L'Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. Il mutamento sociale [2] 9788843071777, 8843071777

Il volume ripercorre la storia italiana degli ultimi trent'anni seguendone le dinamiche sociali, demografiche, migr

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Italian Pages 543 Year 2016

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L'Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. Il mutamento sociale [2]
 9788843071777, 8843071777

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Carocci

@ editore

Il volume ripercorre la storia italiana degli ultimi trent'anni seguendone le di­ namiche sociali, demografiche, migratorie e di genere. Vengono così presi in considerazione i diversi aspetti di una realtà che è stata profondamente cambia­ ta dalla televisione, e nella quale emergono i nuovi problemi della cittadinanza legati alrimmigrazione, quelli del progressivo invecchiamento della popolazio­ ne, dell'indebolimento delle istituzioni della rappresentanza, della chiusura alle donne. Un paese, infine, nel quale le nuove identità generate dai consumi stanno contribuendo a ridefinire la stessa immagine e auto-percezione degli italiani.

Enrica Asquer svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Studi Umanisti­ ci dell'Università degli studi di Torino ed è membro della redazione di "Italia con­ temporanea" e di "Genesis. Rivista della Società Italiana delle Storiche': È autrice per i nostri tipi de La rivoluzione candida. Storia sociale della lavatrice in Italia,

(2007) ed ha curato Famiglie del Novecento. Conflitti, culture e relazioni (con M. Casalini, A. Di Biagio e P. Ginsborg, 2010). Ha inoltre pubblicato Storia

1945-1970

intima dei ceti medi. Una capitale e una periferia nell 'Italia del miracolo economico (Roma-Bari 2011).

Emanuele Bernardi svolge attività didattica e di ricerca presso il Dipartimento di Storia, Culture, Religioni della Sapienza Università di Roma. Collabora con la F ondazione Istituto Gramsci. Tra le sue ultime pubblicazioni: Il mais ''miracoloso".

Storia di un'innovazione tra politica, economia e religione (Carocci 2014), Storia della Confederazione Italiana Agricoltori (con F. Nunnari e L. Scoppola Iacopini, il Mulino 2013) e Riforme e democrazia. Manlio Rossi-Doria dal fascismo al centro­

sinistra (Rubbettino 2010).

Carlo Fumian insegna Storia contemporanea e Storia globale presso rUniversità di Padova. A più riprese Visiting Scholar presso il Center for European Studies delrUniversità di Harvard, ha svolto attività di ricerca anche presso la Columbia University e la Boston University. Tra i suoi ultimi lavori: Verso una società plane­

taria. Alle origini della globalizzazione contemporanea 1870-1914 (Donzelli 2003), Terrore rosso. Dall'Autonomia al Partito armato (con P. Calogero e M. Sartori, La­ terza 2010), Per una storia della Tecnocrazia: utopie meccaniche e ingegneria socia­

le tra Otto e Novecento, in "Rivista storica italiana': 2012.

ISBN

978-88-430-7177-7

Il 1111111

9 788843 071777

€ 36,00

STUDI STORICI CAROCCI

/ 218

lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: I

Carocci editore Corso Vittorio Emanuele II, 2.2. 9 00186 Roma telefono o6 42. 81 84 17 fax o6 42. 74 79 31 Siamo su: http:/ /www.carocci.it http:/ /www.facebook.com/ caroccieditore http:/ /www.twitter.com/ caroccieditore

L'Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi Volume terzo Istituzioni e politica

A cura di Simona Colarizi, Agostino Giovagnoli e Paolo Pombeni

Carocci editore

n volume nasce da ricerche e iniziative svolte da : FONDAZIONE LUIGI EINAUDI AOMA

FONDAZIONE ISTITUTO GRAMSCionlus

PER STUDI DI POUTICA ED ECONOMIA

Il volume è stato realizzato grazie al contributo del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo. Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

DGBID

DIREZIONE GENERALE PER LE BIBUOTECHE, GLI ISTITUTI CULTURAU E IL DIRmO D'AUTORE

ristampa, luglio 20 16 1' edizione, ottobre 2014 ©copyright 2.014 by Carocci editore S.p.A., Roma 1'

Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge ll aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Parte prima Le istituzioni nella transizione

I. 2. 3· 4· 5·

6.

I. 2. 3· 4· 5·

6.



I.

Caduta di sovranità e riforma delle istituzioni in Italia di Piero Craveri

17

Premessa Mutamenti nel rapporto tra sovranità statale e ordinamento giuridico La Costituzione repubblicana e l' «età dei diritti » La riforma del Titolo v della Costituzione e l' insormontabile proble­ ma della forma di governo La crisi del 1992 L' Europa e i vincoli esterni

17 17 20 21 24 27

Il caso, la necessità e una cabina di regia. Come la Repubblica superò la crisi dei primi anni Novanta di Cesare Pine/li

31

Introduzione La controversa presidenza Cossiga Il ruolo della magistratura La presidenza Scalfaro e il governo Amato La presidenza della Repubblica come cabina di regia della transizione La legislazione nel 1989-94 Conclusioni

31 33 37 38 40 43 45

Le Regioni e i governi locali di Carlo Baccetti

47

Premessa. Territorio e politica : la svolta di fine anni Ottanta

47

7

L' ITALIA CONT E M P O RANEA DAGLI ANNI OTTANTA A O G G I

2.

Regioni e governi locali nella trasformazione del sistema politico ita­ liano 2.I. Una nuova centralità politica per le Regioni l 2.2. Nuove competenze

ni per i Comuni e le Province l 2.3. Le nuove leggi elettorali



Dopo il 2oo 1 : verso uno Stato delle autonomie locali 3· 1.



e nuove funzio­

Le nuove policies dei governi locali

La crisi (finanziaria) del disegno autonomistico negli anni Duemila Personalizzazione della politica e professionalizzazione degli eletti l di bilancio e neocentralismo 4.1.



I. 2. 3· 4· S·

6.

I. 2. 3· 4·

57

4.2.

Vincoli

Per (non) concludere

6s

"Tangentopoli": storia e memoria pubblica nella crisi di transizione dell' Italia repubblicana di Maurizio Ridoljì

67

Premessa Dalla questione morale a Tangentopoli 1992, l'anno che cambiò l' Italia Mani pulite: una metafora della crisi nella transizione italiana Un media-evento L'eredità, la dissimulazione

Governo e Parlamento dopo il 1994 di Andrea Manzella

ss

Patto costituzionale e patto di proporzionalità I nuovi equilibri della Repubblica maggioritaria La riforma del Titolo v L'impatto dellagovernance europea

ss 90 92 94

L'amministrazione in mezzo al guado : la difficile sfida delle riforme . . ammtntstratlve di Guido Melis

101

Il Rapporto Giannini e la sconfitta del riformismo amministrativo La lunga stasi degli anni Ottanta Si avanza uno strano impiegato ... La stagione delle riforme: da Cassese a Bassanini

101 104 106 108

.

I. 2. 3· 4·

61

8

INDICE

5· 6. 7·

I. 2. 3·

I primi anni Duemila: il cambiamento contrastato L'esperimento Brunetta (2009- u) Conclusioni

II2 I IS I I7

Politica e sistema bancario tra Prima e Seconda Repubblica di Andrea Guiso

I2I

Dalla politica alle banche (e ritorno ?). Un' ipotesi L' "intreccio,. Stato, politica e banche nella Prima Repubblica (anni Trenta-Settanta) Crisi e trasformazione dello Stato-banchiere (anni Ottanta-2oo7)

I2I I 24 I30

,

Debito pubblico e classe politica: uno sguardo d insieme sulla Prima Repubblica di Paolo De Ioanna I. 2. 3· 4· 5· 6. 7· 8. 9· IO. I I. I2.

Una premessa Che cosa è il debito pubblico ? Revisionismo economico e revisionismo storico Alla ricerca di un controllo effettivo della dinamica dei nostri conti pubblici Il cambio di orizzonte: il "divorzio, Un breve sguardo alle teorie ... ... e ai fatti della macroeconomia La razionalizzazione della forma parlamentare di governo Una programmazione economica mai decollata La svolta del I978 Dopo il "divorzio,, la riforma del I988 , A m o di conclusione

La Repubblica in transizione ( I 9 8 9-94). Debito pubblico e fiscalità: le scelte politiche di Filippo Cavazzuti I. 2. 3·

Linguaggi e pensieri d 'a ntan per il "divorzio, fra Tesoro e Parlamento I governi della prima transizione: fibrillazione politica, otto governi, tre legislature in otto anni Il contesto macroeconomico 9

I4I

I4I I42 I43 I44 I46 I47 I47 I49 ISO ISI IS4 I 57

IS9

I S9

L' ITALIA CONT E M P O RANEA DAGLI ANNI OTTANTA A O G G I

4· 5·

I provvedimenti del 1992-9 3 : punti di svolta della storia fiscale ?

168

4.I. I provvedimenti relativi alle entrate l 4.2. Le scelte della politica delle privatizzazioni

Quali strumenti per il controllo, la gestione e la conoscenza della finan­ za pubblica ?

172

fatto al divorzio di legge l 5.2. L' incertezza dei fabbisogni pubblici sti­ mati l 5·3· Un esempio s.I. Dal divorzio di

6. 7· 8.

Allungando la gittata dello sguardo agli anni successivi Una politica incisiva sul debito pubblico ? Una conclusione che vale anche per l'oggi ? Parte seconda Il tramonto della Repubblica dei partiti Cattolici e politica dalla prima alla seconda fase della storia repubblicana di Agostino Giovagnoli

I. 2. 3· 4· 5· 6.

I. 2. 3· 4· 5·

I. 2. 3·

185

L'unità politica dei cattolici e le sue trasformazioni La crisi degli anni Settanta Da Paolo VI a Giovanni Paolo n Il Partito popolare e la fine dell'unità politica dei cattolici La Chiesa nella Seconda Repubblica La stagione della diaspora

185 188 191 195 198 200

I cattolici democratici e la fine dell 'unità politica dei cattolici di Daniela Saresella

205

La nascita della Lega democratica Verso gli anni Ottanta Cattolici democratici e cattolici integralisti La fine dell'unità politica dei cattolici Verso l' Ulivo

205 211 214 218 223

La D C e la crisi del sistema politico. Temi e personaggi (1989-94) di Emanuele Bernardi

227

Prologo. Frantumazione sociale e riforme 1989: fine del comunismo, vittoria del capitalismo ? Dopo le elezioni del 19 9 2. Il confronto nella D C

227 229 233

IO

INDICE

L'immagine della società italiana nel ceto politico : della Prima Repubblica di Marco Gervasoni I. 2. 3· 4· 5· 6. 7· 8.

PCI

e P S I alla fine

Craxi e Berlinguer: due visioni opposte della società ,, Quale " nuovo P C I r La società degli individui del P S I Il berlinguerismo postcomunista all' inizio della transizione La crisi del P S I nell ' interpretare la società italiana Populismo e giustizialismo Quale Italia dopo il crollo dei partiti: le illusioni della sinistra L' Italia "nuova, del 1994 ..,

Il PCI di Occhetto e le riforme istituzionali. Dalla critica al consocia­ tivismo alla via referendaria di Sandro Guerrieri I. 2. 3·

La svolta istituzionale di Occhetto : l 'obiettivo di una democrazia , dell alternanza Il confronto sulle riforme nel passaggio dal P C I al P D S Il PDS e il tentativo di superare il paradosso kelseniano delle riforme

239 23 9 241 242 244 246 248 249 250

253

253 260 266

Tra sogno e realtà: l "'Unità socialista, nelle carte di Craxi di Andrea Spiri I. 2. 3· 4· 5· 6.

Il "duello a sinistra, La crisi del P C I e la tentazione egemonica craxiana Un dialogo impossibile: Guerra del Golfo e nuove polemiche La questione delle riforme istituzionali La slavina giudiziaria Il fallimento della prospettiva unitaria

269 27 3 277 28 1 284 286

Il PLI nella crisi della Prima Repubblica di Gerardo Nicolosi I. 2. 3· 4· 5·

Premessa Il dibattito sulla forma-partito La percezione della crisi del sistema Il dilemma della partecipazione al governo Conclusioni II

289 29 1 294 29 8 302

L' ITALIA CONT E M P O RANEA DAGLI ANNI OTTANTA A O G G I

Il sistema dei partiti dalla Prima alla Seconda Repubblica di Paolo Pombeni I. 2. 3· 4· 5·

I. 2. 3· 4· 5· 6. 7·

Premessa: sistemi di partito e famiglie politiche 1992: la fine di una lunga stabilità "Religioni civili" e costruzione nazionale La crisi delle grandi famiglie politiche: D C , P C I , P S I Verso la dissoluzione del sistema

3 07 3 10 312 3 19 3 28

Politica e antipolitica dalla Prima alla Seconda Repubblica di Simona Colarizi

333

Populismo, neopopulismo, antipolitica Piazze mediatiche e giustizialismo Mondo economico e protesta antipartitica La nascita della Seconda Repubblica Berlusconismo e antiberlusconismo : la società civile divisa I girotondi La casta e il Vaffa Day

333 33 6 33 9 3 40 3 42 344 34 6

Parte terza Nuovi soggetti politici

I. 2. 3· 4· 5·

I. 2. 3·

La nascita della Lega: un capitolo di una storia che ci appartiene... di Paolo Segatti

351

Premessa La Lega e la rinascita di una mentalità conservatrice Sono gli elettori leghisti an ti-italiani oppure sono italiani come gli altri ? La Lega, ovvero le ragioni del fascino di un'offerta populista Conclusioni

351 352 355 357 359

Nord non chiama Sud. Genesi e sviluppi della questione settentrionale ( 197 3 -201 3 ) di Filippo Sbrana

3 61

Premessa Dalla crisi economica all' insofferenza verso il Sud Le trasformazioni della società postfordista in un sistema politico inerte 12

INDICE



Affermazione della Lega Nord e conseguenze politiche della questione settentrionale Tra vincolo esterno e coesione nazionale. La parabola del governo Ciampi nelle riflessioni e nelle carte del presidente di Umberto Gentiloni Si/veri

I. 2. 3· 4·

3 74

3 83

Il cammino incerto di una lunga transizione Gli anni di Ciampi La "frattura" del 1992 Un nuovo metodo per governare L'antipolitica dei moderati. Dal qualunquismo al berlusconismo di Giovanni Orsina

I. 2. 3· 4· 5·

I. 2. 3· 4· 5· 6.

I. 2.

Premessa Che cos'è il moderatismo an tipolitico ? Il moderatismo antipolitico : dal qualunquismo a Tangentopoli Moderatismo antipolitico e berlusconismo Conclusioni. Il moderatismo antipolitico italiano fra qualunquismo e berlusconismo Forza Italia: un partito unico di Gianfranco Baldini

42 3

Introduzione Perché Forza Italia Tattica e strategie Nuova D C o partito di plastica? Un partito degli eletti Conclusioni

42 3 424 427 429 43 1 4 34

Crisi del paradigma antifascista e retoriche politiche delle nuove destre tra Prima e Seconda Repubblica di Tommaso Baris

43 7

Il paradigma antifascista: genesi e caratteristiche La critica dell 'antifascismo negli anni Novanta : il nesso Resistenza­ Costituzione-parti tocrazia 13

43 7 43 9

L' ITALIA CONT E M P O RANEA DAGLI ANNI OTTANTA A O G G I

3· 4· 5·

I. 2. 3· 4· 5·

I. 2. 3· 4· 5·

La retorica pubblica delle nuove destre: la rivoluzione liberale Al di là della retorica: la destra italiana tra neoliberalismo e populismo Conclusioni

447 450 456

Continuità e discontinuità del discorso anticomunista nella Seconda Repubblica di Andrea Mariuzzo

4 57

Premessa Il discorso anticomunista nell'età repubblicana classica: materiali per una definizione Anticomunismo e fine del comunismo in Italia e nel mondo La produzione dell 'anticomunismo berlusconiano negli anni Novanta Conclusioni

4 57

La Destra alla prova del bipolarismo di Roberto Chiarini

47 1

Introduzione Nella Prima Repubblica: il Movimento sociale italiano e la "zona grigià' Da Alleanza nazionale a Futuro e libertà La Lega Nord Forza Italia Le due ondate di antipolitica di Michele Prospero

I. 2. 3· 4·

I. 2.

L'insorgenza dell 'an tipolitica La prima ondata Una repubblica disancorata La seconda ondata

487 488 497 50 3

Un riformismo incompiuto : il primo governo Prodi di Andrea Possieri

509

Le radici storiche del centro-sinistra Il governo dell ' Europa Indice dei nomi 14

Parte prima Le istituzioni nella transizione

Caduta di sovranità e riforma delle istituzioni in Italia di Piero Craveri

I

Premessa In questo saggio ho inteso mettere a fuoco, rispetto al tema della riforma delle istituzioni, quello preliminare dal quale non si può prescindere e che non inerisce solo allo stato delle istituzioni, ma all'esercizio stesso della funzione politica, analizzato, sotto il primo aspetto, quasi prevalentemente dai giuristi, assai poco dagli storici. Il tema cioè dello sfrangiarsi e ridursi della sovranità, non solo riguardo allo Stato, ma al complesso delle istituzioni della Repubblica. Di questo processo la limitazione della sovranità dello Stato centrale è il fenomeno cardinale, da cui quelli relativi alle altre istituzioni repubblicane, per quanto esse abbiano ampliato i loro poteri, necessariamente procedono. Rispetto a esso riscontriamo cause diverse, d'ordine interno, in parte derivate dallo stesso tumul­ tuoso sviluppo economico e sociale dei sessant'anni che abbiamo alle spalle, sia da deliberate decisioni politico-istituzionali, soprattutto dal modo in cui sono state attuate, e dall' inerzia politica per scelte che non potevano essere ignorate e andavano compiute. Lo stesso dicasi rispetto al secondo ordine di cause, i vincoli esterni, derivanti dall'adesione a trattati internazionali, secondo l'art. I I della nostra Costituzione, che conferisce questa possibilità al governo e al Parlamento, non solo dunque nell'ambito europeo ma mondiale (come oggi si usa dire, con riferimento al mercato "globale"), e i fenomeni che dall'applicazione di tali trattati si sono manifestati come prevedi bili, sebbene spesso non previsti come avrebbero dovuto, ponendo l'imperativo di neces­ sarie modifiche politiche e istituzionali all'ordinamento interno.

2.

Mutamenti nel rapporto tra sovranità statale e ordinamento giuridico Prendo sommariamente le mosse dal tema apparentemente più remoto, quello dell' "ordinamento giuridico", nella sua nozione classica, che ha come archetipo il Codice napoleonico, di ordinamento dei rapporti privati di diritto civile e commer17

P I E RO C R AV E R I

ciale. Secondo una consolidata interpretazione, le "dichiarazioni dei diritti" garanti­ vano le libertà politiche dei singoli nei rapporti con lo Stato, i codici tutelavano le «libertà civili dell' individuo nella sua vita privata contro le indebite ingerenze del potere politic0 » 1• Il codice si configurava dunque come referente primario della «libertà dei moderni » , così come Constant l'aveva teorizzata agli inizi del XI X secolo. Lo Stato si poneva come artefice e garante di questo presupposto : artefice in una stretta concezione positivistica del diritto in cui predomina la volontà della legge; garante della generalità e della certezza dei diritti così enunciati, grazie anche alla sistematicità del codice, fondamento della sua interpretazione, vuoi analogica, vuoi volta a interpretare la volontà del legislatore, e anche l 'impatto di essa sulle strutture organiche della società. L'attenzione non va semplicemente rivolta a com'era questa originaria forma ottocentesca e come non sarà mai più, ma alle modificazioni che sono intervenute e agli esiti ulteriori che quest'ultime postulano. Negli ultimi vent 'anni nella dottrina e nella storiografia giuridical si è fatta acuta la polemica contro questa originaria impostazione positivistica e statalistica dell'ordinamento giuridico. E da notare che tale sistema è entrato in crisi a partire dagli anni Venti del Novecento, dovendo tenersi conto di volontà diverse da quelle dello Stato, cosicché con gli anni Sessanta quel regime originario poteva dirsi quasi del tutto rovesciato. Organizzazioni sociali ed economiche, gruppi, élite, avevano imposto altre regole, fuori dall'ordine prefissato. Ne porta il segno il nostro codice civile del 1942, nato dal tentativo di riassorbire all'interno di una nuova disciplina codicistica queste spinte, almeno così come il regime fascista le aveva interpretate, e che rispetto a quello del I86s, ad esempio, veniva a contrapporre al diritto di proprietà l ' istituto dell' impresa economica, privata e pubblica, apponendo vincoli e finalità nuove all 'esercizio del diritto stesso di pro­ prietà. Polemica dunque tardiva, rispetto ai processi storici già da tempo in atto, ma che propone implicitamente una interpretazione, sul piano storico prima che giuri­ dico, dell'avvento della Costituzione repubblicana. E stata infatti la nuova Costituzione a costituire un punto di riferimento decisivo nel rovesciare interamente l'assetto dell'originario ordinamento giuridico. Introdu­ cendo un insieme di nuovi diritti, abbastanza organico nella sua impostazione di fondo, al di là del criterio del controllo di costituzionalità della legge, ha modificato le modalità di interpretazione dell 'ordinamento giuridico, non più legate ai principi generali che la sistematicità propria del codice proponeva, ma appunto all'insieme dei nuovi diritti costituzionali. In questa nuova dinamica interpretativa dell 'ordina­ mento si è sviluppata una legislazione speciale su più temi, basti pensare al diritto '

'

G. Solari, Filosofia del diritto privato. Individuo e diritto privato, Giappichelli, Torino I 9 S 9· vol. I, pp. S7 ss. 2. Cfr. M. Fioravanti, La scienza del diritto pubblico. Dottrine dello Stato e della Costituzione tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano 200I. I.

18

C A D UTA D I S O V R A N I TÀ E R I F O R M A D E L L E I S T I T U ZI O N I IN I TA L I A

delle locazioni, ai patti agrari, al diritto di famiglia, al diritto del lavoro, e per l'atti­ vità economica alla legislazione di scopo volta a sostenerla e indirizzarla. La "fuga dal codice civile" ha finito così per relegarlo a una funzione residuale. Per questa via si sono andati realizzando vari statuti di gruppi, veri e propri microsistemi, spesso basati sulla negoziazione sociale e politica, cosicché, parafra­ sando l'art. 1 37 2 del codice civile in base al quale il « contratto ha forza di legge tra le parti » , si potrebbe concludere che ora molto spesso è la legge ad avere « forza di contratto ». Si attenua così il principio della generalità della legge, anche nella sua originaria funzione di non creare condizioni particolari di status, inteso questo sempre come privilegio. Dallo status alla legge e dalla legge al contratto, la società compie un passo in avanti verso il pieno riconoscimento del ruolo delle comunità cosiddette "intermedie". Con ciò tuttavia si indebolisce l'uniformità e la certezza del sistema giuridico. Il giudice, al quale venisse affidata la funzione unificatrice, si troverebbe dinanzi a logiche diverse e contrastanti nei confronti delle leggi, né sarebbe in grado di affermare il primato delle clausole generali nei confronti delle leggi, che esprimono anch'esse principi generali, dotati di efficacia regolativa per intere materie o classi di rapporti3•

Ci siamo soffermati su questi aspetti, essendo necessario valutare l'esito di una incli­ nazione non solo di fatto ma anche politico-ideologica, elaborata pure dalla dottrina giuridica, che conduce a porre la funzione interpretativa del giudice in un ruolo determinante rispetto al primato della legge. E l'idea, ritenuta positiva, che il nostro sistema di "diritto civile'', basato sulla legge, possa e debba trasformarsi in un sistema di common law, che cioè si esplica appunto nella centralità della funzione giurispru­ denziale, avente per riferimento primario, nel nostro caso, l'assetto dei diritti costi­ tuzionali. Alla sovranità dello Stato, nella crisi della sua centralità, si contrappone così una « sovranità della Costituzione » \ che evoca la « Costituzione senza sovrano » di weimariana memoriaS, con « il compito di realizzare la condizione di possibilità della vita comune, non il compito di realizzare direttamente un progetto determinato di vita comune » 6• La prima proposizione trarrebbe impulso dai diritti costituzionali e da una loro concreta e continua elaborazione per via giurisprudenziale, costituendo l'elemento unificante di un sistema istituzionale pluralistico a cui è affidata la realiz­ zazione della seconda proposizione, quella che comporta la fissazione degli indirizzi politici, attraverso gli organi legislativi e di governo, ai fini della effettività politica ed economico-sociale degli enunciati diritti. '

3· N. Irti, L'eta della decodificazione, Giuffrè, Milano I 9 9 9, p. 44· 4· G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino I 9 9 2, pp. 6 ss. S· O. Kirchheimer, La Costituzione senza sovrano. Saggi di teoria politica e costituzionale, a cura di A. Bolaffì, De Donato, Bari I9 8 2. 6. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit., p. 9·

19

P I E RO C R AV E R I

3 La Costituzione repubblicana e l' «età dei diritti » Non era così che più di vent 'anni fa Norberto Bobbio teorizzava l' « età dei diritti » 7, che già allora si presentava come un fenomeno emergente di carattere politico-costituzionale. Nella sua elaborazione, prescindendo dai diritti della per­ sona, definiti di prima generazione, quelli seguenti, specialmente i diritti sociali, trovavano il terreno della loro effettività nello sviluppo, avanzato o meno, delle condizioni socioeco nomiche, e non rinviavano dunque pregiudizialmente alla funzione giudiziaria, ma direttamente al risultato delle concrete politiche attuate dal governo e dal Parlamento e piuttosto da queste derivava i presupposti dell 'unità del sistema. A voler porre la questione i n termini di equilibrio tra i classici tre poteri costituzionali, non si può non rilevare una discrasia, se al giudiziario si conferisce una funzione centrale d 'ordine normativo che trae la sua forza fuori da quello che è il principio di legittimazio ne degli altri due poteri, cioè la sovranità popo­ lare, destinata inoltre a prevalere nell 'eventuale conflitto tra di essi. C 'è, del resto, nelle linee di tendenza che abbiamo sopra ricordato, una crescente impronta giusnaturalistica, anzi più propriamente, per il carattere antologico che assumono queste riflessioni, l 'accostamento a una nozione neotomistica del diritto naturale8, che necessariamente è presuppo sto del ruolo normativo della funzione giuri sdi­ zionale. Partendo, tra l'altro, proprio dalla riflessione di Bobbio, Stefano Rodotà ha dato a essa una dimensione assai più ampia. Nella sua analisi, l 'età dei diritti vede più soggetti, in sede nazionale e internazionale, concorrere alla domanda e all ' af­ fermazione di nuovi dir i t ti e, «per cogliere il filo che li lega » , essi si rifanno ai principi di « dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia » 9• La tesi di Rodotà ha impianto storicistico e in quanto al problema della produzione normativa si pone dunque su di una pregiudiziale positivistica. Alla pluralità dei soggetti proponenti rispondono più fonti normative e modalità di esecuzione, in cui la funzione giurisdizionale assume necessariamente un ruolo centrale e quindi i fenomeni che descrive hanno una pregnante rilevanza anche per un approccio sociostorico. C 'è inoltre, nell 'appassio nata analisi di Rodotà, una riflessione di principio, pregiudizialmente politico-istituzionale, per cui la produzione di nuovi diritti si pone come la conseguenza e insieme l'antidoto rispetto alla produzione normativa che il mercato opera a sua volta in modo pressoché incontrollato, tanto 7· N. Bobbio, L'eta dei diritti, Einaudi, Torino I 9 9 0, pp. X IV ss. 8. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit., p. 82. 9· S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 20I2, p. 20

S I.

C A D UTA D I S O V R A N I TÀ E R I F O R M A D E L L E I S T I T U ZI O N I IN I TA L I A

più il mercato globale, con profondità e con effetti laceranti sull'assetto delle società contemporanee, cosicché la domanda dei diritti viene a corrispondere all'u­ nico effettivo spazio politico possibile. Governo e Parlamento restano così, in questa analisi di Rodotà, ai margini del contesto costituzionale, costretti dal pro­ gressivo svuotarsi dei loro poteri sovrani. L'impronta giusnaturalistica che abbiamo più sopra ricordato, ambiguamente si connette poi a un altro rilevante fenomeno in atto, quello dell'influenza che nel nostro ordinamento va assumendo il riferimento alle carte dei diritti degli organismi internazionali a cui l' Italia ha aderito, in particolare a quella dell' Unione Europea e la connessa attività giurisprudenziale delle stesse corti europee. Si aggiunga a ciò « il dovere del giudice comune di applicare sempre le norme comunitarie » 10 e come esso trovi un limite costituzionale, secondo la giurisprudenza della Corte costitu­ zionale, solo rispetto ai principi fondamentali della Costituzione e dei diritti invio­ labili dell 'uomo, limite che tuttavia nella prassi non comprende numerose norme della prima parte della nostra Costituzione, in particolare molti dei diritti socioe­ conomici, come vedremo in tema di regole che presiedono al funzionamento del mercato.

4 La riforma del Titolo v della Costituzione e l' insormontabile problema della forma di governo Va dunque riconsiderata la centralità delle norme costituzionali che presiedono ali 'ordinamento della Repubblica, in particolare ai suoi organi esecutivi ed elettivi, nonché le modificazioni che a esse sono state apportate nel corso dei decenni. E utile ricordare a riguardo che la nostra Costituzione è oggi, escluso il caso della Gran Bretagna, la più vecchia d' Europa. Essa si giova tra l'altro di un 'impostazione accentuatamente pluralistica. Accanto allo Stato si pongono le Regioni, ordinarie e a statuto speciale, come istituzioni primarie, rispetto a Province e Comuni e alle altre istituzioni previste da leggi ordinarie e dalla Costituzione stessa. L'unica riforma incisiva che sia stata apportata è quella del T itolo v della seconda parte della nostra Costituzione, la cosiddetta riforma Bassanini, che ha accentuato l' im­ pronta pluralistica della Costituzione, basti pensare a come recita il comma 1° del riformato art. 114: « La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato » . C 'è qui un 'evidente inversione d 'ordine volta a rafforzare non solo il pluralismo istituzionale del nostro ordina­ mento, ma a introdurre surrettiziamente il principio di una democrazia ascendente '

V. Onida, Lefonti del diritto, in G. Amato, A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto pubblico, il Mulino, Bologna I984, vol. I, pp. 208 ss. IO.

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dal basso, pur sempre mediata dalle oligarchie che compongono necessariamente un sistema politico. Lo stesso criterio di inversione è dispiegato dalla nuova formulazione dell 'art. 1 1 7 che a differenza della normativa precedente non enuncia i poteri delle Regioni, ma quelli dello Stato, distinguendoli in poteri esclusivi e concorrenti rispetto a quelli regio nali, e alle Regioni « spetta la potestà legislativa in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato » , compresi dunque i poteri residuali che, giova ricordarlo, hanno presieduto nel corso dei decenni passati al continuo ampliamento dei poteri dello Stato in materie diverse. Il testo costituente e le leggi costituzionali che hanno introdotto il sistema delle Regioni ordinarie prevedevano una legislazione regionale, su materie definite dal testo costituzionale di natura elusivamente concorrente, con conseguente con­ trollo costituzionale da parte dello Stato che si effettuava prima della promulga­ zione della legge regionale. Nell'attuale regime costituzionale c 'è un 'equiparazione tra legge di tipo statale e regionale e « i limiti comuni alla potestà legislativa eser­ citata dallo Stato e dalle Regioni [ .. ] sono il rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall 'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali » 11• Se si aggiunge il margine di incertezza che segna necessariamente « l 'esatta indivi­ duazione degli ambiti delle materie elencate » , si intende l'accentuarsi del conten­ zioso per conflitto di competenza presso la Corte costituzionale che segna conside­ revolmente, nell'ultimo decennio, i lavori di quest 'ultima, a proposito dei quali merita segnalare l 'importante sentenza 3 0 3 /200 3 in materia di infrastrutture e insediamenti produttivi strategici, a favore dello Stato. Del resto un unico vincolo esplicito è apposto all'attività legislativa regionale, con l'art. 1 20, in materia di dazi di importazione ed esportazione e di ostacoli alla libera circolazio ne delle persone e delle cose tra le Regioni, così come il divieto alla limitazione del diritto al lavoro. Siamo per certi aspetti oltre un sistema di autonomie, quale originariamente delineato dalla Costituzione, così quasi da implicare una riflessione sulla forma di Stato. Ci siamo avvicinati a una forma di Stato federale ? Fino alla riforma Bassanini il giudizio corrente era che il sistema delle autonomie, in particolare l' istituto regio­ nale, si era sviluppato in modo distorto•\ per l'occlusione determinata dal sistema dei partiti, cioè dalla allora vigente costituzione materiale della Repubblica•3• E un punto sul quale più distesamente dobbiamo tornare. L'attuale disciplina, come si è .

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F. Modugno, A. Celotto, M. Ruotolo, Aggiornamenti sulle riforme costituzionali (1ggS-2ooS), Giappichelli, Torino 2008, pp. 53 ss. 12. L. Paladin, Per una storia costituzionale dell'Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2004, pp. 239 ss. 13. E. Cheli, La riforma mancata. Tradizione e innovazione nella Costituzione italiana, il Mulino, Bologna 2000, pp. 95 ss.; E. Rotelli, Riforme istituzionali e sistema politico, Edizioni Lavoro, Roma u.

1983.

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accennato, nell' indirizzo generale accentua i poteri dell'autonomia regionale fino a un limite massimo con un congegno in cui non mancano le aporie e le contraddizioni. Mancano inoltre due fattori, l'autonomia finanziaria e fiscale e l'inserimento orga­ nico dei nuovi poteri nelle istituzioni centrali della Repubblica (come prevedeva la riforma costituzionale del centro-destra che nel 2007 non ebbe la definitiva sanzione del voto referendario) . Siamo sulla soglia di un' ipotesi federalistica, senza averla varcata•4 .. E singolare constatare che il legislatore sia intervenuto attorno alla forma di Stato e assai poco abbia fatto in relazione alla forma di governo, il più antico dei problemi costituzionali, già emerso nella prima Legislatura. Poiché non c 'è dubbio che la legge maggioritaria del 1953, con il suo ampio premio di maggioranza, come acutamente obiettò Togliatti a De Gasperi nel suo intervento parlamentare•s, puntava anche a determinare la maggioranza parlamentare necessaria per intervenire, in sede di riforma costituzionale, secondo le modalità previste dalla Costituzione, per modificare il rap­ porto tra legislativo ed esecutivo, rafforzando poteri e procedure di quest'ultimo, dando maggiori poteri al premier nell'ambito del Consiglio dei ministri e, quanto al procedimento legislativo, attenuando le procedure cogenti generate dal sistema bicamerale. L'esito delle elezioni del 1953 ebbe l'effetto di congelare ogni modifica della forma di governo per il trentennio successivo•6 e offrì un tema di riflessione a minoranze accademiche e politiche, fino a che Craxi nel 1979 non lo gettò prepotentemente sul tavolo, proponendo quella che designava come la « grande riforma » 17• L'idea di Craxi aveva questo di peculiare, che postulava un sistema di alternanza•8, senza che egli ne indicasse le modalità di attuazione dal punto di vista politico. Veniva così a mancare a esso il consenso di un blocco politico omogeneo su questo obiettivo, senza il quale, come anche l 'analisi storica comparata di questi problemi ci insegna, diventa impos­ sibile attuare una riforma costituzionale. L'azione politica e di governo di Craxi tendeva a modificare l'equilibrio politico esistente, mettendo in discussione quella che era stata fino ad allora la costituzione materiale della Repubblica, ma con ciò non apriva la strada a una riforma del testo costituzionale. Nell' inerzia di tutte le altre forze politiche, emerse l' iniziativa di De Mita, allora segretario della D C . Varò anch'egli un progetto di riforma volto a normativizzare le regole non scritte della costituzione materiale, così come erano andate svolgendosi fino agli anni dei governi •

G. Miglio, Una costituzione per i prossimi trent 'anni. Intervista sulla terza Repubblica, Laterza, Roma-Bari I990. IS. P. Togliatti, Discorsi parlamentari, Camera dei deputati, Roma I984, p. I24. I 6 . G. Quagliariello, La legge elettorale del 1953, il Mulino, Bologna 2003. I7. S. Galeotti, Alla ricerca della governabilita, Giuffrè, Milano I983. I8. G. Amato, Una Repubblica da riformare. Il dibattito sulle istituzioni in Italia dal 1975 a oggi, il Mulino, Bologna I980. I4.

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di unità nazionale19• Il suo dilemma era lo stesso di Craxi, ossia quello di stabilizzare l'esecutivo ai fini della governabilità, anche se rovesciato di segno, perché si risolveva in una riforma che avrebbe dovuto irrigidire costituzionalmente gli equilibri esistenti, e ciò in contrasto con almeno una parte della maggioranza di governo e incorrendo così nello stesso limite politico della riforma preconizzata da Craxi. Nel diluvio di discussioni e propositi, anche in sede istituzionale, che seguì la proposta del leader socialista, queste di Craxi e De Mita sono le uniche due prese di posizione che siano state accompagnate da effettiva volontà politica e su cui dunque merita fermare l'attenzione, per constatare anche la sostanziale non predisposizione del sistema politico a un mutamento della forma di governo. Di tutto ciò rimasero alcune modifiche significative ai regolamenti parlamentari per iniziativa socialista, soprattutto l'abolizione del voto segreto, in particolare nelle votazioni delle leggi finanziarie ( il primo maxiemendamento è del 199 1 e porta la firma di Carli, ministro del Tesoro nell'ultimo governo Andreotti), ed è quanto dal punto di vista istituzio­ nale si è fatto per affrontare il tema della moneta unica, che proprio allora era oggetto di un faticoso negoziato.

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La crisi del 1 9 9 2 Ma il cambiamento radicale di questo sistema si ebbe con la crisi del 1992. Crollò allora la costituzione materiale della Repubblica, basata sul sistema dei partiti, la Repubblica dei partiti appunto, che aveva integrato il testo della Carta costituzionale del 1947 e anche, per molti versi, modificato gli assunti originari. La costituzione materiale, come è largamente noto, è nozione che nasce dalla costruzione dottrinale elaborata da Costantino Mortati negli anni Trental.o, per dare una spiegazione giuri­ dicamente plausibile della sovrapposizione dell'ordinamento fascista, in particolare del ruolo che svolgeva in esso il PNF, allo Statuto albertino, che rimaneva formal­ mente in vigore. Negli anni Cinquanta riprese il tema, applicandolo al rapporto tra la democrazia italiana e il suo sistema politico2.1• Qui la questione aveva uno svolgi­ mento più complesso, perché i principi democratici su cui era fondata la Carta costituzionale non erano in discussione. La forma di governo della nuova Costitu­ zione aveva carattere assembleare e questo era un suo limite intrinseco. Tuttavia, essendo bloccato il sistema di alternanza, eretta una clausola ad excludendum verso

19. Cfr. i saggi raccolti in R. Ruffilli (a cura di), Materiali per la riforma elettorale, il Mulino, Bologna 1987. 20. C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Giuffrè, Milano 1942. 21. Id., Costituzione della Repubblica italiana, in Enciclopedia del diritto, vol. XI, Giuffrè, Milano 1962.

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una parte della sinistra, in particolare verso il Partito comunista, per cogenti ragioni d 'ordine ideologico e internazionale, ciò determinava una torsione del sistema poli­ tico che costruiva l 'asse del suo interno equilibrio, pregiudizialmente al di fuori della dinamica parlamentare, il che costituiva la base della nuova costituzione materiale. Il rapporto tra questi suoi elementi costitutivi mutò nel tempo, dal centrismo al centro-sinistra, dalla crisi di quest 'ultimo alla fase consociatival\ fino al tentativo ultimo di Aldo Moro, attraverso l 'esperienza di unità nazionale, di raggiungere un grado condiviso di legittimazione delle maggiori forze politiche, per passare a un sistema nuovo di equilibrio politico, inevitabilmente alternativisticol3• L'interpretazione in senso materiale del nostro ordinamento costituzionale ebbe dunque successo e divenne un riferimento scontato nella giuspubblicistica. L'aspetto più difficile e controverso, ma ineludibile, stava nel cogliere i nessi ulteriori della formula, tra partito, sistema dei partiti, Parlamento e governo, pubblica amministra­ zione e interessi corporati e diffusi della società, su cui non mancano tra l'altro numerose e pertinenti ricerche storiche, economiche e sociologiche. Questa interpretazione corrente fu investita dunque da polemiche, tra le quali la più rimarchevole e di lungo corso è stata quella antipartitocratical\ che coglieva un problema di principio per negarne le ragioni storiche e postulava un ruolo dei partiti che non corrispondeva alla loro natura, almeno dei maggiori, quali grandi organiz­ zazioni legate capillarmente, secondo modalità loro proprie, alla societàl5• Apparten­ gono alla stessa deriva antipartitocratica le iniziative referendarie di Mario Segni sul regime elettorale e dei radicali sul finanziamento pubblico dei partiti e altri aspetti, che contribuirono a indebolire il vecchio sistema, vi aprirono anzi giustificate faglie, senza indicare tuttavia, per il loro carattere di mero principio e con ciò sostanzial­ mente antipolitico, una via d'uscita. La crisi politica del 1992 spazzava i presupposti stessi della costituzione materiale, ch'era poi la sostanza politico-istituzionale stessa della Prima Repubblica. Non c 'erano più i partiti, nella forma in cui si erano contraddistinti, anche a sinistra, dove le vicende giudiziarie non intaccarono l'assetto del partito o dei partiti che la com­ ponevano, ma dove non erano sufficienti le riflessioni della Bolognina, per innovare e far transitare la vecchia forma-partito e, come si vide in seguito, per approdare a una compiuta idea nuova di partito. A questo punto, tuttavia, la consapevolezza della necessità di una riforma costitu22. P. Craveri, La Repubblica dal 195S al 1992, in Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, vol. XXIV, UTET, Torino I 995, pp. 340 ss. 23. Cfr. l ' intervista del I 8 febbraio I 978 ad Aldo Moro in E. Scalfari, Interviste ai potenti, Mon­ dadori, Milano I 99I, pp. 203 ss. 24. Cfr. l 'esauriente lavoro di E. Capozzi, Partitocrazia. Il regime italiano e i suoi critici, Guida, Napoli 2009. 25. G. Pasquino, Restituire lo scettro al principe. Proposte di riforma costituzionale, Laterza, Roma­ Bari I985, pp. 78 ss.

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zionale entrò a far parte degli imperativi inevitabili delle forze politiche6• Fu un lungo e non esaurito apprendistato. Le proposte erano varie e contraddittoriel7 e si poneva inoltre il problema del modo con cui procedere a una riforma costituzionale, per cui di contro alla procedura dell'art. 138 della Costituzione, che definisce il suo carattere "rigido", si ventilò da più parti l'idea di una nuova Assemblea costituente, la cui effi­ cacia può dare esiti diversi se le forze politiche che la compongono non hanno almeno un denominatore comune di convergenzal8• Ed era appunto ciò che ancora mancaval9• C 'è a questo punto da domandarsi perché, in più di un quindicennio di discus­ sioni, l'unico sostanziale approdo del tema della riforma costituzionale abbia riguar­ dato la forma di Stato, con l'ampliamento dell'autonomia regionale fino al limite di un' ipotesi federalistica, e non quello della forma di governo ? Una risposta ci viene dagli esiti della Commissione bicamerale presieduta da Massimo D'Alema nel 199730• I progetti, formulati in sede di governo e comunque politica o da commissioni parlamentari, che si erano accumulati negli anni, punta­ vano tutti a una razionalizzazione del sistema vigente, rafforzando l 'esecutivo e semplificando il processo legislativo, con l'eccezione delle elaborazioni socialiste che contemplavano l'elezione diretta del presidente della Repubblica o del capo dell 'ese­ cutivo. I progetti di riforma presentati alla Commissione bicamerale furono 186 e si rifacevano a tutti i possibili modelli costituzionali esistenti. La discussione inclinò poi su due livelli, uno centrato sull'asse parlamentare (modello Westminster o can­ cellierato alla tedesca) , l'altro presidenziale o semipresidenziale (modello americano o francese) . L'esito della Commissione fu quello di un modello presidenziale tempe­ rato, cioè un compromesso tra le due sponde, in cui era presente anche l' ipotesi federalistica31• Un modello debole che risolveva alcuni problemi, creandone altri, specie riguardo alle prerogative commiste attribuite al capo dello Stato, che si voleva eletto dal corpo elettorale, e a quelle previste per l'esecutivo. Non giova in questa sede insistere sull'analisi di quel testo, che non ebbe poi seguito per il successivo suo disconoscimento da parte della destra, salvo constatare che la discussione da cui nacque e lo stesso compromesso di cui era intessuto pale­ savano due opposte linee di tendenza, quella della sinistra per rafforzare un'ipotesi di governo parlamentare, quella della destra per una repubblica di tipo presidenziale,

26. P. Scoppola, La Costituzione contesa, Einaudi, Torino 1998, pp. 48 ss. 27. Per una raccolta dei vari progetti di riforma istituzionale, cfr. A. Cariola ( a cura di ) , I percorsi delle riforme. Le proposte di revisione costituzionale da Bozzi a D :Alema, Libreria editrice Torre, Catania 1997· 28. F. Lanchester, L'innovazione istituzionale nella crisi di regime, Bulzoni, Roma 1996. 29. Cfr. G. Rebuffa, La Costituzione impossibile. Cultura politica e sistema parlamentare in Italia, il Mulino, Bologna I99S· 30. M. D'Alema, La grande occasione. L'Italia verso la riforma, Mondadori, Milano 1997. 31. G. Cotturri, La transizione lunga. Il processo costituente in Italia dalla crisi degli anni Settanta alla Bicamerale e oltre, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 124 ss.

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e queste due divergenti opzioni si sono rafforzate nel tempo e costituiscono l'attuale stato dell'arte. Il governo di centro-sinistra, come si è visto, procedette poi ad attuare solo la parte relativa all'autonomia regionale, giusta anche la posizione centrista che allora teneva la Lega Nord, prima della sua opzione più che decennale per il centro­ destra. La Lega seppe fare valere la sua posizione di forza come ago della bilancia della maggioranza parlamentare, sia con il centro-sinistra sia con il centro-destra. L'unico governo che si sottrasse a questa presa, per l'esito elettorale da cui nasceva, fu il n governo Prodi, la cui fragile maggioranza non ebbe poi la consapevolezza della responsabilità e della grande occasione a cui era chiamata. Possiamo per il futuro configurare una Repubblica senza partiti ? Ciò riguarda soprattutto il centro-destra che ha convogliato su di sé per un ventennio gran parte dell'area moderata del paese, cioè quella che per un cinquantennio aveva costituito le maggioranze della Prima Repubblica. La leadership di Berlusconi ha caratteri anomali, storicamente noti. Essa non vale neppure come precedente per costruire una forza politica che abbia le caratteristiche di un partito. Del resto anche la linea di tendenza presidenzialistica della destra ha come riferimento la pretesa di una leadership senza partito. E da notare che questi ultimi vent 'anni non sono stati terreno fertile, a sinistra come a destra, salvo alcuni casi di antipolitica e a parte quello di Berlusconi, per far nascere naturalmente delle leadership3l. A sinistra il sistema delle primarie, qualora fosse regolato, com'è nelle democrazie che lo adottano, è d 'altra parte lo strumento democratico per legittimare una leadership che a priori non può essere presunta. Ora una Repubblica, che non si basi su di una profonda­ mente rinnovata forma-partito, difficilmente può conferire alla sua forma-governo la stabilità necessaria ai complessi compiti del presente33• '

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L'Europa e i vincoli esterni Una navicella così instabile e precaria, da un punto di vista politico e istituzionale, ha la forza necessaria per affrontare il mare aperto della globalizzazione e del sistema europeo a cui si è legata con vincoli strettissimi ? Su questo terreno pesa inoltre in modo considerevole la perdita di sovranità, sempre più una "sovranità limitata", che già sul finire degli anni Sessanta, pur con segno diverso naturalmente, Rosario Romeo considerava non diversa da quella dei paesi dell ' Est europeo34•

M. Calise, Il partito personale, Laterza, Roma-Bari 2004. 33· M. Luciani, Governo {forme di), in Enciclopedia del diritto. Annali, vol. III, Giuffrè, Milano 20IO, pp. 538 ss. 34· R. Romeo, Nazione e nazionalismi dopo la seconda guerra mondiale, in Id., Italia mille anni. Dall'eta ftudale all'Italia moderna ed europea, Le Monnier, Firenze I98I, pp. I6 9-2I9. 32.

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La "costituzione economica" attualmente in vigore è in completa antitesi con quella designata dalla nostra Carta costituzionale il cui punto focale sta negli artt. 4 1 e 4 2. La nostra Corte costituzionale, come già si è accennato, ha mostrato una lar­ ghissima apertura rispetto alle norme che recepivano nell 'ordinamento interno il diritto comunitario (molto più circostanziata in materia la Corte costituzionale della Repubblica Federale della Germania) . Nei citati articoli della nostra Costituzione l'iniziativa economica privata è dichiarata libera, la proprietà a sua volta garantita è riconosciuta dalla legge, ma ad ambedue si appongono qualificazioni e vincoli che postulano una concezione dirigistica e statalistica della costituzione economica. La libertà così enunciata è, come si dice, di carattere verticale, designa la potestà dei soggetti che ne fanno uso, non attiene all 'aspetto intersoggettivo, cioè orizzontale, della libera concorrenza che sta alla base dei trattati europei. La disciplina europea riguarda inoltre un mercato che è, rispetto alla sovranità dello Stato, di carattere extraterritoriale. Viene con ciò meno, o meglio si trasfigura un elemento compositivo fondamentale della sovranità. L'ordine di mercato europeo (i mercati sono di carat­ tere "artificiale", cioè normativa, che può essere insufficiente e lacunoso, ma mai "naturale") ha un evidente e forte carattere liberistico, che si è imposto al nostro sistema fin dai Trattati di Roma del 1957, per poi accentuarsi con l 'Atto unico e con il Trattato di Maastricht35• La classe dirigente italiana non è stata interamente consapevole di questo radi­ cale mutamento di logica politico-istituzionale. Già i Trattati di Roma postulavano in più materie un necessario e pronto adeguamento che non c 'è stato36• La legge antitrust, ad esempio, è assai tardiva, del 199 1, e la sua disciplina è affidata a un'au­ torità indipendente, non allo Stato. Il potere dello Stato in questo contesto non è necessariamente residuale, postula il controllo normativa e amministrativo dei mercati, anche se sotto il primo aspetto in Italia è ora prevalentemente esercitato dalle istituzioni dell' Unione Europea. Lo sforzo che è stato fatto è consistito non nell 'adeguarsi al mercato europeo, ma prevalentemente nel proteggere imprese pub­ bliche e private, spezzoni molteplici e vari della società, in una capillare rete di microcorporativismi, proprio dal mercato europeo e dalle sue regole, o all'ombra di esse. Una sorta di "protezionismo internalizzato", come aveva notato Giuliano Amato già negli anni Settanta37, riducendosi a ciò l 'originario impulso dirigista e statalista. Prima o poi era inevitabile che dovesse venire una ventata thatcheriana, di cui cogliamo oggi il segno. E quel sistema faceva perno sui partiti che provvedevano alla sua interna media-

3S· N. Irti, L'ordine giuridico di mercato, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. I I ss. 36. Cfr. G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di E. Scalfari, Laterza, Roma-Bari 1975. p. 71. 37· G. Amato, Introduzione, in Id. (a cura di), Ilgoverno dell'industria in Italia, il Mulino, Bologna 1972. 28

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zione, attraverso molteplici strumenti economici che oggi non sono più disponibili. Questi si sono indeboliti nella raccolta capillare del consenso e non sono più in grado di svolgere alcuna mediazione utile ali' interno del sistema. Il ruolo della magistratura in Italia ha preso poi a sovrastarli, nella caduta della legalità, che è propria di tutta la società nel suo insieme ma trova nei comportamenti delle forze politiche e nella gestione delle pubbliche istituzioni il terreno assai diffuso per il suo manifestarsi. Ora un contesto, come quello italiano, privo di un sistema politico solido ed equili­ brato, che a sua volta non trovava né in quello economico, né in quello finanziario, per la crescente debolezza di entrambi, e tantomeno nella molteplicità dei suoi microsistemi socioeconomici, punti di mediazione ed equilibrio, ha grande difficoltà a riassettarsi38• L'adesione alla moneta unica ha messo ulteriormente a nudo la gravità di questi processi e la mancata loro risoluzione. Guido Cadi rappresentò autorevolmente il governo italiano, come ministro del Tesoro dell 'ultimo governo Andreotti, nella lunga e difficile trattativa conclusasi a Maastricht. A lui si devono quegli spiragli, nelle pieghe del Trattato, che permisero all' Italia di aderirvi39• Era consapevole dello sforzo assai impervio che avrebbe conseguito il nostro ingresso nell 'euro e sostanzial­ mente contrario a questo esito, ma vi collaborò lo stesso con impegno, intensamente, tenendo d'altra parte conto del pericolo che altrimenti l' Italia, per congenito difetto delle sue classi politiche, sarebbe potuta incorrere in un default di tipo argentino40• I vincoli di bilancio del Trattato di Maastricht sono contrassegnati dai limiti apposti all'ammontare del deficit e del debito e al controllo del tasso d'inflazione interno. Questi parametri furono violati da tutti i partner europei durante la crisi del 2007, a riprova che il deficit spending di keynesiana memoria è una ricetta essenziale in fase di depressione (abbiamo di recente introdotto nella nostra Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio prescrittoci dall ' Unione Europea : Luigi Einaudi saggiamente si era accontentato del comma 4° dell 'art. 81, anche se poi questo è caduto rapidamente in desuetudine, come potrebbe accadere per la nuova disposi­ zione costituzionale). Dalla data di ingresso dell ' Italia nella cosiddetta terza e ultima fase dell 'euro, che con Ciampi, nel 1997, riuscì a fatica a realizzare, poco si è fatto, fino al 2o12, per adeguarsi al nuovo corso monetario e alle sue conseguenze. C 'è stato solo un altro ministro del Tesoro che ha avuto poi piena consapevolezza di che cosa comportasse l'appartenenza alla moneta unica per l' Italia, Padoa-Schioppa, con il n governo Prodi. Impostò infatti in questo senso i bilanci 2oo6 e 20 07, finendo tuttavia con il mettere in crisi la sua stessa maggioranza di governo. Tremonti, che

3 8. M. Calise, La Costituzione silenziosa. Geografia dei nuovi poteri, Laterza, Roma-Bari I998. 3 9· P. Craveri, Carli senatore e ministro: cronache di un 'odissea italiana, in Id. ( a cura di ) , Guido Carli senatore e ministro del Tesoro, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. IX-CXI. 40. G. Cadi, Cinquant'anni di vita italiana, con la collaborazione di P. Peluffo, Laterza, Roma­ Bari I993· p. 4I6.

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gli successe, cercò di attenersi alle premesse poste dal suo predecessore, pur essendo ministro del Tesoro di un governo che non intendeva tenerne conto e aveva tutt'altro in mente. Non fu così in grado di affrontare l' impatto della crisi dell 'euro dopo il caso della Grecia e di fronteggiare i nuovi vincoli di bilancio che l' Unione Europea aveva prescritto agli Stati membri della moneta unica. Fu poi il governo Monti a farlo, delegato a ciò dall ' intero sistema politico che non intendeva assumersi in pro­ prio direttamente quelle responsabilità di governo. L'euro per stabilizzarsi segue le regole del Trattato di Maastricht, di cui soprat­ tutto i tedeschi sono severi tutori, traendone i maggiori vantaggi. L'Italia deve necessariamente adeguarsi, per quanto riguarda il suo ordinamento interno, alle soluzioni politico-economiche che tutto ciò comporta. L'euro è il frutto di una scommessa temeraria e le classi dirigenti europee la concepirono venticinque anni fa, spingendo la linea funzionalista, la quale fino ad allora aveva presieduto alla progres­ siva integrazione europea, oltre i limiti istituzionali possibili. Allora l 'idea era che l'unione politica sarebbe stata un traguardo parallelo a quella monetaria. Ora risulta chiaro che l' irrimediabile errore fu di non farla precedere. Il Trattato di Maastricht ha coinciso pressoché in tutto con l' impostazione economico-monetaria tedesca. A seguire nel dettaglio quel negoziato è facile rendersi conto di ciÒ41• La B C E non ha le caratteristiche piene di una banca centrale. Vedremo se potrà operare oltre questo limite. Vedremo anche, dopo il deludente approdo del Consiglio di Lisbona, quali passi avanti si faranno per l'Europa politica. Intanto ilfiscal compact, l'unione bancaria e altri provvedimenti di cui si discute riducono progressivamente la sovranità degli Stati membri. Gli attriti che la crisi dell 'euro comporta sono di tale natura da far riflettere sul fatto che, non essendo l' Unione Europea un'istituzione democratica, ma politico-burocratica, una confederazione, non una federazione di Stati, nella debolezza delle nostre interne strutture democratiche, non mette solo in discussione la sovranità dello Stato, ma la stessa indipendenza e di conseguenza l'unità nazionale.

41. K. Dyson, K. Featherstone, The Road to Maastricht and Monetary Union, Oxford University Press, New York 1999, p. 490. 30

Il caso, la necessità e una cabina di regia. Come la Repubblica sup erò la crisi dei primi anni Novanta di Cesare Pinelli

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Introduzione Dalla seconda metà della x Legislatura ( 1987-92) alla fine dell' xr ( 1 99 2-94) si con­ suma una fase convenzionalmente designata di "transizione" della Repubblica. Oltre al crollo del Muro di Berlino, con le notissime ricadute interne, risalgono in effetti al 1989 la costituzione della Lega Nord, l'annuncio di Mario Segni della raccolta di firme per il referendum in caso di mancato esame della sua proposta di riforma elettorale, la trasformazione di un capo dello Stato fino ad allora prudentissimo, la lettera in cui il presidente della Commissione antimafia Gerardo Chiaromonte avverte Cossiga che « la mafia ha vinto » , dopo averne dimostrato la strutturazione in stato parallelo1• Sono altrettanti detonatori della bufera che esploderà con la seria minaccia di un collasso finanziario dello Stato e con Tangentopoli, fino a condurre nel 1994 all 'avvio di un sistema politico quasi del tutto nuovo negli attori e nel funzionamento. Questi elementi dimostrano già quanto complesso sia l'intreccio fra le variabili in giuoco anche sul piano istituzionale. Ma a chi cerchi di decifrare il quinquennio 1989-94 si presenta soprattutto una seconda difficoltà. L'estrema precarietà del quadro politico e delle prassi istituzionali successive, che induce inevitabilmente a risalire al grumo di controversie scoppiate durante la transizione. Del resto, al termine del mandato di presidente della Camera, Giorgio Napolitano parlerà di « transizione incompiuta » \ e non si può negare che i fattori di incertezza da allora accumulatisi siano divenuti più significativi del mero consolidamento del bipolarismo . E vero che, se ci riferiamo al discorso pubblico anziché a contributi scientifici, non manca una narrativa dominante. Solo che questa appare fuorviante, anche in ordine alle ragioni del mancato compimento della transizione. Muovendo dal presup..

1. V. Bufacchi, S. Burgess, L 'Italia contesa. Dieci anni di lotta politica da mani pulite a Berlusconi, Carocci, Roma 2002, p. 40. 2. G. Napolitano, Dove va la Repubblica. 1992-94: una transizione incompiuta, Rizzoli, Milano 1994· 31

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posto, innegabile, che il sistema politico sia stato allora investito da mutamenti strut­ turali, quella narrativa arriva rapidamente alla conclusione che si sia così aperta una divaricazione fra "Costituzione materiale" e "Costituzione formale" e che questa vada ora adeguata a quella. A parte ogni possibile rilievo sull 'uso di "Costituzione mate­ riale", il disegno normativa delle istituzioni, o "Costituzione formale", si riduce in tale maniera a una componente inerte, in grado solo di recepire passivamente la "sostanza", che consisterebbe nella decisione politica, e quindi insuscettibile di produrre a sua volta effetti sui processi decisionali. L'idea che, mutato un certo assetto di potere, la "forma" debba semplicemente adeguarsi al mutamento della "sostanza" è frutto di un grossolano riduzionismo, che sottovaluta quanto i congegni della forma di governo concorrano a modellare l'andamento dei rapporti politici, e addirittura ignora il ruolo delle istituzioni di garanzia, di cui non accanimenti formalistici ma le vicende seguite al quinquennio in esame continuano a dimostrare la cruciale incidenza. In particolare, l' ipotesi che il quinquennio abbia preparato nientemeno che una "Seconda Repubblica" presuppone che il ruolo dei partiti dalla Costituente agli anni Ottanta sia stato in grado di assorbire quello di tutte le altre istituzioni, e di incarnare in via esclusiva i principi dell'ordinamento costituzionale instaurato nel 1948. Per giunta, così si accredita paradossalmente il sistema dei partiti come l'asse esclusivo del mutamento anche per il futuro, nel segno di una straordinaria continuità con­ cettuale e di una cattiva retorica, purtroppo non adeguatamente contrastata neanche dai costituzionalisti. Che la Repubblica sia cosa più seria di immaginarie numerazioni è innanzitutto un fatto, che corrisponde al suo perdurante assetto organizzativo, non smentito dall' intercorsa revisione del Titolo v della seconda parte e confermato dal risultato del referendum costituzionale del giugno 20 06. Più credibile appare l' ipotesi che allora si sia sfiorata una "crisi di regime" nel senso dell' « insieme delle istituzioni che regolano la lotta per il potere e l'esercizio del potere e dei valori che animano la vita di tali istituzioni » 3• Assieme al tracollo dei partiti tradizionali, a una gravissima crisi fiscale e alla minacciata secessione leghista, le tre componenti di quella che Luciano Cafagna definì « la grande slavina »4, ne aggiungo un altro, che il suo libro non poté registrare per essere comparso quasi in tempo reale. Mi riferisco alle stragi della mafia e agli oscuri segnali di pezzi di apparati dei servizi segretiS, che rivelavano tutto l' interesse di centri di potere occulti e/ o criminali di approfittare del vuoto aperto nel cuore della vita democratica del paese per imporgli proprie regole o perlomeno assetti più favorevoli alle proprie convenienze. L'allarme degli alleati per la situazione italiana fu tale che il presidente 3· L. Levi, Regime politico, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, UTET, Torino 1976, p. 851. 4· L. Cafagna, La grande slavina. L'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia 1993. S· Ricordo, fra questi, un episodio solo apparentemente minore di una sera dell'estate 1993: l' iso­ lamento delle linee telefoniche di Palazzo Chigi, che impedì al presidente del Consiglio Ciampi di comunicare con l'esterno.

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Clinton nominò ambasciatore a Roma Reginald Bartholomew, reduce da missioni nelle aree del mondo più a rischio per la sicurezza, dal Libano alla Serbia6• La domanda da porre a questo punto è come la Repubblica poté superare una crisi di regime così definita, e quindi quali scelte, aggiustamenti o semplici circostanze consentirono di circoscriverla o di canalizzarla per via democratica. Solo in un secondo momento potremo chiederci se e in quale misura esse modellarono a loro volta l 'assetto politico-istituzionale che si stava delineando.

2.

La controversa presidenza Cossiga Nella storia della Repubblica, mai un presidente si allontanò tanto consapevolmente dal ruolo assegnatogli dalla Costituzione quanto Francesco Cossiga nell 'ultimo biennio del suo mandato7• Né varrebbe addurre che egli fosse altrettanto consapevole che la paralisi decisionale dei partiti su ogni tema, a cominciare dalla riforma della Costituzione, aveva raggiunto il capolinea. Si consideri la denuncia di questa situazione nel messaggio presidenziale alle Camere del 26 giugno 1991. Intanto, non era politicamente immaginabile che la pars construens potesse sbloccare il processo riformatore invece di irrigidire ulteriormente i due partiti maggiori, per ragioni in parte diverse assai riluttanti a impegnarvisi: sicché il messaggio o si riduceva alla testimonianza di uno stato di cose ritenuto intollerabile, il che non rientra fra i compiti di un capo dello Stato, o rifletteva la velleitaria pretesa di fungere da ponte fra due Costituzioni. In secondo luogo, se fossero stati soltanto mossi dall 'ansia di affrontare il dato oggettivo della crisi dei partiti, prese di posizione, comportamenti e atti di Cossiga non avrebbero travalicato il ruolo costituzionale del presidente, specie il carattere di organo imparziale. Proprio su questo punto, invece, egli aveva profondamente modi­ ficato i propri convincimenti. Era stato per decenni uomo di partito, e di quel "partito­ Stato" che era la Democrazia cristiana, impersonandone talora il volto più elevato, come avvenne con le dimissioni da ministro dell ' Interno all' indomani dell'assassinio di Aldo Moro. Ma ora del suo partito era tanto deluso da ricordare spesso la profezia di Moro in Parlamento del « non ci lasceremo processare nelle piazze » 8 e da spingerlo ad abbandonare i codici di comportamento seguiti nel primo quinquennio del man­ dato con uno stile perfino più rigoroso dei suoi predecessori, improvvisamente declas­ sati a ipocrite reticenze. Restava l'uomo totus politicus, e come tale agì. 6. Cfr. G. Fasanella, G. Pellegrino, La guerra civile, Rizzoli, Milano 2oos. 7· L'elemento della consapevolezza vale a distinguere il caso di Cossiga da quello di Granchi. 8. Cfr. M. Breda, La guerra del Quirinale. La difesa della democrazia ai tempi di Cossiga, Scalfaro e Ciampi, Garzanti, Milano 2006, p. 3 I. 33

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Personalmente respingo tuttora l' ipotesi cospirativa9: più che abbattere l'edificio dello Stato, Cossiga voleva «picconarne le parti lesionate, per portare allo scoperto, e rinforzarle, le strutture portanti ancora solide » 10• Tuttavia, quando si esaminano i comportamenti di un presidente della Repubblica, più delle intenzioni contano le conseguenze. Le quali, in questo caso, vanno differenziate a seconda che si conside­ rino il sistema dei partiti o il potere giudiziario. Sul primo fronte prevale l'assorbimento del protagonismo presidenziale. Basti pensare alla nomina del V I I governo Andreotti (16 aprile 1991). Essa aveva alle spalle una "verifica" protrattasi molto a lungo e con scontri tra i protagonisti assai più acuti di quelli tenuti nel corso di una crisi autentica. Ad esempio, nell' intervista alla Fiera di Roma del 23 marzo, Cossiga asserì che nel conflitto fra lui, titolare di un "organo permanente", e il presidente del Consiglio, « organo con la durata non fissa ma indefinita » , « io rimango e il presidente del Consiglio dei ministri va via » , e ancora, che « il capo dello Stato è titolare del potere di sciogliere il Parlamento anche contro la volontà del Parlamento » e che nessun atto presidenziale può rite­ nersi incostituzionale « se esso ha come effetto libere, generali elezioni che espri­ mano un nuovo parlament0 » 11• Pochi giorni dopo, nella lettera spedita al presidente del Consiglio incaricato, parlò di un suo «potere-dovere » di ottenere previe infor­ mazioni sulle proposte di nomina dei ministri, onde consentirgli di «esprimere avvisi, consigli e avvertimenti » sotto il profilo, tra gli altri, « della consonanza istituzionale della compagine con il capo dello Stato » . Eppure uomini esplicita­ mente candidati dal Quirinale alla carica di ministro non entrarono a far parte del governo, e uomini sulla cui specifica destinazione dicasteriale il Quirinale aveva avanzato dubbi di opportunità istituzionale furono puntualmente nominati titolari di quel dicastero. E all'indomani della formazione del governo, il presidente Andre­ otti dichiarava: « Questa volta la procedura per la formazione della lista è stata un po' diversa, perché il presidente della Repubblica si è riservato, ed è legittimo, di discutere i nomi » E vero che la formazione del governo era stata subordinata a un preciso mandato del presidente della Repubblica a guidare un processo di riforme istituzionali. Ma a parte il fatto che si trattava della stessa condizione posta dal P S I per aderire alla maggioranza, il messaggio alle Camere giungerà solo due mesi dopo, a dimostrazione di una nettissima presa di distanza di Cossiga dal governo proprio in ordine all' ipo­ tesi di un processo riformatore avviato per le vie parlamentari ordinarie, peraltro subito ricambiata dal presidente del Consiglio, che nega la controfirma al messaggio, a.

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9· Cfr. C. Pinelli, Il Presidente della Repubblica nella forma di governo. Considerazioni sull'ultimo biennio, in Archivio di diritto costituzionale, vol. III, Giappichelli, Torino 1 9 9 2, pp. 7 1 ss. IO. A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L'Italia dal 1943 al 2003, il Mulino, Bologna 2004, P· 3 3 S· u. A. Leiss, Sciolgo le Camere quando voglio, in "l' Unità", 25 marzo 1 9 9 1. 12. C. De Fiores, Il presidente della discordia, in "Democrazia e Diritto", 1 9 9 1 , 4, pp. 2 1 7 ss. 34

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la quale viene apposta dal ministro della Giustizia Claudio Martelli, secondo alcuni in modo alquanto anomalo13• Né vi è da stupirsi delle forti critiche al messaggio nelle aule parlamentari anche da parte di democristiani quali Scalfaro ed Elia, specie per l'insistente appello alla sovranità popolare vista in contrapposizione alle procedure di deliberazione parlamentare14• Nella migliore delle ipotesi, l'effetto sortito dal messaggio sarà di dimostrare a tutti come non riformare la Costituzione e, nella peggiore, quello di costituire uno dei capi dell 'accusa di attentato alla Costituzione per violazione delle procedure parlamentari di revisione, mossa dal P D S nei confronti del capo dello Stato nel novembre 199115• La minaccia dello scioglimento, ventilata come sanzione e perciò al di fuori dell' ipotesi di scioglimento funzionale, viene a sua volta lentamente depotenziata dal governo fino a perdere ogni deterrente. Occorre ricordare che la legge costituzionale 4 novembre 1991 apportò una modifica all'art. 88 Cost. autorizzando il ricorso allo scioglimento quando gli ultimi sei mesi del mandato presidenziale «coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura » . La modifica era stata pro­ spettata dallo stesso Cossiga in vista dell ' « ingorgo istituzionale » che si sarebbe verificato nella primavera del 1992 a causa della larga coincidenza del semestre bianco con l'ultimo semestre della x Legislatura, con il risultato di dover tenere le elezioni in piena estate. Il rischio non era senza fondamento, ma non si può nemmeno igno­ rare come la soluzione accolta per scongiurarlo si inseriva in un contesto politico su cui gravava l' ipotesi di uno scioglimento volto a consentire al presidente uscente, e per sua espressa dichiarazione, di gestire il procedimento di formazione del primo governo della XI Legislatura senza più accettare « organigrammi che siano semplice camuffamento di accordi fra segreterie » , nonché, secondo alcuni quotidiani, per impedire la raccolta delle firme per far luogo alla votazione del Parlamento in seduta comune sulla messa in stato d'accusa16• Ma lo scioglimento anticipato perse il signi­ ficato di atto presidenziale motu proprio a seguito dell ' iniziativa del presidente del Consiglio. Il 30 gennaio 1992 questi si recava alle Camere per chiedere e attenerne la fiducia e per affermare contestualmente la convinzione circa l 'esaurimento politico della legislatura, con correlativa richiesta al presidente della Repubblica di scogliere le Camere. Egli riuscì a evitare la formazione di un governo per gestire le elezioni, e soprattutto, d' intesa con il maggior partito di opposizione, a determinare « una sostanziale marginalizzazione del Presidente della Repubblica dal processo di deciI3. S. M. Cicconetti, Commento al Dibattito sul messaggio presidenziale del 26 giugno I99I, in "Giurisprudenza Costituzionale': I99I, p. 3243. Nel senso della spettanza della controfirma al ministro della Giustizia in quanto competente, in seno al governo, «per le questioni squisitamente giuridiche» , G. Bagnetti, Commento, ivi, p. 3229. I4. P. Barile, Commento, ivi, pp. 3222 ss. IS. Pinelli, Il presidente della Repubblica, cit., pp. 79 ss. I6. M. Olivetti, Lo scioglimento delle Camere del 2 febbraio I992. Una "curiosita costituzionale" o un precedente imbarazzante?, in "Giurisprudenza Costituzionale", 3 8, I993· I, p. 602. 35

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sione relativo allo scioglimento anticipat0 » 17• Vi riuscì al punto da lasciare perfino un' inedita traccia formale nel decreto di scioglimento (D.P.R. 2 febbraio 1992, n. 6o ), dove accanto al parere dei presidenti delle Camere richiesto dalla Costituzione si fa menzione dell' « avviso del presidente del Consiglio dei Ministri » 18• L'attacco frontale di Cossiga a singoli giudici, agli organi direttivi dell 'Associa­ zione nazionale magistrati e al vicepresidente del Consiglio superiore della magistra­ tura Giovanni Galloni aveva tutt 'altra valenza, sia perché la Costituzione conferisce al capo dello Stato la presidenza del Consiglio superiore, sia perché la contrapposi­ zione che creava si aggiungeva a quella già in corso fra magistratura e una parte importante della classe politica. Risalgono a questo periodo due conflitti di attribu­ zione fra poteri dello Stato, il primo proposto e poi ritirato dal guardasigilli Martelli nei confronti del presidente della Repubblica per le sue dichiarazioni, il secondo sollevato dal Consiglio superiore nei confronti del guardasigilli per aver rifiutato di dare corso alla nomina di un presidente di Corte d'Appello, e definito dalla Corte costituzionale nel senso della spettanza del potere al ministro in assenza di «un'ade­ guata attività di concertazione, ispirata al principio di leale cooperazione ai fini della formulazione della proposta » relativa al conferimento di uffici direttivi (sentenza 379/19 9 2) . La pronuncia è nota per l'applicazione ai rapporti fra poteri del principio di leale cooperazione, che è di origine giurisprudenziale : ma non va trascurato che la Corte lo aveva enunciato riesumando contestualmente il vecchio istituto del con­ certo ministeriale, che il ministro Martinazzoli aveva definito « un residuato che dovremmo togliere di mezz0 » 19, a dimostrazione del tentativo di proceduralizzare il più possibile un conflitto che era, e restava, di natura essenzialmente politica. Le esternazioni presidenziali strappavano con compiacimento il velo delle ipo­ crisie che avvolgeva la "casta degli intoccabili" in sintonia con il filone garantista della cultura giuridica, come allora si diceva, prima ancora che con alcuni partiti. Ma con quali conseguenze sul piano istituzionale ? Innanzi tutto misero a rischio la funzionalità dell'organo di autogoverno della magistratura, soprattutto da quando, nel giugno 1991, Cossiga decise di presiederlo anche effettivamente con tanto di carabinieri alle spalle. La tensione raggiunse probabilmente l'acme il 18 novembre, allorché egli minacciò di impedire con la forza una riunione del collegio che riteneva illegittima. Nei confronti di singoli giudici la sua attitudine assumeva poi una con­ notazione gerarchica, che oltre a risultare totalmente estranea alla Costituzione finiva con il rafforzare quelle chiusure corporative contro cui si indirizzava. Infine, essa esasperava il solco che già divideva il Parlamento intorno a una qualsiasi riforma della giustizia. 17. lvi, pp. 6u ss. 18. Ibid. 19. Cfr. A. Cariala, A proposito della sentenza sul conflitto di attribuzione tra C.S.M e ministro Guardasigilli: questione giuridicizzata ma non spoliticizzata, in "Giurisprudenza Costituzionale': 1 992, P· 3059.

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Questo capitolo, comunque, si chiuse prima della scadenza del settennato. Il 17 feb­ braio 1992, con l'arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, segnò una svolta anche per la magistratura, e per i suoi rapporti con l'opinione pubblica.

3 Il ruolo della magistratura La ricerca che mi sto proponendo si incentra su come la Repubblica superò la crisi dei primi anni Novanta, e non potrà dunque soffermarsi sulle ragioni della crisi, compresa la specifica vicenda di Tangentopoli, su cui peraltro abbondano spiegazioni di ordine politico, culturale/morale, giuridico, economico2.o. Ricordo solo il saggio di Pizzorno, che ha fra l'altro dimostrato come l'avvento delle comunicazioni di massa abbia trasformato strutturalmente i rapporti fra potere giudiziario e opinione pubblica, rompendo i « limiti alle dinamiche del riconoscimento », fino ad allora circoscritte alle comunità degli altri giudici e dei giuristi: da allora esse saranno estese a tutta la sfera pubblica, grazie all 'autonomia dalla politica e dagli interessi privati che nel frattempo gli stessi media hanno conseguito2.1• Per quanto riferito a trasformazioni verificatesi in tutte le democrazie contem­ poranee, la tesi trova un concretissimo riscontro nell'episodio del "colpo di spugna", come venne designato dalla stampa il tentativo del marzo 1993 di una soluzione politica per Tangentopoli. Originariamente, l' ipotesi di una depenalizzazione delle violazioni della legge 2 maggio 1974, n. 195, sul finanziamento dei partiti, su cui avevano lavorato il presidente del Consiglio Amato e il ministro della Giustizia Conso, era stata vista con favore dai leader dei maggiori partiti e dallo stesso presi­ dente della Repubblica Scalfaro. Era nota l'ipotesi di un decreto legge in materia, accompagnato e compensato da tre disegni di legge riguardanti l'inasprimento della pena per la corruzione, il giudizio abbreviato e quello pretorile. I giornali più influenti restarono alla finestra, senza pronunciarsi pregiudizialmente contro il decreto legge, fino a quando il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, dichiarò la ferma opposizione del pool dagli schermi televisivi. Il giorno successivo il decreto era divenuto un "colpo di spugna" nei titoli di prima pagina, gli esponenti dei maggiori partiti seguivano a ruota, e soprattutto il presidente Scalfaro rifiutava di emanare il decreto con l'argomento che contrastava con la richiesta di abrogare la legge 195/ 1974 con referendum, già indetto per il 18 aprilen. 20. Cfr., ad esempio, Bufacchi, Burgess, L 'Italia contesa, cit., pp. 94 ss. 2I. A. Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtu, Laterza, Roma-Bari I998, pp. ss ss. 22. Cfr. M. Fedele, Democrazia riferendaria. L'Italia dal primato dei partiti al trionfo dell'opinione pubblica, Donzelli, Roma I 994· pp. I I I ss.; Bufacchi, Burgess, L'Italia contesa, cit., pp. I27 ss. Ricordo che il rifiuto presidenziale di emanare un decreto legge aveva un solo precedente, risalente a Pertini. 37

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A parte ogni altra considerazione, l'episodio rivelava tutta la forza di un' inedita alleanza fra potere mediatico e magistratura, la quale, essendo riuscita a intercettare gli umori dell'opinione pubblica, aveva trainato dietro la propria posizione la classe politica e lo stesso capo dello Stato. Più in generale, « la magistratura italiana ha agito tenendo conto di quanto avveniva nella sfera pubblica; e ha potuto svolgere il suo compito soprattutto grazie all'appoggio che vi ha trovato. La battaglia con la classe politica è stata combattuta per il riconoscimento e i giudizi provenienti dalla sfera pubblica » l3• Un'eco preoccupata della conseguente sovraesposizione dei giudici si avvertirà nella relazione annuale per il 1993 del procuratore generale della Corte di Cassazione Vittorio Sgroi, esplicita nell'ammettere che la corruzione ha reso i magi­ strati « titolari di un ruolo che è obiettivamente decisivo nella vita del Paese e che costituisce l'avvio di improprie supplenze » , caricando « di una responsabilità ano­ mala la magistratura fino a rischiare di stravolgerne la collocazione istituzionale » l4•

4 La presidenza Scalfaro e il governo Amato Il vento era girato, e non si sapeva dove potesse portare. E tuttavia già ali ' inizio dell' xi Legislatura erano emerse alcune discontinuità politico-istituzionali: l'elezione di Oscar Luigi Scalfaro a presidente della Repubblica e la formazione e gli indirizzi del governo Amato. Quella di Scalfaro fu un'elezione in stato di necessità. Dopo quindici scrutini svoltisi senza che i partiti avessero trovato un accordo, giunse la notizia dell'assassinio per mano della mafia del giudice Falcone, della moglie e degli agenti di scorta. In Parlamento si capì che non si poteva tergiversare e che occorreva una personalità estranea alle contese tra partiti e interne a molti di essi. La scelta cadde sull 'appena eletto presidente della Camera Scalfaro, parlamentare democristiano di lungo corso come Cossiga, e come lui già titolare del ministero dell ' Interno. Ma i due avevano assai poco in comune. A differenza del predecessore, il neopresidente si era sempre tenuto a distanza dalla vita interna di partito, e nel 1989-90 aveva presieduto la Commissione di inchiesta sulla gestione dei fondi pubblici per la ricostruzione dopo il terremoto dell' Irpinia del 198ol5• Aveva tutte le carte per denunciare i processi degenerativi in atto nei partiti, e lo faceva nella prospettiva della Costituzione tradita, alla quale, da membro della Costituente, guardava senza legarne le sorti a quelle del 23. Pizzorno, Il potere dei giudici, cit., p. 98. 24. Cfr. G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell'Italia attuale, Donzelli, Roma 2009, p. 203. 25. Ampi dettagli in Breda, La guerra del Quirinale, cit., p. 3 9, compreso quello che i lavori della Commissione si conclusero con una relazione « inviata all'attenzione di diverse procure del Mezzo­ giorno per corroborarne le risultanze istruttorie» .

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sistema politico del primo quarantennio repubblicano. Non a caso, a sostenerne per primi la candidatura al Quirinale furono i radicali, che ne apprezzavano le idee per le stesse ragioni per cui criticavano quelle di Cossiga. Se l'attentato a Falcone fu decisivo per l'elezione di Scalfaro, l'intensificarsi dell' inchiesta Mani pulite lo fu per la nomina a presidente del Consiglio di Giuliano Amato. Mentre si stavano avviando le consultazioni per la formazione del governo, Craxi venne coinvolto direttamente nell ' inchiesta, e dovendo rinunciare a Palazzo Chigi indicò al capo dello Stato i nomi di Amato, De Michelis e Martelli. La scelta cadde sull'unico dei tre che non risultava implicato in vicende giudiziarie. In ambedue le ipotesi, furono eventi esterni di straordinaria gravità a far scegliere politici in grado di gestire la transizione anche in ragione della loro estraneità alle cause più immediate della crisi della Repubblica. E l' intera transizione si svolse sotto il segno di scelte necessarie. Il caso e la necessità, potremmo dire anche noi�6• La «logica della transizione » , scriverà poi Amato, invertiva l'originaria dipendenza delle istituzioni dai partiti : con il loro crescente indebolimento, e grazie « al nuovo telaio su cui governo, Parlamento e capo dello Stato riescono a collocare il loro lavoro » , si poteva « introdurre in Italia un'autorità istituzionale che non c 'era mai stata » �7• Il telaio risultò differenziato a seconda degli ambiti di intervento. Quanto alla nomina dei ministri, le scelte furono concordate fra capo dello Stato e presidente del Consiglio, e in parte ridiscusse con i partiti, mentre quelle relative ai successivi numerosi rimpasti, resisi necessari a seguito degli avvisi di garanzia che colpivano gli stessi ministri, furono appannaggio del presidente del Consiglio�8• Dove l'autonomia del governo dai partiti si dispiegò al massimo grado fu nella manovra economica necessaria ad affrontare una delle peggiori crisi finanziarie del dopoguerra: qui la necessità divenne per Amato l'argomento decisivo opposto ai partiti, così come lo fu per altri versi quando si trattò di rinnovare i vertici degli enti di gestione�9• L'ipotesi non è smentita, ma confermata, dal fallimento della soluzione politica di Tangentopoli nel marzo 1993. La mediazione tentata dal governo, in sé stessa ragionevole dal punto di vista giuridico e politico30, si differenziava infatti dalle altre 26. Cfr. già, a proposito della fondazione della Quinta Repubblica francese, G. Vedel, Le hasard et la nécessité, in "Pouvoirs", I989, so, pp. 20 ss., che a sua volta ricalcava il titolo del celebre volumetto di J. Monod, Le hasard et la nécessité. Essai sur la philosophie nature/le de la biologie moderne, Seuil, Paris I 970. Quanto all' ipotesi formulata nel testo, ricordo che già Fedele, Democrazia riferendaria, cit., p. I08, aveva considerato casuale sia l 'elezione di Scalfaro che la nomina di Amato. 27. G. Amato, Un governo nella transizione. La mia esperienza di presidente del Consiglio, in "Quaderni Costituzionali", I 994, 3, p. 3 6 I. 28. lvi, pp. 362 ss. 29. Cfr. diffusamente Fedele, Democrazia riferendaria, cit., pp. I09 ss. 30. Come ricorda Fedele, contrariamente alle accuse allora rivolte ad Amato, il decreto legge lasciava Craxi a giudizio dei magistrati per ricettazione e concorso in corruzione (ivi, p. I I2). Si aggiunga che a suggerire di distinguere fra delitti previsti dal codice e violazioni della legge sul finanziamento, per le quali si poteva « tranquillamente giungere a una sensibile diminuzione della pena [ .. ] o addi.

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sue scelte per la premessa, da cui necessariamente muoveva, di raccordare due diret­ trici che andavano in senso opposto. E una volta avvistato il rischio che istituzioni appena emancipate dai partiti venissero nuovamente identificate con essi, il presidente Scalfaro smise per primo di lavorare in quel caso sul telaio, lasciando il governo solo. Per rassegnare le dimissioni, pur subito offerte, con maggior decoro, Amato preferirà attendere i risultati dei referendum tenutisi il mese dopo. Ma la "logica della transizione" vale in misura ancora più evidente per il governo di Carlo Azeglio Ciampi, cui Scalfaro affida l'incarico in assenza di consultazioni formali con i partiti, e a condizione di procedere « nella lettera e nello spirito dell'art. 92 della Costituzione ». Più tardi, a conclusione di un'esperienza che a quel punto com­ prendeva anche la xn Legislatura e la prima metà della successiva, Scalfaro dirà: A me è capitato di tenere a battesimo cinque governi, di dare incarico a cinque Presidenti del Consiglio, ed è successo che su questi cinque dovessi sceglierne tre, perché il Parlamento non era in condizione di dare quell'apporto costituzionale che nasce dalle consultazioni. Basterebbe questo per dire come la situazione era patologica3•.

