel for­ mulare il giudizio sull’azione. Affermare che la bontà di un’azione di­ pende dall’intenzione con cui è compiuta non implica che le conse guenze non debbano essere prese in considerazione. A ben vedere, 1 valutazione dell’intenzione non è affatto incompatibile con la conside­ razione delle conseguenze, ma solo con il consequenzialismo, cioè con la tesi che afferma che solo le conseguenze sono rilevanti per sta­ bilire se un’azione è buona 69. Lo stesso Weber era consapevole dei limiti della distinzione, e sottolineava che l’etica della convinzione non coincide con la mancanza di responsabilità, o quella della re­ sponsabilità con l’assenza di convinzione. Comunque, dato che la scelta terminologica suggerita da Weber si presta a essere fraintesa, c che la classificazione che egli propone è di dubbia utilità perché non è possibile concepire una dimensione etica dell’azione umana senza coinvolgere i diversi aspetti del concetto di responsabilità, è meglio abbandonarla del tutto. La deontologia ha a oggetto l’etica privata non nel senso che essa si occupa di azioni che non hanno conseguenze per le altre persone, ma perché si propone di trovare e formulare principi per guidare le azioni dei privati o - più in generale - delle persone. La deontologia professionale è quella parte della deontologia che si occupa dei prin­ cipi che riguardano le azioni di persone che svolgono una professione come, ad esempio, quella del medico 70. Vale la pena di sottolineare che questa estensione dell’uso del termine introdotto da Bentham per designare la riflessione sull’etica privata al campo delle etiche profes­ sionali non trova quasi riscontro nella lingua inglese, che è quella in cui si svolge il dibattito internazionale su questi temi. In inglese, in­ fatti, si parla normalmente di professional ethics per alludere alle eti­ che o deontologie professionali, e si usa quindi l’espressione medicai ethics per designare l’etica della professione medica. Come si è detto, la storia dell’etica medica corre parallela a quella della medicina sin dall’antichità. C’è quindi un rapporto molto stretto tra la pratica della medicina, l’insieme delle attività svolte dai medici, e la progressiva elaborazione di una deontologia professionale. L e435

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mersione di una sensibilità etica all’interno di una pratica è un feno­ meno ricorrente nelle società umane, di cui si sono occupati diversi pensatori sin dai tempi più remoti. Tuttavia, è nella filosofia moderna che esso riceve un’attenzione particolare, stimolata dalla riflessione sulla divisione del lavoro come ipotesi di spiegazione del progresso della conoscenza e di produzione della ricchezza. Sullo sfondo di tale ipotesi, viene spiegata anche l’emersione delle etiche professionali:

[s]e all’interno di una società politica c’è un certo numero di individui che hanno in comune idee, interessi, sentimenti, occupazioni che non condivido­ no con il resto della popolazione, è inevitabile che, per effetto di queste so­ miglianze, essi siano come spinti, attirati gli uni verso gli altri, che si cer­ chino tra loro, che entrino in relazione, che si associno e che così si formi poco a poco un gruppo ristretto, con una propria particolare fisionomia, al­ l’interno della società nel suo complesso. Ora, una volta che il gruppo si è formato, è impossibile che non sviluppi una vita morale sua propria, che porti il segno delle condizioni particolari che lo hanno fatto sorgere. Perché non è possibile che degli uomini vivano insieme, che abbiano frequenti rap­ porti, senza che prendano coscienza del tutto che formano con la loro unioe, senza che sviluppino un attaccamento verso questo tutto, che se ne preccupino, che ne tengano conto nel determinare la propria condotta. Ora questo attaccamento a qualcosa che oltrepassa l’individuo, agli interessi del gruppo al quale egli appartiene, è la fonte stessa di ogni attività morale. Nel momento in cui questa coscienza si precisa, quando si applica alle circostan­ ze più consuete e più importanti della vita comune, esso si traduce in formu­ le più o meno definite, ed ecco che si costituisce un corpo di regole morali (Durkheim, 2003, p. 62). Le osservazioni che abbiamo riportato sono di Émile Durkheim , uno dei padri della sociologia contemporanea, e si trovano nelle sue Leqons de sociologie, pubblicate postume nel 1950. Si tratta di un testo di notevole interesse dal nostro punto di vista perché esso articola un resoconto della genesi e della natura della morale professionale che ha avuto una grande influenza sugli studiosi che si sono occupati di etica delle professioni. L’ipotesi di Durkheim presenta uno schema di interpretazione della ricostruzione dell’origine della riflessione sulle dimensioni etiche della pratica medica che abbiamo illustrato discu­ tendo il giuramento di Ippocrate. In tale schema, gli interessi comuni dei membri del gruppo favoriscono lo sviluppo di legami di solidarie­ tà tra chi appartiene alla professione, aprendo la strada aH’emersionc di regole condivise e di una coscienza morale specifica dei professio­ nisti che pongono le basi per la richiesta di riconoscimento del pro­ prio ruolo sociale7'. Tale rivendicazione - nel caso delle professioni 436

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“protette” come quella del medico - si afferma come pretesa di mo­ nopolio su certe attività giustificata dalla pubblica utilità 72. Si tratta indubbiamente di un’ipotesi persuasiva. Tuttavia, essa può essere sviluppata in due modi diversi che generano concezioni dell’etica professionale - e quindi dell’etica medica - che sono in ten­ sione e potrebbero rivelarsi incompatibili. Nella prospettiva delineata nel brano di Durkheim, l’emersione di un’etica professionale è una conseguenza naturale del processo di differenziazione sociale secondo la funzione svolta da diversi lavori, che assume una coloritura morale perché in questo modo essa contribuisce a sostenere e a rafforzare il legame di solidarietà tra i membri del gruppo 75. Tale spiegazione è compatibile sia con la tesi che le regole di cui parla Durkheim siano solo la moralità positiva di un gruppo professionale, sia con quella che esse abbiano anche una giustificazione alla luce di considerazioni morali di carattere generale. Nel pensiero di Durkheim (ivi, pp. 44-5) la tensione tra queste due concezioni dell’etica delle professioni emerge nel rapporto tra le deontologie professionali:

[c]ome professori abbiamo doveri che non sono gli stessi dei commercianti; l’industriale ha doveri completamente diversi da quelli del soldato, il soldato li ha diversi da quelli del prete, e cosi via. Possiamo dire a questo proposito che ci sono tante morali quante sono le diverse professioni, e. dato che, in linea di principio, ogni individuo esercita una sola professione, ne deriva che queste morali differenti si applicano a gruppi di individui completamente di­ versi. Queste differenze possono anche giungere fino al contrasto. Le morali di questo tipo non sono soltanto diverse le une dalle altre, ce ne sono anche alcune fra le quali esiste una vera e propria opposizione. Lo studioso ha il dovere di sviluppare il suo spirito critico, di non sottomettere il suo giudizio a alcun'altra autorità che non sia quella della ragione; deve sforzarsi di essere uno spirito libero. Il prete, il soldato, sotto certi aspetti, hanno il dovere contrario. Per loro può essere obbligatoria l’obbedienza passiva, in misura da determinarsi. Il medico talvolta ha il dovere di mentire e di non dire la verità che egli conosce; chi svolge altre professioni ha il dovere opposto. Qui dun­ que troviamo, all’interno di ogni società, una pluralità di morali che agiscono parallelamente.