Quanto riportato aiuta a comprendere la funzione di regia assunta dal presidente nell ' inneren Bereich, nell 'ambito più interno dell 'organizzazione costituzionale. Non basta, però, a dar conto del modo con cui venne superata la fase più acuta della crisi di regime. Essa si basava, come abbiamo detto, su una divaricazione via via maggiore fra i vecchi ma ancora vegeti partiti e un'opinione pubblica che mostrava fin troppo chiara­ mente di voler voltare pagina dopo la scoperta di Tangentopoli, in sinergia con l'alleanza fra potere mediatico e magistratura. A questo fine, non bastava certo che i governi fossero composti di personalità non compromesse in vicende giudiziarie, e che prendes­ sero decisioni difformi dalle abituali prassi partitocratiche. Dopotutto, esse dovevano pur sempre passare in Parlamento, ed era appunto lì il cuore del problema. Si trattava di fornire uno sbocco a quella divaricazione, di canalizzarla in forme democratiche.

s

La presidenza della Repubblica come cabina di regia della transizione Converrà tornare sulla motivazione con cui Scalfaro rifiutò prontamente di emanare il decreto legge che depenalizzava le violazioni della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Formalmente, l'argomento dell' interferenza con il referendum già fissato rittura a una depenalizzazione», era stato pochi giorni prima Alessandro Galante Garrone in un articolo su "La Stampà' (cfr. L. Covatta, Menscevichi. I riformisti nella storia dell'Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 2 0 0 5 , p. 1 86). 31. Intervista televisiva a Sergio Zavoli, in Breda, La guerra del Quirinale, cit., p. 44·

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in materia per il 18 aprile era piuttosto tenue, dal momento che il quesito non si riferiva alla stessa disposizione32.. Ma ciò chiariva solo ulteriormente che il presidente avrebbe fatto tutto il possibile per rispettare, e poi per far valere, l'espressione dell'opi­ nione pubblica nella misura in cui si fosse tradotta in esito di un referendum, ossia in un atto costituzionalmente apprezzabile. Non fu quella la sola occasione in cui egli si adoperò per rinnovare per tale via la legittimazione della Repubblica, né fu il solo organo di garanzia a muoversi in tal senso. Lo aveva preceduto la Corte costituzionale, quando era stata chiamata a giudicare dell'ammissibilità del quesito referendario sul sistema elettorale del Senato. Appena due anni prima, la Corte aveva dichiarato inammissibile una richiesta sul punto (sentenza 47/ 1991). Ora veniva ripresentata, con una formulazione più rispettosa dei suoi rilievi, ma che portava comunque a una normativa di risulta tutt'altro che lineare33• Eppure la Corte non esitò ad ammettere la richiesta (sentenza 32/1993). Il viatico degli organi di garanzia rifletteva la duplice esigenza che la perdita di rappresentatività del Parlamento dell ' xi Legislatura non equivalesse a una generale delegittimazione delle istituzioni, e che la transizione da un sistema politico ali' altro venisse avviata attraverso una procedura non solo democratica, ma anche, lo ripeto, conforme a Costituzione. Eppure i problemi maggiori dovevano ancora venire. Come poteva il risultato del referendwn sul sistema elettorale del Senato esprimere un improv­ viso favore per il modello Westminster ? Nonostante l'entusiasmo degli ingegneri-pro­ motori del referendwn, il modello era noto a una percentuale di elettori forse oscillante fra lo o,s e l' 1%. La consultazione referendaria espresse piuttosto un'istanza di moderno ostracismo verso i vecchi partiti, la quale, ben più che nel finanziamento pubblico, pur eliminato da nove elettori su dieci, trovò nella proporzionale pura il proprio bersaglio. Proporzionale pura a parte, il Parlamento godeva però giuridicamente di un'ampia discrezionalità circa la scelta del nuovo sistema elettorale, tanto che, per il presidente della Corte costituzionale Francesco Paolo Casavola, il maggioritario puro non sarebbe stata un'opzione obbligata neanche per il Senato34• Eppure quello era « il Parlamento degli inquisiti » , delegittimato dagli sviluppi delle indagini giudiziarie non meno che dal referendum3\ e a maggior ragione tentato da elezioni anticipate da tenersi per il Senato secondo la normativa di risulta e per la Camera con il vigente sistema proporzionale. 32. n quesito si incentrava solo sul finanziamento diretto ai partiti, mantenendo la previsione dei rimborsi ai gruppi parlamentari. 33· Come ha puntualmente dimostrato P. Carnevale, La Corte e il referendum: un nuovo atto, in "Giurisprudenza Costituzionale", I993, p. 2274. 34· Intervista al "Corriere della Sera" del s febbraio I 993, in Fedele, Democrazia referendaria, cit., p. I2I. 3S· Inoltre, paradosso nel paradosso, la Commissione lotti continuava a discutere di poteri delle Regioni e di «premierato forte » in un clima definito surreale da un protagonista (così L. Covatta, La legge di Tocqueville. Come nacque e come mori la riforma della prima Repubblica italiana, Diabasis, Reggio Emilia 2007, p. 84). 41

C E SARE P1NELL1

Fu allora che il Quirinale divenne definitivamente la cabina di regia della tran­ sizione. Il capo dello Stato non si limitò a ribadire, in una lettera resa pubblica il 3 maggio al nuovo presidente del Consiglio, che il completamento delle procedure postreferendarie impediva di giungere a elezioni prima della fine di luglio, a meno di non contraddire «l 'espressione della sovranità popolare, diretta ed esplicita »36. Affermò più volte che il Parlamento doveva legiferare "sotto dettatura", per suggerire il criterio non tanto più prossimo ai risultati del referendum, quanto più idoneo a rispettare i tempi imposti dalla perdita di rappresentatività del Parlamento37• Il 21 dicembre 1993, all' indomani dell 'emanazione dei decreti legislativi attua­ tivi delle nuove leggi elettorali del Senato e della Camera per la determinazione dei collegi uninominali, il presidente dichiarava che il processo di riforma era stato ultimato nel pieno rispetto dello « spirito referendario » , e che l' Italia non è « di fronte a un salto nel buio » , prospettando l 'eventualità di un immediato sciogli­ mento38. L' I I gennaio 1994, 162 deputati, in gran parte della maggioranza, presentavano alla Camera una mozione di sfiducia con l 'obiettivo minimo di rendere più difficile lo scioglimento. Ma appena due giorni dopo I I 6 di costoro ritiravano la loro firma, facendo così decadere la mozione, e i capigruppo di maggioranza presentavano una risoluzione che rinnovava la fiducia al governo. Subito dopo, il presidente del Consiglio annunciava l'intento di recarsi dal capo dello Stato, e a seguito dell' in­ contro il presidente della Camera riceveva una lettera dal presidente del Consiglio nella quale questi gli comunicava di aver rassegnato le dimissioni. Infine, il 16 gennaio, il presidente della Repubblica, dopo aver respinto le dimissioni del governo, emanava il decreto di scioglimento, e in una missiva inviata ai presidenti delle Camere lo motivava indicando il risultato del referendum quale « fatto di maggior rilievo » , le consultazioni amministrative del giugno e del novembre, le quali attestavano « un divario molto sensibile tra le forze rappresentate in Parla­ mento e la reiterata volontà popolare » , infine le « varie patologie manifestatesi nella gesti o ne della cosa pubblica » 39. Da allora i costituzionalisti hanno preso a discutere del significato dello sciogli­ mento del 1994, nella misura in cui non può annoverarsi fra gli scioglimenti funzio­ nali, visto il perdurante ribadito rapporto di fiducia fra governo e Parlamento. D 'altra parte, il governo Ciampi aveva legato il compimento del suo mandato all'approva­ zione delle leggi elettorali, per cui una dilazione della tornata elettorale poteva 36. Cfr. Napolitano, Dove va la Repubblica, cit., p. 75· 37· C. Pinelli, Il ruolo del presidente della Repubblica e le prospettive di riforma elettorale e istitu­ zionale, in M. Luciani, M. Volpi (a cura di), Il presidente della Repubblica, il Mulino, Bologna 1997, P· 445· 3 8. Dichiarazione riportata da "il Giornale" del 21 dicembre (cfr. C. De Fiores, La tra vagliata fine dell'xi Legislatura, in "Giurisprudenza Costituzionale", 1 994, p. 1486 ) . 3 9· Per una ricostruzione più ampia, cfr. De Fiores, La travagliata fine, cit., pp. 1486 ss. 42

I L CASO, LA N E C E S S ITÀ E UNA CAB INA DI REGIA

apparire una « torsione imprevista »40• Ciò non esclude peraltro che la decisione di sciogliere si sia « configurata - seppure nei ristretti termini del caso di specie - come una rivendicazione dell 'autonomia di decisione del presidente, conforme alla lettera della Costituzione, benché adottata in rottura di una precedente prassi di forse troppo stretta aderenza agli orientamenti delle forze politiche » 41• Una prassi, si può solo aggiungere, fatta valere fino allo scioglimento del I992, allorché il capo dello Stato aveva dovuto per giunta rinunciare a ogni velleità sanzionatoria.

6

La legislazione nel 1 9 89-9 4 Nel quinquennio I 9 89-94 vicende diverse da quella della forma di governo, ma pur anch'esse variamente legate alla transizione, proiettano i loro effetti su un orizzonte di più lungo periodo. lnnanzitutto l'integrazione europea, accelerata in misura deci­ siva con il trattato istitutivo dell' Unione stipulato a Maastricht. E nel I993 il lungo contenzioso sul finanziamento delle imprese pubbliche italiane si conclude con l'accordo fra il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e Karel van Miert, Com­ missario alla concorrenza, che impegnando di fatto l' Italia a privatizzare il settore pubblico annuncia la fine delle partecipazioni statali, incidendo ulteriormente sulla crisi del sistema politico. Nello stesso anno il presidente del Consiglio Ciampi pro­ muove l'accordo sul costo del lavoro, che interrompe la spirale salari-inflazione, e avvia il processo di privatizzazione4l. Inoltre, viene approvato un consistente pacchetto di leggi di prima attuazione costituzionale o a carattere ordinamentale. Basterà richiamare le seguenti leggi: 9 maggio I989, n. I 68, sull 'autonomia universitaria; 8 giugno I 9 9 0, n. I42, sulle autonomie locali; I 2 giugno I990, n. I46, sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali ; 7 agosto I 9 9 0, n. 24I, sul procedimento amministrativo ; 6 agosto I990, n. 223, fra l'altro istitutiva del Garante per la radiodiffusione e l'edi­ toria; I o ottobre I990, n. 287, istitutiva dell'Autorità garante per la concorrenza e il mercato. Tanto fervore, nel periodo in tutti i sensi terminale della prima fase della Repubblica, è solo apparentemente paradossale. Come già accaduto nella seconda metà degli anni Cinquanta, e poi ancora fra il I968 e il I970, è proprio l' incertezza sulle prospettive politiche immediate a stimolare il consenso intorno a leggi di attua­ zione costituzionale o di grande riforma. Le leggi approvate in seguito, a parte quella, voluta dai partiti, sull'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia (legge 40. S. Battole, Scioglimento delle Camere, in Enciclopedia del diritto. Aggiornamento, vol. Giuffrè, Milano I 999· p. 942. 4I. Ibid. 42. R. Perissich, L'Unione Europea. Una storia non ufficiale, Longanesi, Milano 2008, p. I 8s. 43

III,

C E SARE PINELLI

s marzo 1993, n. 81) obbediscono invece alla "logica della transizione", sia sul fronte economico-finanziario sia ai fini di un'efficace risposta ai problemi strutturali emersi con Tangentopoli: dalla delega in materia di sanità, pubblico impiego, previdenza e finanza territoriale (legge 23 ottobre 1992, n. 421), seguita dai relativi decreti legisla­ tivi, alla riforma della Corte dei conti (legge 14 gennaio 1994, n. 20 ), alla legge quadro sui lavori pubblici (legge I I febbraio 1994, n. 109 ) . Le ragioni che inducono al varo di questa legislazione cambiano nel corso del quinquennio. Ma l'ispirazione appare comune. Un pluralismo territoriale, economico e sociale coerente con un 'aggiornata interpretazione delle norme costituzionali nonché dei controlli e della legalità, attestata fra le altre dall'introduzione di autorità indipendenti da partiti e gruppi di interesse e da misure necessarie a far valere la distinzione tra politica e amministrazione, la razionalizzazione della spesa pubblica e l'efficienza amministrativa. Nel frattempo Giuliano Amato si chiedeva se fosse possibile superare il dilemma del principio maggioritario, storicamente rivelatosi, di volta in volta, strumento per sottrarre i più alla sudditanza dei pochi e strumento dei più per opprimere le mino­ ranze; e rispondeva che la nostra Costituzione ben poteva venir liberata dalla « incombenza della cultura monista » , a condizione che il nuovo sistema elettorale fosse in grado di produrre buon governo, e che nella magistratura, nella stampa, negli interessi sociali, maturasse nello stesso tempo «un'autentica cultura pluralista della separazione dei poteri »43• Non è andata così da nessuno dei due lati. Ma mentre sulle prestazioni del sistema elettorale moltissimo è stato detto, del tutto trascurato è stato il discorso sul secondo punto. In particolare, a proposito del consistente ciclo riformatore intervenuto nella transizione, nessuno parlò di attuazione della Costituzione. Il fatto è che il principio di libera concorrenza, le autorità indipendenti, l'integrazione europea erano ancora ritenute dai più inconciliabili con la concezione di attuazione costituzionale a lungo dominante. La quale, nel frattempo, aveva peraltro perduto quella congiunzione con le idee di progresso sociale e di modernizzazione che le aveva garantito il successo per decenni. Della prima era scomparsa la valenza di proiezione nel futuro che aveva avuto nel dopoguerra, in parte per ragioni economiche e sociali, in parte per la fine delle attese messianiche legate a progetti di trasformazione politica integrale della società. L' idea di modernizzazione era invece rimasta nel vocabolario delle élite, ma, divorziando da quella di progresso sociale, veniva ormai declinata esclusivamente in termini di efficienza, di recupero di competitività delle imprese e delle istituzioni italiane, viste in antitesi con il mantenimento dei livelli di prestazione pubblica in ordine ai diritti sociali. Il silenzio sugli aspetti di operoso raccordo fra passato e futuro che aveva avuto G. Amato, Il dilemma del principio maggioritario, in "Quaderni Costituzionali", pp. !83 ss. 43·

44

1 9 94, 2 ,

I L CASO, LA N E C E S S ITÀ E UNA CAB INA DI REGIA

la legislazione della transizione si spiega anche con la composizione del Parlamento a partire dalla X I I Legislatura. Era composto solo per metà di figli dei Costituenti, i quali per giunta ignoravano come innestare nel "nuovo" la tradizione costituzio­ nale, reinterpretandola e facendola rivivere in circostanze mutate: finirono allora per nasconderla, come aristocratici assediati da un popolo che rumoreggiava minac­ ciosamente sotto le finestre dei loro antichi castelli, e bramosi di uscirne quanto prima camuffati per mescolarsi con la folla. Quelli dell 'altra metà, più che contrari alla Carta del 1948 erano indifferenti ai principi della Prima Parte, e insofferenti dei limiti al potere della maggioranza previsti nella Seconda Parte. Sentivano insomma la Costituzione come un corpo estraneo, o come un relitto del passato, di fronte alla comunicazione mediatica con il pubblico del leader legittimato dalle urne. La fragilità culturale di tutto il "nuovo" che dalla transizione prese alimento denota la mancata consapevolezza di quel nesso fondamentale fra tradizione e mutamento costituzionale che ricorre in tante altre democrazie, senza il quale aumenta a dismisura il tasso di dissociazione dal "noi" che ovunque producono i media, e la legalità viene privata dei processi di apprendimento che ne fanno un valore sentito dai cittadini.

7 Conclusioni Per ricercare come la Repubblica poté superare una crisi di regime senza venir meno ai suoi principi fondativi, ho adoperato la formula «del caso e della necessità » , soprattutto in riferimento alle cruciali designazioni per il Quirinale e per palazzo Chigi. Ma ho anche insistito sui passaggi che richiesero dalla cabina di regia, oltre a una lungimirante caparbietà e a una sagace divisione di compiti fra istituzioni per la gestione delle diverse e contestuali emergenze, una capacità di riflettere attese di cambiamento largamente diffuse nell 'opinione pubblica. Quale che sia il giudizio che se ne voglia dare, è un fatto che Scalfaro evitò sempre di muoversi in solitudine. Il che vuoi anche dire che egli poté evitarlo. Il precedente dei primi anni Novanta segnala che il ruolo di garanzia del capo dello Stato può esercitarsi anche in presenza di crisi di sistema intervenute in costanza di rapporto di fiducia fra governo e Parlamento. Ma esso va maneggiato con estrema cautela, dovendosene tener presenti tutti gli elementi. Come è stato detto, dal 1994 a oggi «il principale baluardo delle regole istitu­ zionali e dello stesso "esser nazione" sono stati [ .. ] dal più alto scranno dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano. Uomini che in vario modo rinviano all'alba della Repubblica » 44• La funzione di baluardo viene .

44· Crainz, Autobiografia di una Repubblica, cit., p. 224. 45

C ESARE PINELLI

esercitata, nei limiti del possibile, in riferimento a un funzionamento del principio di maggioranza sempre più disancorato dal rispetto delle attribuzioni degli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento, e dal principio di legalità. Più che in una rapida decomposizione e delegittimazione del sistema politico, come venti anni fa, la crisi odierna consiste in una graduale erosione della legalità costituzionale. Né si tratta di canalizzare in forme democratiche un malessere diffuso nell'opinione pubblica contro i partiti. Oggi buona parte di essa appare attonita, comunque scar­ samente reattiva. Vengono in mente le considerazioni di Costantino Mortati all'epoca degli ina­ dempimenti costituzionali da parte delle maggioranze. Se i richiami del capo dello Stato, si chiedeva non sollevassero alcuna eco ed il popolo rimandasse al potere le maggioranze interessate ad eludere il precetto costituzionale [ ... ] potrebbe rimediare a ciò il presidente con l'esercizio del potere di scioglimento ? La sua funzione di "garante della Costituzione" non lo abilita certo ad agire come "Orazio sol contro l' Etruria tutta� né gli consente di impedire che la "Costituzione reale" sopraffaccia quella "legale"4S. '

E casomai l'Etruria che bisognerebbe svegliare, ricucendo i frammenti di un discorso interrotto.

45·

C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico,

CEDAM ,

Padova 196 9, vol. II, p. 628.

Le Regioni e i governi locali di Carlo Baccetti

I

Premessa. Territorio e politica : la svolta di fine anni Ottanta Alla fine degli anni Ottanta la politica locale ha compiuto un salto di qualità e si è emancipata dalla dipendenza dalla politica nazionale. Le Regioni e i governi locali (Comuni e Province) hanno acquisito un' inedita autonomia e capacità di iniziativa politica; le politiche di competenza delle amministrazioni locali - come, ad esempio, lo sviluppo economico locale, la gestione dei servizi a rete, il governo del territorio e le politiche sociali - hanno assunto un peso politico rilevante nel funzionamento complessivo del sistema politico. Gli attori politici locali hanno cessato di agire quasi solo come terminali e punti di riferimento sul territorio dei partiti nazionali. La politica locale ha acquistato una nuova centralità, da quando il richiamo alle potenzialità del "territorio" è tornato a essere un contenuto forte dell'identità poli­ tica. Questo termine ha assunto un'importanza del tutto nuova rispetto al passato, un' importanza non solo « fattuale » , ma anche « normativa e simbolica » , che coin­ volge non solo la politica, ma anche la società e l 'economia•. Il territorio ha cono­ sciuto una nuova valorizzazione dal punto di vista economico quando, all'inizio degli anni Novanta, si è avviata una trasformazione delle politiche di sviluppo territoriale. Si è preso atto, infatti, che il bilancio sugli esiti dell' intervento pubblico per lo svi­ luppo del Mezzogiorno era molto deludente; il « modello istituzionale centralista e straordinario » fino ad allora perseguito, frutto di una visione « strettamente econo­ micista dei problemi dello sviluppo » , non aveva dato i risultati sperati per il "decollo" del Mezzogiornol. La concezione unitaria e territorialmente indifferenziata della questione meridionale è stata perciò abbandonata, a favore di un approccio che esaltava le potenzialità dello sviluppo endogeno e metteva al centro la valorizzazione delle specificità del territorio come via dello sviluppo. I. Diamanti, Localismo, in "Rassegna Italiana di Sociologia", 1 9 94, 3, p. 405. 2. D. Cersosimo, G. Wolleb, Politiche pubbliche e contesti istituzionali. Una ricerca sui Patti terri­ toriali, in "Stato e Mercato", 2001, 3, p. 37S· 1.

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C A R L O BAC C E T T I

In particolare, si è affermato il filone di studi sui « distretti industriali » che, sulla spinta dei lavori di Giacomo Becattini\ ha individuato il territorio quale soggetto principale dello sviluppo e quale logico destinatario delle politiche pubbliche. La messa al centro dei distretti come unità d'analisi del territorio ha portato anche « a una valorizzazione degli elementi non economici dello sviluppo, da quelli sociali a quelli istituzionali » e, in linea generale, a una « maggiore attenzione per la specificità dei contesti locali » 4• Nel suo uso più direttamente politico, il richiamo al territorio e al locale ha assunto un significato soprattutto « oppositivo e differenziale » : la dimensione locale « sottende ed evidenzia sempre e comunque autonomia, differenza e opposizione » rispetto a livelli territoriali più ampi5• Nella valorizzazione della dimensione locale si è espressa «la crisi dell' identità nazionale e dell' idea stessa di nazione » che si è accentuata in Italia negli anni Ottanta; ma si esprime anche, «più in generale [ . . . ] la reazione alla crisi degli assetti politici e istituzionali a livello internazionale e al disorientamento prodotto dai crescenti processi di "globalizzazione" (della società, dell'economia, della politica) » 6• Insomma: la globalizzazione della politica, prodotta in ultima analisi dalla glo­ balizzazione dell 'economia di mercato, non ha affatto espunto il territorio dalla politica stessa. Al contrario. La dimensione locale della politica non è stata margina­ lizzata dalla globalizzazione dei fenomeni politici e dalla crescente connessione sovranazionale delle istituzioni di governo. In questo contesto, il peso dei governi regionali e locali nell'ambito delle relazioni intergovernative, in ambito europeo, è andato costantemente crescendo.

2.

Regioni e governi locali nella trasformazione del sistema politico italiano A partire dagli anni Novanta una serie di riforme legislative ha scardinato la conso­ lidata struttura centralistica dello Stato italiano. Le riforme hanno ridisegnato, in parte, l'architettura costituzionale all ' interno della quale sono state incrementate le competenze e le funzioni dei governi territoriali e si è innescata una significativa redistribuzione del potere verso le istituzioni e gli attori della politica locale. Il ruolo delle Regioni e dei governi locali va dunque inquadrato nella dinamica

3· G. Becattini (a cura di), Mercato eforze locali. Il distretto industriale, il Mulino, Bologna 1987; Id. (a cura di), Modelli locali di sviluppo, il Mulino, Bologna 1 9 89. 4· Cersosimo, Wolleb, Politiche pubbliche e contesti istituzionali, cit., p. 374· S· Diamanti, Localismo, cit., p. 404. 6. Ibid.

LE REG I O NI E I GOVERNI LOCALI

complessiva del sistema politico italiano e, in particolare, nel processo di riforma delle relazioni tra centro e periferia, che è stato un tema cruciale del dibattito politico e dell' iniziativa legislativa dagli anni Novanta a oggi. Non c 'è dubbio che il potenziamento delle Regioni e dei governi locali sia stato uno degli elementi caratterizzanti degli ultimi tre decenni dell' Italia repubblicana. Il processo di riforma ha fornito alle Regioni e ai governi locali una nuova strumenta­ zione e nuove risorse di tipo giuridico-amministrativo per la produzione delle poli­ tiche e per la gestione dei servizi; e ha fissato nuovi contenuti e nuovi obiettivi per le politiche stesse. I poteri degli enti di governo territoriali si sono accresciuti e dif­ ferenziati. La potestà legislativa delle Regioni si è ampliata considerevolmente, Comuni e Province hanno conseguito una maggiore autonomia gestionale, garantita da un riconoscimento costituzionale di compiti e funzioni amministrative proprie. Si deve ricordare subito, però, che il cammino intrapreso negli anni Novanta verso il decentramento dei poteri non è scaturito da una chiara scelta strategica degli attori politici, ma è stato innescato soprattutto da motivazioni politiche legate alle contingenze della fase storica che l' Italia stava attraversando, ovvero da pressioni che hanno investito dall'esterno il sistema dei partiti inducendolo al cambiamento. Tra il 1987 e il 1992, infatti, aveva conosciuto la sua accelerazione finale la crisi del sistema dei partiti che si era formato all' inizio della vicenda dell ' Italia repubbli­ cana. La crisi si stava consumando da almeno un decennio e si era ormai trasformata in una critica diffusa e pervasiva contro la "partitocrazia". Nel complesso, i partiti non riuscirono a trasformarsi, come era necessario, per reagire al logoramento di quelle che erano state le basi strutturali del consenso - l'appartenenza di classe e l'appartenenza religiosa -, non seppero rispondere adeguatamente alle sfide della modernizzazione, entrarono in una lunga fase di stallo che alimentò il degrado del sistema politico, simboleggiato infine dall'esplosione di TangentopolF. Tra il 1992 e il 1994 quei partiti collassarono : alle elezioni del 1994 non era presente alcuna delle sigle presenti nel 1987. Il cambiamento del vecchio assetto si caratterizzò, in primo luogo, per l'irruzione di un nuovo importante attore partiti co, le varie Leghe (lom­ barda, veneta, piemontese ecc., poi federate nel 1991 nella Lega Nord), che avevano fatto del localismo e delle rivendicazioni autonomistiche la loro bandiera. Soltanto dopo lo shock causato dali 'esplosione del fenomeno leghi sta e dopo i successi elettorali raccolti dalla Lega Nord a danno dei partiti di governo (ma non solo), si fece strada nella classe politica l' idea che la valorizzazione delle autonomie locali e un nuovo ordinamento statale di tipo federale potessero essere la strada da imboccare, non solo per tagliare l 'erba sotto i piedi al partito-movimento guidato da Umberto Bossi, ma, più in generale, per rispondere alla profonda crisi di fiducia in cui versavano le istituzioni politiche. Si è cominciato a pensare che fosse necessario Sull 'argomento, cfr. ad esempio P. lgnazi, Il potere dei partiti. La politica in Italia dagli anni Sessanta ad oggi, Laterza, Roma-Bari 2 0 0 2. 7·

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C A R L O BAC C E T T I

e inevitabile passare da una logica centralistica del potere a una logica policentrica, attribuendo maggiori poteri ai livelli di governo regionali e locali, quelli più vicini ai cittadini. Sulla spinta di questa possente pressione esterna sul sistema politico esercitata dal movimento leghista - che è poi divenuta una spinta dall 'interno, una volta che il movimento si è istituzionalizzato e consolidato e ha avuto accesso a responsabilità di governo -, Regioni ed enti locali sono divenuti la sede privilegiata di riforme e innovazioni istituzionali. Inoltre, i governi territoriali si sono trovati a essere prota­ gonisti e spesso a guidare politicamente un più generale processo di cambiamento che, oltre alle istituzioni, ha riguardato anche la società locale e l'economia del ter­ ritorio. Gli obiettivi di decentramento e di autonomia indicati con le riforme legislative avviate negli anni Novanta erano ambiziosi. Sul piano delle politiche, si è cercata, ad esempio, una nuova e più razionale distribuzione di funzioni e differenziazione di ruoli tra Regioni ed enti locali e tra i diversi livelli del governo locale, con l'obiettivo di fare chiarezza nella distinzione tra compiti di legislazione e di distribuzione delle risorse, propri delle Regioni, e compiti di amministrazione attiva, propri delle Province e dei Comuni. Nello stesso tempo, si è stabilito che i criteri in base ai quali le Regioni dovevano assegnare il potere di amministrazione agli enti locali erano quelli dell'efficienza e del risparmio econo­ mico ; e che in nessun punto della catena amministrativa avrebbero dovuto esserci due livelli di governo che svolgevano la stessa funzione. Sono stati introdotti incen­ tivi alla cooperazione e all 'unione tra i Comuni soprattutto per superare l' inadegua­ tezza di quelli molto piccoli; si è ridefinito il ruolo delle Province, affidando a esse nuovi strumenti e competenze; si è cercato di promuovere l'efficienza dei servizi pubblici locali, ammettendo per la loro gestione la costituzione di società per azioni miste pubblico-private e aprendole progressivamente alla concorrenza e al mercato. Sul piano della politica e della capacità di governo, le riforme hanno mirato a rinnovare la classe politica locale - introducendo nuovi percorsi di selezione e di ingresso nelle istituzioni "direttamente dalla società civile" e riducendo il peso del canale d 'accesso partitico - e, contemporaneamente, a dare ai nuovi vertici degli esecutivi il massimo grado di legittimazione popolare, il controllo sulle giunte e la garanzia di una solida maggioranza che assicurasse stabilità e durata del mandato di governo. E si sono rafforzati, al contempo, strumenti della democrazia partecipativa per favorire il coinvolgimento dei cittadini e il confronto con gli amministratori (procedure d'accesso agli atti facilitate, forum e consultazioni, referendum non solo consultivi ecc.) . Nel dibattito pubblico si è molto valorizzato il fatto che, per la loro situazione di prossimità ai cittadini, i governi locali e soprattutto i Comuni si trovavano nella condizione migliore per "leggere" i differenti bisogni del territorio, per capire il cambiamento e la diversificazione della domanda sociale, prodotto essa stessa delle so

LE REG I O NI E I GOVERNI LOCALI

innovazioni tecnologiche e della flessibilità produttiva del capitalismo globale. Più di altri livelli istituzionali, il governo locale è in grado di canalizzare un numero crescente di domande politiche ed economiche, di promuovere iniziative innovative per inventare nuove risposte ai nuovi problemi della collettività, ed è chiamato a presenziare sui molteplici scenari dove si prendono decisioni che influiscono signifi­ cativamente sulla qualità della vita dei cittadini 8 • In effetti, mentre declinava la capacità di ascolto e di rappresentanza espressa dai partiti politici, sono cresciute le aspettative dei cittadini nei confronti delle ammini­ strazioni locali. Il rafforzamento dell 'autonomia amministrativa e l 'ampliamento delle funzioni e della strumentazione di policy a loro disposizione ha fatto sì che, in molte aree del paese, i Comuni venissero a rappresentare l 'ancoraggio più consistente della politica alla società, il luogo più dinamico di sperimentazione di governance locale innovativa e di attivazione di nuovi canali di dialogo con la società. 2. 1.

UNA N U O VA C EN T RA LITÀ P O L I T I CA P E R L E R E G I O N I

La nascita delle Regioni a statuto ordinario, nel 1970, non aveva portato nel sistema politico italiano quella ventata di novità che era nelle aspettative di molti; non nacque, con le Regioni, un nuovo polo istituzionale con caratteristiche di autonomia verso il centro. Per almeno un decennio nulla cambiò, la riforma regionale non modificò, nella sostanza, la struttura accentrata del processo decisionale statale e la dipendenza della periferia. Nel dibattito che ne accompagnò la nascita non ebbe spazio l 'ipotesi di far partecipare le Regioni al processo legislativo nazionale per le materie di loro competenza (come avviene negli Stati federali) , trasformando il Senato in camera di rappresentanza dei governi regionali. Non furono istituiti organi di collegamento né tra il Parlamento e i consigli regionali, al fine di coordinare le rispettive attività legislative, né tra governo nazionale e governi regionali". Solo negli anni Ottanta furono mossi alcuni passi per aprire canali di collega­ mento di tipo cooperativo tra i due livelli di governo, dopo che il Parlamento aveva segnalato la necessità e l'urgenza di istituire « una sede per un rapporto permanente con gli organi centrali dello Stato e per una partecipazione delle Regioni all 'elabo­ razione delle linee di politica generale di tutto lo Stato-ordinament0 » 10• Nel 1983 cominciò a operare, in via amministrativa, la Conferenza Stato-Regioni, i cui compiti e funzioni furono strutturati e disciplinati alcuni anni dopo, con la 8. Q Brugué, R. Gomà, Las politicas publicas locales: agendas complejas, roles estratégicos y estilo relacional, in Idd. (eds.), Gobiernos locales y politicas publicas. Bienestar social, promocùin economica y Territorio, Ariel, Barcelona I998, pp. 25-3 5. 9· F. Sabetti, Alla ricerca del buongoverno in Italia, Lacaita, Manduria (TA)-Roma-Bari 2 0 0 0. IO. W. Aniello, G. Caprio, I difficili rapporti tra centro e periferia. Conferenza Stato-Regioni, Con­ ferenza Stato Citta-autonomie locali e Conferenza unificata, in "Le Istituzioni del Federalismo", I998, I, P· 47· SI

CARLO BAC CETTI

legge 28 agosto 1988, n. 400. La Conferenza Stato-Regioni era un organo di consul­ tazione e consulenza che il governo centrale poteva utilizzare specialmente in merito ai temi più importanti della programmazione e della pianificazione economica e finanziaria statale. Fino agli anni Novanta la Conferenza ha rappresentato l'ambito istituzionale più rilevante per il confronto con il governo e con gli organi dello Stato centrale; un confronto nel quale le Regioni si sono mosse costantemente in modo unitario ed efficace. La Conferenza, «pur avendo solo poteri consultivi e una bassa visibilità pubblica, è diventata lo snodo fondamentale per l'elaborazione delle poli­ tiche di decentramento e di negoziazione tra Stato e Regioni » 11• Altri però hanno osservato che la ricerca continua dell 'unanimità da parte delle Regioni ha rallentato l'azione della Conferenza, ha necessariamente sfumato le rivendicazioni della peri­ feria nei confronti del governo nazionale e, in sostanza, ha ridotto l'efficacia politica dell'azione volta all'allargamento dello spazio delle competenze regionali. Così, «la Conferenza Stato-Regioni si è ridotta spesso a mero luogo di confronto tecnico, di designazione di nomine e di espressione di pareri dovuti, finendo per perdere la dimensione politica e di confronto generale sui processi di sviluppo dell' intera comu­ nità n az io naie » Nel corso degli anni Novanta, quando si avviò una nuova e più incisiva fase riformatrice, questo primo strumento di comunicazione politico istituzionale bidi­ rezionale tra Stato e Regioni apparve inadeguato a dare voce alla domanda di decentramento che saliva con forza dalla periferia del paese, soprattutto perché la Conferenza rappresentava di fronte al governo solo le Regioni, ovvero uno degli attori istituzionali substatali, mentre ne restavano assenti i governi locali, a comin­ ciare dai grandi Comuni. I governi di centro-sinistra, in carica dal 1996 al 20 01, ampliarono l'azione della Conferenza istituendo accanto a essa un nuovo organismo di raccordo che coinvolgeva anche i Comuni e le Province : nell 'estate del 1996 fu varata la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, composta da sindaci e presi­ denti di provincia, come sede di consultazione permanente tra governo centrale e poteri locali sulle politiche governative che riguardavano il sistema politico locale. Nel 1997 la Conferenza Stato-città ed autonomie locali e la Conferenza Stato­ Regioni furono unificate, per quanto attiene alle materie e ai compiti di interesse comune delle Regioni e degli enti locali13, e venne così a costituirsi una sede stabile di concertazione multipolare tra Stato, Regioni e governi locali. Nell'indirizzare il processo di decentramento verso un nuovo modello di relazioni intergovernative, fu scartato il modello bipolare, che necessariamente avrebbe emarginato e sconten­ tato uno dei due livelli substatali - o le Regioni o gli enti locali. La riforma, messa a punto dal ministro Franco Bassanini, tentò invece di comprendere in un unico Il.

1 1. L. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari 2002, p. IS4· 12. Aniello, Caprio, I difficili rapporti tra centro e periferia, cit., p. so. 13. L. Vandelli, Il governo locale, il Mulino, Bologna 2oos. 52

L E REG I ONI E I G OVERNI L O C A LI

progetto e in un modello di sviluppo multipolare delle relazioni centro-periferia tutto il sistema delle autonomie locali, assimilando e ponendo sullo stesso piano, quali interlocutori politico-istituzionali e come destinatari delle funzioni trasferite dallo Stato, sia le Regioni che gli enti locali14• Vero è che nel corso degli anni Novanta il rapporto tra governi locali e Regioni è venuto rafforzandosi, con il trasferimento dallo Stato a queste ultime di molte competenze legislative relative all 'ordinamento degli enti locali. Le Regioni sono state valorizzate dalla legislazione statale come governo di riferimento dei Comuni e delle Province, ormai sono esse che in gran parte definiscono il quadro normativo nel quale operano gli enti locali. In particolare, le Regioni a statuto speciale, in virtù della legge costituzionale 23 settembre I993, n. 2, hanno la competenza esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali. In queste Regioni si sono così poste «le basi per la creazione di un rapporto [ ... ] assai più simile a quello che caratterizza gli Stati federali » 15• 2.2.

N U O VE C O M PETE N ZE E N UOVE F U N Z I O N I PE R I C O M U N I E LE P R O V I N CE

Per i Comuni e le Province, l'avvio del cambiamento si è avuto con la legge quadro 8 giugno I990, n. I 4 2 , la prima legge generale dell ' Italia repubblicana che abbia fissato «i principi dell'ordinamento dei Comuni e delle Province » e ne abbia deter­ minato le funzioni (art. I ) . Fino ad allora i partiti al governo avevano rinunciato a proporre un progetto di riforma organica del governo locale. Soltanto nel I 9 6 I era stata presentata una proposta di sostituzione dei testi unici del I9 I S e del I934, con un disegno di legge d'iniziativa del ministro dell' Interno Scelba, che rimase però senza alcun esito. Nessun altro progetto di riforma fu elaborato dal governo fino agli anni Settanta16• In termini politici, gli obiettivi della riforma possono essere così sintetizzati: a) una ristrutturazione dei rapporti centro-periferia che alzasse il livello di autonomia I4. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, cit. IS. T. Groppi, Un nuo vo organo regionale costituzionalmente necessario. Il Consiglio delle autonomie locali, in "Le Istituzioni del Federalismo", 200I, 6, p. 1063. I 6. Una riforma complessiva era stata realizzata, soltanto nel campo della finanza locale, all' inizio degli anni Settanta, con provvedimenti che però andavano in direzione opposta al potenziamento dell'autonomia. Tale riforma, infatti, aveva sottratto agli enti locali i principali poteri impositivi e aveva trasformato i bilanci comunali e provinciali « in mere appendici di quello statale, finanziate pressoché unicamente attraverso trasferimenti»: B. Dente, Il governo locale in Italia, in AA.VV., Il governo locale in Europa, Edizioni di Comunità, Milano I977• p. 24S· È stato calcolato che mentre nel I973 gli enti locali traevano dalle imposte locali oltre il 23% delle loro entrate finanziarie, nel I98S tale percentuale era scesa all'8%: A. Fraschini, L. Robotti, Introduzione: ilfinanziamento degli enti locali nell'esperienza italiana e inglese: problemi e proposte, in Id. (a cura di), Lafinanza locale. Italia e Inghilterra a confronto, FrancoAngeli, Milano I 987, p. I 6. 53

C A R L O BAC C E T T I

TABELLA I

Decentramento e autonomia nelle riforme legislative degli anni Novanta Obiettivi della legge 142/I990

Strumenti e soluzioni indicati dalla

Strumenti e soluzioni individuati dalle riforme

legge 1 42/I99 0

varate tra il 1993 e il 1999

Riconoscere agli enti locali L'autonomia è limitata da La legge 3 agosto 1 9 9 9 , n. 265, estende i l'autonomia statutaria (oltre una disciplina legislativa contenuti dello statuto, che trova limiti a quella regolamentare). molto puntuale. solo in espliciti principi di legge. Avviare una nuova distribu­ zione di funzioni agli enti locali (differenziandone i ruoli) .

Un ruolo importante è affi­ dato alla Regione (che man­ tiene solo le funzioni di ambito regionale).

Le leggi 15 marzo 1997, n. 59, 15 maggio 1997, n. 127, e 1 6 giugno 1 99 8, n. 91, confer­ mano le linee della legge 1 42/1990 e avvia­ no un ampio processo di conferimenti.

Sviluppare la partecipazione Procedimento e accesso, refe- Il referendum non è più solo consultivo; dei cittadini. rendum consultivo. se ne facilita lo svolgimento. Superare l' inadeguatezza dei Incentivi alle fusioni e alle Le leggi 5 9 / 1 9 9 7, 1 27 h 9 9 7 e 9 1 / 1 9 9 8 piccoli comuni. unioni dei piccoli comuni. puntano sui "livelli minimi" di esercizio delle funzioni; la legge 265/1999 rafforza e agevola la cooperazione e punta sulle unioni di Comuni e sulle comunità montane. Ridefinire il ruolo delle Nuovi strumenti e compe­ Le leggi 5 9 / 1 9 9 7, 1 27 /1 997 e 9 1 / 1 9 9 8 Province. tenze, tra cui il Piano territo­ rafforzano le Province, in materia di terri­ riale di coordinamento. torio e di attività produttive. Creare un sistema di governo La Regione delimita l'area, riordina i Comuni, ripartisce per le aree metropolitane. le funzioni; nell'area la Pro­ vincia si configura come auto­ rità metropolitana.

La legge 265/1999 punta sulla differen­ ziazione : in ogni area le scelte sulla deli­ mitazione e sull'ordinamento partono dal basso.

Promuovere efficienza nei Si ammettono le S.p.A. locali, Il D.L. 1 6 marzo 1999, n. 79. apre decisa­ servizi pubblici locali. purché a maggioranza pub­ mente alla concorrenza e al mercato, blica. stabilendo obbligo di gara. Garantire autorevolezza e Razionalizzazione dell'elezio­ La legge 25 marzo 1 9 9 3 , n. 81, ha intro­ stabilità al sistema di governo ne del sindaco da parte del dotto l 'elezione diretta del sindaco ; la locale. consiglio; sfiducia costruttiva. riforma del 1 9 9 9 tende a un migliore equilibrio tra gli organi. Ridurre vincoli e controlli.

I controlli del CO RECO sono Le leggi 59/1997 e 1 27/1997 riducono i limitati ai soli atti del consi­ controlli a statuti, regolamenti e bilanci. glio.

Rinnovare l'organizzazione Distinzione tra indirizzo (organi elettivi) e gestione degli enti locali. (funzionari); ridefinizione dei compiti del segretario, che resta un funzionario statale. Fonte: Vandelli, Il governo locale, ci t., p. 9 6.

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Le leggi 59/1997 e 1 27/1 997 precisano espressamente i compiti dei dirigenti; il segretario è scelto dal sindaco che può anche nominare un direttore generale.

LE REG I O NI E I GOVERNI LOCALI

effettiva dei governi locali ; b) una migliore e meglio definita funzionalità degli enti locali e una maggiore efficienza delle politiche pubbliche territoriali; c) una riquali­ ficazione della classe politica locale, sotto il profilo dell 'autorevolezza e della capacità di governo ; d) un allargamento degli spazi di democrazia partecipativa e una mag­ giore incisività degli strumenti di democrazia diretta. Nel 2ooo il vasto e articolato percorso di riforma legislativa compiuto nel corso degli anni Novanta fu sintetizzato e coordinato nel nuovo Testo unico degli enti locali (TUEL) 17, composto di ben 275 articoli, che intendeva dare sistematicità alle disposizioni varate nel decennio, specificatamente in materia di « ordinamento e struttura istituzionale degli enti locali » , « sistema elettorale » , « stato giuridico degli amministratori » , « sistema finanziario e contabile » , «controlli » , « norme fonda­ mentali sull 'organizzazione degli uffici e del personale » 18• Il quadro sinottico (TAB. I) sintetizza gli obiettivi politico-istituzionali che hanno guidato la spinta riformatrice degli anni Novanta e che si sono via via arricchiti e meglio definiti fra il I990 e il I999· 2.3.

LE NUOVE LEG G I ELETTORALI

Dopo la legge quadro I42/ I99 0, il punto di svolta decisivo si era avuto nel I 9 93, quando fu introdotta la nuova legge elettorale per i Comuni e per le Province. La legge 8I/ I9 93, ha modificato profondamente i meccanismi della competizione inter­ partitica per la conquista del potere locale, introducendo, per la prima volta, l 'ele­ zione diretta dei sindaci (e dei presidenti delle Province), con un sistema elettorale a due turni, con eventuale ballottaggio (per i comuni con più di Is .ooo abitanti), che conferiva al sindaco eletto e al presidente della Provincia il massimo grado di legittimazione popolare. La legge ha riformato poi radicalmente, in senso maggiori­ tario, il sistema di elezione dei consigli, per garantire una solida maggioranza consi­ liare alle forze collegate con il sindaco o presidente eletto. E ha legato indissolubil­ mente le sorti di tutti gli organi di governo dell 'amministrazione : eletti contestualmente, sindaco e consiglio decadono insieme, determinando inevitabili elezioni anticipate, sia nel caso di dimissioni del sindaco sia nel caso di sfiducia consiliare nei confronti del sindaco stesso : «L'assemblea rappresentativa può rovesciare il capo dell'esecutivo, ma soltanto con un voto di sfiducia distruttiva, meccanismo che assieme alla caduta del sindaco determina, secondo la formula del simul stabunt, simul cadent, la disso­ luzione della stessa assemblea » 19• Inoltre, la legge 8I/ I993 ha rafforzato notevolmente

I7. TUEL, approvato con D.Lgs. I8 agosto 2000, n. 267. I 8. Vandelli, Il governo locale, cit., p. 99· I9. A. Di Virgilio, Il sindaco elettivo: un decennio di esperienze in Italia, in M. Caciagli, A. Di Virgilio (a cura di), Eleggere il sindaco. La nuova democrazia locale in Italia e in Europa, UTET, Torino 200S, P· II.

ss

C A R L O BAC C E T T I

il ruolo del sindaco, attribuendogli il potere di nominare (ed eventualmente di revocare) gli assessori, nonché i dirigenti comunali e i rappresentanti del Comune presso aziende e istituzioni. La legge si caratterizza anche per aver introdotto una netta distinzione tra gli assetti della giunta da quelli del consiglio : nelle Province e nei Comuni di maggiori dimensioni il sindaco non presiede il consiglio comunale e quest'ultimo elegge autonomamente il proprio presidente. Inoltre, è stabilita l'incom­ patibilità tra la carica di assessore e quella di consigliere. Infine, la legge ha vietato di ricoprire per più di due mandati consecutivi la carica di sindaco o quella di assessore, stabilendo dunque un limite temporale rigoroso alla permanenza negli esecutivi locali. Inizialmente la durata di un mandato era stata abbassata a quattro anni; dal 1999 è stata riportata a cinque. L'investitura popolare del sindaco fu intesa come il passaggio indispensabile per renderlo autonomo dai condizionamenti e dai ricatti più o meno velati dei partiti che formavano la sua maggioranza, ed era vista come l'asse che finalmente avrebbe garantito stabilità ed efficienza al governo locale. Anche la riforma della legge elettorale regionalelo aveva lo scopo di modificare in senso maggioritario i meccanismi proporzionali "puri" in vigore in precedenza, rafforzando il peso dei governi rispetto alle assemblee e concentrando maggiori poteri nelle mani dei vertici degli esecutivi. La legge elettorale regionale del 1995 introduceva accanto alle liste provinciali, che assegnavano ora l' S o% dei seggi con un meccanismo proporzionale che restava invariato, anche delle liste regionali bloccate, collegate a un candidato presidente il cui nome appariva indicato sulla scheda e alle quali si attribuiva il restante 20% dei seggi, rappresentando una sorta di premio di maggio­ ranza da attribuire al candidato che otteneva più voti. Con la lista bloccata si sot­ traeva un quinto degli eletti della coalizione vincitrice alla lotta infrapartitica per le preferenze e si attribuiva in dote alla figura del candidato presidente una sorta di "listino" personale, che intendeva rafforzarne l'autorevolezza e l'autonomia rispetto alle liste partitiche. Ma la novità che contribuiva fortemente alla personalizzazione della competizione elettorale, mettendo al centro dell'attenzione la figura del presi­ dente, era l' indicazione sulla scheda elettorale del nome dei candidati presidenti collegati alle liste regionali e provinciali. Per percorrere fino in fondo la riforma in senso presidenziale dei governi regio­ nali, introducendo, come per i Comuni e le Province, l'elezione diretta dei capi dell 'esecutivo era necessario però arrivare a una modifica della Costituzione, che attribuiva (art. 122) l'elezione del presidente al consiglio regionale. È quanto ha provveduto a fare la legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, che ha affidato alle Regioni poteri costituenti rispetto alla forma di governo e al meccanismo elettorale.

20.

Legge 23 febbraio

1995,

n.

43· s6

LE REG I O NI E I GOVERNI LOCALI

3 Dopo il 200 1 : verso uno Stato delle autonomie locali Il punto più alto nel processo di decentramento politico-amministrativo e di poten­ ziamento delle autonomie locali lo si raggiunse nel marzo 2001 quando, proprio allo scadere della XI I I Legislatura, il Parlamento italiano approvò la legge di riforma costituzionale 3/200 111• I principi e la disciplina generale da essa stabiliti hanno introdotto cambiamenti di rilievo sia nel rapporto tra Stato e Regioni in quanto organi costituzionali dotati di potestà legislativa sia, più in generale, nella distribu­ zione complessiva dei poteri e delle funzioni tra i diversi livelli di governo. Sul primo punto, le linee della riforma collocano ora lo Stato e le venti Regioni italiane nell'ordinamento costituzionale come soggetti entrambi titolari di una parte di sovranità legislativa. Stato e Regioni operano in modo coordinato e distinto per realizzare i valori affermati dalla Costituzione. Non c 'è più dunque, come in passato, un rapporto di subordinazione della Regione verso lo Stato che si concretizzava nel potere di controllo e di impugnazione che quest'ultimo manteneva sulle leggi regionali. Sul secondo punto, i nuovi articoli della Costituzione attribuiscono alle Regioni e ai governi locali maggiori poteri legislativi e una maggiore autonomia nel controllo delle risorse. Essi segnano un passo decisivo verso il decentramento del potere politico e delle funzioni amministrative e per il rafforzamento delle autonomie locali, in direzione di un effettivo processo di federalizzazione dello Stato italiano, che si può ora definire come uno "Stato delle autonomie locali". « Lo Stato centrale appare oggi davvero "svuotato" dai provvedimenti legati a questa riforma, che dunque ha attri­ buito alle Regioni e ai governi locali un ruolo importante nel ridefinire il sistema politico » 1 1 • I principi ispiratori del nuovo patto «di tipo federale » tra le istituzioni territo­ riali che governano la vita della comunità, sono sostanzialmente tre: 1. la « sussidia­ rietà » ; 2. la « differenziazione » delle competenze tra i diversi livelli di governo ; 3 · «l'adeguatezza » dei livelli di governo subnazionali (Regioni ed enti locali) a svolgere le funzioni loro assegnate. Attraverso l'articolazione legislativa di questi indirizzi di fondo, la riforma mirava sostanzialmente a due obiettivi politici13: a) rafforzare le istituzioni politiche e met­ terle in condizione di agire come centri di potere pluralistici e diffusi sul territorio Legge I 8 ottobre 200I, n. 3· La legge introduceva Modifiche al titolo v della parte seconda della Costituzione, cioè a quella parte che fissa le istituzioni che compongono l'ordinamento fondamentale della Repubblica italiana: il Parlamento, la magistratura, la presidenza della Repubblica e, appunto nel Titolo v, le Regioni, le Province e i Comuni. La legge è entrata in vigore definitivamente nell'ottobre 200I, dopo essere stata sottoposta a un referendum confermativo. 22. M. Cotta, L. Verzichelli, Il sistema politico italiano, il Mulino, Bologna 200 8, p. 207. 23. lllustrati, nella relazione di maggioranza che accompagnava il testo della legge, dai relatori Antonio Soda (os) e Vincenzo Cerulli Irelli (PPI). 2I.

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nazionale. Il potere, insomma, non doveva più essere identificato dai cittadini sol­ tanto con la capitale, con Roma, che nell'opinione pubblica è spesso considerata il luogo dove domina una politica separata e lontana dai bisogni dei cittadini; b) creare le condizioni per una pubblica amministrazione più snella ed efficiente. Anche qui l'obiettivo era di smentire l'opinione largamente diffusa tra i cittadini secondo cui la pubblica amministrazione italiana - identificata sovente con i ministeri "romani" è sinonimo di inefficienza e clientelismo quando non di corruzione. Il "patto federale" che venne stipulato con la legge 3/2ooi doveva prendere corpo soprattutto attraverso l'autonomia finanziaria, di entrate e di spesa, di cui avrebbero goduto le Regioni e gli enti locali, ai quali sarebbero andati tributi ed entrate proprie e il diritto di ricevere una parte del gettito fiscale nazionale. Per garantire che anche le Regioni più povere, cioè con una minore capacità fiscale pro capite, fossero in grado di sostenere finanziariamente le funzioni loro assegnate, la legge istituiva un « fondo perequativo nazionale » attraverso cui, in sostanza, una quota delle risorse finanziarie delle regioni più ricche - quelle del Centro-Nord - veniva messa a dispo­ sizione delle Regioni meno ricche - quelle del Sud. La nuova legge costituzionale presentava insomma una sua specificità che consisteva nell 'abbinamento tra principio di sussidiarietà e riforma in senso federalista dello Stato. Diversamente da altri modelli federali, il modello di decentramento federalistico introdotto in Italia fissava direttamente in Costituzione l'assetto degli enti locali (Comuni, Province e città metropolitane) e non lo lasciava alla discrezione della legge ordinaria o delle leggi regionali. Ugualmente, sia le funzioni sia le risorse degli enti locali venivano definite e attribuite sulla base dei principi fissati in Costituzione. Le modifiche introdotte al testo dell 'art. 1 1 4 riassumono efficacemente il senso di tutta la riforma. Il testo precedente si limitava a stabilire che la Repubblica italiana « si riparte » in Regioni, Province e Comuni; il testo del nuovo articolo rovescia la piramide istituzionale e stabilisce che la Repubblica « è costituita » , nell 'ordine, « dai Comuni, dalle Province, dalle città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato » . Il cambiamento è evidente e molto importante : con la formula precedente si diceva che lo Stato non era solo una parte della Repubblica ma la rappresentava come ente unitario, ripartito al suo interno in unità minori. Con la nuova formula si afferma invece che la Repubblica italiana non ha più un soggetto istituzionale riassuntivo che la rappresenti: essa è data dalla somma e dall ' intera­ zione dei Comuni, delle Province, delle città metropolitane, delle Regioni e, appunto, dallo Stato. 3. 1.

LE NUOVE

P O L I CIES

D E I G OV E R N I L O C A L I

Le riforme degli anni Novanta hanno portato grandi novità anche sul piano delle politiche locali, non solo della politica. Cambiamenti sostanziali hanno investito i processi decisionali e la produzione delle politiche pubbliche. La nuova centralità ss

LE REG I O NI E I GOVERNI LOCALI

assunta dai vertici degli esecutivi, sindaci e presidenti, e la maggiore ampiezza e soli­ dità delle maggioranze politiche che li sostengono hanno aperto la strada al diffon­ dersi di un nuovo stile decisionale, improntato alla collaborazione e ali ' adozione di strategie anticipatorie di tipo inclusivo, con il coinvolgimento sempre più ampio, nei processi decisionali pubblici, di attori e interessi privati. Le politiche pubbliche degli enti locali sono state ridefinite alla luce sia delle trasformazioni organizzative sia, in conseguenza, delle nuove priorità che i governi locali si sono dati. La mobilitazione si concentra sempre più sugli obiettivi di pro­ mozione dello sviluppo economico e sulle politiche di coesione sociale, rese neces­ sarie, queste ultime, dai grandi processi mondiali di trasformazione economica e sociale, che hanno riscritto l 'agenda anche dei governi locali. Le amministrazioni locali sono riconosciute non solo come enti erogatori di servizi ma come attori poli­ tici essenziali per lo sviluppo del territorio. Le ricerche sulla politica locale hanno preso a oggetto i nuovi strumenti di policy e le modalità di apertura alla società civile e agli interessi organizzati. Ci si è chiesti se e come la ridislocazione del peso degli attori politici locali - meno potere ai partiti, quasi tutto il potere agli amministratori - abbia modificato le politiche pubbliche e abbia comportato anche una reale innovazione dei contenuti dell 'agenda e dello stile decisionale dell 'amministrazione. In effetti, si sono regi­ strati « sforzi significativi per superare i consueti limiti delle politiche ordinarie ( in genere di tipo incrementale, parcellizzato, prevalentemente distributivo ecc.) e un maggiore orientamento verso criteri concertativi che tendono a scavalcare la mediazione dei parti ti » 2.4• Tutti i governi locali hanno attivato e formalizzato strutture decisionali che si aprono al coinvolgimento diretto, nelle scelte di governo, di attori esterni alle isti­ tuzioni (grandi imprese, banche e società private, rappresentanti di categorie pro­ duttive e gruppi di interesse, ambientalisti, associazioni e centri di ricerca di vario genere, agenzie funzionali pubbliche ecc.) . È stata istituzionalizzata la presenza di una rete di attori pubblici e privati che ha modificato in profondità i processi deci­ sionali locali. Sempre più il Comune, specialmente nelle grandi città, è un attore tra gli altri che partecipa, in un ruolo certo importante, alle reti di consultazione che so stanziano la governance urbana e da cui scaturiscono le decisioni di governo. Deci­ sioni che trovano poi un suggello formale, quando l'accordo è raggiunto, nelle sedi istituzionali con la sottoscrizione di patti o contratti. Alcune amministrazioni pro­ vinciali, ad esempio, hanno istituito degli specifici assessorati per la "concertazione territoriale". Si tratta di novità rilevanti, che hanno segnato non solo la nuova politica locale

R. Catanzaro, F. Piselli, F. Ramella, C. Trigilia, Comuni nuovi. Il cambiamento nei governi locali, il Mulino, Bologna 2002, p. 40. 2 4.

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ma il funzionamento complessivo del sistema politico. Chi "fa politica'' a livello locale cessa di considerarsi e di agire, sostanzialmente, come un tassello territoriale della politica nazionale e prende consapevolezza del fatto che il benessere delle città dipende prima di tutto dalla capacità di mobilitare le risorse presenti sul territorio e dalla capacità di governance locale. La leadership esercitata dai sindaci e presidenti di Provincia è stata spesso individuata come elemento decisivo per il successo delle politiche pattizie. I vertici istituzionali si pongono, laddove ne abbiano le capacità personali, come punto di riferimento e di interconnessione della rete organizzativa territoriale tra istituzioni e attori economici e sociali. I cambiamenti intervenuti nella governance locale riguardano anche, in modo , significativo, l introduzione di metodi innovativi di finanziamento di cui, dagli anni Novanta, hanno cominciato ad avvalersi gli enti locali. Particolarmente frequente, tra gli strumenti di finanza innovativa, è, ad esempio, il ricorso alla "finanza di progetto'' come strategia di finanziamento, ovvero come ricerca delle risorse economiche neces­ , sarie alla realizzazione di opere infrastrutturali o per l attivazione di servizi pubblici. L'aspetto peculiare della finanza di progetto è il coinvolgimento di una pluralità di soggetti privati a fianco dell'ente pubblico. La finanza di progetto è stata introdotta in Italia da una normativa del 1994 2.s e consiste, molto sinteticamente, in una tecnica di finanziamento di opere pubbliche da parte di investitori privati che realizzano quelle opere e poi le gestiscono (si tratti di un parcheggio, come di un edificio di uso pubblico, un impianto sportivo o una infrastruttura viaria ecc.) per un lungo periodo di tempo, ricavando il loro profitto economico dalla manutenzione e dalla gestione di quelle stesse opere. La finanza di progetto si caratterizza come strumento di una più generale e dif­ fusa contrattualizzazione delle politiche pubbliche, tipica modalità operativa della nuova governance locale. Essa affida ingenti risorse e capacità decisionali agli attori politici locali; ma richiede in cambio capacità di coordinamento elevate e una ancor più elevata capacità di contrattazione e mediazione politica, oltre che determinazione nel saper definire e non perdere di vista, per così dire, le priorità delr interesse pub­ blico, districandosi nel groviglio di cooperazione e conflitto che caratterizza più o meno tutti i processi di policy. La finanza contrattualizzata comporta una continua negoziazione tra attori pubblici e privati, i quali spesso perseguono obiettivi diver­ genti, o solo in parte convergenti. Il rischio per chi governa rente locale è di non riuscire a tenere una negoziazione che conduca a un "giusto compromesso'' e non sacrifichi r interesse pubblico di fronte alresigenza di profitto economico delrattore pnvato. .

La legge 1 1 febbraio 1 994, n. 109, Legge quadro in materia di lavori pubblici (comunemente detta legge Merloni dal nome del ministro che la propose), integrata e modificata successivamente, nel 1995, 1998, 2 0 0 2 e 20 07, da altri provvedimenti legislativi, anche in adeguamento al diritto comunitario. 25.

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LE REG I O NI E I GOVERNI LOCALI

4 La crisi (finanziaria) del disegno autonomistico negli anni Duemila Il nuovo protagonismo guadagnato dalle Regioni e dai governi locali nel sistema politico italiano, dagli anni Novanta a oggi, presenta tuttavia limiti e incongruenze notevoli. C 'è innanzi tutto, sullo sfondo, un peccato originale del processo di decen­ tramento e di riordino istituzionale dato che, come abbiamo accennato, non si è scelto un nuovo modello di relazioni intergovernative, non si è data una risposta precisa alla domanda cruciale "che cosa si decentra e a chi" e non si è fatta chiarezza in merito all'attribuzione delle funzioni fondamentali proprie di Regioni, Province e Comuni. Quando si è trattato di scegliere, tra un modello propriamente regionalista che devolvesse compiti e funzioni soprattutto al livello di mesogoverno rappresentato dalle Regioni, o un modello che favorisse piuttosto il rapporto diretto tra Stato ed enti locali, decentrando funzioni e competenze direttamente a Comuni e Province, in realtà non si è scelto. Per non scontentare nessuno si è cercato di comprendere in un unico modello tutto il sistema delle autonomie locali; assimilando e ponendo sullo stesso piano, quali interlocutori politico-istituzionali e destinatari delle funzioni trasferite dallo Stato, sia le Regioni sia gli enti locali. Così, nonostante i buoni pro­ positi e le dichiarazioni di principio, Regioni, Province e Comuni continuano ine­ vitabilmente a sovrapporsi e a confliggere tra loro con notevoli inefficienze e spreco di risorse economiche e umane. Che la riforma dello Stato sia rimasta incompiuta lo dimostra, tra l'altro, il fal­ limento dei principali strumenti di raccordo interistituzionale previsti dalla Costitu­ zione riformata del 2001. La legge 3/2001 ha previsto due specifiche sedi di coordi­ namento e di confronto tra Stato, Regioni ed enti locali. Una di queste è il Consiglio delle autonomie locali, che le Regioni devono introdurre nei propri statuti, quale organo di consultazione tra la Regione stessa e gli enti locali. L'obiettivo è quello di dare vita a un unico soggetto di rappresentanza del sistema delle autonomie in ambito regionale e permettere, attraverso di esso, che anche i Comuni e le Province possano partecipare alle scelte politiche e all' individuazione degli obiettivi generali della programmazione socioeconomica e territoriale. In realtà, le Regioni hanno introdotto con ritardo e incertezze i Consigli delle autonomie locali nei loro statuti, e perlopiù essi sono stati definiti come organi di semplice consultazione, senza alcuna effettiva capacità di incidere sulle decisioni e sulle scelte del governo regionale. Nel complesso, insomma, il Consiglio delle autonomie locali rimane un attore marginale nel sistema delle relazioni intergovernative Regione-enti locali. Il secondo strumento di raccordo previsto dalla legge 3/2001 è la Commissione parlamentare per le questioni regionali, che avrebbe dovuto essere integrata con rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali. L'allarga­ mento sarebbe dovuto avvenire attraverso una modifica dei regolamenti parlamentari 61

C A R L O BAC C E T T I

tale da permettere la partecipazione ai lavori della Commissione anche a membri non parlamentari, in proporzioni e in quantità da stabilire. In realtà, nessuna concreta iniziativa è stata presa per attuare questa disposizione costituzionale e l' integrazione della Commissione con rappresentanti delle autonomie locali non si è realizzata. E opinione diffusa che l' idea di far nascere un "luogo" di cooperazione istituzionale multilivello da una semplice modifica dei regolamenti parlamentari sia stata una sorta di escamotage messo in atto dalle forze politiche, una tipica soluzione "all ' italiana" per prendere tempo e rimandare a giorni politicamente migliori una grande e com­ plessa questione quale appunto era, ed è, la riforma del bicameralismo. Il fatto è che non c 'era (e non c 'è) accordo sufficiente tra i partiti su come "portare" il sistema delle autonomie nel Parlamento, cioè su come concretamente articolare le relazioni intergovernative in una prospettiva di collaborazione e cooperazione multilivello. Ma c 'è stato, soprattutto, un problema di carattere finanziario, legato ai costi della politica (anche) locale, che è intervenuto nell'ultimo decennio, a frenare il processo di decentramento e a ridimensionare per molti aspetti l'autonomia guada­ gnata nel decennio precedente da Regioni e governi locali. Il problema dei costi della politica ha in realtà due aspetti distinti, che finiscono poi per sovrapporsi. '

4. 1 .

P E R S O NA L I Z Z A Z I O N E D E LLA P O L I T I C A

E P R O F E S S I O NA L I Z Z A Z I O N E D E G L I E L E T T I

Il primo aspetto riguarda la degenerazione del modo di intendere l'autonomia, impu­ tabile a molti degli eletti nelle istituzioni locali. L'elezione diretta dei capi delle amministrazioni ha fatto esplodere un processo di personalizzazione della politica che ha significato, al tempo stesso, una nuova modalità di professionalizzazione dell'attività politica a livello locale. Si è venuta a creare, cioè, una nuova tipologia di politici: i professionisti delle cariche elettive, che hanno trovato nelle risorse collegate alle cariche molteplici opportunità per consoli­ dare il consenso politico ottenuto e per trasformare l' incarico elettivo in un'attività professionale stabile e, di norma, ben retribuita. Le riforme legislative hanno concesso agli eletti - per metterli in condizione di fronteggiare e gestire al meglio la grande quantità di potere e di funzioni che si è concentrata nelle loro mani - di crearsi una struttura di staff, di attribuire incarichi dirigenziali adpersonam e di praticare lo spoils system, sia nelle strutture dirigenziali di Comuni e Province, sia negli organismi di gestione di enti e aziende a essi collegati. Sindaci, presidenti e assessori hanno potuto selezionare e introdurre nelle istituzioni pubbliche o semipubbliche una rete di diri­ genti, di esperti, consulenti, collaboratori e fiduciari retribuiti con risorse pubbliche, che rafforzano il potere politico di chi li ha nominati e procurano consenso sul territorio. Questa concentrazione di potere in capo agli eletti ha finito per cambiare la qualità stessa del sistema politico locale, al centro del quale non ci sono più i dirigenti delle strutture territoriali del partito, ma i vertici dei governi locali. Gli eletti

LE REG I O NI E I GOVERNI LOCALI

finiscono con il sostituire i partiti, i quali vivono quasi soltanto nelle istituzioni: « Oggi troppo spesso si sta nei partiti solo per essere eletti o si viene eletti senza nemmeno entrare nei partiti. L'eletto, a quel punto [ ... ] non risponde più a nessuno. Ha i soldi, ha una segreteria, dirige di fatto le strutture di partito »2.6• Le peculiari risorse di tipo clientelare a disposizione dei governi locali sono divenute particolarmente rilevanti anche perché possono essere utilizzate con notevole libertà, senza troppi rischi di incorrere in sanzioni di tipo amministrativo o penale. Infatti, dall'inizio degli anni Novanta sono state allargate notevolmente le maglie della rete di tutti i controlli, sia penali sia amministrativo-contabili e politico-istituzionali. Il nuovo sistema dei controlli ha dato credito alla responsabilità politica degli amministratori, riducendo di molto i vincoli precedenti, troppo stretti, dei controlli di legittimità e depotenziando la spada di Damocle della responsabilità penale: «La convinzione era che a controlli fondati sulla forma dovessero e potessero sostituirsi controlli fondati sulla sostanza. Amministratori più liberi, ma al tempo stesso più responsabili, meno timorosi del controllo formale, e più attenti alle domande degli amministrati »2.7• In realtà, in molti casi, la riduzione dei controlli ha avuto effetti perversi : ha portato a una moltiplicazione di tipo clientelare delle cariche e degli incarichi e a una crescita dei costi della politica che chiama in causa l'azione irresponsabile di molti governi locali. Troppo spesso si è dovuto osservare che la rafforzata autonomia locale è andata in direzione opposta a quella auspicata, non ha ridotto la distanza tra amministratori e amministrati, « non ha introdotto maggiore trasparenza e controllo sugli atti, non ha impedito né ridotto la corruzione e l 'appropriazione illegale delle risorse finan­ ziarie pubbliche » 2.s. Infine, un altro tipo di cambiamento che ha spinto verso la professionalizzazione degli eletti è di ordine economico e va individuato nella crescita dei compensi a essi assegnati. Per decine di migliaia di persone il mandato elettivo negli enti locali è divenuto una vera e propria fonte di reddito, «una nuova forma di lavoro dipendente » 2.9• 4.2.

V I N C O L I D I B I LA N C I O E N E O C E N T RA L I S M O

Il secondo aspetto del problema finanziario, che ha frenato il decentramento fino a segnare addirittura un'inversione di rotta, è rappresentato dai vincoli di bilancio posti dall' Unione Europea. Già con i parametri economici e i vincoli di bilancio introdotti C. Salvi, M. Villone, Il costo della democrazia. Eliminare sprechi, clientele e privilegi per rifor­ mare la politica, Mondadori, Milano 2005, p. 52. 27. lvi, p. 84. 28. A. Lorelli, Gli istituti della partecipazione popolare a sei anni dalla legge S agosto 1990 n. 142, in S. Gambino, G. Fabbrini (a cura di), Regione e governo localefra decentramento istituzionale e riforme, Maggioli, Rimini I9 97· p. 338. 29. Salvi, Villone, Il costo della democrazia, cit., p. s o. 26.

C A R L O BAC C E T T I

con il Trattato di Maastricht (1992), relativi al tasso di inflazione e al rapporto tra deficit di bilancio, debito pubblico e prodotto interno lordo e poi soprattutto dagli anni Duemila con l ' introduzione della moneta unica, gli Stati dell' Unione furono vincolati al rispetto rigoroso della disciplina di bilancio. Perciò, in Italia, i governi nazionali, in modo abbastanza indipendente dal colore politico, hanno adottato politiche finanziarie restrittive e misure di ricentralizzazione della spesa, fortemente penalizzanti delle autonomie locali : così è stato con il vincolo del Patto di stabilità interno, il taglio massiccio dei trasferimenti erariali alle Regioni e agli enti locali, la riduzione delle entrate proprie e il divieto di effettuare nuove assunzioni . .. E evidente che i due aspetti del problema finanziario - sprechi e spese clientelari (che spesso sfociano nella corruzione) da un lato e, dall'altro, rigorosa disciplina di bilancio imposta "dall'alto" - si sovrappongono, perché i primi giustificano la seconda e la costringono a essere ancor più "spietata". Insieme ai molti sprechi ed eccessi di spesa che certamente c 'erano, si sono però ridotti anche i servizi ai cittadini e gli investimenti infrastrutturali e per promuovere lo sviluppo. La riduzione della capacità di spesa delle Regioni e dei governi locali significa dunque che questi non sono più in grado di esercitare in modo autonomo poteri e funzioni che le riforme degli anni Novanta gli avevano attribuito. Tra le vittime illustri di questa virata neocentralistica c 'è, ad esempio, il federa­ lismo fiscale introdotto dalla riforma costituzionale del 2001. Nel maggio 2009 il governo aveva approvato un'importante legge in materia di autonomia finanziaria e tributaria delle Regioni e degli enti locali, dando attuazione al federalismo fiscale previsto dall'art. I I9 della Costituzione riformata30• Il governo non ha poi dato attua­ zione alla delega, che è rimasta in stallo perché nel frattempo è "esplosa" la crisi della finanza pubblica e la risposta data dai governi in Europa, negli ultimi tre anni, è stata quella di accentuare fortemente le restrizioni attraverso una secca ricentralizzazione della gestione della spesa. Inoltre, in Italia è stato attivato un processo di riordino istituzionale degli enti locali dettato anch'esso, quasi soltanto, dall 'esigenza di tagliare la spesa pubblica. Tra gli obiettivi principali del riordino sembra esserci la Provincia, di cui si parla ormai da alcuni anni con insistenza come di un ente inutile. In realtà, nel corso degli anni Novanta la Provincia aveva sperimentato un processo di consolidamento amministra­ tivo, era stata chiamata a svolgere funzioni generali di pianificazione e programma­ zione territoriale e le erano state attribuite competenze nella gestione di politiche importanti quali il trasporto pubblico locale, la localizzazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti, l 'edilizia scolastica, la formazione professionale ecc. Vero è che le Province sono unità amministrative molto differenziate tra loro, sotto il profilo demografico e territoriale, e presentano nell' insieme un quadro di notevole fram30.

Legge

s

maggio 2009,

n.

dell'articolo II9 della Costituzione.

42,

Delega al Governo in materia difoderalismo fzscale, in attuazione

LE REG I O NI E I GOVERNI LOCALI

mentazione, contraddistinto dall'elevato numero complessivo ( I Io ) e dalla prevalenza di Province piccole o molto piccole. Questa forte differenziazione dimensionale incide molto sul rendimento istituzionale e sull'effettiva capacità di governare. Pare ormai certo che, seppure non scompariranno, le Province saranno accorpate e ridotte fortemente di numero e trasformate in enti di secondo grado.

s

Per (non) concludere Questo duplice processo in corso da alcuni anni all 'insegna di una ricentralizzazione assai spinta, in termini di riordino istituzionale e di rigore finanziario, ha frenato il decentramento fino a far immaginare un' inversione di tendenza non episodica. Ciò impedisce di avanzare valutazioni compiute sulle trasformazioni che Regioni e governi locali hanno conosciuto negli ultimi trent'anni e sulla loro collocazione nel sistema delle relazioni tra centro e periferia . E un fatto che il centralismo del modello originario, sabaudo-napoleonico, sopravvissuto per decenni nell' Italia repubblicana, sia ormai soltanto un ricordo. Indubbiamente, la politica locale e le istituzioni di governo del territorio rivestono oggi un ruolo ben più rilevante nella dinamica complessiva del sistema politico ita­ liano rispetto agli anni Settanta e Ottanta. Ma è altrettanto indubbio che le trasfor­ mazioni dell'assetto istituzionale dello Stato abbiano seguito una logica incrementale; esse sono scaturite da valutazioni di opportunità di carattere politico contingente, sono state dettate soprattutto da pressioni esterne ed è mancata una valutazione della coerenza complessiva del sistema che si andava riformando. Altrettanto incrementale, priva di una visione progettuale e sistemica è l 'attuale fase di controriforme neocen­ traliste, sollecitate dall' "Europa" e dai "mercati". Il nuovo sistema delle autonomie locali è rimasto per molti aspetti incompiuto e, d'altra parte, in molti casi l'autonomia è stata utilizzata in modo irresponsabile. Forse proprio l ' irresponsabilità con cui una parte non piccola della nuova classe politica locale ha usato l'autonomia, rappresenta la delusione maggiore, rispetto alle speranze di rinnovamento "dal basso", dal territorio, anche in termini di etica pub­ blica, che animavano i riformatori degli anni Novanta. Decentrare poteri e compe­ tenze lontano da Roma non è che abbia molto contribuito ad abbassare il tasso di inefficienza, di clientelismo, di corruzione ecc. L'impressione è che molti dei sentieri tracciati dal processo riformatore degli anni passati siano rimasti interrotti, insabbiati o avvolti dalla nebbia. Insomma, anche dalla prospettiva del governo locale ci si offre l ' immagine di una transizione politica ita­ liana tanto lunga quanto ancora incompiuta. ..

6s

" Tangentopoli" : storia e memoria pubblica nella crisi di transizione dell' Italia repubblicana di Maurizio Ridolfi

I

Premessa '

E opportuno indagare il tema della corruzione nell' Italia degli anni Novanta non tanto per misurarne, ancora una volta, la sua influenza sul funzionamento del sistema democratico, ma per raccontare gli usi che di essa si sono fatti nel dibattito pubblico trasformandola in questione morale. Interessa vedere come la corruzione divenne uno strumento della competizione partitica e una categoria di indagine sulla crisi della Repubblica. Sembrò allora venire a galla quell ' "ltalia degli scandali" che pure aveva una lunga storia1• Essa però solo allora assunse la funzione di detonatore della crisi di sistema, come ormai si documenta in lavori di impianto tanto storicol quanto storico-giornalistico3• La denuncia della corruzione partiti ca assunse il valore di un fenomeno di massa, ben oltre le più avvertite sensibilità dell'opinione pubblica. Collisero due inadempienze : il mancato risanamento economico (che l' incontrollato debito pubblico evidenziava) e l'assenza di un'effettiva, pur rivendicata, riforma delle istituzioni repubblicane4• Il contesto generale rinvia all 'influenza delle inchieste anticorruzione della magi­ stratura sul processo di delegittimazione degli equilibri di potere democristiano­ socialista propri degli anni Ottanta, nel nome di una smarrita etica pubblica e di un 1. Cfr. dapprima F. Cazzola, Della corruzione. Fisiologia e patologia di un sistema politico, il Mulino, Bologna 1988, laddove un approccio politologico contempla in realtà anche una ricerca storica di lungo periodo e con fonti diverse (giudiziarie, giornalistiche e parlamentari); quindi V. M. Caferra, Il sistema della corruzione. Le ragioni, i soggetti, i luoghi, Laterza, Roma-Bari 1 992, e D. Della Porta, Lo scambio occulto, il Mulino, Bologna 1 992. 2. Cfr. ad esempio S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (19S9-2011), Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 26-30, e G. Crainz, Il paese reale. Dall'assassinio di Moro all 'Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012, pp. 225 ss. 3· Cfr. G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, Mani pulite. La vera storia, 20 anni dopo, Chiare­ lettere, Milano 2012, e M. Damilano, Eutanasia di un potere. Storia politica da Tangentopoli alla seconda Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2012. 4· Cfr. P. Scoppola, Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-1996), il Mulino, Bologna 1997·

MAURI ZIO RID OLFI

pieno ritorno allo stato di diritto;. In questa sede il racconto privilegia la retorica e la rappresentazione politica della corruzione nei suoi nessi con la questione morale. Si guarda alla mediatizzazione di Tangentopoli, nel vivo delle cronache giudiziarie tra il 1992 e il 19936 , nonché di un protagonismo inedito della magistratura rispetto alle protervie della politica7, nonché alla ritualizzazione degli anniversari di Mani pulite nella memoria pubblica. Non si guarda pertanto e prevalentemente alle cro­ nache politico-giudiziarie ma al processo massmediatico messo in moto attraverso la stampa (quotidiani e settimanali di opinione) e trasmissioni televisive (in reti sia pubbliche sia private) ovvero al gioco di specchi tra storia e memoria. Le inchieste giudiziarie di Mani pulite, esaltate dai fautori di uno Stato eticamente integro e denigrate dai critici della magistratura politicizzata, fecero emergere alla luce del sole le profonde trasformazioni verificatesi nella politica italiana. Venuto meno l'originario ruolo di mediazione tra consenso politico e accesso alle risorse con la crisi finanziaria dello Stato, emerse il nesso stretto tra clientelismo partitico ed estensione della corruzione politica. Il clientelismo in età repubblicana era stato il risultato di un controllo corporativo del consenso inteso a tutelare i ceti medi come epicentro sociale dello sviluppo economico. Con la crisi della protezione sociale garantita dallo Stato e con gli effetti dei vincoli finanziari europei, la messa a regime delle tangenti come pratica di tutto il sistema politico rappresentò una prassi aggiornata del clientelismo8, attraverso l'estensione alla pubblica amministrazione e alle attività economiche della dipendenza dai partiti di governo (al centro come nelle istituzioni locali). Per non dire dei legami presenti e sempre discussi tra mafia e ambienti politici così come dei muta­ menti nei rapporti tra politica e magistratura. Negli anni di Tangentopoli la magistra­ tura assunse un ruolo autonomo nelle indagini sulla vita politico-amministrativa, a tal punto da divenire oggetto di accesa polemica tra chi assecondava il clima giustizialista che accompagnò Tangentopoli e chi invece l'accusò di aver surrogato indebitamente la classe politica, decapitando i partiti di governo tramite la via giudiziaria9• S· Cfr. J.-L. Briquet, Questione morale e crisi di regime. La prima Repubblica italiana alla prova degli scandali (I992-I994), e L. Musella, «Questione morale» e costruzione pubblica di un giudizio nei processi politici degli anni Novanta, in J.-L. Briquet (a cura di), Questione morale e politica. Problemi della transizione nella crisi europea di fine Novecento, fascicolo monografìco di "Memoria e Ricerca", n.s.,

2009, 32, rispettivamente pp. 27-42 e 43-58. 6. In tal senso si segnalano alcune documentazioni audiovisive disponibili: RAI Educational, Storia della prima Repubblica, di Giovanni Minoli, I99I-I993· La fine della prima Repubblica. Mani Pulite e Craxi; Lezioni di Storia. Novecento Italiano; I992. Tangentopoli, di Ilvo Diamanti, Laterza, Roma-Bari 1 992, con "la Repubblica" e "l'Espresso", 2008. 7· Cfr. F. Cazzola, M. Morisi, La mutua difful.enza. Il reciproco controllo tra magistrati e politici nella prima Repubblica, Feltrinelli, Milano 1 996. 8. Cfr. L. Musella, Clientelismo. Tradizione e trasformazione della politica italiana (I975-I992), Guida, Napoli 2000. 9· Come eco di un tale punto di vista, cfr. ad esempio la memoria dell'allora segretario del Partito liberale : R. Altissimo, G. Pedullà, L'inganno di Tangentopoli. Dialogo sull'Italia a vent 'anni da Mani pulite, Marsilio, Venezia 2012. XXVI,

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" TA N G ENT O P OLI " 2.

Dalla questione morale a Tangentopoli Ora, per quanto riguarda il contesto cui si è fatto cenno, si può sottolineare l'effetto che, rispetto alla "questione morale", sollevata nel corso degli anni Ottanta da alcuni settori del mondo politico (il P C I di Enrico Berlinguer all' inizio e la Lega di Umberto Bossi alla fine del decennio) , ebbero i processi di spettacolarizzazione sulla percezione pubblica di Tangentopoli. Con la crescente centralità della televisione e con l 'entrata in scena di network privati e commerciali - segnatamente con l' impero mediatico dell' imprenditore Silvio Berlusconi10 -, la propaganda di partito virava non solo sul piano della comunicazione e della personalizzazione individuale, con imperscrutabili declinazioni populiste che si coniugavano con una crescente spoliti­ cizzazione del messaggio. Il nuovo linguaggio politico - moralista e populista insieme - era stato anticipato soprattutto dalla Lega Nord. Tra i suoi diversi temi d 'agita­ zione, uno dei più pervasivi, ben oltre il mondo leghista, fu proprio la denuncia della corruzione politica, additata come una delle conseguenze dello Stato centralizzato e comunque della burocrazia romana. Parve allora venir messa in discussione la distin­ zione, politicamente intrinseca ai caratteri genetici della cosiddetta "Repubblica dei partiti", tra destra e sinistra1\ con forti spinte di natura insieme antistatale e locali­ stico-territoriale. Mentre il modello dei partiti di massa e della propaganda tradizionale declinava in un indistinto e confuso confronto retorico tra innovatori e conservatori, ali ' inizio degli anni Novanta furono gli effetti della crisi politico-finanziaria e della sua rap­ presentazione politico-giudiziaria (con Tangentopoli) ad accelerare la disgregazione della Prima Repubblica12.. Negli anni della transizione tra la Prima e la Seconda Repubblica il linguaggio politico sarebbe cambiato radicalmente, anche come effetto di un discorso pubblico che non si riconosceva più nei consueti codici di comuni­ cazione13. All 'inizio degli anni Novanta la crisi della Repubblica e della sua classe dirigente parve condensare i deficit strutturali della storia italiana : la nazione "introvabile", la modernità contraddittoria, lo Stato "debole" e un'invasiva partitocrazia, la frammen­ tazione e la politicizzazione delle classi dirigenti, non ultimo il nesso tra cristallizzaSulle tendenze di più lungo periodo, cfr. G. Gozzini, La mutazione individualista. Gli italiani e la televisione (I954-2on), Laterza, Roma-Bari 2 0 I I. 1 1. Cfr. M. Ridolfì, "Al di la della destra, al di la della sinistra"? Tradizioni e culture politiche nell'Italia repubblicana, in "Memoria e Ricerca", n.s., 2012, 40, spec. pp. 57-67. 12. Per un'eco circa la distinzione tra una Prima e una Seconda Repubblica, in "La Stampa" cfr.: Occhetto: e alla fine la prima Repubblica, 27 novembre 1987, p. 2; Questa agonia della prima Repubblica, 29 dicembre 1 9 9 1, p. 3 ; La prima Repubblica non e finita, 21 gennaio 1 9 9 3 , p. 7; Dalla terza via alla II Repubblica, 9 luglio 1 9 9 3 , p. 1 9 ; L'ultimo giorno della I Repubblica, 1 3 gennaio 1 9 94, p. 3 ; Prima Repubblica, notizie dal lazzaretto, 23 gennaio 1 9 94, p. 1 9. 13. Cfr. ad esempio Propaganda al contrario, ivi, 2 4 marzo 1 994, p. 4· 10.

MAURI ZIO RID OLFI

zione del sistema di potere e dilagante corruzione politica. Fu Giampaolo Pansa, pubblicando nel 1991 un volume d' inchiesta sulla partitocrazia intitolato Il regime, tra i primi e più autorevoli pubblicisti a esplicitare l' immagine di un «passaggio dalla prima alla seconda Repubblica » 14• La dissoluzione del sistema politico-partitico fu soprattutto il risultato conver­ gente di tre fattori, interni ed esterni, tra loro reciprocamente influenti: la fine del mondo bipolare e delle appartenenze ideologiche, gli impensati livelli di corruzione politica svelati all'opinione pubblica dall' inchiesta giudiziaria di Mani pulite, la secessione minacciata dalla Lega Nord attraverso la radicalizzazione della "questione settentrionale" (una reazione esasperata contro il centralismo statale e la meridiona­ lizzazione della classe dirigente). Se i fattori richiamati evocavano il dilemma dell' identità nazionale, altri concorsero nel provocare il crollo del sistema politico­ partitico : le politiche economiche virtuose imposte dal Trattato di Maastricht per sanare l'enorme debito pubblico accumulato, l 'attacco della mafia allo Stato con l'assassinio dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in Sicilia, gli effetti dei due referendum su temi elettorali (l'abrogazione delle preferenze plurime nel 1991 e del sistema proporzionale per l'elezione del Senato nel 1993) nel favorire comporta­ menti di voto più liberi rispetto al passato. La critica verso l'immobilismo del sistema politico si diffuse. Il movimento poli­ tico referendario guidato da Mario Segni, già esponente della D C e figlio di un discusso ex presidente della Repubblica, promosse dirompenti referendum per la riforma del sistema partitico e proporzionale•;. Se i partiti tradizionali osteggiarono le nuove regole in senso maggioritario preannunciare dai quesiti referendari, nessuno come il leader socialista Craxi (in realtà anche Bossi) giunse a invocare il disimpegno elettorale dei cittadini: « Gli Italiani farebbero bene ad andare al mare invece di andare a votare » . Il 19 giugno 1991 gli italiani andarono invece a votare, abolendo la preferenza multipla ritenuta uno dei meccanismi simbolici della corruzione parti­ tica e legittimando il passaggio all'espressione di una preferenza unica. Fu una tra­ sformazione nel segno di un'apparente ma solo momentanea democrazia referen­ daria•6; sebbene essa producesse di certo effetti devastanti nel favorire la disgregazione del potere democristiano e craxiano•7• Tra il 1992 e il 1994 l ' Italia attraversò una fase di conflittuale transizione, nella quale i partiti tradizionali entrarono in profonda crisi, un'intera classe politica di I4. G. Pansa, Il regime, l ' Unità-Sperling & Kupfer, Roma-Milano 1993 ( I" ed. I991 ) , p. 2. IS. La parabola del movimento referendario di Segni è seguita con attenzione anche dalla "Stampa": E ora Segni si mette in proprio, s settembre 1991, p. 8; Mario Segni se non ce la faccio mi dimetto, I 3 novembre I99I, p. 3; Segni: il mio divorzio da Ad, 4 ottobre I 993, p. 7 ; Mario Segni parte dalla Mole, 19 dicembre I993, p. 39; Segni: il demagogo e Occhetto, s gennaio I994, p. 3· I6. Cfr. M. Fedele, Democrazia referendaria. L'Italia dal primato dei partiti al trionfo dell'opinione pubblica, Donzelli, Roma 1994· I7. Per una sorta di bilancio, cfr. La fine di Craxilandia, in "La Stampa", I 6 maggio I 993, p. 2I.