Questa mutua indipendenza delle morali professionali comporta un vero e proprio decentramento della vita morale. Mentre le opi­ nioni su cui si basa la morale comune sono diffuse in tutta la società, senza che si possa dire, propriamente parlando, che esse si situano in un luogo piuttosto che in un altro, la morale di ogni professione è localizzata in una zona limitata della società. Si formano così focolai di vita morale distinti an-

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che se solidali, e la differenziazione funzionale corrisponde a una forma di polimorfismo morale (ivi, p. 47). Durkheim valuta positivamente questo “polimorfismo morale” per il contributo che esso può dare a una cooperazione armoniosa tra le diverse professioni a vantaggio della società. Tuttavia, la tensione che abbiamo segnalato rimane. Se l’etica professionale diverge rispetto a quella comune si pone il problema di contrasti di natura diversa - e più radicale rispetto a quelli menzionati da Durkheim — che non tro­ vano composizione attraverso il “polimorfismo morale”. Poniamo che il medico non abbia il dovere di dire la verità al proprio paziente. Anzi, che talvolta ha il dovere di mentire, come afferma il sociologo francese. In questo caso, l’etica della professione medica sarebbe in apparente contrasto non solo con quelle di altre professioni, ma an­ che con il principio della moralità comune che ci impone di non mentire. Le conseguenze di questo secondo contrasto sono serie, per­ ché esso non consiste nella divergenza tra regole morali che — per ipotesi — si applicano a diverse figure professionali, e quindi non ge­ nerano un genuino conflitto tra doveri, ma riguarda invece la coscien­ za di ciascun medico e la possibilità che egli venga criticato per esser­ si comportato in modo inaccettabile per la moralità comune. Menten­ do al proprio paziente, il medico ha fatto ciò che gli chiede l’etica professionale. Tuttavia, considerato dal punto di vista degli standard comuni di valutazione dell’azione, ciò che ha fatto appare contrario a un principio morale. Vale la pena di sottolineare che la concezione dell’etica professio­ nale come moralità positiva del gruppo dei professionisti gode oggi di largo consenso sia tra gli studiosi di questa materia sia tra gli ope­ ratori. Diversi fattori contribuiscono a spiegare il successo di questa tesi. In primo luogo, essa si armonizza con il modo in cui viene de­ scritta l’etica delle professioni in una corrente di pensiero che ha avuto una profonda influenza sulle scienze sociali del novecento. Sul­ la scia dei lavori di Durkheim, diversi autori hanno ricostruito la po­ sizione del professionista come un ruolo cui corrisponde un’occupa­ zione valutata in modo positivo dalla società in generale 74. Le perso­ ne su cui “incombono” questi ruoli {incumbenls), individuati attra­ verso la posizione che hanno in pratiche e istituzioni, esercitano una funzione fiduciaria indipendente (independent trusteeship) che com­ porta un controllo su certe tradizioni culturali significative della so­ cietà 75. In tale prospettiva, i contenuti dell’etica professionale hanno una spiegazione funzionale autonoma rispetto alla moralità comune. Questa tendenza viene rafforzata ulteriormente da due aspetti dell’e-

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voluzione delle professioni nelle società contemporanee che acquista­ no importanza crescente a partire dal xix secolo: (z) la redazione di “codici etici” da parte delle organizzazioni professionali, e (zz) la re­ golamentazione dell’attività da parte del legislatore che, in cambio del riconoscimento pubblico del gruppo professionale e dalla tutela del monopolio che esso rivendica su una sfera di attività, impone una disciplina stringente sui modi di accesso all’ordine e di esercizio della professione. Si tratta di fenomeni che non riguardano soltanto la medicina, ma tutte le professioni “protette” e che di recente investono anche attività che non rientrano tra le “professioni liberali” tradizionali. L’affermazione di questa concezione dell’etica professionale ii fluenza il modo di pensare di chi si occupa di deontologia sia quanto studioso della materia sia in quanto professionista interessai a comprenderne la natura. Se ne trova conferma nel fatto che l’e­ spressione coniata da Bentham viene impiegata sempre più spesso parlando della moralità positiva degli ordini professionali, e in parti­ colare delle disposizioni contenute nei codici etici, e sempre meno a proposito della riflessione normativa su ciò che dovrebbe fare il pro­ fessionista. Si rafforza in tal modo la tendenza alla “positivizzazione” dell’etica professionale che è in corso da tempo, e che nel nostro pae­ se è stata ulteriormente consolidata da alcune sentenze recenti che hanno dichiarato la natura giuridica delle regole deontologiche 76. Le sentenze, tuttavia, non sono affatto la fonte di argomenti cogenti per chi si propone di chiarire il concetto di deontologia. Anche se, presso alcune giurisdizioni, le regole dei codici deontologici hanno valore di diritto, questo fatto non è sufficiente per escludere che si continui a impiegare l’espressione “deontologia” nel senso di Bentham, cioè come etica privata normativa. La valutazione e la guida dell’azione individuale non sono sul piano morale un’esclusiva del legislatore o del giudice 77. La conoscenza del diritto e delle altre regole sociali è ovviamente una premessa indispensabile per ragionare su questi temi, ma il filosofo non rinuncia a chiedersi se una disposizione contenuta in un codice deontologico sia giustificata o meno 78. La possibilità di una divergenza tra etica professionale e moralità comune pone quindi un problema filosofico. Cerchiamo di compren­ derne la natura, e di capire in che modo possiamo superarlo attra­ verso la chiarificazione del concetto di deontologia professionale. Co­ minciamo dal rapporto che intuitivamente sembra esserci tra diver­ genza e conflitto. In un lavoro sull’etica professionale, Bernard Wil­ liams ha sostenuto che la divergenza di cui stiamo parlando non inne­ sca necessariamente un dilemma di coscienza per il professionista. 439

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

Per illustrare la tesi di Williams, useremo l’esempio del dovere di mentire del medico menzionato da Durkheim. Da quel che sappiamo, è molto probabile che in passato ci siano stati medici che erano per­ fettamente a proprio agio con l’idea di un dovere professionale di non dire la verità ai propri pazienti. Possiamo immaginare che questi professionisti avessero a che fare con persone che non obiettavano a tale modo di agire, probabilmente perché convinte a loro volta che ci sono circostanze in cui la menzogna del medico è necessaria per il bene del paziente. Situazioni come quella che abbiamo illustrato mo­ strano che, contrariamente alle aspettative, la divergenza non è suffi­ ciente perché ci sia conflitto 79. Se in una società c’è un consenso dif­ fuso sul fatto che i medici seguono - almeno in certe circostanze regole diverse dagli altri, il dilemma di coscienza del medico e la cri­ tica da parte del pubblico rimangono virtuali. Sono possibilità che non si realizzano. Dal punto di vista concettuale, si tratta di possibili­ tà indipendenti 8o. Medici che non si fanno domande sulla divergenza tra regole del gruppo e moralità comune potrebbero avere a che fare :on un pubblico a disagio per il contrasto che essa rivela. Medici an­ gosciati dal dubbio invece potrebbero confrontarsi con un pubblico acquiescente o indifferente. Quando Durkheim scrisse le sue lezioni sulla sociologia, tenute a più riprese tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del secolo seguen­ te, l’atteggiamento nei confronti della menzogna “pietosa” detta dal medico al paziente corrispondeva al quadro che si ottiene mettendo assieme le ipotesi che abbiamo illustrato a partire dalle osservazioni di Williams. Un medico che non diceva la verità al proprio paziente quando gli sembrava opportuno farlo - come gli consigliavano sia la saggezza tradizionale sia il costume del gruppo, e come era lasciato libero di fare dai codici etici, che non proibivano la menzogna — non andava normalmente incontro a critiche e probabilmente non era tur­ bato da conflitti di coscienza. Ovviamente, non possiamo escludere che tra i medici, oppure tra il pubblico, ci fosse a quel tempo chi avvertiva la tensione generata dalla divergenza tra gli standard di va­ lutazione delle proprie azioni accettati dai professionisti e la moralità comune, e sentisse il bisogno trovarne una giustificazione. Tuttavia, verosimilmente erano casi rari 81. Oggi la situazione è cambiata. La letteratura più recente sull’etica medica sottolinea che le virtù tradizionalmente associate al dire la ve­ rità sono tra i tratti di carattere generalmente apprezzati dei profes­ sionisti e dei ricercatori del settore sanitario e lo stesso orientamento comincia a farsi strada anche nelle più recenti revisioni dei codici deontologici 82. Anche se permangono riserve per quel che riguarda 440

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la dimensione della prognosi, perché c’è chi sostiene che la piena tra­ sparenza da parte del medico potrebbe minare la speranza del pa­ ziente nella possibilità di una guarigione, si ritiene che le informazio­ ni relative alla diagnosi e alle opzioni terapeutiche a disposizione deb­ bano essere condivise in modo franco e diretto con l’interessato 8\ La concezione dell’etica professionale come moralità positiva del gruppo dispone delle risorse per spiegare questo cambiamento di prospettiva. Infatti, chi sostiene che la deontologia è la moralità posi­ tiva del gruppo professionale può ricostruire il mutamento negli at­ teggiamenti sociali che porta al cambiamento della regola sul mentire come la conseguenza di una diversa percezione del ruolo del profes­ sionista. Tale evoluzione potrebbe generare a sua volta un nuovo modo di declinare i doveri imposti dalla società alle persone su cui incombe il ruolo professionale. Un esempio di questo modo di ragio nare è illustrato da Ralf Dahrendorf (2006, pp. 44-5): [t]ra aspettative vincolanti, di natura morale e di natura facoltativa da un lato, e legge, costume, consuetudine dall’altro, non sussiste solo analogia, ma i due gruppi di concetti si riferiscono a oggetti (Gegestaiide) identici. Come nell’ambito del diritto possiamo affermare che ogni società presenta un pro­ cesso di consolidamento (Verfestigungì della consuetudine in costume e del costume in legge, anche per i ruoli sociali sussistono trasformazioni nello stesso senso. Come le leggi possono perdere valore (Geltungì a causa di tra­ sformazioni delle strutture sociali di base, così anche i modelli obbligatori di comportamento sono passibili di mutazione di valore.