"TANGENT O P OLI "

governo venne allontanata dalla vita pubblica a seguito delle indagini giudiziarie e dei quotidiani attacchi mediatici, che provocarono un forte impatto nell'opinione pubblica. I giornali pubblicavano ogni giorno gli avvisi di garanzia, i telegiornali e i talk show mostravano a getto continuo i protagonisti, gli eroi e gli imputati, dell 'in­ chiesta di Mani pulite. I cittadini furono insomma spinti a farsi parte di una sorta di giudizio pubblico sul sistema della corruzione partitica: leader vecchi e nuovi, come il missino (poi Alleanza nazionale) Gianfranco Fini e il leghista Bossi, interpreti di un pur distinto populismo che largheggiava nel sostegno a Mani pulite, furono in prima linea nel sostenere le ragioni dei magistrati del pool milanese18• Per non dire di Tangentopoli e della dissoluzione della vecchia classe dirigente come fattori che avrebbero spinto Silvio Berlusconi, muovendosi tra continuità con il passato e prefi­ gurazione di un assetto presidenzialista e carismatico delle istituzioni repubblicane19, a decidere l'entrata in politica. Nel complesso, furono 70 le procure italiane che avviarono indagini sulla corru­ zione nella pubblica amministrazione, con procedimenti a carico di circa 12.000 per­ sone (tra politici, funzionari, manager e imprenditori), l'emissione di 25.400 avvisi di garanzia e 4.5 25 persone arrestate. Alle istituzioni rappresentative dello Stato giunsero centinaia di richieste di autorizzazioni a procedere : 507 per la Camera, 172 per il Senato, ma saranno ben oltre il migliaio i politici coinvolti e ancor di più le dichiarazioni di colpevolezza (senza dimenticare alcune morti eccellenti, con sui­ cidi che comunque impressionarono l'opinione pubblica) . Fu nel contempo soppressa l'immunità parlamentare, con la modifica dell 'art. 68 della Costituzione, al fine di poter procedere contro deputati e senatori senza il necessario via libera del Parla­ mento, richiesto invece per l'arresto e le intercettazioni. Furono due anni di feroci scambi d'accuse tra la vecchia classe politica e i nuovi rappresentanti dei movimenti cosiddetti "giustizialisti". Le più alte cariche dei partiti e delle maggiori aziende, pubbliche e private, furono raggiunte da avvisi di garanzia e talvolta da mandati d 'arresto. Le ribalte giornalistiche e televisive, con la messa in onda delle sedute processuali e con i politici imputati alla sbarra, assicurarono ad Antonio Di Pietro una rinomanza straordinarial.o, evidenziando anche i tratti di uno stile giudiziario che molto concedeva alle lusinghe della spettacolarizzazione. L'icona nazionale del cinema, Alberto Sordi, avrebbe indicato in un suo perso­ naggio - un magistrato romano, con capelli lunghi e facile a emettere mandati di 1 8. Nel caso del leader leghista, ad esempio, desumendo sempre dalla "Stampa": Bossi frena "Restiamo Lega Nord", Boom della Lega autogol per il Nord?, 10 aprile 1 992, p. 4; "Lavorano solo i compagni': Un faccia a faccia Lega-Pds, 17 gennaio 1 993, p. 44; Bossi e ora di salire sul ring. La Lega pronta a governare, 22 marzo 1993, p. s ; E ora la Lega Nord attacca la Dc, 22 maggio 1 993, p. 35; Niente fascio siamo la Lega, 28 agosto 1993, p. 15. 19. Cfr. G. Quagliariello, Il berlusconismo nella storia della Repubblica: continuita e discontinuita, in "Liberai", 2007, 39, pp. 30-51. 20. Cfr. ad esempio "Di Pietro, devi restare al tuo posto", in "La Stampa': 1 6 luglio 1994, p. 2. 71

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cattura, implacabile per quanto troppo affascinato dalle luci della ribalta - l ' antesi­ gnano di Di Pietro, a cui addirittura questi non avrebbe mancato di riferirsi. Del film Tutti dentro (1984) Sordi era stato insieme regista e interprete, nella messa in scena di una trama che comunque non faceva tanto ridere, con una satira un po' sbiadita, che non muoveva all' indignazione e tanto meno alla riflessione. E però, con qualche indubbia analogia con quanto durante Tangentopoli sarebbe accaduto, si alludeva all ' Italia delle tangenti e della corruzione, nonché a una figura di magistrato fin troppo zelante. Di Pietro era ancora di là da venire eppure analogie e rimandi si sarebbero potuti trovare, solo qualche anno dopo. Ma fu il 199 2 l'anno fatidico2.\ paradigma di una transizione incompiuta, tra continuità e rotture; a partire proprio dall'emergere di Tangentopoli, secondo un effetto percepibile - come si dirà - sul piano non solo politico-istituzionale ma anche del costume e delle rappresentazioni (televisive in primo luogo).

3 1992, l'anno che cambiò l ' Italia Tutto era cominciato quando, il 17 febbraio 1992, Mario Chiesa, presidente socialista del più grande istituto assistenziale per anziani di Milano, il Pio Albergo Trivulzio, venne arrestato per concussione dal pool di magistrati guidato da Di Pietro. Quell' i­ stituto di assistenza per gli anziani divenne uno straordinario simbolo dell' Italia del tempo e contemporaneamente un luogo di memoriau. Al centro dell'originaria inchiesta e soprattutto della sua eco pubblica tramite giornali e televisione fu l'ex capitale morale del paese\ sede del quartier generale del leader socialista Bettino Craxi ed epicentro di un sistema di tangenti che coinvolgeva le maggiori imprese, garantendo risorse alle sedi nazionali dei maggiori partiti di governo ( n e e P S I ) , ai ministri dei partiti minori e allo stesso P C I (poi P D S ) attraverso le opportunità di appalti per il mondo delle cooperative "rosse"2.4• A quella milanese si aggiunsero altrettante indagini locali, fino a quando, a un anno di distanza - attraverso quelle dei magistrati di Napoli e Palermo -, dopo gli omicidi mafiosi dei magistrati Falcone il 23 maggio a Capaci e Borsellino il successivo 19 luglio in via D'Amelio, le indagini

21. Attraverso un esempio a più voci di public history, cfr. M. Ravveduto (a cura di), Novantadue. L'anno che cambio l'Italia, Castelvecchi-LIT Edizioni, Roma 2012. 22. Cfr. P. Corrias, Prime manette, penultima Repubblica al Pio Albergo Trivulzio, in AA.VV., Luoghi comuni. Dal flajont a Arcore, la geografia che ha cambiato l'Italia, Rizzoli, Milano 2006, pp. 103-25. 23. Cfr. G. Buccini, Da Chiesa all'avviso a Berlusconi. I segreti dell'inchiesta e di uno scoop, in AA.VV., 1992-2002. Mani pulite. L'inchiesta che ha cambiato l'Italia. Le parole, in "Corriere della Sera", Milano 2012, pp. 15-6. 24. Sul trasversale giro di tangenti ( « bianche, nere, rosse» ), cfr. nel dettaglio Barbacetto, Gomez, Travaglio, Mani pulite, cit., pp. 42-6. 72

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sulle connessioni tra associazioni criminali e politici videro coinvolti la Democrazia cristiana e in particolare un leader storico come Giulio Andreotti2.5• I partiti erano andati alle elezioni del s -6 aprile 1992 alquanto devitalizzati, ma senza poter prevedere il crollo del sistema; in realtà, più per quanto accadde in seguito al montare di Tangentopoli che per gli esiti del voto. La campagna elettorale era stata più apatica delle ultime. «Più che campagna elettorale sembra una gigantesca expo di banalità » 2.6, scrivevano le cronache; mentre in televisione la maratona elettorale, sui canali RAI e Fininvest, mandava in diretta l 'idea dello sfascio2.7• Si parlò comunque di un « muro crollato » , quello della D C , nella rappresentazione a effetto di una « nomenklatura licenziata » 2.8• Fu però il montare di Tangentopoli che innescò il vero processo demolitore, con un impatto enorme nell'opinione e nella vita pubblica, come solo pochi anni prima non si sarebbe potuto registrare9• Quel moto di protesta andò ben oltre gli esiti del voto del 1992, allorquando le elezioni, rispetto a cinque anni prima, avevano premiato ancora, anche se in modo assai meno largo che in passato, i partiti di governo, mentre il neonato Partito democratico della sinistra - erede del disciolto Partito comunista - subiva una forte flessione. Un'onda conta­ giosa di indignazione popolare travolse il sistema dei partiti, in primo luogo di quelli che dagli anni Ottanta ruotavano attorno all 'asse D C - P S I . Sebbene vi fosse anche il diretto coinvolgimento di esponenti del P D S , pure al di fuori del "sistema Milano", come nel caso emblematico di Primo Greganti, un funzionario di partito accusato di essere il prestanome per una tangente al P C I - P D S nazionale legata all 'affare ENEL. Nella crisi partitica anche l'elezione del nuovo presidente della Repubblica avvenne attraverso modalità irrituali. Due giorni dopo l'assassinio di Falcone, il 25 maggio, in modo difforme rispetto alle indicazioni dei partiti di governo, venne eletto al Quirinale l'onorevole Oscar Luigi Scalfaro, già costituente e leader della D C ma in quel momento personaggio assai scomodo e visto come "esterno" al sistema partitico. Doveva essere l'antidoto alla dissoluzione della Repubblica, nel momento in cui, agli scandali di cor­ ruzione e ai processi di Tangentopoli si era aggiunto il ricatto degli attentati terroristici della mafia. Veniva meno il ruolo mediatore dei partiti tradizionali, mentre si rivendi­ cava una diversa classe dirigente ed emergevano nuove forze politiche: con la Lega, ad esempio, anche il movimento della Rete del dissidente democristiano Leoluca Orlando. 25. Cfr. J.-L. Briquet, Mafia, justice et politique en ltalie. L 'a./Ja ire Andreotti dans la crise de la République, Karthala, Paris 2007. 26. L. Irdi, Una ventata d'aria/ritta, in "L' Europeo", 1992, p. 12. 27. E. Ghezzi, Blob. Lo sfascio in diretta tv, in "L' Europeo", 1992, p. 1 6. 28. E. Scalfari, Nomenklatura licenziata... , in "la Repubblicà', 7 aprile 1992. 29. Sulla cultura e sulla prassi della tangente, nonché sulla sua diversa percezione pubblica, prima e dopo il 1992, cfr. C. Pellegrino, Italia d'oro, in Ravveduto (a cura di), Novantadue, cit., pp. 152-62. li titolo allude a una canzone di Pierangelo Bertoli, presentata al festival di Sanremo nel febbraio 1 992; il testo, tra l'altro, diceva: «E torneranno a parlarci di lacrime dei risultati della povertà l delle tangenti e dei boss tutti liberi l di un'altra bomba scoppiata in città. l Spero soltanto di stare tra gli uomini l che l 'ignoranza non la spunterà l che smetteremo di essere complici l che cambieremo chi deciderà ». 73

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Fu con l' irruzione sulla scena pubblica dell' inchiesta di Mani pulite e dei pro­ cessi promossi dal Tribunale di Milano che, nella seconda metà del 199 2, la crisi del sistema politico repubblicano si fece dirompente30• Con il coinvolgimento di una serie impressionante di personalità del mondo politico e imprenditoriale, emerse alla luce del sole l'esistenza di un sistema ramificato di finanziamento illecito della politica e di corruzione. Il meccanismo parve semplice e ben oliato : bastava alterare una gara a opera dei soggetti di volta in volta coinvolti, in un triangolo tutt'altro che virtuoso tra imprenditori, potere pubblico e mediazioni partitiche sul piano tanto politico che amministrativo ; secondo un sistema che serviva a finanziare illecitamente il partito e che permetteva ampi margini di arricchimento individuale. Che il sistema dei partiti fosse al capolinea fu chiaro quando il Parlamento non concesse l'autorizzazione a procedere, chiesta dalla magistratura di Mani pulite, nei confronti di Craxi. Le parole del leader socialista rappresentarono l 'ultimo atto di autodifesa, prima che le contestazioni di piazza travolgessero la vecchia nomencla­ tura partitica. Fu una chiamata generale di responsabilità di fronte alla « rete di corruttele grandi e piccole diffuse in tutto il paese » . «Tutti i partiti - ammonì Craxi - hanno ricorso e ricorrono all 'uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale » 31• Fu in ragione di una tale condizione generale del sistema partitico italiano che, allora e in seguito, si polemizzò in merito a un accanimento del pool milanese verso alcuni e non altri. Fu una tesi a suo tempo contraddetta da Indro Montanelli, storica firma dell' Italia moderata e conservatrice, il quale scrisse dei giudici di Mani pulite: « le loro indagini non hanno avuto, checché ne dicano i socialisti, un' impronta faziosa. Semmai hanno avuto un'impronta rigorosa : tanto rigorosa, sostiene qualcuno, da diventare vessatoria » . E però essa, se tale anche poté essere per alcuni aspetti, non ebbe riguardi verso alcuno : «questa regola è stata uguale per tutti, per i boiardi dei partiti - di tutti i partiti compromessi, incluso il P D S di Greganti - per i manager della grande industria, per imprenditori come Ligresti, per funzionari, faccendieri, corruttori e corrotti, concussori e concussi »3l.

30. La diffusione a macchia d'olio dell ' inchiesta giudiziaria fu martellante. Ancora dalla "Stampa": Tangentopoli, scatta l'o ra del Pri, 14 maggio 1992, p. s ; Tangentopoli, arresto e rilascio-lampo, IS giugno 1 992, p. s ; Valanga di arresti a Tangentopoli, 27 giugno 1 992, p. s ; Un giallo fa tremare Tangentopoli, 28 giugno 1 992, p. s ; Tangentopoli dice no, 1 6 settembre 1992, p. 3; "Tangentopoli, che vergogna", 30 set­ tembre 1 992, p. 9; Tangentopoli sfiora Assolombarda, 7 novembre 1 992, p. 9 ; Tangentopoli ora si allarga, 27 novembre 19 92, p. 39· 31. Discorso di Bettino Craxi alla Camera dei deputati, 29 aprile 1993, in http://www.socialisti.net/ SOCIALISTI/ craxi2.htm. 32. L Montanelli, M. Cervi, Storia d'Italia. L'Italia degli anni difango {I97S-I993), Rizzoli, Milano 2012 (la ed. 1993), P· 2SO. 74

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4 Mani pulite : una metafora della crisi nella transizione italiana Tutto partì dunque quel 17 febbraio 1992, sebbene della slavina che allora prese forma - il cui effetto sarebbe stata la sostanziale scomparsa di cinque partiti storici (ne, P S I , PLI, PRI, P S D I ) - si sarebbe avuta consapevolezza solo alcuni mesi dopo. Dovranno passare alcune settimane prima che si imponga all'attenzione della stampa il "caso Chiesa", che poi diventa il "caso tangenti" e che esploderà solo tra aprile e maggio. Il sistema di corruzione che verrà alla luce sarà chiamato "Tangentopoli" e l' indagine sarà per tutti "Mani p ulite"�\

Quella doppia denominazione fu indubbiamente efficace nella "Repubblica faconda" che nel decennio di fine Novecento andava emergendo34• Un qualche cenno alla storia del binomio lessicale è forse opportuno così come alla sua "fortuna" nella rappresentazione di Tangentopoli. Se proprio volessimo dire, sembra che una prima volta l 'uso dell'espressione "Mani pulite" risalga a don Lorenzo Milani ovvero a un 'esortazione a essere protagonisti del proprio tempo in funzione del bene pub­ blico : «A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca » 35• In modo più propriamente legato a un concetto di moralità politica si deve far capo al leader comunista Giorgio Amendola. Si era nel vivo degli anni Settanta, quando egli, in un 'intervista concessa a Manlio Cancogni, come replica ai dubbi che, dopo le larghe vittorie elettorali ottenute nelle elezioni locali e regionali, si indirizzavano agli stessi amministratori comunisti per la corretta gestione delle istituzioni pubbliche, affermò : « Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l 'abbiamo mai messe in pasta. Come se non si potessero avere dei grandi affari amministrando l'opposizione in una certa maniera »36• Sulla scorta di questa intervista, seguì due anni dopo un libro giornalistico con il medesimo titolo37• Fu comunque a Sandro Pertini che si dovette un uso reiterato dell 'espressione 3 3· Barbacetto, Gomez, Travaglio, Mani pulite, ci t., p. 7· In un'accezione ristretta, l ' indagine su Mani pulite fu quella che riguardò il "fascicolo virtuale" (n. 9 5 20 ) aperto dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano nel I99I dal pool di magistrati guidato da Saverio Borrelli (con Antonio Di Pietro, Camillo Davigo, Gherardo Colombo, Gerardo D 'Ambrosia, e quindi Tiziana Parenti per il fùone sulle "tangenti rosse"). 34· Cfr. R. Gualdo, M. V. Dell'Anna, La faconda Repubblica. La lingua della politica in Italia (1992-2004), Manni, Lecce 2004: un'antologia di testi dei principali leader. 35· L. Milani, A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca, Chiarelettere, Milano 2 0 I 2 . Una Nota editoriale sottolinea che il titolo del libro - una raccolta di testi civili - si deve a una segna­ lazione di Roberto Saviano. 36. M. Cancogni [Intervista a G. Amendola] , in "Il Mondo", IO luglio I 975· 37· C. Castellacci, Mani pulite, SugarCo, Milano I 977· 75

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"mani pulite". Dal maggio 1978, nella sua carica di presidente della Repubblica, egli ebbe modo più volte di soffermarsi sul significato che a essa egli attribuiva. Una prima volta accadde in un discorso a giovani in visita al Quirinale. La democrazia si difende, si sostiene, e si rafforza con una grande tensione morale. La cor­ ruzione è nemica della democrazia. Si colpiscano i colpevoli di corruzione senza pietismi, senza solidarietà di amicizia o di partito : questa solidarietà sarebbe vera complicità ... La corruzione offende e sdegna la coscienza del cittadino onesto [ . . . ] . L'esempio deve essere dato dalla classe dirigente e in primo luogo da me che vi parlo. La politica deve essere fatta con le mani pulite38•

Tornò sul tema in altre occasioni, in chiave diretta e personale. Come quando così rispose a un intervistato re del settimanale "Famiglia Cristiana": lo sono intransigente prima di tutto verso me stesso. E dico che la politica deve essere fatta con le mani pulite. [ . . . ] Cioè l'uomo politico prima di tutto deve avere come comandamento questo : fare la politica con le mani pulite. Ecco perché sono intransigente verso i corrotti e verso i disonesti39•

Per contrappunto, si dovrebbe ricordare che di tangenti come metodo di corruzione e finanziamento illegale in Italia si cominciò a parlare almeno fin dal 1974, dallo scandalo del petrolio, quando emerse che un sistema di quote garantiva altrettante risorse ai partiti di governo. Nel corso dei primi e dei secondi anni Ottanta ricorrenti sarebbero state le denunce della corruzione a opera di intellettuali (Italo Calvino, Ernesto Galli della Loggia) e giornalisti (Massimo Riva, Giampaolo Pansa) ; fino ad adombrare, già nel 1984 (con Pansa), una vera e propria « cultura della tangente »40• Con il giornalismo d ' impegno civile fu anche il cinema d'autore a rappresentare, ancora prima che esplodesse Tangentopoli, un ' Italia laddove sempre più la corruzione diveniva intrinseca alla vita politica e amministrativa. Era stato dapprima il caso del film Notte italiana (19 87) del regista Carlo Mazzacurati e quindi di un film di suc­ cesso quale Il portaborse (1991) del regista Daniele Luchetti; nel secondo caso con protagonisti Nanni Moretti e Silvio Orlando, rispettivamente nel ruolo di un mini­ stro cinico e senza scrupoli nonché del suo, ancora un po' ingenuo, personale por­ taborse. Quelle pellicole raccontarono di una patologia che si espandeva in modo pervasivo e che nel giro di pochi anni vide dissolversi ogni illusione di riscatto civile e di rigenerazione morale. «Per certi versi - si è osservato - Il portaborse fotografa 38. S. Pertini, La politica delle mani pulite, a cura di M. Almerighi, Chiarelettere, Milano 2012, p.

XVI.

39· Intervista a "Famiglia Cristiana", 2 dicembre 1 981, p. 22. 40. Si riprende da G. Crainz, Il background, in l. Moscati ( a cura di ) , Il portaborse vent 'anni dopo, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2011, pp. IS-8.

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"mani pulite". Dal maggio 1978, nella sua carica di presidente della Repubblica, egli ebbe modo più volte di soffermarsi sul significato che a essa egli attribuiva. Una prima volta accadde in un discorso a giovani in visita al Quirinale. La democrazia si difende, si sostiene, e si rafforza con una grande tensione morale. La cor­ ruzione è nemica della democrazia. Si colpiscano i colpevoli di corruzione senza pietismi, senza solidarietà di amicizia o di partito : questa solidarietà sarebbe vera complicità ... La corruzione offende e sdegna la coscienza del cittadino onesto [ . . . ] . L'esempio deve essere dato dalla classe dirigente e in primo luogo da me che vi parlo. La politica deve essere fatta con le mani pulite38•

Tornò sul tema in altre occasioni, in chiave diretta e personale. Come quando così rispose a un intervistato re del settimanale "Famiglia Cristiana": lo sono intransigente prima di tutto verso me stesso. E dico che la politica deve essere fatta con le mani pulite. [ . . . ] Cioè l'uomo politico prima di tutto deve avere come comandamento questo : fare la politica con le mani pulite. Ecco perché sono intransigente verso i corrotti e verso i disonesti39•

Per contrappunto, si dovrebbe ricordare che di tangenti come metodo di corruzione e finanziamento illegale in Italia si cominciò a parlare almeno fin dal 1974, dallo scandalo del petrolio, quando emerse che un sistema di quote garantiva altrettante risorse ai partiti di governo. Nel corso dei primi e dei secondi anni Ottanta ricorrenti sarebbero state le denunce della corruzione a opera di intellettuali (Italo Calvino, Ernesto Galli della Loggia) e giornalisti (Massimo Riva, Giampaolo Pansa) ; fino ad adombrare, già nel 1984 (con Pansa), una vera e propria « cultura della tangente »40• Con il giornalismo d ' impegno civile fu anche il cinema d'autore a rappresentare, ancora prima che esplodesse Tangentopoli, un ' Italia laddove sempre più la corruzione diveniva intrinseca alla vita politica e amministrativa. Era stato dapprima il caso del film Notte italiana (19 87) del regista Carlo Mazzacurati e quindi di un film di suc­ cesso quale Il portaborse (1991) del regista Daniele Luchetti; nel secondo caso con protagonisti Nanni Moretti e Silvio Orlando, rispettivamente nel ruolo di un mini­ stro cinico e senza scrupoli nonché del suo, ancora un po' ingenuo, personale por­ taborse. Quelle pellicole raccontarono di una patologia che si espandeva in modo pervasivo e che nel giro di pochi anni vide dissolversi ogni illusione di riscatto civile e di rigenerazione morale. «Per certi versi - si è osservato - Il portaborse fotografa 38. S. Pertini, La politica delle mani pulite, a cura di M. Almerighi, Chiarelettere, Milano 2012, p.

XVI.

39· Intervista a "Famiglia Cristiana", 2 dicembre 1 981, p. 22. 40. Si riprende da G. Crainz, Il background, in l. Moscati ( a cura di ) , Il portaborse vent 'anni dopo, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2011, pp. IS-8.

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Basti pensare dapprima alla trasmissione Un giorno in pretura, che su RA I 3 prese avvio nel gennaio 1988, condotta sin dall' inizio da Roberta Petrelluzzi. Fu proprio in occasione dell 'emergere di Tangentopoli che il programma andò privilegiando l'approfondimento giornalistico, seguendo le sedute giudiziarie. A quelle su perso­ naggi sconosciuti si aggiunsero le puntate dedicate a Mani pulite, a partire dal 22 febbraio 1993, quando imputato per tangenti era Armanini, un assessore socialista milanese, interrogato da Di Pietro. E allora, si è osservato, che « nasce il dibattito sulla TV come "processo mediatico", persino come pubblica gogna, sulla differenza tra l'aula del tribunale e la sua riproduzione televisiva » 44• Eclatanti furono le puntate televisive dedicate al processo che vide protagonista Sergio Cusani, manager del gruppo Ferruzzi-Gardini. Oggetto dell' imputazione erano le tangenti EN IM O NT, la cosiddetta "madre di tutte le tangenti", pari a circa 150 miliardi di lire, elargiti ai partiti di governo. Il processo si svolse presso il tribunale di Milano con rito abbre­ viato, anticipando i più noti processi dell 'epoca di Tangentopoli4;. Sempre con Di Pietro nel ruolo di accusatore di Cusani, si ebbe la convocazione e la messa in stato di accusa di diversi tra i principali leader politici del tempo (come testimoni o impu­ tati di reato connesso): lo stesso giorno, il 17 dicembre 1993, furono interrogati il leader socialista Bettino Craxi (spavaldo e sfrontato) e il leader democristiano Arnaldo Forlani (smarrito e con la bava alla bocca) . E di seguito il capo corrente D C Paolo Cirino Pomicino, il leader repubblicano di stampo anglosassone Giorgio La Malfa, il sanguigno capopopolo leghista Umberto Bossi alle prese con le luci della ribalta46• Di Pietro era al massimo della popolarità. Del resto, egli non avrebbe man­ cato, già il 6 dicembre 1994, di ribadire la sua vocazione ad assumere ruoli di attore protagonista, uscendo dalla magistratura e cominciando a calcare il palcoscenico politico : il tutto, attraverso un gesto spettacolare, sfilandosi la toga per l 'ultima volta davanti alle telecamere, nel corso di una diretta televisiva47• Ci si interrogò se egli fosse di sinistra o di destra ovvero se fosse andato oltre i tradizionali sensi di appar­ tenenza della Prima Repubblica, secondo una linea di ambiguità in fondo coltivata ad arte dallo stesso Di Pietro48• Si assistette al prolungamento del processo dall'aula di tribunale al piccolo schermo, con le trasformazioni insieme del rituale e del linguaggio processuale. « Ci si accorge '

44· Grasso, Il processo alla politica in tv diventa il racconto di un Paese, cit., p. 79· 45· Per un' indagine di natura discorsivo-mediale, cfr. P. P. Giglioli, S. Cavicchioli, G. Fele, Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, il Mulino, Bologna 1997. 46. Cfr. anche M. Zornetta, Il salotto della Lega, in Ravveduto (a cura di ) , Novantadue, cit., pp. 128-38. 47· Per l'andamento degli interrogatori, cfr. G. A. Stella, Ipolitici dall'impunita al linciaggio. Una stagione senza vie di mezzo, in AA.VV., I992-2002. Mani pulite, cit., pp. 35-43. 48. Cfr. A. Di Pietro, Memoria. Gli intrighi e i veleni contro ((Mani pulite", Kaos, Milano 1999; Id., Intervista su tangentopoli, a cura di G. Valentini, Laterza, Roma-Bari 2001. Cfr. anche G. Barbacetto, A. Di Pietro, Il guastajèste. La storia, le idee, le battaglie di un ex magistrato entrato in politica senza chiedere permesso, Ponte alle Grazie, Firenze 2008.

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che un processo per esser efficace in video deve diventare un racconto : le idee astratte non funzionano, funzionano invece i personaggi, le loro azioni, i loro percorsi passio­ nali » . Con una conseguenza tanto importante quanto allora poco percepita: « vinto dall'emozione, il pubblico fa presto a dimenticare che in tribunale funzionano certe leggi e in video altre, di tipo linguistico, che nulla hanno a che vedere con il diritto »49• Chi si avvalse in modo diffuso delle fonti audiovisive di Tangentopoli fu il pro­ gramma Blob, sempre su RAI 3 . Ideato nel 1989 per il nuovo palinsesto della rete diretta da Angelo Guglielmi, con la regia di Enrico Ghezzi e Marco Giusti, ogni sera Blob affastellava in video spezzoni e brani che costituivano il quotidiano racconto di Mani pulite : non si faceva della semplice informazione, ma si componevano esempi creativi di una comunicazione destrutturata per quanto efficace nel sottolineare situazioni, personaggi, debolezze umane, irrisione del malcostume civile e politico. Insomma, come si è osservato, nel 1992 Blob « fungeva da perfetto TG non conforme, per lo spettatore che preferiva Ghezzi al TG 1 delle venti » ;o. Tra le trasmissioni giornalistiche d' impatto occorre dire soprattutto di Samar­ canda, un talk show di RA I 3 condotto dal giornalista Michele Santoro tra il 1987 e il 1992. Prevedendo un collegamento con gruppi di ascolto (e di intervento), il pro­ gramma rappresentò la prima vera piazza mediatica; laddove, nei mesi di Tangente­ poli, si ponevano sotto accusa i politici indagati, attraverso la costruzione di una sorta di processi televisivi51• Il programma avviò un genere di informazione e di cultura insieme, con milioni di telespettatori immessi nel corto circuito psicologico di sedute accusatorie che anticipavano sul piano mediatico i giudizi dei tribunali. Se la trasmis­ sione aveva già seguito eventi di forte impatto, come la caduta del Muro di Berlino o la dissoluzione del P C I , nel vivo della mobilitazione dei cittadini a sostegno di Mani pulite essa raggiunse il massimo degli ascolti (oltre 4 milioni e mezzo di spet­ tatori5l) e degli indici di gradimento (1 9,85% di share) . Fino a quando, dopo una trasmissione "scandalosa" da Palermo ali ' indomani dell 'assassinio mafioso del demo­ cristiano Salvo Lima53, Samarcanda non fu chiusa dalla dirigenza RA I . 49· Grasso, Il processo alla politica in tv diventa il racconto di un Paese, cit., pp. 79-80. Desumendo articoli dal "Corriere della Sera': per una prima correlazione tra l'autorappresentazione del magistrato più famoso di Tangentopoli, l'impatto della sua azione investigativa nella società italiana e infine le attese suscitate dalla sua entrata in politica, cfr.: E. Biagi, Di Pietro: «Vì racconto le mie Mani pulite. E ora vorrei una vita normale>>, 8 luglio 1992, ivi, pp. 103-7; G. Anselmi, Craxi e Di Pietro con chi sta il paese, 28 agosto 1 992, ivi, pp. I I I-3; E. Biagi, Se Di Pietro e come la Madonna, 23 febbraio 199S· ivi, pp. 219-21. s o. Chetta, On air e on fine. Le metamoifosi del racconto, cit., p. 126. S I. Oltre a Gozzini, La mutazione individualista, cit., cfr. G. Crapis, Televisione e politica negli anni Novanta. Cronaca e storia {1990-2ooo) , Meltemi, Roma 2006. s2. li picco di ascolti di una "telepiazza" si ebbe il 26 settembre 1991, con la diretta sulle reti unificate di RAI3 e Canale s. in onore dell' imprenditore Libero Grassi, assassinato dalla mafia, con Maurizio Costanzo al Teatro Parioli di Roma e Santoro al Teatro Biondo di Palermo. Si parlò di 1 1 milioni di italiani davanti al video: Damilano, Eutanasia di un potere, cit., pp. 146-7. S3· « S iete contenti che hanno ammazzato Lima ? » , fu l'esordio di Santoro rivolgendosi alla "piazza virtuale" palermitana, mettendo in scena quel conflitto tra siciliani onesti, politici collusi e criminalità 79

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L'antagonista di San toro fu Gianfranco Funari, un personaggio singolare e senza potersi dire che egli fosse un giornalista di formazione. Dopo aver condotto su RAI2 la trasmissione Mezzogiorno ed esserne stato allontanato per aver invitato un politico sgradito alla dirigenza RAI, tra il 1991 e il 1992 riprese su Italiai, con un programma intitolato Mezzogiorno italiano. Egli arringava il pubblico, mettendo alla sbarra il leader di turno attraverso telefonate da casa che mettevano il malcapitato nella neces­ sità di cavarsela davanti a domande spesso imbarazzanti e irrispettose: una sorta di pellegrinaggio penitenziale con espiazione, per risorgere e riconquistare il consenso della "gente"54• Il nuovo programma di Funari, Conto alla rovescia, sempre su Italiai, sovrastò le tradizionali tribune elettorali; divenne un talk show assai popolare, con tre milioni di media di spettatori. Non a caso nel periodo di Mani pulite i programmi di Funari furono oggetto di aspre polemiche; fu allontanato dalle reti Fininvest dallo stesso Berlusconi, per poi ritornarvi alla fine del 1993, a ridosso della sua "discesa in campo". Sarebbe riuscito a fare uno scoop, intervistando Craxi in esilio (o latitante, a seconda dei punti di vista) a Hammamet, in Tunisia. Dal gennaio 1992 inoltre, erano cominciate le programmazioni dei telegiornali delle reti Fininvest. Neanche un anno dopo, il TG S diretto dal giovane Enrico Men­ tana avrebbe superato in ascolti il miti co giornale del TG 1. Le ultime novità su Mani pulite, urlate ed enfatizzate, con collegamenti dal palazzo di Giustizia milanese (quando non davanti al portone del carcere di San Vittore), furono per mesi e mesi in testa alla scaletta delle notizie, coprendo quasi il 3 8 % della messa in onda. Nel disputarsi i favori del pubblico proprio sul terreno della corruzione e dei quotidiani provvedimenti presi dal pool di Mani pulite, diverso fu però lo stile di Mentana rispetto a quello dei suoi principali competitori televisivi. Se San toro incarna la TV che stringe d'assedio il Palazzo e Funari è il tribuna del popolo, Mentana è il timoniere del TG della Gente. [ . ] E Mani Pulite è la benzina del motore del suo giornale : nel mese di febbraio-marzo 1993, politicamente il più devastante dell' inchiesta, il TG di Mentana le dedica 6 1 notizie contro le 27 del T G 1, 6 1 gli avvisi di garanzia e di custodia cautelare contro le 21 del TG RAI, 29 gli arresti contro le 12 del concorrente55• .

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A proposito di Mani pulite, furono anche altri i conduttori televisivi emersi in quegli anni, con accenti diversi da quelli ricordati. Come Giuliano Ferrara, un trascorso di ex comunista e quindi di europarlamentare con il P S I , passato anch'egli dalle reti RAI a quelle Fininvest con un crescente successo di audience. Dopo il programma Radio Londra su Canales, nel momento in cui emerse Tangentopoli egli conduceva L'istrutmafìosa che nella realtà era abitualmente dissimulato; cfr. Damilano, Eutanasia di un potere, cit., P· I 49· S4· Cfr. G. Funari, Il potere in mutande. Il dito nell'o cchio della tv italiana, Rizzoli, Milano 2009. SS· Damilano, Eutanasia di un potere, cit., p. IS6. So

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toria su Italiai, un programma di grande ascolto in cui fioccavano le critiche all'azione invasiva e ai metodi di indagine del pool dei magistrati milanesi. Ferrara argomentava polemicamente allora (in contesti scenici e con linguaggi urlati che fecero parlare di "Tv spazzatura") e con altri avrebbe nel tempo ribadito56, che i leader istituzionali messi alla sbarra (in particolare dei partiti di governo), lo furono non tanto per effettive responsabilità penali personali, ma in quanto oggetto di una perseguita liquidazione, tramite la via giudiziaria, di natura insieme politica e civile57• Avrebbe trovato uno spazio ricorrente la denuncia dei costi in vite umane che Tangentopoli comunque ebbe; in particolare come effetto, psicologico ed esistenziale, di un uso reiterato e spropor­ zionato della carcerazione preventiva al fine di ottenere veloci e piene confessioni. Il suicidio di inquisiti o condannati assunse una valenza politica, a volte deliberatamente tale. « Quando la parola è flebile, non resta che il gesto » , scrisse il 2 settembre 1992, in modo emblematico, il deputato socialista Sergio Moroni a Giorgio Napolitano, allora presidente della Camera58• Senza dimenticare, come osservò già Montanelli, che quei gesti si scontrarono allora con una temperie pubblica di tutt'altro segno. Ad ogni suicidio seguiva un rigurgito di garantismo, e un'ondata di deprecazioni, per i metodi di Mani pulite. [ ... ] il presidente Scalfaro richiamò tutti - l'ammonimento era indirizzato con ogni evidenza alla magistratura - al dovere di rispettare le procedure e i diritti della persona. Quell'ammonimento fu forse tenuto in conto dai giudici. L'opinione pubblica pensava a tutt'altro modo. Non la turbavano più di tanto né i suicidi, né la galera, né le manette. Voleva vendetta59•

Su un registro di tutt'altro segno si muoveva invece Gad Lerner, iniziale conduttore su RAI 3 del talk show Milano, Italia, andato in onda per circa due anni a partire dal 15 giugno 1992. Protagoniste non erano la piazza e tantomeno la gente, ma l'indagine critica sui dilemmi del paese (in primo luogo la rivolta del Nord e il fenomeno leghista) attraverso il punto di osservazione di quella che era diventata la città simbolo di Tan­ gentopoli. Il programma aveva una cadenza quotidiana, con la cronaca che si fondeva con l'indagine e il commento. Si svolgeva all' interno di un teatro (prima il Teatro Litta, poi l' Umanitaria) . Il palco era sempre gremito dei protagonisti del conflitto di cui si dava conto, con voci che si alternavano ; come nel caso dell'esordio del programma, dedicato al tema L'Italia salvata dai magistrati ?, presente Di Pietro e però con chi apertamente diffidava di una tale ipotesi, volendo ricondurre i magistrati al loro ruolo, interno alle procure e a tribunali, e non in studi televisivi e convegni politici60• s6. Cfr. G. Ferrara, Prefazione a Altissimo, Pedullà, L'inganno di Tangentopoli, cit., pp. 7-8. S7· A proposito della D C, cfr. C. Giovanardi, Storie di straordinaria ingiustizia, Koiné edizioni, Milano 1997. s 8. Damilano, Eutanasia di un potere, cit., pp. 1 81-3. S9· Montanelli, Cervi, Storia d'Italia. L'Italia degli anni di fango, cit., p. 261. 6o. Milano Italia, coro di applausi per Di Pietro, in "Corriere della Sera", 16 giugno 1992. E ancora Damilano, Eutanasia di un potere, cit., pp. 1 58-9. 81

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Nella crisi dei partiti tradizionali e mentre la nuova televisione stava vivendo una fase di sperimentazione creativa - una declinazione tutta italiana dell' info­ tainment, quasi un laboratorio di "tele-democrazia" -, proprio con Tangentopoli e Mani pulite il piccolo schermo dimostrò tutta la sua potenza nel rappresentare il conflitto sociopolitico altrimenti privo di luoghi di manifestazione nella società. La televisione ebbe un ruolo importante nel dissacrare i vecchi leader e nel legittimare invece le figure emergenti; fossero giornalisti, conduttori, politici della nuova gene­ razione (Bossi, Fini, Orlando, Segni, ma anche Francesco Rutelli, Antonio Bassolino ecc.) . Nella consapevolezza che sempre più, anche attraverso le vicende di Mani pulite, il vero terreno del conflitto e della conquista del consenso erano diventati quello dell 'immaginario e della rappresentazione iconografica. Basti pensare alla fortuna della satira su carta stampata, in primo luogo il settimanale "Cuore"; creato nel gennaio 1989 da Michele Serra, proprio nel 1992 esso ebbe il massimo di popo­ larità, quando i lettori salirono a quota 16 o.ooo61 prima che, mentre ancora infuriava la bufera di Tangentopoli, al felice mix tra libera informazione e politica subentrasse l' imperativo - in primo luogo nelle reti Fininvest - di mettere la televisione e i giornali di riferimento al servizio di un progetto politico in gestazione, la "discesa in campo" di Silvio Berlusconi.

6

L'eredità, la dissimulazione Tra il 1992 e il 1994, nonostante Mani pulite, in quello che fu definito il "biennio grigio", pur mancando un rinnovamento delle istituzioni, si ebbe dunque il crollo dei partiti storici. Fu però un crollo senza rifondazione. Nel breve volgere di tempo, furono reiterate erogazioni pubbliche a vantaggio delle attività elettorali, editoriali e organizzative svolte dai partiti. Tuttavia, a esse non corrispose, come avveniva gene­ ralmente laddove le istituzioni concorrono al sostegno dei costi della politica, un effettivo adeguamento dei partiti alle regole del controllo democratico e della traspa­ renza. Il sistema partitico e il sistema politico rimasero sospesi tra un prima e un dopo, senza una rigenerazione della partecipazione e senza la riforma dell'assetto istituzionale in senso compiutamente maggioritario. Non furono le istituzioni a essere modificate, bensì i protagonisti della classe politica a mutare gerarchia, attraverso un loro riposizionamento in un contesto laddove prevaleva la nuova centralità dell 'opi­ nione pubblica. Fu, quella del 1 992, una rivoluzione senza presa del Palazzo d' Inverno, nonché senza partecipazione popolare e senza reali conflitti sociali. Si trattò invece, come si

61. Cfr. anche Stella, I politici dall'impunita al linciaggio, cit., pp. 3 1-2.

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è visto attraverso alcuni richiami esemplari, di un conflitto giocato essenzialmente sul piano simbolico e per la conquista dell' immaginario pubblico, guardando alle perdute sicurezze del passato. Come è stato ben sintetizzato : in questo silenzio, in questa mancanza di partecipazione popolare, il 1992 si rivela genuina­ mente per quello che è : una lunga, drammatica coda degli anni Ottanta più che l'alba di una stagione nuova. Non si scende in piazza: al massimo, tra qualche mese [con Berlusconi, N.d.A.] , si scenderà in campo. Oppure si va in TV. Ma lì, quasi sempre, non c'è un popolo che aspetta di essere mobilitato e che ha preso in mano il suo destino. C 'è una curva pas, . s1va. [ . . . ] c e' la gente 62 . '

E proprio attraverso la reiterata metafora delle mani - di volta in volta con un'aggettivazione intesa a fotografare una tappa evolutiva - che una recente ricostruzione della storia di Tangentopoli - e di quanto è seguito nei vent 'anni successivi - ha puntato per disegnare la trama narrativa63• Ecco allora susseguirsi fasi e momenti di una storia che si faceva memoria pubblica: dalle "mani sporche" ( 1992, di corruttori e corrotti) alle "mani alzate" (1993, di politici e imprenditori), dalle "mani legate" (1994, il freno ai magistrati che indagavano) alle "mani basse" (1995, per una giustizia che non invadesse lo spazio della politica), infine dalle "mani lunghe" ( 1996, con al centro dell 'indagine i magistrati stessi) alle "mani libere" ( 1997-2000, la pervasiva ricerca di una dissimulazione della scomoda eredità di Tangentopoli)64• Andò intanto modificandosi il senso di rivendicata moralizzazione della politica che aveva accompagnato le indagini sulla Tangentopoli italiana tra 1992 e 1993, in forza di un trasversale desiderio volto ad andare oltre Mani pulite: tra frequenti prescrizioni e cavilli procedurali, modifiche legislative ad hoc (le leggi sui reati finan­ ziari e sul falso in bilancio) e sollecite riabilitazioni di indagati e condannati. Pierca­ millo Davigo, uno dei magistrati del pool milanese, in una sconfortata riflessione sulla ricomposizione del sistema politico dopo Tangentopoli, avrebbe parlato di un perseguito obiettivo di ritorno al passato. Da allora [ . . . ] è stato avviato un tentativo di restaurazione, che ha ottenuto il duplice risultato di far crollare il numero delle condanne per corruzione e di far precipitare l' Italia, negli indici della corruzione percepita, al penultimo posto (nel senso degli ultimi della classe) nel mondo occidentale, dietro molti paesi africani e asiatici 65• 62. Damilano, Eutanasia di un potere, cit., p. I S I. 63. Barbacetto, Gomez, Travaglio, Mani pulite, cit. 64. Per una riflessione in tal senso, a opera del capo del pool milanese, cfr. F. S. Borrelli, Corruzione e giustizia. Mani pulite nelle parole del procuratore Borrelli, a cura di C. De Cesare, Kaos, Milano 1999· 6s. P. Davigo, Per non dimenticare, in Barbacetto, Gomez, Travaglio, Mani pulite, cit., p. XVI. Più ampiamente, cfr. P. Davigo, C. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale, controllo penale, Laterza, Roma-Bari 2007.

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E quanto ha voluto sottolineare anche il giornalista Gian Antonio Stella, anch'egli facendo riferimento alle classifiche internazionali circa la percezione della corruzione nonché impegnato in anni recenti in indagini sociali e di costume sulla « casta » e sulla degenerazione della classe politica. Quali sono allora gli effetti e i dilemmi di una diffusa rimozione di Tangentopoli ? Il risultato di questa rimozione della stagione di Mani pulite, come si fosse trattato di un accidente della storia fatto tutto di ombre, complotti, deviazioni, ingiustizie, congiure gior­ nalistiche, assoluzioni pretestuose dei comunisti e dei loro eredi [ .. ] , è purtroppo sotto gli occhi di tutti. [ ... ] E ti chiedi: possibile che non ci sia una via di mezzo tra il linciaggio e il "tana libera tutti" di questi ultimi anni ?66• .

66. Stella, I politici dall'impunita al linciaggio, cit., pp. 48-9.

Governo e Parlamento dopo il 1 9 9 4 di Andrea Manzella

I

Patto costituzionale e patto di proporzionalità L'intima struttura della Costituzione italiana del 1948 coincise con la legge elettorale proporzionale che l'accompagnò. Perché questo connubio ? Per due connesse ragioni: una di storia parlamentare, r altra di storia politica. La storia parlamentare1 diceva infatti che la conquista della legge proporzionale, nel 1919, aveva rappresentato per l' Italia un'autentica rivoluzione, nel senso di rottura del precedente ordine politico-costituzionale. L'abbandono della legge elettorale per collegi uninominali, con la distruzione del "notabilato,, coincideva con il riconosci­ mento del protagonismo istituzionale dei partiti di massa , con le conseguenti con­ nessioni tra partiti e gruppi parlamentari e il lavoro parlamentare per commissioni2.. Tutto questo acquis istituzionale dei partiti di massa non poteva essere messo in discussione dal postfascismo. E non lo fu minimamente. Il segno di questo ritorno al prefascismo - "com 'era, dov 'era, - si ebbe con il recupero, nel 1949, dei regola­ menti parlamentari del 19 223• Con il risultato un po ' paradossale che alla nuova Costituzione del 1948 corrispondevano regolamenti delle Camere immutati, con tutti i loro naturali legami con la legge elettorale delle origini. Ulteriore riprova che il patto di proporzionalità tra i partiti era tutt'uno con il loro patto costituzionale. La storia politica dice che l'antifascismo dei grandi partiti ebbe un risvolto poli­ tico nel metodo consensuale che li unì. Questa impostazione consensuale trovò la sua logica proiezione in un debole paradigma di garanzie costituzionali. Queste 1. Su tutti, P. Ungari, Profilo storico del diritto parlamentare in Italia, Carucci, Roma 1971; cfr. anche G. Perticone, Il regime parlamentare nella storia dello Statuto Albertino, Edizioni dell 'Ateneo, Roma 1960. 2. Cfr. C. Fasone, Sistemi di Commissioni parlamentari eforme di Governo, C EDAM, Padova 2012. 3· R. Astraldi, F. Cosentino, I nuovi regolamenti del Parlamento italiano, Colombo, Roma 1950, nonché N. Lupo, La continuita del diritto parlamentare. La riadozione del regolamento prefascista nella Camera dei deputati, in U. De Siervo, S. Guerrieri, A. Varsori, La prima legislatura repubblicana. Continuita e discontinuita nell'azione delle istituzioni, vol. n , Carocci, Roma 2004, pp. 37-52. Per il periodo fascista, F. Perfetti, La Camera dei Fasci e delle corporazioni, Bonacci, Roma 1991.

ss

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furono concepite più come momenti di accordo necessario tra i partiti parlamentari che non come vere e proprie difese istituzionali contro un'eventuale tirannia della maggioranza legale. Contro questa ipotesi, il retropensiero era che avrebbe comunque funzionato la garanzia proporzionale sottostante la Costituzione. L'essenzialità di tale retro terra si percepì nell'aspra battaglia contro la legge elet­ torale del 19534• La "legge truffa" - come venne chiamata - fu combattuta essenzial­ mente perché violazione di quel patto costituzionale. E, in nome del rispetto di quell ' intesa di fondo, si sviluppò nella legislazione 1953-58 la campagna per l 'attua­ zione della Costituzione: in particolare, per l'entrata in funzione della Corte costi­ tuzionale. Neppure la frontiera della Guerra fredda che interessava l' Italia geografi­ camente e politicamente (addirittura con apparati segreti paramilitari del Partito comunista, da un lato, e degli "atlantisti" dell'organizzazione Gladio, dall'altro) ruppe quell 'intesa di fondo. Un' intesa che si resse a ben vedere sulla grande compenetra­ zione degli insediamenti sociali dei due grandi partiti di massa. Il Partito comunista e la Democrazia cristiana non riuscirono veramente a rap­ presentare identità sociali distinte. L' interclassismo dell'uno e dell'altro partito conducono a pratiche e teorizzazioni di mutuo riconoscimento, nonostante la dura contrapposizione ideologica. La Repubblica dei partiti5 si fa così istituzione politica: sovrapposta alle istituzioni formali scritte nella Costituzione. Queste non solo con­ tinuano a vivere, ma sono esaltate come sbocco e simbolo della Resistenza al fascismo. Ma la realtà è che si instaura un regime di "occupazione" dello Stato istituzionale da parte dei partiti. Uno dei tratti caratteristici della Repubblica dei partiti fu quindi una simbiosi parassitaria rispetto alle strutture dello Stato. Strutture che erano col­ legate a una vastissima zona di economia mista: eredità anche questa, continuata e accresciuta, del regime concluso (l' IRI è del 1933). Le partecipazioni statali - fatte di grandi holding pubbliche e di una miriade di imprese a costellazione - diventano anzi la principale fonte di finanziamento pubblico per i partiti politici. La politica per enti - la "lottizzazione", come con famoso neologismo si disse - condusse dalla procedura consensuale delle origini a una specie di sotterranea forma di convivenza unica partitica, quasi a perduranza della forma del partito unico fascista, tenuta insieme dall'intreccio della tipologia di finanziamenti occulti. Una struttura che non si eliminò ma si mantenne parallela anche quando, dopo i primi grandi scandali nazionali, fu varata, nel 1974, la legge per il finanziamento pubblico dei partiti6• 4· Sul dibattito parlamentare che condusse all'approvazione della legge 3 1 marzo 19S3· n. 148, cfr. D. Possanzini, L'elaborazione della cosiddetta «legge truffa» e le elezioni del I953· in "Quaderni dell'Os­ servatorio Elettorale", aprile 2002, pp. 49 ss., spec. p. 6 8, nonché, diffusamente, G. Quagliariello, La legge elettorale del I953· il Mulino, Bologna 2003, spec. pp. 6 9 ss. S· P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico {I945-I99 6), il Mulino, Bologna 1997. 6. Cfr. A. Manzella, La casa comune partitocratica, in "MicroMega", 1990, s. e Id., Il crollo della casa comune partitocratica, ivi, 1992, 4· Inoltre cfr. F. Lanchester (a cura di), Finanziamento della poli­ tica e corruzione, Giuffrè, Milano 2000. 86

G OV E RNO E PARLA MENTO D O P O I L 1 9 9 4

Questo radicamento di pratiche antigiuridiche doveva condurre a un drammatico epilogo - logico e ingiusto, nello stesso tempo - della Repubblica dei partiti. Logico, perché il rivelamento pubblico della rete di "normali" abusi a danno della finanza pub­ blica allargata provocò la reazione popolare espressa in referendum che colpirono il sistema dei partiti nell'unico suo punto veramente vitale: la legge elettorale. Il colpo al sistema - che sulla proporzionale era nato, vissuto e degenerato - non poteva non essere mortale. Eppure, epilogo ingiusto per tre fondamentali motivi. lnnanzitutto, perché la Repubblica dei partiti si era espressa in una molecolare pedagogia politica di massa che (almeno formalmente) rese incontestabile la legittimazione dello Stato repubblicano fondata sul primato della Costituzione e sul mito della Resistenza. Un risultato che può dirsi acquisito : nonostante reiterati suggestivi attacchi revisionistici. In secondo luogo, perché la Repubblica dei partiti, proprio per il suo legame consensuale di fondo (illu­ minato, in passaggi cruciali, dagli indirizzi suggeriti dai piccoli, ma intellettualmente assai agguerriti, partiti laici di centro), aveva permesso, specie nella sua forza iniziale propulsiva, politiche pubbliche con risultati di spettacolare avanzamento sociale ed economico. In terzo luogo, perché all'eclissi della Repubblica dei partiti aveva concorso la devianza terroristica con l'uccisione di Aldo Moro, lo statista che era riuscito a far emergere alla politica di governo l'originario compromesso costituzionale tra cattolici e comunisti. Era un disegno di continuità che, dopo non essere stato estraneo alla sconnessione tra comunisti italiani e ortodossia parasovietica, guardava a un futuro costituzionale di democrazia compiuta per l' ltalia7• Vi fu un periodo di transizione vera, tra le ultime elezioni politiche proporzionali del 1992 e le prime, maggioritarie, del 1994: in cui malgrado tutto - o forse a causa di tutto - quel disegno di democrazia costitu­ zionale sembrò a portata di mano. Il destino fu realmente in bilico durante i governi Amato e Ciampi ( 1992-94) quando quei governi cercarono di uscire con un percorso di allineamento europeo dal vicolo cieco italiano provocato dalla tempesta sui partiti8• Da questo punto di vista, il faticoso processo di adeguamento ai parametri del Trattato di Maastricht e l'ancora più difficile destrutturazione dello Stato imprendi­ tore costituirono non solo la vera frattura - rispetto all 'approvvigionamento indiscri­ minato dei partiti alle casse, comunque, erariali - ma, insieme, e soprattutto, l'ingresso in una dimensione costituzionale nuova. Da allora, infatti, il vincolo europeo (che sarà formalmente costituzionalizzato nel 2001 e poi nel 201 2, con gli artt. 81, 97, II7 e I I9 Cost.9) è entrato nel ristretto nucleo dei principi irrinunciabili della politica italiana, nell 'alternanza che allora cominciava. M. Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano, Einaudi, Torino 2 0 1 1 ; A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, il Mulino, Bologna 2 0 0 9. 8. C. A. Ciampi, Da Livorno al Quirinale, il Mulino, Bologna 2 0 1 0. 9· Sui contenuti della riforma costituzionale operata con la legge costituzionale 20 aprile 2 0 I 2, n. I, cfr. i contributi raccolti in V. Lippolis et al. (a cura di), Costituzione e pareggio di bilancio, numero monografico di "li Filangieri", Quaderno 2 0 1 1 . 7·

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,, Ma la Repubblica "maggioritaria che iniziò nel 1 9 94 si ritrovò , nella sostanza , senza partiti , senza il legame di fondo che li aveva uniti , senza il disegno evolutivo che era stato spezzato delr assassinio politico. La Costituzione ha perso il suo collante , la Repubblica diviene invertebrata. La politica perde lo spazio pubblico di dibattito e di progettazione che , bene o male , la Repubblica dei partiti aveva assicurato allo sviluppo del sistema. Si aggiunge a tutto ciò roggettiva difficoltà , non solo italiana , di ristabilire un vero rapporto di rappresentanza politica rispetto a una società dive­ nuta proteica: con lavoratori isolati di massa , con lavori indefinibili nelle vecchie classificazioni e precarizzati nella durata10• E in questo vuoto che trovano rapidi consensi movimenti personalistici uniti da miti che parvero apolitici. Persona piu mito è r asse su cui ruoterà la vicenda italiana dal 1994. E un asse che raccoglie un consenso di tipo nuovo , ben diverso da quello di appartenenza ideologica-classista dei primi cinquaneanni della Repubblica. Un consenso fatto di adesione al mito individualista del se/fmade man11; di migliore comprensione di una comunicazione politica semplificata nel linguaggio e nei messaggi; di ribellione fiscale; di patriottismi ed egoismi territoriali. Un impasto a presa rapida , ma rivelatosi , anche nelle parentesi di cedimento , molto più sostanzioso e duraturo dei cartelli elettorali che , nel 1996 e nel 2oo6, portarono a effimere e contrastate vittorie le coalizioni di centro-sinistra guidate da Romano Prodia. Le conseguenze istituzionali sono state di grande rilievo. Perché - r abbiamo ,, visto - nella "loro Repubblica i partiti occupavano le istituzioni, ma anche le soste­ nevano. La garanzia proporzionale non era solo la chiave di lettura del compromesso permanente tra le forze politiche. Era anche la chiave di tenuta di tutto il debole ,, sistema di garanzie costituzionali. Ora r "occupazione avviene a opera di forze poli­ , tiche che non richiamano il discorso delle origini ma rivendicano comunque un in­ vestitura popolare assoluta. La legge maggioritaria (aggravata ancor più da liste ,, bloccate e da un premio sproporzionato di seggi per la "maggiore minoranza ) taglia il Parlamento dalroriginaria negoziazione fiduciaria. Le garanzie della Costituzione (dai quorum parlamentari alla Corte costituzionale al presidente della Repubblica alla magistratura agli stessi regolamenti parlamentari) sono così collocate , davanti , alropinione pubblica, nel campo delle "opposizionf di varia natura che impediscono di governare. Non più , dunque , specificazioni della Grundnorm proporzionale , ma procedure estranee e conflittuali rispetto alla Grundnorm maggioritaria. Esse sono assimilate agli impacci burocratici e alle lentezze della giustizia che intralciano il '

'

10. M. Olivetti, Appunti sulla trasformazione della forma di governo italiana, in "li Filangieri", Quaderno 2006, pp. IOS ss. descrive appunto « il rapporto fra l' invarianza del dato costituzionale e le variazioni che hanno interessato due fattori decisivi per il funzionamento della forma di governo: il sistema elettorale e il sistema dei partiti». 1 1. L'evoluzione è ben descritta da M. Calise, Il partito personale, Laterza, Roma-Bari 2007. 12. G. Crainz, Il Paese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012; G. Pre­ terossi, La politica negata, Laterza, Roma-Bari 201 1. 88

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lavoro del comune cittadino. Si apre così - ed è ancora in corso - una questione costituzionale che sembra ripetere i termini di una querelle nata sin dai tempi della Costituente. Ma una ripetizione diventata impropria perché il contesto ora è semplicemente capovolto. Nell'Assemblea costituente si ebbe ben presente la necessità di tenere l'istituto del governo al riparo dalle degenerazioni del parlamentarismo. Questa necessità si andò via via soddisfacendo, migliorando con i regolamenti delle Camere la condizione del governo "in" Parlamento. Punti di svolta: la sostanziale abolizione del voto segreto e il peso della maggioranza governativa nella programmazione dei lavori parlamentari13• A questo si aggiunse la convalida della consuetudine della "que­ stione di fiducia" in funzione antiostruzionistica e la pratica di ricorso a decreti legge (che solo a partire dagli anni Novanta fu frenato dalla Corte costituzionale) . Al rafforzamento dell' istituzione governo contribuiranno anche nuove discipline sem­ plificatrici delle procedure di finanza pubblica (con un 'assai efficace sessione parla­ mentare di bilancio14) e razionalizzazioni della potestà normativa del governo, rego­ lata e ampliata da una nuova legge sulla presidenza del Consiglio. Anche l' invenzione della "legge comunitaria" (nel 1989) - un veicolo di deleghe legislative per l'attuazione delle direttive dell' Unione Europea e di esecuzione dei suoi regolamenti - contribuì al rafforzamento della posizione istituzionale del governo, oltre a creare una sensibilità europea del Parlamento, via via affinatasi sino al pene­ trante controllo di sussidiarietà sugli atti normativi dell' Unione. Questa sequela di interventi normativi a sostegno del profilo istituzionale del governo faceva sì che, al termine della fase proporzionale della Repubblica, il rap­ porto governo-Parlamento risultasse al riparo da pericoli di derive assemblearistiche. A questa conclusione concorse, anche e soprattutto, il sensibile fenomeno di splitting nel processo di fiducia al governo. Questo nasceva essenzialmente come governo parlamentare, nel senso che è in Parlamento che si coagulavano, e soprattutto si cifravano, gli accordi tra i vari partiti per la formazione del governo, dopo il risul­ tato elettorale. Dopo la fiducia iniziale, la localizzazione delle principali decisioni di indirizzo politico era però extraparlamentare. In altri termini, il centrale protago­ nismo dei partiti (e delle correnti in seno ai partiti) si svolgeva fuori delle Camere. Tale fenomeno, da un lato, svuotava il Parlamento da compiti di investitura (di fiducia o di sfiducia), dall 'altro ne faceva la sede privilegiata per una intensa co-legislazione con l'opposizione. In questo senso, il Parlamento si poneva come il meeting point in I3. Sul punto, G. Fiorucci, Camera dei deputati: il nodo del voto segreto, in "Quaderni Costituzio­ nali", 9, I989, I, pp. I3S ss.; C. Gatti, Senato della Repubblica: una «rivoluzione parlamentare» ?, ivi, pp. IS9 ss.; S. Curreri, Il voto segreto: questioni applicative e prospettive di riforma, in "Rassegna Parlamentare , 42, 2000, I, pp. I 4I ss. I4. Cfr. N. Lupo, I mutamenti delle procedurefinanziarie in una forma di Governo maggioritaria, in G. Di Gaspare, N. Lupo (a cura di), Le procedurefinanziarie in un sistema istituzionale multilivello, Giuffrè, Milano 2oos, pp. I38 ss. ,

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cui la politica dei partiti produceva politiche pubbliche: spesso con sensibile disalli­ neamento rispetto alle contrapposizioni elettorali.

2.

I nuovi equilibri della Repubblica maggioritaria Nella nuova stagione maggioritaria che si inaugura con le elezioni politiche del 1994 il contesto, come si è detto, cambia invece radicalmente. L' intermediazione negoziale del Parlamento, dopo la fase elettorale, è in linea di principio, saltata. La formula della legge elettorale parla di « Capo unico della coalizione » vittoriosa, quale can­ didato a premier: le prerogative costituzionali della presidenza della Repubblica nella formazione del governo sono salvate espressamente, ma faticosamente. Nella mutata situazione prevale, anche nella fase legislativa, una sorta di indirizzo pangovernativo15• Perde autonomia cioè quella fase che aveva contrassegnato una quasi ordinaria cooperazione dialettica tra maggioranza e opposizione (e gruppi di pressione, spesso trasversali)16• L' istituzione governo assomma ai poteri che aveva pazientemente e continuamente accumulato nel periodo proporzionale, il decisivo potere derivante dall 'egemonia elettorale del suo capo (con poteri di vita e di morte politica di parlamentari scelti e nominati dall 'alto su liste bloccate) . Anche a volere trascurare i conflitti di interesse e le traversie processuali del premier Berlusconi - fattori che, fin dalle origini della Repubblica maggioritaria, contraggono la normale attività legislativa delle Camere -, è la condizione oggettiva del Parlamento che cambia profondamente dopo la svolta maggioritaria. La prova (geometrica e paradossale insieme) del ribaltamento perfetto del rapporto Camere­ governo sta nel fatto che, dopo il 1994, il Parlamento italiano registra per la prima volta nella storia della Repubblica crisi parlamentari (cioè con formali sfiducie al governo ) 17• Al contrario di quanto avveniva nel passato quando, dopo la fiducia ini­ ziale per la formazione dei governi, le Camere erano escluse (salvo, ovviamente, la ratifica ex post) dai frequenti cambi di governo. Ora sono le Camere a diventare maztres aux crzses. A



15. La fase dell' istruttoria legislativa è al centro delle riflessioni dei contributi raccolti in G. Rec­ chia, R. Dickmann (a cura di), Istruttoria parlamentare e qualita della normazione, C EDAM, Padova 2002; P. Torretta, Qualita della legge e informazione parlamentare. Contributo allo studio dell'indagine conoscitiva nel procedimento legislativo, ESI, Napoli 2007. 16. Sulla complessiva evoluzione storica del Parlamento, cfr. Storia d'Italia. Annali, 17. Il Parla­ mento, a cura di L. Violante, Einaudi, Torino 2001. Sul ruolo dell'opposizione nell'evoluzione italiana, nonché in prospettiva comparata, cfr. G. Rizzoni, Opposizione parlamentare e democrazia deliberativa. Ordinamenti europei a confronto, il Mulino, Bologna 2012, spec. pp. 203 ss. 17. Cfr. G. Piccirilli, I paradossi della questione di fuiucia ai tempi del maggioritario, in "Quaderni Costituzionali", 2008, 4 , pp. 789 ss.; G. Rivosecchi, Fiducia parlamentare, in Digesto delle Discipline pubblicistiche, V TET, Torino 2008, pp. 377 ss. 90

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Questo significa che è mutato il ruolo costituzionale delle Camere. Si è oscurato il loro ruolo creativo di governi e di legislazioni. I riflettori si sono accesi sulle loro funzioni (che nel periodo proporzionale erano ridotte a ipotesi di scuola) di controllo sanzionatorio sulla stessa vita dei governi. In altri termini, l'egemonia governativa sul Parlamento - che trova la sua legittimazione nell 'investitura elettorale maggiori­ taria - può conoscere il suo punto di rottura solo con una formale crisi della mag­ gioranza parlamentare . E in questo momento che il Parlamento ritrova una sua autonomia rispetto al governo e, soprattutto, rispetto al momento elettorale. Autonomia, che com'è natu­ rale, è contestata con forza da quanti vedono nei mutamenti di governo usciti dalle elezioni il tradimento della diretta investitura popolare. E ritengono, dunque, che la sfiducia parlamentare possa avere il solo risultato di un ritorno alle urne. La prassi della Repubblica maggioritaria li contraddice, conformandosi, invece, in senso par­ lamentare. Governi "altri" sono stati infatti formati senza interrompere la legislatura. Il contrasto sulla legittimazione, tuttavia, persiste e avvelena la normale vita politica: contestando lo stesso esercizio (o il mancato esercizio) da parte del capo dello Stato del potere costituzionale di scioglimento delle assemblee. Accade così che, nel vuoto lasciato da contrapposizioni ideologiche ormai perente - e nell 'incapacità politico-culturale di colmarlo con l' intelligenza degli avvenimenti sopraggiunti -, un grave scontro politico si apre, da allora, sul terreno della Costi­ tuzione: uno scontro che appanna lo stesso valore del principio di alternanza che, con la legge maggioritaria, si intendeva normalmente favorire. Come si è accennato, prende forza un 'interpretazione leaderistica, personalistica, carismatica della premier­ ship: interpretazione che tende a imprimere una torsione di democrazia diretta all'intero funzionamento costituzionale. Si tende ad ancorare il Parlamento al prin­ cipio simul stabunt, simul cadent ( già introdotto per i governi territoriali), rilanciando le motivazioni e le preoccupazioni di governabilità che erano state quelle proprie della fase proporzionale della Repubblica: ma senza tenere conto del radicale cam­ biamento delle condizioni elettorali18• Il vincolo di esistenza tra governi e assemblee rappresentative è infatti accettato dalle opposizioni a livello delle democrazie territoriali locali (per sanarne la cronica instabilità, ma in un ordinamento di sicurezza assicurato dallo Stato centrale e dalla coerenza degli altri governi territoriali). È invece respinto come eversivo a livello nazionale. Si ritiene infatti che il Parlamento, nonostante i condizionamenti maggio­ ritari, rimanga ancora la garanzia di ultima istanza del sistema. La "battaglia per la Costituzione" diviene così la vera discriminante della lotta ..

1 8. Sul punto, il dibattito in dottrina è amplissimo. Cfr., almeno, S. Ceccanti, Laforma di Governo parlamentare in trasformazione, il Mulino, Bologna 1997, pp. 137 ss. ; G. Rizzoni, Il maggioritario alla prova. Governo e opposizione nella XIV legislatura, in "Meridiana", 2002, 45, pp. 199 ss.; R. Cherchi, Il Governo di coalizione in ambiente maggioritario, Jovene, Napoli 2006, pp. 243 ss. 91

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politica in Italia. Una battaglia che non avrà solo una carica ideologica. Essa si con­ creterà anche in un grande scontro elettorale. Un progetto del centro-destra, di revisione generale della Costituzione, basata sulla premiership assoluta e su un diva­ ricante concetto di nazione (proposto dalla Lega) , sarà infatti sconfitto in un refe­ rendum del 25-26 giugno 2o o6 (con un severo scarto di voti, del tutto inedito nell'ordinario distacco, di stretta misura, fra i due schieramenti) . Quando si produce la prima grossa disgregazione nella compattezza del dominio berlusconiano (e questo avviene nel corso del 2010)19, il terreno dello scontro all 'in­ terno della maggioranza risulta esattamente quello della difesa della Costituzione e del Parlamento contro la pretesa panelettoralistica. Lo spazio per una destra moderata e antimonarchica coincide così con quello della rivendicazione di garanzie, propria del confronto maggioranza-opposizione. Il tema costituzionale sarà costretto, però, a imperniarsi, con martellante conti­ nuità, sulle garanzie dei giudici, da un lato, e sulle garanzie del premier contro i giudici, dall 'altro. La convinzione del premier Berlusconi, più volte espressa anche in sede interna­ zionale, di essere oggetto di una persecuzione giudiziaria a fini politici, sfocia in provvedimenti legislativi mirati sui suoi processi, nella progettazione di uno scudo penale per il premier, in progetti di maggiore controllo delle responsabilità dei giudici e dei pubblici ministeri. Com 'è naturale, questa attività è sempre circondata dal sospetto generale (d'opposizione, ma anche di opinione pubblica) per l'evidente conflitto di interesse con i casi personali del capo unico della coalizione maggioritaria. Il risultato è di paralisi anche per questa parte di riforme costituzionali, pure quando vi sia consenso sulla necessità di esse per mutamenti efficientistici del vetere-ordina­ mento giudiziario italiano. Non è un caso che l'unica riforma passata con voti bipar­ tisan siano i principi del « giusto processo » , consegnati in una specie di norma quadro costituzionale (art. n 1)l0.

3 La riforma del Titolo

v

L'approccio inquinato alla questione giustizia distoglie tempo e attenzione parla­ mentare dalla più importante riforma costituzionale della Repubblica maggioritaria. Fu la riforma, varata in una parentesi di governo del centro-sinistra, del Titolo v,

19. n progressivo disgregarsi della coalizione vincitrice delle elezioni del 2008 è descritto in N. Lupo, G. Piccirilli, Le recenti evoluzioni della forma di Governo italiana: una conforma della sua natura parlamentare, in "Democrazia e Diritto': 2012, 1, pp. Ss-uo. Cfr. anche P. Armaroli, Lo strano caso di Fini: tutte le anomalie della XVI legislatura e oltre, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2013. 20. Cfr. A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, il Mulino, Bologna 2012.

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dedicato all'articolazione regionale dello Stato2.•. Benché confermata da un refe­ rendum popolare (il 7 ottobre 2001 ) , la frettolosa riforma fu - e continua a essere ­ largamente imperfetta. I difetti principali risiedono nella ripartizione della compe­ tenza legislativa tra Stato e Regioni (incongruenze in parte riparate dalla Corte costituzionale con audaci sentenze : sostanzialmente di emendamento legislativo ) Risiedono, ancora, nella mancata individuazione di una clausola di interesse nazio­ nale, a chiusura dei sempre probabili contenziosi tra Roma e le capitali regionali. Risiedono, infine, e soprattutto, nella mancata trasformazione del Senato in una Camera di raccordo delle autonomie territoriali: come alta sede politica di rappre­ sentanza dei territori e di composizione dei conflitti istituzionali (funzioni ora esercitate, in impropria sede amministrativa, e con non poche difficoltà, dalla Conferenza Stato-Regioni) 2.3• Con un cambio di priorità, di per sé suggestivo, il centro-destra ha cercato di attuare, prima della definizione della stessa struttura istituzionale, un meccanismo di ripartizione delle risorse, con il federalismo fiscale2.4• L' intento era di stabilire un 'area consorziale di finanza pubblica, co n pesanti responsabilità politiche per gli amministratori colpevoli di sperperi. Il processo attuativo è stato però caratterizzato da un'overdose normativa con un forte grado di inaffidabilità a causa della difficile determinazione di fabbisogni e costi standard per i servizi, con cifre ponderate ed equiparabili in tutte le variegate regioni italiane. Anche questa prospettiva di riforma istituzionale - decisiva per la stessa forma di Stato - si è colorata, agli occhi dell'opposizione, di una sua inaccettabile "politicità" per il persistente sotto­ fondo secessionistico che la Lega Nord agita contro cali di tensione nell'attuazione del federalismo. n.

2I. Cfr., per tutti, B. Caravita di Toritto, La Costituzione dopo la riforma del Titolo v. Stato, Regioni e autonomie fra Repubblica e Unione europea, Giappichelli, Torino 2002, e T. Groppi, M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo v, Giappichelli, Torino 2003'· 22. Cfr. S. Bartole, Collaborazione e sussidiarieta nel nuovo ordine regionale, in "Le Regioni': 2004, pp. 578-86, e S. Mangiameli, Giurisprudenza costituzionale creativa e Costituzione vivente. A proposito delle sentenze n. 303 del 2003 e n. I4 del 2004, ivi, 200 8, pp. 825-4I. 23. Cfr. da ultimo la relazione della Commissione per le riforme costituzionali, Per una democrazia migliore, Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per l' Informazione e l'Editoria, Roma 20I3, pp. 33-48. Cfr. A. Manzella, La riforma del Senato e le garanzie, in "la Repubblica': 4 aprile 20I4; nonché C. Decaro, La rifonna del bicameralismo in Italia, in Id. (a cura di), Il bicameralismo in discussione. Regno Unito, Francia, Italia: profdi comparati, Luiss University Press, Roma 2008, pp. 107-4I. 24. Sull'architettura e le novità del sistema del federalismo fiscale, cfr., anche in senso critico, G. Rivosecchi, Il federalismo fiscale tra giurisprudenza costituzionale e legge n. 42 del 2009, ovvero: del mancato coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, e C. Tucciarelli, La legge n. 42 del 2oog: oltre l'attuazione delfederalismo fzscale, in "Rivista di Diritto Tributario", x x , 20IO, I, rispet­ tivamente pp. 6 I-88 e pp. 49-60. Cfr. anche la relazione conclusiva sull 'attuazione della legge delega sul federalismo fiscale, redatta dalla Commissione parlamentare per l 'attuazione del federalismo fiscale, 22 gennaio 20I3. 93

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Con tali pulsioni politiche viene reso pesante e controverso uno sviluppo istituzionale che è nello stesso nucleo fondante della Repubblica. E nella Costituzione del 1 948 che viene introdotta, infatti, la peculiare forma dello Stato regionale. E dall' Unione Europea, d 'altro canto, che è partita la spinta per la maggiore intensità del protagonismo regionale degli Stati membri, con l' individuazione di soggetti di autonomia territoriale a cui intestare i progetti di impiego dei fondi di coesione comunitari2.5• Anche l'essenziale processo di regionalizzazione rientra così nell'atmosfera mal­ sana che caratterizza l' intero processo costituzionale italiano. Lo stesso concetto di transizione risulta intorbidato dal perdurante richiamo a vecchie formule, dal rifiuto di capire le nuove finalità conseguenti alla realtà di una competizione a vocazione bipolare del sistema. Una simile inadeguatezza culturale sembra perdurare (con l' ag­ gravante di nessun vantaggio politico immediato) anche quando l'opposizione è di sinistra. Nei progetti fin qui prodotti, l'opposizione rivela una sostanziale subalter­ nità all' impostazione government first della destra, con concezioni oggettivamente adattive. In realtà, non c 'è stato un più pietrificato immobilismo italiano se non da quando si è cominciato a utilizzare il liquido termine di "transizione". Solo un fattore esterno poteva mutare lo stato delle cose. Questo fattore è stata l'evoluzione istituzionale europea, provocata dalla Grande crisi (2oo8)2.6• ,

'

4

L'impatto della governance europea Ci sono stati sempre punti chiave di incrocio tra l 'adesione europeista e la vicenda pubblico-costituzionale italiana. Il primo fu l ' inserimento nella Costituzione della clausola di limitazione della sovranità nazionale per le necessità di un ordinamento sovranazionale ( « l 'aspirazione alla unità europea è un principio italianissimo » dirà Ruini, il presidente della Commissione per la Costituzione, quando fu approvato l'art. 1 1 : A.C. 24 marzo 1947 )2.7• Il secondo culmine si registrò il 18 giugno 1989

25. Cfr. A. D 'Atena, Le regioni italiane e la Comunita economica europea, Giuffrè, Milano 1981, spec. pp. 3S ss. e, per un' indagine comparativa, cfr. Id. (a cura di), L 'Europa delle autonomie. Le Regioni e l'Unione europea, Giuffrè, Milano 2003, pp. 3 ss. 26. Sull'evoluzione costituzionale dell' Unione, cfr. F. Bassanini, G. Tiberi (a cura di), Le nuove istituzioni europee, il Mulino, Bologna 2010, nonché S. Micossi, G. L. Tosato (a cura di), L'Unione europea nel XXI secolo, il Mulino, Bologna 2008. Sugli aspetti concettuali, cfr. N. Verola, L'Europa legittima, Passigli, Firenze 2006 e, su tutti, B. De Giovanni, L 'ambigua potenza dell'Europa, Guida, Napoli 2002. 27. Sul punto, cfr. la raccolta di scritti a cura di N. Ronzitti, L 'articolo II della Costituzione. Baluardo della vocazione internazionale dell'Italia, ES I, Napoli 2013. 94

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quando l ' 88,1% degli elettori italiani (circa 29 milioni di voti favorevoli) disse "sì" a un referendum consultivo che proponeva di affidare al Parlamento europeo «il mandato di redigere un progetto di costituzione europea » . Quel referendum sembrò segnare la definitiva inclusione dell 'europeismo tra i valori condivisi dell'arco costi­ tuzionale (dopo le forti riserve dell'opposizione comunista durate almeno sino al compromesso storico del 1976). Il terzo punto di incrocio fu l'avvio, con il Trattato di Maastricht ( 1992) del processo d'adesione alla moneta unica18, avvio che segnò l'inizio di un penetrante monitoraggio dell ' Unione sulla situazione finanziaria ita­ liana e il ricorso a un vasto programma di privatizzazioni. Il quarto, infine, con esiti ancora in corso, è stato l 'impatto delle misure di governance europea adottate a seguito della Grande crisi del 2o o8. Sotto le necessità e le emergenze della rottura dei mercati finanziari, dei debiti sovrani e del disordine monetario, sono aumentati i poteri del Consiglio europeo con una forte verticalizzazione decisionale nell' intero sistema euronazionale. Questo processo di spostamento di peso e di autorità sul fattore governo ha interessato naturalmente anche l ' Italia. E più di tutti, l' Italia: per i vari condiziona­ menti personali che fin dalle origini hanno pesato su un premier, il Berlusconi, altrimenti onnipotente per mandato elettorale. Nel Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo questo "re" si è trovato nudo e ha incontrato (un fatto mai acca­ duto, in maniera così netta, nell'ordinamento europeo) la sfiducia dei pari. Le dimissioni del governo Berlusconi nel novembre 20 1 1 si inseriscono, per altro verso, in quella serie di rotture governative determinate in molti Stati dell' Unione da un'emergenza continua che non permette di conciliare misure impopolari con il consenso elettorale. Tuttavia le modalità di sostituzione con il governo tecnico di Mario Monti - sia pure con una procedura garantita dal presidente della Repubblica - hanno rivestito un marcato carattere di commissariamento ad personam a opera della Banca centrale europea (e del Consiglio europeo) . Ne è sembrato derivarne uno scongelamento della situazione italiana: sia per lo straordinario successo popolare delle primarie del mag­ gior partito d 'opposizione, sia per l'emersione di opinioni dissenzienti nel partito personale ancora maggioritario in Parlamento. Tuttavia l 'esperienza del governo tecnico - caratterizzato da una doppia e reci­ proca conventio ad excludendum di queste due maggiori componenti politiche: con una sorta di fusione a freddo successiva nelle votazioni fiduciarie - provocava un deleterio effetto di omogeneizzazione agli occhi di un'opinione pubblica colpita da misure, talora poco meditate, di austerità. Le elezioni del 25-26 febbraio 2013 hanno, per molti aspetti, riprodotto il fenomeno 28. Cfr. J. Weiler, Fin-de-siede Europe: On Idea! and Ideology in the Post-Maastricht Europe, in D. Curtin, T. Heukels (eds.), Institutional Dynamics ofEuropean Integration. Essays in Honour ofHenry G. Schermers, vol. 2, Nijhoff Publishers, Boston (MA) 1994, pp. 23-41.

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elettorale verificatosi nelle elezioni del 1994. In un sistema fortemente destabilizzato da una sfiducia politica di massa, i beneficiari elettorali finali non sono i protagonisti in campo (e segnatamente il soggetto che aveva condotto la più determinata opposi­ zione all 'andamento delle cose), bensì un soggetto terzo. Nel 1994 il berlusconismo, nel 2013 il Movimento 5 Stelle, affermatosi con il 25% dei suffragi, sotto la guida di un professionista di satira politica e di un tecnico di comunicazione informatica. All 'efficace modernità della campagna elettorale, con la saldatura tra piazza virtuale e piazze reali, con la dimostrata capacità di trascinamento di larghissimi strati di votanti da parte di esigue élite di attivisti, doveva però seguire la nullità del progetto al primo impatto con le immediate scelte politiche imposte dallo stesso calendario istituzionale della XVII Legislatura. Si è assistito così, con una stupefazione maggiore di quella che aveva accolto quel successo, al "congelamento" in Parlamento del 25% dell 'elettorato italiano, chiuso in pregiudiziali di negazioni a priori o in provocatorie pretese autore­ ferenziali, legate a dubbie sperimentazioni di democrazia diretta. Questi comportamenti di autismo politico, di rifiuto di "parlamentarizzazione" degli eletti in rappresentanza di 9 milioni di voti italiani, che venivano in tal modo "sterilizzati", conducevano, in poco tempo, nella perdurante crisi economico-finan­ ziaria del paese, a tre conseguenze istituzionali di profonda rilevanza. In primo tempo, allo stallo della procedura normale di elezione del capo dello Stato e alla necessitata rielezione, per la prima volta nella storia della Repubblica, del recalcitrante presidente uscente, Giorgio Napolitano2.9• In secondo tempo, alla formazione del governo Letta cosiddetto "delle larghe intese", che vedeva la forzosa coabitazione nella stessa com­ pagine dei due partiti politici maggiori che più si erano dichiarati incompatibili per tutto il corso della campagna elettorale. In un terzo tempo, a causa delle vicende giudiziarie del leader Berlusconi, alla scissione dell'ala "governativa" di quel partito personale. Nella confusa situazione tra le elezioni e l'accidentato inizio della legislatura, il presidente della Repubblica ha istituito un gruppo di lavoro che almeno attenuasse l'endemica battaglia per la Costituzione, selezionando le questioni ritenute di mag­ giore rilievo per il superamento della crisi del sistema: sulla base di valutazioni poli­ tiche, del giudizio dei costituzionalisti, dei lavori delle commissioni parlamentari che si sono succedute nel tempo30• In tale punto sullo stato dell'ordinamento si possono ritrovare gli elementi sin29. Cfr. C. Fusaro, Il presidente della Repubblica tra mito del garante e forma di Governo parla­ mentare a tendenza presidenziale, in "Quaderni Costituzionali", 2013, pp. 47-60; V. Lippolis, G. M. Salerno, La Repubblica del presidente. Il settennato di Giorgio Napolitano, il Mulino, Bologna 2013, spec. pp. 29 ss.; E. Cheli, Il capo dello Stato: un ruolo da ripensare?, e C. Pinelli, Napolitano visto dai costituzionalisti, in "il Mulino", 3, 2013, pp. 436 ss. 30. Alle attività del gruppo di lavoro presso il Quirinale hanno fatto seguito, con conclusioni sostan­ zialmente analoghe, quelle della Commissione di esperti istituita dal ministro per le Riforme costituzio­ nali, che ha presentato la relazione finale al Parlamento il I S ottobre 2013. Cfr. supra, nota 23.

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tomatici di quello che è avvenuto nel regime parlamentare dal 1994 in poi. Il gruppo si è infatti, naturalmente, interrogato innanzi tutto sull'alternativa tra forma di governo parlamentare razionalizzata ed elezione diretta del presidente della Repubblica secondo il modello semipresidenziale. E l' interrogativo che ha, di fatto, percorso la Repubblica del maggioritario. La conseguenza, con l 'abbandono del proporziona­ lismo, dell'affermarsi, fin dal 1993 - con l'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province (a cui seguirà nel 1999 la previsione costituzionale dell 'elezione diretta dei presidenti delle giunte regionali) -, di una forma mista di governo. Denominata anche « modello italiano di Governo »3\ essa combina elementi del presidenzialismo e del parlamentarismo : elezione diretta del capo dell'esecutivo ; sistemi elettorali a premio di maggioranza; rapporto fiduciario con le assemblee con la clausola simul stabunt, simul cadent. Alla luce di tale modello, non fu dunque casuale né una forzatura, almeno sul piano sostanziale, l' inclusione nella legge elettorale del 2oos (legge 21 dicembre 20 05, n. 270, che regolò le elezioni politiche del 2oo 6, del 2oo 8 e del 2013) della formula che indicava nel capo della coalizione anche il candidato alla presidenza del Consiglio (sia pure con la salvaguardia formale per i poteri costituzionali del presidente della Repubblica) . Era la naturale conseguenza di un 'evoluzione psicologica dell 'elettorato ormai abituato, da vent'anni, a vedere governi nascere dalle urne e non dal flessibile gioco assembleare. D 'altra parte, anche per i governi nazionali, tutte le elezioni poli­ tiche dal 1994 hanno prodotto una coalizione vincente con una maggioranza assoluta di seggi. Tutte: salvo quelle per il Senato nel 1994 (sanata con l'acquisizione parla­ mentare, da parte della coalizione del centro-destra vittoriosa alla Camera, di senatori eletti in altre liste) e nel 2013 (che doveva vedere, come si è detto, la nascita e le successive accidentate vicende del governo delle larghe intese come unico governo possibile). La tensione tra il maggioritarismo decisivo per i governi (locali e nazionali) e l'impianto parlamentare e proporzionalistico della Costituzione non è stata dunque un prodotto dell ' involuzione del sistema partitico in forme personalistiche o, addi­ rittura, padronali. C 'è stata, ovviamente, anche l 'influenza di questo fattore: che con il berlusconismo, prima, e il grillismo, poi, ha mostrato solo le punte arrembanti di un fenomeno diffuso. Ma quella tensione è stata il prodotto naturale di sviluppi e bisogni reali della politica italiana. Solo che, nelle cose, essa non è stata risolta con una scelta di cambio costituzionale, ma con l'uso alternativo della via parlamentare. Questo è avvenuto quando, per crisi del governo nato dalle urne ( 1 9 94) o per "non nascita" di una maggioranza governativa (2013), è stato necessario ricorrere all'inve­ stitura parlamentare, alla fiducia costruttiva, a una creazione, insomma, di un governo in Parlamento. ..

31. Cfr. R. D 'Alimonte, La formazione elettorale dei governi, in "li FUangieri", Quaderno 2010, pp. 35-7 3· 97

A N D R E A M A N Z E L LA ..

E significativo che il gruppo di lavoro al Quirinale - pur preferendo il regime parlamentare come «più coerente con il complessivo sistema costituzionale, capace di contrastare l'eccesso di personalizzazione della politica, più elastico rispetto alle forme di Governo semipresidenziale » - abbia però insistito per una formula eletto­ rale che « garantisca la scelta degli eletti da parte dei cittadini e favorisca la costitu­ zione di una maggioranza di governo attraverso il voto » 32.. Ed è altrettanto significativo che il gruppo si sia fatto carico delle due uniche occasioni (1994, 20 13) in cui il risultato numerico del Senato aveva impedito la nascita diretta di un governo dopo le elezioni. E abbia perciò sostenuto una penetrante revisione costituzionale: nel senso di assegnare alla Camera dei deputati la compe­ tenza esclusiva sul rapporto fiduciario con il governo e la conseguente profonda trasformazione del bicameralismo parlamentare. Il progetto di sostituire il Senato con una Camera delle autonomie ha, d'altra parte, attraversato lungamente la cosiddetta "Repubblica del maggioritario". Vi è stata, e vista dal rapporto governo-Parlamento è stata ragione preminente, la necessità di superare l'assurdità - propria della legge Calderoli del 2005 - di un sistema elettorale con la previsione di 18 premi di maggioranza regionali (un'assurdità di gravità pari, per i suoi effetti sistemici, con l'altra, rilevata anche dalla Corte costituzionale, nella sentenza 12 gennaio 2012, n. 13, e successivamente eliminata con la sentenza 13 gennaio 2014, dell 'abnorme premio di maggioranza previsto nell'elezione della Camera dei deputati, in assenza di una soglia minima per fare scattare il premio )33• Vi è stata però, anche la ragione di allargare la legittimazione attraverso l'integrazione in Parlamento della rap­ presentanza territoriale (una concreta prospettiva d'iniziale inclusione di rappresen­ tanze regionali e locali era stata prevista attraverso il veicolo della Commissione parla­ mentare per le questioni regionali: prospettiva elusa per l'inadempimento dell'art. n della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3)34• Il gruppo di lavoro ha ripercorso poi il rapporto governo-Parlamento sotto l'aspetto della « fuga dalla legge » e del « miglio­ ramento del grado di trasparenza del procedimento legislativo parlamentare » 35•

32. Cfr. Relazionefinale del Gruppo di lavoro sulle Riforme istituzionali, I2 aprile 20I3, http://www. quirinale.it/ qrnwl statico/ attivi tal consultazioni/ c_2omar2o I 3/ gruppi_lavoro/ 20 I 3-04-I 2_relazione_ fìnale.pdf, pp. I I -2. 33· In proposito, ex multis, cfr. i commenti pubblicati in AA .VV. , Nel "limbo" delle leggi. Abrogazione referendaria della legge Calderoli e reviviscenza delle leggi Mattare/la?, Giappichelli, Torino 20I2. 34· P. Caretti, La lenta nascita della "bicameralina'; strumento indispensabile non solo per le Regioni, ma anche per il Parlamento, in Id. (a cura di), Stato, Regioni, Enti locali tra innovazione e continuita: scritti sulla riforma del Titolo v della Costituzione, Giappichelli, Torino 2003, pp. 27 ss.; E. Gianfran­ cesco, Problemi connessi all'attuazione dell'art. II della l. cost. n. 3 del 2ooi, in "Rassegna Parlamentare", 2004, pp. 300 ss., e R. Bifulco, L'integrazione della commissione parlamentare per le questioni regionali: in attesa della Camera delle Regioni, in A. Manzella, F. Bassanini (a cura di), Per fare funzionare il Parlamento. Quarantaquattro modeste proposte, il Mulino, Bologna 2007, pp. 87 ss. 3S· Cfr. R. Zaccaria, Fuga dalla legge? Seminari sulla qualita della legislazione, Grafo, Brescia 2ou, nonché L. Duilio (a cura di), Politica della legislazione, oltre la crisi, il Mulino, Bologna 20I3.

G OV E RNO E PARLA MENTO D O P O I L 1 9 9 4

Sotto il primo aspetto, viene colta una caratteristica degli anni del maggioritario : che però sarebbe erroneo addebitare alla legge elettorale e ai suoi effetti. In realtà, si è trattato di un fenomeno di traslazione del centro della produzione normativa dal Parlamento al governo e ad altre fonti : fenomeno che ha interessato tutti gli ordina­ menti europei, con modalità diverse. Da noi, il ricorso, che permane frequente, alla decretazione d 'urgenza ( I I 8 decreti legge su un totale di 266 atti legislativi nell 'ultima legislatura 200 8-13) è stato temperato in qualche misura da due incisive sentenze della Corte costituzionale: la 360/1996 (contro la reiterazione di decreti legge alla sca­ denza) e la 22/2012 (contro i decreti legge a contenuto eterogeneo) . È in questa linea di contenimento di livello costituzionale che il gruppo ha chiesto la costituzionaliz­ zazione dei « limiti della decretazione d 'urgenza ora contenuti in legge ordinaria »36• Tuttavia, la fuga dalla legge formale - che pur secondo Costituzione dovrebbe costituire «il perno del sistema delle fonti di produzione normativa »37 - è originata anche dalla forte incidenza delle fonti di diritto dislocate nell 'ordinamento dell ' U­ nione Europea (sempre nell'ultima legislatura: su 223 decreti legislativi, ben 160 sono stati attuativi di direttive comunitarie) . Com'è intuibile, negli ultimi tempestosi anni, la rottura degli equilibri finanziari e monetari del mondo, con una situazione di emergenza continua e strutturale, ha costretto a spostare l'accento dai temi consueti della crisi della legislazione a quelli - per molti aspetti inediti - della legislazione della crisi. La questione non è più quella dell'equilibrio democratico tra governo e Parlamento nelle decisioni pubbliche. La questione è se le decisioni pubbliche, comunque adottate, siano adeguate nella tem­ pistica e nel merito alla necessità da fronteggiare nella crisi. E su quale sia il luogo abilitato per valutarne l'effetto. Sotto il secondo aspetto, la prassi dilagata di maxie­ mendamenti/ questioni di fiducia non ha rappresentato tanto un vulnus all'autonomia parlamentare nella decisione o l 'espressione di prepotere della maggioranza (basti vedere lo straripante uso che ne ha fatto anche il governo cosiddetto tecnico), quanto un attentato continuato alla sicurezza giuridica. Si è fatta così strada una legislazione magmatica, limacciosa, in forma torrentizia. Si è osservata una rincorsa delle istituzioni parlamentari al seguito della disgregazione degli interessi, adattandosi senza correzioni al disordine dei nuovi processi sociali in atto. I successivi fenomeni di patologia legi­ slativa dalle "leggine" alla reiterazione abnorme dei decreti legge, dalle ordinanze della

36. Relazionefinale del Gruppo di lavoro, cit., p. I2. Cfr. A. Simoncini, Lefunzioni del decreto-legge. La decretazione d'urgenza dopo la sentenza n. JOo/1990 della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 2003, spec. pp. 243 ss.; N. Lupo, L 'o mogeneita dei decreti-legge {e delle leggi di conversione): un nodo difficile, ma ineludibile per limitare le patologie della produzione normativa, in G. D'Elia, G. Tiberi, M. P. Viviani Schlein (a cura di), Scritti in memoria di Alessandra Concaro, Giuffrè, Milano 20I2, pp. 4I9 ss.; R. Zac­ caria, L'o mogeneita dei decreti-legge: vincolo per il Parlamento o anche per il Governo?, in "Giurispru­ denza Costituzionale': 20I2, I, pp. 283 ss. 37· E. Cheli, L 'ampliamento dei poteri normativi del! 'esecutivo nei principali ordinamenti occidentali, in "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico': I 9S9· pp. SIS ss. 99

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protezione civile ai maxiemendamenti sono ulteriori espressioni di tale rincorsa. Ognuno di questi strumenti viene utilizzato sino alla sua dismisura di stress e alla rottura: per poi essere sostituito dal seguente, infetto dallo stesso virus. Comunque, le segnalazioni del gruppo di lavoro - dal mancato adeguamento del numero delle commissioni parlamentari in conseguenza della riduzione del numero dei ministeri, dalla stessa abnorme prassi dei maxiemendamenti alla mancanza di una corsia preferenziale per i provvedimenti prioritari di iniziativa governativa - sono anche la denuncia di quella che è stata in questi anni una sorta di neghittosità del Parlamento ad adeguare la propria organizzazione interna alle logiche e alle garanzie connaturali a un sistema maggioritario. Per specifica paralisi da veti incrociati e per assenza di una vera e propria cultura della manutenzione regolamentare, le Camere, anziché ripensare le regole e renderle più coerenti con la logica maggioritaria, hanno preferito lasciare tutto intatto o quasi38• In un discorso che, necessariamente coinvolge tutto l'arco politico, il rapporto governo-Parlamento dopo l'introduzione (e l'aggravamento) di sistemi elettorali maggioritari, si è lasciato così fatalisticamente deperire. Da un lato, non apprestando i mutamenti regolamentari necessari alla mutata situazione, dall'altro, non elevando il livello delle garanzie che, adeguate in periodo proporzionale, non lo erano logica­ mente più nel nuovo ordinamento elettorale (con l' incredibile sottostima della risorsa costituzionale presente in quasi tutti gli altri sistemi: il ricorso di minoranza parlamentare ai tribunali delle leggi). In questo modo, la vera comprensione dello spirito del tempo è sembrata sfuggire alla dimensione parlamentare. L' inerzia ha favorito l'istituzione governo, sospinta, dalla stessa forza delle cose, a occupare più spazio politico e istituzionale. 1994- 2013: il bilancio istituzionale, fatto in tutte le sedi, è dunque assai deficitario. Si è rotto un equilibrio della Costituzione, delicato e complesso senza una visione sinottica del dopo. Si è continuato a parlare di transizione, come se una meta fosse stata raggiunta o almeno visibile39• Alla fine, come le vicende del 2013 dimostrano, resta l'ancoraggio alla Costituzione del secolo scorso per stabilizzare l 'avvenire.

3 8. Cfr. N. Lupo, Il ruolo delle burocrazie parlamentari alla luce dei mutamenti dell'assetto istitu­ zionale nazionale e sovranazionale, in "Rassegna Parlamentare", S4· 20I2, I, pp. SI ss. 3 9· Cfr. G. Napolitano, Una transizione incompiuta?, Rizzoli, Milano 2006. IOO

L'amministrazione in mezzo al guado : la difficile sfida delle riforme amministrative di Guido Melis

I

Il Rapporto Giannini e la sconfitta del riformismo amministrativo Nelle prime righe del suo Rapporto sui principali problemi della amministrazione dello Stato (novembre 1979 )\ Massimo Severo Giannini citò «due importanti accadi­ menti » , individuandoli come punti d 'attacco fondamentali per la proposta di riforma amministrativa presentata in quegli stessi giorni al Parlamento : innanzitutto «la parziale regionalizzazione dell 'apparato dei pubblici poteri, operato dalla legge delega 2 2 luglio 1977, n. 616 » ; e poi «l' ipotesi di accordo governo-associazioni sindacali per i dipendenti statali 1976-1979 » 2.. Il primo tema avrebbe potuto e dovuto rappresentare un'occasione storica per la trasformazione dell 'intera organizzazione dello Stato. Giannini avvertiva però, e lo avrebbe poi ribadito negli anni successivi, come il disegno ambizioso della legge 616/ 1 977 si fosse interrotto a metà: dopo l' individuazione delle funzioni regionali ( il «primo tempo » della riforma), era stato in pratica « soppresso in sede di discus­ sione parlamentare » il « secondo tempo» , cioè il riordinamento delle funzioni e strutture statali. L' intera materia, insomma, appariva connotata da una preoccupante confusione, mentre il potere di borsa, decisivo ai fini della ripartizione reale dei poteri, restava saldamente nella sfera dello Stato centrale\ La regionalizzazione era rimasta a metà del guado. Quanto poi al secondo tema individuato dal Rapporto, quello dell' introduzione della contrattazione collettiva nel pubblico impiego, nel 1979 il «lungo accordo » negoziato nel triennio precedente si era appena tradotto in due disegni di legge: il primo concernente una legge quadro del pubblico impiego, il secondo per trasferire 1. Rapporto sui principali problemi della amministrazione dello Stato, in "li Foro Italiano", v, 1 97 9, pp. 289-3 14, ora in M. S. Giannini, Scritti, VII. 1977-1983, Giuffrè, Milano 2005, pp. 327-41. 2. lvi, p. 329. 3· Ciò accadeva principalmente in forza della riforma tributaria degli anni 1971-74, per la quale lo Stato era l'unico percettore di tributi, con la funzione di ripartire il gettito tra gli enti locali, le Regioni, le imprese, i privati. 101

GUIDO MELIS

in legge l'accordo stesso4• La riforma dunque poteva dirsi anche qui in bilico : il processo poteva, sì, considerarsi avviato ma, al tempo stesso, già si manifestava irto di ostacolis. Come osservava il Rapporto, la legge 22 luglio I975, n. 382, aveva distinto in linea di massima tra le attività (riservate all'accordo) e il reclutamento, la carriera, la responsabilità e la disciplina (tutte mantenute sotto l'ombrello rassicurante della riserva di legge), e aveva dato via libera al tempo stesso agli accordi separati per il personale delle aziende autonome. Ma aveva lasciato sopravvivere di fatto ampie zone d 'ombra, di definizione incerta, come del resto riconosciuto a chiare lettere nel parere del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro ( C N E L ) del 2I gennaio I 9786• Il Rapporto Giannini, magna charta di un riformismo amministrativo che affondava le sue radici nell'eredità migliore della cultura amministrativa del dopoguerra7, diede luogo comunque a un'intensa stagione di studi. Fatto proprio in tempi rapidi dal Con­ siglio dei ministri (deliberazione del I0 febbraio I98o ), che tra l'altro istituì contempo­ raneamente gli appositi uffici di organizzazione e metodo, fu immediatamente seguito da un importante ordine del giorno del Senato ( Io luglio I98o) e dalla costituzione di una serie di commissioni8, in totale una quindicina, sui punti cardine della riforma amministrativa: dalla Commissione per la ristrutturazione dello Stato, presieduta da Umberto Pototschnig (dalla quale derivarono altre varie sottocommissioni), a quella per lo studio dei problemi inerenti alla misurazione della produttività guidata da Ales­ sandro Taradel9; dalla Sottocommissione per il riordinamento delle aziende autonome (Giorgio Pastori) a quella per i contratti dello Stato (Enzo Capaccioli) ; dalla Commis­ sione per i controlli (Luigi Petriccione) a quella per la revisione strutturale e organiz­ zativa degli enti pubblici e di ricerca e degli enti pubblici di Stato (Fabio Merusi) ; dalla Commissione per il riordinamento della presidenza del Consiglio (Giuliano Amato) a quella per la semplificazione delle procedure e la fattibilità delle leggi (Alberto Barettoni Aderi); da quella per la ristrutturazione dei poteri centrali (Franco Piga) a quella per 4· lvi, p. 3 34· S· Sul tema, in generale, cfr. S. Battini, S. Cassese (a cura di), Dall'impiego pubblico al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, Giuffrè, Milano 1997 (con scritti, oltre che dei curatori, di M. D 'Antona, G. Cecora, G. D 'Auria) ; più di recente, M. L. D 'Autilia, R. Ruffini, N. Zamaro (a cura di), !! lavoro pubblico tra cambiamento e inerzie organizzative, Bruno Mondadori, Milano 2009. In generale, cfr. G. Melis, Storia dell'amministrazione italiana (I36I-I993). il Mulino, Bologna 1 996 (spec. cap. VI) e, di recente, G. Tosatti, La modernizzazione dell'amministrazione italiana (I9So-2ooo), Aracne, Roma 2012. 6. li parere del CNEL del 21 gennaio 1 978, n. I 65/I12, « raccomandava una graduale armonizzazione legislativa tra settore pubblico e settore privato» (cfr. Rapporto, cit., p. 334). 7· Sulle commissioni di studio dei periodi precedenti, cfr. Presidenza del Consiglio dei ministri. Dipartimento della Funzione pubblica, G. Melis, G. Tosatti (a cura di), La riforma amministrativa (I9I3-I992). Gli studi e le proposte, in "Quaderni del Dipartimento della Funzione Pubblica", 27, 1 994· 8. Più estesamente, Melis, Storia dell'amministrazione italiana, cit., pp. so6-7. 9· In realtà, non formalmente derivata dal Rapporto, essendo stata istituita con D.P.C.M. 14 novembre 1979, ma in piena sintonia con la visione di Giannini, al quale Taradel era strettamente legato. 102

L 'A M M INI STRAZIONE IN M EZZO AL G UADO

la pubblicità degli atti amministrativi e legislativi (Giuseppe Santaniello ); da quella per l'omogeneizzazione dei trattamenti di quiescenza e previdenza dei dipendenti pubblici e per la perequazione dei trattamenti pensionistici (Vincenzo Colletti) a quella per i rapporti Stato-Regioni (Franco Bassanini); da quella sul difensore civico (Riccardo Chieppa) a quella sul diritto di sciopero nei pubblici servizi (Guido Zagari). L'elenco dei temi, e i nomi dei responsabili, dicono molto sull'ambizioso disegno che sottostava all 'istituzione delle commissioni. Quanto alle materie, esse compone­ vano un vero e proprio indice dei temi sul tappeto, nell' intento evidente di aggredire la riforma amministrativa in tutti i suoi aspetti e da ogni angolazione, secondo una strategia riformista globale, mirante ad attaccare tutti insieme i fattori di arretratezza. Nei nomi coinvolti, poi, non era difficile intravedere una mobilitazione del mondo degli studi (l' Università, con qualche integrazione da parte dei settori più sensibili dell'alta amministrazione, come attestava la presenza di alcuni grand com mis della Repubblica) ; mentre non si poteva non notare l'assenza o comunque la marginalità delle amministrazioni in quanto tali, i cui dirigenti al massimo livello venivano in qualche modo, se non proprio esclusi, certo posti in secondo piano. La scelta di Giannini, sotto questo profilo, non era inconsapevole (vi presiedeva certamente una diffidenza di fondo verso l 'alta burocrazia così come si era venuta aggregando nel lungo dopoguerra) e al tempo stesso non sarebbe stata priva di conseguenze, giacché il disegno riformista avrebbe trovato proprio all'interno dei ministeri i suoi avversari, per quanto silenziosi, più pervicacemente ostili. In ogni caso, mentre le commissioni concludevano i loro lavori presentando densi rapporti finali10, avvennero tre fatti nuovi, destinati a incidere in vario modo sulle sorti della riforma. Il primo, il più grave, fu, nell 'ottobre 1980, la non riconferma di Giannini quale ministro titolare della Funzione pubblica, maturata nell'ambito di una crisi del n governo Cossiga che sfociò nell ' incarico conferito a Forlani. La lettera riservata che Giannini scrisse nell 'occasione a Bettino Craxi, il leader del Partito socialista nella cui delegazione egli, in quanto ministro, era stato compreso (e dalla quale veniva adesso escluso a vantaggio del democristiano Darida), rappresenta ancora oggi uno straordinario documento del problematico rapporto tra le élite illuminate dei rifor­ matori e la sordità perenne della politica politicanten. Restituito Giannini ai suoi studi, il processo riformatore letteralmente si arrestò. Perché si ritornasse a parlare seriamente di riforma amministrativa si sarebbe dovuto attendere più di un decennio. Il secondo fatto fu rappresentato dal varo della legge 1 1 luglio 1980, n. 312, Nuovo IO. Sull'esito delle commissioni, cfr. il giudizio dello stesso Giannini nella sua prefazione al fasci­ colo monografìco dedicato al tema della "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico", XXXII, I982, 3, pp. 7IS-2I. I I. n testo della lettera è stato pubblicato in s. Cassese ( a cura di ) , Vìta e opere di Massimo Severo Giannini, numero monografìco di "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico", 2000, 4, pp. I367-8. Cfr. anche G. Melis, Giannini e la politica, ivi, pp. I249-76. 1 03

G UIDO MELIS

assetto retributivojunzionale del personale civile e militare dello Stato, nella quale si introduceva nell'ordinamento il concetto di « qualifica funzionale » . Era questo il terzo tentativo (dopo quello degli ultimi anni Cinquanta culminati nel deludente testo unico del 1957 e poi quello del 1968-72, dagli esiti più ambigui e controversi) di affrontare alla radice il problema. Ancora una volta però, come già nelle due occasioni precedenti, la questione complessiva della riorganizzazione degli apparati e del loro decentramento (l 'ordinamento degli uffici, insomma, e la loro razionalizza­ zione) fu sostanzialmente accantonata, per legiferare principalmente sul personale. Ne venne una legge (che Giannini stesso definì «pessima » ) 1\ frutto per altro «di una lunga contrattazione tra i sindacati confederali » , che risentì non poco, nella sua formulazione e poi, specialmente, nella sua applicazione, delle «pressioni sindacali » . Il terzo fatto nuovo, forse meno negativo dei primi due, fu la legge quadro, sopraggiunta nel I983. Grazie a essa per la prima volta si inquadrava in modo unitario tutto il comparto deli ' impiego pubblico. Si ribadiva inoltre, sebbene con « distin­ zione del tutto empirica » come avrebbe commentato Giannini13, la distinzione tra materie soggette ali ' accordo collettivo e altre materie, che restavano riservate alla legge. E si interveniva puntualmente (forse persino troppo) nel campo della contrat­ tazione collettiva, specialmente sostituendo il precedente ordinamento basato sulla carriera con il nuovo, fondato sul binomio qualifiche funzionali-profili professionali. Usciva infine confermata dalla legge la tendenza alla "partecipazione", intesa però essenzialmente come coinvolgimento diretto dei sindacati negli organismi collegiali, com'era del resto già avvenuto nella scuola (D.P.R. 3 I maggio I 9 74, n. 416, sugli organi collegiali) e nella sanità (legge 23 dicembre I978, n. 833, sul Servizio sanitario nazionale) .

2.

La lunga stasi degli anni Ottanta Insomma, la nuova legislazione dei primi anni Ottanta traduceva solo in parte, e con vistose contraddizioni e lacune, quello che nel Rapporto Giannini era apparso ed era un coerente, globale, persino radicale disegno innovativo14• Nel nuovo decennio la

12. M. S. Giannini, Considerazioni sulla legge quadro per il pubblico impiego, in "Politica del Diritto", XIC, 1983, pp. 549-71, ora in Id., Scritti, VII, cit., spec. p. 910. 13. Id., Per la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, in Scritti per Mario Nigro, I I. Pro­ blemi attuali di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano 1991, ora in Id., Scritti, IX. 1991-1996, Giuffrè, Milano 2006, spec. p. 72. Giannini definiva la legge viziata da numerose imprecisioni normative e riteneva, a qualche anno di distanza, che avesse dato « cattivi risultati». 14. Lo stesso Giannini ebbe a riconoscere che quello racchiuso negli anni Settanta era stato, legislativamente almeno, « un decennio operoso» (cfr. Id., La lentissima fondazione dello Stato repub­ blicano, in "Regione e Governo Locale': I, 1981, 6, pp. 17-40, ora in Id., Scritti, VII, cit., p. 637 ) . Un 104

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responsabilità della Funzione pubblica fu infatti successivamente affidata a ministri di basso profilo o comunque di estrazione strettamente politica ( Clelio Darida, I 9 8 o-8 I ; Dante Schietroma, I98I-83; Remo Gaspari, I9 83-87 )15• Gli anni Ottanta diedero luogo a vecchie politiche di cooptazione - per lo più di corto respiro -, dettate dalle emergenze occupative del momento, proseguendo la politica del resto anticipata già nel I977, con la legge I0 giugno I977, n. 285, per effetto della quale erano entrati senza concorso nel settore pubblico s8.ooo unità lavorative (Sabino Cassese aveva polemicamente denunciato allora una vera e propria « Capo­ retto dell'amministrazione » )16• Sulla stessa linea si orientavano adesso le politiche di assorbimento delle prime crisi industriali17• Di conseguenza i dipendenti statali (ministeri e aziende autonome, escluso il personale degli enti) oscillarono intorno ai 2.3oo.o oo18• Aumentarono inoltre i diri­ genti (giungendo sui 7.Ioo alla fine del decennio : un record in Europa). Nel com­ plesso, cioè considerando anche i dipendenti degli enti pubblici e di quelli locali, gli addetti al settore pubblico allargato (dato I99I ) rappresentavano adesso il 26% degli occupati dipendenti e il I8% dell'occupazione totale: 4,2 milioni, di cui 3,5 dipendenti delle amministrazioni pubbliche locali e centrali, senza contare i 623.000 a carico delle ferrovie. A dimensioni tanto rilevanti corrispose un disegno organizzativo altrettanto complesso e disordinato, frutto spesso occasionale delle spinte corporative interne e della connivenza con esse del sindacato e della politica. Alla fine del decennio l'amministrazione italiana avrebbe presentato una mappa estremamente articolata e largamente incoerente: 22 ministeri, 4 dipartimenti, circa Io autorità amministrative indipendenti, oltre I.o o o enti pubblici nazionali, nonché 20 regioni di cui s a statuto bilancio di Giannini sul sostanziale fallimento delle idee riformatrici contenute nel Rapporto ( ma in verità qui Giannini si riferiva puntualmente all'ordine del giorno del Senato) è nel suo intervento in

Le riforme amministrative a quattro anni dal rapporto Giannini. Atti del seminario {Roma, 2 fobbraio 1934), FrancoAngeli, Milano I984, pp. I42-9, ora anche in Giannini, Scritti, VIII. 1934-1990, AA.VV.,

Giuffrè, Milano 200 6, pp. 297-304. IS. Cfr. G. Melis, F. Merloni ( a cura di ) , Cronologia della pubblica amministrazione italiana {13611992), il Mulino, Bologna 1 99S· A Darida successe nel 1987 Livio Paladin, personalità di estrazione non politica. I 6. In R. Mori (a cura di) , Servitori dello Stato. Intervista sulla pubblica amministrazione a Sabino Cassese, Zanichelli, Bologna I98o, p. IO. I7. Nel periodo 1 980-93 « circa il 6 o% degli impiegati pubblici, nonostante la Costituzione disponga che ai pubblici uffici si accede mediante concorso», avrebbe avuto il posto « con assunzioni "precarie': seguite da successive "titolarizzazioni" » : S. Cassese, Il sistema amministrativo italiano, ovvero l'arte di arrangiarsi, in S. Cassese, C. Franchini (cura di ) , L 'amministrazione pubblica italiana. Un profilo, il Mulino, Bologna 1 994, p. 15. I 8. Nel periodo I981-91 il numero dei dipendenti pubblici crebbe al ritmo di circa 44.000 all'anno, facendo segnare una flessione rispetto alla crescita del decennio precedente ( 9s.ooo all'anno nel periodo 1 97 I-8 I ) : Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione pubblica, Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni, Istituto poligrafìco e Zecca dello Stato, Roma I993, p. 39· Per una sintesi delle dinamiche di quegli anni, cfr. Tosatti, La modernizzazione, cit. 10 5

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speciale, 104 province, 8.103 comuni di tutte le dimensioni, 337 comunità montane, circa 700 consorzi di enti locali, 6s università, 67.000 sedi di istituti scolastici e quasi 6s o unità sanitarie locali, per non dire delle 8o o aziende municipalizzate e delle molte altre unità amministrative19• Mentre, al tempo stesso, l'esercito dei dipendenti dello Stato e degli enti minori presentava, a un 'analisi ravvicinata, un 'e­ strema varietà di situazioni giuridiche e di diversi rapporti di lavoro (di « giungla retributiva » aveva parlato sin dal 1972 Ermanno Gorrieri, in un citatissimo libro del Mulino )w.

3 Si avanza uno strano i mpiegato ... Il pubblico impiegato di fine secolo, e quello dei primi decenni del Duemila, appare in effetti radicalmente diverso dal cliché postottocentesco che a lungo gli avevano cucito addosso la letteratura, il giornalismo d 'inchiesta, e più di recente il cinema e la stessa televisione1• Nel Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni presentato nel 1993 in Parlamento dall'allora ministro per la Funzione pubblica Sabino Cassese si leggeva: Gli addetti al settore pubblico allargato rappresentano, nel 1991, il 26% degli occupati dipen­ denti e il 1 8% dell'occupazione totale. Essi ammontano a 4,2 milioni [ ... ], di cui 3, s milioni sono dipendenti delle amministrazioni pubbliche centrali e locali. A questi si aggiungono 6 9 3.000 dipendenti di enti pubblici che, pur non essendo inclusi nella pubblica ammin istra­ zione, fanno parte del settore pubblico allargatou.

Dal Rapporto si evincevano altri dati interessanti. L'impiegato pubblico italiano medio era ancora nel 1991 soprattutto di estrazione meridionale, era in genere un quadro intermedio (la piramide di un tempo si era come deformata e presentava una base proporzionalmente in via di assottigliamento, con un evidente ingrossamento della sezione mediana), era in genere laureato in giurisprudenza, aveva una produtI9. L'elenco è tratto da Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione pub­ blica, Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni, cit., p. 33· 20. E. Gorrieri, La giungla retributiva, il Mulino, Bologna I 972, spec. capp. IV, Le retribuzioni di fatto del pubblico impiego, e xv, La situazione di privilegio del pubblico impiego. 2I. Sull'immagine dell ' impiegato pubblico, cfr. i saggi raccolti in A. Varni, G. Melis ( a cura di ) , L'impiegato allo specchio, Rosenberg & Sellier, Torino 2002; inoltre G. Melis, Gli impiegati pubblici, in Id. (a cura di ) , Impiegati, prefazione di S. Cassese, Rosenberg & Sellier, Torino 2004, pp. IS-76. Sulla rappresentazione letteraria del burocrate, ora spec. L. Vandelli, Tra carte e scartoffie. Apologia letteraria del pubblico impiegato, il Mulino, Bologna 20I3. 22. Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento della Funzione pubblica, Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni, cit., p. 39·

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tività media sul lavoro molto bassa. La sua formazione avveniva ancora prevalente­ mente "sul campo", mentre restava marginale il ruolo delle molte (troppe) scuole di formazione promosse o finanziate dallo Stato (alla Scuola superiore della pubblica amministrazione, nata negli anni Sessanta, si erano affiancate via via le scuole che ciascuna delle amministrazioni forti aveva voluto costituire autonomamente) . Inoltre l'impiegato tipo era scarsamente mobile, in prevalenza di residenza romana o meri­ dionale, il che comportava uno squilibrio del personale sul territorio (con forte privilegio delle regioni del Sud e desertificazione degli uffici del Nord); aveva scar­ sissima confidenza con le procedure informatiche; difettava di responsabilizzazione individuale e mostrava scarsa capacità di assumere decisioni. Parlava e scriveva in una lingua autoreferenziale - il « burocratese » 2.3 - che ne ostacolava la comunicazione con i cittadini. Era in atto, però, una rivoluzione culturale nascosta, destinata a incidere non poco, per lo meno dal punto di vista sociologico, negli anni successivi: il so% dei censiti nel Rapporto Cassese del 1993 era costituito da donne, distribuite secondo una scala che vedeva il massimo di concentrazione tra le insegnanti (esclusa l' Università, erano il 75% del totale), con punte rilevanti in alcuni ministeri (45,3%) e nella sanità (5 2%) . L'identikit non sarebbe completo se non si rilevasse, al di là della foto di gruppo scattata nel Rapporto, un dato antropologico finale, decisivo per comprendere la realtà dell' impiego pubblico italiano : progressivamente, a partire dalle mobilitazioni poli­ tico-sindacali degli anni Settanta, passando per le trasformazioni sociologiche della seconda modernizzazione italiana, la figura dell' impiegato (forse non solo di quello pubblico, ma certamente di questi in maniera più vistosa) era cambiata in senso quasi molecolare. Persi progressivamente i tratti distintivi che ne avevano segnato a lungo identità sociale e separatezza, smarrita l'originaria identificazione del funzionario nella funzione (elemento base dell ' ideologia stessa del pubblico impiego così come si era venuta articolando nel corso dell'Ottocento e poi nella prima parte del xx secolo), il dipendente pubblico tendeva ormai a confondersi nel vasto e anonimo mondo dei salariati con laurea e diploma, nella categoria indistinta del ceto medio e medio-basso italiano degli ultimi due decenni del secolo. Certo, faceva status, ancora, la stabilità del posto pubblico (sebbene già gli uffici si popolassero di figure a part­ time o addirittura precarie, tendenza questa destinata ad approfondirsi nei decenni successivi), ma mutava l'autopercezione che le burocrazie avevano di sé stesse e del proprio ruolo. Era come se l' impiegato pubblico fosse attratto e cooptato in quel vasto e indistinto ceto medio, più o meno retribuito, che, nell' incipiente processo di disgregazione dei vecchi blocchi sociali del dopoguerra, andava in quegli anni rap23. Sulla lingua della burocrazia, cfr. G. Melis, G. Tosatti, !! linguaggio della burocrazia italiana tra Otto e Novecento, in A. Mazzacane ( a cura di ) , I linguaggi delle istituzioni, Pubblicazioni dell' Istituto Suor Orsola Benincasa-CUEN, Napoli 200I, pp. I29-48. 10 7

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presentando sempre di più la realtà mediana e in qualche modo più consistente della società italiana. Lo dimostravano le indagini sui consumi, sui modelli di vita privati, sulle propensioni culturali, sul modo di vestire e di comportarsi dentro e fuori dell'ufficio, sugli orientamenti politici, sull 'impiego del tempo libero, sul rapporto - terreno un tempo decisivo - con l 'autorità costituita: si perdeva, al tempo stesso, quella che era stata un tempo la "professionalità" del lavoro pubblico, il senso della sua distinzione dal lavoro privato. E tramontava, o quanto meno si affievoliva, l ' au­ tocoscienza del funzionario di Stato.

4 La stagione delle riforme: da Cassese a Bassanini Del resto , il mutamento non era solo sociologico. Agli inizi degli anni Novanta, in coincidenza con una dinamica non solo italiana, il movimento per le riforme amministrative sembrò riprendere con maggiore determinazione il suo camminol4• Risale al 1990 una sequenza di leggi significative : la 7 agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo e l 'accesso (largamente inattuata) ; la nuova disci­ plina antitrust, la riforma del sistema bancario pubblico, la riforma del potere locale (8 giugno 1990, n. 14 2 ) , la regolamentazione del diritto di sciopero nei pubblici servizi, la riforma del sistema radio-televisivo e infine la legge sull' immigrazione. Seguì il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, con il quale si concludeva il lungo percorso per la contrattualizzazione del lavoro pubblico. Mutava radicalmente adesso, seb­ bene non senza incertezze e zone d 'ombra, l 'essenza stessa del rapporto . La vecchia concezione del servitore dello Stato, assoggettato a codici speciali ma al tempo stesso beneficiario di garanzie particolari ( l 'impiegato "irto di diritti" di cui si era discusso agli inizi del Novecento), lasciava spazio alla nuova conformazione del rapporto di impiego con lo Stato e con gli enti pubblici modellata, almeno in tendenza, su quella del dipendente privato. Se non era già morto negli anni pre­ cedenti, ora il vecchio Monsù Travet, di memoria ottocentesca, poteva certo con­ siderarsi fuori gioco. Dopo il 1993 la politica di riforma amministrativa conquistò un posto fisso nell'agenda dei governi, collegandosi sempre più strettamente al tema delle politiche di bilancio. Fu merito di Sabino Cassese (ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi del 1993-94 ) aver inserito nella finanziaria approvata a fine 1993 un'ampia parte dedicata alla riforma. La bussola diveniva adesso la centralità del cittadino, l ' interesse generale dell 'utente prevalente nei confronti di quello corpora­ tivo del personale. Semplificazione organizzativa, delegificazione e riduzione del 24. Cfr. per una sintesi G. Melis, La legislazione ordinaria, in "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico': 2001, 4, spec. pp. 1072-4. 108

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corpo normativa, spazio alle autocertificazioni (una legge le aveva introdotte, ma senza alcun effetto pratico, sin dal 1968), furono alcune delle parole d'ordine del nuovo corso2.5• Ma soprattutto fu merito dell'iniziativa di Cassese ( in ciò fortemente appoggiato dal presidente del Consiglio Ciampi) avere accreditato una concezione della riforma amministrativa non più come intervento di settore ma come motore strategico dell'intera attività di risanamento finanziario. Cessata forzatamente l ' azione di Cassese per le dimissioni del governo Ciampi, dopo le elezioni del 1 9 94 subentrò nelle riforme un periodo di relativa stasi ( 1 994- 9 6 ) , coincidente dapprima con il breve governo Berlusconi (ministro della Funzione pubblica fu Urbani) e poi con il successivo governo Dini. Nel 1996 si aprì una nuova, intensa stagione riformista, caratterizzata dall'azione incalzante di Franco Bassanini, che nei governi succedutisi nel corso di quella legislatura svolse successivamente i ruoli di ministro per la Funzione pubblica e di sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Tre provvedimenti in particolare caratterizzarono quello che (se non altro per le ambizioni che lo mossero) può essere considerato come un nuovo tentativo organico di innovare la struttura dello Stato : le leggi n. 59, n. 94 e n. 1 27 del 1997 (Bassanini­ uno, Bassanini-due e Bassanini-tre)2.6• Da esse derivò una vera pioggia di interventi normativi, per lo più decreti delegati. L'amministrazione fu ora investita da un vasto processo innovativo, il cui asse centrale poté individuarsi nel superamento definitivo della struttura pubblicistica del rapporto di lavoro e nell 'avvento di forme contrat­ tuali. In particolare, andando oltre la disciplina del D.Lgs. 29/!993, il regime di diritto privato fu esteso anche ai dirigenti generali, devolvendo così tutte le relative contro­ versie al giudice ordinario. Dal rapporto d 'impiego pubblico (dove l'aggettivo era parte fondante del rapporto stesso) si passava al rapporto d'impiego con lo Stato e con i suoi enti. La stagione delle riforme (in sostanza il decennio 1993-2003), intensa e per certi versi anche impetuosa, ebbe certamente effetti positivi, ma non fu esente da contrad­ dizioni. In particolare non mise fine, anzi in certo senso incrementò, la tendenza alla moltiplicazione e sovrapposizione di modelli organizzativi differenti. L' innovazione si tradusse cioè non in una sostituzione del nuovo al vecchio, ma piuttosto in una tendenza "ad aggiungere", sovrapponendo spesso modelli organizzativi di natura differente o addirittura contrastante. Nell'ambito della stessa organizzazione mini­ steriale si impose ad esempio il modello del dipartimento, ma permase anche quello delle direzioni generali. I dipartimenti istituiti nell'ambito dell 'amministrazione Una puntuale analisi dei vari provvedimenti in S. Cassese, La riforma amministrativa all'inizio della quinta Costituzione dell 'Italia unita, in "Foro Italiano", v, I 9 94, 9, v, p. 2 4 9 ss.; e Id., Aggiorna­ mento sulla riforma amministrativa nel I993-I994· in Cassese, Franchini (a cura di), L'amministrazione pubblica italiana. Un profdo, cit., pp. 239 ss. 26. Cfr. Melis, La legislazione ordinaria, cit., pp. IO?s-6. Un bilancio a caldo, ma efficace è M. Rogari, La riforma della P. A. tra successi e lacune, in "li Sole 2 4 Ore", I9 marzo 200I. 25.

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centrale sarebbero stati, al 2002, 34, a fronte però di 40 direzioni generali e di 13 agenzie (i ministeri erano quell 'anno 14)�7• Si affermarono poi altri schemi organizzativi, di impronta originariamente priva­ tistica, quali specialmente quello appena citato delle agenzie. Queste ultime, legate alla concezione generale del new public management, conobbero una crescente for­ tuna, culminata nel 1999 in due decreti legislativi che ne definirono struttura e compiti. Ebbero propri organi, bilanci separati, potestà di autorganizzazione. Pur sottoposte ai poteri di vigilanza e di indirizzo del ministro, costituirono una prima rete di amministrazioni per obiettivo, profondamente differenti dalle strutture a vocazione generalista che erano tipiche della struttura ministeriale8• Ebbero, infine, status non uniformi: alcune personalità giuridicahe di diritto pubblico, altre (forse) di diritto privato, altri ancora semplicemente riconoscimento in quanto organi, senza personalità giuridica. Un rilievo autonomo ricevettero anche, a partire dagli anni Novanta, le autorità indipendenti�9• Sino al 1990 - è stato osservato - queste figure costituivano una novità, essendo ridotta la loro presenza a soltanto tre casi: la CONSOB, istituita nel 1974; il Garante per l'editoria, del 1 9 8 1 ; e l'I SVAP, del 1982. Ma nell 'ultimo decennio del secolo sopravvennero l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ( 1990 ), la Commissione di garanzia per l'attuazione della legge sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici ( 1990), l'Autorità per l'energia elettrica e il gas (1 9 9 5), l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ( 1997 )30• Il fenomeno ebbe due cause principali : da un lato l'avvertito bisogno di compensare la politicizzazione delle amministrazioni tradizionali, dali ' altro la spinta dali ' interno esercitata dai "regolati", neli' intento di sottrarsi all'invadenza della politica. Mutavano intanto anche le amministrazioni tradizionali. Al vertice dei ministeri si affermò quasi ovunque la figura del segretario generale, operante alle dipendenze 27. I dipartimenti sarebbero stati (sempre a quella data) distribuiti nei seguenti ministeri: Interno; Giustizia; Politiche agricole e forestali; Ambiente e Tutela del territorio; Infrastrutture e Trasporti; Lavoro e Politiche sociali; Salute (nel 2004 il riordino del ministero dei Beni culturali li introdusse anche in quel ministero). 28. Cfr. S. Cassese, Le basi del diritto amministrativo. Nuova edizione, Garzanti, Milano 2000, p. 1 94· I D.Lgs. 30 luglio 1 9 99, nn. 300 e 303, le fissarono in numero di 13: industrie, difesa, per le normative e i controlli tecnici, per la proprietà industriale, per la protezione dell 'ambiente e per i servizi tecnici, per i trasporti terrestri e le infrastrutture, per le entrate, per le dogane, per il territorio, per il demanio, per la protezione civile, per la formazione e l' istruzione professionale, per i servizi sanitari e per il servizio civile. Cfr. anche L. Casini, Le agenzie amministrative, in "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico", 2003, 2, pp. 393 ss. 29. F. Merusi, Democrazia e autorita indipendenti. Un romanzo ((quasi" giallo, il Mulino, Bologna 2000; M. Clarich, Autorita indipendenti. Bilancio e prospettive di un modello, il Mulino, Bologna 2005; L. Paganetto (a cura di), Authorities. Imparzialita e indipendenza, Donzelli, Roma 2007 ; A. La Spina, S. Cavatorto, Le autorita indipendenti, il Mulino, Bologna 2008. 30. Cfr. M. Savino, Le riforme amministrative in Italia, in "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico", 2005, 2, pp. 440-1. IlO

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dirette del ministro e incaricato di assicurare il coordinamento dell'azione ammini­ strativa. Era, se si vuole, un vecchio istituto ottocentesco che tornava di attualità ( i segretari generali erano stati soppressi, salvo poche eccezioni, da Crispi nel 1888), ma adesso con caratteristiche nuove connesse alla complessità ormai assunta dalle attività di governo. Infine, un po' per le stesse ragioni, si registrò una moltiplicazione delle strutture di staff, composte spesso da personale esterno all'amministrazione, legate personal­ mente ai responsabili politici da cui strettamente dipendevano e tendenzialmente in posizione di concorrenza con gli uffici amministrativi31• Trovava in ciò una prima risposta l'esigenza della politica di riappropriarsi del controllo dell'attività di governo, senza più delegarne l'attuazione ai vertici amministrativi dei ministeri. Esigenza, in parte collegata alle fortune del bipartitismo spurio affermatosi dopo il 1994, comunque in palese contraddizione - si noti - con quella che era stata la "filosofia" del rifor­ mismo amministrativo di scuola gianniniana, basata invece sulla distinzione di fondo tra compiti di indirizzo, riservati al potere politico, e funzioni di attuazione ammi­ nistrativa degli indirizzi stessi, affidati all'esecuzione di una sorta di civil service all'italiana quale sarebbe dovuto essere una dirigenza amministrativa rinnovata e finalmente consapevole delle finalità di governo. Concorse, e molto, infine a quella che potremmo definire come la rivincita della politica (che in larga misura si riappropriò degli spazi ceduti nel decennio precedente) la nuova normativa sullo spoils system, avviata dal governo di centro-sinistra con una norma del 1998 che sottoponeva per la prima volta alla discrezionalità del governo (sia pure solo a scadenza di legislatura e con determinati temperamenti) gli incarichi per i dirigenti generali capi dei dipartimenti32.. Emergeva insomma una tendenza quasi oggettiva alla difformità e alla frammen­ tazione. Era come se l'antica trama dell 'amministrazione per ministeri tendesse a slabbrarsi inesorabilmente, senza peraltro mai autoriformarsi in profondo, dando vita ad apparati paralleli caratterizzati dalla specialità e dalla finalità di scopo. E tutto

31. S. Battini, Gli uffici di sta./Jdei ministri: diversi ma uguali?, ivi, 2006, 3, pp. 671 ss. Un tentativo di valutare quanto fosse realmente rispettata la differenziazione prevista in legge tra uffici di staff e uffici online dell'amministrazione fu messo in atto alla fine della XIV Legislatura. I risultati sono riassunti in una serie di saggi pubblicati ivi, 2 0 0 5 , 3· La distinzione apparve già allora problematica, sia dal punto di vista del riparto delle attività che da quello meramente organizzativo. 32. S. Battini, Il principio di separazione fra politica e amministrazione in Italia: un bilancio, ivi, 2 0 I 2, 1, pp. 39-80. Battini, analizzando il rapporto tra politica e amministrazione, ravvisa nella legisla­ zione del biennio I 997-98 una «profonda rivisitazione » dei principi affermati nel 1 993-94. In parti­ colare le riforme Bassanini avrebbero segnato una « banalizzazione » della separazione funzionale politica-amministrazione, negando « il senso profondo del nuovo principio di distribuzione delle competenze, e cioè che l'esercizio, da parte degli organi politici, dei poteri di indirizzo e di rule making fosse di per sé sufficiente a garantire il controllo democratico degli apparati amministrativi ». Sarebbe nata da ciò « una più avvertita esigenza di contiguità e di consentaneità » e una più stretta « relazione di tipo fiduciario tra politica e amministrazione » ( ivi, pp. 8-9).

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avveniva non in base a un disegno complessivo di riforma, ma seguendo spinte par­ ticolari, spesso derivanti dall 'urgenza dei problemi e dalla rilevante influenza degli interessi di settore dei quali la nuova amministrazione andava a costituire l' interlo­ cutrice principale. Il cambiamento era in atto, indubbiamente. Ma il nuovo, anziché sopprimerlo, si aggiungeva al vecchio, !asciandolo sopravvivere.

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I primi anni Duemila: il cambiamento contrastato Come già era accaduto negli anni Ottanta, il primo decennio del nuovo secolo fu segnato da una netta sterilizzazione, per non dire dalla paralisi del progetto riforma­ tore. Ciò non escluse, beninteso, che si esercitasse ancora (e molto) una certa retorica della riforma, nel senso di un insistito richiamo a essa nei programmi di governo e negli stessi atti del Parlamento. Ma a questa riaffermazione di principio non corri­ spose più né una reale volontà politica al vertice dell 'esecutivo, né un convinto coinvolgimento delle amministrazioni. Si succedettero nei primi anni Duemila tre ministri del centro-destra (Frattini, 20 01-02; Mazzella, 20 02-04; Baccini, 2004-06), seguiti da uno di centro-sinistra (Nicolais nel breve governo Prodi del 2oo 6-o8). Quindi si aprì la controversa stagione di Renato Brunetta (2oo8- I I ) . Il periodo intercorso tra il 2001 e il 20I I fu principalmente caratterizzato dalla contraddittoria deriva delle riforme Bassanini varate nel decennio precedente33• Fu una sorta di metabolizzazione del cambiamento, un processo di adattamento e al tempo stesso di svirilizzazione delle riforme, non sempre evidente ma tuttavia efficacissimo. Al termine del quale la resistenza passiva (e talvolta scopertamente attiva) degli appa­ rati ebbe ragione delle novità più incisive introdotte dai riformatori. Il processo di ristrutturazione dell'amministrazione centrale innescato specialmente con la legge 59/1997 e poi rafforzato con i provvedimenti varati da Bassanini nel 1999 si realizzò sì, sulla carta, ma con palesi, persino clamorose contraddizioni. Così, ad esempio, a livello delle strutture centrali, si intersecarono ambiguamente due modelli ordinamen­ tali implicitamente alternativi e invece destinati a convivere pacificamente: quello nuovo dipartimentale e quello tradizionale delle direzioni generali. Furono riorganiz­ zati più o meno coerentemente secondo il primo schema il ministero dell' Interno (D.P.R. 7 settembre 2001, n. 398), quello della Giustizia (D.P.R. 6 marzo 2001, n. ss) ,

33· Un bilancio delle riforme del periodo I996-200I e del periodo successivo sino all'avvento alla Funzione pubblica del ministro Brunetta è stato tracciato dallo stesso Franco Bassanini in un articolo in "The Journal of European Economie History': 20IO, n. I, apparso in traduzione italiana nel sito di ASTR1D (http :/ /astrid-online.com/Riforma-dei/Studi-e-ri/BASSANINI_Vent-anni-di-riforma-PA_ 2o_o2_Io.pdf) con il titolo Vent 'anni di riforme del sistema amministrativo italiano (1990-2010). II2

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quello delle Politiche agricole e forestali (D.P.R. 28 marzo 2ooo, n. 450 ), quello della Salute (D.P.R. 7 dicembre 2000, n. 435). Il ministero per i Beni e le Attività culturali fu organizzato dapprima per direzioni generali (D.P.R. 29 dicembre 2000, n. 44I), poi per dipartimenti (D.Lgs. 8 gennaio 2004, n. 3), quindi un D.P.R. (26 novembre 2007, n. 233) ripristinò direzioni generali e segretario generale. Nel ministero dell' E­ conomia e delle Finanze i due modelli si sovrapposero : quattro dipartimenti nella vecchia struttura derivante dal ministero del Tesoro (D.P.R. 20 febbraio I998, n. 38), direzioni generali nella parte del ministero ereditata dalle Finanze. Particolarmente laboriosa fu in questo caso la sintesi operata nel D.P.R. 26 marzo 2ooi, n. IO], che ridisegnò l'architettura delle funzioni e degli uffici di livello dirigenziale generale secondo un 'articolazione nella quale un unico dipartimento, denominato per le poli­ tiche fiscali, si suddivideva in otto direzioni generali34• Restarono invece fedeli all'antica organizzazione per direzioni generali gli Esteri ( I 3 direzioni generali), la Difesa ( Io), le Comunicazioni (5), l'Ambiente e Tutela del territorio (dove una primitiva svolta verso i dipartimenti fu corretta dal D.Lgs. 6 dicembre 2002, n. 287, in 6 direzioni generali), le Infrastrutture e Trasporti ( ugual­ mente articolato in dipartimenti nel 2ooi ma poi, con D.Lgs. I 2 giugno 2003, n. I52, tornato a un numero non superiore a I6 direzioni generali), il Lavoro e Politiche sociali (dove i due dipartimenti stabiliti nel 2o oi tornarono con il D.Lgs. I I agosto 2003, n. 24I, alle direzioni generali), le Attività produttive (D.Lgs. Io settembre 2003, n. 32, non più di II direzioni generali)35• In definitiva nel 200 2 i dipartimenti istituiti nell'ambito dell 'amministrazione centrale sarebbero stati 34, a fronte di 40 direzioni generali e I3 agenzie36• Ugualmente contraddittorie si rivelarono nella nuova fase le politiche per il personale. Istituti e norme anche fortemente innovati vi restarono affidati a un' ini­ ziativa governativa inadeguata, debole quando non addirittura ostile, arenandosi spesso nell' inerzia di apparati burocratici che quelle riforme avevano più subito che condiviso. Quanto alle dimensioni del personale, esse non diminuirono affatto (com'era negli auspici), ma tesero a stabilizzarsi su un totale che oscillò tra i 3 · 335.6 1 2 dipen­ denti del 2o oo e i 3 · 377-9 I8 del 2002. E per quanto concerne lo status giuridico, poi, le forme flessibili e non più a tempo indeterminato del rapporto si moltiplicarono caoticamente, sia in ragione dei ricorrenti blocchi delle assunzioni (che suggerirono vere e proprie "infornate" di personale precario), sia forse in coincidenza con una tendenza generale, non solo 34· Un'analisi puntuale di queste trasformazioni organizzative è in A. Meniconi, F. Verrastro, Le strutture e il personale, in Formez, Dipartimento della Funzione pubblica, Note e commenti sul sistema amministrativo italiano, 2004, I. Organizzazione, personale e procedure, Formez, Roma 2004, pp. I07 ss. 35· lvi, spec. pp. 114-S· 36. G. Melis, Le strutture e il personale, in Formez, Dipartimento della Funzione pubblica, Note e commenti sul sistema amministrativo italiano, 2004, 3· Indicazioni finali, cit., pp. S I ss., spec. p. 53· Il3

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italiana, a privilegiare tipologie di contratti a tempo, apparentemente più congeniali alle trasformazioni del lavoro (negli uffici pubblici l'avvento dell' informatica con ciò ch'essa richiedeva in termini di nuove competenze e di ristrutturazione interna) . Cambiamenti di un certo rilievo, ma anch'essi contraddittori, avvennero nel campo della dirigenza pubblica. Qui a partire dal 2000 si registrarono almeno due provvedimenti rilevanti : il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull'o rdina­ mento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, provvedimento generale mirante a consolidare quasi un testo unico della disciplina sul personale pubblico (disciplina costituitasi a partire dal D.Lgs. 29/ 1993 e implementata poi dalle leggi Bassanini e da altre norme); e la legge 15 luglio 2002, n. 145, che novellò in più parti il precedente D.Lgs. 16 5/2001, consolidandolo in un testo unico37• La legge 145/2oo 2, in particolare, interveniva nella delicata materia degli incarichi ai dirigenti (da allora nota come sistema dello spoils system), estendendo a una fascia più ampia la possibilità originariamente limitata agli alti dirigenti, segretari generali e capi di dipartimento e - soprattutto - stabilendone la cessazione delle funzioni decorsi novanta giorni dal voto di fiducia al nuovo governo (con eliminazione della clausola che stabiliva la continuazione del rapporto in mancanza di revoca) . Era un passaggio decisivo, che avrebbe mutato profondamente il rapporto politica-ammini­ strazione. E si innescava nel progressivo esaurirsi di quei tradizionali "bacini cliente­ lari", costituiti nel passato da partecipazioni statali e sistema delle banche special­ mente pubbliche, sui quali si era prevalentemente, sino ad allora, incentrato lo scambio politica-amministrazione. L'applicazione della legge 145/20 0 2, sebbene poi in alcune sue parti fosse dichiarata incostituzionale, produsse effetti immediati desti­ nati a radicarsi negli anni successivi. In primo luogo instaurò la prassi di un consi­ stente turnover dei dirigenti in stretta corrispondenza con l'alternarsi dei vertici politici (tipica conseguenza fu l'abbreviazione della durata massima degli incarichi connessa all 'eliminazione del termine di durata minima, con effetti evidenti di pre­ carizzazione delle responsabilità) ; in secondo luogo indirettamente incoraggiò il ricorso sempre più massiccio alle nomine esterne (nel 20 03 si stabilì peraltro un aumento del numero dei dirigenti generali provenienti da altre amministrazioni fino al 70% dei posti disponibili, mentre la percentuale degli esterni restò fissata al Io%); in terzo luogo creò una dipendenza maggiore tra vertici amministrativi e vertici politici, riducendo ulteriormente l 'autonomia della dirigenza dalla politica e accre­ scendone la fidelizzazione nei confronti dei partiti di governo38• Permanevano per altri gli antichi limiti del modello burocratico italiano. Per 37· lvi, spec. pp. 5 4 ss. 3 8. Battini, Ilprincipio di separazione, cit., p. 24, mette in rilievo però la progressiva « correzione » dello spoils system a opera della giurisprudenza della Corte costituzionale, che specialmente mise in risalto la « distinzione tra le funzioni di diretta collaborazione al processo di formazione dell' indirizzo politico attribuite agli uffici di staff, da un lato, e le funzioni che attengono all 'attuazione ed esecuzione dell' indirizzo politico attribuite agli uffici di fine, dali' altro».

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prima l'estrazione del personale in prevalenza dalle regioni meridionali del paese. Poi la perpetuazione, a onta delle tanto conclamate velleità di rinnovamento culturale, della laurea giuridica come principale porta d'accesso all ' impiego pubblico. Infine una certa tendenza all'invecchiamento del corpo burocratico, facilitata dalla rarefa­ zione dei concorsi e anche in parte dalla caduta di prestigio delle carriere statali nell'opinione comune specialmente giovanile. Unico fattore potenzialmente dinamico fu, nei primi anni Duemila, l'aumento, lento ma in compenso costante, della presenza femminile ai vertici delle amministra­ zioni : nel complesso del settore pubblico allargato le donne a metà degli anni Due­ mila si attestarono al 5 2,7% del totale degli occupati (1.780.732 contro 1.597.186 maschi), con punte del 75,3% nella scuola (850.95 2 addette) e del 59,6% nel Servizio sanitario nazionale (412.316 unità) . Nella carriera prefettizia toccarono punte del 45,6% e nella magistratura del 35,7%39•

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L'esperimento Brunetta (2009-1 1 ) Chiamato nel governo Berlusconi (2o o8-u ) alla responsabilità della Funzione pub­ blica, Renato Brunetta non nascose l'ambizione di riprendere e portare a compi­ mento le linee di riforma ereditate dalle precedenti stagioni politiche e rimaste, per così dire, a metà del guado. In particolare fece della privatizzazione del pubblico impiego la sua principale parola d 'ordine, intendendola soprattutto però come approccio aziendalistico e manageriale alle pubbliche amministrazioni. Vi aggiunse di suo, però, una sostanziale sfiducia verso la contrattazione collettiva (non del tutto ingiustificato, a dire il vero, vista l 'esperienza degli anni precedenti), sino al punto da individuare proprio nella contrattazione (e nel conseguente esorbitante potere del sindacato) la causa prima di un assetto inefficiente e poco meritocratico della disci­ plina del personale. L'analisi - lo si ripete - non era del tutto avulsa da una certa realistica percezione di quanto accaduto negli anni precedenti (non vi era dubbio che le politiche riformatrici dello stesso centro-sinistra avessero incontrato sovente il "fuoco amico" di un certo conservatorismo sindacale) . Ma l 'insistenza sul punto e la vis polemica che il ministro (uomo di prorompente personalità) pose nella sua stra­ tegia comunicativa crearono immediatamente le condizioni di una forte contrappo­ sizione sindacale e anche politica. Inaugurando nel 2oo8 il Forum della Pubblica amministrazione Brunetta ebbe ad esempio a dire testualmente : « Su questo ho le 39· I dati sono tratti da Meniconi, Verrastro, Le strutture e il personale, cit., pp. I23-4· Cfr. anche G. Melis, A. Meniconi, Dirigenze, responsabilita e modelli organizzativi, in Formez, Dipartimento per la Funzione pubblica, Note e commenti sul sistema amministrativo italiano in contesto internazionale, 2006, 3· Il mercato tra semplificazione e controllo, Formez, Roma 2006, pp. I3 8-4o.

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idee molto chiare: ci sono le leggi che consentono la cassa integrazione e il licenzia­ mento, solo che non sono mai state utilizzate. Il clima nel paese, però, adesso è cambiato » . E ancora: «E un miracolo che la Pubblica amministrazione ancora stia in piedi non avendo strumenti come gli incentivi, disincentivi, premi e punizioni. Un'azienda privata in queste condizioni avrebbe già chiuso » 40• La sfiducia verso i contratti si tradusse però innanzi tutto (e in contraddizione con la linea della privatizzazione) in una forte tendenza alla rilegificazione sul piano delle fonti. Il perno della riforma fu il D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 (attuativo a sua volta della legge del 4 marzo dello stesso anno, n. 15, sull'ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e su efficienza e trasparenza delle pubbliche ammi­ nistrazioni) : un testo di legge composito, contenente (come molta parte della legi­ slazione di quel periodo, per la verità) disposizioni talvolta frammentarie, la cui filosofia di fondo, tuttavia, si ispirava a un concetto che si sarebbe potuto definire di modernizzazione dall'alto delle pubbliche amministrazioni41• La norma forse più significativa, anche sul piano simbolico, fu quella che eliminava la cosiddetta "dispo­ sizione spazzino", in base alla quale si era anteriormente previsto che i nuovi contratti collettivi potessero disapplicare le leggi intervenute fra un contratto e l'altro ; ora, al contrario, si stabiliva che, in caso di nuovo intervento legislativo su materia oggetto di contrattazione, i successivi contratti non potessero disapplicare la legge. Nel rista­ bilire quello che poteva anche sembrare un corretto sistema gerarchico tra le fonti, si realizzava però un curioso paradosso : intere materie, solo di recente sottratte al dominio della legge e affidate alla libertà dei contratti, strumenti flessibili, tornavano sotto l'egida del legislatore, cioè in un regime di maggiore rigidità. Ugualmente paradossale era l'esito della nuova politica verso la dirigenza pubblica. In questo campo l'esigenza ( in parte giustificata) di restituire autorità decisionale al dirigente, lungi dal suggerirne il rafforzamento autonomo rispetto alla politica (sugli incarichi però Brunetta tentò di introdurre una norma che obbligava a motivare anche il mancato rinnovo, oltre che la revoca prima della scadenza: norma peraltro subito abrogata), fu soddisfatta da un ulteriore ricorso alla legge. E la legge impose adesso al dirigente di attribuire i premi in modo selettivo, secondo fasce di merito, pena respon­ sabilità disciplinare (ma le fasce di merito furono poi rese inapplicabili dalla legislazione successiva e soprattutto dalla mancanza di risorse e dal blocco dei rinnovi contrattuali) . '

40. Brunetta: licenzieremo i «fannulloni>> della Pubblica amministrazione. Il ministro della Fun­ zione pubblica: cacceremo chi non lavora, in "Corriere della Sera", 8 maggio 2012, http :/ / www.corriere. it/politica/o 8_maggio_I2/brunetta_pagelle_on_line_oeao22a8-200S-IIdd-89sd-oo144f486ba6.shtml. Una campionatura delle dichiarazioni rilasciate alla stampa dal ministro, specialmente subito dopo la sua nomina, consente di comprendere la vis polemica che ne caratterizzò gli esordi (cfr. http:/ /italia. panorama. it/ Renato-Brunetta-Vorrei-fare-il-fannullone-ma-non-ci-riesco). 41. Cfr. L. Zoppoli (a cura di), Ideologia e tecnica de/ lavoro pubblico, Editoriale Scientifica, Napoli 2009, ma qui si tiene presente la ristampa 201 1, dove cfr. spec. il saggio di L. Zoppoli, Legge, contratto collettivo e circuiti della rappresentanza nella riforma "meritocratica" de/ lavoro pubblico, pp. 663 ss. n6

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E sempre la legge impose al dirigente di punire i propri dipendenti, pena responsabilità disciplinare del dirigente stesso. Che era come ammettere che, visto che il dirigente non si comportava spontaneamente come un datore di lavoro privato, lo si obbligava adesso per legge ad assomigliargli il più possibile moltiplicando i vincoli legislativi e le sanzioni a suo carico. Era una gabbia normativa nella quale l'autonomia dirigenziale derivata dal modello privatistico rischiava di perdersi definitivamente in una ridda di prescrizioni disciplinari e di possibili sanzioni degne del più macchinoso sistema burocratico4l. Non sembra, almeno stando alle prime analisi disponibili, che la breve stagione del ministro Brunetta abbia impresso sulle pubbliche amministrazioni un'impronta alternativa. Né che abbia lasciato tracce durature. Caduto il governo Berlusconi (dicembre 2on ), il nuovo ministro Filippo Patroni Griffi (magistrato del Consiglio di Stato, una lunga esperienza alle spalle nelle strutture di gabinetto di precedenti governi, egli stesso autorevole studioso del diritto amministrativo) riprese sostanzial­ mente il filo del riformismo degli anni precedenti, concentrandosi su alcuni ragio­ nevoli obiettivi di breve periodo.

7 Conclusioni A un bilancio provvisorio (al 2013, fine della XVII Legislatura) l'apparato ammini­ strativo italiano appare comunque non troppo dissimile, stando specialmente ai dati strutturali, dalle condizioni che lo caratterizzavano agli inizi del nuovo secolo. Unico dato significativamente differente riguarda il personale, che, per effetto del congelamento dei concorsi connesso con le politiche di contenimento della spesa, appare adesso, dopo decenni di apparentemente inarrestabile tendenza alla crescita, in sensibile calo. I dipendenti pubblici italiani, comparati con quelli degli altri paesi europei, non sono oggi affatto in eccedenza, essendo anzi scesi negli ultimi 10 anni del 4,7% (meno no.ooo unità secondo dati EURISPES-UILPA ) 43• I dipendenti pubblici italiani sono s8 ogni mille abitanti (la Svezia ne ha 135, la Germania 54, la Spagna 6s, la Francia 94, il Regno Unito 9 2) . In totale lavorano nelle pubbliche amministra. ztont 3 · 24o.ooo persone. Per il resto permangono (quando non si presentano aggravati) gli antichi vizi del modello italiano : .

42. S. Battini, L 'autonomia della dirigenza pubblica e la ((rifòrma Brunetta':· verso un equilibrio tra distinzione e ful.ucia?, in "Giornale di Diritto Amministrativo", 20IO, I, pp. 3 9-44. Cfr. anche B. G. Mattarella, La nuova disciplina di incentivi e sanzioni nel pubblico impiego, in "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico", 2009, 4, pp. 939 ss. 43· L' Italia è l'unico paese con un trend in diminuzione: nel resto d' Europa, gli addetti nel pub­ blico impiego sono cresciuti nel decennio secondo le seguenti misure: in Irlanda e in Spagna +36,I% e +29,6%, nel Regno Unito +9,5%, in Belgio +12,8%, in Francia + s,I%, in Germania +2,5%.

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la conferma, in contraddizione con le asserite velleità federalistiche degli ultimi anni, della vocazione centralista del sistema, con concentramento al centro di risorse finanziarie (si consideri il ruolo assolutamente dominante del ministero dell' Eco­ nomia e delle Finanze, accresciuto dalle esigenze della spending review) ; la tendenza alla sovrapposizione disordinata di livelli di amministrazione, fun­ zioni, competenze tra il centro e i vari stadi del sistema periferico, a sua volta con­ notato dalla moltiplicazione dei soggetti istituzionali che vi agiscono ; il blocco, in molti settori, al centro come nelle istituzioni locali, dei concorsi quale naturale mezzo di ricambio, con conseguente invecchiamento anagrafico delle pub­ bliche amministrazioni (e ricorso massiccio, invece, a forme di outsourcing che hanno privato intere aree specialistiche dell'amministrazione del proprio personale specia­ listico, spesso in passato di elevatissimo livello professionale: si pensi a ciò che è avvenuto nei beni culturali); l'assenza di una politica della formazione coerente, capace di tener conto delle trasformazioni in atto e di quelle che si intravedono per il futuro prossimo. E la riconferma, a onta di tutti i buoni propositi, di un modello formativo tipico (e al tempo stesso obsoleto): quello basato (ancora) sul laureato in giurisprudenza, predi­ sposto a svolgere attività di controllo formale piuttosto che a compiti di gestione e operatiVI ; la persistenza di una dirigenza troppo ampia, selezionata con metodi vecchi e antiquati, demotivata perché priva di una sua missione, umiliata dallo spoils system; la scarsa propensione all'innovazione, come testimoniato dal calo del fatturato nel settore dell ' n,2% tra il 2oo8 e il 20 10 e dalle posizioni di coda occupate nelle spe­ cifiche classifiche europee; la ripresa massiccia della corruzione amministrativa, anch'essa testimoniata dalle classifiche internazionali che ci collocano in coda alla lista virtuosa dei paesi europei per capacità di reazione e soprattutto di prevenzione del fenomeno corruttiva; l'abuso delle gestioni speciali o commissariali, o comunque l'affidamento di compiti via via più rilevanti (e anche più delicati) ad apparati paralleli sottratti alla catena tradizionale dei controlli. Un abuso che nel caso della protezione civile è sfociato in fattispecie da codice penale; la tendenza preponderante alle esternalizzazioni, cioè il ricorso sempre più fre­ quente a surroghe di soggetti esterni rispetto a funzioni esercitate in passato dalle pubbliche amministrazioni (e ciò sia per la generale riduzione delle risorse sia per le crescenti difficoltà gestionali interne) . Gran parte di questi difetti di fondo investe non solo gli apparati centrali ma le stesse amministrazioni delle Regioni e degli enti locali, talvolta aggravati a quei livelli periferici (come accade ad esempio per la corruzione) da vistose lacune dei controlli e dalla prossimità maggiore della pubblica amministrazione alla politica. Il sistema amministrativo italiano, insomma, appare alla vigilia della XVIII Legi­ slatura repubblicana come in mezzo al guado (un guado nel quale è impantanato .

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ormai da almeno due decenni) . Da un lato la spinta di un riformismo tutto sommato virtuoso, che tuttavia non di rado si è espresso in forme contraddittorie, risentendo non poco delle inerzie e delle resistenze del sistema; dali ' altro il peso della tradizione burocratica precedente, la cui forza immobilizzatrice risiede specialmente nella natura sociale che la questione amministrativa (subspecie di questione dell' impiego con lo Stato e con i suoi enti) ha assunto storicamente in Italia nel corso del xx secolo. Ciò induce a ritenere che nessuna politica riformatrice potrà avere successo se non si inserisce in un progetto più generale di riforma dello Stato e, nel contempo, se non mira a delineare una nuova collocazione sociale e culturale di quei ceti medi che principalmente alimentano l' impiego pubblico. Il che implica però sciogliere alcuni nodi rimasti tuttora irrisolti: quello che attiene all'ambigua natura dell' impiego pubblico (funzioni che restano pubbliche in regime privatistico di contrattualizza­ zione del rapporto); quello che riguarda la struttura organizzativa degli apparati preposti a produrre pubblici servizi (amministrazione per obiettivi in un quadro di garanzia dell'interesse pubblico); quello che concerne la formazione dei dipendenti pubblici e la loro rinnovata identità sociale e culturale in una società che va rapida­ mente modificando i propri connotati. Tre sfide tuttora valide, sulle quali dovrà misurarsi chi vorrà in futuro risolvere la questione amministrativa.

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Politica e sistema bancario tra Prima e S econda Repubblica di Andrea Guiso

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Dalla politica alle banche (e ritorno ?). Un'ipotesi Questo saggio tenterà di inquadrare il crollo e la trasformazione del modello di democrazia politica realizzato in Italia, a partire dalla fine degli anni Sessanta, attra­ verso il dispiegarsi di un disegno di "costituzione economica" basato su presupposti correlati di dirigismo statale e di "accondiscendenza finanziaria" delle autorità mone­ tarie su un doppio versante: quello delle politiche di intervento pubblico a sostegno dell'economia e dello sviluppo industriale e quello delle politiche del consenso e della spesa filtrate dai partiti, referenti primari dell' intermediazione tra Stato e interessi sociali ed economici1• L'attenzione posta al sistema bancario deriva dal ruolo strate­ gico da esso assunto nelle relazioni tra la politica e il sistema economico-produttivo in Italia. Ruolo che è venuto a sua volta declinandosi in un contesto in cui il pubblico potere ha storicamente assolto una decisiva funzione tutoriale nei confronti del sistema industriale e di un mercato condizionati da cronica scarsità di capitali di rischio�. Se il capitalismo italiano ha potuto infatti essere definito « capitalismo da liability » , ossia « da debito » , è in ragione della preponderante e per certi versi ano­ mala posizione che le istituzioni del credito da sempre hanno occupato nella struttura 1. Di « accondiscendenza finanziaria» parla esplicitamente il fondamentale rapporto Il sistema credi­ tizio efinanziario italiano preparato dalla commissione di studio istituita dal ministero del Tesoro nel 1982 e presieduta da M. Monti, F. Cesarini, C. Scognamiglio (Istituto poligrafìco e Zecca dello Stato, Roma 1982). Sul concetto di costituzione economica e sulla sua evoluzione nel contesto italiano si rimanda a S. Cassese (a cura di), La nuova costituzione economica, Laterza, Roma-Bari 199S· La svolta degli anni Sessanta nei rapporti tra Stato e mercato e nella politica economica del paese è evidenziata in S. Rossi, La politica economica italiana (1g6S-2ooo), Laterza, Roma-Bari 1998; M. Salvati, Dal miracolo economico alla moneta unica europea, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia, 6. L'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1999· Più propenso a sottolineare la stretta complementarità e il rapporto di genetica derivazione tra le politiche economiche degli anni Cinquanta e quelle della fase successiva F. Barca, Com­ promesso senza riforme, in Id. (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Donzelli, Roma 1997· 2. Banca d'Italia, Considerazionifinali per il 2oos, in http:/ /www.bancaditalia.it/interventi/integov/ 2006/ cfos/ cfos_considerazioni_fìnali.pdf. 121

A N D REA G U 1 S O

economico-produttiva del paese. Situazione che ha indotto gli studiosi a parlare di « bancocentrismo » , con riferimento a un sistema finanziario in cui le banche, appunto, controllando direttamente o indirettamente gran parte degli intermediari, hanno rappresentato il più importante, e talora quasi esclusivo canale di finanzia­ mento dell' impresa industriale3• L'importanza del nesso banche-politica va però ravvisata anche nella profondità e rapidità dei cambiamenti - e delle conseguenti ricadute sugli assetti complessivi di potere - che hanno investito, a partire dagli anni Novanta, la struttura, le funzioni e la configurazione del sistema finanziario italiano4• Cambiamenti avvenuti in stretta con­ nessione con due processi di portata sistemica: il progressivo allineamento a partire dagli anni Ottanta della legislazione italiana alle direttive europee in materia di liberalizza­ zione del mercato del credito, nel più generale quadro di convergenze politiche, istitu­ zionali ed economiche tra paesi membri della Comunità Europea5; le radicali trasfor­ mazioni operanti, nel medesimo torno di tempo, nel quadro dell'economia globalizzata, con il peso sempre più elevato assunto dalla componente finanziaria degli scambi. Tale complesso di circostanze, come si dirà, non intersecava accidentalmente il crollo del sistema dei partiti. Ne costituiva invece un fattore decisivo, contribuendo a mettere in crisi la strutturale preminenza del potere politico sul potere economico. L'immane opera di smantellamento del sistema pubblico dell 'economia, paragonabile alle legislazioni antifeudali realizzate nell' Europa sette-ottocentesca, e il contestuale avvio, ali ' inizio degli anni Novanta, di un vasto programma di privatizzazioni, non rappresentarono infatti soltanto la risposta pragmatica a un imperativo di natura finanziaria, legato al contenimento del debito pubblico e ali' abbattimento del disa­ vanzo primario dello Stato6• Tali eventi, conseguenza diretta del vincolo esterno con l'Europa comunitaria, costituirono, piuttosto, lo snodo di un processo di transizione nel corso del quale i cicli delle crisi politiche e quelli delle crisi economiche avrebbero finito, come mai in passato, per apparire strutturalmente legati7. Una diretta conse3· M. Messori, Banche, riassetti proprietari e privatizzazionz, m "Stato e Mercato", 1 99 8, s , pp. 88-u8; R. Costi, M. Messori (a cura di), Un capitalismo senza rendite e con capitale, il Mulino, Bologna 2005; AA.VV., Proprieta e controllo delle imprese in Italia. Alle radici delle diffìcolta competitive della nostra industria, il Mulino, Bologna 2005. Per uno sguardo di lungo periodo sulle caratteristiche bancocentriche del modello italiano, cfr. S. La Francesca, G. Conti (a cura di), Banche e reti di banche, il Mulino, Bologna 2000; A. Polsi, Alle origini del capitalismo italiano. Stato, banche e banchieri dopo l'Unita, Einaudi, Torino 1993. 4· Cfr. P. Ciocca, La nuova finanza in Italia. Una difficile metamorfosi {I9So-2ooo), Bollati Borin­ ghieri, Torino 2000. S· F. Giordano, Storia del sistema bancario italiano, prefazione di M. De Cecco, Donzelli, Roma 2007. 6. E. Barucci, F. Pierobon, Stato e mercato nella seconda Repubblica. Dalle privatizzazioni alla crisi finanziaria, il Mulino, Bologna 2010; A. Macchiati, Privatizzazioni tra economia e politica, Donzelli, Roma 1996. 7· Per una ricostruzione "dall'interno" del nesso crisi politica-crisi economica nel biennio 1992-94, cfr. P. Barucci, L'isola italiana del Tesoro. Ricordi di un naufragio evitato (I992-I994), Rizzoli, Milano 1995. 1 22

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guenza di quanto appena affermato fu il varo, nell 'aprile 1993, in piena tempesta finanziaria e valutaria, di un governo "tecnico", presieduto dal governatore della Banca d ' Italia Ciampi, che le circostanze portavano ad accreditare come il commissario liquidatore del modello "autarchico" di democrazia politica consolidatosi negli anni Settanta intorno alla funzione redistributiva della spesa pubblica e a una politica monetaria sensibile alle esigenze del Tesoro. Due pilastri, questi, della forma conso­ ciativa di governo, divenuti tuttavia incompatibili, alla fine degli anni Ottanta, con gli obiettivi e gli standard macroeconomici fissati in sede europea in vista del tra­ guardo della moneta unica. Presupposto per il mutamento della forma di governo era infatti, e non poteva essere altrimenti, lo scioglimento del mostruoso intreccio tra Stato ed economia sca­ turito dalla degenerazione pubblicistica e partitocratica del modello di economia mista ideato negli anni Trenta nel contesto della Grande crisi e adattato con alcune varianti all' Italia della ricostruzione8• La politicizzazione del sistema bancario e la gestione amministrativa del credito ne avevano costituito due pilastri, emersi con forza soprat­ tutto a partire dagli anni Sessanta e Settanta, come conseguenza sia delle scelte tec­ nico-operative che avrebbero portato il credito a trasformarsi in una « variabile dipendente» dell 'economia statalizzata9, sia della progressiva estensione dell 'occupa­ zione partitica del potere a tutti i livelli dell 'organizzazione politica ed economica dello Stato. Soltanto in forza di un'obbligazione riformistica esterna, quella cioè derivante dagli impegni sottoscritti con l'Europa dal paese, sarebbe stato infine pos­ sibile cominciare a rimuovere i meccanismi autoreferenziali di potere alimentati dalla compenetrazione tra Stato ed economia. Sarebbe stata la Banca centrale a svolgere un ruolo essenziale in quella direzione, con il debole supporto di una classe politica a lungo convinta - prima di ritrovarsi «con le spalle al muro »10 - di poter cambiare la struttura economico-finanziaria dello Stato senza rimettere in gioco le modalità di esercizio del proprio potere. Il crollo dei partiti avrebbe finito per travolgere insieme a quella illusione anche il tradizionale rapporto di sudditanza del potere economico nei confronti del potere politico, investendo la Banca d' Italia di un ruolo preminente e quasi assoluto nel processo di ammodernamento e di integrazione delle strutture economico-finanziarie del paese. Un processo contraddittorio, che se da un lato era destinato a concentrare nella "nuova finanza" una prerogativa di potere e di autonomia

8. R. Petri, Storia economica d'Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (19IS-I9 63), il Mulino, Bologna 2002. 9· M. Onado, La lunga rincorsa: la costruzione del sistema finanziario, in P. Ciocca, G. Toniolo ( a cura di) , Storia economica d'Italia, 3· Industrie, mercati, istituzioni, 2. I vincoli e le opportunita, Laterza, Roma-Bari 2 0 0 3 , pp. 4I2-6. IO. La frase « siamo con le spalle al muro», con riferimento all' incompatibilità tra indebitamento dello Stato e impegni assunti dall' Italia in Europa, fu pronunciata da Giulio Andreotti alla Direzione della D C del 6 settembre I 9 9 0, citato in A. Varsori, La cenerentola d'Europa? L'Italia e l'integrazione europea dal 1947 ad oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2 0 I O, p. 370.

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decisionale inedita, dall'altro consentiva il riemergere di robuste continuità con le relazioni Stato-mercato d '"antico regime". Dall 'involucro senza vita del « bancocen­ trismo di Stato » doveva infatti rinascere un ibrido bancocentrismo a carattere «pubblico-privato » , frutto delle incongruenti politiche di riforma del settore realiz­ zate fra il 1990 e il 200611• Con la conseguenza che ciò che si era riusciti a cacciare dalla porta principale (la politica) sarebbe finito per rientrare dall 'ingresso secondario, quello delle fondazioni di "origine bancaria" e di una disorganica regolamentazione della governanee di sistema e delle funzioni di vigilanza. L' ipotesi di lavoro sarà per­ tanto quella di un potere politico fortemente ridimensionato dal declino dei partiti, dalla forza dei vincoli sovranazionali e dalla finanziarizzazione dell'economia del paese, ma ancora capace di aprirsi un varco tra i poteri che contano e in particolare in quel fitto intreccio di rapporti tra finanza, industria e media dove - senza esclusione di colpi - si sarebbero giocate tutte le più importanti battaglie per il potere degli anni Novanta-Duemila, ma anche dove si sarebbero dovute trovare le convergenze neces­ sarie per costruire gli ampi consensi politici - o quelle vere e proprie «controriforme di struttura » Il - funzionali alla protezione degli interessi costituiti e di un capitalismo strutturalmente debole e poco attrezzato alle sfide dei mercati.

2.