La mutazione di valore di cui parla Dahrendorf sarebbe quindi de­ terminata dal cambiamento delle strutture sociali di base, cioè dalle pratiche e dalle istituzioni che fanno da sfondo all'attività del pro­ fessionista. L’approccio sociologico all'etica professionale assume que­ sto sfondo come un dato che deve essere spiegato dalle scienze socia­ li, mettendo tra parentesi la questione della giustificazione che invece è centrale per l’etica 84. Intesa come precetto metodologico per lo studio dell’etica professionale come fatto, la sospensione del giudizio etico è indispensabile. Se invece lo stesso atteggiamento viene tacita­ mente esteso anche all’ambito della giustificazione - sia di pratiche e istituzioni sia di azioni - esso finisce per avere effetti perversi che im­ pediscono di comprendere appieno la dimensione normativa della deontologia professionale 8’. Come si è detto, in quanto guida dell’a­ zione, essa appartiene alla filosofia morale, non alla scienza sociale. Ritornando all’esempio del dovere di dire la verità ai pazienti, la giustificazione della regola che lo impone sarebbe incompleta senza 441

I FILOSOFIA DELLA MEDICINA

una considerazione adeguata delle ragioni che la sorreggono. A con­ ferma di questa tesi è sufficiente leggere le riflessioni su questo tema di Thomas Percival, autore di un trattato sull’etica medica pubblicato nel 1803, che è stato per decenni il punto di riferimento principale per questa materia nei paesi di lingua inglese e ha costituito la base del primo codice etico adottato nel 1847 dall’American Medicai Association 86. Dopo aver toccato diversi aspetti della comunicazione tra medico e paziente, sia nel contesto ospedaliero sia nella pratica priva­ ta, Percival sente il bisogno di tornare sull’argomento dedicando alla liceità della menzogna da parte del medico una lunga nota in cui di­ scute le opinioni, tra gli altri, di Cicerone, Agostino, Grozio, Pufendorf, Hutcheson, Johnson e Gisborne. La conclusione cui giunge è che in certi casi l’etica medica impone un comportamento diverso ri­ spetto alla moralità comune. Tuttavia — e questo è l’aspetto rilevante dal nostro punto di vista - la giustificazione della regola deontologica che egli propone dipende dalla moralità comune perché è basata su ma teoria dei diritti come beneficio 87. La tesi di Percival è che il iconoscimento di un diritto {right) dipende dal fatto che, attraverso 1 diritto, la persona riceve un beneficio. Dato che conoscere la verità in alcuni casi non è un beneficio per il paziente - perché ne pregiudi­ ca la speranza di guarire - il diritto è “sospeso” o “addirittura anni­ chilito” e il medico può avere addirittura il dovere di mentire 88. La posizione di Percival esemplifica il secondo modo di concepire l’etica medica cui abbiamo accennato discutendo le osservazioni di Durkheim. Chi aderisce a questo orientamento di pensiero non nega che ci sia una moralità positiva dei medici, che in certe circostanze può essere riconosciuta - o addirittura incorporata — da un sistema giuridico. Tuttavia, ciò non esclude che le regole sociali che la speci­ ficano siano soggette alla valutazione morale comune. A ben vedere, il problema della concezione dell’etica professionale che la riduce alla moralità positiva di un gruppo è che essa assume che l’appartenenza a una professione rende le azioni di una persona impermeabili alle considerazioni morali che dovrebbero essere rilevanti per chiunque. Bernard Williams (1995, p. 193), ha osservato che questa concezione dell’etica professionale come indipendente è:

più naturalmente associata a una casta piuttosto che semplicemente a una professione. In una società apena [il conflitto di coscienza e la critica] sono probabilmente associati; è importante, ovviamente, rispetto al caso della ca­ sta, che le persone decidono di entrare o di lasciare la professione, muo­ vendosi in questo modo da un gruppo all’altro. 442

15- LA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE DEL MEDICO

La fluidità del confine tra la professione, intesa come gruppo sociale che ha una propria organizzazione e regole di condotta, e tutto ciò che si trova all’esterno della corporazione o dell’ordine, rilevata da Williams, mette in luce un difetto della concezione dell’etica profes­ sionale che la riduce alla dimensione della moralità positiva dei pro­ fessionisti. Se le professioni soddisfano il principio delle “carrière ouverte aux talents” non è immaginabile che l’etica professionale riguar­ di una sfera d’azione indipendente dalla valutazione morale comu­ ne 89. Tale conclusione è compatibile con il riconoscere che i giudizi sulle azioni e sul carattere dei professionisti devono tener conto del punto di vista di questi ultimi nel considerare il modo in cui i mem­ bri del gruppo professionale osservano i propri doveri e adempiono alle proprie obbligazioni. Ma ciò non esclude affatto che tra moralità comune e etica professionale ci sia continuità, o che si debba cercare una congruenza. La distinzione tra professione e casta richiamata da Williams apre la strada a un resoconto più convincente della natura della deontologia: la moralità professionale non è semplicemente una diversa moralità e [...] i professionisti non sono semplicemente un gruppo esterno rispetto alla comu­ nità morale. Due considerazioni sono connesse a tale proposito, che la pro­ fessione è (grosso modo) accettabile moralmente per la comunità e che i pro­ fessionisti si concepiscono come membri di tale comunità, membri oltretutto che esercitano la propria professione proprio nella comunità cui appartengo­ no {ibid.ì.

La ricostruzione proposta da Williams appare fertile anche perché ci consente di riconsiderare i contrasti segnalati da Durkheim in una prospettiva più soddisfacente, che non ci chiede di accettare un’idea delle professioni come corpi sociali impermeabili - i cui membri sono legati da “solidarietà meccanica” - in grado di generare spontanea­ mente le proprie regole di comportamento, riconosciute e talvolta fat­ te proprie dal diritto, che i professionisti seguono senza sentire il bi­ sogno di prendere in considerazione la moralità comune 9°. Nelle società contemporanee le organizzazioni professionali sono una delle articolazioni più importanti della società civile. La pratica medica si esplica in contesti sociali e istituzionali diversi, che vanno dall’assistenza a domicilio, all’attività svolta presso uno studio profes­ sionale o una struttura ospedaliera. In ciascuno di tali contesti il pro­ fessionista interagisce con altre persone che chiedono il suo interven­ to. Ricordiamo che il paziente si rivolge al medico perché consapevo­ le che il professionista ha una preparazione specifica, e può rivolgersi

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I FILOSOFIA DELLA MEDICINA

per certe cose solo a lui perché l’ordine dei medici ha nelle società di cui parliamo un diritto di esclusiva - riconosciuto e tutelato dalla leg­ ge - per svolgere le attività che appartengono alla medicina. Ciascun paziente ha bisogno di assistenza o cura, ma nella mag­ gior parte dei casi i pazienti non sono affatto passivi 9I. Ciò comporta due conseguenze molto importanti. La prima è che il medico non può mai sottrarsi del tutto agli standard di valutazione che sono ap­ propriati nelle relazioni tra persone. La seconda è che, per chi eserci­ ta la professione medica, i contesti sociali e istituzionali in cui si esplica l’attività professionale offrono anche le opportunità per colti­ vare la propria sensibilità morale. Riprendendo una tesi di John Rawls, si può dire che la moralità professionale appartiene al secondo stadio di sviluppo del senso morale, in cui le persone partecipano a ciò che egli chiama “moralità dell’associazione” 92. Per Rawls (1971, p. 467), essa prevede:

standard morali appropriati al ruolo dell’individuo nelle varie associazioni ~ui appartiene. Tali standard includono le regole morali di senso comune in­ mie agli aggiustamenti richiesti per adattarle alla posizione particolare di .scuna persona; che sono imposti dall’approvazione e dalla disapprovaziodi chi è in una posizione di autorità, o dagli altri membri del gruppo.

Ne consegue che:

[l]a moralità dell’associazione include un vasto numero di ideali ciascuno de­ finito in modo da adeguarsi al rispettivo status o ruolo. La nostra compren­ sione morale cresce come ci muoviamo, nel corso della vita, attraverso una sequenza di posizioni. La corrispondente sequenza di ideali richiede giudizio intellettuale maggiore e discriminazioni morali più sofisticate. Chiaramente alcuni di questi ideali sono più comprensivi di altri c impongono all’indivi­ duo richieste diverse. [...] [D]overne seguire alcuni conduce naturalmente a una moralità dei principi (ivi, p. 468). Lo stadio della moralità dei principi coincide con quella che abbiamo chiamato fino a questo punto moralità comune yJ. Essa prende due forme:

una che corrisponde al senso del giusto (righi) e della giustizia (justice), l’al­ tra a quello dell’amore per l’umanità e all’autocontrollo (self-command). [...] [L]a seconda è supererogatoria, la prima invece non ha questa caratteristica. Nella sua forma normale di giusto (righi) e giustizia (justice) la moralità dei principi include le virtù delle moralità dell’autorità e dell’associazione. Essa definisce l’ultimo stadio in cui tutti gli ideali subordinati sono finalmente

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IJ. LA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE DEL MEDICO

compresi e organizzati in un sistema coerente attraverso principi adeguatamente generali. Le virtù delle altre moralità ricevono la loro spiegazione e giustificazione all’interno di questo schema più ampio; e le loro rispettive pretese sono aggiustate dalle priorità assegnate dalla concezione più com­ prensiva. La moralità della supererogazione ha due aspetti che dipendono dalla direzione in cui le richieste della moralità dei principi vengono volonta­ riamente superate. Da un lato, l’amore dell’umanità si manifesta nel promuo­ vere il bene comune (common good) in modi che vanno oltre i nostri doveri naturali e le nostre obbligazioni. Tale moralità non è per le persone comuni, e le sue virtù peculiari sono quelle della benevolenza, una sensibilità accre­ sciuta per i sentimenti e i desideri degli altri, e un’umiltà appropriata e una capacità di abnegazione. La moralità dell’autocontrollo, dall'altro lato, nella sua forma più semplice si manifesta nel soddisfare con semplicità e grazia le richieste (requirements) del giusto (rigbt) e della giustizia (justicé). Essa divie­ ne realmente supererogatoria quando l’individuo manifesta le sue virtù ca­ ratteristiche del coraggio, della magnanimità, e dcH’autocontrollo in azioni che presuppongono grande disciplina e preparazione. Ciò può farlo assu­ mendo liberamente offici e posizioni che richiedendo queste virtù se i doveri corrispondenti vengono eseguiti bene, oppure perseguendo scopi superiori in una maniera consistente con la giustizia (justicé) ma che sorpassano le richie­ ste del dovere e dell’obbligazione. Quindi le moralità della supererogazione, quelle del santo e dell’eroe, non contraddicono le norme del giusto (rigbt) e della giustizia (justicé)’, esse sono caratterizzate dall’adozione volontaria, da parte di una persona, di scopi che sono in continuità con tali principi ma che si estendono oltre ciò che essi impongono (ivi, pp. 478-9). Nel brano di Rawls che abbiamo riportato c’è un’esposizione somma­ ria della parte della teoria del giusto (rigbt) che riguarda i principi per individui (cfr. fig. n). Una teoria completa del giusto dovrebbe comprendere anche i principi che si applicano alle pratiche e alle isti­ tuzioni e quelli che riguardano le relazioni internazionali °4. Rawls sostiene che la stretta relazione che c’è tra pratiche sociali e virtù della giustizia (justicé) suggerisce di considerare i principi per istituzioni prioritari rispetto a quelli per individui. Ciò vuol dire che le obbligazioni e i doveri naturali di una persona «presuppongono una concezione morale delle istituzioni» e quindi «il contenuto delle istituzioni giuste (just) deve essere definito prima che vengano stabili­ ti gli atti dovuti (requiremeuts) per gli individui» (ivi, p. no). Tutta­ via, dato che il nostro scopo è occuparci della deontologia professio­ nale del medico, possiamo lasciare sullo sfondo i principi per le isti­ tuzioni limitandoci a segnalare che, in un contesto in cui le istituzioni che appartengono alla struttura di base soddisfano i principi di giu­ stizia, le persone hanno diritti che non possono essere violati nemme­ no se ciò appare necessario per il perseguimento dell’interesse collct-

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FILOSOFIA DELLA MEDICINA

FIGURA II

Teoria rawlsiana del giusto circa i principi per individui Principi per individui (principici for individuali}

Atti leciti {permissioni}

Ani dovuti {requirementi}

Indifferenti Doveri naturali {naturai duties)

Obbligazioni {obligatiom)

Equità {faimea} Fedeltà (fidelity)

Supererogatori

Beneficenza Coraggio Pietà

Positivi

Negativi

Sostenere la giustizia Aiuto reciproco Mutuo rispetto

Non nuocere Non far del male agli innocenti

Fonte-. Rawls (1971).

rivo 95. Questo modo di intendere la posizione della persona in una società giusta plasma le istituzioni e le pratiche che non appartengo­ no alla struttura di base 96. Quindi possiamo assumere che abbia un impatto significativo anche sulle relazioni tra medico e paziente, che non possono adottare il modello paternalistico legato alla concezione tradizionale della medicina, ma devono invece svilupparsi in modo da garantire il rispetto per la persona e i suoi diritti fondamentali 97.

Obbligazioni, doveri naturali e virtù

Richiamando la distinzione illustrata all’inizio del paragrafo preceden­ te, i principi per le istituzioni appartengono all’etica pubblica, mentre quelli per individui sono parte dell’etica privata. Lo schema proposto 446

I 5. LA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE DEL MEDICO

da Rawls consente di classificare in modo sistematico sia gli atti dovu­ ti (requirements) sia quelli leciti (permissions) che l’etica professiona­ le impone o raccomanda al medico, riconducendoli ai principi per in­ dividui. Lo adottiamo con l’avvertenza che esso ha soltanto lo scopo di fornire un primo orientamento in una materia che richiederebbe una trattazione più approfondita per essere affrontata in modo esau­ stivo. In particolare, una teoria normativa completa della deontologia professionale del medico dovrebbe includere anche regole di priorità dettagliate che specifichino l’ordine di soddisfazione dei diversi prin­ cipi 98. Nella teoria di Rawls tali regole sarebbero individuate a parti­ re da una concezione della giustizia come equità (justice as fairness} che stabilisce i principi per le istituzioni che appartengono alla strut­ tura di base della società che le parti adotterebbero in una situazione originaria di scelta in condizioni di ignoranza Ciò spiega la posi­ zione relativa che attribuiremo alle obbligazioni (che assumono sullo sfondo istituzioni) e ai doveri naturali nell’esposizione schematica dei contenuti della deontologia professionale del medico. L’ordine espo sitivo non coincide necessariamente con la priorità sul piano normali vo dei principi. Cominciamo dalle obbligazioni. Sullo sfondo di istituzioni giuste {fair} — o almeno «ragionevolmente giuste in rapporto alle circostan­ ze» - esse sono regolate dal principio di equità {fairness}. La formula­ zione del principio è la seguente (Rawls, 1971, p. 112): quando un certo numero di persone si impegna in un’impresa cooperativa retta da regole per il reciproco vantaggio, restringendo la propria libertà nei modi necessari per produrre vantaggi per tutti, coloro che si sono sottoposti a tali restrizioni hanno il diritto di esigere un’identica acquiescenza da parte di chi ha tratto beneficio dal rispetto delle regole da parte degli altri.

!