L'"intreccio". Stato, politica e banche nella Prima Repubblica (anni Trenta-Settanta) Per comprendere la portata effettiva del cambiamento intervenuto all ' inizio degli anni Novanta nei rapporti tra sistema politico e sistema bancario, è necessario trac­ ciare un rapido excursus storico sul paradigma che a lungo, pur nel mutare delle forme concrete, ha costituito il punto di riferimento di tali rapporti. Un paradigma risalente, nelle sue linee portanti, alla legge bancaria del 1936 (R.D.L. 1 2 marzo 1936, n. 375 ) che metteva capo alla costituzione di un « comando unico del credito » , con finalità complessive di riforma e di risanamento del sistema finanziario travolto dalla crisi dell'apparato industriale e produttivo negli anni Trenta13• Il disegno di riforma si basava su tre pilastri: un intervento pubblico, in parte avviato con la costituzione dell'IRI, teso a sciogliere la « mostruosa fratellanza siamese » 14 tra banca e industria F. Belli, Gli sviluppi della legislazione bancaria in Italia: una sintesi, in Storia d'Italia. Annali, 23. La banca, a cura di A. Cova, S. La Francesca, A. Moioli, C. Bermond, Einaudi, Torino 2008, pp. 893-914. 12. M. Monti, Controriforme di struttura, in "Corriere della Sera", 23 aprile 2007. 13· s. Cassese, Come e nata la legge bancaria del '3 6. BNL, Roma 1988; M. De Cecco, Splendore e u.

crisi del sistema Beneduce: note sulla struttura finanziaria e industriale dell'Italia dagli anni Venti agli anni Sessanta, in Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano, cit. 14. R. Mattioli, I problemi attuali del credito, in "Mondo Economico", XVII, 1962, 2, pp. 27-31. 1 24

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e a trasferire allo Stato i costi del risanamento industriale; la razionalizzazione dell' at­ tività di vigilanza sulle banche con un forte contenuto discrezionale in capo alla Banca d' Italia; la separazione tra credito a breve e credito a medio e lungo termine, con relativa attribuzione ai soli istituti speciali di diritto pubblico della raccolta di medio periodo. Una scelta - è stato detto - dettata più da necessità che da convin­ zioni ideologiche. Per conservare al paese un meccanismo di allocazione delle risorse e un presidio istituzionale essenziali « lo Stato dovette - artefici Beneduce e Meni­ chella - improvvisarsi banchiere » 15• La nascita dello Stato-banchiere segnava così il congedo definitivo del sistema finanziario italiano dall 'esperienza della "banca mista". Mutuata dal modello univer­ salistico tedesco, essa aveva avuto un ruolo decisivo nell'accompagnare tutta la prima fase di sviluppo del sistema produttivo del paese16• Un successo che nascondeva tut­ tavia molte fragilità. In primo luogo la strutturale scarsità di capitali di rischio, derivante dall 'esistenza di una proprietà industriale chiusa e concentrata in sé stessa, refrattaria alla condivisione del controllo, più attenta alla conservazione del potere che alla crescita di lungo periodo delle imprese (il « catoblepismo » di cui parlava Mattioli). In secondo luogo, la scarsa determinazione politica nel disegnare regole atte a favorire la creazione di un moderno ed efficiente mercato dei capitali. E, di conseguenza, la scarsa risolutezza dei governi nell 'arginare quelle componenti di moral hazard incoraggiate dalla reiterata e deprecabile prassi dei "salvataggi", affer­ matasi sin dai primi anni dell'unificazione. Mediante una complessa ripartizione di funzioni di piano e di gestione, tesa, almeno nelle intenzioni, a favorire una reale indipendenza degli organi tecnici dal governo, la legge bancaria del 1936 istituiva una governance pattizia del settore del credito dagli accentuati tratti dirigistici, con cui si venne a sancire di fatto la subor­ dinazione delle banche all' Istituto centrale, perno del nuovo sistema17• La riforma delineava altresì l' impianto generale di quella concezione amministrativa del credito destinata a svilupparsi compiutamente negli anni Sessanta-Settanta, basata su una visione - la si potrebbe definire una cultura - pessimistica del capitalismo finanziario italiano. Due erano i presupposti di questa visione. Il primo derivava dalla constata­ zione che in Italia il capitale privato con vocazione e capacità di controllare e gestire in modo autonomo, profittevole e prudente le banche, gli intermediari e altri ope­ ratori della finanza fosse storicamente basso. Il secondo, dalla convinzione che in un paese di «capitalisti senza capitale » , dotato di un mercato finanziario poco svilupIS. Ciocca, La nuova finanza in Italia, cit., p. 25. I6. G. Conti, Le banche e ilfinanziamento industriale, in Storia d'Italia. Annali, IS. L'industria. I problemi dello sviluppo economico, a cura di F. Amatori, D. Bigazzi, R. Giannetti, L. Segreto, Einaudi, Torino I 999· pp. 44I-S04; A. Confalonieri, Banca e industria in Italia (1S94-19o6), 3 voll., Banca Commerciale Italiana, Milano I974-76. I7. G. Guarino, G. Toniolo (a cura di), La Banca d'Italia e il sistema bancario {1919-1936), Laterza, Roma-Bari I993·

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pato, mero strumento di giochi speculativi e della concentrazione del potere, fosse necessario canalizzare il risparmio verso « mani adatte » , quelle dello Stato, allo scopo di indirizzarlo a investimenti a lunga scadenza18• Sicché, come è stato notato, rinun­ ciando a regolamentare il mercato finanziario e riservandolo agli istituti di credito pubblici, gli estensori della legge bancaria finirono per trasformare la loro « ipotesi pessimistica » sul capitalismo italiano in una «profezia autoavverantesi » destinata a condizionare tutta la successiva evoluzione del sistema bancario19• Il modello beneduciano prendeva forma nel mutato contesto politico e istituzio­ nale del dopoguerra, non senza aver subito però una serie di sostanziali correzioni. La prima era l 'abbandono dell 'idea di una diarchia di vertice nel sistema finanziario, implicita nella separazione dell' Ispettorato dalla Banca d' Italia, come previsto dalla legge del 1936. L'accorpamento delle competenze e delle informazioni di vigilanza in un unico istituto, la Banca centrale, veniva di fatto a rafforzare la posizione di questa rispetto ai ministeri economici e all' interno del Comitato interministeriale del credito. La seconda concerneva invece il sistema del credito a medio termine, il cui volto, rispetto al disegno originario della legge bancaria, veniva modificato in maniera sostanziale. La nuova architettura, disegnata da Guido Carli, si imperniava su una serie di istituzioni, direttamente affiliate alle aziende di credito (sul modello consortile di Mediobanca o dei Mediocrediti regionali) o possedute dal Tesoro (come nel caso del Mediocredito centrale), tendenti a formare una rete creditizia capillare legata in modo organico alle politiche di intervento straordinario dello Stato e all'e­ rogazione delle molteplici agevolazioni che la legge destinava a varie forme di impiego : agricoltura, piccole e medie imprese, artigianato ed export. La nascita di questo sistema e soprattutto la rete periferica dei Mediocrediti regionali veniva così a costituire il perno di un disegno dalla complessa natura che puntava a saldare in un unico quadro strategico sistema bancario e intervento pubblico, finalizzandoli a una duplice correlata azione di sostegno all 'attività imprenditoriale inserita nel cir­ cuito aperto degli scambi e alle politiche del consenso e della stabilizzazione nel contesto divisivo della Guerra freddalo. E fortemente innovativo, nel quadro politico e sociale del dopoguerra, era infine il ruolo assegnato, su impulso questa volta di Donato Menichella, al comparto delle piccole e medie banche locali (in particolare le casse di risparmio) nel finanziamento delle attività produttive e nel sostegno al processo di industrializzazione diffusa destinato a caratterizzare lo sviluppo italiano negli anni Cinquanta e Sessanta. Un disegno che collimava con l 'obiettivo della classe di governo, in prima battuta di quella democristiana, di forgiare un sistema finanziario capace di liberare le energie 1 8. Barca, Compromesso senza riforme, cit., p. 9· 19. Onado, La lunga rincorsa, cit., p. 416. 20. F. Cotula (a cura di), Stabilita e sviluppo negli anni Cinquanta, 3· Politica bancaria e struttura del sistema creditizio, Laterza, Roma-Bari 1999. 1 26

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potenziali di una vasta rete di rapporti sociali e notabilari tipici dell ' Italia delle "cento città, e di potenziare l'azione coesiva della politica su una realtà strutturalmente decentrata e particolaristica come quella italiana, favorendo lo sviluppo di una « società a capitalismo diffuso senza laceranti conflitti interni » 11• Il consolidamento delle specializzazioni, delle vocazioni territoriali e degli assetti dimensionali delle banche contribuirono in modo decisivo a stabilizzare il sistema creditizio, assegnandogli un ruolo rilevante nel ciclo di sviluppo avviato negli anni Cinquanta, grazie soprattutto alla stabilità dei mercati finanziari e al reinserimento del sistema produttivo italiano nel contesto delle economie industriali più fortin. Sarebbe pertanto semplicistico ritenere che tutti gli elementi della successiva buro­ cratizzazione del sistema bancario fossero già in qualche misura presenti nelle scelte di indirizzo realizzate nel periodo della ricostruzione. Gli storici sono generalmente concordi nel ritenere gli anni Sessanta lo snodo della grande mutazione verso un compiuto assetto dirigistico e protezionista del credito, destinato ad assumere quelle sembianze di « foresta pietrificata » denunciate alla fine degli anni Ottanta da Giuliano Amato13• La svolta avveniva in corrispon­ denza di un mutato quadro politico ed economico segnato da una chiara opzione in favore della gestione pubblica dell'economia e dalla contestuale maturazione nella Banca centrale del convincimento di trovarsi in posizione cruciale dinanzi al dilemma fra l'obiettivo dell'espansione e quello della stabilità monetaria14• Cominciava allora a delinearsi un complesso e intricato disegno di politica economica destinato a modi­ ficare radicalmente la composizione dei flussi finanziari a vantaggio della componente pubblica dell'economia, nonché la natura stessa del rapporto tra la politica e le banche. La nazionalizzazione dell' ENEL - o meglio le modalità finanziarie con cui essa fu realizzata - aveva indicato la strada maestra, inaugurando, sotto il vigile con­ trollo della Banca d' Italia15, la prassi che avrebbe portato gradualmente a riservare il mercato azionario al settore pubblico parastatale, spezzando in via definitiva il tenue filo che legava le imprese al mercato finanziario 16 • Un esito i cui effetti verranno moltiplicati dalla decisione, anche questa politica, di spingere le stesse imprese, sia grandi che piccole, verso l' indebitamente con istituti di credito a medio termine trasformati in erogatori di agevolazioni pubbliche.

2I. G. Conti, G. Ferri, Banche locali e sviluppo decentrato, in Barca (a cura di ) , Storia del capitalismo italiano, cit., p. 43S· 22. S. La Francesca, Storia del sistema bancario italiano, il Mulino, Bologna 2004. 23. Intervista a Giuliano Amato resa alla rivista "Bancaria", febbraio I988, a cura di A. Recanatesi e ripubblicata in G. Amato, Due anni al Tesoro, il Mulino, Bologna I 990. 24. Salvati, Dal miracolo economico alla moneta unica europea, cit. 25. Cfr. M. Onado, Il sistema finanziario italiano. I circuiti di distribuzione del credito {I9 64-197S), il Mulino, Bologna I980. 26. E. Scalfari, G. Turani, Razza padrona. Storia della borghesia di Stato, Feltrinelli, Milano I 974, pp. 30 ss.

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Stabilizzazione dei tassi di interesse a lungo termine, controlli amministrativi sulle emissioni, limitazione della concorrenza bancaria attraverso politiche di cartello tese a bloccare la nascita di nuove banche e a limitare l'espansione territoriale di quelle esistenti, furono i fattori che contribuirono in modo determinante all'evoluzione del sistema finanziario in strumento passivo dell 'economia statalizzata. Prima ancora che il sistema della "doppia intermediazione" fosse trasformato in vincolo amministra­ tivo2.7, la pratica di inzeppare nei portafogli delle banche quote di titoli degli enti parastatali non assorbite dal pubblico era già in grado di rivelare, alla fine degli anni Sessanta, il grado di dipendenza dalla politica degli istituti di credito, ormai divenuti veri e propri esecutori materiali delle decisioni ratificate in seno al Comitato per la . . programmazione economica. I caratteri burocratici e ipercentralizzati del sistema finanziario italiano prefigu­ rati nel corso di una lunga, seppur non lineare evoluzione, vennero definitivamente cristallizzandosi nella crisi degli anni Settanta. Lo shock petrolifero e l 'abbandono del sistema dei cambi fissi rompevano un equilibrio ventennale, decretando la fine della stabilità monetaria avviata con Bretton Woods. Esigenze contrastanti di rigore e di difesa dell 'occupazione si intrecciavano adesso con preoccupazioni più generali di stabilizzazione del sistema politico di fronte al radicalizzarsi della protesta e della conflittualità sociale, politica e ideologica. La rimodulazione in senso consociativo della forma di governo ai fini del ricompattamento del sempre più slabbrato tessuto civile, sollecitava i meccanismi redistributivi di una "democrazia della spesa" funzio­ nale all 'inclusione di tutte le forze politiche e sociali nello Stato2.8• La Banca d' Italia perdeva di fatto il controllo della politica monetaria, per assolvere una funzione sistemica di redistribuzione del reddito largamente subordinata alle esigenze del Tesoro2.9• La monetizzazione del debito assumeva aspetti e percentuali da finanza di guerra. Iniziava così anche la lunga stagione dei controlli amministrativi sul credito ai fini di politica monetaria. Tra questi, il massimale sugli impieghi, con cui si imponeva un tetto alla crescita dei prestiti; il vincolo di portafoglio, che obbligava a investire percentuali determinate della nuova raccolta in titoli degli istituti di credito speciale; i vincoli amministrativi ali 'entrata (apertura di sportelli, costitu­ zione di nuove banche ecc.), finalizzati a garantire agli istituti creditizi nicchie di . sopravvivenza. Attraverso la sempre più stretta integrazione tra le istituzioni del credito speciale e il variegato sottosistema delle aziende di credito, l'economia del paese finì così per chiudersi definitivamente nella spirale della « via finanziaria allo sviluppo » , mirante a « forzare la crescita » attraverso un 'accumulazione di capitale « considerata più nel 27. G. Piluso, Gli istituti di credito speciale, in Storia d'Italia. Annali, 1S. L'industria, cit., pp. sos-47· 28. P. Craveri, La repubblica dal 195S al 1992, TEA, Torino 2005. 29. Rossi, La politica economica italiana, cit.; G. Cama, La Banca d'Italia, il Mulino, Bologna 2010, pp. 217-9· 128

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suo volume aggregato che nell'efficienza e nella produttività della sua struttura »30• Al di là di ogni loro singolo aspetto, le dimissioni di Carli, ma soprattutto la trau­ matica vicenda giudiziaria che avrebbe visto ingiustamente coinvolti il governatore e il vicedirettore generale della Banca d ' Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli31 - quasi un annuncio del ruolo di latente attore politico dell'economia che la magistratura avrebbe finito in seguito per ricoprire - erano la testimonianza di una sempre più sofferta condizione di esercizio delle prerogative e delle funzioni istituzionali del governatore della Banca d ' Italia in un contesto di accresciuta «pressione esterna » , in particolare a opera dei partiti32. • .. E in questo periodo, significativamente, che la degenerazione assistenzialistica del sistema delle partecipazioni statali33 venne saldandosi - complice anche la scarsa azione di diaframma svolta dall'Associazione bancaria nel « terribile quinquennio » (1973-77) della presidenza Arcaini34 - con la spinta che avrebbe portato a estendere anche al sistema del credito i meccanismi più mortificanti dell 'occupazione partitica del potere3;. Il sistema delle nomine nel settore bancario stingeva in una prerogativa di libero arbitrio politico, esercitata attraverso il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio ( C I C R ) , con lo schermo formale della Banca d ' Italia36• Il ban­ chiere schumpeteriano, « eforo del mercato », veniva di fatto rimpiazzato da un ceto burocratico dispensatore di provvidenze e assolto da ogni responsabilità riguardo alla valutazione del vero merito di credito e della redditività dei progetti industriali37• I grandi scandali finanziari che segnarono il decennio Settanta, dall ' Italcasse alla vicenda Sindona e Banco Ambrosiano, s' inserivano in un contesto politico-affaristico assai compromesso, privo oltretutto delle regole necessarie allo sviluppo di un moderno 30. Ministero del Tesoro, Il sistema creditizio efinanziario italiano, cit., pp. I 8-9. 3 I. M. Riva, Il governatore deve cadere, introduzione al diario tenuto dal governatore nel periodo I 97 8-8I, in P. Baffi, Parola di governatore, Nino Aragno Editore, Torino 20I3. 32. Certamente questo il senso che deve attribuirsi alla nota affermazione di Carli secondo il quale il rifiuto della Banca d' Italia di acquistare titoli di Stato sarebbe equivalso a un atto sedizioso: Banca d' Italia, Considerazionifinali per il 1973, in http:/ /www. bancaditalia.it/bancaditalia/storia/governatori/ I960_I 993/CF_I 960_I 98 I.pdf. 33· L. D'Antone, "Straordinarieta" e Stato ordinario, in Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano, cit., pp. 579-625. 34· P. F. Asso, S. Nerozzi, Storia dell'AB!. L'Associazione bancaria italiana {1972-1991), Bancaria, Roma 20IO; sull 'ascesa di Arcaini ai vertici dell'organizzazione, cfr. A. Duva, Politica e banche. Il Passo lungo di Arcaini, in "li Mondo", 7 luglio I972. 35· Cfr. Lo sportello va diviso in sei partiti, in "Panorama': 24 aprile I975· 36. Si trattava del ben noto "sistema delle teme" attraverso il quale venne messa in atto una vera e propria lottizzazione del sistema bancario, di lì a poco estesa anche al P C I. Cfr. V. Borrelli, Banca padrona, Rizzoli, Milano 2005, pp. 8o-I; Al mercato delle banche, in "li Mondo", 2I marzo I98o. Sull' in­ gresso del P CI nel sistema di controllo degli istituti bancari, cfr. le inchieste Falce e sportello, in " Pano­ rama", marzo I 977, e Falce e martello dietro lo sportello, in "l' Espresso", agosto I977· 37· Per una riflessione critica sull'evoluzione del sistema bancario negli anni Settanta cfr. B. Andreatta, Ristrutturazione finanziaria delle imprese: ecco come devono comportarsi i banchieri, in "Corriere della Sera", I 3 settembre I 977·

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ordinamento giuridico capitalistico. Come altre volte in passato, la via della virtù avrebbe scelto di manifestarsi sotto la forma di un vincolo di natura esterna.

3 Crisi e trasformazione dello Stato-banchiere (anni Ottanta-200 7 ) Il 1985 si apriva con una rivoluzione silenziosa. Il 5 marzo entrava infatti in vigore, anche se con qualche anno di ritardo, la prima direttiva europea in materia di libe­ ralizzazione del mercato creditizio. La legge che la introduceva nell'ordinamento italiano riconosceva in via definitiva il carattere d ' impresa dell'attività bancaria, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli enti che la esercitavano38• Aveva inizio così quel processo destinato a consacrare nel giro di pochi anni l' impresa bancaria come espressione di un diritto e non di una funzione39• La novità non cadeva nel vuoto pneumatico. La ricezione delle direttive europee sul credito era stata preparata da un generale ripensamento dei postulati da cui l ' im­ postazione dell ' intero settore aveva preso le mosse e del quale furono partecipi, sin dai primi anni Ottanta, tutte le più importanti istituzioni del governo economico40• Ma era soprattutto nella linea !iberista della Banca d' Italia - in un quadro di crescita e razionalizzazione dell'apparato industriale e produttivo del paese - che il processo d 'allineamento del sistema bancario italiano a un mercato europeo aperto e integrato poté trovare la sua decisiva testa di ponte41• Il cosiddetto "divorzio" tra Tesoro e Banca d ' Italia, non più obbligata ad assicurare la copertura dell'emissione dei titoli pubblici, costituiva una prima, essenziale premessa al reindirizzo delle grandi banche verso il loro naturale ruolo di intermediari finanziari market-oriented42.. Questi cambiamenti, pur in sé così rilevanti per gli equilibri tra potere politico e potere economico­ finanziario, difficilmente avrebbero potuto produrre effetti così eversivi dell 'organiz­ zazione politica dello Stato come quelli derivanti dalla cornice normativa entro cui la classe di governo, a partire dall 'Atto unico europeo del 1986, venne a iscrivere il 3 8. Si trattava della legge s marzo 1985, n. 74, seguita dal D.P. R. 27 giugno 1 985, n. 3 50, che recepiva la Direttiva 77 /78o/ C EE. Cfr. Giordano, Storia del sistema bancario italiano, cit. 39· G. Cammarano, La riforma bancaria del I990: una analisi della sua preparazione, in AA.VV., La ristrutturazione della banca pubblica e la disciplina del gruppo creditizio, Banca d' Italia, Roma 1 992. 40. Oltre al già citato rapporto della commissione di studio istituita dal Tesoro nel 1 9 82, cfr. il Libro bianco della Banca d' Italia sull ' Ordinamento degli enti pubblici e creditizi: analisi e prospettive, Roma 1981, e il secondo rapporto sull' Ordinamento degli enti pubblici creditizi: l'adozione del modello societa per azioni, Banca d' Italia, Roma 1988. 41. G. Cadi, Cinquant 'anni di vita italiana, in collaborazione con P. Peluffo, Laterza, Roma-Bari 1993· 42. Cama, La Banca d 'Italia, cit.

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proprio impegno per l'unità europea. Ben più delle politiche di tipo recessivo con­ cordate a Maastricht, furono varate allora, quasi senza accorgersene, regole che avrebbero introdotto variazioni di fatto nella costituzione economica del paese e intaccato i meccanismi basilari della formazione del consenso e della gestione del potere, contribuendo a una maggiore autonomia politica del settore finanziario e industriale privato43• Il programma di dismissione delle attività industriali partecipate dallo Stato e la spinta verso le privatizzazioni rappresentarono il corollario del dimagrimento forzoso imposto al sistema pubblico dell 'economia dalle disposizioni dell'Atto unico. Le conseguenze politiche non tardarono a manifestarsi. E così anche i primi smotta­ menti del terreno sul quale - a partire grosso modo dalla metà degli anni Sessanta si erano progressivamente strutturate le relazioni tra capitalismo pubblico e capita­ lismo privato. Logica voleva che proprio l 'intreccio tra l' IRI, le tre banche di interesse nazionale (Comi t, Credi t, Banca di Roma) e il cuore finanziario del capitalismo familiare, Mediobanca (la merchant bank costituita nel 1946 con capitale azionario delle tre BIN), dovesse trasformarsi nella principale linea di faglia critica di quelle relazioni. E di conseguenza, nel teatro di scontro fra le forze che ambivano in campo politico a rimodellarle. La moral suasion esercitata dalla Banca d ' Italia al fine di spingere il sistema bancario verso condizioni di massa critica patrimoniale e finan­ ziaria, contribuiva a sua volta a catalizzare disegni e strategie che in un modo o nell'altro avrebbero finito per assumere come problema cruciale il ridimensiona­ mento o lo sviluppo della centralità del "sistema" Medio banca. Posizione che l'istituto guidato da Enrico Cuccia aveva massimizzato proprio nella crisi degli anni Settanta, accentuando la sua propensione verso forme di coordinamento élitario e divenendo il luogo deputato a gestire le sempre più complesse mediazioni tra capitale pubblico e privato, tra grandi gruppi privati e fra gli stessi azionisti della banca44• Tra il 1988 e il 1990, anno in cui veniva approvata la legge Amato-Cadi - che doveva sancire la fine della specializzazione e la trasformazione delle banche in società per azioni4; - si conswnava il primo vero scontro tra il gruppo dirigente di via Filodram­ matici e un potere politico al cui interno tendevano a prevalere visioni e interessi con­ trastanti sugli assetti di potere pubblico-privato. Uno scontro la cui posta in gioco era il controllo delle due più importanti banche del Nord, la Comit e il Credito italiano. E di conseguenza il possesso di due leve fondamentali nella gestione degli equilibri e dei rapporti di forza tra i maggiori protagonisti dell'economia del paese. Sarebbe stata pro­ prio la competizione tra i principali leader del cosiddetto CAF sulle nomine ai vertici 43· G. Guarino, Verso l'Europa ovvero la fine della politica, Mondadori, Milano I997· 44· M. De Cecco, G. Ferri, Le banche d'affari in Italia, il Mulino, Bologna I 996; G. Rodano, Il credito all'economia. Raffaele Mattioli alla Banca Commerciale Italiana, Ricciardi, Milano-Napoli I9 83. 45· Cfr. F. Merusi, Dalla banca pubblica allafondazione privata. Cronache di una riforma decennale, Giappichelli, Torino 2000. 131

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dei due istituti e sulla questione cruciale del rinnovo della convenzione tra Mediobanca e le tre BIN - che obbligava le seconde a vendere alla propria clientela certificati della banca a condizioni speciali - a consentire a Cuccia di uscire indenne da un attacco mirante a ridimensionare le potenzialità operative della banca d'affari milanese46• La formazione di un nuovo patto di sindacato che portava al so% la quota azionaria dei soci privati di Mediobanca era del resto la prova inconfutabile di una strategia di espan­ sione che puntava a fare del gruppo l'amalgama dei grandi interessi industriali e il punto di riferimento del rinato «quarto partito » nel passaggio dali'economia pubblica a quella privatizzata47• Non è il senno di poi a mostrare nell'esito di quello scontro il momento preordinativo di molte delle mosse destinate pochi anni dopo a portare il Credito ita­ liano e la Comit "privatizzati" sotto il controllo di Mediobanca e dei suoi alleati italiani e stranieri. Un disegno, va da sé, che non poteva non incontrare resistenze e opposizioni formidabili in un arco di forze trasversali, ben radicare in ciò che restava del vecchio blocco statalizzato di potere. Resistenze destinate però a essere spazzate via dall'uragano politico-economico-giudiziario che si abbatté sull' Italia nel biennio fatale 1992-94. Rispetto ai programmi di dismissione dell'economia pubblica avviati altrove, la peculiarità italiana consisteva propriamente in questo : nel fatto cioè che una decisione altamente politica, come quella relativa alla regolamentazione dei rapporti tra Stato e mercato, venne maturando, nelle sue linee teoriche e applicative, in una situazione di paralisi operativa e di pesante delegittimazione morale della politica. Attraverso un concorso irripetibile di circostanze di carattere interno e internazionale - la fine della Guerra fredda e delle sue legittimazioni etico-ideologiche, l'irrigidimento dei vincoli di bilancio imposti dal Trattato di Maastricht, gli attacchi speculativi contro la lira, la guerra dichiarata dalla magistratura al sistema della corruzione politica - venne allora determinandosi una condizione di sostanziale inagibilità dei tradizionali detentori del potere politico, ossia i partiti. Condizione a sua volta amplificata da un potere media­ tico compatto nel presentarsi all 'opinione pubblica indignata come strumento della santa guerra di una « società civile », luogo incontaminato di tutte le virtù, contro la « società politica » corrotta e decadente48• Il rito purificatore collettivo officiato quo­ tidianamente da televisioni e giornali assiepati intorno alle aule dei tribunali, battezzava la funzione commissaria di una tecnocrazia di estrazione economico-finanziaria inca­ ricata, dalla forza travolgente dei fatti, di predisporre la liquidazione coatta del modello neopatrimoniale di democrazia generato dai partiti della Prima Repubblica49• 46. M. Pini, I giorni dell'IRI. Storie e misfatti da Beneduce a Prodi, Mondadori, Milano 2000. 47· Sulla posizione antisistema del "partito" degli industriali in questo periodo, cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica {19S9-2011), Laterza, Roma-Bari 2012. 48. L. Cafagna, La grande slavina. L'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia 1993. 49· G. Sapelli, Cleptocrazia. Il meccanismo unico della corruzione tra economia e politica, Feltrinelli, Milano 1994; A. Pizzorno, Le trasformazioni del sistema politico italiano (1976-1992), in F. Barbagallo ( a cura di ) , Storia dell'Italia repubblicana, 3· L'Italia nella crisi mondiale. L'ultimo ventennio, 11. Isti­ tuzioni, politiche, culture, Einaudi, Torino 1997, pp. 303 ss.

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La parola d 'ordine - sbaraccare lo Stato spoliatore - equivalse in sostanza a emettere un certificato di non idoneità della politica in quanto tale a discutere di questioni politicamente cruciali, come quelle relative all'organizzazione economica dello Stato e alle strategie industriali e finanziarie del paese nella cornice costituzio­ nale della nuova Europa della moneta unica. Nel frattempo, l'assetto istituzionale regolante l'operato della Banca d' Italia approdava a un modello di completa auto­ nomia dal governo, statuendo la definitiva separazione funzionale tra le politiche monetaria e del bilancio pubblico e la più stretta integrazione del sistema economico­ finanziario sotto la guida della Banca centrale50• Questo insieme di circostanze spianava la strada a una vera e propria "bancarizzazione" del pubblico potere, propedeutica a quel processo di scorporazione dell'economia dalla politica che i partiti contavano di diluire nel tempo. E che finì invece per generare un'anomalia al rovescio : l'indebita posizione di forza del privato nel processo di privatizzazione. O più semplicemente - secondo il severo giudizio dell' "Economist" - l 'anomalia di una singola banca in grado di decidere l'intero programma delle privatizzazioni5•. La parola "programma" non appariva casuale, dal momento che in Italia le banche potevano intervenire nel processo in una duplice veste: come soggetti passivi, in quanto esse stesse privatizzate, e come soggetti attivi chiamati a partecipare a vario titolo alle operazioni di dismis­ sione. Fu anche questa una delle ragioni che avrebbe portato il governo Ciampi a imprimere una decisa accelerazione alla vendita del Credit e - per una via più tor­ tuosa - della Comit. Scelta che fu allora molto criticata e che diventò oggetto di durissimi scontri politico-parlamentari destinati a riverberarsi ali ' interno della stessa compagine di governo, mettendone in serio pericolo la tenuta52.. L'alternativa tra l' ipotesi dei noccioli duri e quella dell'azionariato diffuso riflet­ teva il contrasto di fondo - già prefiguratosi in un precedente scambio di lettere riservate tra Enrico Cuccia e Romano Prodi53 - sulle modalità di dismissione dei due « gioielli di famiglia » e, più in generale, la contrapposizione frontale tra quei settori variegati e trasversali del mondo politico insofferenti verso una Mediobanca da sempre percepita come un potere distante e inespugnabile e quanti ritenevano di doversi opporre con tutte le forze al ritorno dei « boiardi che fanno politica » 54• Nel caso della Banca commerciale, tale alternativa venne poi di fatto aggirata attraverso so. Rossi, La politica economica italiana, cit. , p. I II. Cfr. anche Cama, La Banca d'Italia, cit. SI. "The Economist", I4 'h May I994· s2. l. Cipolletta, Che brutta lezione per gli anti-privatizzatori, in "Corriere della Sera': 9 febbraio I 994; D. Di Vico, Camera, vince il voto di lista, ivi, I6 febbraio I 994; M. Gaggi, Banche, no a noccioli duri, ivi, 2S febbraio I 994· S3· Lo scambio di lettere è riportato nell' intervista a C. Geronzi, in M. Mucchetti, Confiteor. Potere, banche e affari. La storia mai raccontata, Feltrinelli, Milano 20I2, pp. 96-Io3. Per una ricostruzione dei rapporti tra Cuccia e Prodi cfr. G. La Malfa, Cuccia e il segreto di Mediobanca, Feltrinelli, Milano 20I4. S4· R. Prodi, Perché dico alt a Mediobanca, in "La Stampa", 23 aprile I994; P. Savona, I boiardi che fanno politica, ivi, 23 aprile I 994; M. Giannini, Caro Cuccia, io vendo a modo mio, in "la Repubblica", 23 aprile I994· 1 33

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un complicato compromesso sul tetto al possesso azionario che, per il modo in cui fu concepito, avrebbe tuttavia finito per favorire operazioni di amalgama dell'azio­ nariato guidate dall'alto. A uscirne rafforzata - lo si volesse o meno - era l 'ipotesi dei nuclei stabili e del controllo delle minoranze azionarie (peraltro esplicitamente ammessa nel decreto con cui il governo rendeva operativa la procedura di vendita)55• E con essa la strategia di Mediobanca mirante all 'acquisizione di quote di rilievo attraverso il raccordo di una rete transfrontaliera di alleanze. In quel successo pesa­ rono molti fattori. Non ultimo, il prevalere, ancora una volta, di una visione pessi­ mistica del capitalismo italiano che postulava l'esistenza di un soggetto in grado di presiedere alla stabilità del sistema finanziario56 e che poteva peraltro rivelarsi coe­ rente con un processo dirigistico "alla cinese" di creazione dall'alto del mercato, come quello avviato sotto la supervisione della Banca d ' Italia sin dai primi anni Ottanta. Il tempo avrebbe mostrato il valore relativo di quella vittoria. La riallocazione degli assetti proprietari del transeunte sistema bancario pubblico postulava infatti processi ampi e profondi di ristrutturazione e concentrazione, destinati a favorire l'emergere di nuovi protagonisti e attori di taglia nazionale57• Attraverso la regola degli accorpamenti pilotati dall 'alto, la Banca centrale perseguiva infatti l'obiettivo di ridurre la segmenta­ zione del mercato creditizio nazionale, come premessa per favorire il recupero di effi­ cienza del sistema e la ricomposizione delle sue attività verso servizi meno tradizionali. Dopo sessant'anni di rigida regolamentazione e una graduale opera di liberalizzazione del settore bancario cominciava con il prendere forma, nella seconda metà degli anni Novanta, un sistema imperniato su quattro grandi gruppi in ascesa, espressione di un mix di moderne managerialità e di più navigate culture politiche del credito (Uni­ Credit, Sanpaolo-IMI, Banca Intesa, Capitalia). Le strategie di aggregazione si sarebbero sviluppate tutte a partire da una rete nazionale tesa a infittirsi per successive acquisizioni mirate a livello locale58• Ma in ogni caso per linee interne a un sistema che tendeva a replicare modelli consortili, intrecci proprietari e pratiche di interlocking directorship mutuati dal capitalismo familiare "a suffragio ristretto" tipico della nostra tradizione. E che al tempo stesso - sviluppandosi dentro la ragnatela proprietaria che da MedioSS· Cfr. S. Siglienti, Una privatizzazione molto privata. Stato, mercato e gruppi industriali: il caso Comit, Mondadori, Milano 1 996. Per un' interpretazione di segno opposto, cfr. A. Maccanico, Intervista sulla fine della prima Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1994. s6. G. Pellicanò, Comit, Mediobanca e ilfalso mito delle public company, in "Corriere della Sera", I0 maggio 1 994; D. Vaiano, Ciampi: missione compiuta, ivi, 30 aprile 1994· S7· Cfr. Banca d' Italia, Considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia per l'anno 1992, in http :/ /www.carloazegliociampi.it/ application/xmanager/projects/ ciampi/ attachments/ 73234/ s_ Roma_3o_maggio_1992.pdf. s8. M. Messori, Il potere delle banche. Sistema finanziario e imprese, Università Bocconi, Milano 2007 ; F. Panetta, Il sistema bancario italiano negli anni Novanta. Gli effetti di una trasformazione, il Mulino, Bologna 2004; P. Bongini, G. Ferri, Il sistema bancario meridionale. Crisi, ristrutturazione, politiche, Laterza, Roma-Bari 2oos; F. Mattesini, M. Messori, L'evoluzione del sistema bancario meri­ dionale. Problemi aperti e possibili soluzioni, il Mulino, Bologna 2004. 134

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banca risaliva sino al cuore del sistema finanziario, le assicurazioni Generali, estenden­ dosi fino al controllo di alcuni gangli vitali del sistema mediatico (in primis il "Corriere della Serà'59) - creava i presupposti per corrodere dall 'interno l'influenza dominante del "salotto" milanese, costretto a barcamenarsi tra le ambizioni di emergenti gruppi manageriali portatori di autonome visioni e strategie di mercato e i conflitti latenti nel governo istituzionale dell'economia e in particolare tra Parlamento, governo, ministero dell 'Economia, Banca d' Italia e authorities del settore. Preannunciata dall 'uscita di FIAT da Mediobanca nel 1997, questa prospettiva venne concretizzandosi seriamente per la prima volta nel 1999 con le due O PA simul­ tanee di Sanpaolo-IMI contro Banca di Roma e di UniCredit contro Comit. Un attacco in piena regola, deciso a sfruttare il varco aperto da una contestata interpre­ tazione delle norme sul mercato dei diritti di proprietà, ma presto inglobato nella partita che, insieme ai vertici delle banche, coinvolgeva anche le più alte cariche dello Stato : il presidente del Consiglio (D 'Alema), il ministro del Tesoro (Ciampi) , il governatore della Banca d ' Italia (Fazio)60• L'operazione veniva sventata grazie a un gioco di sponde e di alleanze tattiche lungo l'improvvisato asse Cuccia-Geronzi-Fazio (con il capo del governo benedicente), destinato a lasciare tuttavia intatto il nodo cruciale della coesistenza, sempre più problematica, tra la stabilità degli assetti pro­ prietari (stella polare della cultura di governo del sistema finanziario incarnata dalla Banca d ' Italia e da Mediobanca) e l'autonomia del mercato. L'insieme di questi problemi non poteva non modificare le basi stesse del rap­ porto tra politica e banche, che avrebbe però continuato a configurarsi come una miscellanea di elementi vecchi e nuovi, in bilico fra « trasformazione » e « trasformismo » 61• Nuova era la realtà di un potere politico disabilitato all ' interfe­ renza diretta (cioè al potere di nomina), ma pur sempre deciso a esercitare le sue prerogative nelle forme arbitrali e di "correzione" che l ' indeterminatezza e la scarsa coerenza nella regolamentazione del settore finanziario poteva consentirgli62.. Prero­ gative, beninteso, spesso sollecitate dagli stessi protagonisti del risiko bancario per favorire o bloccare lo sviluppo di iniziative riguardanti gli assetti di proprietà e il controllo delle banché3• Il vecchio consisteva invece principalmente nella sopravvi­ venza di un' indebita commistione di pubblico e di privato in seno alle cosiddette "fondazioni di origine bancaria". Nonostante la legge Amato prima e la legge Ciampi

S9· Sull 'influenza dei vertici delle banche nelle nomine dei direttori del quotidiano milanese, cfr. Mucchetti, Conjìteor, cit. 6 o. lvi, pp. I23 ss. Cfr. anche Borrelli, Banca padrona, cit., pp. I 84 ss. 6 I. S. Cassese, Gli assetti proprietari delle banche: trasfo rmazioni o trasformismo?, in "Banca Impresa Società", XXI, 2002, 2, pp. I79-84. 62. Messori, Il potere delle banche, cit.; M. Clarich, Privatizzazioni, regole di mercato e controlli, in "Banca Impresa Società", XVII, I998, I , pp. I 84-9S· 63. Di estremo interesse storico la testimonianza di Cesare Geronzi e le numerose informazioni contenute a tale riguardo nella sua intervista con Mucchetti ( Conjìteor, cit.). 135

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poi avessero previsto la graduale fuoriuscita delle fondazioni, enti di diritto pub­ blico, dal capitale delle banche conferitarie - anche attraverso considerevoli incen­ tivi fiscali -, esse rimanevano le principali azioniste delle imprese finanziarie, con­ servando grazie ai patti di sindacato un ruolo preminente negli assetti proprietari del sistema bancario italiano64• Più delle ambizioni a voler ricostruire connessioni di vertice tra mondo bancario e partiti65 o delle necessità materiali dei secondi (risanamento dei bilanci, anticipazione dei rimborsi elettorali ecc.)66, era la forza dei legami comunitari e territoriali a rappresentare il mastice nuovo dei rapporti tra politica in senso lato e banche. La crisi del sistema dei partiti e il venir meno dei tradizionali meccanismi di delega verso i terminali locali del potere costituiva, infatti, il presupposto di una sempre più distinta autoreferenzialità delle fondazioni, la ricchezza patrimoniale delle quali non poteva non suscitare al tempo stesso appe­ titi e preoccupazioni. Il che dava comunque modo alla politica - sempre più fram­ mentata in sottopartiti territoriali o personali67 - di risalire al vertice nazionale delle banche per esercitare una decisiva influenza sulle nomine dei manager e dei gruppi dirigenti delle stessé8• Sciogliere la dicotomia pubblico-privato che rendeva incon­ grue la mission e l'operatività delle fondazioni significava però anche mettere sul tavolo una questione potenzialmente deflagrante per gli assetti del sistema finan­ ziario e industriale italiano. Il dilemma per le fondazioni si presentava in questi termini: restare nelle banche e rinunciare a far fruttare al meglio il proprio patri­ monio, tradendo in questo modo lo spirito delle leggi Amato e Ciampi ? Oppure uscire e rischiare di provocare un terremoto incontrollabile nelle proprietà dei maggiori gruppi bancari italiani ? Terremoto tanto più devastante considerata l' as­ senza di operatori in Italia con un portafoglio all'altezza della situazione ( le O PA lanciate nel 2005 da ABN A M RO e Banco di Bilbao dimostravano che all 'estero il discorso poteva cambiare radicalmente). Qui stava un primo, fondamentale discri­ mine tra quanti - i fautori di una liberalizzazione completa del mercato finanziario - ritenevano addirittura salutare uno scossone del genere e coloro i quali, invece,

64. Cfr. al riguardo il recente studio Italian Banking Foundations, Mediobanca Securities, 28' h May 2012; cfr. anche U. Inzerillo, M. Messori, Le privatizzazioni bancarie italiane, in S. De Nardis ( a cura di ) , Le privatizzazioni italiane, il Mulino, Bologna 2000, pp. 187-212. 6s. li riferimento è alle note vicende del 2005 relative alla scalata UNIPOL a BNL e alla famosa intercettazione telefonica tra Piero Fassino e Giovanni Consorte pubblicata il 3 1 dicembre 2oos dal "Giornale". 66. Cfr. R. Bracalini, Partiti S.p.A. Non solo finanziamenti pubblici, ma societa, banche, immobili, sponsor privati e occulti: come e perché i partiti sono diventati imperifinanziari, Ponte alle Grazie, Firenze 2012. 67. Cfr. M. Calise, La terza repubblica. Partiti contro presidenti, Laterza, Roma-Bari 2006. 68. T. Boeri, L. Guiso, Rifondazione capitalista, in "www.Lavoce.info': 2 novembre 2010; Id., Quell'abbraccio mortale tra fondazioni e banche, ivi, 1 3 gennaio 2012; Id., Come affondare l'unica banca multinazionale italiana, ivi, 24 settembre 2010; R. Perotti, L. Zingales, Quei pasticci tra le banche e la politica, in "Corriere della Sera", 26 febbraio 2012.

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ritenevano necessario, sia pure con diverse e talora opposte finalità, conservare degli elementi di dirigismo nel sistema finanziario italiano. Fu questa seconda ipotesi a segnare il perimetro dello scontro a tutto campo fra il ministro dell' Economia e delle Finanze del n governo Berlusconi, Giulio Tremanti, e il governatore della Banca d ' Italia Antonio Fazio durante la prima metà del decennio. Uno scontro inasprito dalla querelle sul mandato a tempo indeterminato per il governatore, la cui posta in gioco era la ridefinizione dei rapporti tra i vertici del governo dell 'economia e il controllo del sistema finanziario. Il tentativo di Tre­ monti di realizzare una riforma complessiva delle fondazioni di origine bancaria69 - da molti ritenuta improcrastinabile - rispondeva a un disegno, non privo di ambi­ valenza, attraverso il quale si poteva tuttavia intravedere la volontà di ampliare i margini di autonomia della politica economica del governo, drenando risorse dal sistema bancario per finanziare la spesa e programmi di investimento. Nelle pieghe del provvedimento era infatti evidente il proposito di realizzare una sorta di "ripub­ blicizzazione" camuffata del sistema bancario che portasse le fondazioni - attraverso società di gestione del risparmio create ad hoc - sotto il controllo delle istanze cen­ trali di governo, identificate ormai primariamente nel ministero dell ' Economia70• Un proposito che si scontrava apertamente con la struttura di potere e di governo del sistema finanziario di cui la Banca d ' Italia aveva assunto negli anni un controllo quasi assoluto71• Proponendo, inoltre, modifiche sui criteri di incompatibilità e generaliz­ zando il varco aperto nella precedente legislatura dall'approvazione dello statuto della fondazione Montepaschi - che consentiva una schiacciante prevalenza degli enti locali -, il governo mirava a sostituire il principio dell'equilibrio fra rappresentanza degli enti locali e della società civile con il principio della « prevalente rappresentanza del territorio » , vale a dire dei poteri politici locali7l. Norma che portava ad accentuare i già forti legami delle fondazioni con il territorio e con le reti di sviluppo locali73. La riforma mirava, in tutta evidenza, a mixare elementi di colbertismo e compensa­ zioni sul versante politico più sensibile alle tesi federaliste74, sortendo tuttavia l'effetto di saldare il fronte delle fondazioni guidate dall'Associazione di fondazioni e di casse di risparmio (AC RI) con uno schieramento trasversale di forze politico-parlamentari che vanificava la disciplina di partito esaltando la solidarietà primaria fra i reticoli 69. In merito al cui profùo giuridico, cfr. G. Consoli, I profili di illegittimita costituzionale della "nuova riforma" delle fondazioni bancarie, in "Mondo Bancario", 3, 2003, pp. 5 3-60. 70. La tendenza di molti governi europei a utilizzare le banche, pubbliche o private, come un canale surrettizio per finanziare la spesa pubblica non costituirebbe d'altra parte una peculiarità ita­ liana: cfr. R. G. Rajan, L. Zingales, Salvare il capitalismo dai capitalisti, Einaudi, Torino 2004. 7 I. G. Rossi, Capitalismo opaco, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. I29-42. 72. F. Giavazzi, I gattopardi del credito, in "Corriere della Sera", 7 dicembre 200I. 73· M. Messori, Equilibri(smi) di potere per un ritorno al passato, in "la Repubblica", IO dicembre 200I. 74· G. Alvi, Giulio Tremonti, il settentrionale, in "Corriere della Sera", I7 dicembre 200I; F. Ver­ derami, Il patto segreto del ministro Bossi e la partita delle fondazioni, ivi, 2I dicembre 200I. 1 37

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territoriali75. La vicenda si concludeva con il compromesso siglato da GuzzettF6 e Tremo n ti, con l'ingresso delle fondazioni bancarie nel capitale della Cassa depositi e prestiti, istituto di credito speciale facente capo al Tesoro. Essa, tuttavia, segnava uno dei punti di massimo attrito tra il governo e la Banca d ' Italia che non aveva mancato di far sentire in tutta la vicenda il peso della sua moral suasion e di una mal dissimulata partigianeria77• Cosa che non doveva destare sorpresa dato il rapporto di interdipendenza che correva tra la Banca centrale e i suoi principali azionisti, vale a dire le banche78. Un vero e proprio conflitto di interessi che saldava in un unico blocco di potere il controllore e i controllati, rendendoli partecipi di un sistema finanziario potenzialmente collusivo e autoreferenziale. Un intreccio che esponeva oltretutto il vigilante al rischio - assai concreto come si sarebbe visto - di "cattura" da parte dei vigilatF9• Proprio da qui infatti dovevano partire le inchieste della magistratura legate alle vicende Antonveneta e alla scalata UN I P O L a BNL che avrebbero portato alle clamorose dimissioni di Fazio e all'emergere - anche attraverso il ruolo tutt'altro che neutrale della stampa - di una estesa rete di complicità e di opachi intrecci tra la finanza e pezzi della politica e delle istitu­ zioni80. La conseguenza era ancora una volta che i soli controlli efficaci esistenti nel mercato e a tutela del risparmio rischiavano di essere quelli dovuti all' intervento di una magistratura ormai investita di una impropria funzione di supplenza nell 'opera di rimozione delle vaste zone di opacità annidate tra le istituzioni politiche e il . sistema economico. La fine dei torbidi contribuiva in ogni caso a riavviare - auspice il nuovo gover­ natore della Banca centrale Draghi81 - il processo di aggregazione del sistema ban­ cario (con le fusioni pesanti nel 2oo6 tra Banca Intesa e Sanpaolo-IMI e tra UniCredit e Capitalia) bloccato da una crisi di crescenza, in parte legata al declino della cen­ tralità sistemica di Mediobanca e alla contestuale necessità di creare nuovi punti di equilibrio. La morte di Enrico Cuccia, il 23 giugno 2ooo, aveva segnato uno spar­ tiacque. La scomparsa del grande vecchio dei giochi dell'alta finanza era immediata­ mente percepita come una vacatio regis le cui conseguenze non avrebbero riguardato soltanto il problema della guida interinale della banca d 'affari milanese, ma la legit.

75· N. Saldutti, Fondazioni, si prepara una controriforma, ivi, 1 6 dicembre 2001. 76. Esponente della sinistra democristiana, ex presidente della Regione Lombardia, rappresentante della più ricca e influente fondazione bancaria italiana, la Cariplo, perno dell 'A CRI. 77· S. Tamburello, Fondazioni, l'affo ndo di Fazio, in "Corriere della Sera", 1 3 dicembre 2001. 7 8. G. Tabellini, D. Masciandaro, La Banca centrale e i suoi azionisti, in "li Sole 24 Ore", 26 gen­ naio 2005. 7 9 · G. Tabellini, A. Alesina, L. Zingales, Riforma incompleta, i punti da rafforzare, ivi, 4 settembre 2005. 8o. L. Festa, Guerra per banche. L'Italia contesa tra economia, politica, giornali e magistratura, Boroli, Milano 2006. 8 1. M. Monti, La rivoluzione in tre righe di Banca d'Italia, in "Mercato, Concorrenza, Regole", VIII, 2006, 2, pp. 315-20.

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timità stessa del suo sistema di governo. Non troverebbe altrimenti spiegazione lo scontro a tutto campo su Montedison, FIAT e Fondiaria che ebbe luogo nel 2003 - Fazio governatore - tra Mediobanca e due suoi azionisti di peso (UniCredit e Capitalia), decisi a far valere nei confronti della merchant bank milanese un vero e proprio «diritto di resistenza » 82. . Era l 'inizio di una serie di movimenti tellurici destinati, almeno fino al 20 I I, a scuotere le fondamenta del sistema finanziario ita­ liano e a ridisegnarne gerarchie e confini in un continuo alternarsi di scosse e di normalizzazioni. La disintermediazione governativa del sistema del credito avviata vent 'anni prima si era dunque non soltanto mostrata, di per sé, insufficiente a elimi­ nare il patologico intreccio tra politica, finanza e interessi industriali, ma altresì suscettibile di trasformarlo in un sistema perfino più esteso e disarticolato nel suo frame istituzionale. Un esito riconducibile alla frantumazione del sistema politico, alla crisi organizzativa dei partiti e all 'assenza di un coerente disegno di liberalizza­ zione del mercato e di riforma della governance del sistema bancario nel quadro dei cambiamenti prodotti dalla sempre più stretta integrazione del sistema finanziario nazionale con quello europeo e con la dimensione smaterializzata dell 'economia globale. La crisi finanziaria del 2007 avrebbe rappresentato da questo punto di vista una sfida e una nuova opportunità, ma anche un rischio di regressione verso quelle forme di paternalismo del potere pubblico nazionale suscettibili di trasformarsi nel terreno più propizio ai rapporti collusivi tra «politici senza politica » e «capitalisti senza capi tale » .

82. Mucchetti, Confiteor, cit.

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Debito pubblico e classe politica : uno sguardo d' insieme sulla Prima Re pubblica di Pa olo De Io ann a

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Una premessa Questa riflessione intende suggerire qualche elemento di analisi e di discussione, in un'ottica di ordine prevalentemente politico-istituzionale, sulla situazione comples­ siva e le dinamiche evolutive del debito pubblico italiano nel tratto di tempo collo­ cabile tra l 'avvio dell'esperienza democratico-repubblicana e gli anni del collasso della cosiddetta Prima Repubblica ( 1947-9 2) ; si tratta peraltro di una periodizzazione largamente convenzionale per cercare di individuare i profili salienti della vicenda del nostro debito pubblico nella lunga fase storica che prepara l'ingresso dell' Italia, con i paesi fondatori, nell 'area della moneta unica (Eurozona) nel 1998 (primo governo Prodi, ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi) . Questa data costituisce lo spartiacque formale della nostra vicenda monetaria, mentre quello sostanziale, come diremo dopo, è rappresentato, ad avviso di chi scrive, dal "divorzio" tra il Tesoro e la Banca d ' Italia (1981 ), da cui prende avvio il processo che prepara l'approdo del 1998. La linea di riflessione che propongo nasce in qualche modo dall 'osservazione pratica e dall' idea che in realtà ogni comportamento incorpora più o meno consa­ pevolmente una forma di teoria implicita. La teoria implicita di questa riflessione è che l'economia è un "vivente" che reca in sé un inestricabile intreccio tra comportamenti cognitivi, cultura, tecnologia e sedimento istituzionale che resiste, si adatta, si innova quando è costretto dalla forza delle cose. La forza che spinge all' innovazione profonda è quella che allarga la par­ tecipazione attiva e consapevole dei soggetti che abitano un territorio, alla sua vita e al suo sviluppo ; è in estrema sintesi la forza della democrazia. Il debito è un ponte che lega progetti e aspirazione concepiti nel tempo T al tempo TI, T2, T3 nel quale si immagina che gli investimenti fatti esprimano un'utilità economicamente rilevante e apprezzabile. Se questa tensione tra presente e futuro funziona, il debito si autofi­ nanzia con la crescita; se non funziona, perché le scelte sono di cattiva qualità, a poco a poco il debito "compra" la democrazia, a vantaggio di tecnostrutture dirette da chi (creditori) detiene i segni che rappresentano il debito1• La ricostruzione del debito dello Stato italiano è stata oggetto di numerosi e importanti studi e pone questioni di metodo di notevole spessore. I dati che si utilizzano sono estratti da un contributo 1.

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Che cosa è il debito pubblico ? Prima di procedere, è forse utile ricordare la definizione di debito pubblico recata dal Manuale del SEC 95 sul disavanzo e sul debito pubblico (Regolamento CE n. 36os/ 93). Si intende per debito pubblico «il debito lordo al valore nominale in essere alla fine dell'esercizio e consolidato tra e nei settori della pubblica amministrazione » . Il settore di riferimento è quello delle pubbliche amministrazioni nel quale sono com­ prese le unità istituzionali che producono per le collettività, in prevalenza, servizi non vendibili e operano con funzioni di redistribuzione del reddito e della ricchezza. In Italia tale settore si articola nei sottosettori delle amministrazioni centrali, delle amministrazioni locali, incluse le Regioni, e degli enti di previdenza e di assistenza. In via generale appare opportuno ricordare che il debito è uno stock; il primo rap­ porto che offre un ' idea della sua grandezza e sostenibilità va riferito alla ricchezza prodotta dal paese nell'anno di riferimento (il P I L ) ; il disavanzo è invece un flusso che si aggiunge algebricamente allo stock di debito dell 'anno ; anche il servizio del debito va trattato come un flusso (una spesa) che deve innanzi tutto essere rapportata al flusso delle altre spese e a quello delle entrate destinate a coprirlo. Prescindendo dai valori degli attivi iscritti nel conto del patrimonio di uno Stato sovrano e della loro potenziale capacità di produrre reddito (in questo ambito sono riconducibili tutte le forme di valorizzazione del patrimonio disponibile dello Stato italiano, da ultimo variamente sperimentate e ora nuovamente riproposte come uno degli anti­ doti per attaccare lo stock) , l'esame della sostenibilità del debito viene condotto dalle società di rating (dalla Commissione europea, dall' ocsE e dallo stesso F M I ) , osservando in prevalenza l'andamento nel corso del tempo dei rapporti tra gran­ dezze finanziarie: ma tali variabili sono espressione dell'andamento dell'economia, della sua forza innovativa, della sua capacità di crescita, attuale e prospettica, dei suoi rapporti interni tra formazione di capitale fisso sociale e sviluppo degli scambi interni e con il mondo esterno. In una parola, il debito e le variabili-flusso a esso connesse segnano il ruolo che un sistema economico occupa e svolge nell'economia globale. In termini di rapporti finanziari, un primo criterio osserva il rapporto tra il valore attualizzato degli avanzi primari prevedi bili in futuro (tutte le entrate meno le spese, al netto del pagamento degli interessi) e il valore dello stock di debito in essere ; un altro rapporto interessante è quello tra le entrate fiscali ordinarie e il servizio del debito (interessi) ; in termini reali e dinamici è rilevante osservare l 'an-

in ambito Banca d' Italia: M. Francese, A. Pace, Il debito pubblico italiano dall'Unita ad oggi. Una ricostruzione della serie storica, Banca d' Italia, Roma 2008. Si tratta di un testo aggiornato, consapevole di tutte le problematiche tecniche poste dalle precedenti ricostruzioni e che prepara la strada a succes­ sive elaborazioni che dovrebbero cercare di spiegare, nello stesso orizzonte storico, la dinamica interna delle forze che hanno alimentato il nostro debito.

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damento atteso dei tassi di interesse e quello della crescita del PIL; è autoevidente che se i tassi pagati sono maggiori del tasso di crescita del PIL (tutto in termini nominali) il rapporto debito-PIL aumenta anche se le entrate coprono le spese al netto degli interessi (saldo primario in equilibrio) . La sostenibilità dipende anche dal livello complessivo della pressione fiscale; se tale livello è considerato già prossimo al massimo compatibile con la permanenza di una crescita accettabile, il debito sarà giudicato meno sostenibile. Il Fondo monetario internazionale (FMI) esamina la sostenibilità del debito osservando in particolare il rapporto tra l'avanzo primario e gli andamenti del tasso di interesse e del tasso di crescita. Se il tasso di crescita nominale è abbastanza elevato rispetto al tasso di interesse medio pagato sul debito e/ o l 'avanzo primario copre comunque una quota sufficiente del servizio del debito, la situazione è sostanzial­ mente sotto controllo. Rilevante anche è la distribuzione dello stock tra creditori interni ed esteri e la valuta in cui è denominato. Quindi il livello sostenibile del debito dipende da fattori che connotano il funzionamento e il posizionamento com­ plessivo, statico e dinamico, di un sistema economico; dipende da valutazioni che hanno una forte cifra politico-istituzionale.

3 Revisionismo economico e revisionismo storico La crisi finanziaria europea in atto, che rivela i vuoti istituzionali di un manufatto da completare, conduce molti commentatori a rileggere a ritroso la storia della nostra finanza pubblica e a vedervi una sorta di elusione continua degli obblighi costituzio­ nali di equilibrio finanziario, sanciti dalla formula del vecchio art. 8 1 della Costitu­ zione, oggi sostituito dalla cornice del cosiddetto "equilibrio strutturale", con la legge costituzionale 20 aprile 20 12, n. I , attuata con la legge, votata a maggioranza quali­ ficata, 24 dicembre 201 2, n. 243 (pareggio corretto dagli andamenti ciclici e depurato dalle una tantum ) . Si tratta di un tipico caso di revisionismo economico, dove l'en­ fasi sulle virtù apparentemente ritrovate, sotto la spinta di fattori del tutto esterni, offusca una visione nitida, delle ombre e delle molte luci, di una fase storica lunga, complessa e difficile. Revisionismo storico e revisionismo economico sono due facce dello stesso fenomeno ; trovare nell'analisi del passato conferme delle convinzioni che orientano il presente è un metodo (o un rischio) sempre incombente nella ricerca storiografica; metodo e rischio in un certo senso del tutto legittimi, a condizione che alla fine si raccolgano elementi utili a meglio spiegare i nodi del presente, senza offuscare un'esatta ricostruzione del passato. Probabilmente la ricerca storica, più o meno consapevolmente, si muove sempre dentro questa interna dialettica. Se l 'obiettivo della classe politica che si consuma con la Prima Repubblica era quello di salvare il tessuto democratico e il futuro europeo del paese, durante una 1 43

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crisi politica che diventa durissima, soprattutto a partire dalla metà degli anni Set­ tanta, nel fuoco di un conflitto terroristico in cui si mescolano caratteri autoctoni e linee di un confronto internazionale segnato dalla contrapposizione, politica, cultu­ rale ed economica, dei due blocchi, ebbene quella classe politica, a giudizio di chi scrive, ha assolto al suo compito in modo tutt'altro che inadeguato. Il giudizio su quella fase della conduzione della finanza pubblica coincide in larga misura con il giudizio storico-politico sul comportamento dei gruppi dirigenti; politica fiscale, monetaria e valutaria intrecciano l'azione, da un lato, del governo e del Parlamento e, dall'altro, della Banca d' Italia. Al centro, si colloca un uso dello strumento mone­ tario e valutario che cerca di correggere e contenere i compromessi fiscali della poli­ tica, ma è consapevole del fatto che non ci sono soluzioni tecniche che possono sostituirsi alla sintesi delle scelte politiche. E questo, ci sembra, il senso della famosa frase del governatore Guido Carli sulla « sediziosità » di un comportamento non collaborativo della Banca d' Italia. Il comportamento attuale dei governatori delle banche centrali degli Stati Uniti, del Giappone, Regno Unito e della stessa B C E indica quanto fosse saggia, consapevole e lungimirante quella posizione di Carli, che peraltro era un civil servant ben consapevole del significato e della forza dei mercati in gene­ rale e in particolare della durezza dei mercati finanziari. La gestione della moneta che tende a sbarazzarsi della sintesi della democrazia, cioè del supporto di un potere statuale democratico, a beneficio di tecnostrutture opache, rischia di infilarsi in un tunnel senza uscita, se non ha ben chiaro qual è il suo committente: le cosiddette "leggi della scienza economica" ? Il meccanismo del capitalismo globale ? Gli interessi socioeconomici di un'area territoriale organizzata in forme istituzionali di demo­ crazia che cercano di preservare pace e sviluppo ? La Banca centrale è un manufatto istituzionale che coincide con la moneta che genera e gestisce; e una moneta senza Stato appare sempre più una costruzione senza aderenza ai processi storici in cui è chiamata a operare. '

4 Alla ricerca di un controllo effettivo della dinamica dei nostri conti pubblici Daremo uno sguardo all 'evoluzione delle procedure e degli strumenti della deci­ sione di bilancio, soffermandoci soprattutto sugli interventi riformatori a nostro avviso più significativi : la legge I0 marzo 1 9 64, n. 62 (legge Curti), la riforma del 1978 (legge s agosto, n. 468) e la novella del 1988 (legge 23 agosto 1 9 88, n. 362). L'ottica è quella di un operatore istituzionale che ha avuto modo di osservare questi processo da vicino. Gli interventi successivi - sulla struttura del bilancio (legge delega 3 aprile 1 977, n. 94, e D.Lgs. 7 agosto 1997, n. 279, che introducono le unità previsionali di base come unità di voto parlamentare, al posto dei capitoli); la legge 144

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25 giugno 1999, n. 208, che torna ad ampliare il perimetro di intervento innovativo della legge finanziaria; i successivi interventi, sempre sulla struttura del bilancio del 2007, che introducono le missioni e i programmi; la riforma organica del 2009 (legge 31 dicembre 2009, n. 196) che cambia il nome degli strumenti e comprime, a beneficio del governo, i tempi della discussione, in un 'ottica di controllo aggregato di tutti i conti della finanza pubblica - ci appaiono tutti elementi in sostanziale continuità con l'assetto strutturale impresso con la legge 3 6 2/ !988. Da ultimo, è solo nel 20 1 2 con la riforma costituzionale (legge costituzionale 1/2012) e la suc­ cessiva legge rinforzata 243/201 2 che l 'orizzonte ordinamentale si modifica in modo significativo. Il filo che lega questi passaggi tesse corposi cambiamenti nella condu­ zione della politica fiscale e di bilancio, in larga misura spiegabili con la vicenda del nostro avvicinamento e poi con l'adesione all ' Unione economica e monetaria europea. Il senso di fondo di questa riflessione si può così riassumere: i nodi dell' intreccio tra politica fiscale, monetaria e valutaria che hanno visto in Italia, nella Prima Repub­ blica, un confronto serrato, ma leale, tra governo e Parlamento, da un lato, e Banca d ' Italia, dall'altro, in un contesto di democrazia rappresentativa "bloccata", si ripro­ pongono ora a livello europeo, tra Banca centrale europea ( B e E ) , organi comunitari e governi nazionali, nel contesto di un' Unione che è alla ricerca di equilibri demo­ cratici e istituzionali adeguati per un'area monetaria unica, per ora largamente subottimale. Dove i paesi creditori del Nord sono restii ad aprire una dinamica isti­ tuzionale che stabilizzi strumenti di tipo parafederale. I nodi che pensavamo di risolvere a livello nazionale, interrompendo il finanziamento monetario dei fabbi­ sogni del Tesoro e trasferendo la politica monetaria all 'autonomia della B C E , li ritroviamo ora a livello comunitario, dal momento che non siamo stati capaci di attuare un processo di riequilibrio autonomo dei conti pubblici, coerente con il posizionamento internazionale della nostra economia. Si tratta di capire se l'attuale classe dirigente italiana saprà partecipare in modo adeguato a una nuova, delicata, fase di rilancio - ricomposizione della governance economico-istituzionale europea ­ o se invece tenterà di eludere i nodi di fondo, sulla base di una sorta di principio di necessità che si può esprimere così: dobbiamo aderire alle indicazioni dello Stato guida (la Germania) e quindi possiamo solo attuare in buon ordine le prescrizioni tedesche, trasferite nel fiscal compact, un trattato internazionale peraltro di dubbia valenza comunitaria. Chi scrive condivide l'opinione di quegli studiosi che ritengono che per risolvere le questioni economico-sociali assai gravi che si delineano a scala europea (disoccupazione giovanile di massa, scarsa crescita, scarsa competitività glo­ bale ecc.) occorre risolvere, sempre a scala europea, i nodi di una politica monetaria e fiscale idonea a impostare programmi di innovazione e crescita, con gli strumenti appropriati per un 'area monetaria integrata. Gli strumenti sono l'unione bancaria, la disciplina fiscale, la garanzia dei debiti dei paesi membri, almeno entro la soglia del 6o%, il coordinamento delle politiche di bilancio, le spese pubbliche di investimento 1 45

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a scala continentale, finanziate con debito emesso in euro e garantito dalla B C E . Il controllo, effettivo e trasparente dei nostri conti è una precondizione necessaria per ogni iniziativa europea; e l'esame del nostro passato aiuta a comprendere i nodi del presente.

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Il cambio di orizzonte : il "divorzio" In Banca d ' Italia, con le considerazioni finali lette nel maggio 1 9 8 1, emerge con nettezza la convinzione, espressa dal governatore Ciampi, che il ritorno a una moneta stabile richieda una « costituzione monetaria » , fondata sui tre pilastri : 1. dell ' indipendenza del potere di creare mo neta da chi determina la spesa pub­ blica ; 2 . di procedure di spesa rispettose del vincolo di bilancio ; 3· di una dina­ mica salariale coerente con la stabilità dei prezzi. Tale impostazione si sedimenta negli anni a venire nella cultura economica generale, ma negli anni Settanta era coltivata solo da alcuni economisti. Tuttavia, proprio il tratto di tempo che ci separa da quegli eventi co nsente forse oggi di osservare con maggiore senso critico la posizione di quanti continuano a sostenere, in via sistematica, che il Tesoro dello Stato si deve disconnettere dalla Banca centrale per finanziare i propri fabbisogni e che, poi, il Parlamento si deve disconnettere dal Tesoro per coprire le proprie scelte. Questa impostazione conduce a una Banca centrale che garan­ tisce solo la stabilità dei prezzi : al potere politico restano intestate tutte le altre scelte di aggiustamento. In tale concezione, il debito che finanzia gli investimenti deve, a tendere, venire solo dai capitali privati; le spese pubbliche si finanziano solo, sempre a tendere, con il prelievo obbligatorio : tasse, imposte e contributi. Il carattere strutturale del disa­ vanzo - ed è qui che si innesta la nuova cornice costituzionale in materia di equili­ brio di bilancio - dipende crucialmente dalle ipotesi che sostengono la ricostruzione delle tendenza macro di medio periodo ; se tali ipotesi sono errate, come stiamo verificando in Europa e particolarmente in Italia, in questa fase, il vincolo esterno deprime ulteriormente il ciclo ; e se la B C E continua ad avere come target solo la stabilità dei prezzi l'economia dell'area comunitaria approfondisce i suoi caratteri duali (Nord-Sud) e rischia di rimanere a lungo al margine dello sviluppo globale. Comunque, la tesi che il debito non deve mai servire a comporre i conflitti della scelta politica, in nuce rischia di eliminare la scelta fiscale dei cittadini e quindi di attaccare le stesse radici della democrazia rappresentativa; la guida dei processi eco­ nomici rischia di essere rimessa a una tecnostruttura al servizio, in sostanza, delle logiche dei mercati finanziari o di "leggi dell 'economia" sulla cui oggettività la rifles­ sione teorico-pratica, come diremo, rimane del tutto aperta, soprattutto in ordine ai fattori che fanno da leva al ciclo economico.

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Un breve sguardo alle teorie . . . '

E ben noto che le teorie positive che analizzano i rapporti tra debito e forme istituzionali convergono nel sottolineare che « i sistemi democratico rappresentativi si basano sul consenso » l e ciò non costituisce solo la loro forza ma anche una relativa forma di debolezza. Non solo perché notoriamente il consenso è esposto alla mani­ polazione dei media e degli interessi che li condizionano, bensì per qualcosa di ancora più sostanziale, appunto la riduzione del tempo alla contemporaneità. Il consenso, infatti, tende a esprimere interessi di breve periodo, a mettere a fuoco un punto di sintesi "opportunistico" che allontana scelte percepite come più dolorose. D 'altra parte l'orizzonte dei mercati dominati dalla logica degli investitori istituzionali deve conti­ nuamente trovare punti di sintesi tra esigenze di liquidità, rendimenti medi e aspet­ tative di stabilità delle monete in cui sono espressi i titoli in cui si investe. Si può quindi affermare che è relativamente più agevole organizzare il consenso per opere che assicurano benefici nell' immediato ma impongono sacrifici solo dopo decine di anni. In sintesi, questa è la tesi alla base della recente letteratura che cerca di spiegare le decisioni finanziarie attraverso l'analisi dei processi decisionali politici. Questi, a loro volta, vengono messi in relazione alle caratteristiche istituzionali quali la forma parla­ mentare e la natura dei governi. L'evidenza empirica non offre peraltro indicazioni conclusive al riguardo; appare aderente alla realtà sostenere che sistemi basati sulla rappresentanza proporzionale della base elettorale sono più complicati e laboriosi nella ricerca di punti di sintesi ottimali e comunque possono risultare più esposti a un uso meno controllato del debito. Tuttavia, emerge del pari consenso sul fatto che non è possibile ridurre le complesse scelte solo o in prevalenza a fattori istituzionali. E comunque si può aggiungere che, ad avviso di chi scrive, proprio a fronte della presente crisi europea, appare preferibile rischiare di sbagliare in condizioni di consenso demo­ cratico piuttosto che affidarsi a scelte elaborate da tecnostrutture opache, veicoli a volte inconsapevoli dell 'egemonia culturale delle economie che guidano la macchina.

7 . . . e ai fatti della macroeconomia In pochi decenni il paradigma interpretativo dei fatti economici ha subito una rota­ zione di 360 gradi. Uno dei maestri italiani della scienza delle finanze, nell 'edizione del 1973 del suo manuale, avvertiva che la crisi del 1929 è importante «perché segna il crollo, che può dirsi definitivo, della fiducia che il sistema economico tende sponCfr. N. Sartor, Il debito pubblico, in AA.VV., Evoluzione e riforma dell'intervento pubblico, Giap­ pichelli, Torino 2 0 I 3 . 2.

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taneamente, senza artriti preoccupanti, a un equilibrio di piena occupazione » 3• Poi è arrivata la stagflazione degli anni Settanta: la politica monetaria e fiscale fallì l'o­ biettivo del pieno impiego, con o senza inflazione. Il pendolo fece una netta inver­ sione verso la deregolazione, le privatizzazioni, con una ritirata strategica nella guerra ai monopoli e con la netta prevalenza di politiche macro che ponevano l'accento sulla stabilità dei prezzi4• Gli anni Settanta sono segnati da gravi problemi di controllo negli andamenti delle entrate e delle spese in tutti i paesi industrializzati. Si discute apertamente di crisi fiscale dello Stato; si apre la stagione dei diritti senza risorse e delle risorse senza diritti. Gli interventi nei paesi dell 'area O C S E convergono nel mettere in campo controlli più stringenti sugli esborsi, accentuando il ruolo del Tesoro ; si introducono nuovi vincoli nel processo di formazione delle decisioni endo governative e legislative e quindi nei rapporti tra governo e Parlamento ; si introducono strumenti di programmazione finanziaria pluriennale; si comincia a discutere della stessa desiderabilità di nuovi vincoli costituzionali. Le riforme italiane alla cornice contabile degli anni Settanta e Ottanta (leggi 468/1978 e 3 62/ 1 988 e le connesse tornate di innovazioni nei regolamenti parlamentari), come diremo e meglio vedremo dopo, sono figlie di questa fase; esse cercano peraltro di costruire un sentiero di razionalizzazione del sistema parlamentare italiano, a costituzione invariata. Al di là degli schemi interpretativi sul ciclo economico vi è convergenza sul fatto che occorre governare i trend della spesa e poter assestare la pressione fiscale sui livelli più appropriati per spingere lo sviluppo e tenere la coesione sociale. La critica all ' intervento pubblico, come osserva Posner, conteneva elementi di verità, ma fu a sua volta vittima di un altro effetto nirvana : in molti si autoconvinsero che i mercati fossero perfetti, ossia capaci di autoregolarsi e che l ' intervento pubblico quasi sempre peggiorasse le cose. In genere, gli economisti soggetti a questo secondo effetto nirvana (pro mercato) sono connotati da una crescente formalizzazione matematica dei loro modelli esplicativi, con un certo disinteresse per i profili isti­ tuzionali, culturali e storico-sociali. Questo nirvana pro mercato domina nei rap­ porti tra istituzioni ed economia negli anni Ottanta e Novanta, anche in Italia. La crisi presente ha aperto una nuova stagione, teorico-pratica, sia negli Stati Uniti sia in Europa, che chiede di nuovo regole per affrontare le crisi delle istituzioni finan­ ziarie. Come osserva Posner, forse bisogna ammettere che ci mancano ancora molti elementi (anche e soprattutto psicologici e storico-istituzionali) per comprendere i meccanismi del ciclo economico. Tuttavia, è corretto affermare che questa fase lascia il residuo netto, non contestabile, dell 'esigenza teorico-pratica di processi di razio­ nalizzazione dei metodi di formazione delle decisioni di programmazione e gestione delle spese. Il profilo finanziario è parte integrante delle scelte di programmazione; 3· S. Steve, Lezione di scienza delle finanze, C EDAM, Padova 1973, p. u. 4· Cfr. R. A. Posner, La crisi della democrazia capitalista, Università Bocconi, Milano 2010, P· 327.

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e programmare l'utilizzo di risorse relativamente più scarse rende obiettivamente più difficile e impervia la decisione.

8 La razionalizzazione della forma parlamentare di governo La ricerca di punti di equilibrio nel rapporto tra governo e Parlamento in materia di entrate e spese coincide dunque con il tema, storico-politico, della razionalizzazione della forma parlamentare di governo. La razionalizzazione dei sistemi di democrazia rappresentativa è un fenomeno che, con modalità tecniche diverse, si realizza in tutte le democrazie europee; proprio sul terreno della disciplina dei poteri della borsa, tra governo e Parlamento. La questione fu vista e affrontata in Assemblea costituente con l'ordine del giorno Perassi (4 e s settembre 1946) e poi con l'azione (interrotta) di Costantino Mortati ed Egidio Tosato. A partire dal Comitato Paratore-Medici ( 1948) si snoda una lunga serie di lavori di commissioni e gruppi di lavoro (il Comitato Medici è del 1968), che in realtà segue e interpreta l'evoluzione dei rapporti reali di forza tra le visioni economico-istituzionali di cui erano portatori le forze sociali e i partiti6• Tra l' idea "giacobina", ma in realtà mai praticata, che il governo "deve" comunque trovare le soluzioni di copertura per i testi votati dalle Camere, e la Nota aggiuntiva del ministro del Bilancio La Malfa (1962), che rilancia obiettivi e strumenti della programmazione, sulla base di una nitida idea della politica dei redditi, si colloca la lunga stagione del cosiddetto "miracolo economico", nella quale, nei fatti, controllo della moneta, scelte fiscali e politica valutaria sostennero con lucidità uno sviluppo senza precedenti della nostra economia. Tra il 1 946 e il 1 947 l'economia italiana affronta uno shock inflazionistico che fu controllato e diretto dalle autorità monetarie (Banca d' Italia e Tesoro) con grande perizia tecnica; Einaudi apre con prudenza alla liberalizzazione dei nostri mercati (tutti largamente protetti) e alla conversione della lira; la politica fiscale consente che la spesa pubblica sostituisca la domanda privata in tutto il processo di ricostruzione del paese : in pochi anni furono ricostruite case, sistema dei trasporti, riavviati i servizi sociali di base (scuola e sanità) . L'inflazione di fatto erode in modo sostanziale le rendite dei titoli pubblici sottoscritti negli anni ante guerra e il debito in rapporto al prodotto flette drasticamente. La domanda di consumo dei ceti medi cresce impetuosa, mentre la produttività pro capite del lavoro cresce più delle remunerazioni reali; importanti innovazioni tecnologiche, bloccate dall 'autarchia, intervengono rapidamente nei processi manifatturieri; dunque, sostegno pubblico degli investimenti infrastrutturali, abbondanti investimenti privati M. Duverger, Finances publiques, P U F, Paris I 97 I. 6. Cfr. P. De loanna, La copertura delle leggi di spesa, in A. Barettoni Arleri (a cura di), Dizionario di contabilita pubblica, Giuffrè, Milano I989, pp. 119-248. S·

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in settori manifatturieri in rapida espansione tecnologica, crescita dei consumi e rinnovato ruolo dell'export, sono gli elementi di fondo del "miracolo". Ma già nel 1962 i salari crescono più della produttività e occorre immaginare gli ingredienti di base per una nuova e più complessa fase di sviluppo economico, sociale e istituzionale. Eppure, in tutta la fase del "miracolo economico", di fatto, il governo in Parlamento trovò sempre un habitat procedurale che gli consentì di attuare le sue politiche fiscali. Lo schema applicativo dell'art. 8 1 della Costituzione in materia di copertura delle leggi di spesa, ben lungi dal chiudersi in una visione di pareggio contabile sull'anno, consentì di trovare in concreto forme di copertura con il debito per finanziare pro­ grammi infrastrutturali a medio-lungo termine, coerenti con la fase economica che il paese attraversava. In sostanza, la specifica soluzione individuata dal costituente per il nodo della copertura finanziaria, si rivelò saggiamente ispirata a una concezione essenzialmente di metodo, idonea a rimettere alla concreta dinamica della scelta delle priorità legislative la definizione dei successivi punti di equilibrio capaci di riflettere gli indirizzi economico-finanziari via via prevalenti nella società7, ma fondati su una ragionevole previsione dei profili di crescita idonei a sostenere l'onere del debito. Dunque la crescita, che parte impetuosa negli anni Cinquanta, fino ai primi anni Settanta fu agevolata in modo sostanziale dal venire meno delle spese militari e delle spese connesse al servizio del debito pubblico, da un'imposizione fiscale più conte­ nuta e dalla maggiore possibilità di spendere in infrastrutture attraverso programmi direttamente sostenuti dal potere pubblico 8• In questo contesto la politica abitativa (grandi programmi di edilizia convenzionata e pubblica) e delle reti, autostradali ed elettriche, legate queste ultime alla nazionalizzazione delle imprese produttrici, fecero da volano, reale e finanziario, del nostro sviluppo economico.

9 Una programmazione economica mai decollata È in questo clima che con la legge 1° marzo 1964, n. 62 (legge Curti), si passa da una struttura del bilancio statale di tipo aziendalistico patrimoniale a una classificazione delle entrate e delle spese di tipo economico-funzionale, idonea, nelle intenzioni, a fare della decisione di bilancio il supporto finanziario di una politica di programma­ zione economica. Lo spazio di tempo che va dalla legge Curti del 1964 alla riforma del bilancio del 1978 (legge 468/!978) coincide con il lento ma inesorabile declino delle idee e degli strumenti della programmazione economica ( il Progetto 8o, coor­ dinato da Giorgio Ruffolo, fu l'ultimo tentativo di declinare questo tema) . Nel pieno della fase politica cosiddetta "di solidarietà nazionale", l' idea della De loanna, La copertura delle leggi di spesa, cit., p. 1 2 1. 8. Cfr. S. Lombardini, Carli, Baffi, Ciampi. Tre governatori e un 'economia,



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UT ET,

Torino

2005.

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programmazione reale viene sostituita da una strumentazione, potenzialmente assai moderna e sofisticata, di programmazione finanziaria, attraverso il controllo ex ante del bilancio pubblico, su un orizzonte pluriennale, con l'apporto di uno strumento legislativo sostanziale idoneo a introdurre nell 'ordinamento le innovazioni necessarie a tenere le tendenze dei conti pubblici lungo il sentiero programmato. Ma il corposo seguito di riforme organizzative e gestionali che avrebbero dovuto implementare un' idea e una prassi di programmazione pluriennale si muove invece con un passo del tutto in controtempo con le esigenze di controllo espresse dalla fase di crisi inci­ piente della finanza pubblica, cui abbiamo fatto cenno (cfr. supra, PA R. 7 ). L'apparato tecnico-normativa che dà corpo a questi processi investe "rami alti" e "rami bassi": le leggi cornice, la struttura dei documenti di bilancio, i regolamenti parlamentari, i poteri dei dirigenti pubblici, l'organizzazione degli organi e dei controlli, dunque il sistema delle fonti e le prassi tecnico-contabili e gestionali. Chi scrive ha sostenuto che questo processo, nonostante significative innovazioni, soprattutto dopo la legge 362/!9 88, non è pervenuto a un punto di equilibrio realmente condiviso ; e tale mancanza di controllo sull 'evoluzione dei conti pubblici, a dispetto dell'uso abbon­ dante di topos, concetti e formule mutuate dalle scienze economico-aziendali, è dipeso largamente dalla marcata prevalenza, nelle tecniche previsionali e gestionali, di una discorsività di marca giuridico-contabile; discorsività debole nel supportare la costru­ zione di previsioni tendenziali, la gestione e il monitoraggio in progress dei conti, gli strumenti di correzione. La sintesi politica cerca continuamente, in apparenza, di correggere le tendenze non desiderate, ma emerge come un intreccio che si autoali­ menta tra inadeguatezza delle scelte politiche e opacità della strumentazione tecnica che prevede e rappresenta le tendenze della spesa che poi gestisce e controlla. La spending review, inaugurata nel 2007 ( n governo Prodi, con Tommaso Padoa­ Schioppa al ministero dell' Economia e delle Finanze), aveva proprio lo scopo di incidere su strumenti e tecniche di gestione, a partire da un'analisi fine, di tipo microeconomico, dei programmi di spesa pubblica. Ma sono passati circa trent'anni dalla legge 468/ !978! Troppi per un paese che vuole competere con le politiche pubbliche dei nostri partner europei.

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La svolta del 19 7 8 Nell'ottica di questa riflessione, che assume il debito come indice delle strategie della classe politica della Prima Repubblica, ci sembra utile sottolineare alcuni specifici aspetti della riforma del 1978 (legge 468/1978) che servono forse a meglio inquadrare il senso delle scelte successive, soprattutto nella novella del 1988 (legge 362/ 1988). Con la riforma del 1978 viene ampliato il perimetro normativa della decisione di bilancio introducendo il supporto di una fonte primaria (la legge finanziaria), sottoISI

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posta all'obbligo di copertura, ma con una latitudine di intervento innovativo poten­ zialmente più estesa; si introducono le autorizzazioni annuali di cassa, accanto a quelle di competenza, le previsioni pluriennali come base per un più realistico assol­ vimento dell'obbligo di copertura, il quadro dei conti di tutto il settore pubblico, la sessione di bilancio nei regolamenti parlamentari. Tuttavia, il profilo tecnico forse più innovativo, dal punto di vista del controllo della formazione del debito, è costi­ tuito dalla disposizione che riconduce a una norma specifica della legge finanziaria la determinazione del livello massimo del saldo netto da finanziare, in termini di competenza, configurabile come limite massimo per le nuove operazioni di debito patrimoniale (medio-lungo termine) che possono essere poste in essere per pareggiare i conti del bilancio statale. Questa innovazione aveva come obiettivi il definire con chiarezza quale fosse l'effettivo limite entro cui era possibile per il Tesoro accedere a nuove operazioni di indebitamento per coprire le spese iscritte in bilancio, e soprat­ tutto superare una sostanziale doppiezza conoscitiva tra una gestione di competenza giuridica, nel cui ambito era sempre possibile trovare soluzioni di copertura per nuove spese in corso d'anno, e una gestione per cassa, che rimaneva nelle mani del governo. Al fondo vi era quindi l 'idea di fissare dei limiti e dei target per la politica di bilancio che rendessero esplicite le priorità incorporate nei documenti e i relativi mezzi di finanziamento, in un orizzonte pluriennale. Dunque, alla base della riforma del 1978, ad avviso di chi scrive, vi era l'idea di porre la politica di bilancio su solide basi di programmazione pluriennale, capaci di incidere sulla qualità, sulla composizione e sulla distribuzione della spesa pubblica; contestualmente, la riforma intende chiarire - con precisione - limiti e responsabilità del governo e del Parlamento nella programmazione del deficit di bilancio come strumento di politica economica. Un protagonista di quella fase sottolinea che si tratta di «porre fine alla vecchia prassi di elusione di un confronto trasparente e responsabile sulla politica fiscale per iniziarne una nuova » , che ridia alla politica fiscale e finanziaria la sua autonomia, responsabilizzandone in pieno governo e atti­ vità parlamentare; si tratta di configurare, con il massimo grado possibile di libertà, la combinazione ottimale degli strumenti di politica economica più efficaci per rag­ giungere obiettivi di stabilizzazione e sviluppo del sistema. «Tutto ciò è possibile solo se una sufficientemente decisa e stabile convergenza tra le forze dell'arco costi­ tuzionale permetterà di orientare l'azione non al giorno per giorno, ma alla piena realizzazione delle potenzialità e delle esigenze di sviluppo del nostro sistema econo­ mico-sociale » 9• Gli anni Ottanta sono quelli in cui questa scommessa comincia a consumarsi senza risultati conclusivi, dove per conclusivi dovrebbe intendersi un punto condiviso, tra tutti i soggetti che operano nell 'arena parlamentare, di sintesi tra esigenze di decisione Così S. Lombardini, I nuovi problemi della politica fiscale, in P. Scaramozzino (a cura di), Studi di statistica e di economia in onore di Libero Lenti, vol. II, Giuffrè, Milano 1 979 . 9·

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ed esigenze di trasparenza e controllo. Tra gli economisti è diffusa la convinzione che proprio l'analisi degli andamenti di finanza pubblica degli anni Ottanta costituisca un terreno di valutazione cruciale per cercare di capire il senso degli sviluppi della politica economica nel ventennio successivo. Se oggi, nel pieno dell'attuale crisi eco­ nomico-finanziaria, la questione del peso del debito pubblico italiano rappresenta il condizionamento maggiore per una politica di bilancio più attiva e propulsiva, è in quel decennio che occorre ritrovare i fili per comprendere la natura, economico-isti­ tuzionale, dei nodi del presente. Economia ed evoluzione del quadro istituzionale in materia di bilancio si intrecciano strettamente. La questione è stata messa a fuoco soprattutto nel dibattito economico. I dati non sono di facile e univoca interpretazione e tuttavia la distanza del tempo consente di approssimare un primo giudizio : si può dare di quel periodo la valutazione di un 'occasione gravemente mancata per il risana­ mento della finanza pubblica, quando il prodotto era in crescita e molti margini potenziali si davano per rendere più produttiva la nostra economia10• È in questo decennio ( gli anni Ottanta) che appare chiaro come la razionaliz­ zazione del sistema parlamentare debba avvenire soprattutto sul terreno del governo della finanza pubblica e che tale processo deve segnare una maturazione complessiva e profondamente condivisa tra le forze che hanno animato la prima fase della vita repubblicana. Ci sembra aderente al vero affermare che sul terreno della razionalizzazione delle procedure di bilancio si è giocata una partita cruciale della nostra vita istituzionale e che tale partita ha fatto segnare importanti elementi di novità ma non è riuscita a pervenire a convincenti e condivisi punti di ricaduta. I punti di discontinuità vera sono stati prodotti da sfide e sollecitazioni venute soprattutto dall' Europa; e questo schema spiega anche il recente cambio di para­ digma costituzionale, intervenuto con la legge costituzionale 1 / 2o 1 2 e con la suc­ cessiva legge rinforzata per l'attuazione del cosiddetto "pareggio strutturale". Dunque è in quell'arco di anni che si decide e si discute (e si combatte politica­ mente) sulla linea di uscita dalla crisi del sistema istituzionale e di razionalizzazione del nostro parlamentarismo. Si tratta di costruire una seconda fase della democrazia repubblicana o di rischiare di destrutturare le basi della nostra giovane costruzione costituzionale. Questa era la posta in gioco. Si tratta di trovare soluzioni istituzio­ nali moderne, ma fedeli ai tratti fondativi della Costituzione. In questo senso, caduta l ' idea di un 'economia partecipata e programmata, che era alla base dei progetti di programmazio ne degli anni Sessanta e Settanta, il nodo della governa­ bilità si scarica interamente sul tema del controllo delle dinamiche della finanza pubblica: questo nodo diventa il crocevia vero di tutte le questioni istituzionali che ostruiscono la strada per un consolidamento e una stabilizzazione della nostra democrazia parlamentare. IO. Cfr. N. Sartor (a cura di), Il risanamento mancato. La politica di bilancio italiana: 19S6-9o, Carocci, Roma I998.

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II

Dopo il "divorzio", la riforma del 1 9 8 8 Dunque, dopo la riforma del bilancio del 1978, il vero cambio di paradigma istitu­ zionale interviene con il "divorzio" tra Tesoro e Banca d ' Italia ( 1981) . È qui che si situa una vera e propria modifica della costituzione economica materiale del nostro paese. Con la netta separazione tra politica fiscale e politica monetaria, il finanzia­ mento non fiscale del bilancio pubblico può avvenire solo nei limiti e alle condizioni in ultima analisi fissate dai mercati specializzati, ammessi a operare in titoli pubblici; il prezzo delle operazioni di finanziamento del bilancio pubblico sta interamente nelle mani dei mercati finanziari. La scelta del "divorzio" va quindi collocata in una fase nella quale si era consapevoli che per cercare di essere attori nel processo di integrazione finanziaria europea, prima del passaggio alla moneta unica, occorreva passare a una gestione del debito più ancorata alle valutazioni dei mercati interna­ zionali; occorreva cioè superare una visione per così dire amministrativa del debito, in ragione della quale la struttura delle scadenze non appariva come un problema vero, in quanto era sempre possibile guidare il finanziamento del disavanzo attraverso il collocamento dei titoli presso la Banca centrale, o "dirigendo" la composizione di portafoglio del sistema bancario e convogliando verso questo sistema l'acquisto di quote del debito nuovo o in scadenza . E stato osservato che all 'origine dell 'esplosione del debito, negli anni Ottanta e Novanta, vi sarebbe in larga parte questa convinzione illusoria, formatasi negli anni di basso livello del rapporto debito-PIL; era cioè prevalente la convinzione che la rapida crescita economica potesse continuare a lungo e che fosse possibile finanziarsi con debito pubblico a breve termine, a basso costo e a basso rischio di rinnovo. E ciò avrebbe condotto a sottovalutare gli effetti sugli equilibri complessivi del bilancio pubblico. Per la verità fino alla metà degli anni Settanta la gestione dello stock del debito è un nodo assai delicato, ma ancora dominabile. L'esplosione della spesa per interessi, che alimenta rapidamente r accumulo dello stock del debito (per via della formazione di quote crescenti, anno su anno, di indebitamento netto), si manifesta, come era facile prevedere a partire dal 1983, con il graduale realizzo di sistemi di aste per i titoli pubblici via via sempre più aperti e competitivi; sono i grandi prenditori specializzati di titoli pubblici, nazionali e internazionali, che fanno il prezzo a cui i titoli vengono collocati. Dal 1980 al 1987 (quando si apre la x Legislatura) lo stock del debito passa dal 70 al 90% del PIL. Non è dunque casuale se è proprio nella x Legislatura che si riapre una fase di intensa revisione delle procedure di bilancio, in particolare sotto la spinta di Beniamino Andreatta, che fu presidente della Commissione bilancio del Senato dal 4 agosto 1987 al 22 aprile 1992: lo stesso uomo politico ed economista che aveva fortemente sostenuto, insieme al governatore Ciampi, il "divorzio". Non è casuale, perché l 'andamento della crescita del debito dimostra che le condizioni ..