Per Rawls, tale principio comporta che nessuno può trarre vantaggio dalle fatiche collettive altrui senza fare la propria equa parte (fair sba­ re}. Le obbligazioni generate dal principio di equità sono diverse dai doveri naturali perche non sono incondizionate. Al contrario, esse sono conseguenza di un’azione volontaria - la partecipazione all’atti­ vità cooperativa - che costituisce uno dei presupposti di operatività del principio nella sua teoria della giustizia ,o°. Rawls sostiene che il contenuto di queste obbligazioni di equità «è definito da un’istituzione o da una pratica, le cui regole specifica­ no ciò che ciascuno è tenuto a fare» (ivi, p. 113). Inoltre, «io obbliga­ zioni sono normalmente dovute a individui definiti, ovvero, a coloro con cui si coopera per il mantenimento dell’assetto in questione»

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FILOSOFIA DELLA MEDICINA

(ibid.). Tra le azioni che possono generare un'obbligazione di equità, Rawls menziona «l’atto politico di candidarsi e (in caso di successo) di ottenere una carica pubblica in un regime costituzionale. Questo atto dà luogo all'obbligazione di adempiere ai doveri di questa carica, e i doveri determinano il contenuto dell'obbligazione» (ibid.). Anche se Rawls non considera esplicitamente le attività professionali, possia­ mo estendere l’applicazione del principio anche al medico. Infatti, la professione medica gode di una posizione particolare nelle società contemporanee in ragione del riconoscimento che essa riceve dalla le­ gislazione. Anche se ospedali e ordini professionali non appartengono — in quanto istituzioni - alla struttura di base della società, e pur es­ sendo Fattività professionale che il medico svolge spesso di natura privata, l’accesso alla professione configura una situazione analoga a quella descritta nell’esempio di Rawls. Come una persona che occupa una carica pubblica, il medico svolge un “officio” cui si accompagna­ no doveri ,ox. Vale la pena di sottolineare che i doveri di cui stiamo parlando non sono doveri morali, ma semplicemente i «compiti e le responsabilità assegnati a certe posizioni istituzionali» dalla legge e dalle altre regole pubbliche - positive - che disciplinano una certa attività ,O2. In una società giusta, o almeno ragionevolmente giusta in rapporto alle circostanze, ci sono ragioni morali (cioè basate su un principio morale) per adempiere a tali doveri, e il principio di equità è certamente tra queste. Le obbligazioni rette dal principio di equità riguardano atti vo­ lontari di vario genere. Ci sono quelli caratterizzati da un maggior indice di formalità e quelli meno formali o del tutto informali. Biso­ gna tener conto del fatto che, negli atti in questione, il ricorso a una forma socialmente riconosciuta è il modo per rendere esplicito il con­ tenuto dell’atto. Così avviene, ad esempio, per i contratti e per certe promesse solenni ,O3. Ma ci sono anche situazioni, che nella vita quo­ tidiana sono frequenti, in cui c’è un margine di incertezza relativa­ mente all’atto che la persona aveva effettivamente intenzione di com­ piere. In questi casi, il linguaggio ordinario consente di ricorrere a procedure di rimozione dell’ambiguità comunicativa dell’atto, come avviene quando si usa l’operatore linguistico che segnala la volontà di promettere. Talvolta l’atto da cui dipende l’obbligazione non è l’as­ sunzione di un impegno, come la promessa, ma l’accettazione di un beneficio. Di particolare interesse per l’etica professionale del medico è l’ob­ bligazione di fedeltà, che secondo Rawls è tra le conseguenze del principio di equità. Essa infatti contribuisce a delincare Patteggiameli* 448

15- LA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE DEL MEDICO

to che il medico deve tenere nell’adempimento delle proprie obbliga­ zioni nei confronti del paziente, sia quelle che discendono da un con­ tratto sia quelle che dipendono da altri atti impegnativi o dall’accetta­ zione di un beneficio *°4. La natura dell’attività del medico, che consiste nel fornire una prestazione di natura professionale, è congeniale alla priorità che - dal punto di vista espositivo - hanno le obbligazioni che discen­ dono dal principio di equità. Un medico è una persona che è auto­ rizzata dalla legge a prestare la propria opera per curare la malattia o alleviare la sofferenza. L’obbligazione è dunque in primo piano. Tuttavia, questa peculiarità della professione non deve indurci nel­ l’errore di sottovalutare l’importanza dei doveri naturali. Essi indivi­ duano una cornice di atti dovuti positivi e negativi - doveri di agire o di astenersi dall’agire - che contribuiscono a delimitare lo spazio di ciò che il medico è tenuto a fare insieme alle obbligazioni di equità. Come si è detto, a differenza di queste ultime, i doveri natu­ rali sono incondizionati. Dunque essi non presuppongono un’attività che ne costituisce il fondamento — come avviene nei casi di impegni taciti o espressi, oppure in quello dell’accettazione di un beneficio ma hanno «valore tra le persone indipendentemente dalle loro rela zioni istituzionali; si instaurano tra tutti, considerati come persone morali eguali» 105. Molti doveri che tradizionalmente rientrano nell’ambito della deontologia intesa come moralità positiva della professione medica trovano una giustificazione alla luce dei corrispondenti doveri natura­ li. Così, ad esempio, il dovere di non fare del male al paziente, e quello di agire per il suo bene, sanciti dal giuramento di Ippocrate, sono emanazioni dei doveri naturali di non nuocere e di aiutare chi si trova in stato di bisogno o corre un pericolo. Ovviamente, nel caso del medico, essi operano di concerto con le obbligazioni di equità che discendono dalla relazione tra medico e paziente, per esempio at­ traverso la conclusione di un contratto, o un altro atto impegnativo. Le obbligazioni in certi casi contribuiscono a rafforzare il dovere e ne specificano il contenuto. Dal medico non ci aspettiamo un generico aiuto, ma un intervento qualificato. Inoltre, l’obbligazione nei con­ fronti del paziente interviene sulla clausola che limita il dovere di aiu­ to ai casi in cui esso non comporta rischi o perdite personali eccessi­ ve. La modulazione di ciò che può essere considerato un rischio o una perdila eccessiva dipende dalla presenza dell’obbligazione di equità. Nondimeno, le considerazioni di fondo che sorreggono la conclusione che il medico deve mettere le proprie conoscenze al ser449

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

vizio del paziente in difficoltà sono le stesse che si applicherebbero a qualsiasi persona. La stessa cosa si può dire per il dovere di astenersi dal nuocere e per quello di mutuo rispetto. Nella teoria della giustizia come equità (justice as fairness) di Rawls un dovere naturale fondamentale è quello di giustizia. Esso impone

di sostenere le istituzioni giuste (just) che ci riguardano e di rispettarle. Esso ci costringe anche a promuovere gli assetti giusti che non sono ancora stabi­ liti, almeno quando ci è possibile farlo senza eccessivi costi personali. Perciò, se la struttura di base della società è giusta, o almeno tanto giusta quanto è ragionevole attendersi in determinate circostanze, ciascuno ha il dovere natu­ rale di fare la propria parte nello schema [istituzionale] dato. Ciascuno è vin­ colato a queste istituzioni, indipendentemente dai suoi atti volontari, perfor­ mativi o di altro genere (ivi, p. 115).

Anche questo dovere naturale ha un posto significativo nella deonto­ logia professionale del medico. Infatti, in quanto persona che svolge la propria attività professionale all’interno di istituzioni, ad esempio un ospedale, egli ha il dovere di fare quanto è in suo potere per con­ tribuire a sostenerle o a migliorarle alla luce delle regole di giustizia che a esse si applicano. Ciò comporta un impegno a essere imparziale tra i pazienti — e quindi a non fare discriminazioni ingiustificate - e a rendere tali istituzioni più efficaci nel promuovere la giustizia io6. La seconda specie prevista nella classificazione di Rawls è quella degli atti leciti. In senso generale, essi sono quelli che siamo liberi sia di compiere sia di non compiere perché non violano alcuna obbliga­ zione o dovere naturale. Tra questi, ce ne sono alcuni che sono co­ munque moralmente rilevanti, perché rispondono a ideali di eccellen­ za - le virtù - che hanno un posto importante nelle concezioni tradi­ zionali dell’etica privata sin dall’antichità. Nello schema che abbiamo riprodotto, Rawls include tra questi atti quelli ispirati dalle virtù della benevolenza, della pietà, dell’eroismo e dello spirito di sacrificio. Come si è detto, si tratta di virtù che ci aspettiamo di riscontrare nel­ l’azione di persone che assumono volontariamente certi offici o posi­ zioni. Anche in questo caso, come in quelli delle obbligazioni di equità e dei doveri naturali, lo schema proposto da Rawls trova un’applica­ zione nel campo della deontologia medica. Benevolenza, pietà, eroi­ smo e spirito di sacrificio non sono ovviamente richieste a tutti i membri della professione, ma caratterizzano ideali di perfezione che nel contesto dell’attività del medico trovano indubitabilmente oppor-

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I 5 • LA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE DEL MEDICO

tunità di esercizio. Esse destano ammirazione da parte di chiunque quando si manifestano nel modo di agire di un professionista. L’adozione dello schema proposto da Rawls consente di giustifica­ re il cambiamento di opinione relativo al dovere del medico di dire la verità al proprio paziente in modo più soddisfacente rispetto al mo­ dello dell’etica professionale come moralità positiva. Infatti, all’inter­ no di una teoria normativa della giustizia, tale dovere è sostenuto da diverse considerazioni che operano congiuntamente. L’obbligazione di fedeltà richiede che il medico sia sincero nelle comunicazioni con il paziente. Il dovere di rispetto esclude che il medico possa trattare la persona che ha in cura come il soggetto passivo di un intervento terapeutico di cui non conosce la ragione, anche se il paziente si tro­ va in condizioni difficili o è privo della piena capacità di valutare la propria situazione. Inoltre, la relazione tra medico e paziente si basa sulla fiducia, e dire la verità è essenziale per promuovere tale atteg­ giamento ’°7. Nella prospettiva che abbiamo delineato il paziente do­ vrebbe avere il diritto di sapere la verità per quel che riguarda il suo stato di salute e le prospettive di guarigione. Ciò non vuol dire, ov­ viamente, che si debba imporre la verità a pazienti che non vogliono conoscerla.