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indicate dalla Banca d' Italia nelle Considerazioni finali del 1981 non si erano realiz­ zate dopo il divorzio. In particolare, la formazione del fabbisogno del settore statale restava largamente connessa a un andamento della spesa non coerente con la crescita del prodotto. Dunque una minoranza tecnico-politica aveva promosso il primo passo (il divorzio, appunto), la politica l'aveva subito ma non aveva interiorizzato il cambio di paradigma che si apriva. La questione cruciale della x Legislatura è quella della ridefinizione di strumenti idonei a piegare la dinamica delle spese cor­ renti entro margini coerenti con un percorso di stabilizzazione della crescita dello stock del debito - interno alla crescita del P I L -, previsto e realizzato anno su anno. Si tratta quindi di superare una logica di mera copertura al margine delle nuove spese o minori entrate e di imboccare sentieri di correzione strutturale dei conti coerenti con previsioni di crescita ragionevoli o comunque non fondate su elementi di moral hazard. La x Legislatura appare caratterizzata da reali elementi di innovazione nel quadro istituzionale che disciplina le procedure di bilancio. La prima revisione della legge di contabilità generale 468/1978 è di dieci anni dopo (legge 362/ 1988), a cui seguirono due tornate di novelle dei regolamenti di Camera e Senato, con la connessa istituzione dei Servizi del bilancio. L'obiettivo della legislatura è di rivisitare le norme di conta­ bilità e le procedure parlamentari di esame del documento di bilancio ; si trattava di recuperare condizioni di equilibrio e di controllo della finanza pubblica; di stabiliz­ zare un' interpretazione virtuosa dell'obbligo costituzionale di copertura e di valoriz-, zare, in modo effettivo e non nominalistico, i poteri di controllo del Parlamento. E il Parlamento a essere visto come luogo della trasparenza e della responsabilità dove il sinallagma tra nuove decisioni di spesa o di minore entrata e indicazioni dei mezzi di copertura deve essere sottoposto a un'accurata e trasparente verifica tecnica11 • Il punto cruciale stava dunque nel rileggere norme e prassi della riforma del 1978 (legge 468/ 1978), conseguendo alcune innovazioni che sembravano qualitativamente decisive: in primo luogo, si trattava di definire un vincolo esterno e preventivo sugli obiettivi di finanza pubblica, annuali e triennali, da rispettare nel corso della sessione di bilancio; in secondo luogo, di definire con maggior precisione le formule tecniche I 1. È utile ricordare che nella precedente legislatura aveva operato in Senato una commissione di studio insediata dal presidente Fanfani e di cui chi scrive aveva coordinato i lavori. li conflitto politico, soprattutto tra comunisti da un lato e blocco di potere ricostituitosi intorno all 'asse PS1-DC dall'altro, impedì di raggiungere soluzioni normative, ma consentì comunque di concludere un buon lavoro analitico, che servì da base per il ciclo di riforme della legislatura successiva. Le conclusioni della commissione erano fondate sull ' idea base di una rilettura e reinterpretazione virtuosa dell'obbligo costituzionale di copertura delle leggi di spesa e di minore entrata, stabilito nell'art. 8I della Costitu­ zione, rilettura che intendeva saldare con precisione l'assolvimento dell'obbligo costituzionale alla natura giuridico-economica dell' intervento, e ai suoi effetti pluriennali, con un forte rafforzamento delle strutture di supporto, sia governative sia parlamentari, fornendo al governo e alla sua maggioranza gli strumenti ( a partire dal Documento di programmazione economico-finanziaria) per piegare con interventi di correzione appropriati le tendenze fuori controllo.

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di copertura della stessa legge finanziaria, rispetto alle tendenze in atto, e delle altre leggi di spesa deliberate fuori dalla sessione di bilancio ; in terzo luogo, di determinare con il Documento di programmazione economico-finanziaria la possibilità di dise­ gnare un percorso di rientro dagli squilibri tendenziali, idoneo a imporre riduzioni di spesa o maggiori entrate strutturali in misura algebricamente maggiore della neces­ sità di una copertura al margine degli andamenti della nuova maggiore spesa corrente determinata dalla legge finanziaria; in ultimo luogo, si trattava di introdurre una procedura parlamentare di verifica delle quantificazioni delle coperture tecnicamente attrezzata e tendenzialmente autonoma rispetto ai dati forniti dal governo. In sostanza, si procedimentalizzava un percorso che poneva nelle mani del governo e della maggioranza che lo sosteneva il potere di determinare, a partire dal Documento di programmazione economico-finanziaria, percorsi di riequilibrio potenzialmente assai più strutturati ed efficaci di quanto fosse fino allora avvenuto ; alle strutture di supporto tecnico il compito di discutere criticamente le assunzioni alla base delle ipotesi di copertura . E in tale contesto che si colloca la costituzione dei Servizi del bilancio presso le due Camere, struttura fortemente voluta proprio dalla presidenza della Commissione bilancio del Senato e pienamente sostenuta dalla presidenza del Senato (Spadolini). Le soluzioni poste in essere in quegli anni hanno, ad avviso di chi scrive, costituito il nesso centrale delle nostre istituzioni di bilancio, fino alla riforma costituzionale del 201 2. E rimandano alle questioni che poi sono in parte rimaste irrisolte o risolte in modo non del tutto soddisfacente e che continuano a interrogare il presente. Quali sono i metodi appropriati di costruzione ex ante e di controllo ex post degli andamenti tendenziali della finanza pubblica ? Quale deve essere la base di conoscenze relative ai diversi settori di spesa che governo e Parlamento devono condividere nella verifica degli andamenti tendenziali e nel controllo al margine delle coperture delle nuove iniziative ? L'ingresso nella moneta unica ( 1 988) e la formidabile flessione del peso degli interessi (con lo spread che crolla da circa soo punti base nel 1986 a 100 punti base nel 2ooo) furono un successo straordinario ; la cornice dell 'art. 8 1 della Costi­ tuzione, che aveva assecondato la crescita degli anni Cinquanta, si dimostrava del tutto idonea a sostenere percorsi di riequilibrio ; la frase "entrati in Europa" tornava così nella routine della politica quotidiana. Tuttavia, le stesse forze politiche che avevano impedito una soluzione virtuosa dei conflitti sottesi alle scelte di bilancio, pur di impedire negli anni Ottanta e Novanta uno sblocco della nostra democrazia, che inserisse stabilmente nella dialettica democratica la sinistra, nella legislatura suc­ cessiva gradualmente consumano il dividendo recato dall ' ingresso nell 'euro e ricon­ ducono il bilancio su un sentiero di tendenziale squilibrio. Le innovazioni recate nella breve xv Legislatura ( n governo Pro di) dalla legge finanziaria 20 07 - il Servizio Studi della Ragioneria generale dello Stato ; l'istituzione della Commissione tecnica per la finanza pubblica; il rafforzamento dei Servizi del bilancio in Parlamento furono un modo per riprendere quel filo riformatore; filo che presto si interruppe ..

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per i conflitti interni di quella debole maggioranza di centro-sinistra, ma soprattutto per la miopia delle classi dirigenti che avevano assecondato il ritorno del centro-destra e che ritenevano e in parte ritengono non agevole e utile affrontare i nodi dell 'in­ novazione e della modernità facendo i conti con le rappresentanze politiche e sinda­ cali del mondo organizzato del lavoro. Credo che le innovazioni di metodo e di procedura introdotte con la riforma del 1988 abbiano avuto un significato non irrilevante nell'assecondare il percorso di rientro che ha consentito nel 1998 l' ingresso del paese nell ' Unione monetaria.

12 A mo' di conclusione Ho sempre pensato, da comune cittadino, che la questione fondamentale dell'agire politico sia il rapporto tra teoria e prassi: la misura che separa gli obiettivi dalle concrete possibilità dell 'agire politico. In questo spazio si colloca la responsabilità del decisore politico nelle sue diverse declinazioni: al governo, nella maggioranza, nell'opposizione. La questione della crisi della politica che segna il tempo presente rinvia ad alcuni nessi di fondo della nostra esperienza democratica e repubblicana che le menti e i caratteri più forti della nostra classe politica avevano visto con chia­ rezza già negli anni Settanta: trasparenza e responsabilità restano gli ingredienti di basilari per ridare senso e prospettiva alla nostra vita democratica. Tuttavia, troppi anni sono stati sprecati in un intreccio che si è autoalimentato tra politiche di breve respiro e tecniche opache di previsione e gestione. I corposi nodi tecnici posti dalla costruzione di due scenari (uno tendenziale e/ o a legislazione vigente e uno program­ matico) sono rimasti in parte irrisolti e hanno offuscato la messa a regime di una procedura che aveva l'obiettivo di costruire un percorso nel quale i soggetti politico­ istituzionali coinvolti potevano discutere, comprendere e approvare (con un voto in ultima analisi di maggioranza) vincoli e priorità generali e settoriali. È uno schema che si radica in robusti studi che convergono nell' indicare che i procedimenti devono essere regolati in modo funzionale alla complessità e alla densità dei nodi tecnici e decisionali che intendono dominare. Il procedimento deve recare in sé un grado di coerenza e cogenza coerente con la natura e la posizione dei soggetti politico-istitu­ zionali che vi partecipano e con il risultato che si intende conseguire. Poiché la decisione assume in sé sempre un grado di scelta politica - e questo resta del tutto vero anche nella nuova governance europea -, la procedura deve prevedere sempre una via politica di soluzione dei conflitti. Un assetto costituzionale che intenda incorporare una determinata visione teorica di politica economica, prevedendo anche una soluzione paragiurisdizionale per gli eventuali conflitti interpretativi, ci sembra francamente una via alquanto rigida e piuttosto azzardata per costruire l'orizzonte di una visione comune di interesse europeo. In conclusione, indebitarsi è un modo IS7

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per costruire un ponte tra presente e futuro ; significa avere fiducia nei progetti che si finanziano ; significa impegnarsi a risparmiare un poco di più in futuro per mettersi in condizione di controllare il servizio del debito e il rimborso del capitale anche grazie alle nuove entrate generate dallo sviluppo promosso dalle iniziative finanziate con il debito. Le grandi opere di connessione delle reti di trasporto e di unità fisica del mercato (le ferrovie dopo il 1876, le autostrade nel secondo dopoguerra, l'alta capacità e velocità oggi) sono un esempio di investimenti ad alta e differita fecondità; i primi hanno fatto da volano a importanti fasi di sviluppo economico. La scommessa degli Stati democratici sta nell 'usare il debito per costruire il futuro, favorendo il nesso creativo e solidale tra le generazioni. In Italia persiste una dinamica della spesa corrente che non è compatibile con la crescita del reddito ; vi è un livello di evasione fiscale che non è conciliabile con un patto leale e solidale tra generazioni. Affrontare questi due nodi è la precondizione per dominare il debito e usarlo per costruire l'innovazione e lo sviluppo del futuro. Il crinale tra destra e sinistra sta nella qualità democratica di questo patto, nella trasparenza e fondatezza delle sue assunzioni e dei suoi dati di base. Si tratta di riprendere il filo che lega equità, sviluppo e risanamento, scegliendo in modo più netto i temi dell ' innovazione e dello sviluppo e lanciando un ambizioso programma di riconversione al margine della spesa pubblica e delle risorse umane collocate sulla frontiera della ricerca e dell' innovazione, insieme con un indirizzo stabile di equità fiscale verso le fasce più deboli e di lotta durissima all 'evasione. In questo contesto la quota di debito residua è la scommessa che il presente fa verso la sua capacità di costruire il futuro possibile. Questo, mi sembra, il messaggio che le luci e le ombre della prima fase della nostra Repubblica trasmettono al nostro complesso presente.

La Repubblica in transizione ( 1 9 8 9-9 4) . Debito pubblico e fiscalità : le scelte politiche* di Filippo Cavazzuti

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Linguaggi e pensieri d 'antan per il "divorzio" fra Tesoro e Parlamento Per sviluppare il tema che mi è stato assegnato, propongo una lettura della storia fiscale di quel periodo ricorrendo a linguaggi e pensieri d'antan senza fare uso dei più moderni linguaggi della politica! economy of modern capitalism. A questo fine mi sono rivolto a due eminenti studiosi del passato : Joseph Schum­ peter e Amilcare Puviani. Il primo è ben noto ai più e dunque non mi soffermo su di lui. Il secondo, per lungo tempo ignorato - laureato in giurisprudenza all ' Univer­ sità di Bologna e professore di Scienza delle finanze all' Università di Perugia -, fu scientificamente attivo tra la fine dell' Ottocento e l' inizio del Novecento. E un autore che, per unanime riconoscimento\ appartiene a quel manipolo di studiosi che fecero grande l'economia politica e la scienza delle finanze a cavallo dei due secoli. Schumpeter ha scritto (nel 19 18): « a Goldscheidl resterà sempre il merito di essere stato il primo [ .. ] a diffondere la verità che il bilancio è lo scheletro dello Stato spogliato di tutte le fallaci ideologie [ .. ] e che la storia fiscale di un popolo è una parte essenziale della sua storia generale » . Concludendo che « lo spirito di un popolo, il suo livello culturale, la configurazione della sua struttura sociale, le imprese che la sua politica può preparare, tutto ciò, e molto altro ancora sta scritto nella sua storia fiscale senza false retoriche » 3• '

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Relazione tenuta in occasione del Convegno di studi La Repubblica in transizione 19S9-1994 · promosso dalla Fondazione Luigi Einaudi, dalla Fondazione Istituto Gramsci e dalla SISSCO, Roma, 10-11 marzo 2011. 1. F. Volpi, Introduzione, in A. Puviani, Teoria della illusionefinanziaria, I S EDI, Milano 1975 (ed. or. 190 3). 2. R. Goldscheid fu tra i primi a elaborare l' idea di una sociologia fiscale ed espresse il suo pensiero in un libro del 1917 intitolato Socialismo di Stato o capitalismo di Stato (Staatssozialismus oder Staats­ kapitalismus: Ein finanzsoziologischer Beitrag zur Lo'sung des Staatsschulden-Problems, Anzengruber, Wien 1917). 3· Ora in J. Schumpeter, Stato e inflazione. Saggi di economia politica, Boringhieri, Torino 1983, p. 193. *

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Ha scritto il secondo (nel 1903, in un libro un tempo assai raro e ignorato dallo stesso Schumpeter nella sua monumentale Storia dell'analisi economica, riproposto in Italia negli anni Settanta tra i classici dell'economia politica) che: Il bilancio dice assai più o assai meno, come si vuole. Esso resta una sfinge impenetrabile alle grandi masse della Camera, a quelle masse che votano le leggi, che votano le spese, che votano le entrate. La vera situazione dei conti si nasconde in un ciborio recondito, entro cui penetra l'occhio di un piccolo numero di uomini espertissimi: quasi sempre i grandi sacerdoti [ ... ] che si palleggiano il potere e che sono perciò tenuti, anche nelle loro contese, alla maggiore riserva4•

L'evidente attualità del pensiero dei due autori citati conferma che tuttora a scrivere la storia fiscale del paese sono le regole che il sistema politico e amministrativo si è dato per l'approvazione, la gestione e il controllo dei bilanci delle amministrazioni pubbliche. Nelle pagine che seguono, per approssimare il racconto alle vicende della storia fiscale del paese e per collocarvi gli avvenimenti del 19 89-94, oltre alla narrazione di alcune vicende politiche e parlamentari, si fa ricorso agli abituali indicatori di finanza pubblica, a loro volta assunti come proxy della storia stessa e, tra questi, una parti­ colare attenzione viene riservata allo stock del debito pubblico in percentuale del P I L nazionale. Ciò premesso, mi domando oggi se la ricostruzione di questa complessa e intri­ cata storia - che si è snodata a partire dal 1989 - concorra a far dire, insieme ad altro, che la transizione non è ancora finita, anche perché (spogliate di tulle le fallaci ideologie e senza false retoriche) la stessa storia fiscale degli anni 1989-94 pare che si stia ripetendo con le medesime regole della politica negli anni successivi, e pertanto sostanzialmente uguale a sé stessa o con variazioni di percorso del tutto momentanee. Ne è testimone la prassi politica, di fatto avviata e perfezionata con accentuata frequenza a partire dal 1992-9 3, di porre la questione di fiducia per l'approvazione delle cosiddette "manovre di finanza pubblica". Prassi, quest'ultima, lo si vedrà più avanti, che sancisce di fatto il divorzio unilaterale tra Parlamento e governo, seppure in assenza dei contropoteri del Parlamento necessari per l 'equilibrato confronto sui problemi della finanza pubblica o, per dirla con Schumpeter, sullo « scheletro dello Stato » . Come si argomenta nel seguito di queste pagine, appaiono non più rinviabili provvedimenti radicali che, per uscire dalla Repubblica in transizione, mutino le regole e le prassi adottate dal sistema politico e amministrativo per imprimere (se la politica lo volesse, ma si dubita) una svolta alla storia fiscale del nostro paese. La F I G . 1 - da assumere con ogni cautela in quanto pone a confronto (con scale 4·

Puviani, Teoria della illusionefinanziaria, cit., pp. 160

92-4.

LA R E P U B B L I CA I N T RANS IZI ONE ( 1 9 8 9 - 9 4) FIG URA I

Debito pubblico e pressione fiscale delle amministrazioni pubbliche (in % del P I L)

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Pressione fiscale (tributi + contributi)

Fonte: Archivio di Prometeia, Bologna.

diverse) l 'evoluzione di un flusso (le entrate), con quella di uno stock ( il debito pubblico) - mostra che nel corso degli anni 19 88-2.009 le entrate pubbliche hanno quasi sempre soltanto "inseguito" la crescita dello stock del debito. D'altronde, in presenza di un valore della pressione fiscale (PT, circa 41-42.% del PIL) quasi sempre pari a oltre un terzo del rapporto tra debito pubblico e PIL ( n , nell'intorno del 105% del PIL), la ricerca e l'imbocco della via della "soluzione finale" tramite nuove fonti di entrata erano già allora ragionevolmente e dimensionalmente preclusi, sia per gli effetti di impatto sull 'economia reale sia per la loro retroazione sul rapporto debito pubblico-PIL. Si conferma così, in omaggio al realismo dei numeri, che non può essere la sola politica tributaria - che modifica al margine i flussi di entrate - a essere idonea a , dare una svolta alla fiscalità dell Italia, riducendo significativamente lo stock del debito pubblico nel breve periodo. Nel medio periodo, soltanto una accorta gestione (politicamente dolorosa) che mantenga costante nel tempo un avanzo di bilancio può concorrere, con contenuti effetti di retroazione sul PIL, alla stabilizzazione, prima, e alla riduzione, poi, dello stock del debito pubblico, dando così una svolta duratura alla stessa storia fiscale. Ciò che la storia fiscale pare mostrare è quanto non sia stato percorribile (nei primi anni Novanta, come oggi) tentare di imprimerle una svolta con la ricerca della "soluzione finale" (one shot) dei problemi posti dal livello del debito pubblico italiano e dal suo onere (la spesa per interessi passivi) sul bilancio dello Stato : che si trattasse

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di larvate ipotesi di consolidamento del debito o di informali proposte per una imposta straordinaria sul patrimonio (come sollecitava Bruno Visentini a cavallo degli anni Ottanta e Novanta) . Ricorderà a questo proposito Guido Carli (amico di Bruno Visentini) che le ani­ mate discussioni con Visentini « spogliate degli artifizi verbali, portavano sempre lì : alla ristrutturazione forzosa del debito pubblico » e che « operazioni di questo tipo sono possibili soltanto in un regime come quello che consentiva il massacro a bastonate in pieno centro di Roma, a via Crispi, di una persona del valore di Giovanni Amendola » 5• Ancora più tardi, nel 1994, Bruno Visentini, a fronte del debito pubblico che aveva raggiunto il 1 20% del P I L , tornò a prefigurare una imposta patrimoniale o qualche altro intervento straordinario che desse corpo alla soluzione dei problemi posti dal debito6• Proposte analoghe invece erano già scomparse dal linguaggio della politica in occasione delle manovre di bilancio del 19927, per riapparire inopinata­ mente nell 'estate del 2010. Va osservato a questo proposito che ciò che oggi pare non consigliare la ricerca della soluzione (spesso ventilata e mai articolata) sono le condizioni di stabilità finanziaria e di bassi tassi d'interesse consentite dalla moneta unica europea. Ciò che rileva, infatti, non è tanto la dimensione del debito su cui intervenire drasticamente, quanto la sua dinamica nel tempo. Ma uno stock del debito pubblico che si mantiene nel tempo costante in percentuale del P I L non costituisce un indicatore di instabilità finanziaria, bensì soltanto la base su cui calcolare la spesa pubblica per interessi pas­ sivi che, si noti, negli anni Novanta si è dimezzata passando da circa il 12% del P I L a meno del 6% dello stesso. Nelle condizioni di stabilità finanziaria dovuta all' ingresso dell'Italia nell'euro, è la politica monetaria che, guidando i tassi di interesse, concorre principalmente a determinare la spesa pubblica per interessi passivi. Ma a questo fine la politica mone­ taria non deve essere lasciata sola. Oggi, riguardando la nostra storia fiscale, non rintracciamo nulla di assimilabile al "divorzio" tra il Tesoro (Andreatta) e la Banca d' Italia (Ciampi) che, esimendo la Banca centrale dal garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal Tesoro, sancì la « separatezza delle responsabilità » tra potere legislativo, esecutivo e monetario, e impresse una svolta radicale alla politica monetaria per la stabilità finanziaria dell' Italia8 • Tuttavia, come molti ricorderanno, al "divorzio" di allora e ai comportamenti G. Cadi, Cinquant'anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari I993· p. 386. 6. Cfr. C 'e un nuovo piccolo partito. Quello dei fans dell'imposta patrimoniale, in "Corriere della Sera", 2I febbraio I994· ove si faceva esplicito riferimento a Visentini come capo dei fans. 7· Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XI Legislatura. Discussioni, resoconto stenografico, sedute del 7 -Io ottobre I992. 8. Cfr. L 'autonomia della politica monetaria. Una riflessione a trent 'anni dalla lettera del ministro S·

Andreatta al governatore Ciampi che avvio il "divorzio" tra il Ministero del Tesoro e la Banca d'Italia, Atti del Convegno

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Roma, IS febbraio 20u. 162

LA REPUBB L I CA IN T RANS IZI ONE ( 1 9 8 9 - 9 4)

non accomodanti della Banca d' Italia, che avrebbero consentito al tasso d 'interesse di riprendere il suo ruolo chiave per la determinazione delle condizioni di equilibrio nel mercato monetario e finanziario, avrebbe dovuto seguire un comportamento parimenti non accomodante: un nuovo "divorzio" tra Tesoro e Parlamento nella gestione della politica di bilancio teso a non creare nuovo debito pubblico, prima, e a ridurlo, poi. Una separazione pensata per non lasciare alla sola Banca d' Italia la responsabilità di perseguire la stabilità finanziaria, che è bene pubblico di cui bene­ ficia l'intera collettività. Ma ciò non avvenne. Si aggiunga che tale separazione (ovvero una riscrittura delle regole della politica funzionale al raggiungimento dell'equilibrio del bilancio) fra le responsabilità del governo, del Parlamento e delle amministrazioni - nelle distinte funzioni di predi­ sposizione del bilancio, di gestione, di rendicontazione dello stesso e di controllo dei risultati - avrebbe fatto cadere definitivamente ogni compromissione e irresponsabi­ lità nella complessiva gestione della finanza pubblica. Comportamenti questi, favoriti dalle regole della politica, che generarono un contesto in cui tutti gli attori furono egualmente responsabili affinché nessuno fosse reo dei nuovi fabbisogni pubblici e dei correlati effetti sulla stabilità finanziaria e sui tassi d ' interesse del debito. Evitando così la situazione per cui «il malumore popolare non sa con chi prendersela; non trova un capro espiatorio alle sue sofferenze » 9•

2.

I governi della prima transizione: fibrillazione politica, otto governi, tre legislature in otto anni Poiché il termine della x Legislatura è di norma assunto, seppure con l'arbitrio di ogni scansione temporale, per segnare la fine della Prima Repubblica, la TAB . I distingue i governi a seconda che appartengano al periodo finale della Prima Repub­ blica oppure a quello che avrebbe dato l'avvio alla transizione verso la Seconda. Nella stessa TA B . I sono state riassunte le multiformi coalizioni politiche che sostennero i diversi governi insieme ad alcuni indicatori di finanza pubblica che segnarono successi e insuccessi nella storia fiscale scritta dai governi medesimi. Nel I99I-92 la fine della Prima Repubblica aveva consegnato all' Italia un livello di pressione fiscale ( PT imposte, tasse e contributi sociali) che era salito al 4I,9% del P I L , superiore alla media dei paesi CE (4o%), e un prelievo obbligatorio che gravava sul lavoro pari alla media C E ( 23,5%)10, assai sbilanciato a danno del lavoro dipendente stante l'evasione nel comparto del lavoro autonomo. =

9· Puviani, Teoria della illusione finanziaria, cit., p. 223. IO. Commissione europea, Libro bianco. Crescita, competitivita, occupazione. Le sfule e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo, COM (93) 7 0 0, dicembre I993, pp. I6o-I.

I

(giugno I9S7-aprile If)!J2)

Legislatura (aprile I992-gennaio I994)

Legislatura (marzo I994-febbraio If)f)O)

Pomi cino

Pomicino

Cadi

Cadi

Dini

D in i

Barucci

Masera

Paglierini

Spaventa

Reviglio

Fanfani

Amato

Barucci

Colombo

Bilancio

Amato

Tesoro

Fantozzi

Tremonti

Gallo

Goria

Formica

Formica

Colombo

Gava

Finanze

Draghi

Draghi

Draghi

Draghi

Draghi

Draghi

Sarcinelli

Sarcinelli

DGT

Monorchio

Monorchio

Monorchio

Monorchio

Monorchio

Monorchio

Ruggeri

Ruggeri

RGS

120,9

121,8

121,6

115,6

105,2

98,0

93,1

90,5

D

l

l

41,6

40,8

42, 8

42,9

l

5 2.,6

53,8

53,8

s 6,6

l

41,1

42,4

4 2 ,4

44,0

4 3,4

l

55,5

l

43,0

54,3 39,4

41,9

42,8

42,5

SP

51,9

5 0,8

ST

37,3

36,5

PT

Fonte: http : / /www.governo.it, Banca d ' Italia, conti delle amministrazioni publiche, anni vari.

Legenda:

DGT = Direzione generale del Tesoro; RGS = Ragioneria generale dello Stato ; D = debito pubblico ; PT = pressione tributaria e contributiva ; ST = spesa totale delle amministrazioni pubbliche ; SP = spesa primaria delle amministrazioni pubbliche.

Coalizione: Indipendenti

Dini (gennaio 1995-maggio 1996)

I Berlusconi (maggio 1994-gennaio 1995) Coalizione: Fl, LN, AN, CCD, UDC

XII

DC, PSI, PSDI, PLI

(aprile If)f)J-maggio I!J94 )

Coalizione :

Ciampi

I Amato (aprile 1992-aprile 1993) Coalizione : DC, PSI, PSDI, PLI

XI

I Goria (luglio 1987-aprile 1988) Coalizione : DC, PSI, PSDI, PRI, PLI I De Mita (aprile 1988-luglio 1989) Coalizione : DC, PSI, PSDI, PRI, PLI VI Andreotti (luglio 1989-aprile 1991) Coalizione : DC, PSI, PSDI, PRI, PLI VII Andreotti (aprile 1991-aprile 1992) Coalizione : DC, PSI, PSDI, PLI AVVIO DELLA TRANSIZIONE INFINITA

x Legislatura

GOVERNO

Coalizioni governative e finanza pubblica (in % del PIL) - 2.00 8

TAB ELLA

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La stabilizzazione della pressione tributaria ( PT ) , la sua più equa ripartizione tra i redditi, la riduzione e la ricomposizione della spesa pubblica primaria ( SP ), J' azze­ ramento del disavanzo primario, che anno dopo anno accresceva lo stock del debito ( n ) , non parevano opzioni politiche impossibili (anche se dolorose) . Dopo il 1991 l'attivismo sul lato della politica fiscale ( PT, dal 4 1,9 a quasi il 43% del P I L nel 1994) non fu accompagnato da analogo attivismo per la riduzione della spesa primaria ( S P, vero e proprio zoccolo duro del bilancio) che passò appena da circa il 43 al 42,4% nel 1994. Si potrebbe sostenere che, facendo leva sull ' illusione finanziaria dei contribuenti, l'aumento delle entrate tramite l'attivismo fiscale viene reso politicamente più agevole sia dalla carenza di informazioni dettagliate (caso di asimmetria informativa tra governo, Parlamento e contribuenti) , sia dalla presenza degli evasori fiscali indiffe­ renti a tutto o in parte all 'attivismo tributario, sia dal fatto che di norma tale atti­ vismo è presentato come necessario per il finanziamento di una maggiore spesa pubblica (o per il suo mantenimento) che ritorna alla collettività dopo avere pagato le imposte. Invece il taglio delle spese non ha contropartita diretta, se non quella di allontanare una minaccia, che molti non percepiscono, come la crescita del debito pubblico, che pare lontano ai più. Spiegava bene Puviani: l' «illusione per occultamento degli effetti penosi imme­ diati dell ' imposta e i modi coi quali l'occultamento è ottenuto. Tra questi modi figura lo sminuzzamento dell 'imposta » , che oggi, con riferimento alla politica tributaria, non soltanto degli anni Novanta, chiameremmo lo « sminuzzamento della manovra tributaria in tanti tributi non immediatamente correlati tra lor0 » 11• Si aggiunga infine che la composizione della spesa totale ( sT ) rimase sostanzial­ mente identica tra il 1991-93 e il 1994-96. Oltre il 75% della spesa era costituito da quella per il personale dipendente (22%), per le prestazioni sociali in natura e in denaro (33%), per gli interessi passivi (21%) 11; contribuendo a occultare la penosità per i contribuenti dovuta all 'attivismo tributario. « Servigi pubblici che attenuano il peso dell' imposta » , commenterebbe oggi Puviani. È però vero che la storia fiscale dell ' Italia aveva (e ha) radici lontane, sancite dalle regole della politica e conficcate nelle prassi burocratiche che si sono stratificate nel corso degli anni in assenza di ogni prassi di revisione analitica delle leggi di spesa. Revisione che sarebbe stata richiesta dal mutare nel tempo delle condizioni demo­ grafiche e socioeconomiche poste all'origine delle prime leggi di spesa per il welfare di tipo universalistico e per l'assistenza alle imprese pervicacemente indisposte a crescere dimensionalmente. Si aggiunga che le opzioni politiche che orientano l 'erogazione della spesa Puviani, Teoria della illusione finanziaria, cit., pp. 28-9 e 22. I2. Cfr. Ministero dell' Economia e delle Finanze, Libro verde sulla spesa pubblica, Roma, 6 set­ tembre 2007, p. I3. 1 1.

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F I L I P P O CAVAZZUTI

pubblica sono spesso condizionate dai tentativi dei diversi gruppi di interesse e delle lobby di o ttenere programmi di spesa pubblica in loro favore in modo indi­ stinto per tutti gli appartenenti alla categoria o alla lobby che saldano tra loro Parlamento e governo; leggi di spesa che, una volta approvate, si protraggono nel tempo senza subire revisio ne alcuna e godendo anche dell'approccio incrementale. E non si trascuri che la forte sperequazione nella distribuzione dei redditi netti, aggravata dalla massiccia evasione fiscale, e la scarsa mobilità sociale fanno sì che l'elettore medio appartenga alle classi di reddito medio-basse (che paga le imposte con ritenuta alla fonte) le quali, a loro volta, sollecitano i trasferimenti pubblici a loro favore e il godimento di nuovi diritti da esercitare sui flussi di spesa pubblica, nel vano tentativo di ridurre la distanza del loro benessere rispetto a quello degli . evaso n .

3 Il contesto macroeconomico Il giudizio sulla storia fiscale scritta dai governi degli anni 1989-94 non può in ogni caso prescindere dalla considerazione della crisi finanziaria (allora di natura endogena, ovvero creata con le nostre stesse mani) che segnò e condizionò quegli anni; in ogni caso vincolata dalla sottoscrizione, il 7 febbraio 1992 a Maastricht, del Trattato sui criteri di convergenza della finanza pubblica. Fu la minaccia della crisi finanziaria che orientò l'azione di governo in due dire­ zioni distinte: quella con effetti diretti sui bilanci pubblici e quella sulle condizioni finanziarie degli enti delle partecipazioni statali. Ma, come si vedrà, le minacce più forti da contrastare vennero non tanto dai disavanzi pubblici quanto dalle condizioni quasi fallimentari degli enti delle partecipazioni statali (IRI, EFIM, ENEL) e della FEDIT-Federconsorzi. Condizioni finanziarie che i mercati finanziari internazionali consideravano al pari di event of default. Infatti, lo spread tra il Bund tedesco a dieci anni e il corrispondente BTP italiano decennale (spread di oltre s o o punti base all 'inizio del 1991 ) costituiva allora (come oggi) la più evidente misura della fiducia/sfiducia che gli speculatori domestici e internazionali mostravano nei confronti della grave instabilità finanziaria dell 'eco­ nomia italiana e delle difficoltà politiche che i governi dovevano affrontare per superare la crisi stessa in un contesto di liberalizzazione di mercati. Infatti, all 'inizio del 1990 fu realizzata la completa liberalizzazione valutaria e finanziaria che consentì di detenere valuta di qualunque ammontare e tipo dei 12 paesi allora costitutivi della CEE. Il 1° gennaio 1993 fu data attuazione al Mercato unico europeo, facendo cadere le barriere alla libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali. Si temeva allora, così come registrava lo spread tra Bund e BTP, che se non fosse stata imboccata con rapidità la via del risanamento finanziario, il saldo della 166

LA REPUBB L I CA IN T RANS IZI ONE ( 1 9 8 9 - 9 4)

bilancia dei pagamenti italiana avrebbe continuato a deteriorarsi, soprattutto per i deflussi netti di capitali italiani che, nel corso dei primi mesi del 1992, raddoppia­ vano ogni mese13. Poche cifre riferite all'anno 1991, se confrontate con quelle di altri paesi europei, descrivono lo stato di instabilità finanziaria dell'economia italiana: un valore dell 'in­ debitamento netto delle amministrazioni pubbliche pari all' I I,4% del PIL (2,1% in Francia, 2,8% nel Regno Unito e 3,2% in Germania) sostanzialmente identico al peso della spesa per interessi passivi ( I I,3%); un rapporto tra debito pubblico e PIL pari al 97%; l'inflazione nell' intorno del 6,s% (3,2% in Francia, 3,5% in Germania e in rapida decelerazione nel Regno Unito, dal s ,8 al 3,7% tra il 1991 e il 1992) . Malgrado il "divorzio" di dieci anni prima tra il Tesoro e la Banca d ' Italia, il livello dell' indebitamento netto costringeva la Banca d ' Italia (lasciata sola) a inter­ venire discrezionalmente in occasione delle aste dei titoli del Tesoro. Come già detto, altri eventi, che a buona ragione fanno parte delle vicende della fiscalità di quegli anni, vanno ricordati poiché anch'essi dovettero essere affrontati con affannosa rapidità per contenere gli effetti dell 'incombente crisi finanziaria che portò all 'uscita, nell 'autunno del 1992, dell' Italia dagli accordi di cambio (sME) : a ) la grave situazione finanziaria degli enti delle partecipazioni statali emersa tra la fine degli anni Ottanta e l' inizio degli anni Novanta. Alla fine del 1991 il patrimonio netto di IRI, ENI ed ENEL era di appena 74.000 miliardi contro debiti finanziari lordi che superavano i I Is .o o o miliardi. La minaccia di crisi finanziaria, insieme ai divieti comunitari degli aiuti di Stato, rese non percorribile, ancora una volta, la via della ricapitalizzazione degli enti a carico del bilancio pubblico : il premio al rischio sull'insostenibilità del debito pubblico italiano (misurato dallo spread tra Bund tedesco e BTP a dieci anni) sarebbe schizzato verso l 'alto accrescendo la spesa per . . . . Interessi passivi ; b) lo scandalo della FEDIT-Federconsorzi (commissariata nel giugno 1991 con pas­ sività correnti stimate nel 1990 in oltre 4.300 miliardi di lire) 14• Tale commissaria­ mento fu tanto improvviso quanto minaccioso della stabilità finanziaria del paese. Si scoprirà che la FEDIT non soltanto era già tecnicamente fallita da tempo, ma anche pesantemente esposta nei confronti del sistema bancario italiano (2.381 miliardi) e straniero ( 667 miliardi) . A seguito del commissariamento il sistema bancario revocò tutti i fidi, pur confidando sull ' intervento pubblico a garanzia degli stessi; c) la liquidazione dell' EFIM, per il quale sui mercati finanziari internazionali si temeva che la nuova società per azioni, cui erano stati vietati nuovi aiuti di Stato, non fosse in grado di onorare i suoi debiti. Tre ministri del governo Amato (Barucci al Tesoro, Reviglio al Bilancio e Guarino all ' Industria) furono così costretti a dichiaI3. Banca d' Italia, Relazione annuale, Roma I993, p. 1 1 7. I4. Senato della Repubblica, Camera dei deputati, Commissione parlamentare d' inchiesta sul dissesto della Federazione italiana dei consorzi agrari, Relazionefinale, marzo 200I, pp. 52 e 8 I-2.

F I L I P P O CAVAZZUTI

rare (ottobre I992) in sede di conversione del decreto legge che poneva in liquida­ zione l'EFIM (guidato dal socialista Gaetano Mancini), che i debiti contratti dall' EFIM stesso (circa 9.ooo miliardi di lire) e dalle società controllate al Ioo% sarebbero stati integralmente riconosciuti dallo Stato, ponendo sullo stesso piano di parità le banche italiane e quelle estere, non intendendo violare la par condicio creditizia.

4 I provvedimenti del 1992-9 3 : punti di svolta della storia fiscale ? La storia scritta dal governo Amato nel I992 prese, come già detto, due distinte direzioni necessitate dali ' incombente crisi finanziaria: a) quella che riguardò direttamente le grandezze della finanza pubblica che fece ricorso, dopo i decreti legge di luglio-agosto I992, a tre nuovi strumenti - un nuovo decreto legge, la legge delega e la legge finanziaria - e fu ufficialmente stimata in 34.000 miliardi di lire di maggiori entrate, 5 2.000 miliardi di minori spese e 7.ooo miliardi di proventi da dismissioni; b) quella che dovette affrontare la crisi finanziaria degli enti delle partecipazioni statali, di cui diremo più avanti. 4.1.

I P ROVVEDIM ENTI RELAT IVI ALLE ENTRAT E

In parte previsti nella legge delega in materia di finanza locale e in parte nel decreto legge, i provvedimenti del governo Amato riguardarono : il condono per le imposte dirette e indirette; le imposte patrimoniali straordinarie sugli immobili e sui depositi bancari e postali; la rivalutazione obbligatoria degli immobili delle imprese; l' innal­ zamento di un punto dell 'aliquota dell'IRPEF sugli scaglioni di reddito superiori al secondo e il ripristino per gli stessi scaglioni dei limiti in vigore dal I989; gli aumenti degli acconti IRPEF; l' istituzione di due imposte sull'erogazione dell'energia elettrica; l'attribuzione della tassa automobilistica alle Regioni a statuto ordinario nonché della sopratassa prevista per gli autoveicoli azionati con motore diesel e della tassa speciale dovuta per gli autoveicoli a GPL o a gas metano ; altri interventi minori. Si trattò di un cocktail di misure ( « sminuzzamento dell' imposta » , direbbe Puviani) con effetti una tantum e di altre misure ritenute dotate di capacità struttu­ rali, ma i cui effetti una tantum furono prontamente riassorbiti. Sul lato del contenimento della spesa, si stimava che i risparmi provenissero principalmente da tre settori (sanità, pubblico impiego e previdenza) delle "quattro deleghe" al governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale. Come si legge nella relazione di maggioranza in occasione della discussione 168

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generale alla Camera dei deputati sul disegno di legge delega ( in data 7 ottobre 1992), «la manovra varata dal governo [ ... ] è così fondata sul contenimento delle spese e sui tagli [ . . . ] nel contesto del risanamento della finanza pubblica e della riorganizza­ zione dei servizi in termini di efficienza e di riequilibrio » 15• Le tre deleghe che in questa sede interessa considerare sono illustrate di . segutto. a) Il settore della sanità, ritenuto ingovernabile, costoso e inidoneo a garantire una complessiva riqualificazione del servizio. A tal fine le proposte riguardarono «la rideterminazione in profondità del livello delle prestazioni sanitarie, delle forme di partecipazione alla spesa da parte dei cittadini e dei criteri di erogazione delle pre­ stazioni gratuite [ ... ] , la riforma dei rapporti interni al sistema [ ... ] la regionalizza­ zione dell'organizzazione e della programmazione dell'assistenza sanitaria » 16• Ma si domanderà (nel 1992) a proposito della regionalizzazione della sanità, Sabino Cas­ sese : « Questa proposta è stata fatta considerando la struttura dei poteri periferici ? Nel paese abbiamo regioni che già oggi non riescono a gestire le loro competenze. Alcune non fanno i loro bilanci da dieci anni e non li comunicano ai ministeri competenti [ . . . ] La verità è che ci vuole una classe dirigente diversa » 17• Certo è che non seguirono il ricambio della classe dirigente, la rivisitazione analitica dei pro­ grammi di spesa sanitaria che costituiscono circa l ' 8o% della spesa regionale e nep­ pure la responsabilizzazione dei soggetti politici abilitati a spendere. Pare che ciò valga anche per l'oggi in continuità con la storia fiscale della Prima Repubblica. b) La progressiva privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico mediante il ricorso a forme di contrattualizzazione del pubblico impiego e il riordino della dirigenza pubblica. Per contenere la spesa pubblica furono previste, tra l 'altro, «diverse dispo­ sizioni dirette a porre sotto controllo sia la componente contrattuale, sia quella derivante attualmente dagli automatismi di legge, dall' indennità di contingenza e dagli aumenti di organico che contribuisce a costituire la spesa globale [ . . . ] , sia in materia di assunzione e distribuzione del personale, con particolare riguardo di pro­ cedere a nuove assunzioni prima della rideterminazione delle piante organiche » 18• Ma la delega in esame prevedeva alcune deroghe che fecero osservare (più tardi nel Libro verde sulla spesa pubblica19) che la politica tesa a contenere la spesa per il per­ sonale, che dagli anni Ottanta ipotizza il blocco del turnover nelle amministrazioni pubbliche limitando le assunzioni a tempo indeterminato, è vanificata dalle deroghe concesse dal governo prima e dopo l'esame parlamentare, dalla proliferazione di successivi interventi speciali, dall'offerta di precariato (che poi viene assunto a tempo

IS. Atti Parlamentari, cit., p. 4I 48. I6. Atti Parlamentari, cit., passim. I7. S. Cassese, Senza classe dirigente, in "li Mondo", I6 novembre I 992. I 8. Atti Parlamentari, cit., passim. I9. Cfr. Ministero dell' Economia e delle Finanze, Libro verde sulla spesa pubblica, cit., p. 98.

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indeterminato) da parte delle amministrazioni, dagli emendamenti parlamentari (casomai per suggerimento ministeriale) che introducono nuove deroghe. Tutto ciò ha portato a risparmi quasi nulli e ad una ulteriore irrazionalità nel pubblico impiego. Ancora in continuità con la Prima Repubblica. c) Il riordino del settore previdenziale con l'obiettivo della stabilizzazione della spesa in percentuale del P I L . In questa direzione, in particolare, vanno le norme che prevedono l'elevazione del limite di età sufficiente per ottenere l'erogazione della pensione di vecchiaia, le modifiche ai criteri di calcolo della retribuzione pensiona­ bile, la graduale soppressione delle norme di pensionamento anticipato, la revisione del sistema di adeguamento automatico delle pensioni, l ' innalzamento del periodo contributivo per la corresponsione della pensione di anzianità. Fu questo l' intervento più contestato dalle opposizioni e dai sindacati; contesta­ zioni in Parlamento rese ancora più acute dal fatto che il governo aveva posto la questione di fiducia, motivandola con l'urgenza della crisi finanziaria. A fronte delle dichiarazioni del ministro Reviglio ( « si tratta di misure urgenti nell'attuale situa­ zione finanziaria, necessarie soprattutto per i loro effetti di medio periodo » 10), gli atti parlamentari riferiscono giudizi che, pur riconoscendo la gravità della crisi finan­ ziaria, adottano espressioni del tipo : « norme che stravolgono norme vigenti e rica­ dono pesantemente sui diritti dei cittadini » 11; « vi è una campagna [ ... ] contro il movimento sindacale, indicando nella protesta legittima dei lavoratori uno dei fattori di aggravamento della crisi finanziaria » ll. Seppure contestata, la delega in materia di previdenza è stata l'unica che, met­ tendo in discussione e rivedendo alcuni diritti dei cittadini, costituì un vero punto di svolta, poiché imboccò una via che, nel lungo periodo, è stata seguita anche da altri governi. Rimase irrisolto, invece (allora come oggi), il problema politicamente assai doloroso della confusione tra previdenza e assistenza. Certo è, come risulta dagli atti parlamentari della Camera dei deputati1\ che la fiducia posta dal governo consentì alle opposizioni di esimersi dall'entrare nel merito dei provvedimenti e di indulgere sulla questione più propriamente politica della richiesta di fiducia da parte del governo, e alla maggioranza di non sottoporre ad attento scrutinio parlamentare le proprie proposte 4.2.

LE S C ELT E D ELLA P O LITICA D ELLE P RIVATIZZAZIONI

Le scelte che guidarono la politica delle privatizzazioni possono essere opportunamente cosi nassunte: \

.

20. Atti Parlamentari, cit., p. 4I88. 2I. F. Crucianelli, ivi, p. 4I82. 22. M. D'Alema, ivi, p. 4I90. 23. Atti Parlamentari, cit., p. 4ISI. 1 70

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) la trasformazione immediata (secondo il progetto originario del ministro Gua­ rino), nei mesi di luglio-agosto del 1992 mediante decreto legge, in società per azioni degli enti delle partecipazioni statali (IRI, ENI, ENEL). In questa direzione andarono le norme che iniziarono la politica delle dismissioni delle partecipazioni azionarie nelle mani pubbliche, che si riteneva potessero fruttare circa 7.ooo miliardi già nel corso del 1992 (fruttarono poco più di 1.ooo miliardi); b) l'accordo tra il ministro degli Esteri Andreatta e il Commissario europeo alla concorrenza, il belga Van Miert, siglato nell'estate del 1993, che pose le condizioni per ridurre l 'esposizione al rischio di default dell'IRI trasformata in S.p.A. L'accordo - vero e proprio motore delle privatizzazioni - impose all ' Italia di quantificare entro la fine del 1993 l' indebitamento degli enti trasformati in S.p.A. e statuiva che tale ammontare sarebbe diventato il limite massimo entro il quale lo Stato (socio unico) sarebbe stato illimitatamente responsabile; c) dopo il 1992, l'avvio più deciso delle cessioni delle partecipazioni (in ottempe­ ranza dell'accordo Andreatta-Van Miert) detenute negli enti trasformati in S.p.A., che tra il 1992 e il 1995 generò incassi per oltre 18.ooo miliardi di lire di cui circa 15.000 di spettanza del Tesoro dovuti alla cessione di suoi pacchetti azionari dete­ nuti da IRI, INA, IMI ed ENI . Dato il livello dello stock del debito, tali incassi non ne modificarono l'andamento. Furono cessioni di partecipazioni che, eliminando la responsabilità del Tesoro, ebbero anche l'effetto che la trasformazione in S.p.A. dell'IRI per decreto legge non si trasformasse, come si diceva allora, in event of default dell' I RI stessa. Va tuttavia ricordato che anche la politica delle privatizzazioni, in un contesto politico in perenne fibrillazione, ebbe un avvio contraddittorio e incerto quando (a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta) non si volle tenere conto delle evidenti condizioni della finanza pubblica e dei vincoli comunitari. L'ultimo governo Andreotti ( Carli al Tesoro e Pomicino al Bilancio) , infatti, da un lato ragionò sull'opportunità delle privatizzazioni tramite la trasformazione giuridica (facolta­ tiva e avversata dai vertici delle partecipazioni statali) degli enti pubblici in S.p.A., dall 'altro autorizzò l' I RI (con la legge 7 febbraio 1991, n. 42) a emettere prestiti obbligazionari per 8.450 miliardi di lire con garanzia dello Stato, sino alla concor­ renza di 7.200 miliardi, per il rimborso del capitale e un contributo del 4% in conto interessi. Autorizzazione che fu data anche sotto la pressione dei vertici dell ' I RI che ritenevano (nel gennaio del 1991 ) tale il provvedimento di un valore essenziale per l 'equilibrio economico-patrimoniale dell' istituto . Seguì un decreto del ministro del Tesoro Carli (8 aprile 199 1 ) , non registrato dalla Corte dei conti che impugnò anche per « illegittimità costituzionale » la stessa legge 42/ ! 9 9 1, e con questa i provvedimenti che autorizzavano non soltanto l' I RI (presieduto da Franco Nobili) , ma anche l' EFIM (presieduto da Gaetano Mancini) a contrarre prestiti per circa 1o.o o o miliardi di lire associati, come già detto, a un consistente contributo dello Stato. Alla fine non se ne fece quasi più nulla poiché l 'accordo

a

171

F I L I P P O CAVAZZUTI

Andreatta-Van Miert aveva reso impossibili tali interventi a favore delle imprese pubbliche trasformate in S.p.A. Si deve riconoscere tuttavia che i provvedimenti adottati per dare avvio alla politica delle privatizzazioni costituirono un vero e proprio punto di svolta con effetti irreversibili sui rapporti tra pubblico e privato, tra Stato e mercato, ma furono assai meno rilevanti per la storia fiscale dell ' Italia, come si argomenterà più avanti. Forse le privatizzazioni costituirono l'occasione per distrarre l'attenzione delle forze poli­ tiche dalla necessità di contenere la spesa pubblica primaria. In sintesi, la considerazione dei risultati ottenuti sull 'andamento della finanza pubblica dovuti ai provvedimenti descritti mostra che: le entrate raggiunsero il picco di quasi il 43% del PIL nel I993-94 per poi ridiscendere a circa il 4I% nel I994-9 5 ; la spesa per interessi passivi crebbe dall' 1 1,5% del I 9 9 2 al I2,I% del I993; le prestazioni sociali rimasero di fatto costanti ( I9,3-I9,5% del PIL), come le spese per i dipendenti (I 2,7- I 2,5% del PIL)l4; il debito pubblico superò il 120% del PIL nel I994-95 · In conclusione, si rammenta che entrambe le linee di intervento furono affrontate e concluse in Parlamento con il governo che pose la fiducia per l'approvazione dei rispettivi provvedimenti di legge, sancendo di fatto il "divorzio unilaterale" tra Par­ lamento e governo, non accompagnato tuttavia da adeguati contropoteri del Parla­ mento stesso.

s

Quali strumenti per il controllo, la gestione e la conoscenza della finanza pubblica ? S·I.

DAL DIVORZIO D I FATTO A L D IVORZIO D I LEG G E

A fronte dei risultati prima esposti, ci si può domandare se si disponesse allora (e si disponga oggi) sia di qualche separatezza tra le responsabilità del Parlamento e quelle del governo, sia degli strumenti di controllo e di conoscenza della finanza pubblica tali da rendere coerenti le scelte politiche (riduzione dei disavanzi pubblici per con­ tenere e ridurre lo stock del debito pubblico) con i risultati attesi, e se le manovre di bilancio si basassero su rendiconti trasparenti, sulla responsabilizzazione delle buro­ crazie deputate ad amministrarli e dei soggetti politici sovrastanti; oppure se allora, come oggi, il bilancio dello Stato «dice assai più o assai meno come si vuole » l;. In altre parole ci si deve domandare, a fronte del divorzio di fatto tra Parlamento e governo, quali fossero le regole della politica per l'esame, la gestione e il controllo della finanza pubblica. 2 4. 25.

Banca d' Italia, Relazione annuale, I 9 97, pp. I S7 ss. Puviani, Teoria della illusione finanziaria, cit., p. 92.

LA REPUBB L I CA IN T RANS IZI ONE ( 1 9 8 9 - 9 4)

Si deve fare risalire al 1988 il primo tentativo di imprimere una significativa svolta alla storia fiscale dell ' Italia che si voleva scrivere tramite nuove regole nei rapporti tra le istituzioni. Molti ricorderanno che si trattò della legge 2 3 agosto 19 88, n. 3 62, di riforma della legge s agosto 1978, n. 468, che modificò ulteriormente le procedure parlamen­ tari per l'approvazione dei documenti di bilancio, nella speranza di poter rendere più trasparente le responsabilità di governo e Parlamento, e con esse la sessione di bilancio e il bilancio stesso, e di meglio controllare la formazione dell 'indebitamento primario (quello al netto della spesa per interessi passivi), che mostrava elevati tassi di crescita, anche se ancora non si discuteva di insostenibilità del debito pubblico (nel 1988 il rapporto debito-PIL non aveva ancora superato la soglia del 90%) . Nel corso del 1988, l'abolizione del voto segreto sulle leggi che comportavano variazioni alle entrate e alle spese pubbliche, che "impallinava" la sessione di bilancio spingendo all'esercizio provvisorio - insieme al Documento di programmazione economico-finanziaria (DPEF) , alla legge finanziaria per l'anno solare successivo e alla nuova programmazione della sessione di bilancio -, avrebbe dovuto, come già si diceva allora, trasformare parlamentari e ministri da un indistinto " branco selvaggio" di cavalieri i mpazzi ti all'assalto dell'ultima diligenza, in "educati cavallerizzi" i mpe­ gnati alla luce del sole in una corsa individuale tesa a superare gli ostacoli procedurali posti alla presentazione degli emendamenti. Ma l'astuzia ( irresponsabile) di ministri e parlamentari (opportunamente suppor­ tati dalle rispettive burocrazie, dai "grandi sacerdoti" altrettanto irresponsabili, e dalle più diverse corporazioni e associazioni di categoria) vinse sugli ostacoli procedurali, mantenendo il corso delle questioni fiscali sui binari di sempre. Stupisce al riguardo quanto ebbe a dichiarare (autoassolvendosi) nel 1992 il Ragioniere generale dello Stato (Andrea Monorchio, uno dei "grandi sacerdoti" deputati al controllo del bilancio dello Stato a capo della Ragioneria generale dello Stato dal 1989 ) : «Lo stato italiano ha le mani bucate » 2.6• Come se lo Stato non comprendesse le funzioni e i comportamenti per l 'appunto della Ragioneria generale. Fu il trionfo della prassi politica (nota come vol-au-vent/volovant, oppure un cencelli per il bilancio pubblico) di chiudere la sessione di bilancio entro il Natale con una ben ponderata distribuzione di fondi pubblici tra i numerosi postulanti di maggioranza e opposizione. Prassi che, data l'opaca compromissione di responsabi­ lità tra Parlamento e governo, risultò ineludibile e determinante (che tutt 'oggi continua) per approvare i testi che poi sarebbero stati raccolti nei cosiddetti "maxi­ emendamenti". E però vero che le poche centinaia di emendamenti presentati nella prima metà degli anni Novanta da maggioranza, opposizione e governo si sono accresciute nel ..

26. "Corriere della Sera",

11

novembre I992. 17 3

F I L I P P O CAVAZZUTI

tempo fino a un multiplo di mille (forma domestica del filibustering di tipo statuni­ tense) , rendendo così operante il "divorzio di fatto", e impossibile e più opaco sia l'esame del testo base sia il loro esame puntuale, mentre hanno reso possibile un 'ap­ provazione sovente legata al caso o all 'astuzia irresponsabile delle istituzioni, che comunque hanno sempre fatto salvo il volovant. Ma il concentrarsi dell'interesse di Parlamento, governo e burocrazie ministeri ali esclusivamente sulle procedure autorizzative delle nuove entrate e delle nuove spese, e non sulla loro gestione minuta in capo ai ministeri e agli altri centri di spesa, fece sì che l'attenzione della politica si astenesse dalla rivisitazione (politicamente dolo­ rosa) analitica dei contenuti delle leggi di spesa esistenti (spending review)l7 i cui volumi si accrescevano via via per effetto del peculiare sistema incrementale rispetto ali' anno precedente. Tale attenzione portava allora (e tutt 'oggi porta) governo, Parlamento, burocrazia e opinione pubblica a concentrarsi sulla dimensione e sulla valenza sociale dei nuovi interventi riduttivi al margine (la politica dei tagli o del rigore) o sulle richieste di risorse addizionali (la politica per lo sviluppo e la crescita), ma distoglieva l ' atten­ zione degli stessi soggetti dall'esame di ciò che avviene nei "rami bassi" dell'ordina­ mento, dalle prassi operative e dai microcontenuti delle leggi di spesa già approvate, i cui effetti costituiscono ancora oggi la quota quasi assoluta della spesa pubblica. Le opzioni politiche di allora, come oggi, privilegiarono la cultura dell 'emenda­ mentol8, assai meno costosa in termini di consenso politico rispetto alla microrevi­ sione dello stock delle leggi di spesa. Attività di spending review che, invece, avrebbe posto l 'attenzione sugli effetti indotti sul bilancio pubblico dalla stratificazione delle leggi passate, dalle responsabilità e dalle prassi di spesa dei ministeri, dalla mappa dei diritti a suo tempo assegnati ai cittadini e alle imprese (ad es. nei settori della scuola, della sanità, della previdenza, degli investimenti pubblici) e dalla loro forza inerziale. In particolare l'attenzione venne distratta dalle leggi che, avendo assegnato alcuni diritti e facoltà ai cittadini, alle imprese e ai più disparati operatori sociali, compor­ tano effetti automatici sul bilancio pubblico qualora tali diritti e facoltà siano eser­ citati e consentiti ai singoli operatori che dispongono del potere di impegnare quote della spesa pubblica (come i medici del Servizio sanitario nazionale, le imprese che ricorrono alla cassa integrazione e alle clausole di revisione prezzi, la decisione indi­ viduale di quando e come esercitare il diritto di andare in pensione di anzianità e così via) . Come si diceva allora, erano tutti soggetti che disponevano della facoltà di staccare un assegno coperto dal bilancio pubblico.

27. Cfr. ad esempio l'esperienza nel Regno Unito: HM, Spending Review 2010, presented to Par­ liament by the Chancellor of Exchequer, October 20IO. 28. Riprendo tale espressione dal mio contributo La cultura dell'emendamento nel volume collet­ taneo di L. Balbo, V. Foa (a cura di ) , Lettere da vicino. Per una possibile reinvenzione della sinistra, Einaudi, Torino I986, pp. 24-35. 1 74

LA REPUBB L I CA IN T RANS IZI ONE ( 1 9 8 9 - 9 4 )

Corollario di ciò fu (ed è) il disinteresse politico di Parlamento e governo per la minuta analisi dei bilanci consuntivi e per il grado di realizzazione degli impegni assunti sia in termini finanziari sia per la realtà sottostante che gli impegni finanziari ambiscono a modificare. Molti ricorderanno anche che la Commissione tecnica per la spesa pubblica costituita dal ministro Andreatta nei primi anni Ottanta, con fina­ lità di verifica dell'efficienza e dell 'efficacia della spesa pubblica, fu sempre avversata dalla burocrazia ministeriale e alla fine soppressa. Più tardi (settembre 2007 ), per iniziativa del ministro Padoa-Schioppa fu proposta l'adozione di prassi di spending reviewl9, ma non se ne fece nulla. Tale attività di spending review, da affidare alla dirigenza delle amministrazioni pubbliche (purtroppo culturalmente e professional­ mente impreparate allo scopo), sarebbe risultata coerente con l 'ipotesi di conteni­ mento dei disavanzi nel medio periodo e idonea a imprimere una svolta radicale alla nostra storia fiscale e alla trasparenza del bilancio pubblico : non più sfinge impene­ trabile che dice ciò che si vuole. In realtà, fu la prassi che portò ieri come oggi al sostanziale divorzio tra Parlamento e governo e all'espropriazione di poteri del Par­ lamento non compensati da pregnanti poteri di controllo. 5.2.

L ' I N C E RT EZZA D E I FA B B I S O G N I P U B B LI C I STIMAT I

Si potrebbe tuttavia eccepire, assumendo prevalente l'esigenza del contenimento dei fabbisogni pubblici, che le continue e successive manovre di finanza pubblica abbiano comunque contenuto gli andamenti tendenziali della finanza pubblica dovuti alla variazione al margine della legislazione in essere. Ma pare che non sia così. Il DP EF, principale strumento per la guida della politica del bilancio, soffriva negli anni Novanta di gravi carenze informative: ad esempio l' impossibilità di confrontare i conti della finanza pubblica utilizzati nello stesso DPEF con quelli esposti nelle Relazioni di cassa del Tesoro. In sintesi, la Relazione di cassa e il D P EF avevano in comune solo la previsione di fabbisogno e non quelle delle entrate e delle spese dalla cui differenza dovrebbe risultare tale aggregato. Si aggiunga che il perimetro del settore statale era assai mobile a seconda che si tenesse conto o meno, ad esempio, delle aziende statali, degli enti assimilati, delle regolazioni debitorie e così via. 5·3·

U N E S EM P I O

Come è ampiamente noto, le manovre di finanza pubblica perseguite negli anni Ottanta e Novanta consistevano nel tentativo di ridurre il fabbisogno del settore statale programmatico rispetto a quello tendenziale: la TA B . 2 mostra, senza bisogno di commenti, che tale obiettivo non è mai stato raggiunto. Dieci anni più tardi, dopo aver abbandonato il concetto di fabbisogno del settore 29.

Ministero dell' Economia e delle Finanze, Libro verde sulla spesa pubblica, ci t. 1 75

F I L I P P O CAVAZZUTI TABELLA 2

Le diverse definizioni del fabbisogno pubblico (miliardi di lire correnti) 1988

1990

199l

1993

Fabbisogno tendenziale

1 22.0 0 0

1 5 0.400

1 6 0. 0 0 0

n.d.

Fabbisogno programmatico

1 1 2 . 237

133.100

1 28 . 0 0 0

1 5 0.0 0 0

1 24 · 4 5 0

1 45.000

1 63 . 0 0 0

170.000

Fabbisogno a consuntivo Fonte: D P EF, anni vari. TABELLA 3

Indebitamento netto dell'amministrazione pubblica (in % del P I L) Anno

Obiettivo

Consuntivo

20 0 2

0,5

2,1

20 03

0,8

2,4

2004

1,8

3,2

2005

2,7

4.1

20 0 6

3.8

4·4

2007

2,8

1,9

20 0 8

2,2

2,7

200 9

2,0

5 ,3

Fonte: Banca d' Italia, Relazione annuale, anni vari.

statale per adottare quello di indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni - ritenuto più significativo dello stato della finanza pubblica - la situazione non risulta per nulla migliorata e non vale la pena di commentarla ( TA B. 3). Anche perché il governo non diede mai spiegazione analitica degli scostamenti e il Parlamento nemmeno la richiese. Il bilancio pubblico e le sue proiezioni continuano ad apparire dunque come l'opera di « una sfinge impenetrabile alle grandi masse della Camera, a quelle masse che votano [ ... ] le spese, che votano le entrate » 30•

6

Allungando la gittata dello sguardo agli anni successivi Il periodo coperto dalla TA B . r illustra soltanto ciò che abbiamo considerato nulla di più che le condizioni di base della finanza pubblica, sulle quali si è innestata la 30. Puviani,

Teoria della illusionefinanziaria, c it. , p.

92.

LA R E P U B B L I C A I N T RA N S I Z I O N E

(1989-94)

F I G URA 2

Debito, pressione fiscale e spesa delle amministrazioni pubbliche (in % del P I L)

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1 30

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110 52



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1 9 88 --

1991

1 9 94

1 997

Debito pubblico ( in % del PIL )

2000

2003

2006

so

2009

-- Pressione fiscale (tributi + contributi) Spesa primaria

Spesa totale

Fonte: Arch ivio di Prometeia, Bologna.

storia fiscale della "Repubblica in transizione"; gli stessi indicatori sono stati perciò estesi - seppure in assenza di ogni puntuale commento - agli anni più recenti (FIGG. 2 e 3) . La F I G . 2 documenta che sia la spesa primaria (al netto degli interessi passivi) sia quella totale sono sempre cresciute fino al 1 9 9 3 . Negli anni successivi, la riduzione della distanza (in verticale nella F I G . 2 ) che separa la spesa totale da quella primaria indica che è stata la riduzione della spesa per interessi passivi la causa di tale restringtmento. Si noti che, dal punto di vista macrofinanziario, fu operata una redistribuzione della spesa pubblica dai detentori dei titoli di Stato (i famosi e vituperati rentier che soddisfano quotidianamente l'offerta dei titoli stessi) a coloro che usufruiscono delle prestazioni sociali in denaro o in natura. Con riferimento all 'oggi, dati gli attuali livelli dei tassi di interesse, questa redistribuzione non ha più spazi finanziari per essere ripetuta: a meno che non si introducano imposte sugli stock della ricchezza finanziaria affrontando i rischi della mobilità dei capitali in economia aperta. Si può così confermare l' ipotesi che la riduzione del debito pubblico in percentuale del P I L ( F I G . 3 ) sia conseguenza principalmente degli effetti sui tassi di interesse dovuti non tanto alle politiche di bilancio, quanto alla politica delle privatizzazioni, su cui si tornerà tra breve. o

177

F I L I P P O CAVA Z Z U T I

FIG URA 3

Debito e interessi passivi delle amministrazioni pubbliche (in % del P I L)

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12

1 10

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6 4 1990

1991

1 992

19 9 3

- Debito pubblico

1 9 94 --+--

1995

1996

1 997

1998

1 999

2000

Interessi passivi

Fonte: Arch ivio di Prometeia, Bologna.

7 Una politica incisiva sul debito pubblico ? In realtà, una politica (trascinata dali'estero) fu condotta e i risultati consentirono di non intervenire drasticamente sul livello della spesa primaria. Fu la politica delle privatizzazioni, cui già si è detto, che consentì, incassati gli effetti temporanei della manovra del 1 9 9 2, di raggiungere l'obiettivo dell 'entrata nell ' Unione monetaria europea in modo politicamente indolore; se si esclude la famosa "imposta per l ' Eu­ ropa" che fu successivamente in parte rimborsata. Molti ricordano che la politica delle privatizzazioni trovò ampio consenso in Parlamento, riportando una certa fiducia sui mercati finanziari internazionali in merito alla sostenibilità del debito pubblico italiano e con questa la riduzione dello spread tra il Bund tedesco e il BTP a dieci anni (FIG. 4) e la conseguente riduzione della spesa per interessi passivi sullo stock debitorio. Molti confidavano anche sugli effetti sullo stesso livello del debito, non valutando correttamente il rapporto tra gli sperati incassi da dismissione (spesso stimati in I o .o o o miliardi di lire) e la dimen­ sione effettiva del debito. Come risulta dal dibattito di allora, la grande maggioranza delle forze politiche presenti in Parlamento si dichiarò favorevole alle privatizzazioni che già erano state sperimentate in altri paesi europei, sebbene con le motivazioni più svariate: il mercato contro lo Stato; il potenziamento del mercato mobiliare; la spinta alla competitività dell 'economia italiana; l'occasione per una nuova politica industriale; l'opportunità da non perdere per acquistare a prezzo vile imprese finanziarie e non finanziarie e così via.

LA R E P U B B L I C A I N T RA N S I Z I O N E

(1989-94)

FIG URA 4

Differenziale tra il tasso medio del B T P e il Bund a 10 anni

1988

1990

1992

1994

1996

1998

2000

20 0 2

2004

200 6

20 08

Fonte: Arch ivio di Prometeia, Bologna.

Nei fatti l'attenzione si concentrò sui nuovi assetti proprietari delle imprese da pri­ vatizzare e sui nuovi attori industriali o finanziari che fossero. Privatizzazioni politi­ camente indolori e gradite ai cosiddetti "poteri forti", che ambivano a comprare i monopoli naturali (ad es. le autostrade o gli aeroporti), ma non le società manifat­ turiere aperte alla concorrenza internazionale. E così i poteri forti domestici lascia­ rono il campo anche a molti altri acquirenti esteri (ad es. il nuovo Pignone alla Generai Electric) . In ogni caso la politica delle privatizzazioni diede un importante contributo a ridurre il premio al rischio dell'insostenibilità del debito pubblico e di default delle imprese pubbliche.

8

Una conclusione che vale anche per l 'oggi ? L'andamento negli ultimi ventidue anni del debito pubblico (cfr. le figure prece­ denti), insieme a quello dei più importanti indicatori della nostra storia fiscale, può essere assunto per illustrare che la transizione infinita non ha ancora trovato un suo stabile sbocco (lo "scheletro dello Stato" continua a essere sempre lo stesso) . L' ipotesi sulla fine della transizione è stata assunta sulla base della presunzione e dell' illusione - mostratesi entrambe infondate - che la stessa fine della transizione politica infinita avrebbe dovuto portare anche alla scelta di strumenti più efficaci per il controllo della finanza pubblica e per l'adozione, rispetto ai fini dichiarati, di più adeguate 179

F I L I P P O CAVA Z Z U T I

TABELLA

4

Indicatori di finanza pubblica (valori medi in % del P I L ) 1988-94

199 5·20 00

2000-09

1988-2000

1988-2009

1 0 2,4

1 15,8

106,6

1 0 8 ,6

107,8

PT

3 9.6

4 2,1

41,7

40,8

41,2

ST

53 .8

4 9.8

48.9

5 2,0

5 0,7

SP

4 3 ,0

4 1,0

4 3. 8

4 2,1

4 2,8

D

Fonte: A rch ivio di

Prometeia, Bologna; http :/ /www.governo.it, Banca d' Italia, conti delle amministrazioni

publiche, anni vari.

politiche di bilancio, di gestione e di controllo parlamentare della spesa pubblica anche nei suoi contenuti microfinanziari e organizzativi. La TA B . 4 suggerisce che, nei diversi periodi della scansione temporale conside­ rata, nessuna svolta radicale è stata impressa allo scorrere della storia fiscale dell ' Italia. In assenza di tale svolta radicale, la stessa storia si è ripetuta all' infinito eguale a sé stessa, anche perché, come più volte detto, il "divorzio" tra Tesoro e Banca d' Italia non è stato adeguatamente seguito da analogo "divorzio" tra le responsabilità del Parlamento e quelle del governo nella predisposizione, nella gestione e nel controllo della finanza pubblica. E così, se si torna a considerare la TAB . 1 insieme alla TAB . 4, si può notare che la modifica delle coalizioni politiche che hanno sostenuto i diversi governi succedu­ tisi nel tempo non pare che sia stata idonea, di per sé, a modificare in modo signi­ ficativo e duraturo certe condizioni. La conclusione che si può trarre è che in presenza di un dibattito politico (social­ mente poco doloroso) che a partire dai primi anni Novanta (e mai più interrotto) si è concentrato (senza decidere) soltanto sui "rami alti" degli ordinamenti giuridici (riforma della Costituzione, federalismo fiscale) - escludendo dal dibattito stesso l'opportunità di giungere a un "divorzio" regolamentato e non di fatto tra le respon­ sabilità di Parlamento e governo nella predisposizione, nella gestione e nel controllo della finanza pubblica -, non deve stupire che lo sviluppo della finanza pubblica abbia continuato a far camminare la storia fiscale dell ' Italia sulla stessa via percorsa nella Prima Repubblica. Diverso sarebbe stato tale percorso se, ad esempio, si fosse disposta la non emen­ dabilità del bilancio da parte del Parlamento al momento della presentazione (come di fatto oggi accade per effetto dei reiterati voti di fiducia) e da parte del governo in corso di esercizio (come oggi si abusa con i famosi decreti milleproroghe sempre accompagnati dalla richiesta della fiducia), insieme a ciò che oggi difetta, come la

180

LA R E P U B B L I C A I N T RA N S I Z I O N E

(1989-94)

documentazione analitica e non tabellare dell 'attività di spending review da sottoporre all'esame e all 'approvazione da parte dello stesso Parlamento. Avendo trascurato altresì i "rami bassi" dell'ordinamento giuridico, amministra­ tivo e gestionale della finanza pubblica, il dibattito sulla transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica rischia di apparire ai più un genere letterario cui fare ricorso per vestire con le parole il nulla. Parafrasando e forzando le parole e il pensiero dei due autori citati in apertura, si potrebbe sostenere che nel caso dell' Italia, lasciata sola la Banca d ' Italia a preoc­ cuparsi della tutela del bene pubblico dato dalla stabilità finanziaria, e in assenza di ogni revisione delle regole della politica per l 'esame e il controllo della finanza pub­ blica, le imprese che la sua politica ha preparato stanno scritte nella sua storia fiscale, nascosta in un ciborio recondito entro cui penetra l'occhio degli uomini politici tesi alla ricerca di consensi di breve periodo, in ciò assistiti dalle loro burocrazie che possono far dire al bilancio assai più o assai meno, come si vuole.

181

Parte seconda Il tramonto della Re pubblica dei partiti

Cattolici e politica dalla prima alla seconda fase della storia repubblicana di Agostin o Giovagn oli

I

L'unità politica dei cattolici e le sue trasformazioni L'unità politica dei cattolici ha segnato la vicenda della Prima Repubblica e la sua dissoluzione ha aperto la strada alla Seconda. E, mentre tale unità ha implicato un forte coinvolgimento della Chiesa e dei cattolici a sostegno dello Stato repubblicano, la sua dissoluzione ha comportato anche il tramonto di tale coinvolgimento e la fine di quel sostegno che istituzione ecclesiastica e fedeli cattolici avevano dato per lungo tempo alle istituzioni politiche italiane. Unità politica non significa che - dalla fondazione alla scomparsa di questo partito - tutti i cattolici abbiano votato sempre e compattamente per la Democrazia cristiana. Nel cattolicesimo postbellico, ad esempio, erano presenti tendenze molto diverse, che non si riconoscevano nella DC\ e, in seguito, molteplici spinte verso un altro partito cattolico, collocato più a destra, si sono manifestate almeno fino agli anni Settanta, quando viceversa sono cominciate spinte sempre più consistenti per spostare i cattolici più a sinistra della DC. Ma la decisione di sostenere esplicitamente la DC presa tra il 1 9 43 e il 1 94 5 dall 'istituzione ecclesiastica - e più precisamente dalla segreteria di Stato vaticana, grazie all'opera del sostituto, monsignor Giovanni Battista Montini, con il consenso di Pio X I I 1 - ha costituito indubbiamente una scelta di portata storica. Abbandonando un'antica diffidenza verso lo Stato italiano innestata dalle vicende risorgimentali e superando il disimpegno nei confronti del Partito popolare del primo dopoguerra, la Chiesa ha infatti deciso di aiutare la ricostruzione politico-istituzionale del paese e di sostenere la convergenza dei cattolici italiani in un nuovo partito politico. E una scelta compiuta prima che si profilasse la trasformazione della DC nella principale diga antico­ munista e non riducibile in modo esclusivo alla funzione da essa svolta in questo senso. '

1. A. Riccardi, Il partito romano. Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI, Morcelliana, Brescia 2007. 2. A. Giovagnoli, La cultura democristiana tra Chiesa cattolica e identita italiana, Laterza, Roma­ Bari 1991, pp. 157-Ss. 185

A G O S T I N O G I OVAG N O L I

Tra il secondo dopoguerra e l' inizio degli anni Novanta, natura e fisionomia dell'unità politica dei cattolici sono ovviamente cambiate più volte e ciò che si è dissolto definitivamente nel 1994 era profondamente diverso da quanto costituito cinquant 'anni prima. Nel 1948, tale unità raggiunse il suo culmine, insieme però alla trasformazione della D C in un contenitore politico più ampio, che raccoglieva anche molti voti non cattolici, in relazione al suo ruolo contro il comunismo. Ma proprio tale ampliamento ha suscitato problemi al rapporto tra i cattolici e il partito e, comunque, subito dopo quel voto è iniziato un declino dell' impegno ecclesiastico che ha determinato un vistoso arretramento della D C già nelle elezioni amministrative e politiche dei primi anni Cinquanta3• Tale declino è stato controbilanciato da una crescente assunzione di iniziativa da parte del gruppo dirigente democristiano. Dalla fine degli anni Cinquanta, inoltre, questo gruppo dirigente ha cercato di ridurre la motivazione confessionale dell 'unità dei cattolici, rilanciandola in una chiave storico­ politica più laica. Si è parlato di uno scivolamento a sinistra della leadership demo­ cristiana, a partire dalla fine del governo Tambroni nel 1960. In realtà, il processo che si è sviluppato è stato più complesso, con una progressiva riduzione dell'influenza esercitata dall' istituzione ecclesiastica sulla politica italiana, in cui si è inserita un' af­ fermazione di autonomia da parte del gruppo dirigente democristiano durante il pontificato di Giovanni X XI I I e con il rinnovamento conciliare. Da un' (impegnativa) unità dei cattolici su basi prevalentemente confessionali si è passati così a una (rela­ tiva) unità dei cattolici intorno al progetto storico-politico democristiano. La D C cominciò ad assumere una funzione di guida politica del mondo cattolico, aprendo alla collaborazione con i socialisti e avviando una stagione di riforme. In questo modo, l 'unità dei cattolici cominciò a saldarsi a un'egemonia democristiana su un elettorato per molti versi di destra, a tratti insofferente verso tale egemonia. E la sconfitta elettorale del 1963 mostra la formazione di un nucleo di opposizione latente alla leadership democristiana, radicato soprattutto in Italia settentrionale, che si coagulò intorno alla nazionalizzazione dell 'energia elettrica approvata nel 1962 4• Parte del mondo ecclesiastico cercò di contrastare il progetto democristiano, ma un paziente lavoro di ricucitura con l'episcopato da parte di Moro\ la spinta conciliare e l'elezione di Giovanni Battista Montini al pontificato, impedirono una rottura tra la Chiesa e una D C sempre più impegnata in governi di centro-sinistra. E la Chiesa non partecipò al tentativo di interrompere questa esperienza condotto durante la crisi del luglio 19646• 3· Id., Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 2ou, pp. 29-34. 4· Sull' impatto politico della nazionalizzazione dell 'energia elettrica, cfr. Id., Il rapporto con la politica, in A. Giovagnoli, A. A. Persico (a cura di), Pasquale Saraceno e l'unita economica italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2013, pp. 3 1 3-23. S· A. D'Angelo, Moro, i vescovi e l'apertura a sinistra, Studium, Roma 2005. 6. A. Giovagnoli, Mariano Rumor e la crisi de/ luglio I904, in "Annali della Fondazione Mariano Rumor", I, 2005, pp. 57-68; cfr. M. Franzinelli, A. Giacone (a cura di), Il riformismo alla prova. Il primo 186

CATTOLI C I E P O L IT I CA DALLA PRIMA A LLA SEC ONDA R E P U B B LICA

Tra il 1964 e il 1965 si cominciò a parlare di riforme istituzionali, di cambiamento del sistema elettorale e di come rendere possibile un'alternativa tra partiti diversi alla guida del governo7• Lo stesso Moro riconobbe l' importanza di procedere in questo senso per normalizzare la democrazia italiana. Egli però respinse le proposte di dra­ stica semplificazione del sistema politico e puntò sull'asse metodo proporzionale­ sistema parlamentare per un'evoluzione graduale della politica italiana. Ai suoi occhi un radicale cambiamento politico-istituzionale in senso maggioritario non avrebbe favorito la realizzazione di una normale alternativa di governo ma avrebbe finito piuttosto per avviare una contrapposizione non democratica tra comunismo e anti­ comunismo, lacerando drammaticamente la società italiana, di cui non mancarono segni inquietanti compresa la strategia della tensione tra fine anni Sessanta e inizio Settanta. E, secondo Moro, la permanenza della D C alla guida del governo - la "cen­ tralità democristiana" - costituiva la migliore garanzia di tale unità in un paese che, malgrado la diversità degli orientamenti politico-ideologici, si riconosceva comples­ sivamente in un patrimonio di valori etico-religiosi cristiani. In tale prospettiva, nel 1967 egli confermò a Lucca l'importanza dell'unità politica dei cattolici nella D C , seppure sulla base della libera scelta degli elettori, per ragioni non confessionali ma storico-politiche8• Subito dopo il Concilio Vaticano n , si aprì anche un dibattito sulla « fine dell'età costantiniana » 9 e sulla necessità per la Chiesa di abbandonare ogni legame con la politica. Negli anni successivi, inoltre, l'unità politica dei cattolici fu messa in discus­ sione soprattutto da sinistra e a opera di quanti sostenevano non tanto la legittimità o l'opportunità di un voto libero dei cattolici per tutti i partiti, quanto il dovere di un impegno politico pieno a fianco di coloro che combattevano le ingiustizie e volevano cambiare il "sistema". Nel clima della contestazione del 1968 e dei suoi molteplici effetti e nel contesto di nuove tendenze internazionali, come quelle della "teologia della rivoluzione" e, più tardi, della "teologia della liberazione", il collate­ ralismo verso la D C venne affiancato da un nuovo collateralismo di spezzoni del mondo cattolico verso formazioni politiche più a sinistra. Per quanto importanti, tuttavia, queste tendenze non sono mai state abbastanza forti da mettere radicalmente in crisi l 'unità politica dei cattolici. Nel post-Concilio si collocano invece altri pro­ cessi, probabilmente più decisivi sul lungo periodo, come quello sintetizzato dalla "scelta religiosa" dell'Azione cattolica, storica associazione di laici alle dirette dipengoverno Moro nei documenti e nelle parole dei protagonisti (ottobre I903-agosto I904), Feltrinelli, Milano 20I2. 7· A. Giovagnoli, Il partito italiano. La democrazia cristiana dal I942 al I994· Laterza, Roma-Bari I 996, pp. I07-27. 8. G. Rossini ( a cura di ) , I cattolici italiani nei tempi nuovi della cristianita, Atti del convegno di studio della Democrazia cristiana, Lucca, 28-30 aprile I967, Edizioni cinque lune, Roma I967. 9· Cfr. G. Zamagni, Fine dell'era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, il Mulino, Bologna 2012.

A G O S T I N O G I OVAG N O L I

denze della gerarchia che ha costituito il principale canale di trasmtsswne tra la Chiesa e la D C dal dopoguerra agli anni Sessanta. Con la scelta religiosa si è infatti interrotto un rapporto importante per la D C , che beneficiava dell'opera di formazione svolta dall'A c per il rinnovamento dei propri quadri politici e per rinsaldare i colle­ gamenti con il mondo cattolico. Ancora più importanti sono stati i molteplici effetti della recezione del Concilio Vaticano n nel tessuto ecclesiale e nella coscienza dei fedeli. Sono venuti emergendo nuovi movimenti e comunità ecclesiali - dal Movi­ mento dei focolarini alla Comunità di Sant 'Egidio•o -, diversamente impegnati nel campo della spiritualità, dell'evangelizzazione, del servizio ai poveri, ma con uno scarso coinvolgimento nelle questioni politiche. E maturato così un progressivo distacco tra i cattolici e la D C , importante non tanto per i suoi effetti immediati quanto per le conseguenze a lungo termine. '

2.

La crisi degli anni Settanta Una minaccia diretta all 'unità politica dei cattolici venne, involontariamente, messa in atto all' inizio degli anni Settanta, dali ' iniziativa di un gruppo di intellettuali cattolici - tra cui Gabrio Lombardi e Sergio Cotta - che promossero il referendum per abrogare il divorzio11• Tale iniziativa implicava un giudizio critico sulla capacità della D C di difendere i valori cattolici sul piano legislativo e sull 'ambiguità di un'al­ leanza tra questa e i partiti che non condividevano i valori cattolici : la legge Baslini­ Fortuna era stata approvata nel 1970 da un Parlamento in cui era presente, per la prima volta dal 1946, una maggioranza divorzista e mentre la DC collaborava, in un governo di centro-sinistra, con partiti favorevoli al divorzio. Dopo molti tentativi di evitare il referendum, la posizione dell ' istituzione ecclesiastica spinse la D C a impegnarsi per sostenere il voto favorevole all'abrogazione e il partito si affidò a Fanfani per trasformare in fatto politico un 'iniziativa nata fuori se non contro la politica di questo partito. Il mondo cattolico si divise e una parte significativa evitò di impegnarsi o si mobilitò contro l'abrogazione. Dopo il fallimento del referendum del 1 2 maggio 1974, l 'operazione innestata dagli intellettuali cattolici fu continuata - in forme indubbiamente molto diverse - da minoranze laiche, in primis dai radi­ cali che agitarono la "questione cattolica" sostenendo l' illegittimità della guida democristiana del governo perché superata dal processo di modernizzazione della società italiana. Furono i primi segni dell'emancipazione della società civile dai partiti di massa e da allora lo strumento referendario è diventato l'arma privilegiata M. Faggioli, Breve storia dei movimenti cattolici, Carocci, Roma 2008. u. Cfr. G. B. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, societa civile dalla legge al referendum (1965-1974), Bruno Mondadori, Milano 2007. IO.