Note 1. Weber (1991). 2. Cfr. Porter (1999, pp. 14-43). Ciò non vuol dire, ovviamente, che tutte le so­ cietà umane abbiano - o abbiano avuto - medici come li intendiamo oggi. Per un esempio di una società primitiva priva di qualsiasi figura specializzata nel curare la malattia o alleviare la sofferenza, cfr. Lewis (1975). 3. La difficoltà di distinzione cui si fa cenno nel testo dipende dal fatto che il confine tra diversi tipi di valutazione nell’etica degli antichi è sfumato. Cfr. Annas (i993. PP- 442-3)4. Cfr. Porter (1999). Molto utile per orientarsi è la corposa sezione di “letture ulteriori” (pp. 719-66). 5. Parsons (1954. P- 38). 6. Carrick (1985, p. 9). 7. Cfr. Porter (1999) e Cosmacini (1998). Sul rapporto tra pubblicità e nascita della scienza moderna in Europa ha insistito in diversi suoi lavori lo storico del pen­ siero scientifico Paolo Rossi. Vedi, ad esempio. Rossi (1997, pp. 17-34). Come si è detto, l'emersione di un paradigma naturalistico di spiegazione della malattia non è un processo lineare, e nemmeno si può dire che esso coincida con la modernità. In particolare, per quel che riguarda la medicina greca antica, non mancano testimonian­ ze di una mentalità naturalistica e di un impegno nei confronti di standard pubblici di argomentazione nella discussione delle spiegazioni dei fenomeni. Tra gli altri, si veda­ no almeno due lavori ormai classici di Lloyd (1979, 1987). Sull’evoluzione della medi-

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FILOSOFIA DELLA MEDICINA

cina scientifica nel contesto più generale dell’indagine sulla natura della materia, è an­ cora utile la sintesi di Toulmin, Goodfield (1965). 8. Cfr. Toulmin (1950, pp. 148-150). 9. Cfr. Rawls (1955)10. Riprendo l’espressione da Rawls. Alla “struttura di base della società” appar­ tengono le maggiori istituzioni sociali - ad esempio, la costituzione politica e i princi­ pali assetti economici e sociali - che distribuiscono i doveri e i diritti fondamentali c determinano la suddivisione dei benefici della cooperazione sociale. Gli ordini pro­ fessionali e le istituzioni ospedaliere invece non ne fanno parte. Cfr. Rawls (1971, pp. 7-11).

11. Rawls (1971, pp. 54-5 e 108). 12. Alludo qui al metodo dell’equilibrio riflessivo proposto sempre da Rawls. Cfr. Rawls (1971, pp. 20-1 e 48-51; 1975). Per un approfondimento, Cfr. Arras (2007).

13. Come è noto, le notizie sulla vita di Ippocrate sono poche e frammentarie. Anche l’attribuzione del giuramento a un autore con questo nome è dubbia. Tuttavia, nel testo si è preferito mantenere la dizione tradizionale di “giuramento di Ippocrate” perché è quella tuttora prevalente. Cfr. Carrick (1985, pp. 71-2). 14. Porter (1999, pp. 55-62). 15. Riprendo il testo, con qualche modifica, dalla traduzione italiana di Vincenzo Lami. Cfr. Ippocrate (1983, p. 258). 16. Carrick (1985). 17. Si veda, ad esempio, lo scritto Sulla malattia sacra, in Ippocrate (1983, pp. 216-35).

18. Cfr. ancora il testo del giuramento in Ippocrate (1983, p. 257). 19. Su medicina e chirurgia nella società greca e sugli sviluppi che queste prati­ che hanno presso i romani, cfr. Porter (1999, pp. 44-82) e Cosmacini (2003, pp. 15-54). 20. Cfr. Farrington (1947, pp. 28-54). Sul prevalente atteggiamento di disprezzo per il lavoro manuale nella cultura greca antica, cfr. Arendt (1958, trad. it. pp. 81-5). 21. Lloyd (1991, pp. 357-60). 22. Per un’introduzione alla storia dell’etica medica, cfr. Jonsen (2008). 23. Cfr. Porter (1999, pp. 632-3). 24. Cfr. Mori (1996, pp. 13-27). 25. Per una rassegna sommaria dell’impatto del progresso della medicina sui problemi etici che emergono nell’esercizio della professione, cfr. Gorovitz (1983, pp. 5-8). 26. Cfr. Jonsen (2008, pp. 1-12) e, per i trattati di chirurgia, Cosmacini (2003, pp. 22-5). 27. Sulla figura dell’artigiano, cfr. Sennctt (2008). 28. Per un profilo della medicina medievale, cfr. Porter (1999, pp. 106-34). Sui rapporti tra medicina e chirurgia nel medio evo, cfr. anche Cosmacini (2003, pp. 55-92). 29. L’assunto della superiorità della medicina sulla chirurgia viene messo in di­ scussione e progressivamente superato nel xvm secolo. Cfr. Porter (1999, pp. 277-81).

30. Cfr. Porter (1999, pp. 668-86). 31. A tal proposito, vale la pena di ricordare che la “fiducia” e i modi per pro­ muoverla hanno un ruolo centrale nel De cautelis medicorum di Gabriele de Zcrbi,

452

IJ. LA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE DEL MEDICO

pubblicato a Padova nel 1495, secondo alcuni il primo resoconto sistematico dell’etica medica. Cfr. Jonsen (2008, pp. 49-50). 32. Cfr. Porter (1999, pp. 112-3) e Cosmacini (1998), che si occupa in particolare del nostro paese. 33. Porter (1999, pp. 118-20). Dal punto di vista giuridico, un ruolo molto im­ portante nel facilitare questo processo ha la possibilità che il gruppo di professionisti si costituisca in “corporationes” o in “collegia", due istituzioni di origine romana. Cfr. Monti (1934) e Berman (1983, pp. 215-21). Per l’importanza di queste istituzioni nel­ l'evoluzione dell’etica professionale del medico, cfr. Jonsen (2008, pp. 24-5). 34. Cfr. Porter (1999, pp. 113-4). 35. In particolare, vale la pena di sottolineare che l’attribuzione delle funzioni di rappresentanza degli interessi e di regolamentazione dell’attività a un unico organi­ smo, l’ordine professionale, è relativamente recente. Nelle società di ancien regime c’è una situazione più fluida perché alle diverse pratiche mediche non corrisponde ancora un’organizzazione unitaria della professione. Rappresentanza degli interessi e regola­ mentazione della professione sono assegnate a organismi distinti che normalmente sono espressione di ambienti sociali diversi. Significativo è il ruolo dei “collegia" spesso legati alle università - che esercitavano la giurisdizione sulle controversie civili e penali tra “pazienti" e diverse figure di guaritori. Attraverso i collegia un’élite con una preparazione accademica esercita il proprio controllo sulle pratiche mediche. Cfr. Pomata (1994, pp. 15-60) e Pastore (2006, pp. 125-53). 36. Cfr. Todeschini (2004, pp. 109-57). 37. Cfr. Prodi (2009, pp. 105-34). 38. Jonsen (2008, pp. 18 e 26). 39. Pomata (1994, pp. 76-7). 40. Pomata (1994, pp. 73-9 e 298-326). 41. Malatesta (2006, pp. 350-3). 42. Jonsen (2008, p. 57). 43. Sulla figura del “ciarlatano” 94’5» 200 Haynes B., 232 Hebb D. O., 153 Hegel G. W. F., 454

landolo C., 252 lansek R., 322 Ikena S. E., 328 Ingrosso M., 62 Ippocraie, 85, 87, 89, 224-5, 341» 421-2, 424, 426, 429, 431. 436. 449»