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C AT T O L I C I E P O L I T I C A D A L L A P R I M A A L L A S E C O N D A R E P U B B L I C A

di molte battaglie contro un sistema di partiti cui l 'unità politica dei cattolici è stata strettamente legata. Tra il 1974 e il 1975, l' indebolimento elettorale della D C sembrò metterne in discussione la sua funzione di diga anticomunista e molti hanno letto la successiva politica di solidarietà nazionale come un cedimento ai comunisti. Ma negli stessi anni, per volontà soprattutto di Paolo VI, in Italia la Chiesa riprese a sostenere con convinzione la Democrazia cristiana e in questo contesto si sviluppò il tentativo zaccagniniano di una rifondazione ideale e morale del partiton. La minaccia all 'unità politica dei cattolici, infatti, era venuta da un ' iniziativa di intellettuali cattolici che si era rivelata un boomerang ed era poi stata raccolta da tendenze politico-culturali, come i radicali, avverse alla Chiesa cattolica: motivi diversi, dunque, spingevano per rilanciare tale unità13• Così, malgrado l'esito del referendum sul divorzio del 1974 e lo spostamento di una parte del suo elettorato verso sinistra, la D C non rinunciò a evocare la sua "ispirazione cristiana" e a sollecitare il voto cattolico. Tra la rifonda­ zione zaccagniniana nella seconda metà degli anni Settanta e l'apertura agli esterni dei primi anni Ottanta, questo partito ha cercato di recuperare un rapporto privile­ giato con il mondo cattolico, mentre il timore di un "sorpasso" comunista a partire dal 1976 attirava nuovamente molti consensi verso la D C , percepita ancora come fondamentale diga anticomunista. Contrariamente alle apparenze, infatti, la solidarietà nazionale è nata dalla riaf­ fermazione dell'unità politica dei cattolici, che ha continuato a rappresentare il car­ dine del contenimento di un comunismo italiano ancora incompatibile con la democrazia, malgrado le sue trasformazioni. Anche un 'attenta lettura del famoso discorso di Moro del 28 febbraio 1978 ai gruppi parlamentari della DC conferma la persistenza della pregiudiziale anticomunista nella D C . E le vicende degli anni tra il 1976 e il 1 979 mostrano la persistente distanza tra mondo cattolico e mondo comu­ nista: il catto-comunismo rappresenta soprattutto un' invenzione polemica degli avversari, priva di reale consistenza politica. Tuttavia, a questa ripresa elettorale della D C non corrispose il superamento della ferita che si era aperta nel rapporto con la società civile, manifestata anche dalla vicenda del divorzio. Per gli anni Settanta, non si può parlare di indebolimento dei partiti di massa: il 20 giugno 1976, tre italiani su quattro votarono per la D C o per il P C I , oltre al 9% che votò per il Partito socia­ lista. Ma la crisi di rapporto con la società civile - nel caso della D C , in particolare con il mondo cattolico - segnò l'inizio di un declino che avrebbe preparato succes-

I2. A. Preda (a cura di), Dialoghi con Zaccagnini, Studium, Roma 2009; Id., Zaccagnini nelfuturo della politica, Studium, Roma 2010. I 3 . Sull'inattesa sopravvivenza della Democrazia cristiana negli anni Settanta, cfr. A. Giovagnoli, La stagione democristiana, in M. lmpagliazzo (a cura di), La nazione cattolica. Chiesa e societa in Italia dal 195S ad oggi, Guerini e Associati, Milano 2004, pp. 49-68.

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sivi sviluppi politici. Tale evoluzione fu sollecitata dall'opera del P S I , che chiuse definitivamente l'esperienza del centro-sinistra con un articolo del suo segretario, Francesco De Martino, del 31 dicembre 1975: in seguito, non c 'è più stato in Italia un governo basato su una coalizione organica di partiti, uniti intorno a un comune progetto politico. Nei decenni successivi, infatti, anche se si sono formate molte diverse maggioranze parlamentari, non sono più emerse coalizioni politiche in senso pieno. Nel 1976, la vastissima maggioranza della non sfiducia sostenne un governo monocolore di emergenza per affrontare terrorismo e stagflazione e, nel 1978, la formazione di una maggioranza che comprendeva anche i comunisti non cambiò radicalmente la natura dell 'esecutivo. In seguito, il Pentapartito ha rappresentato un'esperienza diversa da quella del centro-sinistra, meno coesa e priva di un progetto politico unitario, e la mancanza di coalizioni politiche vere e proprie - diverso è, ovviamente, il discorso delle coalizioni elettorali - è proseguita anche per tutto il periodo successivo, affliggendo anche la Seconda Repubblica. In questo senso, si può dire che con il declino dell'unità politica dei cattolici è iniziata una crisi da cui il sistema politico-istituzionale italiano non è più uscito. Appare complessivamente fondata la convinzione di Pietro Scoppola, secondo cui la solidarietà nazionale segnò l'esaurimento della politica centrista avviata da De Gasperi nel dopoguerra, continuata poi non solo dal centrismo degli anni Cin­ quanta ma anche dal centro-sinistra degli anni Sessanta e Settanta per concludersi, appunto, con la solidarietà nazionale. Secondo Scoppola, l'esaurimento della politica centrista sollevava problemi nuovi per quanto riguarda il ruolo politico svolto dai cattolici in modo unitario. Infatti, il contributo dei cattolici è stato decisivo negli anni della ricostruzione e nei successivi svi­ luppi della storia repubblicana; ha offerto una base di consenso popolare a una democrazia che non aveva profonde e consolidate radici; ha riassorbito entro un disegno democratico l'eredità di un fascismo sconfitto ma non cancellato nella mentalità di tante parte dei ceti medi italiani; ha resistito alla spinta di un comunismo radicato nella cultura del paese e nella mentalità delle classi operaie, segnato da un fermo legame con l' Unione Sovietica che lo rendeva indisponibile a una funzione di governo; con il suo anticomunismo democratico [ ... ] ha favorito l'evoluzione della stessa sinistra italiana verso forme compiutamente demo­ cratiche14.

Sulla base di queste motivazioni, Scoppola aveva sostenuto in precedenza la legitti­ mità dell 'unità politica dei cattolici, contro le tesi del cattolicesimo postconciliare e del dissenso che sosteneva l 'illegittimità della D C per motivi non storici e politici, bensì religiosi e teologici. Ma, ai suoi occhi, l'esaurimento della funzione svolta dai 1 4.

P. Scoppola, La coscienza e il potere, Laterza, Roma-Bari

190

20 07,

pp.

XVII-XVI II.

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cattolici fino a quel momento, all' inizio degli anni Ottanta fece venir meno le ragioni storiche di tale unità.

Da Paolo

VI

3 a Giovanni Paolo

II

Dopo la morte di Paolo VI e di Moro e l'avvento di Giovanni Paolo I I nel 1978, è iniziato in Italia un progressivo distacco tra Chiesa e D C . Il nuovo papa, il primo non italiano dopo oltre quattrocento anni, nutrì fin dall' inizio perplessità verso un orientamento piuttosto rinunciatario e rassegnato del cattolicesimo occidentale15. E impresse alla Chiesa un nuovo dinamismo ispirandosi a un'ampia visione geopolitica, che includeva una fondata consapevolezza dell 'intrinseca fragilità del blocco sovie­ tico. Karol Wojtyla non ha mai creduto alla "diversità" del comunismo italiano e, soprattutto, non ha mai creduto che potesse svolgere una funzione storica rilevante. Ha così precorso conclusioni cui gran parte della classe dirigente italiana è arrivata tardi o non è mai arrivata del tutto. Giovanni Paolo I I , infatti, è stato poco compreso da questa classe dirigente, inclusa la sua componente cattolica. Egli si pose con umiltà e in atteggiamento di ascolto nei confronti di tanti interlocutori italiani, senza riuscire però a spegnere molte resistenze e ostilità nei suoi confronti. Contrapponendogli la memoria di Paolo VI, malgrado avesse duramente contestato papa Montini durante il suo pontificato, gran parte del cattolicesimo italiano degli anni Ottanta ha condi­ viso assai poco le grandi prospettive che egli cercava di lanciare per superare un mondo segnato dall' influenza sovietica e affrontare le nuove sfide della globalizza­ zione16. Indubbiamente, il papa polacco era estraneo alle peculiarità della storia ita­ liana che nel secondo dopoguerra avevano spinto la Chiesa e i cattolici a inserirsi nelle vicende italiane per contrastare elementi di fragilità politico-istituzionale radi­ cati nella storia unitaria ed esasperati dal fascismo. Ha avuto anche difficoltà a com­ prendere una formazione politica peculiare come la D C , profondamente legata alle specificità di questa storia. A sua volta, la classe dirigente democristiana - guidata da una nuova generazione, quella di Forlani e De Mita, meno sensibile della "seconda generazione" di Fanfani e di Moro al rapporto con la Chiesa - non è stata in grado di cogliere la forza innovatrice del wojtylismo e di utilizzarlo per rinnovare uno scenario politico italiano sempre più anacronistico a fronte dei mutamenti epocali in corso. Giovanni Paolo I I , tuttavia, non mise in discussione il sostegno della Chiesa italiana alla D C e quest'ultima continuò a beneficiare, seppure tra crescenti difficoltà,

IS.

pp.

Cfr. A. Riccardi, Giovanni Paolo

II.

La biografia, San Paolo, Cinisello Balsamo (M I)

22I-7 8 . I 6 . Sul

2 0 1 1,

rapporto tra Giovanni Paolo II e il cattolicesimo italiano, cfr. anche A. Riccardi, Chiesa e Stati da Paolo VI a Giovanni Paolo II, in "Civitas", II, I, 200 6 , pp. 17-30.

191

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di un 'unità politica dei cattolici fondata da Montini negli anni Quaranta e da lui rilanciata negli anni Settanta. Questo partito ha inoltre sofferto per il crescente immobilismo della politica italiana negli anni Ottanta17• In questo decennio, i partiti di massa hanno continuato a godere di vasti consensi elettorali. Ma il 1980 segnò il definitivo rigetto, da parte della D C e del P C I , della prospettiva di una comune convergenza di governo e, in seguito, l'anticomunismo democristiano perse gradualmente la sua valenza dinamica mentre il P C I vedeva venire meno progressivamente la capacità di rappresentare, come aveva fatto in precedenza, istanze economiche e sociali diffuse ma sacrificate da uno sviluppo squilibrato. Le diverse correnti della D C si divisero tra un rifiuto pregiudi­ ziale - quello espresso dal Preambolo nel congresso del 1980 - e un 'apertura acritica nei confronti dei comunisti. Il P C I iniziò a coltivare un senso di diversità e superio­ rità morale nei riguardi della D C e di altri partiti, senza avviare un'approfondita revisione autocritica della sua storia e della sua identità. La Democrazia cristiana perse la guida del governo - che negli anni Ottanta è stata lungamente in mani laiche, con Spadolini e con Craxi - pur continuando a costituirne la componente decisiva. Iniziò a cambiare la cifra fondamentale dell 'opposizione al comunismo che Craxi spostò dalla tipica difesa democristiana di valori tradizionali intrecciata a un impegno per la giustizia sociale alla valorizzazione delle esigenze della modernizzazione contro l'anacronismo della proposta comunista: il suo è stato l 'anticomunismo della moder­ nità, diverso dall'anticomunismo religioso e morale dei cattolici, che in precedenza aveva contribuito non poco ad alimentare la loro unità politica18• Craxi ha, infatti, interpretato le novità della società italiana di quegli anni attraverso una politica "movimentista" non priva di efficacia, seppure non sufficiente per cambiare il sistema politico : da un lato, i suoi progetti di riforma politico-istituzionale non hanno avuto successo e, dall 'altro, il suo partito non ha mai raggiunto livelli determinanti sul piano elettorale. In tale contesto, la Democrazia cristiana ha cominciato a perdere consensi, scendendo nel 1983 dal 3 8 al 33% dei voti, mentre la delusione per il man­ cato rinnovamento di questo partito, dopo la fine della stagione zaccagniniana, ini­ ziava a spingere l'area vicina alla Lega democratica prima verso l 'obiettivo di un profondo rinnovamento della D C e, poi, verso un radicale cambiamento politico­ istituzionale, oltre la Repubblica dei partiti. Il tramonto di un'unità dei cattolici intorno a un partito politico e legata a un impegno politico-istituzionale è stato, infine, accelerato da una serie di cambiamenti epocali, quali le trasformazioni indotte dalla globalizzazione e dalla postmodernità, 17. Cfr. A. Giovagnoli, La crisi della centralita democristiana, in S. Colarizi et al (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, pp. 6 s-IOI, e V. Capperucci, Demo­ crazia cristiana e mondo cattolico negli anni Ottanta, in G. Orsina (a cura di), Culture politiche e lea­ dership nell'Europa degli anni Ottanta, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2012, pp. 303-33. 18. Su craxismo e società italiana negli anni Ottanta, cfr. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010.

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dalla diffusione di nuovi fenomeni di secolarizzazione e da inedite contaminazioni tra religioni e culture diverse. Tale contesto, sempre più lontano da quello in cui si era svolto il Concilio Vaticano 11, ha impresso nuovi sviluppi alla recezione del Con­ cilio da parte del mondo cattolico italiano. È il caso, ad esempio, di molte riflessioni incentrate sul principio di laicità, inteso non come laicismo conflittuale, ma come scelta di tolleranza e come condivisione di valori comuni e riguardanti un rapporto tra religione e politica in chiave non confessionale (fu valorizzato persino da un Partito comunista italiano sempre più orfano delle proprie ideologie : nel 1 9 77 Ber­ linguer scrisse una famosa lettera a monsignor Bettazzi proprio su tale principio) . È, infatti, possibile notare segni di una progressiva erosione del principio di laicità già tra la fine degli anni Settanta e l 'inizio degli anni Ottanta, mentre successivamente si è verificata l'emersione di problematiche nuove sempre più estranee alle tradizionali questioni inerenti ai rapporti tra Chiesa e Stato. Anche in Italia, non a caso, sono venute delineandosi divergenze di orientamenti etici tra credenti e non credenti - e talvolta anche all 'interno di questi due campi - che hanno indotto a parlare negli ultimi decenni di società abitate da "stranieri morali" (o, secondo un'altra formula­ zione, da "estranei morali"). Ne costituisce un esempio un nuovo approccio al tema dell'aborto, espressivo non di un tradizionale conflitto di interessi tra istituzione ecclesiastica e istituzioni politiche bensì di un nuovo conflitto di valori che mette in discussione le basi della regolamentazione giuridica della convivenza civile, con riflessi anche di rilievo costituzionale•9• A partire dagli anni Settanta, negli Stati Uniti e in Europa le discussioni sulla regolamentazione giuridica dell 'aborto hanno chiamato in causa diverse concezioni non solo etiche ma anche antropologiche, che riguardano la stessa definizione di essere umano e di vita umana. Sono andate nella stessa dire­ zione anche le implicazioni di problemi come la fecondazione assistita, l'eutanasia, il matrimonio tra omosessuali e altre ancora che lacerano il tessuto costituzionale condiviso in cui si sono riconosciuti a lungo cittadini di diverso orientamento reli­ gioso e moraleo. I conflitti emersi in questa nuova situazione non sembrano risolvibili in base al principio di laicità che presuppone un orizzonte etico-antropologico almeno impli­ citamente condiviso, presente nell'Europa moderna e, in parte, in quella contempo­ ranea, entrambe sensibilmente influenzate da una cultura cristiana accettata in alcune sue linee portanti anche da molti non praticanti, anticlericali o non credenti. Nel mondo attuale, infatti, la lezione della laicità appare messa in discussione da un I9. Sulla crisi della laicità, cfr. A. Giovagnoli, Religioni e laicita in un mondo post-secolare, in A. Riccardi (a cura di), Le Chiese e gli altri. Culture, religioni, ideologie e Chiese cristiane nel Novecento, Guerini e Associati, Milano 2008, pp. 333-65, e A. Giovagnoli, Problemi della laicita, in F. Traniello, F. Bolgiani, F. Margiotta Broglio (a cura di), Stato e Chiesa in Italia. Le radici di una svolta, il Mulino, Bologna 2009, pp. 67-90. 20. Cfr. C. Ruini, Chiesa contestata. 10 tesi a sostegno del cattolicesimo, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2007, pp. 133-47. 19 3

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pluralismo religioso, etico e culturale sempre più accentuato e non immediatamente componibile in un orizzonte valoriale comune. In tale contesto, emergono valori e principi che appaiono inevitabilmente non negoziabili e non solo per le Chiese e per i credenti: anche la negazione di tali valori e principi è infatti, a suo modo, non negoziabile da parte di chi li ritiene inaccettabili. E un pluralismo etico, culturale e antropologico sempre più accentuato incrina le fondamenta di quell'opera di costru­ zione e ricostruzione costante delle istituzioni pubbliche, essenziale per la vita di qualunque Stato. In questa situazione, molti cattolici sono stati indotti a ripensare il loro impegno pubblico non più sul terreno di un confronto politico-istituzionale con formazioni espressive di tradizioni culturali o ideologiche anche molto diverse, per concentrarsi invece sull'affermazione e la difesa di istanze considerate più stret­ tamente legate alla loro identità. La sconfitta nel referendum sull 'aborto nel 1981 - malgrado questa volta i cat­ tolici fossero molto più uniti che in occasione del divorzio - segnò l ' inizio di un crescente disagio nei confronti della politica. Agli occhi di qualcuno, la D C cominciò ad apparire sempre meno capace di assumere e interpretare le istanze proprie del mondo cattolico. Comunione e liberazione, ad esempio, riprese lo spirito dell' ini­ ziativa referendaria sul divorzio avviata dagli intellettuali cattolici dieci anni prima e accusò la D C di esprimere troppo poco !' "identità" cattolica e di difendere in modo insufficiente i valori cattolici. La Democrazia cristiana sarebbe stata indirettamente responsabile della secolarizzazione della società italiana, come sostennero Augusto Del Noce e Gianni Baget Bozzo. In quest'ottica, cominciò a essere svalutato il ruolo cruciale a sostegno delle istituzioni politiche nazionali svolto dai cattolici a partire dal secondo dopoguerral1• La caduta delle ideologie e la maggior facilità di dialogo tra forze politiche diverse spinsero inoltre a sottovalutare i problemi posti alla democrazia dali' avvento del consumismo e di una nuova società degli individui. Senza abbandonare la D C , che la Conferenza episcopale italiana ha continuato a sostenere sino alla fine, anche quest 'ultima cominciò un progressivo distacco dalle motivazioni storiche che costituivano la ragion d 'essere di questo partito. E il percorso che si è espresso successivamente nelle iniziative del cardinale Ruini, nel progetto culturale della C EI , nel dibattito sulla "questione antropologica" e nelle discussioni sulla bioetica. Negli anni Ottanta, insomma, malgrado diversità di premesse e di obiettivi, varie tendenze presenti nel cattolicesimo italiano hanno finito per mettere in discussione, in modo convergente sul piano culturale prima ancora che politico, il "progetto storico", che, nato nel contesto del cattolicesimo europeo degli anni Trenta, ha trovato la sua più nota espressione nel pensiero maritainiano sulla "nuova cristianità" e, sul piano pratico, nell 'iniziativa montiniana del secondo dopoguerra. E il progetto che ha sostenuto la D C della "seconda generazione", subentrata nella guida del partito alla '

'

21. Sui cattolici italiani negli anni Ottanta, cfr. Giovagnoli, Chiesa e democrazia, cit., pp. 143-99. 194

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precedente generazione degli ex popolari. I diversi orientamenti del cattolicesimo italiano si sono confrontati apertamente nel Convegno della Chiesa italiana che si svolse a Loreto del 1985, esprimendosi nelle opposte posizioni della "presenza" e della "mediazione". Quest'ultima, sostenuta soprattutto dall 'Azione cattolica, non riuscì a imporsi, ma anche quella espressa da C L non fu pienamente accolta. Prevalse, infatti, la prospettiva indicata da Giovanni Paolo n della Chiesa quale forza sociale. Tutt'e tre questi orientamenti, pur molto diversi tra loro, non seguivano la vecchia prospet­ tiva del collateralismo del mondo cattolico alla D C . E si può dire, come ha notato Francesco Traniello, che abbiano concorso insieme a incrinare sempre più profonda­ mente l'unità politica dei cattolici a sostegno della Democrazia cristiana11• Il crescente distacco tra mondo cattolico e D C si è intrecciato, peraltro, con il complessivo declino della politica e con la crisi sempre più acuta dei partiti di massa. Non a caso, proprio alcuni ambienti cattolici hanno sostenuto vigorosamente l'iniziativa dei referendum elettorali che, nel 1991 e nel 1993, sono stati decisivi per determinare la fine della Prima Repubblica13• In tale contesto sono cresciute le critiche anche dei cattolici nei confronti del sostegno garantito a lungo dall' istituzione ecclesiastica alla D C . Negli anni di Tangentopoli, infine, molte spinte diverse sarebbero confluite in una presa di distanza morale dalla D C sempre più marcata.

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Il Partito popolare e la fine dell 'unità politica dei cattolici Nelle elezioni politiche del 1992, le prime dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell' Unione Sovietica, la D C ottenne ancora quasi il 30% dei voti. Successiva­ mente, però, l' iniziativa della magistratura, che aveva investito in primo luogo il P S I , coinvolse anche la D C , il cui segretario, Arnaldo Forlani, si dimise per essere sostituito da Mino Martinazzoli14• Come per gli altri esponenti della terza generazione, anche

22. F. Traniello, Verso un nuovo profilo dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, in Traniello, Bolgiani, Margiotta Broglio (a cura di), Stato e Chiesa in Italia, cit., pp. 3 9 - 5 0. 23. Sul contributo cattolico alla fine della Repubblica dei partiti, cfr. P. Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell'Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2 0 0 5 . Cfr. anche M. Segni, La rivoluzione interrotta. Diario di quattro anni che hanno cambiato l'Italia, Rizzoli, Milano I 9 94; S. Ceccanti, Nessuna falcidia: i giovani, le donne e l'elettorato razionale, in G. Pasquino (a cura di), Votare un solo candidato. Le conseguenze politiche della preferenza unica, il Mulino, Bologna I 99 3 · pp. 3 I - 8 o ; Id., Al cattolico perplesso. Chiesa e politica all'epoca del bipolarismo e del pluralismo religioso, Boria, Roma 2 0 I O, pp. I5-25; F. Russo, Quella strana omissione. I primi referendum elettorali e il movi­ mento politico di Mario Segni: sei anni di storia italiana scomparsi, WIP, Bari 2010. 24. Sulla crisi della Prima Repubblica una delle analisi più efficaci resta quella di L. Cafagna, La grande slavina. L'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia 1 9 9 3 . Su Forlani, cfr. S. Fontana, N. Guiso, A. Forlani (a cura di), Potere discreto. Cinquant 'anni con la Democrazia cristiana, Marsilio, Venezia 2009.

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l'esperienza dell'ultimo segretario della D C è stata meno segnata di quella della generazione precedente dal riferimento alla conventio ad excludendum e al tema dell'ispirazione cristiana della D C , e più influenzata di quella dalla spinta a svinco­ larsi dal peso della da m natio gubernandi nella democrazia bloccata2.s. Nel congresso democristiano del 1980, Martinazzoli è stato tra gli oppositori del preambolo, nella convinzione che il P C I potesse e dovesse entrare nell'area di governo quale alterna­ tiva alla D C . In seguito, denunciò più volte il rilievo della questione morale nel suo partito e, divenutone segretario, non ne difese in toto la classe dirigente, messa sempre più in difficoltà dall'opera della magistratura, a differenza di quanto aveva fatto Moro negli anni Settanta. Prendendo le distanze dalla precedente storia demo­ cristiana Martinazzoli avviò la fondazione di un partito nuovo2.6• Tra il 1993 e il 1994, infatti, sciolse la D C per dar vita a un nuovo Partito popolare, che si richiamava alla vocazione "programmatica" del partito di Sturzo piuttosto che a quella "gover­ nativa" del partito degasperiano, si proponeva di essere fedele a una specifica visione etico-politica e non necessariamente obbligato a governare: libero, cioè, di passare all 'opposizione per mantenere la propria identità. Anche nel nuovo partito, il rife­ rimento a valori cattolici fu indubbiamente forte e la presidenza della C EI sostenne inizialmente il tentativo del segretario. Ma il P P I è nato quando l 'unità politica dei cattolici, che ha lungamente segnato la storia della D C , non era più percepita come un valore. Nelle elezioni politiche del 1994, in cui Polo delle libertà e Polo del buon governo raccolsero insieme circa il 37% dei voti contro il 32% dei progressisti, al nuovo Partito popolare andò l' 11% dei voti e al Patto Segni più del 4,5%. Insieme, quindi, Partito popolare e Patto Segni raggiunsero quasi il 16% dei voti, costituendo un polo non irrilevante nel nuovo scenario politico. All 'indomani di quelle elezioni, però, Marti­ nazzoli inviò, via fax, dimissioni su cui si è molto discusso. Al fondo di tale scelta, oltre all 'originale approccio alla politica tipico dell'ultimo segretario democristiano, c 'era l'irrisolta questione delle alleanze: come si sarebbe dovuto collocare il popolo di centro in un contesto marcatamente bipolare ? Martinazzoli era convinto che, date le circostanze, il risultato raggiunto non fosse negativo, ma cedette all'orientamento, sempre più diffuso, che spingeva verso una semplificazione in senso bipolare del

Sulla figura di Mino Martinazzoli, cfr. M. Martinazzoli, Il limite della politica, Morcelliana, Brescia 1 9 8 5 ; Id., La terza fase, La Quadra, Brescia 1 9 9 3 ; A. Airò, Mino Martinazzoli. Un itinerario politico, Muzio, Padova 1 9 94; M. Martinazzoli, A. Valle, Uno strano democristiano, Rizzoli, Milano 20 0 9 ; P. Corsini, Mino Martinazzoli: valore e limite della politica. Scritti e discorsi, Cittadella, Assisi (PG) 2 0 1 2. 2 6 . Sulla fine della D C , cfr. M. Follini, L'arcipelago democristiano, Laterza, Roma-Bari 1 9 9 0 ; Id., C 'era una volta la DC, il Mulino, Bologna 1 994; G. De Rosa, La transizione infinita. Diario politico (1990-1996), Laterza, Roma-Bari 1 9 97 ; S. Fontana, Il destino politico dei cattolici. Dall'unita alla diaspora, Mondadori, Milano 1 9 9 5 ; R. Orfei, Gli anni di latta. Osservazioni sull'epilogo della Dc, Marietti, Genova 25.

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sistema politico. Fin dall 'inizio, peraltro, il suo progetto fu segnato da una certa carenza di immaginazione sistemica e da un deficit di progettualità riguardo al con­ testo, ancora in fieri, in cui avrebbe dovuto collocarsi il nuovo soggetto politico da lui fondato. Anche Martinazzoli, in altre parole, non ha affrontato fino in fondo il problema aperto dalla scomparsa della DC quale cardine dell' intero sistema dei par­ titi, concentrandosi piuttosto sull'identità politico-culturale e sugli aspetti program­ matici del nuovo Partito popolare, anche sulla spinta delle pressioni che venivano in questo senso dal mondo cattolico. Si è allontanato così dal disegno di Aldo Moro, che aveva operato, nel quadro del contenimento democratico del comunismo, per rendere politicamente rilevante l'ispirazione cristiana. Egli, inoltre, non ha cercato di difendere l'egemonia del centro sulla destra su cui si è basato a lungo il successo democristiano : negli ultimi anni, infatti, una simile egemonia aveva comportato compromessi e inquinamenti, da cui Martinazzoli voleva liberarsi per riproporre con forza le radici ideali del popolarismo sturziano. Anche per questo non è stato in grado di fermare gli ex democristiani che, ragionando ormai in una logica bipolare, scelsero allora di collegarsi al centro-destra, come Pier Ferdinando Casini. Anche il fondatore del Partito popolare, in conclusione, non è stato in grado di contrastare il successo di Berlusconi, malgrado la sua ferma posizione personale nei confronti del fondatore di Forza Italia: Martinazzoli era stato uno dei ministri che si dimisero nel 1 9 9 0 per protesta contro la legge Mammì favorevole alla collocazione privilegiata della Fininvest nel mercato televisivo italiano. Ancora più decisivo delle dimissioni di Martinazzoli è stato, dopo le elezioni, il ritiro del sostegno ecclesiastico al Partito popolare. Tale decisione non scaturì da un cambiamento della linea politica del P P. Probabilmente, ebbe un certo peso la quantità dei voti raccolti dalle formazioni centriste, pari a circa la metà di quelli ottenuti dalla D C due anni prima. Continuando a sostenere questo partito, la Chiesa si sarebbe legata a una minoranza politica destinata a restare tale almeno per un certo tempo . Prendendo le distanze da qualunque formazione, la Chiesa ha succes­ sivamente insistito sul carattere non di ristretta minoranza ma di "popolo" e sulla sua capacità di influenzare l ' in tera società italiana. La decisi o ne presa dalla presi­ denza della C EI costituì una svolta storica. In precedenza, il cardinale Ruini aveva spesso manifestato vivo interesse per le questioni politiche - e una particolare attenzione verso la D C - e, malgrado molte spinte in senso contrario, sotto la sua guida la C E I mantenne fino in fondo il proprio sostegno a questo partito, per poi trasferirlo al Partito popolare di Martinazzoli. Tuttavia, dopo le elezioni del 1 9 9 4 l'opzione di un legame privilegiato con uno specifico partito politico fu definitiva­ mente abbandonata, scegliendo la linea dell'equidistanza, esplicitamente affermata dalla Chiesa italiana già nel convegno di Palermo del 1 9 9 5 . Ciò non gli impedì di guardare favorevolmente il tentativo successivamente promosso da Buttiglione - peraltro senza successo - per portare il Partito popolare nel centro-destra. Molti anni dopo Ruini operò per favorire un legame tra il centro-destra di Berlusconi e il 19 7

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centro di Casini. Contrariamente a quanto spesso sostenuto o ipotizzato, sperato o temuto, il cardinale non ha invece coltivato nostalgie di ritorno al "partito cattolico". Sotto questo profilo, le distanze tra i suoi sostenitori e i suoi avversari sono state più ridotte di quanto si è pensato o affermato : sia gli uni sia gli altri, infatti, non solo hanno condiviso il giudizio che la stagione della D C era definitivamente conclusa, ma hanno anche operato in modo convergente per contrastare la ripresa - in qua­ lunque forma - dell 'unità politica dei cattolici.

s

La Chiesa nella Seconda Repubblica La fine del sostegno della C EI al Partito popolare ha segnato l'inizio di una nuova stagione nei rapporti tra Chiesa e politica in Italia. Sotto la guida del cardinale Ruini, uno degli ecclesiastici italiani di maggior spicco nella Seconda Repubblica - perce­ pito quasi come un 'alternativa al cardinale Martini -, la presidenza della Conferenza episcopale ha assunto un ruolo inedito nella politica italiana. La Chiesa ha ripreso anche in questo campo la guida del laicato cattolico, esercitata di fatto per molti anni dalla D C , ma tale funzione, che in precedenza rientrava tra le competenze della Santa Sede e in particolare della segreteria di Stato, dopo il 1994 è stata assunta dalla pre­ sidenza della C EI . La linea di Ruini è maturata a partire dagli anni Ottanta - come ha scritto egli stessol7 -, mentre cresceva la propensione dei cattolici verso una più esplicita affermazione della propria identità e dei propri principi. A partire dal 1985, inoltre, la CEI si è ispirata soprattutto alla prospettiva della Chiesa quale grande "forza sociale" lanciata da Giovanni Paolo n al convegno di Loreto. E proprio nel 1994, il cardinale Ruini ha avviato il Progetto culturale della Chiesa italiana che si è poi interrogato a lungo sulle trasformazioni etiche e culturali emerse a cavallo tra il xx e il XXI secolol8• Si deve soprattutto a tale iniziativa il tentativo di cogliere alcuni riflessi antropologici dei cambiamenti in corso e, in particolare, dei processi di glo­ balizzazionel9. La Chiesa ha cercato così di interrogarsi sul passaggio dalla società di massa alla nuova società degli individui che ha segnato anche l' Italia a partire dall'i­ nizio degli anni Ottanta. Dopo il 20 01, tale percorso si è saldato alla questione del cosiddetto "scontro di civiltà" e al rapporto fra tradizione cristiana e civiltà occiden­ tale, enfatizzato dal problema del terrorismo di matrice islamica e dalle guerre in Afghanistan e in Iraq.

27. 2005,

pp.

C. Ruini, Nuovi segni dei tempi. Le sorti dellafede nell'eta del mutamento, Mondadori, Milano

pp.

7-13.

2 8 . Id., 6 s- 8 2. 29.

Verita e liberta. Il ruolo della Chiesa in una societa aperta, Mondadori, Milano

Id., Rieducarsi al cristianesimo, Mondadori, Milano

200 8 ,

pp.

29-44.

200 6 ,

C AT T O L I C I E P O L I T I C A D A L L A P R I M A A L L A S E C O N D A R E P U B B L I C A

Al mutato rapporto tra gerarchia e laicato si è collegato un approccio più con­ fessionale alla politica italiana. E, malgrado una più esplicita affermazione delle proprie posizioni soprattutto sul terreno etico-antropologico, nella Seconda Repub­ blica la Chiesa ha finito per sperimentare nuove forme di subalternità alla politica. Si colloca in tale contesto una crescente vicinanza dei vertici ecclesiastici al centro­ destra e in particolare a Berlusconi, malgrado una formale equidistanza rispetto a tutti i soggetti politici30• Tale vicinanza è stata interpretata in termini di "neogenti­ lonismo" e cioè di rapporti di scambio che si sono venuti a creare per la maggiore disponibilità del centro-destra a tener conto di specifici interessi concreti dell' istitu­ zione ecclesiastica e del mondo cattolico, dalle scuole non statali alle imposte su fabbricati e attività religiose o sociali. Si tratta, però, solo di un aspetto della questione e di una rappresentazione eccessivamente attenta a relazioni istituzionali tra Stato e Chiesa, come conferma il richiamo al Patto Gentiloni di inizio Novecento. In realtà, questo tipo di relazioni ha perso gran parte della sua importanza in un contesto socioculturale non più dominato dalla centralità dello Stato e molto lontano dalla mentalità laico-liberale di un secolo prima. L' interesse della Chiesa si è piuttosto spostato verso gli orientamenti prevalenti del dibattito nella società degli "stranieri morali", all'interno della quale, più che la definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa o l 'azione del potere politico-amministrativo, a quest'ultima interessa la capacità del legislatore di orientare l'opinione pubblica attraverso un disciplinamento normativa dei comportamenti individuali e collettivi. La presenza dell' istituzione ecclesiastica nella vita pubblica italiana ha assunto così la forma di una lobby mobilitata soprat­ tutto in difesa di posizioni rilevanti per la morale cattolica - i cosiddetti "valori non negoziabili" -, cercando l 'incontro con gli interlocutori più interessati a questi temi, anche se non credenti, come i cosiddetti "atei devoti"31• L'esempio più noto in questo senso è costituito dall ' impegno della C EI per l'astensione nel referendum sulla fecon­ dazione assistita nel 2 o o s 3 l . Unendosi ai molti non cattolici che, per motivi diversi, hanno scelto di astenersi, Ruini ha evitato che i credenti venissero "contati" sul piano politico e che la loro condizione di minoranza venisse palesemente confermata. Hanno certamente pesato su questa scelta i precedenti dei referendum sul divorzio e sull 'aborto, rispettivamente del 1974 e del 1981, entrambi persi dai cattolici, con la Sul rapporto tra la Chiesa e Berlusconi, cfr. A. Gibelli, Il berlusconismo della Chiesa cattolica, in P. Ginsborg, E. Asquer (a cura di), Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 6 8 - 8 2; Id., Berlusconi passato alla storia. L'Italia nell'era della democrazia autoritaria, Donzelli, Roma 20I I. Sul voto dei cattolici in età berlusconiana, cfr. R. Cartocci, Voto, valori e religione, in M. Caciagli, P. Corbetta (a cura di), Le ragioni dell'elettore. Perché ha vinto il centro-destra nelle elezioni italiane del 200I, il Mulino, Bologna 2 0 0 2, pp. 1 6 5-20I. 3 I. Sugli atei devoti, cfr. G. Valente, Dall:Action française agli atei devoti, in Riccardi (a cura di), Le Chiese e gli altri, cit., pp. 41 1-2 8 . Cfr. anche G. Quagliariello, Cattolici, pacifisti e teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del muro, Mondadori, Milano 200 6 . 32. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (I9S9-20II), Laterza, Roma-Bari 20I2, pp. 1 7 5-7· 30.

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conseguenza di diffondere la sensazione di una capacità di influenza della Chiesa in Italia probabilmente inferiore a quella effettivamente esercitata. L'effetto comples­ sivo, tuttavia, è stato quello di suggerire sempre di più una sovrapposizione tra cat­ tolici e centro-destra berlusconiano. Ed è tornata a emergere la sensazione che spesso dove c 'è conflitto ci sia anche subalternità, specie dove c 'è forte divergenza di interessi o di obiettivi, mentre la pace religiosa può favorire non solo la collaborazione tra istituzione ecclesiastica e istituzioni politiche ma anche una maggiore libertà e indi­ pendenza di entrambe e, in definitiva, una migliore accoglienza delle parole e delle posizioni della Chiesa. Nella Seconda Repubblica, accanto a quelli animati dalla CEI, si sono sviluppati anche altri tipi di rapporto tra Chiesa e Stato. Dopo il 1 9 94, il papa e la Santa Sede non hanno mai smesso di guardare con attenzione all ' Italia e sono stati due pontefici non italiani come Giovanni Paolo I I e Benedetto XVI a confermare ancora, con la loro opera, quell ' italianità del papa che costituisce una delle costanti storiche di tale istituzione. Nel 1 9 94, in un momento molto difficile per la vita del paese, Karol Wojtyla scrisse un messaggio appassionato, esprimendo la sua profonda convinzione riguardo alla vocazione non solo religiosa ma anche storica della nazione italiana e sottolineando l'unità del popolo italiano, che sembrava allora minacciato dal "vento dei Balcani" e dalle proposte secessioniste della Lega Nord. E, pochi mesi dopo, su sollecitazione del papa, la Conferenza episcopale italiana celebrò una solenne pre­ ghiera per l' Italia. Successivamente, l'orientamento di Giovanni Paolo I I - non sempre condiviso in toto dall'episcopato italiano - si è manifestato in molti campi diversi, dalla lotta contro la mafia alla mobilitazione per la pace in occasione della Guerra del Golfo e, soprattutto, del conflitto in Iraq. Anche Benedetto XVI ha mostrato attenzione nei confronti dell ' Italia, sviluppando un'intensa sintonia con il presidente della Repubblica, Napolitano, e, più tardi, anche con il presidente del Consiglio Mario Monti, da lui più volte incoraggiato pubblicamente. A Bene­ detto XVI si devono anche reiterati inviti per la formazione di una nuova generazione di cattolici italiani impegnati in politica. I gesti e le iniziative di questi due pontefici, di cui non hanno beneficiato specificamente leader o formazioni politiche italiane, in particolare di centro-destra, hanno manifestato simpatia e affetto nei confronti del popolo italiano e sostegno indiretto alle istituzioni politiche rappresentative della comunità nazionale nel suo complesso.

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La stagione della diaspora Nella Seconda Repubblica, i cattolici hanno avvertito molti motivi di disagio, legati alla fine ingloriosa della D C . Nel mondo cattolico italiano è mancata una rielabora­ zione pubblica e collettiva dell'esperienza democristiana e del suo esito . Non sono 2.00

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stati discussi in modo approfondito - sotto il profilo storico, religioso e politico - gli aspetti diversi e contraddittori delle varie fasi di una lunga stagione che ha segnato in profondità la storia del cattolicesimo italiano, oltre che quella del paese nel suo complesso. Anche l'istituzione ecclesiastica ha mantenuto un complessivo silenzio riguardo a un'esperienza storica in cui pure la Chiesa è stata profondamente coin­ volta. Sono perciò prevalse distanze crescenti e forme di rimozione più che valuta­ zioni critiche. In assenza di un bilancio compiuto delle luci e delle ombre della sta­ gione democristiana, si è finito per proiettare sul passato i problemi del presente. Da parte di molti cattolici, in particolare, sono state attribuite alla DC - più o meno esplicitamente - pesanti responsabilità nella secolarizzazione della società italiana e nell ' impoverimento della cultura cattolica che sarebbe stata schiacciata dall'egemonia della politica. A scoraggiare l ' impegno in campo sociale e, soprattutto, politico dei cattolici dopo il 1 9 94 ha molto influito un cambiamento generale di cultura e di mentalità che ha accompagnato il passaggio dalla società di massa alla società degli individui, coinvolgendo indirettamente anche le Chiese e i mondi religiosi. Negli anni Settanta, questi erano stati contagiati da una diffusa sensibilità per le questioni politiche e sociali e nel 1 9 76 la Chiesa italiana mise al centro del suo primo convegno nazionale il tema della promozione umana, che esprimeva l'esigenza di unire ali' annuncio del Vangelo l' impegno sociale e politico. Nel declino di tali spinte, hanno cominciato invece a prevalere altre priorità e si è fatto strada un senso diverso dei compiti propri del credente, più direttamente collegati alla sua specifica identità religiosa. Nel terzo convegno nazionale della Chiesa italiana a Palermo, nel 1 9 9 5 , fu messo in discussione un ruolo assunto dalle Caritas diocesane considerato eccessivo e la priorità della nuova evangelizzazione fu reinterpretata soprattutto in chiave di riproposizione catechetica della verità cristiana. Nel contesto di una riduzione della tensione verso !' "altro" - in precedenza avvertita intensamente dai credenti -, il mondo cattolico ha ridotto anche il suo slancio missionario. Una buona parte del cattolicesimo ita­ liano, in un certo modo, si è "ritirato" dalla storia, sebbene non tutti siano andati in questa direzione. All'assenza di un endorsement della Chiesa nei confronti di un partito politico si sono via via affiancate varie convinzioni, come quelle che la Santa Sede non si dovesse interessare delle vicende italiane, che i vescovi non dovessero entrare nelle scelte politiche, che lo stesso dovessero fare associazioni o movimenti ecclesiali, che i fedeli non dovessero ispirare la loro azione politica a una "matrice" cattolica e che, fast but not least, gli elettori cattolici dovessero necessariamente dividersi tra i vari schieramenti politici. Sono questioni diverse ma direttamente o indirettamente influenzate dalla spinta ad allontanarsi il più possibile dall'esperienza della Demo­ crazia cristiana. Così, dopo molti anni in cui la distinzione maritainiana tra la sfera spirituale e quella temporale è stata vista criticamente o addirittura considerata con sospetto da molti ambienti ecclesiastici, è sembrata prevalere un 'interpretazione 2.01

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rigida ed estensiva di tale distinzione. Ma tale interpretazione appare un maritainismo fuori tempo massimo : prescinde, infatti, dall 'orizzonte di cristianità in cui si muoveva Maritain ed esprime non una distinzione ma piuttosto la tendenza a una separazione. La presenza di cattolici in politica non è scomparsa ma è stata complessivamente depotenziata. Senza passare tutti attraverso l'esperienza del Partito popolare, molti ex democristiani e molti cattolici hanno animato l'esperienza dell' Ulivo e/o sono transitati nella Margherita e infine confluiti nel Partito democratico33• Per quanto riguarda il centro-destra, invece, nelle formazioni promosse da Casini sono entrati alcuni esponenti della D C , mentre altri hanno partecipato alle esperienze di Forza Italia e di AN, per poi entrare nel PDL. In entrambi gli schieramenti, c 'è stato chi ha portato in politica rigore etico e passione ideale e, ali' interno del centro-sinistra, alcuni hanno sostenuto la difesa dei più deboli e la lotta contro la corruzione. Tut­ tavia, pur non scomparendo, la presenza attiva dei cattolici in politica si è comples­ sivamente ridotta e ha assunto una forma frammentaria. La fine del cosiddetto "partito cattolico", inoltre, non ha comportato solo un minore coinvolgimento dell' istituzione ecclesiastica e del laicato cattolico, ma anche una minore propensione ad affermare la specificità di una presenza cattolica in politica. Le due diverse espres­ sioni di « atei devoti » e di « cattolici adulti » - coniate, rispettivamente, da Giuliano Ferrara e da Romano Pro di - sono indicative, da un lato, di un' istituzione ecclesia­ stica che non considera più prioritario il ruolo del laicato cattolico e valorizza piut­ tosto le convergenze sulle sue posizioni di non cattolici e, dali' altro, di una parte di tale laicato che sottolinea la propria distanza dalla gerarchia in nome della lotta contro l 'ingerenza clericale in politica. Le divisioni tra i cattolici hanno contribuito ad alimentare il bipolarismo della Seconda Repubblica, fino al tentativo di utilizzare il conflitto sui temi etici e antro­ pologici per radicalizzare in modo permanente tale bipolarismo. A sua volta, lo schema dello scontro tra due poli ha influenzato il rapporto tra cattolici e politica radicalizzando le divisioni interne al mondo cattolico. La fine del rapporto privile­ giato con un partito ha alimentato il disinteresse del clero per l'impegno politico del laicato e la presenza dei fedeli nei diversi schieramenti ha spinto molti pastori, preoccupati per l'unità della propria comunità, a evitare discorsi sulla politica. E diminuito anche l'interesse per questa di gran parte dell'associazionismo cattolico, mentre la costituzione di scuole di politica in molte diocesi o parrocchie non è stata in grado di contrastare gli effetti negativi di rapporti meno intensi tra partiti e società civile, in termini di mancata formazione di nuovi quadri politici, di minore incidenza delle motivazioni ideali sulle scelte pubbliche e così via. Nella Seconda Repubblica si è gradualmente smarrito il senso di un impegno dei cattolici in politica, i sondaggi hanno registrato una crescente irrilevanza della fede religiosa rispetto alle scelte poli,

pp.

33· D. Saresella, Cattolici a sinistra. Dal modernismo ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 2ou, I8?-22S.

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tiche e qualcuno ha teorizzato la necessità di spezzare qualunque legame tra la prima e le seconde. Si è smesso di contare i cosiddetti "voti del cielo". Nel centro-destra, i cattolici hanno finito per giustificare in misura crescente comportamenti moralmente problematici dal loro punto di vista - in primis quelli di Berlusconi - in nome dei vantaggi che ne potevano derivare per la recezione dei loro principi in sede legislativa o per il sostentamento delle loro opere. In tale ambito, qualcuno è giunto persino a teorizzare una separazione completa tra etica e politica, mentre altri hanno utilizzato strumentalmente alcune questioni etiche - soprattutto in campo biomedico - contro lo schieramento avversario. Nel centro-sinistra, invece, molti cattolici sono scivolati lentamente verso posizioni del cattolicesimo del dissenso e altri sono rimasti involontariamente prigionieri di una "questione democristiana" alla rovescia, facendo della scomparsa della D C e dell' impegno per impedirne la ricomparsa una priorità. E la "contaminazione" fra diverse tradizioni politiche all 'in­ terno del Partito democratico, in particolare quelle degli ex popolari e degli ex comunisti, è apparso sempre di più un amalgama non riuscito. Nel tempo, però, sono cominciate anche a emergere nuove esigenze, che hanno gradualmente spinto i cattolici verso un rinnovato interesse per la politica. Si è infatti acuito un senso di insoddisfazione di gran parte del mondo cattolico verso l 'offerta politica disponibile, espressa anche da un crescente disimpegno elettorale, entrambi sintomi di una sorta di silenziosa "opposizione cattolica" alla Seconda Repubblica. Contemporaneamente, lo sviluppo di nuovi movimenti ecclesiali ha contrastato almeno in parte la tendenza al ripiegamento ad intra e la caduta di spirito missionario, mentre crescevano quelle che sono state definite le nuove "spinte unitive" tra i cat­ tolici. Gli input provenienti dall 'universalismo cattolico - come quelli espressi dal magistero di Giovanni Paolo n - hanno mantenuto aperto l'interesse per le vicende di altri paesi, anche non europei, a differenza di una politica italiana spesso provin­ ciale. L'impegno per i più deboli e in particolare per i lavoratori extracomunitari, sempre più numerosi in Italia, ha posto ai cattolici un problema di crescente incom­ patibilità con forze politiche dichiaratamente xenofobe e razziste o anche semplice­ mente indifferenti ai problemi di queste persone. L'aggravamento della crisi econo­ mica, poi, ha acuito una sensibilità complessivamente incline a considerare criticamente le esaltazioni di una mentalità consumista. E, infine, l'ostentazione di comportamenti immorali, pubblici e privati, ha reso evidente l' insostenibilità, per i cattolici, della tesi di una pretesa irrilevanza del giudizio etico rispetto a tali comportamenti. Indubbiamente importante è stato anche un nuovo atteggiamento delle autorità ecclesiastiche. Come si è già ricordato, a partire dal 2007 papa Benedetto XVI ha iniziato a indicare la necessità che si formasse in Italia una nuova generazione di politici cattolici. Rilevante è stata anche la preoccupazione di questo papa per il progressivo distacco dell' Italia dal contesto europeo. Nel 2012 ha condiviso la coster­ nazione, diffusa in Europa, per i comportamenti di Berlusconi, manifestando pub­ blicamente il suo apprezzamento per il governo Monti. La fine della leadership 203

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ruiniana della C EI ha inoltre contribuito all'emersione di nuovi orientamenti tra i vescovi italiani. Novità, nel dibattito interno del mondo cattolico, sono cominciate ad emergere in modo visibile nel 20II. Per la prima volta dall 'inizio degli anni Novanta, si è ripreso a parlare apertamente di impegno politico dei cattolici, sulla spinta di un disagio sempre più evidente. E stato auspicato il ritorno del Partito popolare di Sturzo ed è stata ricordata l'esperienza della Democrazia cristiana, per sottolineare l'inadeguatezza dell'offerta politica esistente e per esprimere l 'esigenza di nuovi interlocutori politici. Il nuovo interesse dei cattolici per la politica si è inserito nella crisi della Seconda Repubblica, divenendo una delle componenti che hanno spinto per l'apertura di una nuova stagione politica. All 'origine di questa evoluzione, più che la nostalgia della DC - certamente presente, seppure in modo declinante, dopo il 1994, ma non in grado di produrre effetti politici rilevanti - ha influito l'esasperazione per il declino della politica. La gravità della crisi italiana li ha spinti a interrogarsi nuovamente sulle esigenze del bene comune, una tematica tipica della tradizione cattolica ma di fatto poco frequentata dopo la fine della D C . Si è delineato cioè un riavvicinamento dei cattolici alla politica, non sulla spinta di motivazioni interne ma piuttosto di sollecitazioni esterne; non per tutelare gli inte­ ressi della Chiesa o sulla base di spinte confessionali, ma per affrontare questioni di interesse comune e per risolvere problematiche squisitamente laiche, come gli effetti della crisi economica o i difficili rapporti con l'Europa. Infine, una stagione nuova nel rapporto tra cattolici e politica in Italia si è indub­ biamente aperta con il ritiro di Benedetto XVI e l'elezione di papa Francesco, tra il febbraio e il marzo 2013, proprio mentre si svolgevano le elezioni politiche e si apriva la XVII Legislatura. '

I cattolici democratici e la fine dell'unità p olitica dei cattolici di Daniela Saresella

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La nascita della Lega democratica Il referendum del 1974 segnò un momento importante nella storia repubblicana perché la maggioranza degli italiani si dichiarò favorevole al divorzio, a testimonianza « di un mutamento profondo nella mentalità e nel costume » che era ormai in atto nel nostro paese, coinvolto da processi di secolarizzazione che tendevano a logorare la stessa identità di nazione cattolica1• Non tutti i credenti, in quell 'occasione, segui­ rono le indicazioni della Chiesa e della DC, tanto è vero che nel febbraio 1974 ( il referendum si sarebbe svolto in maggio ) 88 intellettuali firmarono un appello a favore del divorzio, nel quale facevano riferimento ai valori della convivenza civile e della libertà religiosa, essenziali in una società pluralistica e democratical.. Anche in seguito Pietro Scoppola ha dimostrato di condividere la scelta allora compiuta: «l' idea di imporre con la forza del numero un modello di matrimonio così alto come quello che viene dalla tradizione cristiana mi sembra una forzatura inaccettabile » 3• Contro l'abrogazione della legge si schierarono quei credenti che dal Concilio in poi avevano assunto posizioni critiche nei confronti della Chiesa, come i Cristiani per il socia­ lismo, il gruppo Sette novembre - nato nel 1971 con l 'intento di trasformare la Chiesa dall' interno e di riportarla alla sua originaria vocazione evangelica -, oltre a riviste come "Il Regno" di Bologna, "Testimonianze" di Firenze, "Idoc" e "Nuovi Tempi" di Roma, "Il Tetto" di Napoli e "Il Foglio" di Torino4• Parte dei cattolici che si erano schierati per il "no" ed esponenti della sinistra 1. P. Scoppola, La fine del partito cristiano, in Dizionario storico del movimento cattolico, diretto da F. Traniello, G. Campanini, Aggiornamento I9S0-1995. Marietti, Genova 1997, p. ISS· Si segnala che, dopo la consegna di questo saggio, è uscito il volume di Lorenzo Biondi La Lega democratica. Dalla Democrazia cristiana all'Ulivo: una nuova classe dirigente cattolica, Viella, Roma 2013. 2. Cfr. G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, societa civile dalla legge al reforendum (19051974), Bruno Mondadori, Milano 2007. 3· P. Scoppola, Un cattolico a modo suo, Morcelliana, Brescia 2008, p. 46. 4· D. Saresella, Cattolici a sinistra. Dal modernismo ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 148-so.

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democristiana si trovarono nell'ottobre del 1975 a Roma - a pochi mesi dalle elezioni amministrative che avevano visto l'affermazione del P C I - nello studio di Luigi Macario, leader della C I S L , e stilarono un documento dal titolo Per una proposta di rinnovamento politico, che fu firmato da Piero Bassetti, Ermanno Gorrieri, Lino Bosio, Marino Carboni, Bruno Kessler, Luigi Macario, Ettore Passeri n d' Entrèves, Paolo Prodi, Romano Prodi, Gianpaolo Rossi e Bruno Storti. In esso si dava una valutazione positiva a proposito del risultato delle elezioni del 15 giugno, in cui l'elettorato aveva espresso un voto « contro l'autosufficienza di ogni ideologia e di ogni partito » e aveva colpito la D C , per «la sua pretesa di un esercizio esclusivo del potere fondato ancora sull 'anticomunismo » . Il giudizio formulato sul partito catto­ lico risultava severo : « il sottogoverno democristiano non è un mero accidente, o una caduta morale, bensì un modo preciso di gestire un potere costituitosi al di fuori di una idea programmati ca sulla crescita dello Stato moderno industriale » . Era neces­ sario dunque un profondo rinnovamento della D C con l'obiettivo di creare una forza popolare capace di concorrere al rinnovamento politico in collaborazione con i par­ titi di sinistra. Grande speranza suscitava in tal senso la segreteria Zaccagnini che stava operando per la moralizzazione del partito, nella consapevolezza che la sua trasformazione avrebbe comportato l 'abbandono di esso da parte dei « ceti parassitari e conservatori » 5• Il s novembre 1975 fu organizzato, sempre nella capitale, il Convegno dei cat­ tolici democratici per il rinnovamento dell ' Italia, che vide la partecipazione di circa 150 personé; si trattava di cristiani che, ispirati dall 'esperienza di Sturzo e di De Gasperi, da intellettuali come Maritain e Mounier e dalle riflessioni del Concilio, vollero costituire la Lega democratica. Esplicative della dimensione culturale di questi credenti sono le parole di Francesco Traniello, tra i protagonisti di quell 'e. spenenza : Quello che accomuna il gruppo è il riconoscimento della permanente validità dei valori cristiani come elemento essenziale di convivenza civile e di dignità personale. Ci fa stare insieme la convinzione che questi valori, per diventare lievito e punto di orientamento poli­ tico e sociale, debbano essere ripensati e riproposti mediante una complessa opera di media­ zione, che mostri attenzione al momento storico, ai segni dei tempi, alle esigenze spirituali e culturali dell'uomo contemporaneo7•

La LD, come già il Partito d'azione, fu - nota Fulvio De Giorgi - un gruppo di generali senza soldati: tra le sue file vi erano Scoppola e Achille Ardigò ( scissi tra il S· Per una proposta di rinnovamento politico, in P. Bassetti, E. Gorrieri, P. Scoppola, DC: tra rifon­ dazione e secondo partito, prefazione di G. Galli, Contemporanea Edizioni, Milano 1976, pp. 133-7 5. 6. "Adistà', 1 1-12 novembre 1975. 7· F. Traniello, La Lega democratica a Torino. Ragioni di una presenza, documento s.d., in Archivio Francesco Traniello, Torino.

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postdegasperismo del primo e il postdossettismo del secondo), i bresciani moderati (Luigi Bazoli e Leonardo Benevolo) e quelli "sociali" (Gianni Landi), i torinesi Franco Bolgiani e Francesco Traniello, e gli emiliani postdossettiani Paolo Prodi, Luigi Pedrazzi, Ermanno Gorrieri; vi era poi il gruppo romano con Nicolò Lipari, Romolo Pietrobelli, Angelo e Paola Gaiotti. Vi aderirono anche intellettuali formatisi nell' Università Cattolica di Milano, come Romano Prodi, Roberto Ruffilli, Luciano Pazzaglia8• L'intervento introduttivo al convegno, affidato a Scoppola, chiariva che l'inizia­ tiva nasceva dalla crisi della D C : Fanfani aveva portato il partito a scelte « moderate, conservatrici, tendenzialmente aperte a sbocchi autoritari (strategia della tensione largamente utilizzata, campagne elettorali fondate quasi esclusivamente sul più vec­ chio anticomunismo, dequalificazione progressiva dell'elettorato moderato ... ) » . L'intellettuale romano, pur riconoscendo i progressi fatti dal P C I , riteneva però non opportuno uno spostamento del voto cattolico verso quel partito, « legato a premesse ideologiche non facilmente componibili con la fede cristiana » . Lanciava così la proposta di creare « un movimento di cultura e di mobilitazione popolare alla base del paese che formul[asse] una autentica proposta politica di ispirazione cattolico democratica che con la sua esistenza sfid [asse] e condizion [asse] dall'esterno, da posizioni autonome di forza, la DC e il suo processo di rinnovamento » 9 • Il convegno di fondazione si concluse con la stesura di un documento che affer­ mava la necessità « di promuovere, come impegno autonomo e permanente, una mobilitazione della periferia per la ricerca e il dibattito culturale, per l'elaborazione di proposte in ordine ai problemi dello sviluppo civile, sociale ed economico, per la partecipazione attiva nelle istanze della democrazia di base » 10• La Lega intendeva rivolgersi ai cattolici critici nel confronti della D C , a coloro che avevano deciso di rimanere nel partito con l'obiettivo di rinnovarlo e ai democratici di ispirazione laica interessati a una sinistra non ideologica11: la convinzione era che la città politica dovesse essere costruita da tutti, dando ognuno il proprio contributo che non poteva prescindere dalle differenti opzioni ideologichea. L'impressione di molti era che la Lega, al di là delle dichiarazioni che prospet­ tavano un orizzonte politico e culturale non limitato al partito cattolico, fosse un

8. F. De Giorgi, L'esperienza della Lega democratica e la storia di ':Appunti", in "Appunti di Cultura e di Politica", xxx, 2008, 4, pp. 23-9. 9· P. Scoppola, L 'intervento introduttivo, in Convegno dei cattolici democratici: per una proposta di rinnovamento politico {Roma, s novembre I975), pp. 24-9, in Archivio storico dell' Istituto Luigi Sturzo (d'ora in avanti ASILS ) , Archivio Pietro Scoppola (d'ora in avanti APS) , serie V, b. 6o, fase. s u. IO. Cfr. L. Pazzaglia, La Lega democratica e l'incubazione di ':Appunti di Cultura e di Politica", in "Appunti di Cultura e di Politicà', xxx, 2008, 4, pp. 7-I3. 1 1. Cfr. G. Tassani, Nuovi movimenti e politica in area cattolica, in Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento I9SO-I995· cit., pp. I78-8o. I2. M. Guasco, Chiesa e cattolicesimo in Italia {I94s-2ooo), Dehoniane, Bologna 2ooi, p. 128. 20 7

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gruppo che intendeva appoggiare il rinnovamento intrapreso da Zaccagnini. La poli­ tica della LD doveva essere dunque chiarita, e Michele Dau, in una lettera ai militanti del luglio 1 9 76, sottolineò come il comitato esecutivo avesse ritenuto opportuno riprendere i contatti con coloro che - come Pierre Carniti, Domenico Rosati, Emilio Gabaglio - si erano mostrati critici di fronte alle posizioni troppo favorevoli alla linea di rifondazione della D C . L' impegno per il rinnovamento del partito dei cat­ tolici aveva infatti spesso sacrificato quello che era l 'obiettivo iniziale: « discorso culturale e aggregazione autonoma di base » 13• Il secondo convegno della LD venne organizzato sempre a Roma il 16- 17 ottobre 1 9 76 : in platea, come osservatori, erano presenti Raniero La Valle e Piero Pratesi, oltre a colui che viene considerato il "padre spirituale dell'operazione", il direttore della "Civiltà Cattolica" padre Bartolomeo Sorge. Nel congresso si decise di accan­ tonare il tema della rifondazione della DC e di privilegiare un impegno volto a diffondere capillarmente la cultura cattolico-democratica : la scelta era indotta dall'avvicinamento alla Lega di Pierre Carniti e di altri esponenti della sinistra della C I S L , che guardavano con simpatia al P S I , dal luglio del 1 9 76 guidato da Bettino Craxi14• L'incontro fu aperto da una relazione di Ardigò, nella quale il sociologo espresse le sue perplessità sia sulla costituzione di un secondo partito cattolico, sia sulla capa­ cità della DC di rinnovarsi, proponendo di operare in una sfera di progettazione e di azione culturale; scettico nei confronti dell'intraprendenza socialista, prospettava un'azione comune tra D C e P C I volta a operare una « correzione del compromesso tra capitalismo e libertà » , nella prospettiva di una società più giusta e umana15• Anche Pedrazzi nel suo intervento dimostrava di apprezzare la «politica del confronto » che vedeva protagonisti Berlinguer e Zaccagnini ( con Moro ) . La Lega, a suo parere, doveva promuovere tali aperture, perché l'obiettivo era « costruire una democrazia sostanziale e partecipata » 16• "Avvenire" individuava però differenze tra le posizioni di Pedrazzi e di Ardigò : infatti « il primo è assai vicino ai cattolici del dissenso, il secondo invece colloca la linea d 'azione del movimento nel quadro della partecipazione e del pluralismo, lungo il filone della tradizione cattolico-popolare » . Vicino ad Ardigò veniva posto Scoppola, che non aveva mancato di evidenziare la distanza rispetto ai cattolici del dissenso, e aveva espresso la sua fiducia per gli esiti del convegno ecclesiale I3. Lettera di Michele Dau agli amici della Lega, Roma, 5 luglio I976, in ASILS, APS, serie V, b. 6o, fase. 5I3. I4. Pazzaglia, La Lega democratica e l'incubazione di ':Appunti di Cultura e di Politica", cit., pp. 9-1 1. I5. La relazione si trova in Atti del convegno nazionale (Roma, 10-17 novembre 1970), Segreteria nazionale della Lega democratica, Roma I976, pp. 23-44. I 6. L. Pedrazzi, Proposte per un dibattito interno alla Lega, Convegno nazionale della Lega demo­ cratica, Roma, I6-I7 ottobre I976, in ASILS, APS, serie v, b. 6o, fase. 512. 20 8

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Evangelizzazione e promozione umana, che si sarebbe tenuto dal

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novem bre17• Durante l 'incontro, che evidenziò la determinazione di Paolo VI di porre al centro della riflessione il primato dell 'evangelizzazione, significativa fu la presenza dei cattolici democratici, tanto è vero che il presidente della CEI, il cardinale Enrico Bartoletti, designò Ardigò e Paola Gaiotti membri del Comitato promotore, e tra i relatori ufficiali scelse Scoppola e Lipari. Posizione di rilievo nel convegno furono ricoperte anche da Giuseppe Lazzati e da padre Sorge il quale, in qualità di copresi­ dente, ebbe anche il compito di tracciare le conclusioni dei lavori. Il gesuita in quell 'occasione affermò che l'integralismo rappresentava il « tarlo del Vangelo » in quanto scavava nelle sue pagine e se ne nutriva, « ma per corroderlo a proprio uso e consumo e poi distruggerlo » . Poi precisava: 4

Non ho mai sostenuto la fondazione di un secondo partito cattolico, perché mi pare impro­ ponibile. Mi sono sempre impegnato per la rifondazione della DC, perché torni al suo spirito popolare, autentico dell' ispirazione cristiana, abbandonando senza paure connivenze o scelte discutibili. Se questa rifondazione non si realizzasse sarà difficile che il mondo cattolico non ipotizzi una nuova organizzazione politica18•

Nei cinque giorni di discussione all' EUR emerse che - come affermava Sandro Magi­ ster - « il pluralismo culturale, politico e anche ideologico » rappresentava « una realtà incomprimibile » che investiva « il corpo centrale della cattolicità italiana » 19• Protagonisti furono soprattutto gli intellettuali di matrice culturale cattolico-liberale che aveva messo all 'angolo l'aggressivo intransigentismo di Comunione e liberazione, rappresentato in quell'occasione da Rocco Buttiglione, oltre che da Luigi Negri e Angelo Scola. Paola Gaiotti ammetteva che il comitato costituito nel luglio 1974 per organizzare il convegno comprendeva esponenti che nel novembre 1975 sarebbero confluiti nella LD ma, specificava, per sgombrare il campo da equivoci, « la Lega, proprio per il suo carattere laico, non vuole essere un segno, una figura, una esperienza propedeutica alla comunione ecclesiale, né è portatrice di un progetto proprio di Chiesa alternativo ad altri progetti » l0• In un'intervista sul foglio "Per la terza ne", Scoppola volle poi pre­ cisare che il convegno non aveva tolto legittimità al partito cattolico e che la rivendi­ cazione del pluralismo significava la legittimazione per i credenti di compiere « scelte diverse purché coerenti con la loro fede » ; soprattutto durante la discussione nessuno I7. Per una animazione cristiana della politica, in "Avvenire", I9 ottobre I976. I8. L. Fumo, La Chiesa: i cattolici, a titolo personale, possono aderire ai partiti non-cristiani, in "La Stampa", s novembre I976. I9. S. Magister, La Chiesa di vetro, in "l'Espresso", 46, I4 novembre I976, pp. 32-4. 20. P. Gaiotti, Alcune osservazioni sul Convegno "Evangelizzazione e promozione umana", in "Lega Democratica. Agenzia stampa", I, I, 7 dicembre I976. 20 9

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aveva voluto escludere che i cattolici si potessero coordinare « in una scelta politica o in un partito » che nascesse da una tradizione culturale di ispirazione cristianal1• Nel periodo successivo all 'incontro romano, la mobilitazione del mondo catto­ lico continuò : nel giugno 1977 presso la sede di "Civiltà Cattolica" padre Sorge riunì i responsabili dei movimenti e delle associazioni per discutere sul ruolo dei credenti nel nostro paese. In questa occasione si avviò con forza il progetto di una "ricompo­ sizione" cattolican; poi, a partire dall'autunno, iniziarono gli incontri romani presso l'istituto Tra noi, nelle vicinanze del Vaticano, che si sarebbero protratti per quattro anni. L'iniziativa vide l 'adesione anche della Lega, e Pazzaglia ricorda come Lazzati, rettore dell ' Università Cattolica del Sacro Cuore, preoccupato di non coinvolgere l'istituzione ma interessato al progetto, lo avesse pregato di partecipare alle iniziative e poi di riferirgli della discussione. Nel 1977 Lazzati decise di dedicare il corso di aggiornamento, che si sarebbe svolto a Verona, al tema della laicità, da poco definito e recepito dal Concilio : il rettore, preoccupato perché nella Chiesa continuavano a persistere atteggiamenti integralistil3, volle affidare le relazioni, oltre a professori dell'ateneo, anche ad Ardigò, Ruffilli, Scoppola e Traniello, provocando la reazione dei cattolici più conservatori che lo accusarono di voler appiattire l'università sulle posizioni della Legal4. Nel 1978 il gruppo diede vita ad ''Appunti di Cultura e di Politica": la rivista era diretta da Scoppola, che contemporaneamente era anche presidente della LD, affian­ cato come direttore responsabile da Angelo Gaiotti. ''Appunti" mostrò da subito l'inclinazione per interessi politico-istituzionali ed economici più che ecclesiali e divenne espressione della cultura politica della "terza fase" di Morol\ anche se gli storici Franco Bolgiani e Paolo Prodi non mancarono di far sentire il loro dissenso verso quella che definivano una linea di appiattimento sulla D C . L'editoriale del primo numero, firmato da Paola Gaiotti De Biase, e intitolato La terza fase, faceva riferimento alla politica dello statista democristiano da poco scomparso, apprezzato in quanto « teorico dell 'allargamento della democrazia » , che si era adoperato per « una semplificazione rozza della dialettica politica » l6• Anche Paolo Prodi interve­ niva chiarendo di intravvedere per la D C un futuro solo se avesse recuperato la for­ mula degasperiana « del parti to che si muove dal centro verso sinistra » , verso riforme 2I. Dichiarazione di Pietro Scoppola in merito al convegno "Evangelizzazione e promozione umana", in "Per la terza oc", 39, 26 novembre I976, pp. 2-3. 22. Cfr. B. Sorge, La "ricomposizione" dell'area cattolica in Italia, Città nuova, Roma I979; Id., Dibattito sulla "ricomposizione" dell 'area cattolica in Italia, a cura di B. Sorge, Città nuova, Roma I99I. 23. Cfr. G. Formigoni, Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernita nell'Italia del 9oo, li Margine, Trento 2oo8, pp. I35-7· 24. Pazzaglia, La Lega democratica e l'incubazione di ':Appunti di Cultura e di Politica", cit., pp. 7-I3. 25. Cfr. Formigoni, Alla prova della democrazia, cit., pp. I89-202. 26. P. Gaiotti, La terza fase, in "Appunti di Cultura e di Politica", I, I978, I, pp. I-3· 210

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profonde che incidessero sull 'organizzazione dello Stato, «per la realizzazione di una Repubblica fondata sul lavoro, contro la rendita e il parassitismo » l7• Nell'analisi di Prodi palese era il tentativo di guardare al di là della D C e, se giudicava che in quel momento la diaspora politica dei cattolici non rappresentasse « una soluzione con­ creta » , riteneva che nel lungo periodo la linea non potesse che essere quella del confronto e della collaborazione con tutta la sinistral8•

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Verso gli anni Ottanta Pur nella diversità delle posizioni, ciò che accomunava i cattolici della Lega era il sentirsi figli dell 'esperienza conciliare : giudicavano un valore positivo la laicità moderna dello Stato ed erano convinti di dover sostenere la lotta delle classi meno abbienti e dei lavoratori per un'uguaglianza dei diritti politici e sociali; ma soprat­ tutto ritenevano che il vero pericolo per il cristianesimo non provenisse dal comu­ nismo e dalla cultura laica di ascendenza risorgimentale, bensì fosse rappresentato dai processi di secolarizzazione indotti dalla società dei consumi e dall'introdursi anche nel nostro paese dali' american way of life, tesi che Scoppola sostenne anche nel libro La «nuova cristianita» perduta, pubblicato da Studium nel 1985l9• Durante la prima fase la Lega si pose, come abbiamo visto, a sostegno della politica di "solidarietà nazionale", che però dopo la scomparsa di Moro mostrò dif­ ficoltà di attuazione. Del resto, l'uccisione dello statista nel 1978 rappresentò una svolta per la politica italiana e anche per il mondo cattolico democratico : le BR solo apparentemente uscirono vincitrici dal braccio di ferro con lo Stato, perché da quel momento sarebbe iniziata la loro fase discendente e i pochi consensi che potevano vantare nel paese si sarebbero ridimensionati ulteriormente. L'organizzazione avrebbe però continuato la sua strategia con l'uccisione nel 1980, nei pressi della Facoltà di Scienze politiche di Roma, mentre era in compagnia della sua assistente Rosy Bindi, di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, intel­ lettuale da sempre impegnato nel rinnovamento dell'Azione cattolica, di cui era stato presidente30• La conclusione nel nostro paese delle intese tra masse cattoliche e comuniste è da far risalire al XIV Congresso della D C che si tenne nel febbraio 1980, quando fu votato a maggioranza un testo, elaborato da Carlo Donat- Cattin e da Arnaldo For-

27. P. Prodi, Appunti, ivi, pp. 4-7. 28. Ibid. 29. Cfr. G. Frosini, Pietro Scoppola. Un cristiano del nostro tempo, EDB, Bologna 20I2, pp. 54-64. 30. A. Valle, Parole opere e omissioni. La Chiesa nell'Italia degli anni di piombo, Rizzoli, Milano 200 8, pp. I 94-S· 21 1

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lani, ma appoggiato da Antonio Bisaglia, Flaminio Piccoli e Mario Segni, che ribadiva la necessità di tornare a escludere il PCI dall'area di governo. Con gli anni Ottanta si apriva così una nuova fase della storia della D C , « caratterizzata da un declino progressivo del partito » 3\ che assunse evidenza quando il mandato di presidente del Consiglio, per la prima volta nella storia repubblicana, fu conferito a un non demo­ cristiano, il repubblicano Giovanni Spadolini. Fu in questo contesto che, in nome della questione morale, componenti molto diverse tra loro come la Lega democratica e il Movimento popolare ( nato nel 1975 come espressione politica di CL ) chiesero una profonda rifondazione del partito e un mutamento della leadership32• Il 1 9 8 1 fu l'anno in cui l' Italia fu chiamata al voto per esprimersi sui due refe­ rendum sull 'aborto, dopo che nella primavera dal I978 era stata approvata dal Par­ lamento la legge 194; seguendo le indicazioni della Santa Sede i cattolici democratici - pur con le precisazioni già espresse da Carlo Alfredo Moro33 - si orientarono a favore del diritto alla vita34• Del resto Scoppola, nella sua intervista-confronto con Giuseppe Tognon, non ha mancato anche negli ultimi anni di rivendicare sia la giustezza della sua scelta controcorrente in occasione del quesito referendario del I974, sia la sua convinzione che l'aborto fosse "un'altra cosa" : « ritenevo e ritengo anche oggi efficace e inutilmente persecutoria nei confronti della donna qualsiasi sanzione penale; ma ritenevo inaccettabile l'ipotesi prevista dalla legge di un diritto della donna all'aborto in strutture pubbliche » 3;. Nel mese di aprile l'Assemblea nazionale della D C riconobbe poi la necessità di aprire un confronto con esponenti del mondo cattolico : dopo cinque incontri pre­ paratori, a novembre si svolse il convegno conclusivo, a cui parteciparono anche esponenti della Lega. Ardigò, invitato all 'Assemblea della D C ( che si tenne a Roma dal 25 al 29 novembre I981) dal presidente Forlani, consigliava quel partito di fare « della ricarica di energie nello scambio creativo con l'ambiente il tratto caratteriz­ zante della sua azione » : doveva assumere nuova linfa dall'associazionismo cattolico, dalla società civile, dai giovani. Riteneva dunque fosse auspicabile nella DC « la pre­ senza impegnata e leale di esterni del mondo cattolico, di uomini di cultura, di sapere, di azione volontaria e del mondo del lavoro » 36• Il rischio paventato però da Scoppola era quello che gli « esterni » che si erano impegnati nella D C , sostenitori dell ' « iden31. A. Giovagnoli, La Democrazia cristiana dal I9So al I994· in Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento I930-I995· cit., pp. 146-7. 32. Ibid. Cfr. Id., Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 201 1, pp. 179-80. 33· C. A. Moro, Una proposta sull'aborto, in "il Mulino", XXIV, 1975, 237, pp. 5-25. 34· G. Scirè, L 'aborto in Italia. Storia di una legge, Bruno Mondadori, Milano 2008, pp. 89-95; Giovagnoli, Chiesa e democrazia, cit., pp. 16 8-70. 35· In proposito cfr. anche P. Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell'Italia unita. Intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 148. 36. A. Ardigò, Cio che ho detto all'assemblea DC, in "Appunti di Cultura e di Politica': IV, 1981, 12, pp. 14-7· 212

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ti tà cristiana del parti to » e della cosiddetta « cultura della presenza » , potessero tenere troppo bassa la soglia delle condizioni richieste37• Del resto, rispondendo alle sollecitazioni di Tognon, Scoppola, molti anni dopo, sostenne che il rinnovamento della D C e l'esperienza degli esterni fosse « al limite dell' impraticabile: ci muovevamo spe contra spem». Di fatto chi aveva creduto in quell'esperienza si era illuso perché « la D C ha dimostrato di non essere in grado di rinnovarsi » 38• La Lega sostenne la candidatura alla segreteria di Ciriaco De Mita durante il xv Congresso della D C del 1982. La rivista "Appunti" manifestò infatti attenzione e speranze a proposito della svolta della Democrazia cristiana, perché il partito aveva sconfessato l 'idea di un raggruppamento conservatore e si era espresso per il rinno­ vamento : era così stato seppellito il doroteismo e recuperata «la parte più politica­ mente nobile e aperta » della tradizione politica cattolica, con la realizzazione « della amministrazione e della tattica » dell'eredità morotea39• La collaborazione tra gli intellettuali della Lega e la D C divenne così assai stretta e De Mita volle presentare alcuni di loro nelle elezioni del 1983 - Ruffilli, Scoppola e Lipari vennero eletti in Senato, con il disappunto di Ardigò -, e intese coinvolgerli nella redazione di pro ­ poste per riforme di carattere istituzionale. Scoppola e Ruffilli si posero l'obiettivo di realizzare un patto con il P C I per difendere la Costituzione e allargare la demo­ crazia, ma il tema istituzionale in quegli anni fu oggetto di un inconcludente dibat­ tito tra le forze politiche, utilizzato più come risorsa tattica che come strategia per superare la crisi politica e dello Stato : così, durante i sette anni della segreteria di De Mita, nell 'anno della sua presidenza del Consiglio e durante la gestione di Mino Martinazzoli del ministero delle Riforme istituzionali, durante il VII governo Andreotti, la D C e la sua componente di sinistra non furono in grado di realizzare alcuna riforma istituzionale40• Contro De Mita si allearono nel partito tutti coloro che erano ostili alle riforme, che implicavano una politica di coalizione che anticipasse il programma della propria alleanza41, e tutti coloro che intendevano « chiudere con il passato del movimento cattolico, con il degasperismo, la solidarietà democratica, gli archi costituzionali, le unità nazionali, l'economia mista » 4l. Il coro era guidato in particolare dal settima­ nale ciellino "Il Sabato", sulle cui pagine Roberto Formigoni, sostenitore del Penta-

37· P. Scoppola, Dopo l'assemblea della DC, ivi, pp. I7-9· 38. Id., La democrazia dei cristiani, cit., pp. I5I-2. 39· A. Ardigò, Un congresso efficace, in "Appunti di Cultura e di Politica", v, I982, 5, pp. 4-6. 40. G. Brunelli, Nel tramonto della DC. Chiesa e unita nazionale, in Chiesa in Italia I993· Anna/e de Il Regno, EDB, Bologna I994, pp. 92-3. Sull ' importanza per la DC delle elezioni del I983, cfr. M. S. Piretti, Per una geografia dei cattolici in politica, in Cristiani d'Italia. Chiese, societa, stato, IS6I-20II, a cura di A. Melloni, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2011, p. 775· 4I. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (I945-I990), il Mulino, Bologna I99I, pp. 399-4 23. 42. R. Orfei, Gli anni di latta (osservazioni sull'epilogo della ne), Marietti, Genova I998, p. I35· 21 3

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partito, e convinto della necessità di favorire la collaborazione « con le realtà più aperte della cultura laica » , individuava invece nei socialisti interessanti interlocutori perché comune era il progetto « di autogestione della società civile ai nuovi fronti della solidarietà » . Dal punto di vista politico, Formigoni dichiarava la sua preferenza per Andreotti che aveva insegnato la « saggezza di una concezione della politica non come dominio sulla realtà o come forzatura delle diverse posizioni, ma come ricerca di un equilibrio nel rispetto di ciascuno » . La sua era un 'idea della politica « in cui la concezione cristiana ha il suo posto, non come riferimento astratto ma nelle scelte e nei risvolti concreti » 43• Nel 1982 la Lega, trasformatasi da cooperativa in associazione, venne presieduta da Paolo Giuntella; dal 1984, poi, da Paola Gaiotti. In occasione dell'Assemblea nazionale del 1985 riemersero i dubbi sull "'eccessiva" vicinanza di alcuni suoi esponenti al partito cattolico, già espressi negli anni precedenti da Ardigò e dai giovani riuniti intorno a Paolo Giuntella; ora le critiche venivano esplicitate da Pedrazzi che si lamentò dell'alto prezzo «pagato alla militanza tradizionale di molti di noi alla DC » 44• Ancor più radi­ cale, in quell'occasione, si dimostrò De Giorgi il quale, dopo aver evidenziato «la degenerazione del sistema politico » a cui era andata incontro la nostra democrazia, prospettò la necessità di costituire un grande partito del lavoro, comprendente la cul­ tura comunista, socialista, laico-democratica e cattolico-democratica: doveva essere un partito «europeista ma non fino al pragmatismo privo di tensione morale e di proget­ tualità ideale innovativa, a struttura policentrica e federativa pur con istanze decisionali unitarie e tuttavia sempre libere e palesi, senza centralismo democratico » 45• Paola Gaiotti definì tale ipotesi « suggestiva » ma non realizzabile, visto che né PCI né DC erano in una crisi irreversibile e tanto meno sul punto di disgregarsi46•

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Cattolici democratici e cattolici integralisti Nell'ambito del cattolicesimo democratico è da segnalare, nell 'ottobre 1985, la fon­ dazione da parte di Lazzati dell 'associazione milanese Città dell'uomo, a cui colla­ borarono Leopoldo Elia, Luciano Pazzaglia, Giuseppe Glisenti, Ettore Massacesi, Giorgio Pastori, Marco Ivaldo, Luigi Pizzolato, e che si poneva in continuità con l'esperienza della rivista "Cronache Sociali". L' idea che animò l ' iniziativa era che i cattolici si dovessero adoperare per il rilancio e la diffusione di una nuova cultura

43· R. Formigoni, Cattolici e partiti. I voti alla politica, in "Il Sabato", X, 19 87, 15, pp. 3-4. 44· L. Pedrazzi, Vì propongo cinque decisioni, in "Appunti di Cultura e di Politica", VII, 1985, 4, pp. 30-2. 45· F. De Giorgi, Tre provocazioni per rifondare la sinistra, ivi, pp. 33-6. 46. Id., L 'esperienza della Lega democratica e la storia di "Appunti", cit., pp. 23-9. 214

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politica che avesse a cuore la persona e la democrazia, e che approfondisse i «principi personalistici della Costituzione » 47. Lazzati definì l 'associazione « un servizio cultu­ rale-politico » per « aiutare l'elaborazione, la promozione e la diffusione di una cultura politica capace di rispondere alle esigenze di una più illuminata, creativa, partecipata presenza dei cristiani nella polis»: concezione cristiana dell 'uomo e del mondo, senso della distinzione fra i valori specificamente religiosi e quelli politici, fedeltà ai principi della Costituzione italiana dovevano essere gli elementi caratteriz­ zanti. L'ex esponente della sinistra dossettiana, in polemica con C L , specificava che era necessario uscire dall 'ipotesi di una « nuova cristianità » e che bisognava coniu­ gare lo « specifico cristiano » con «l'individuazione e l 'attuazione dell 'autentica­ mente umano »48. Le prospettive politiche e religiose sostenute da questi intellettuali entrarono presto in conflitto con un'altra area culturale attiva nella Chiesa di quegli anni e cioè quella di Comunione e liberazione, che accusò i cattolici democratici di essere diven­ tati "catto-comunisti" e di essersi convertiti al marxismo. A differenza di costoro, che intendevano rivendicare una dimensione spirituale in un mondo incline ai valori materiali, i tradizionalisti giudicavano che con la fine delle ideologie totalizzanti si potessero aprire spazi per un nuovo ruolo pubblico del cristianesimo e rifiutavano di fatto la separazione tra sfera pubblica e sfera della fede, tra la « città dell 'uomo » e la « città di Dio » 49. Aurelio Molteni ( esponente della LD e vicino a Bassetti ) sosteneva infatti che esistessero due distinte modalità di concezione del verbo cristiano, una che poneva «l'accento sul dato ideologico, sul complesso di verità storicamente determinate » , da cui intendeva « derivare ogni singola decisione » , mentre l'altra - quella appunto dei cattolici democratici - era « incline ad intendere la religione come "summa" di valori » , da « incarnare in ogni contesto storico-culturale » . Molteni esplicitava la sua critica nei confronti del progetto "organicista" di Comunione e liberazione, che individuava la «communitas» come luogo privilegiato di incontro fra società e potere e come cellula di una più vasta «societas christiana»50• Molteni volle poi chiarire il senso della laicità per i cattolici democratici: 47· L. Pizzolato, Alle origini di Citta dell'uomo, in G. Formigoni, L. Pizzolato, Giuseppe Lazzati e il progetto di "Citta dell'uomo", In Dialogo, Milano 2002, pp. 2I-46. 48. G. Lazzati, Introduzione, in AA .VV., I cristiani per la citta dell'uomo. Seminario di studio dell'Associazione Citta dell'uomo, In Dialogo, Milano I986, pp. 7-9. Cfr. anche L. Caimi, Ai soci e agli amici di Citta dell'uomo, in "Appunti di Cultura e di Politica", xxx, 200 8, 4, pp. 4-6. L'associazione Città dell 'uomo, che ancor oggi esiste ed è attiva, dal 200I si occupa della pubblicazione di una nuova serie di "Appunti". 49· G. Quagliariello, Cattolici, pacifzsti, teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del muro, Mondadori, Milano 2006, pp. 3s-6; M. Damilano, Il partito di Dio. La nuova galassia dei cattolici italiani, Einaudi, Torino 2006. so. A. Molteni, La terza via, in "Circolare interna dei Gruppi di rifondazione", n. 43, I6 dicembre I976, in Archivio Piero Bassetti, Milano, scatola I37, Gruppi di Rifondazione DC ( I97S-77 ) .

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DAN I E LA SARESELLA Noi che abbiamo sperimentato la riconciliazione fra Dio e il mondo, rechiamo un'analoga ispirazione nei rapporti tra corpo e anima, fra Stato e Chiesa, fra uomo e uomo. Il mondo ci è confidato perché abbiamo ad operarvi in termini politici, nel superamento di ogni distinzione fra giudeo e gentile, fra libero e schiavo, fra uomo e donna51.

Anche Bassetti non mancava di intervenire sull 'argomento, dichiarando di avere « seri dubbi » sulla validità concettuale delle posizioni di C L: Dire che il problema per i cattolici è di riscoprire la sufficienza della dottrina cattolica rispetto all'organizzazione della società, e quindi possibilità di vivere la fede in termini politici senza mediazioni, in linguaggio politico si chiama integralismo : chiunque lo pratichi genera intol­ leranza52.