45* Iwashyna T. J., 320 Jackson A. R., 454 James W., 210

577

1

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

Janet P., 352, 362, 375 Jaspers K., 18, 22-4, 30-1, 44, 349-50, 372-3, 377, 383 Jefferson T., 162 Jenicek M., 256, 258, 263, 271-3, 275 Jervis J., 16 Johansson I., 78-9, 142 Johnson N., 299 Johnson R. T., 199 Johnson S., 442 Johnson-Laird P. N., 321 Jonsen A. R., 45, 256, 269, 272, 275, 452-5 Jordan J., 311 Kahlbaum K. L., 377 Kahneman D., 310, 312, 321 Kamm F. M., 454 Kandel E. R, 117 ant L, 34, 36-7, 397 intzà G., 373, 382, 391 irei M. J., 312 armiloff-Smith A., 199 Kauffman S. A., 203 Keeney R. L., 295 Kempster P. A., 272 Kendell R. E., 381, 384-5 Kendler K. S., 217, 388 Kenny A., 492 Keplero G., 126, 144 Kemberg O. F., 355-9 Kidd M., 257, 272 Kimchi R., 209 King L., 86 Kirch W., 319 Kitcher P., 107, 151, 172, 174, 215 Klebs E., 175-6 Klein J. G., 324 Klein M., 367-8 Klein R., 64 Kleinman A., 62 Klerman G. L., 386 Klosterhalfen S., 98 Koch R., 96, 100, 105, 133, 175-6, 239 Kohn L. T., 319, 327 Kolletschka J., 127 Kovàcs J., 57

Kraepelin E., 345, 375-7» 380, 386-7, 391-2, 394 Krafft-Ebing R. von, 391 Kraus K., 291 Kriebel D., 176, 178, 199, 201 Krowka J. F., 128 Kuhn Th. S., 43, 83, 142, 232, 264, 342, 366, 372, 379 Kupfer D. J., 394 Labhart A., 288 Lachmann K., 32 Làdavas E., 413 Laennec R.-T., 226 Lakatos I., 366 Lamarque P., 47 Lamb D., 520 Lami V., 452 Lamont E. B., 320 Lanfredini R., 271 Lange M., 163 Laplace P. S. de, 100 Lasègue E. C., 351 Lauder G. V., 206 Laurent A., 98 La Vergata A., 65 Lawson L, 274 Leape L. L., 314 Lecaldano E., 504, 519 Ledley R. S., 293 Legrenzi P., 332 Lehman D. R., 323 Lennox J. G., 60 Leonardo da Vinci, 91 Leventhal M. L., 287-8 Lewis D. K., 146-7, 187, 189-90, 200 Lewis G., 451 Lewontin R. C., 205 Lilford R. J., 299 Lind J., 156 Lindee S., 106 Lingiardi V., 368 Link B. G., 63 Linné C. von (Linneo), 65, 277 Liotti G., 338, 400, 413 Lipowski Z. J., 363 Lipton P., 141, 163 Liti A., 174

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INDICE DEI NOMI

McKim V. R., 2or McKusick V., 106 McNutt R. A., 300 McWhinney L, 102 Medawar P. B., 255 Mcini C., 46, 413 Mello M. M.» 327 Mendel G. J., 152 Mengoni L., 493 Menten M. L., 217 Menzies P., 193-4 Meyer A., 378 Michaelis L., 217 Michels R., 383 Migone P., 338, 355 Machamer P., 103, 149-50, 171, 184, Mill J. S., 119, 133-4. >36. *38. H2» 211, 218 146-7, 434, 454 Maclntyre A., 255-6, 267-8, 274, 455 Millikan R. G., 204, 210 Maclntyre S., 63 Minelli A., 65 Mackenbach J. P., 175 Minkowski E., 375, 393 Mackie J. L., 99, 187-9, 2O°. 492 Misrahi R., 454 Macnaughton R. J., 272-6 Mitchell S.» 152-3, 155. t63- 206 Maddox J., 128 Miti G., 328 Madeddu F., 368 Mòebius P. J., 375. 392 Magni S. F., 520 Moja E. A., 276 Malatesta M., 453-4. 493 Monateri P. G., 482, 493 Malavasi A., 330 Mancina C., 453 Montalenti G., 65 Mandel D. R., 323 Montgomery K., 30, 256, 259, 269, Manson N., 494 272-6 Manuli P., 425, 428 Monti G. M., 453 Maragliano E., 229 Mordacci R., 60, 455, 519 Marconi D., 77, 310 Morel B. A., 375 Marcum J. A., 101, 103, 200 Morgagni G. B., 67, 93, 226, 278 Marinker M., 270, 274 Morgcnstem O., 292 Maritain J., 517 Mori G.. 16 Marmot M., 64 Mori M.t 452 Marraffa M., 218, 413 Moriggi S., 141 Marteau T. M., 107 Moscoviti S., 62 Mathieu V., 78 Motterlini M., 293 Mauri M., 354 Mullis K., 118 Mayes R., 393 Mumford S., 162 Mayr E., 113, 206, 284 Munson R., 166, 173 Mazzamuto S., 493 Murphy D., 388, 395 McCaulcy R. N., 218 Murri A., 222-4, 229, 234, 279, 281, McDowell I., 200 285, 288-90 McDowell J., 18 Musco E., 492 Mclntyre L., 163 Mynatt C. R., 323 McKcnna J. J., 1 io

Livet P., 269, 271, 273-4 Livingston P., 47 Lloyd E. A., 151 Lloyd G. E. R.» 451-2 Locke J., 382, 403-4 Looren de Jong H., 210, 215-6, 218 Louis P. C. A., 94 Lucas Lucas R., 510, 520 Ludwig C., 142 Lunbeck E., 38, 271, 273 Lusted L. B., 293 Lycan W., 203, 208, 210-1, 216 Lynoe N., 78-9, 142

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I

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

Nagel E., 103 Nannini S.» 25 Napoleone 1, 286 Neale G., 320 Neasham D., 199 Nederbragt H., 83 Nelkin D.» 106 Neri D., 520 Nesse R., no Neumann J. von, 292 Neyman J.» 200 Nichols S., 407 Nickerson R. S., 323 Nickles T., 140 Nietzsche F. W., 397 Niiniluoto I., 141 Nisoli E., 75 Noli J., 141 Noonan N. W., 413 Nordenfelt L., 52, 56, 58-9, 85 Nordin I., 108 Nott M. R., 324 Novaco F., 315 Nozick R., 413

Okasha S., 65 Olsen S., 362 Olson E. T., 413 O’Neill O-, 494 Oppenheim P., 26, 165, 283 O’Rourke P., 329 Osler W., 222 Oyama S.» 107 Pagnini A., 271 Palmer S., 209 Pancheri T., 364 Pani L.» no, 363 Pantaleo G., 132 Papagno C., 413 Papineau D., 87, 195 Paradiso M., 493 Parascandola M., 201 Parfit D., 413 Pargetter R., 204 Parkinson J., 272 Parodi A., 183, 199

Panini P., 31-2, 45, 47, 260, 271 Parsons T., 451, 453-4 Pascal B., 292 Passeron J.-C., 257, 266, 271, 273 Pasteur C., 86 Pasteur L.» 67, 69, 100, 105, 176 Pastore A., 453 Paternoster A., 218 Patrono V., 288 Paul N., 82 Pauling L.» 105 Pearce W. B., 61 Pearl J., 195-8, 201 Pedersen A. S., 142, 188, 200, 315 Peirce C. S., 124 Pellegrino E. D., 61, 81, 108 Péquignot H., 72, 230 Pera M., 141, 284 Percival T., 442, 454-5 Peters R., 105 Pettit P., 118 Phelan J. C., 63 Piaget J., 223 Piattelli Paimarini M., 293 Pietroski P., 151 Pinel P.» 277, 342-4, 351, 366, 373'4> 382, 387, 391, 394 Pitcher G., 459 Platone, 21 Plotz P. H., 106 Poland J., 118 Polger T., 212, 218 Poli E., 224, 230, 288, 316 Pomata G., 453 Popper K., 69, 76, 79, 142, 283 Pòrn L, 59 Porter R., 418-9, 421, 430, 451-3 Poses R. M., 320, 324 Posner K. L., 325 Potter V. R., 495-6, 519 Premuda L., 230 Preti G., 38-42 Price H., 193-4 Price J., 1 io Price R., 282 Prodi P., 453 Psaty B. M., 107 Psillos S., 145-6, 162-3

>8O

! INDICE DEI NOMI

t

I

Pufendorf S., 442 Putnam H., 207-8, 211

Rugarli C., 57 Russell B., 292

Quine W.» 83

Sacchi S., 325 Sackett D. L., 232, 293 Sacks O., 272, 276 Sade R. M., 60 Salmon W., 28, 141, 162, 167-9, *73. 183-4, 199-200 Salutati C., 226 Santoni de Sio F., 492 Santorio S., 93 Sarkar S., 103, 106 Sarno N., 354 Sassi F., 331 Satolli R., 45 Savage L. J., 293, 308 Scandellari C.» 224, 228, 233, 256, 261, 271, 273-6, 293, 331 Scarpelli U., 500, 508 Schade H., 105 Schaffner K., 46, 140, 142, 154-5, 163, 172, 174, 186, 203, 264, 266-7,

Rachels J., 520 Raiffa H., 295 Raillon P., 173 Rainone A., 46 Ramsey F. P., 146-7, 292 Ratzinger J., 499 Rawls J-, 420, 444-8, 450, 452-5. 491 Reason J., 317, 319 Reeve H. K., 205 Regan T., 519 Regier D. A., 394 Reich W. T., 519 Reichenbach H., 180, 199 Resnik M. D., 166, 173 Revel J., 257, 266, 271, 273 Rey G., 151 Ricciardi M., 491 Riccio M., 463-4 Richardson R., 203 Riegelman R. K., 331 Ritov I., 301 Rivers W. H. R., 156 Rizzolatti G., 46 Roberts J., 163 Robins E., 393 Rodotà S., 494 Roff D., 112 Roger H., 72 Rogler L. H., 385 Rohatyn D., 141 Romano G., 204 Rosenberg A., 151 Rosenberg R., 142, 188, 200, 315 Ross A., 491 Rossi P., 16, 44, 451 Roth P. A., 47 Rothman K. J., 178-9, 188 Rousseau J.-J., 394 Rubin D. B., 190, 200 Rubino I. A., 369 Ruffino E. D., 326, 330

!

lì’

273-4 Schafii C., 319 Scheines R., 195, 200 Schellenberg G. D., 137 Schleiden M., 96 Schlosser G., 217 Schmidt W. M., 302 Schneider K., 361, 369, 377. 392 Schneider P.-B., 327 Schon D. A., 319 Schouten M., 216, 218 Schroeder H., 252 Schwann T., 96 Schwappach D. L. B.» 326 Schwartz J. A., 295 Schwartz W. B., 311 Scriver C., 115 Searle J., 211 Seldin D., 8r Semmelweis I., 95, 126-8, 130-1, 141 Sennett R., 455 Seyle H., 364 Sgreccia E., 501 Shafir E., 308-9 Shannon C., 217

581

FILOSOFIA DELLA MEDICINA

Sheehan N. A., 201 Sheppard H. W., 128 Sherman P. W., 205 Shoemaker S., 413 Shulkin J., 293 Sicolo N., 315 Siegei D. J.» 400, 413 Siegrist J., 64 Sigerist H., 71-2 Signorelli C., 318 Simon H., 140, 195, 203, 310 Simonson I.» 309 Simpson E. H., 181, 200 Sims A., 367 Sinigaglia C., 46 Siracusano A., 369 Sirgiovanni E., 388

Skoda J.» 95 Skodol A., 381 Skultans V., 276 Skyrms B., 141 Slovic P., 321 Smedslund J., 323 Smith B.» 514-6, 520 Smith E. O., no Smith S., 163 Snow C., 38-9 Snow J., 95 Sober E., 150, 163, 210 Sonderegger-Iseli H., 319 Sonnenberg F. A., 293 Spadea T., 63 Spagnolo A. G., 332 Sparti D., 413 Spiegelhalter D., 195 Spirtes P., 195 Spitzer R- L., 383, 385-6, 394 Stalnaker R., 187 Stanovich K. E., 321 Stearns S. C-, no, 112 Stein F., 287-8 Sterelny K., 205, 207 Stetson P., 319 Stevens A., no Stich S., 310, 407 Stiggelbout A. M., 312 Stine G. J., 322 Strawson G., 47, 413 Strevens M., 174

Studdert D. M., 327 Stueber K. R., 33-4 Suchman A. L.» 276 Summers K. M., 107 Sung N. S., 328 Suppes P., 180, 182, 199 Susser M., 199 Sutherland H. J.» 293 Swinbume R., 282 Sydenham T., 230

Tamburini A., 377, 391-2 Target M., 338 Tarski A., 77 Tauber A. J., 106 Taylor Ch., 413, 454 Telfer E., 455 Temkin O., ro8 Ten C. L., 454 Teodori U., 314 Thagard P., 46, 99, 99. 140-1, 155, 169-71, 174, 183-4, 2I7> 258, 261, 272-3

Thomasma D. C., 61, 81, 108 Thombury J. R., 306 Thornton T., 44, 368 Thorton J. G., 299 Till J. E., 293 Todeschini G., 453 Tommasi S., 229, 251, 281 Tommaso d’Aquino, 467, 517 Tononi G., 400 Tooley M., 147 Torsoli A., 332 Toulmin S., 29, 45, 256, 269, 272, 275, 420, 452

Treasure T., 328 Trevathan W. R., rio Trout J. D., 47 Turner S. P., 201 Tversky A., 308-9, 321

Ubel P. A., 312 Uexkiill T.» 81 Underwood J. C. E., 69 Urbach P., 142

582

INDICE DEI NOMI

Vallance A. K., 98 Valle D., 115 Vandenbroucke J. P., 257, 263, 272-3 Vandereycken W., 351 van Deth R., 351 van Dijck J., 102 van Fraassen B. C., 28-9, 162, 173-4 Vanni Rovighi S., 78 Varzi A., 141 Vassallo N., 44, 142 Vegni E., 276 Velia G., 389, 395 Venter J. C., 107 Verschuuren G. M. N., 103 Vesalio A., 85, 90, 106 Vettor R., 75, 167 Vidali P., 44, 372 Vignaux G., 65 Villa L., 251 Vineis P., 45, 141» 154-5» t76, 178, 184, 194, 199-201 Viola G., 229, 289 Virchow R., 64, 67, 96, 105 Vonka V., 199 Vygotskij L., 211

Whitbeck C., 59-60, 99, 173 Whitehead A. N., 274 Wiener C., 115 Wilkes K., 403 Williams B., 413, 439-40, 442-3, 454-5. 491 Williams G.» no Wilson H. S., 381 Wilson J. A., 163 Wilson M., 385 Wilson R. A., 218 Wilson R. M., 320 Wimsatt W., 203, 218 Windelband W., 255 Winnicott D. W., 366, 368 Wise M. N.» 38, 271, 273 Wittgenstein L. J., 24, 292 Wolf F. M., 322 Wolf U., 107 Woodward J., 148-9, 152-4» i63» l92> 194-5, 199, 201, 218 Worrall J., 158 Wright C., 216, 218 Wright G. H. von, 21, 24-5, 29, 31,

Waitzkin H., 64 Wallsten T. S., 324 Walsh D. M., 217 Walsh P. C., 300 Warner J. H., 86 Warnock M.» 512-4 Waters K. C., 151, 163 Watson G., 492 Weatherall D. J., 107 Weber M., 151-2, 417, 435, 451, 454 Weed D. L., 199, 201 Wei X., 128 Weinberg R., 171 Wciner H., 83 Weingart S. N., 319-20 Weinstein M. C., 231, 293, 303, 305, 311 Weiskrantz L., 413 Welby P., 463-4 Wermuth N., 195 Wcsiack W., 81 West R. F., 321

583

43» 192-3 Wright L., 204 Wright S., 195 Wulff H. R., 99, 142, 188, 200, 231, 3i5 Wynder E. L., 199

Yates J. F., 320 Yeomans F. E., 356 Yin R. K., 271-3 Young A. W., 413 Yule G. U., 200 Zahavi Amotz, 217 Zahavi Avishad, 217 Zahavi D., 413 Zanetti M.» 326 Zannini L., 26, 30, 35, 37-8, 43» 275-6 Zborowski M., 61 Zeno Zcncovich V., 493 Zilboorg G., 374-5. 38o< 383 Zimmermann J. G., 66-7, 226 Zollinger R. M,, 286, 288

4