Un'analisi critica dei caratteri dell 'organizzazione di don Luigi Giussani veniva for­ mulata anche da Valeria Onida, che ne metteva in evidenza « la nostalgia per la "societas christiana"» e l'ostilità per le forme di organizzazione sociale e politica nate dalle rivoluzioni dell'età contemporanea, la contrapposizione al pensiero moderno, la chiamata a raccolta dei cattolici perché rivendicassero la propria diversità e identità. Il contenuto di tali proposte era considerato « inaccettabile » dal costituzionalista, che rivendicava la separazione tra ambito spirituale e temporale, e sosteneva che «la fede è il luogo dell 'assoluto, della certezza e del mistero, l'esperienza sociale è il luogo del relativo, del problematico, dell'opinabile, dello storicamente conoscibile » . Dunque il cristiano non poteva trarre dalla propria fede alcuna posizione di preco­ stituita sicurezza nella comprensione storica dei fatti53• Gli intellettuali cattolici democratici, insomma, non mostravano simpatia nei confronti dell'affermarsi di concezioni integraliste all 'interno della Chiesa e si dichia­ ravano scettici nei confronti di una fede che si manifestava e si riduceva al numero degli iscritti e dei presenti, ma soprattutto condannavano tali aggregazioni, e in particolare C L , perché compattavano sulla base dell 'individuazione di un nemico;4• Analogamente, intervenendo a proposito del Movimento popolare, lo storico della Chiesa Franco Bolgiani - esponente della LD torinese - rilevava come esso ricercasse «prioritariamente l'identità politica » considerata diretta emanazione « di una identità di fede » , compiendo una lettura « della fede ispirata ad una singola, S I. Id., Le tre culture, in "Per la terza DC. Circolare interna dei Gruppi di rifondazione", n. 48, 8 febbraio I977, ivi, scatola I38, Gruppi di Rifondazione DC ( I97S-77 ). 52. P. Bassetti, Arretrati rispetto al Concilio, in "Circolare interna dei Gruppi di rifondazione", n. 1 1, 8 gennaio I976, ivi, scatola I37, Gruppi di Rifondazione DC (I97S-77 ). S3· V. Onida, La crisi di identita politica dei cattolici italiani: le risposte di Comunione e liberazione e della Lega democratica, in G. Gualerni (a cura di), I cattolici degli anni '7o, Mazzotta, Milano I977, pp. 8s-I24. S4· P. Gaiotti De Biase, Riaggregazione cattolica, in "Appunti di Cultura e di Politica", II, I979, 3, pp. 34-6. 21 6

I CAT T O L I C I D E M O C RATI C I E LA FINE DELL ' UNITÀ P O LITICA DEI CATTOL I C I

assai parziale e comunque discutibile teologia » , lontana dal martiniana «distinguere per unire » , e proiettata semmai al suo contrario, «l 'unire per distinguere » . C L e il Movimento popolare, dunque, consideravano «la fede come elemento unificante essenziale sul terreno politico » : ciò implicava « un esito integralistico o quantomeno un rischio integralistico assai accentuato » 55• Lo scontro tra CL e i cattolici democratici assunse caratteri assai duri e i motivi di contrapposizione tra Lazzati, rettore dell' Università Cattolica dal 1968 al 198356 e "padre nobile" del gruppo, e don Giussani, si accentuarono. Non bisogna del resto dimenticare che già nel 1966 Lazzati, presidente dell'A zione cattolica diocesana di Milano, si era lamentato con l'arcivescovo Giovanni Colombo per le posizioni inte­ graliste assunte da Giussani e per la pretesa di questi di considerare il suo movimento come sola rappresentanza dei cattolici nel sociale. Nel 1987, poi, Antonio Socci e Roberto Fontolan scrissero una serie di articoli sulla rivista "Il Sabato" in cui attac­ carono i cattolici democratici, la Lega, i dossettiani, Lazzati, padre Sorge, la FUC I , la dirigenza dell 'Ac, gli indipendenti cattolici nelle liste del P C I , i basisti, i tecnici demitiani come Prodi e Andreatta, tutti rei di aver permesso l'affermazione nel nostro paese di una cultura laicista57• So cci e Fontolan si scagliavano contro Scoppola e padre Sorge ( che insieme a padre Ennio Pintacuda aveva aperto a Palermo nel 1986 il Centro padre Arrupe, al fine di formare una nuova generazione di cattolici impegnati in politica58 ) per aver difeso il pluralismo dei cattolici nella scelta politica e di conseguenza per aver avallato la decisione di quei credenti che avevano ritenuto opportuno presentarsi come indi­ pendenti nelle liste del PC I . Ma gli attacchi più duri furono rivolti a Lazzati ( deceduto nel 1986 ) e ciò portò alcuni esponenti della Rosa bianca ( un gruppo che riuniva i giovani della LD ) 59 a presentare, nel 1987, un esposto all 'arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini per tutelare, in base ai canoni 220 e 1390 del vigente Codice di diritto canonico, la buona fama di Lazzati, accusato dal "Sabato" di aver contribuito alla corrosione protestante del cattolicesimo italiano60•

SS · F. Bolgiani, relazione al I Convegno piemontese della Lega democratica, 27 marzo 1982, in Archivio Francesco Traniello, Torino. s6. A. Oberti, Lazzati e l'Universita Cattolica: da una testimonianza per la causa di beatificazione, in G. Alberigo ( a cura di ) , Giuseppe Lazzati {Igog-Ig36). Contributi per una biografia, il Mulino, Bologna 2000, pp. 213-28. Nel I983, Lazzati fu costretto a lasciare il rettorato a seguito delle forti opposizioni che erano montate in ateneo sul suo operato e per gli appoggi che queste riuscirono a ottenere presso la Curia romana. S7· Gli articoli furono poi ripubblicati in A. Socci, R. Fontolan, Tredici anni della nostra storia, prefazione di A. Del Noce, Editoriale italiana, Milano I988. s8. Cfr. B. Sorge, La traversata. La Chiesa dal Concilio J!aticano II a oggi, Mondadori, Milano 20io, pp. I48-s i. S9· Cfr. G. Colombo, Le parole della Rosa bianca, in "Aggiornamenti Sociali", LVII, 2006, 2, pp. Iso-8. 6o. Cfr. D. Menozzi, La Chiesa italiana e la secolarizzazione, Einaudi, Torino I993· pp. 232-63. 21 7

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La difesa di Lazzati fu senza tentennamenti perché, spiegava Paolo Ghezzi sulla rivista trentina "Il Margine", non era possibile astenersi dallo scontro quando in gioco sono questioni di fondo, interpretazioni chiave, valori irrinunciabili ( e persone che li hanno incarnati) della tradizione cattolico-democratica nel cui solco ci inne­ stiamo, e che fornisce ancor oggi coordinate essenziali e strumenti culturali a chi si pone il problema di un impegno civile e di un'etica politica con un briciolo di utopia evangelica61•

Lo scontro tra queste differenti anime del cattolicesimo è perdurato fino a tempi recenti e Scoppola - tra i protagonisti ( con Alberto Monticone ) degli incontri orga­ nizzati dalla Comunità di Sant ' Egidio, su sollecitazione del cardinale di Milano Carlo Maria Martini, a cui parteciparono don Luigi Giussani, Angelo Scola, Rocco Buttiglione, Roberto Formigoni, incontri presto conclusisi per volere di questi ultimi - sosteneva all 'inizio del nuovo millennio a proposito dell'esperienza di C L : lo non ho fiducia nelle possibilità di una collaborazione; sono anzi convinto che bisogna lasciare che esplodano le contraddizioni già presenti nel loro lavoro, per esempio per quanto riguarda l'uso dei mezzi finanziari che fa parte del peggior pragmatismo cattolico, vorrei dire del peggior clericalismo : tutto è santo se serve a un fine santo !62..

4

La fine dell 'unità politica dei cattolici Nel 1987 la Lega democratica si sciolse e l'anno successivo Roberto Ruffilli venne ucciso anch'egli dalle BR63: il senatore, docente di Storia delle istituzioni presso l ' U­ niversità di Bologna, era membro della Commissione affari costituzionali presieduta da Leopoldo Elia, che stava elaborando un disegno di legge di riforma istituzionale. Elia, intervistato poco dopo il delitto, dichiarò : «Aveva tentato di dare un contributo da cattolico democratico perché la democrazia italiana si rafforzasse, perché il peso del voto popolare contasse di più in Italia nelle scelte dei governi » 64• Fu la Rosa bianca a continuare lo spirito e il programma della Lega, pur conno­ tandosi in modo autonomo : composto da giovani provenienti dallo scoutismo, dalla FUC I, dall 'Azione cattolica e dal volontariato guidati da Paolo Giuntella, il gruppo

6 1. P. Ghezzi, Le verita penultime, in "li Margine", VIII, 1988, 9-10, pp. 3-5. 62. A colloquio con Dossetti e Lazzati, intervista di L. Elia, P. Scoppola, il Mulino, Bologna 2003, p. 102. Su quest 'aspetto di CL, cfr. F. Pinotti, La lobby di Dio. Fede, affari, politica. La prima inchiesta su Comunione e liberazione e la Compagnia delle opere, Chiarelettere, Milano 2010. 63. M. S. Piretti, Roberto Ruffilli. Una vita per le riforme, il Mulino, Bologna 2008. 64. "Amava e lavorava per la democrazia': Per questo hanno ucciso Ruffilli, in "La Stampa", 18 aprile 1988. 21 8

I CATTOLICI D E M O C RATI C I E LA F I N E DELL ' UNITÀ P O LITICA DEI CATTOL I C I

si era costituito già nel luglio 1979 a Limone sul Garda, anche se si sarebbe struttu­ rato ufficialmente in associazione dieci anni dopo. Questi cattolici, che dichiaravano di ispirarsi all 'esperienza degli studenti antinazisti che si erano opposti alla dittatura hitleriana, vollero rivolgersi al laicato adulto e presentarsi come « comunità politica in formazione » . La Rosa bianca non intese però identificarsi esclusivamente con la tradizione del cattolicesimo democratico-liberale, sostenuta da intellettuali come Scoppola, ma si volle collocare nell 'orbita del cattolicesimo democratico-sociale. Il gruppo dichiarò suo obiettivo quello di creare una teologia europea della liberazione, nel solco della rivista di Mounier "Esprit", della tradizione conciliare e di maestri come Dossetti, Lazzati e Turoldo : «Noi crediamo - scriveva De Giorgi, tra i leader insieme a Michele Nicoletti - che occorra ribadire tutta la validità e attualità della linea incarnazionista e dell' insegnamento del Concilio sulla laicità, senza cedimenti a integralismi e clericalismi d 'ogni tip o » 65• Questi giovani decisero di riprendere l'organizzazione della scuola di formazione politica che era stata organizzata a Brentonico, vicino a Trento, dalla Lega democra­ tica per cinque anni, fino al 1985: alla nuova edizione parteciparono in qualità di relatori, Ardigò, Giuntella, Nicoletti, Gaiotti e Pedrazzi66• Al fianco della Rosa bianca vi era la redazione della rivista di Trento "Il Margine", mensile dell 'associazione Oscar A. Romero, che proponeva approfondimenti su questioni di politica interna e inter­ nazionale, e relativi alla spiritualità e alla vita nella Chiesa. Nel comitato di redazione della rivista vi erano, tra gli altri, Paolo Ghezzi, Michele Nicoletti, Paolo Giuntella e Giovanni Bianconi. Nel dicembre 1988 Scoppola, che nell'anno precedente era tornato a dirigere ''Appunti", pubblicò Nove tesi per l'alternanza, in cui prospettò la necessità di operare una riforma istituzionale e delle regole elettorali, con l'obiettivo di traghettare la politica italiana verso un « sistema compiuto di alternanza » . Scoppola pensava a un'alternativa tra la D C e le sinistre, ritenendo però che la Chiesa non dovesse pren­ dere posizione per uno schieramento e che il cattolicesimo democratico dovesse « svolgere un ruolo decisivo non solo nella D C ma anche al di fuori di essa » 67• In realtà, non tutti gli interventi pubblicati dalla rivista dimostravano di condividere tali posizioni, perché Ceccanti e Tonini puntavano a una grande coalizione in grado di realizzare riforme istituzionali volte a rafforzare l'esecutivo e guardavano con interesse al partito di Craxi68• Ceccanti, ricostruendo le vicende di quel periodo, ritiene che le Nove tesi per l'alternanza rappresentarono il « manifesto ideale » per tutto il decennio successivo, perché mettevano in discussione l' idea dell'unità politica 6 s. 6 6. 67. 6 8.

F. De Giorgi, Il politico e le virtu, in "Appunti di Cultura e di Politica",

x,

I 987, 7, pp. 30-I.

Ibid.

P. Scoppola, Nove tesi per l'alternanza, in "Appunti di Cultura e di Politica': XI, I988, 9, pp. 3-6. F. De Giorgi, La ((R epubblica delle coscienze': L'esperienza della Lega democratica di Scoppola, Corrieri, Ardigo, in L. Guerzoni (a cura di), Quando i cattolici non erano moderati. Figure e percorsi del cattolicesimo democratico in Italia, il Mulino, Bologna 2009, pp. I40-I.

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DANIELA SARESELLA

dei cattolici « non per ragioni teologiche o ecclesiali » , come era avvenuto con il dissenso cattolico, bensì perché si giudicava compiuta « l'evoluzione della demo­ crazia » : la prospettiva in cui molti cattolici democratici si muovevano era quella della costruzione di una sinistra non comunista69• L'ipotesi, prospettata da Ardigò e Giuntella, della fondazione di un partito in cui si riconoscessero i cattolici favorevoli a una politica democratica e di sinistra, sostenuta anche dai giovani della Rosa bianca, non riuscì a diventare la linea di tutta la Lega. Così, quando nella Palermo devastata dal problema del degrado e della collusione tra mafia e politica, nacque l'esperienza della Rete di Leoluca Orlando, i giudizi sull'esperienza risultarono differenti. Dalla fine degli anni Ottanta, infatti, il mondo cattolico fu caratterizzato dali ' af­ fermarsi di nuove forme di partecipazione e di presenza politica, diffuse in modo proporzionale nelle varie aree del paese e soprattutto tra i giovani. La volontà era quella di far fronte al degrado delle amministrazioni e di fondare una nuova politica al di fuori dei partiti tradizionali, attraverso una riscoperta della dimensione culturale e dell' impegno individuale. Quando l'associazione Città dell'uomo organizzò a Milano un convegno su Gruppi locali e rinnovamento della politica, in cui intese analizzare il fenomeno, individuò ben 314 esperienze, tra cui Centocittà di Firenze, Polis di Cremona, Polis di Legnano, Insieme per la città di Reggio Calabria70• Nella Sicilia di Salvo Lima e di Vito Ciancimino, in quel periodo, erano sorti gruppi come Centro ricerca (fondato da Giuseppe Lumia, esponente dell 'Azione cattolica) e Città per l 'uomo (un movimento vicino ai gesuiti Bartolomeo Sorge ed Ennio Pintacuda) , che avevano come obiettivo quello di organizzare incontri nelle scuole palermitane contro la mafia e di coordinare azioni di volontariato contro l'emarginazione e il degrado sociale; i gesuiti diedero anche vita a scuole di forma­ zione politica, aperte al confronto con il mondo della sinistra71• Fu in tale contesto che ebbe origine la "primavera di Palermo", e la giunta Orlando7l del 1987 rappresentò il tentativo da parte della sinistra democristiana di rinnovare il partito che in Sicilia aveva dimostrato di essere colluso con settori criminali. La nuova amministrazione non aveva nella maggioranza i socialisti, ma si componeva di indipendenti di sinistra (eletti nelle liste del P C I ) , democristiani, socialdemocratici, Verdi ed esponenti di Città per l'uomo ; dal 1989 nella giunta sarebbe entrato anche il P C I . L'esperienza

6 9. S. Ceccanti, Dalla ((cultura dell'intesa" all'impegno per l'alternanza con cultura di governo, in "Appunti di Cultura e di Politica': x x x , 2008, 4, pp. 33-5. 70. G. Vecchio, La sfuia dei gruppi politici cittadini, in "Aggiornamenti Sociali", XLII, 1 991, 12, pp. 807-20. 7 1. Cfr. P. Ginsborg, L 'Italia del tempo presente. Famiglia, societa civile, Stato (I9S0-I996), Einaudi, Torino 1998, pp. 392-4; D. Saresella, La fine dell'unita politica dei cattolici e la nascita della Rete, in "Studi Storici", LIV, 2013, 4, pp. 1023-46. 72. Cfr. P. Giumella, Introduzione, in Id., Fede e politica. Paolo Giunte/la intervista Leoluca Orlando, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1992, pp. 3-5. 220

I CATTOLICI D E M O C RATI C I E LA F I N E DELL ' UNITÀ P O LITICA DEI CATTOL I C I

politica venne subito definita « anomala » perché - come chiarisce padre Pintacuda ­ aveva « come obiettivi i contenuti del programma » ed era espressione più delle « forze vive della società che delle segreterie dei partiti » 73• Orlando, ricostruendo le vicende di quegli anni, ricorda come avesse deciso di scendere nell'agone politico proprio a seguito della scomparsa di Mattarella, ed enfatizza la missione di rinnovamento del suo governo : « Abbiamo messo le mani sul più grande intreccio tra mafia e politica che sono, e non solo a Palermo, gli appalti, una grande, indiscutibile operazione di trasparenza per trasformare il comune in una casa di vetro. Abbiamo restituito spe­ ranza a una città degradata e rassegnata » . E aggiungeva che nell'amministrare Palermo, la fede gli era servita per individuare una « gerarchia di valori e riuscire a cogliere ciò che resta da ciò che non conta » 74• Padre Pintacuda decise di seguire Orlando nell'esperienza della Rete, divenen­ done, di fatto, l 'ideologo, ma tale determinazione creò tensioni tra il gesuita e la Compagnia, che non poteva accettare che l' Istituto Arrupe da centro di studi sociali si trasformasse in una sorta di "scuola quadri" del nuovo partito. Così il cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, decise l'allontanamento di padre Pintacuda dall 'istituto. E interessante sottolineare che in una recente riflessione sulla Chiesa degli ultimi decenni, padre Sorge abbia individuato nell'esperienza politica palermitana l'anticipazione di alcuni aspetti dell' Ulivo, che sarebbe nato nel I996 a livello nazionale75• Una parte del gruppo della Rosa bianca guardò con interesse alle vicende siciliane, ritenendo il progetto uno sbocco per la sinistra democristiana: così durante la prima assemblea costitutiva dell'associazione (che si tenne a Roma il 30 aprile-I0 maggio I989 ), Giuntella non mancò di soffermarsi sull'esperienza palermitana, giudicata « esempio di riformismo autentico, forte, che nasce dalle esigenze della gente lette con sguardo libero e limpido » . Si trattava di « una scelta politica, di linea, di schie­ ramento, di speranza » ed era «l 'unico processo di innovazione che noi osserviamo sul terreno politico che nasce e rappresenta - non solo a Palermo ma anche in Italia - alleanze sociali, convergenze nella società, convergenze culturali popolari già esistenti » 76• La Rete - nella quale responsabilità rilevanti furono assunte anche da Grazia Villa, Guido Formigoni e Giovanni Colombo - avrebbe dovuto volgersi a sinistra, porre attenzione alla difficile gestazione del PDS e diventare parte costituente di un'alleanza progressista. Quando il 2 aprile I992 l' Italia andò al voto, Paolo Prodi e ,

73· E. Pintacuda, Il guado. Il travaglio della democrazia in vent 'anni di storia italiana, a cura di R. Ruscica, La meridiana, Molfetta (BA) I99S· pp. 109-11. 74· Giuntella, Fede e politica, cit., pp. so-r. 7S· Sorge, La traversata, cit., pp. rso-2. 76. Le parole di Giuntella sono riportate in A. Fortino, La Rosa bianca diventa associazione, in " li Margine", IX, 1989, s . pp. 30-4. 221

DAN I E LA SARESELLA

Fulvio De Giorgi si candidarono nel partito di Orlando, che non raggiunse però il 2% dei consensi77• Ricostruisce De Giorgi: In realtà, con la Rete, noi volevamo avviare un processo per costruire quello che poi sarebbe stato il Partito democratico, non un'ulteriore "appartenenza" ( radicata solo in alcune aree del paese ) : abbiamo combattuto questa battaglia e siamo stati sconfitti, ma poi la Rete è scom­ parsa ( e il Partito democratico è giunto : senza Orlando, almeno per ora) 78•

Scoppola, invece, da sempre attento alle riforme istituzionali, volse nei primi anni Novanta la sua attenzione verso il raggruppamento referendario di SegnF9, e poi verso il movimento dei "Popolari per la riforma". L'intellettuale romano si trovò a condi­ videre il suo impegno con altri esponenti del cattolicesimo democratico (tra cui Francesco Malgeri, Franco Monaco, Ceccanti, Giuntella, Gorrieri, Lipari, Pazzaglia, Tognon) , che in una lettera aperta a Segni dichiararono la loro adesione al progetto, auspicando che esso garantisse «la continuità dei valori espressi dalla presenza cri­ stiana » . Il movimento, a loro giudizio, doveva mantenere piena indipendenza dai partiti, anche se era bene desse un'ultima chance alla D C e alla possibilità di una sua profonda rifondazione; se non ci fosse stato un « nuovo inizio » , però, non avrebbe avuto senso « quel tanto di unità politica dei cattolici che ancora si realizzava intorno ad essa » 80 • Altri esponenti del mondo cattolico democratico, tra cui i cristiano-sociali Gorrieri e Tonini81 oltre a Paola Gaiotti, guardavano invece con interesse le vicende del PCI che, con il XIX Congresso, si trasformò in PDS (poi diventato DS )8l. ''Appunti" dedicava nel 1992 un numero monografìco al programma del PDS, con interventi di Scoppola, Gorrieri, Ceccanti, Gianfranco Pasquino, Sergio Fabbrini, Chiara Glorio, Leonardo Benevolo. Nell'editoriale la rivista sottolineava con enfasi la « cesura di cultura poli­ tica » della nuova organizzazione rispetto al PCI: infatti, « abbandonati i disastri del comunismo reale e le nebbie di quello ideale, il programma si caratterizza per una varietà di culture politiche, in cui trovano posto sia le riflessioni dell'esperienza socialista occidentale, sia quelle del migliore pensiero liberale e quelle del cattolicesimo 77· De Giorgi, L'esperienza della Lega democratica e la storia di ':Appunti': cit., pp. 23-9. 78. lvi, p. 28. Cfr. D. Cammarrone, La Rete, Associate, Roma 1992; P. Gaiotti, Il potere logorato. La lunga fine della D C, cattolici e sinistra, Associate, Roma 1994. 79· P. Scoppola, Un Patto per la riforma, in "Appunti di Cultura e di Politicà: XVII, 1992, 2, pp. 1-3. 8o. Lettera aperta a Mario Segni, ivi, XVII, 1992, 7, pp. 1-2. 8 1. M. Carrattieri, Una democrazia in crisi di trasformazione. Tra ricerca sociale e nuovi percorsi politici (1981-2004), in M. Carrattieri, M. Marchi, P. Trionfìni, Ermanno Corrieri (1920-2oo4). Un cattolico sociale nelle trasformazioni del Novecento, saggio introduttivo di P. Pombeni, il Mulino, Bologna 2009, pp. 507-828. 82. Cfr. P. Bellucci, M. Maraffi, P. Segatti, PCI, PDS, ns. La trasformazione dell'identita politica della sinistra di governo, Donzelli, Roma 2000; cfr. anche L. Caponi, Rifondazione comunista. La scommessa perduta, Editori Riuniti, Roma 2003, pp. 35-46. 222

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democratico » 83. Paola Gaiotti sottolineava poi il carattere «pluralista » del partito, ali ' interno del quale convivevano più etiche, esattamente come avveniva in ogni società articolata e complessa84• Anche nella D C , travolta dagli scandali indotti dalle inchieste dei giudici di Milano, erano in corso profondi ripensamenti. Nell'ottobre 1992 Martinazzoli veniva acclamato segretario e Rosa Russo lervolino presidente. Si trattava di un ricambio all'interno del partito, consentito dai potenti leader ( Andreotti, De Mita, Forlani e Gava) di fronte al crescente discredito in cui era precipitata la D C , travolta dalla "questione morale". Il nuovo segretario decise che per rinnovare l 'organizzazione fosse necessario recuperare quel rapporto stretto, allentatosi negli anni Ottanta, tra area cattolica e D C , e dunque volle far posto a militanti provenienti proprio dall'associa­ zionismo di base: Rosy Bindi divenne segretaria del Veneto, Enzo Balboni di Milano, Romano Forleo di Roma, Renzo Gubert di Trento. In realtà, il tentativo non riuscì e la bufera di Mani pulite travolse tutto il sistema politico della cosiddetta "Prima Repubblica"85• La D C decideva di concludere il suo percorso e Martinazzoli varò, nel gennaio 1994, la nascita di una nuova organizzazione, il Partito popolare, che intendeva riallacciarsi all'esperienza sturziana e che si pose in una prospettiva di discontinuità rispetto al passato recente. Rosy Bindi, in particolare, alfiere di un rinnovamento radicale, sostenuta dali ' associazionismo cattolico più pro­ gressista, affermò fosse necessaria una cesura rispetto al vecchio gruppo dirigente, soprattutto sulla questione morale. Per una riforma radicale del partito cattolico si dichiararono anche gli autoconvocati che si ritrovavano sia in Veneto sia in Emilia, e che volevano una rottura con gli uomini e le logiche clientelari del passato, ma a incalzare Martinazzoli ci furono anche molti vescovi, preoccupati per il disorienta­ mento che verificavano nella base cattolica, e i dirigenti dell 'associazionismo.

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Verso l' Ulivo In occasione delle elezioni del 1994, Scoppola non mancò di manifestare la sua delusione per i nuovi equilibri che si erano creati in Italia dopo la vittoria dei quesiti referendari, e si chiedeva se fosse stato un bene « forzare un cambiamento di sistema 83. Un programma meditato. Ma quanto definisce questo PDS ?, in "Appunti di Cultura e di Politica", XVII, I992, I, pp. I-2. 84. P. Gaiotti, Il tempo della modernita. Le politiche del PDS per sostenere le scelte delle donne, ivi, XVII, I992, 2, pp. 4-I6. 8s. D. della Porta, Lo scambio occulto. Casi di corruzione politica in Italia, il Mulino, Bologna I992. Cfr. anche Ead., I circoli viziosi della corruzione in Italia, in D. Della Porta, Y. Mény ( a cura di ) , Cor­ ruzione e democrazia. Sette paesi a confronto, Liguori, Napoli I99S· pp. 4 9- 66 ; S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (1gSg-2oii), Laterza, Roma-Bari 20I2, pp. 2I-47·

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DANIELA SARESELLA

per il quale le forze politiche e lo stesso elettorato si dimostra[vano] immaturi » . Apprezzava gli sforzi di Gorrieri e Tonini i quali, dopo aver dato vita nel 1 9 9 3 al gruppo dei cristiano-sociali, si erano schierati con i progressisti, perché avevano avuto il merito di spingere il PDS ad assumere un programma che sui temi dello stato sociale riprendeva elementi del cattolicesimo sociale. L'intellettuale romano ammoniva poi a non sottovalutare Berlusconi, perché un paese « disorientato e avvilito » chiedeva « sicurezza e speranza » e Berlusconi sapeva interpretare egregiamente questo senti­ mento; si era presentato agli italiani « con l' immagine rassicurante di un uomo riuscito » che offriva all' Italia « la speranza illusoria » che il suo successo personale potesse magicamente diventare il successo di tutti86• Nelle elezioni che si tennero il 27 e il 28 marzo87, come è noto, uscirono sconfitti tutti i raggruppamenti che, in qualche modo, facevano riferimento al mondo cattolico : il PPI riuscì a raccogliere solo l' I I,I% dei voti, il Patto di Mario Segni il 4,6% e la Rete-Movimento per la democrazia l' 1,9 %. Il voto democristiano aveva imboccato le direzioni più differenti : nel Nord l'insoddisfazione aveva premiato la Lega, nel Sud il M S I , mentre alcuni credenti convogliarono i loro consensi verso i partiti della sinistra ( P D S e Rifondazione) . Bisogna ricordare che nello schieramento progressista si pre­ sentarono Luciano Guerzoni, Giorgio Tonini, Franco Bentivoglio, Giancarlo Zizola, Carlo Alfredo Moro88• Berlusconi, il vero vincitore delle elezioni del 1 9 94, era sceso nell 'arena politica con un programma che parlava di famiglia, di anticomunismo, che enfatizzava il liberismo e che denigrava la cultura solidarista. Il progetto di Forza Italia si rivolgeva all'elettorato moderato e cattolico, ma era agli antipodi rispetto a quello della sinistra democristiana; risultava anche estraneo alla tradizione degasperiana, visto che il leader trentino aveva definito la D C come partito di centro che muoveva verso sinistra. Fu in questo contesto che Giuseppe Dossetti ritenne di dover far sentire la sua voce perché, di fronte ai pro­ positi espressi da Berlusconi di procedere a una radicale riforma della Costituzione, dichiarò la sua preoccupazione per la sorte del paese e sollecitò gli italiani a mobilitarsi contro una pericolosa alterazione delle basi della convivenza civile89• Nei primi anni Novanta si assistette a una rivoluzione di carattere politico perché, con l 'avvento della Lega, venne sconvolta la geografia elettorale così come si era delineata nel Nord dalle elezioni del 1946 in poi e si venne affermando un partito che era in grado di piegare a proprio vantaggio « il legame profondo tra appartenenza 86. P. Scoppola, Ancora transizione, in "Appunti di Cultura e di Politica", XIX, 1994, 2, pp. 1-6. 8 7. Cfr. l. Diamanti, R. Mannheimer (a cura di), Milano e Roma. Guida all 'Italia elettorale del 1994, Donzelli, Roma 1994· Cfr. anche P. Mancini, G. Mazzoleni (a cura di), I media scendono in campo. Le elezioni politiche 1994 in televisione, RAI-Nuova ERI, Roma 1995. 88. Candidati dei cristiano-sociali nello schieramento progressista, in "Appunti di Cultura e di Polit1ca , XIX, 1994, 2, p. 31. 89. U. Allegretti, Dossetti, difesa e sviluppo della Costituzione, in A. Melloni (a cura di), Giuseppe Dossetti. La fide e la storia, il Mulino, Bologna 2007, pp. 67-1 46. .

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subculturale e orientamenti localistici » 90• L'organizzazione di Umberto Bossi si radicò proprio nelle zone a tradizionale vocazione cattolica e democristiana, e rap­ presentò un'ulteriore dimostrazione della fine dell'unità politica dei cattolici91• Tali cambiamenti traevano origine dalle trasformazioni del tessuto economico, perché alcune zone del Nord, una volta terre di emigrazione, erano state protagoniste negli anni Settanta e Ottanta di una tumultuosa rivoluzione produttiva, resa possibile da rapporti familiari ancora coesi e solidali ma anche dal lassismo nei controlli fiscali garantiti dalla classe politica. La sconfitta nelle elezioni del marzo 1994 indusse Martinazzoli alle dimissioni e a lui successe la reggenza provvisoria di Rosa Russo lervolino. Dopo le elezioni si delinearono con più chiarezza le diverse prospettive esistenti nel partito : Buttiglione e l'area ciellina iniziarono a guardare con interesse all'esperienza dell' imprenditore di Arcore, mentre la sinistra del PPI dichiarava di preferire il polo progressista. A causa delle divisioni all 'interno della sinistra tra Martinazzoli e De Mita, a luglio Buttiglione diventò segretario del partito e ciò, secondo Gabriele De Rosa (storico e intellettuale cattolico, dal 1987 parlamentare della ne), rappresentò la dimostra­ zione che si stesse esaurendo il tentativo di « far rinascere il popolarismo sturziano » 92.. La sconfitta della sinistra, nota efficacemente Marco Follini, significò la sostituzione dell' « icona di don Giussani alla letteratura di Maritain » 93• Quando alle elezioni amministrative successive Buttiglione, pur accettando alcune candidature concordate con i progressisti, dimostrò di operare per un'alleanza con Forza Italia, il partito si disgregò, e se ci fu chi accettò quella prospettiva politica, la maggior parte degli esponenti del PPI decideva di eleggere al suo posto come segretario Gerardo Bianco e di volgersi verso il polo progressista, individuando in Romano Prodi il leader della nuova coalizione di centro-sinistra. Si apriva lo scenario dell'ascesa politica di uno degli esponenti del cattolicesimo democratico, destinato per un decennio a essere tra le figure più significative della vita politica nazionale ed europea, e si compiva così l'antico progetto del "cattolicesimo progressista,, quello di collocarsi politicamente a sinistra, condividendo con le forze popolari progetti di profonde riforme sociali94• 90. P. Segatti, L 'offerta politica e i candidati della Lega alle elezioni amministrative del I990, in "Polis", 6, I992, 2, p. 257. Cfr. R. Biorcio, La rivincita del Nord. La Lega dalla contestazione al governo, Laterza, Roma-Bari 20IO; R. Guolo, Chi impugna la croce. Lega e Chiesa, Laterza, Roma-Bari 2011. 9I. l. Diamanti, La Lega: geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma I99S· Cfr. E. Pace, L 'unita dei cattolici in Italia. Origini e decadenza di un mito collettivo, Guerini e Associati, Milano I99S; M. Marzano, Il cattolico e il suo doppio. Organizzazioni religiose e Democrazia cristiana nell'Italia del dopoguerra, FrancoAngeli, Milano I996, pp. 279-80. 92. G. De Rosa, La transizione infinita. Diario I990-I990, Laterza, Roma-Bari I997, pp. I23-4· 93· M. Pollini, C 'era una volta la DC, il Mulino, Bologna I994, p. 6 8. Cfr. S. Apruzzese, I cattolici e il consenso politico dopo la fine della Democrazia cristiana, in Cristiani d'Italia, cit., pp. 79 3-S· 94· G. Baget Bozzo, L 'intreccio. Cattolici e comunisti {I945-2004), Mondadori, Milano 2004, pp. II-2.

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La D C e la crisi del sistema p olitico. Temi e p ersonaggi ( 1 9 8 9 - 94) di Emanuele Bernardi *

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Prologo. Frantumazione sociale e riforme La frammentazione politica e sociale che caratterizza il panorama italiano alla fine del Novecento è il risultato di un processo innescato in tempi precedenti non solo alle inchieste di Tangentopoli, ma anche alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e agli eventi storici nei paesi dell' Est: il crollo del comunismo prima, con la fine della Guerra fredda, e Tangentopoli poi hanno costituito quindi due importanti fattori di accelera­ zione di questo processo di frantumazione•. Come ha scritto Scoppola - a metà tra testimonianza e analisi storica - è tuttavia negli anni Ottanta che sembra essersi esau­ rita del tutto «la funzione di rappresentanza sociale » della Democrazia cristiana (nc)2.. Più in generale, i diversi elementi di crisi del sistema compongono nel loro insieme una * Il saggio che segue è il risultato di una ricerca archivistica condotta prevalentemente sui fascicoli personali di alcune figure della DC, del PCI e del PSI presenti nel fondo depositato dall'onorevole Giulio Andreotti presso l'Archivio storico dell' Istituto Luigi Sturzo di Roma. Grazie alla cortesia della direttrice dell' Istituto, Flavia Nardelli, e alla preziosa assistenza archivistica della dottoressa Luciana Devoti, ho potuto consultare, tra gli altri, per la DC i fascicoli di Bianco, Colombo, De Mita, Forlani, Segni, Mar­ tinazzoli, Prodi, per il PSI di Craxi, per il PCI di Occhetto, lngrao, Napolitano, Natta e, in quanto presidente del Senato, Spadolini. Non è stato possibile, infine, per via dello stato dell'archiviazione e dell'accessibilità, vedere i fascicoli relativi a Scalfaro e a Cossiga. Una prima versione di questo contributo è stata presentata al seminario organizzato dalla Fondazione Istituto Gramsci, dalla SISSCO e dalla Fondazione Luigi Einaudi, La Repubblica in transizione I9S9-I994, tenutosi a Roma il 10-11 marzo 2ou. 1. Sull' interpretazione delle origini e del significato della crisi della D c e del sistema politico, esistono studi di vario genere: per la politologia e un approccio di tipo "sistemico", cfr. G. Pasquino, Un sistema politico che cambia. Transizione e restaurazione?, in Id. (a cura di), La politica italiana. Dizionario critico I945-I995, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. VIII ss., e, per una lettura di lungo periodo sul Novecento, A. Pizzorno, Le trasfo rmazioni del sistema politico italiano I970-I992, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell'Italia repubblicana, 3· L 'Italia nella crisi mondiale. L 'ultimo ventennio, II. Isti­ tuzioni, politiche, culture, Einaudi, Torino 1997, pp. 341 ss.; per la storiografia, A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal I942 al I994, Laterza, Roma-Bari 1996; G. Galli, Storia della D C. I943-I993: mezzo secolo di Democrazia cristiana, Kaos, Milano 2007. Per una puntuale ricostruzione di tale dibattito, si rinvia a V. Capperucci, La storiografia del giorno dopo. Il dibattito sulla crisi della Democrazia cristiana negli anni Novanta, in "Ricerche di Storia Politica", giugno 2002, 2, pp. 231-48. 2. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico {I945-I99 0), il Mulino, Bologna 1997, pp. 502 ss. 227

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vera e propria .frattura nella storia d'Italia, inizio di un periodo di forte instabilità politica e di un' « infinita transizione »\ Il 1987 costituisce, secondo alcuni studiosi, l'anno in cui la D C avrebbe dovuto farsi carico della riforma del sistema politico, un anno in cui appaiono particolarmente evidenti - per chi li volesse cogliere - elementi di crisi economica e sociale e spazi di manovra poi con il tempo sempre più ristretti. A questo proposito, nelle sintesi dedicate alla storia italiana del secondo Novecento, tanto Colarizi quanto Craveri hanno parlato di una sostanziale « cecità » delle classi dirigenti italiane, sia di sinistra come di centro4• In un quadro di complessiva difficoltà, o ritardo, a individuare gli strumenti idonei ad affrontare la crisi del sistema politico e a riposizionarsi nel mutato scenario interna­ zionale, alcuni dirigenti democristiani ebbero tuttavia, rispetto ad altri, una maggiore consapevolezza della necessità di avviare politiche di rinnovamento e cambiamento della Costituzione come del partito. Per Ciriaco De Mita, segretario della DC dal 1982 al 1989, riformare il partito e il sistema istituzionale costituiva il tentativo di reagire alla nuova ondata di modernizzazione - partita dagli anni Settanta - che investiva il paese5• Anche Giulio Andreotti emerge quale portatore di una visione costituzionale e parla­ mentare delle riforme, orientata a "rinnovare senza rinnegare" e a difendere i valori distintivi della D C : riformare il sistema non doveva far dimenticare, affermò ad esempio nel 1988, «che con questo sistema la libertà si è rafforzata e l'Italia è cresciuta » 6• Le riforme costituzionali, istituzionali e amministrative erano dunque punti qualificanti dell'agenda politica della D C . In un'articolata lettera inviata il 28 dicembre 1987 a Mino Martinazzoli, presidente del gruppo parlamentare D C alla Camera, Andreotti esprimeva innanzitutto l'esigenza preliminare di combattere « una mania riformistica della Costituzione » che poteva mettere in circolo, « magari sub consciamente, idee pericolose sotto apparenze innocue » 7• Tra queste idee, Andreotti segnalava e criticava due proposte, circolanti allora nel dibattito politico : il rientro della famiglia dei Reali in Italia e la soppressione del divieto di ricostituzione del Partito fascista. Fatte tali premesse, fissava i punti di un articolato programma di riforme, poi parzialmente realizzato sotto i due governi da lui presieduti durante la x Legislatura, con il sostegno decisivo del P S I di Bettino Craxi. « Un periodo » , ha riconosciuto Paul Ginsborg, « di considerevole zelo riformatore » 8• 3· G. De Rosa, La transizione infinita. Diario politico 1990-1996, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 6 1 ss. 4· S. Colarizi, Storia politica della Repubblica. Partiti, movimenti e istituzioni, 1943-2006, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 170-1; P. Craveri, La Repubblica dal 195S al 1992, UT ET, Torino 1995· 5· Cfr. l 'analisi dell'azione di De Mita in A. Giovagnoli, La crisi della centralita democristiana, in S. Colarizi, P. Craveri, S. Pons, G. Quagliariello (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, pp. 92-101. Cfr. anche G. Sangiorgi, Piazza del Gesu. La Democrazia cristiana negli anni ottanta. Un diario politico, Mondadori, Milano 2005. 6. Andreotti a Martinazzoli, 2 ottobre 1988, in Archivio storico dell' Istituto Luigi Sturzo (d'ora in avanti ASILS ) , Archivio Giulio Andreotti (d'ora in avanti AGA) , Martinazzoli. 7· Andreotti a Martinazzoli, 28 dicembre 1987, ibid. 8. P. Ginsborg, L 'Italia del tempo presente, Einaudi, Torino 1998, p. 309 (p. 310 per il lungo elenco delle leggi approvate dai governi Andreotti). 228

LA D C E LA CRISI DEL S I STEMA P O LITI CO. TEMI E P E R S O NAGGI ( 1 9 8 9 - 9 4)

Tale programma, fondato sulla difesa del Parlamento, che doveva « restare il fulcro del sistema e il garante sommo delle libertà » , si basava essenzialmente sui seguenti interventi : ampliamento del diritto di voto ai cittadini comunitari ( e pre­ parazione del voto all 'estero ) ; limitazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali ( acqua ed elettricità, ospedali, collegamenti con le isole ) ; velocizzazione di alcune attività parlamentari, con il mantenimento del voto segreto ; adeguamento della Costituzione italiana ai nuovi rapporti giuridici che stavano maturando nella Comunità Europea; modifiche dei rapporti tra le Regioni, e tra le Regioni e l ' am­ ministrazione centrale - senza giungere tuttavia, per gli enti locali, all 'elezione diretta del sindaco9• Vi faceva capolino anche la controversa riforma della RAI , con la regolamentazione dell 'accesso alle reti TV ( nota poi come "legge Mammì", appro­ vata nel 1990 ) , oggetto di forti scontri tra l'area andreottiana e la sinistra D C vicina a De Mita10•

2. 1989:

fine del comunismo, vittoria del capitalismo ?

La definitiva crisi del comunismo, nel 19 89, contribuì ad accelerare l'evoluzione del sistema politico italiano e non solo. Alcuni storici e politologi hanno prospettato una dinamica "a specchio", in cui la D C , legata in termini bipolari al P C I , non sarebbe potuta sopravvivere senza una trasformazione paragonabile a quella in corso nell 'area comunista. Il non riconoscere questo intimo nesso, fondante della stessa Costituzione

9· Andreotti a Martinazzoli, 28 dicembre I987, in ASILS, AGA, Martinazzoli. Andreotti spiegava anche che a suo modo di vedere era necessario in primo luogo rimuovere « un inconveniente » : « Per molti le riforme sono tattica, utile a parlare con partiti con i quali di norma si collabora, senza pagare dazi alla pubblica opinione diffidente storicamente. I contenuti sembrano quasi irrilevanti». Per quanto riguardava in particolare il Parlamento: a) inattuabilità del monocameralismo (riduzione del numero dei deputati e dei senatori auspicabile ma difficilmente realizzabile); b) sistema di acceleramento dei lavori parlamentari (ad es. nelle ratifiche degli atti internazionali); ipotesi della diversificazione delle attribuzioni, una con compiti prevalenti giuridico-amministrativi e l 'altra con compiti economico­ finanziari; c) modifica del sistema del decreto legge e ritorno alla lettera della Costituzione per quanto riguarda la procedura della sfiducia (un governo non può essere sfiduciato in seguito al non passaggio di una legge); d) sulla limitazione del voto segreto, di cui si parlava in quei mesi, « con accenti di demonizzazione », Andreotti infine scrisse: «Non sarò davvero io, reduce dal governo del '72-'73 a negare che la piaga dei franchi tiratori esiste e rischi di divenire in qualche fase purulenta. Certo, molti motivi militano a favore del voto palese. Ma sono ipotizzabili momenti come quelli del I922-25 nei quali il voto segreto poteva salvare le istituzioni. Si dirà - ed è più che giusto - che oggi questo è inesistente; ma le norme regolamentari e quelle costituzionali si fanno per tempi illimitati». IO. Andreotti scrisse a De Mita un'articolata lettera il 29 luglio I990 circa «la triste vicenda per la legge sulle TV», precisando il proprio punto di vista e riepilogando le linee dell'azione parlamentare condotta sulla regolamentazione degli spot, degli intervalli, della proibizione dei Hl m ai minori ( in ASILS, AGA, De Mita, pratica 2883 ) . Per la legge Mammì, cfr. le considerazioni di F. Chiarenza, Il cavallo morente. Storia della RAI, FrancoAngeli, Milano 2002, pp. 224 ss. 229

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repubblicana, aveva indebolito mortalmente la DC. Gualtieri ha sostenuto a tal pro­ posito che, tranne alcune prese di posizione di Cossiga e Andreotti, vi fu «la pres­ soché generale incomprensione [ ... ] della portata e degli effetti dirompenti del 1 9 8 9 e della fine della DC » 11• Applicando tale concetto, Colarizi e Gervasoni hanno per parte loro affermato che « cadeva il pilastro comunista e inevitabilmente si frantu­ mava anche quello democristiano, anch'esso segnato da vistose crepe al suo interno » I l. Giovanni Di Capua - uno dei protagonisti della DC di quel periodo - ha sostenuto che « la crisi comunista non poteva che riverberarsi sull' intero schieramento politico italiano e sullo stesso sistema, già anchilosato e bisognevole di revisione profonda » ; ma anche che «lo schieramento democratico italiano, a principiare dalla DC, reagì in maniera improvvida al crollo del vecchio muro berlinese e alla fragilità a lungo celata del comunismo mondiale » 13• Rispetto all 'interpretazione di questa relazione funzionale con il PCI e su come coniugarlo dopo il 1989, nella DC vi erano - semplificando - due approcci : coloro che ritenevano la caduta del comunismo un fatto di tale rilevanza da dover neces­ sariamente modificare la funzione politica stessa del partito democristiano, che quindi, in chiave storica, aveva svolto un ruolo principalmente anticomunista (e chi temeva quindi una sorta di « esaurimento » della funzione stessa del partito); chi considerava invece il 1 9 8 9 e la transizione dal PCI al PDS un fatto importante, che non esauriva tuttavia la "missione" democristiana, né dal punto di vista storico, né rispetto al presente e al futuro del sistema politico italiano, e rivendicava quindi conseguentemente la difesa della centralità della DC e la sua prioritaria responsabi­ lità di governo14. Quel che gli uni e gli altri dovettero constatare è, semplicemente, che la crisi della DC si aggravava con l'aggravarsi della crisi del comunismo. Si era infatti di fronte a un processo quasi simmetrico, una crisi che avanzava lungo linee diverse ma conver­ genti. La trasformazione in atto nel PCI dopo il XVIII Congresso del marzo 19 89, seguita dalla proposta del segretario Achille Occhetto ( la cosiddetta "svolta della Bolognina")15, era il primo punto di interesse degli osservatori cattolici, in attesa di comprendere l 'evoluzione dei rapporti di forza dentro la sinistra. Con un certo stu­ pore, Gabriele De Rosa annotava il 21 marzo 1 9 8 9 : 1 1. R. Gualtieri, L 'Italia dal I943 al I992. D C e PCI nella storia della Repubblica, Carocci, Roma 2oo6, p. 232 . 12. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (I9S9-2ou), Laterza, Roma-Bari 2012, p. 13. 13. G. Di Capua, Delenda DC, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, P· 134· 14. Cfr. Giovagnoli, Il partito italiano, cit., pp. 268 ss. 15. Su cui cfr. P. Ignazi, Dal PC/ al PDS, il Mulino, Bologna 1992; C. Valentini, Il nome e la cosa. Viaggio nel PCI che cambia, Feltrinelli, Milano 1990; P. Bellucci, M. Maraffi, P. Segatti, PCI, PDS, DS, Donzelli, Roma 2000; A. Vittoria, Storia del PCI (I92I-I99I), Carocci, Roma 2006; E. Morando, Riformisti e comunisti? Dal PCI al PD. I ((miglioristi" nella politica italiana, introduzione di B. De Giovanni, Donzelli, Roma 2010.

LA D C E LA CRISI DEL S I STEMA P O LI T I C O . TEMI E P E R S O NAGGI ( 1 9 8 9 - 9 4) Non c'è più nulla del "passato� niente di Togliatti o di Gramsci, niente di Marx o di Lenin : sono oramai gli "inesistenti" del PC I. C 'è tutto "Gorbaciov": il PCI è diventato ecologista, femminista, pacifista, infine supernazionale, anzi "planetario". Si è dimenticato del Mezzo­ giorno e dei contadini, vola nei cieli nobili e disincantati dei diritti umani, è tutta Chiesa secolarizzata. Ho i miei dubbi che questa corsa in avanti verso il prepolitico serva al PCI [ . . ] . Quanto alla DC, mi pare che per ora si accontenti di assistere allo spettacolo di Occhetto e Craxi, duellanti su una prospettiva, che svanisce di ora in ora16• .

Quasi un anno dopo, nella Direzione DC del 29 gennaio 1990, De Mita combinò la crisi del comunismo - e quindi della funzione dell'anticomunismo - con le difficoltà del parti to : C 'è la questione comunista, rispetto alla quale la nostra attenzione non è strumentale. La crisi del PCI, comunque evolva, modificherà i termini di riferimento del quadro politico. E c'è, andando in giro per il paese, la sensazione che una parte del mondo cattolico non si identifichi più con noi, e che possa privilegiare altri interlocutori. E sarebbe grave se il pro­ cesso di separazione fra la DC e questo entroterra cattolico crescesse17•

La morte del comunismo, per quanto fortemente avversato, comportava più in gene­ rale la fine di un"'illusione" che aveva tuttavia svolto una potente funzione simbolica, e politica, di critica alternativa al capitalismo : questa critica aveva concorso, più o meno direttamente, a battere strade diverse da quelle del semplice libero mercato18• La ricerca di una « modernità alternativa » - comunque la si guardasse - aveva costituito un aspetto qualificante della storia globale del comunismo nel xx secolo19• Caduta l'alternativa, era - non a caso - soprattutto la sinistra D C a interrogarsi sugli indirizzi futuri dell 'economia, sul senso di un capitalismo che appariva il vero vinci­ tore della Guerra fredda. Quale funzione avrebbero svolto i cattolici democratici italiani nella fase storica che si apriva con il 1989 ? I rappresentanti della sinistra D C (da Guido Bodrato a Ciriaco De Mira) ne discussero al convegno di Chianciano nell 'ottobre del 1 9 892.o e in vari contributi su riviste di area cattolica. Per Bodrato, la crisi del modello italiano (democrazia rap­ presentativa, economia di mercato, Stato sociale) poteva diventare crisi della demo­ crazia. La competizione con il riformismo socialista, in un'ottica di confronto anche con i postcomunisti, doveva essere la stella polare della D C e del solidarismo carroI6. G. De Rosa, La storia che non passa. Diario politico I969-I9S9, Rubbettino, Soveria Mannelli (cz) I999· p. 437· I7. Intervento in Direzione DC, 29 gennaio I990, in ASILS, AGA, De Mita, pratica 2883. I8. E. Hobsbawm, Il secolo breve I9I4-I99I, Rizzoli, Milano 2000. I9. S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale I9IJ-I99I, Einaudi, Torino 20I2, pp. 247 e 26I-2. 20. Cfr. la descrizione dell' incontro in La sinistra DC minaccia di diventare opposizione, in "la Repubblica': 7 ottobre I 989.

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licol1• Secondo Pierluigi Castagnetti, accettare la correlazione meccanica tra fallimento del comunismo e vittoria del capitalismo significava il doversi arrendere « all' idea dell'esaurimento del ruolo politico dei cattolici democratici » . Tale assunto andava invece rifiutato, sulla base di quattro fatti storicamente attribuibili al sistema capitali­ stico : le lacerazioni prodotte nelle società industriali dalla competizione economica e dalla relativizzazione dei valori umani; le devastazioni prodotte ali ' ambiente da una cultura dello sviluppo senza etica; la ripresa di eccezionali migrazioni umane verso i paesi industrializzati; l'indebolimento delle istituzioni rappresentative a livello nazio­ nale e internazionale determinato dall'eccessivo accentramento dei poteri economici. « Dobbiamo concludere » , affermò, «che il capitalismo non può aver vinto defi­ nitivamente, poiché a fronte del suo successo nel risolvere non pochi problemi sul piano dello sviluppo, seppur limitatamente ad un 'area ben circoscritta del pianeta, esso ha generato altri non meno gravi problemi » . Ridefinire il ruolo dei cattolici democratici dopo il 1989 significava dunque costruire « un nuovo punto di compa­ tibilità, di equilibrio, fra capitalismo e democrazia » u. Se la relazione della D C con la Chiesa cattolica era chiaramente scossa dagli effetti dei processi di secolarizzazione e dal mutare del quadro internazionale\ fu papa Giovanni Paolo 1 1 , considerato uno dei principali artefici della definitiva crisi del comunismo nei paesi dell'Est, a indicare i punti di debolezza dello sviluppo capita­ listico, nell'enciclica Centesimus annus del 199 1 : '

E inaccettabile l'affermazione che la sconfitta del cosiddetto "socialismo reale" lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica. Occorre rompere le barriere e i monopoli che lasciano tanti popoli ai margini dello sviluppo, assicurare a tutti - individui e nazioni - le condizioni di base, che consentano di partecipare allo sviluppo.

La sconfitta del comunismo non doveva dunque nascondere i processi di sfrutta­ mento insiti nel sistema capitalistico globalizzato, né far dimenticare l 'importanza dello Stato sociale e dei programmi di assistenza verso i poveri. In realtà, se da una parte per papa Wojtyla il modello sociale della società dei consumi aveva mostrato 21. G. Bodrato, L'unita della DC e una conquista, in "Città Popolare", ottobre 1989, 31 4/s. 22. P. Castagnetti, Dopo la crisi del marxismo, ivi, ottobre 1989, 3/4/ S· Alla crisi del comunismo dedicò una serie di articoli la rivista "Orientamenti Sociali", aprile-giugno 1991, n. 2. Cfr. l'editoriale di P. Nepi, Dall'utopia alla storia, pp. 3-6; E. Berti, Le implicazioni teoriche della crisi, pp. 9-16; F. Malgeri, L'evoluzione storica e ideologica del Partito comunista italiano, pp. 17-28; R. Gatti, La politica e lo Stato nel marxismo: nascita, sviluppo e crisi di una teoria, pp. 29-40; R. Benin i, L 'economia sovietica a una svolta nelle scelte della strategia economica, pp. 41-6; G. Codevilla, La nuova politica ecclesiastica sovietica, pp. 47-ss : L. Pedrazzi, Religione e fine del comunismo, pp. s6-62; B. Sorge, La Chiesa e il comunismo, pp. 63-9· 23. Sulle difficoltà del partito democristiano e delle sue relazioni con la Chiesa, il presidente del Senato Giovanni Spadolini era stato piuttosto esplicito nel dichiarare ai giornali nel settembre 1989: «La DC? Nemmeno la Chiesa vuole più averci a che fare » (Spadolini: «La Chiesa abbandona la DC>> , in " li Secolo XIX ", IS settembre 1989).

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« il fallimento del marxismo di costruire una società nuova e migliore » , dali ' altra, « negando autonoma esistenza e valore alla morale, al diritto, alla cultura e alla reli­ gione, converge con esso nel ridurre totalmente l 'uomo alla sfera dell'economico e del soddisfacimento dei bisogni materiali » 2.4•

Dopo le elezioni del

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Il confronto nella

DC

Le elezioni politiche del s-6 aprile 1992 videro per la prima volta la D C scendere sotto la soglia del 30% - con una forte emorragia di voti a favore della Lega Nord nelle tradizionali "regioni bianche" dell' Italia settentrionales. Entravano in crisi, allo stesso tempo, l'unità nazionale e l'unità dei cattolici. Per la "vecchia guardia", come Andre­ otti, era significativamente la dimensione europea e internazionale la chiave di volta per ridefinire la funzione politica dei cattolici dopo il crollo del comunismo, il modo attraverso il quale divenire nuovamente il baricentro di convergenze politiche e spe­ ranze popolari. In una lettera al segretario Martinazzoli del luglio 1993, il senatore a vita indicava tra i valori di riferimento «quella forte coscienza internazionale » che aveva fatto della D C « il fulcro della politica estera e della costruzione dell'Europa comunitaria » , al di là del contrasto al comunismo : Accanto alla irrinunciabile socialità dei nostri programmi, questa vocazione ultranazionale dovrebbe infiammare di nuovo i cuori, trascinando gli altri su questi ampi orizzonti che non conoscono meschinità. Ridurre la DC a un gendarme per la difesa del pericolo comunista è visione miope e ingenerosa, pur essendo stato un compito essenziale per la libertà di tutti. Spero che nell'Assemblea si parli molto di Maastricht, di un effettivo nuovo ordine sociale mondiale, di una sensibilità intransigente per la giustizia verso il mondo non sviluppato'6•

La veloce diffusione del leghismo, con l'indebolimento dei valori di solidarietà in favore di un'accentuazione dell' individualismo e del corporativismo territoriale costituirono i segnali evidenti del processo di frantumazione sociale, cui contribu­ irono le difficoltà sia della D C sia del PCI-P D S , fermatosi al 1 6,1%, con la neonata Rifondazione comunista al s,6%. 24. Cfr. la dettagliata analisi dell'enciclica e delle sue implicazioni in R. Orfei, Questione antro­ pologica e dottrina sociale, in "Mondoperaio", settembre 20I2, 9, pp. 59-62. Cfr. per la figura del pon­ tefice e il suo rapporto con l' Italia anche il recente A. Scornajenghi, L'Italia di Giovanni Paolo II, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI ) 20I2. 25. A proposito delle elezioni politiche dell 'aprile I992, cfr. G. D'Agostino, M. Mandolini, R. Vigi­ lante, Le elezioni politiche dell'aprile I992, in "Italia Contemporanea", giugno I992, I87, pp. 2I3-22. Cfr. pure G. Sani, I992: la destrutturazione del mercato elettorale, in "Rivista Italiana di Scienza Politica", dicembre I992, 3, pp. 539-65. 26. Andreotti a Martinazzoli, 2I luglio I993· in ASILS, AGA, Martinazzoli.

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Orgoglio e difesa del passato, ricostruzione storica e questione morale, nuova riflessione su temi ritenuti essenziali (come la bioetica e l ' immigrazione) alla luce della dottrina sociale della Chiesa s ' intrecciavano problematicamente nei tentativi di rilancio del Partito democristiano. Il ricorso al giudizio etico-civile come strumento di battaglia politica da parte dell'ormai ex PCI, divenuto P D S al xx Congresso del 1991l7, induceva alcuni dirigenti della D C , da un lato, a rivendicare le nobili radici della propria tradizione culturale e, dall'altro, a ricercare le cause della frammentazione sociale per affrontare la crisi del sistema politico come del partito. Oltre ad Andreottil8, vi si soffermò da questo punto di vista Gerardo Bianco, presidente del Gruppo par­ lamentare democristiano alla Camera. Scrivendo a Martinazzoli nel novembre del 1993, Bianco condannò in primo luogo le « falsificazioni storiche » , la damnatio memoriae in atto secondo lui contro la D C , accusata in modo semplificatorio di essere stata per troppo tempo il centro di un sistema corrotto di potere. Nonostante la crisi del comunismo, secondo Bianco, la sinistra continuava a perseguire un disegno egemonico di forza modernizzatrice, forse utile a frenare l 'emorragia elettorale, ma non a dare una risposta alla profonda crisi di delegittimazione in cui versava il paese : La politica, peraltro, del PDS resta dentro la vecchia logica partitica, giocata secondo il modulo del controllo su gruppi politici satelliti, senza alcun progetto coerente, senza alcuna reale percezione della vera crisi della società italiana e occidentale. Ed è invece dentro questa crisi, che è di delegittimazione di principi e di regole, di spinta di secolarizzazione, di allen­ tamento dei legami sociali, di perdita di senso dei valori e di un'etica comune, che bisogna collocarsi per offrire adeguate risposte politiche9•

Per costruire « una nuova cultura per una nuova politica » , due erano per Bianco i dati storici fondanti da cui ripartire : l'unità nazionale, « conclusione storica di un'a27. « li fallimento politico-ideologico del "socialismo reale"», si legge in un "Appunto" del 28 maggio 1990 per Andreotti, « sembra aver lasciato al PCI, come unica arma dialettica, uno spregiu­ dicato ed esasperato moralismo che, tuttavia, anche all' interno del partito viene giudicato poco efficace, come dimostra il fallimento dell'offensiva condotta contro il Ministro dell' Interno» ( in ASILS, G. Andreotti, prat. 288/I/s7). Occhetto aveva tra l'altro polemizzato con Andreotti circa il « mercan­ teggiamento per le cariche pubbliche » (cfr. lo scambio di lettere, del 26 e 28 ottobre, in ASILS, G. Andreotti, f. 313). Sul tema del "processo" alla D C e della "diversità" comunista, cfr. ancora A. Giova­ gnoli, La crisi della centralita democristiana, in Colarizi, Craveri, Pons, Quagliariello (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, cit., pp. 99-101. L'esperienza del comunismo sovietico era, d'altronde, a tutti gli effetti inutilizzabile per affrontare la crisi italiana, per la quale i dirigenti del PCI dovettero attingere, ora più che mai, alle peculiarità di un partito che, da Berlinguer in poi, aveva coltivato dall 'opposizione un progetto di egemonia accentuando il proprio profilo "etico", nazionale ed europeista: cfr. le osser­ vazioni finali di S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006, pp. 247 ss. 28. « La gelosa rivendicazione della tradizione DC è il modo migliore - forse l 'unico - per essere aperti al futuro» disse alla Direzione DC del 29 gennaio 1990, in ASILS, G. Andreotti, b. 986. 29. Bianco a tutti i senatori DC (inviata anche, in precedenza, a Martinazzoli), 9 dicembre 1993, in ASILS, G. Andreotti, b. 986.

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spirazione millenaria della comune coltura italica » , che non poteva essere « oggetto di compromessi » ; il rifiuto e il giudizio negativo sul fascismo, « un passato di tiran­ nide » , verso cui non andava usata alcuna equivoca indulgenza. Riannodare « con energia i fili spezzati delle grandi tradizioni politiche del paese » in una nuova sintesi significava saldare, scrive Bianco, « le culture della solidarietà, dei legami sociali, del valore della famiglia » con « quelle delle regole, del costituzionalismo, della statua­ lità » , per « dare una risposta adeguata alla crisi del nostro tempo » . La frammenta­ zione politica e sociale andava ricondotta, dunque, nell 'ambito di un rinnovato e coerente sistema di responsabilità e di regole, in grado di mettere insieme i filoni storici liberal-democratico e del socialismo riformista, considerati due diverse ma « integrabili » culture politiche. Due erano i nomi con i quali condividere tali obiet­ tivi e rianimare il dibattito politico : Mario Segni e Giuliano Amato30. Mario Segni, principale animatore dei referendum per la modifica della legge elettorale svoltisi nel 1991 e nel 1993, emerge in questo contesto come la figura che più convintamente portò avanti l'idea che quanto andava accadendo nel paese dopo i fatti del 1989 non fosse « una crisi normale ma una crisi di sistema » 31; su questa tesi di fondo s'incontrava con le analisi dello storico cattolico Pietro Scoppola, secondo il quale la secolarizzazione, il crollo del comunismo e lo sviluppo economico avevano trasformato radicalmente le condizioni che avevano generato il partito cat­ tolico3l. Sull' idea di un profondo rinnovamento, da perseguirsi tramite riforme isti­ tuzionali ed elettorali, convergevano non soltanto alcuni spezzoni della D C , ma anche la C I S L di Franco Marini e le ACLI presiedute da Giovanni Bianchi, favorevoli a « una pluralità di interventi » in grado di costruire un sistema con cui « assegnare peso maggiore all'elettore, responsabile capacità di governo, severa selezione di una classe politica ancorata all' interesse della Cosa Pubblica e resistente alle pressioni degli interessi settori ali » 33• Segni insistette affinché la DC riassumesse centralità e decisionalità politica rispetto al rapporto con il PSI e a quella che più volte definì vera e propria subordinazione al leader socialista Bettino Craxi. Riprendere le alleanze degasperiane, cioè la stretta intesa tra D C e laici, significava in primo luogo puntare sul rapporto con il Partito repubbli­ cano : « La Malfa è il nostro naturale alleato, Craxi il nostro naturale avversario » , 30. I tre punti di una possibile convergenza erano: a ) politica estera (per rilanciare l'europeismo) ; b ) riassetto istituzionale; c) nuova economia e fiscalità. Bianco a tutti i senatori D c ( inviata anche, in precedenza, a Martinazzoli), 9 dicembre I993· in AS1LS, G. Andreotti, b. 986. Cfr. anche G. Bianco, La Balena bianca. L'ultima battaglia I990-I994· Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz ) 2011. 3I. M. Segni, Non e una crisi normale, e una crisi di sistema, in "Obiettivi del Centro Vanoni", II, 25 maggio I989, 25, pp. I-3· 32. Cfr. il dibattito riportato in Segni e Scoppola incalzano Giulio, in "Avvenire", 2 8 maggio I992. Cfr. anche A. Giovagnoli, Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 201 1, soprattutto pp. I89-9S· 33· Cfr. il documento illustrato da Marini e Bianchi il 6 marzo I990, riportato in "AcLI Oggi", 9 marzo I990.

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osservò in una lettera a Forlani34• «La preoccupazione di governare è giusta » , scrisse ancora a Gerardo Bianco il 25 maggio 1992, « ma la ricerca dell'accordo vissuta in modo così ossessivo da tradursi in un appiattimento su Craxi non solo ci ha tolto ogni capacità di iniziativa, ma ha compromesso le capacità di governo della maggioranza »35• Dopo i gravi fatti di Milano - con l'arresto dell 'esponente socialista Mario Chiesa a seguito dell 'indagine condotta dal PM Antonio Di Pietro -, per Segni la moraliz­ zazione della politica e il cambiamento della classe dirigente erano divenuti conditio sine qua non per ridare credibilità al sistema parlamentare e dei partiti, al di là della strumentalizzazione che ne poteva fare la sinistra ex comunista ai danni della D C . La questione morale, ragionò, era divenuta ormai « ineludibile » anche per la D C , ed era « grave » che lo fosse diventata per un' inchiesta giudiziaria, poiché, scrive ancora nella lettera citata a Bianco del 1992: Tutti sapevamo che i fatti che stanno venendo alla luce erano estesi e legati a un sistema corrotto e corruttore: tutti sapevamo che le pratiche interne di partito [ ... ] con il tesseramento in gran parte pagato, con Congressi truccati, con la lottizzazione sfrenata sono una delle cause di tutto questo. Contro tutto ciò vi è stata una sola grande iniziativa, quella referendaria, volta a rompere i meccanismi della partitocrazia e a porre le basi di una politica più onesta [ ... ] . E la colpa grave dei dirigenti del nostro partito è stata di aver saputo e tollerato tutto questo e di aver permesso che la vita dei partiti e delle correnti si trasferisse in parte nel terreno della illegalità. E grave per ogni formazione politica. Per un partito a ispirazione cristiana significa abbandonare le ragioni stesse della nostra essenza�6• '

L'azzeramento del precedente tesseramento e la promozione di una campagna straor­ dinaria di adesioni, lanciata all'inizio del 1993, furono ritenuti insufficienti. In una lettera al neosegretario Martinazzoli, del 13 febbraio, Segni - che di là a breve sarebbe uscito formalmente dal partito - esprimeva la convinzione che i cattolici democratici avrebbero potuto continuare a essere attori della rinascita dello Stato solo se, nel nuovo quadro politico e istituzionale, si fossero stabilmente collegati a movimenti e a persone di diversa provenienza culturale e ideologica, « con la parte più vitale e moderna del mondo laico, degli ambientalisti, di tutta quella parte della sinistra disposta a lavorare per qualcosa di radicalmente nuovo » . Il movimento dei cattolici democratici doveva dunque svilupparsi secondo una «linea di progresso e di modernità » , rifiutando l'ipotesi moderata e conservatrice, propria di un « blocco di destra » , così lo definì, « lontano dalla cultura e dai contenuti programmatici dei cattolici democratici » . Un rinnovamento reale non era tuttavia possibile « senza una rottura netta col passato » : 34· « La cessione ai socialisti della guida del governo significherebbe l'acquiescenza alle posizioni

socialiste in campo istituzionale, l'abbandono da parte del partito di maggioranza relativa alla guida del paese in uno dei momenti più importanti della sua storia. Questa linea è un autentico suicidio, è la rinunzia a un patrimonio politico e morale prezioso per tutto il paese» (Segni a Forlani, s.d., in ASILS, AGA, M Segni, b. 1842). 3S· Segni a Bianco, 25 maggio 1992, ibid. 3 6. Ibid.

LA D C E LA CRISI DEL S I STEMA P O LI T I C O . TEMI E P E R S O NAGGI ( 1 9 8 9 - 9 4) L'esperienza dei cattolici democratici può continuare solo se trapiantata in una nuova strut­ tura. Ma non è possibile che in questa struttura entrino, con piena legittimità, tutti coloro che hanno la responsabilità di aver portato la Democrazia cristiana e l' Italia alla drammatica crisi che stiamo attraversando ; non è possibile cioè portarvi dentro tutta intera la attuale Democrazia cristiana37•

La fine della D C , consumatasi con la nascita del PPI nel 1993, preceduta e seguita da scissioni ( prima il Movimento dei cristiano sociali fondato da Ermanno Gorrieri poi il Centro cristiano democratico di Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella ) , si palesò con le elezioni del 27-28 marzo 1994. Leader storici come Emilio Colombo vi videro un parallelismo con l'appuntamento del 18 aprile 1 948: il centrismo risultava dunque, come allora, la risposta tanto alle contraddizioni e ai «pericoli » della sinistra, quanto al «vuoto politico » della destra38• Il PPI vi giungeva dopo un'intensa rielabo­ razione culturale - nell'ambito dell'Assemblea programmatica costituente presieduta da Rosa Russo lervolino e tenutasi a Roma il 23-26 luglio 1993 - che aveva portato a mettere al centro della sua funzione politico-sociale il valore cristiano della solidarietà e a individuare in don Luigi Sturzo la figura principale della sua tradizione storica39• Segni, abbandonata la D C-PPI, dopo aver rifiutato l'invito di Silvio Berlusconi a guidare la costituenda Forza Italia, cercò di stringere un accordo con la Lega Nord di Bossi, con il sostegno di un variegato e ampio fronte - che andava da Martinazzoli ad Amato, a La Malfa, a Formigoni e a Buttiglione. Un tentativo apparentemente andato in porto, presto sfumato per le pressioni di Berlusconi che riuscì a strappare l'alleanza con il movimento leghista40• Il Patto per l' Italia, coalizione di centro for­ mata da PPI, P RI, Patto Segni, Unione liberai-democratica e indipendenti socialisti, che sosteneva la candidatura di Segni alla presidenza del Consiglio dei ministri, si presentava così alle elezioni del 1 994, che ne segnarono la sconfitta elettorale. Il PPI si fermava all ' 1 1,1%. Iniziava la contesa per l'uso del simbolo della D C , mentre con­ tinuava l' inarrestabile diaspora dei cattolici.

37· Segni a Martinazzoli, I3 febbraio I993, in ASILS, AGA, M Segni, b. I842. 38. Cfr. la lettera di Colombo al segretario del PPI, 2 marzo I994, in ASILS, AGA, E. Colombo, pratica 599· 39· Cfr. ad esempio l' intervento di Gabriele De Rosa all'Assemblea, 26 luglio I993, ivi, AGA, b. 986. n I8 gennaio I994, all' Istituto Luigi Sturzo presieduto da De Rosa, ebbe luogo la fondazione del nuovo Partito popolare italiano, presenti l 'ultimo segretario della DC Martinazzoli e l'ultimo presidente del CN lervolino, i presidenti di Camera e Senato Napolitano e Spadolini, i capigruppo DC di Camera, Senato e Parlamento europeo, Gerardo Bianco, Gabriele De Rosa e Mario Forte, dirigenti nazionali ed esponenti del mondo cattolico. n 22 gennaio, al palazzo dei Congressi di Roma, si svolse l'Assem­ blea costituente del nuovo Partito popolare italiano (con relazioni di Martinazzoli, De Rosa, Bianco e Balboni), che confermò la propria collocazione di centro-sinistra. 40. Colarizi, Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica, cit., p. 52. 23 7

L'immagine della società italiana nel ceto p olitico : P C I e P S I alla fine della Prima Rep ubblica di Marco Gervaso ni

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Craxi e Berlinguer: due visioni opposte della società I due partiti della sinistra elaborarono nel corso degli anni Ottanta visioni della società profondamente divergenti, quasi due forbici che, alla fine del decennio, si erano ancor più allargate rispetto a quello precedente. Mentre l' idea d' Italia presen­ tata dal PSI al Congresso di Torino del 1978 aveva molti elementi comuni con quella proposta dal P C I nel Congresso di Roma dell 'anno successivo (insieme a moltissime ovvie differenze), nel giro di breve tempo i due partiti finirono per vedere due paesi e soprattutto due società diverse1• A costo di rischiare di essere schematici, potremmo dire che l' Italia vista dal P S I era essenzialmente dinamica e aperta, l'altra, quella vista dal P C I , statica e chiusa. Era dinamica, la società italiana percepita dal P S I, perché sottoposta in pieno a quel processo di mobilità sociale che la fine degli anni Settanta aveva iniziato a dispiegare. Quella dei proprietari delle piccole e medie imprese, che in molti casi da operai erano diventati imprenditori; quella del nuovo ceto medio "intellettuale" dei servizi, della cultura, dei media, assieme a imprenditori attivi in settori relativamente inesplorati e al nuovo management; infine la mobilità degli strati sociali tradizionali ma trasformati: una classe operaia sempre più assimilabile ai tec­ nici, un ceto impiegatizio più vicino al modello americano coevo2.. Questa società era aperta non solo nel senso popperiano, pure esplicitamente rivendicato dal P S I , ma anche perché capace di consentire un' integrazione sempre più crescente. Erano lenti che puntavano verso Milano e la Lombardia, per ovvio radicamento della nuova leadership socialista, ma anche verso il Piemonte, il Nord-Est e la dorsale adriatica 1. In generale, cfr. G. Acquaviva, M. Gervasoni (a cura di ) , Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia 2011. 2. Cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2oos; G. Acquaviva ( a cura di ) , La politica economica italiana negli anni Ottanta, Marsilio, Venezia 2oos; B. Pellegrino, L 'eresia riformista. La cultura socialista ai tempi di Craxi, Guerini e Associati, Milano 2010. 23 9

MARCO GERVASON1

dei distretti. E che prendevano sul serio le analisi del C EN S I S , per cui gli ultimi anni Settanta, ancorché essere caratterizzati da declino, crisi e miseria, avevano prodotto un' intensa mobilità sociale ed erano stati caratterizzati da un « boom immisurabile » 3. Quale Italia invece avesse in mente il P C I lo si capisce scorrendo i principali interventi di Berlinguer, che, almeno su questo tema, non sembrano registrare sostan­ ziali differenze tra il periodo dell'unità nazionale e quello successivo al 1980. La summa della rappresentazione berlingueriana della società la si ritrova infatti nel famoso discorso dell ' Eliseo del 1977, dedicato alla « austerità » , slogan che continuò a essere agitato dal segretario fino alla morte4• Una società statica, quella vista dai comunisti, perché incapace di sbloccarsi politicamente: gli operai, i giovani, gli stu­ denti, le donne erano destinati a restare attori subalterni e marginali finché il P C I , loro rappresentante, non avesse avuto accesso al governo. Ma la società italiana era resa statica e irrigidita anche dalla crisi economica, interpretata dal P C I non come congiuntura ma come una crisi di sistema - di cui la questione ambientale non era che uno degli effetti finali. Benché Berlinguer facesse un uso parco di questo con­ cetto, i comunisti intendevano il passaggio tra gli anni Settanta e Ottanta come l'ennesima crisi del capitalismo, che aveva generato una "restaurazione capitalista" e una "nuova offensiva" di cui le prime vittime erano i lavoratori e i "soggetti deboli". Nonostante la crisi non fosse più analizzata, come tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, con le categorie dell'economia politica sovietica, come allora questo paradigma impedì ai comunisti di cogliere la novità delle trasformazioni sociali5• La «principale forza della sinistra italiana riscoprì tutto il fascino del "crollismo" » 6, un crollo economico, prima di tutto, ma anche sociale e morale. Non a caso nel lin­ guaggio di Berlinguer si sprecavano le metafore attinte dal vocabolario medico e biologico (come quelle di « degenerazione » e « malattia » ) applicate alla tenuta dei legami sociali. Per il P C I la società italiana era chiusa, infine, perché le tradizionali disuguaglianze sociali finivano per accentuarsi, in una situazione di coperta corta generata dall'aumento del debito pubblico. Si è detto che queste rappresentazioni non mutarono troppo nel decennio inter­ corso tra il 1975 e la morte di Berlinguer. Ed è questo uno dei segni più gravi della difficoltà della leadership comunista a entrare in contatto con i mutamenti sociali. Se infatti diversi fenomeni denunciati dal PCI erano effettivamente ben presenti nella seconda metà degli anni Settanta, fu davvero incongruo descrivere l' Italia del 1984 in termini miserabilistici - e costruirvi dopo il D.M. 14 febbraio 1984 una mobili3· Cfr. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010. 4· E. Berlinguer, La via dell'austerita. Per un nuovo modello di sviluppo, Edizioni dell'Asino, Roma 2010.

S· S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006. 6. A. Romano, Compagni di scuola. Ascesa e declino dei postcomunisti, Mondadori, Milano 2008 (nuova ed.), p. 47·

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tazione contro il governo Craxi e una campagna referendaria. Poco o nulla poi poté - o volle - quella parte non piccola del P C I , la cosiddetta "destra" guidata da Giorgio Napolitano, che condivideva nulla di questa deriva, concettuale ancor prima che politica. Le rappresentazioni della società sono dei filtri per selezionare gli attori sociali a cui parlare. Nel P S I , ferma restando la tradizionale constituency di pubblico impiego e di lavoro salariato tipica degli anni precraxiani, la visione di una società trasformata spinse Craxi ad allargare la rappresentanza a tutti i ceti nuovi, compresi gli impren­ ditori. Si trattò di un'indubbia novità nella storia della sinistra italiana : non perché negli anni precedenti il PSI di De Martino e anche il P C I invitassero ancora alla lotta di classe; solo che parlavano genericamente di ceti produttivi o di produttori e non di imprenditori e manager come invece faceva ora il P S I . Un conto poi era auspicare che imprenditori e persino manager potessero votare per il P S I , cosa ben diversa era mirare al loro consenso organizzando policies a loro rivolte o facendoli partecipare all'elaborazione di partito. Al contrario il P C I , avendo nella testa un' Italia in crisi, non poté che rinserrarsi nelle casematte e nelle roccaforti tradizionali: la classe operaia, di cui però non riuscì a vedere i mutamenti e il cui declino quantitativo fu interpretato solo come effetto della crisi economica e non come un dato strutturale; poi i "nuovi soggetti" degli anni Settanta, i giovani, i disoccupati, le donne. Erano tutti diventati "soggetti deboli", un'espressione che entrò nella lingua comunista, con una curiosa innovazione rispetto alla tradizione marxista e leninista, che aveva sempre inteso rappresentare non un soggetto debole ma al contrario fortissimo come la classe operaia. Tanto che Berlin­ guer, nella famosa intervista a Scalfari del 1981, quando volle fornire un esempio del grado di innovazione della dottrina comunista italiana, citò proprio la capacità del PCI di rappresentare l 'alleanza della classe operaia con i « ceti deboli » e addirittura con gli « emarginati »7•

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Qual e " nuovo

PCI

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Sarebbe ingeneroso sottovalutare lo sforzo di innovazione nel P C I dopo la morte di Berlinguer, cominciato al Congresso di Firenze del 1986, poi proseguito nell'ampio dibattito della Direzione dopo la sconfitta alle politiche del 1 9 8i, quindi approdato alla nuova segreteria di Occhetto. Nonostante le innovazioni di linguaggio e il maggior dinamismo comunicativo, la nuova leadership occhettiana non si allontanò tuttavia 7· E. Scalfari, I partiti sono diventati macchine di potere, intervista a E. Berlinguer, in "la Repub­ blica", 28 luglio I981. 8. P. Ignazi, Dal PCI al PDS, il Mulino, Bologna I992.

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dalla matrice fondamentale della lettura berlingueriana. Del tutto in linea con l'ultimo Berlinguer (che « aveva visto lontano » ) era infatti la lettura occhettiana della crisi come fine di un modello (ora chiamato « industrialista » ) , con toni però ancora più apocalittici di quelli del PCI del 1983: fino a parlare del « terrificante rapporto possi­ bile fra modernizzazione e catastrofe » 9• Quanto al rapporto con i ceti produttivi, come si diceva nella langue comunista, Occhetto confermò che il P C I non era ostile alla libera impresa, salvo però specificare che « la ricerca del profitto » non doveva essere l'unico « fine della produzione » 10 • La società i tali ana della fine degli anni Ottanta restava per Occhetto « regolata dai valori di pura competizione, del successo proprio fondato sull'insuccesso altrui, del consumare comunque e il più rapidamente possibile il massimo di merci » 11• Il paradigma dell 'austerità - ancora presente nel discorso occhettiano - portava poi con sé un'aporia fondamentale : se la società italiana era disgregata, e secondo Occhetto quella della fine degli anni Ottanta lo era assai di più dopo un decennio !iberista, come si poteva riporre fiducia nella sua capacità di rinnovare o addirittura di rigenerare la politica ? Invece Occhetto, come già l 'ul­ timo Berlinguer, si appellò a « un processo di autorganizzazione della società civile ed economica » , con una rottura decisa rispetto alla tradizione classica comunista, tutta fondata sulla centralità del «politico » ll. L' Italia a cui puntava il nuovo P C I di Occhetto, in sincronia culturale con il rinnovamento dell ' Unione Sovietica e del socialismo reale dietro a Gorbacev13, era quella di un più autentico socialismo, e non di una societa degli individui, un orizzonte invece da scongiurare, assieme all'indivi­ dualismo e ai suoi portati. Nonostante la riflessione innovativa sulla società dei diritti, sui cittadini e sulla Rivoluzione francese, e nonostante le letture di Bobbio e di Dahrendorf, Occhetto e il nuovo PCI continuavano a considerare l'individualismo una tendenza negativa, con cui leggere molti dei mali della società italiana.

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La società degli individui del

PSI

Siamo lontani anni luce dal P S I , che già al Congresso nazionale di Rimini del 1987, per voce soprattutto di Claudio Martelli, aveva invitato la sinistra a riporre « fiducia nella modernità » , nella società fondata sull 'individualismo « come solo valore effet9· A. Occhetto, Un indimenticabile 'S9, Feltrinelli, Milano 1 990, p. 6s. IO. lvi, p. 6 9. u. lvi, p. 48. 12. lvi, p. 57· Cfr. su questo tema A. Guiso, Dalla politica alla societa civile. L 'ultimo PC/ nella crisi della sua cultura politica, in Acquaviva, Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, cit., pp. 181 SS. 13. S. Pons, Il PC!, l'uRSS e il "socialismo reale", in Acquaviva, Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, cit., pp. 1 6 9-8 1.

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tivamente universale » e nel socialismo riformista inteso come « sviluppo della libertà » 14• Quello di Martelli al Congresso di Rimini era un appello alla società civile per certi versi assonante con quello del nuovo P C I , anche perché comuni erano le fonti filosofiche di questo approccio, Bobbio in testa, ma anche Rawls e i contrat­ tualisti americani: solo che il P S I vi era arrivato almeno una decina d'anni prima. Pur senza gli accenni filosofico-politici e movimentistici, era una lettura ben condivisa anche da Craxi: nel suo discorso al Congresso nazionale di Milano del 1989, egli evocò infatti una società italiana in un decennio diventata «più ricca, più evoluta, più libera » e per questo bisognosa di risanamento, imposto dal logorio della finanza pubblica, non più tollerabile nella nuova Europa. L' Italia di fine anni Ottanta era per i socialisti più che mai bisognosa di scrollarsi di dosso i ritardi, attraverso iniezioni di mercato che favorissero una società « non dominata e soffocata da indebite concentrazioni di potere economico e dai dogmi culturali contrari alla razionalità economica » . La sinistra doveva infatti comprendere che la ricerca del «profitto » , quando « è frutto di una concorrenza leale e non oppressiva dei diritti dei lavoratori nell' impresa » , è un « dato positivo » , anche da un punto di vista socialista, perché grazie allo sviluppo « tutti i cittadini possono avere, in una economia sana, una occupazione sana e durevole » 15• Il P S I si poneva così l'obiettivo di una riforma del capitalismo italiano per ampliare il "pluralismo economico" in modo da assicurare maggiore libertà di azione agli imprenditori « non bloccati dalla conflittualità permanente » . Per questo occor­ reva intervenire anche sul mercato del lavoro, « vincolato da regole troppo rigide per far fronte alle sfide richieste dall'economia mondiale » . Erano riforme in linea con i mutamenti della società italiana ed europea, una « società post industriale » 16 sempre più centrata sui diritti e sui doveri degli individui, con il lavoro come azione di promozione di sé e dei propri meriti; ecco perché « vi sono valori una volta appartenenti alla cultura imprenditoriale che sono oggi consi­ derati valori sociali largamente giusti e condivisibili » 17• Il tema della democrazia economica aveva poi un peso non inferiore nel P S I di quello che aveva nel P C I : solo che per i comunisti questo concetto significava supe­ rare un capitalismo in ultima istanza negatore della democrazia, mentre per i socia­ listi il mercato era una fonte di opportunità, che doveva essere regolato non tanto dallo Stato quanto dalla rete degli attori sociali. Il tema della regolazione del mercato occupò un ruolo ancora più ampio nelle tesi I4. C. Martelli, Il merito e il bisogno, SugarCo, Milano I988, pp. 3I s-6. IS. B. Craxi, Dieci punti per una riflessione ideale e politica. Relazione congressuale XL V Congresso PSI - Milano I3 maggio I9S9, in U. Finetti (a cura di), Il socialismo di Craxi. Interventi e documenti del PSI, M&B Publishing, Milano 2 0 0 2, p. 34I. I6. L 'Italia verso l'Europa. Il documento della Direzione per il XL V Congresso socialista (I9S9), in Finetti (a cura di), Il socialismo di Craxi, cit., p. 387. I7. lvi, p. 4I I.

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approvate alla Conferenza programmatica del P S I , svoltasi a Rimini nel marzo 1990, con la difesa del sistema misto italiano, assai vicino a quello tedesco, che non «può essere travolto nel nome di indefinite privatizzazioni affrontate talvolta con una dema­ gogica ideologia » e dal perseguimento delle « dottrine conservatrici dell 'arricchi­ mento collettivo e dello sgocciolamento verso il basso » 18• Un punto su cui v'era sin­ tonia con il P C I , che, nonostante le spinte privatizzatrici di diversi esponenti della sinistra indipendente, anche dopo la Bolognina continuò a ribadire di essere contrario alle privatizzazioni. Il maggior accento critico del PSI nei confronti del mercato era anche dovuto all 'esperienza dei disordini sociali che, negli Stati Uniti, in Gran Bre­ tagna e in Francia, erano stati prodotti dalle conseguenze delle politiche del trickle down. Non a caso proprio dopo il crollo del Muro, il presidente Mitterrand cominciò a incalzare il primo ministro Michel Rocard e il potente ministro dell 'economia Pierre Eugène Bérégovoy su questo tema19• Come se vi fosse la necessità, nei governi socialisti, di dimostrare che il crollo del Muro non significava ipso facto la vittoria dei valori e delle politiche del capitalismo anglosassone. Un passaggio, questo, chiaramente pre­ sente nelle tesi di Rimini del 1990, dove, tra le politiche conservatrici e il fallimento dell'esperimento statalistico del comunismo, il P S I proponeva il « socialismo liberale » che «consapevole dei limiti dell'azione pubblica » intende però «dettare regole » al mercato e promuovere la democrazia economicalo. Del resto, nonostante una lettura eccessivamente ottimistica della tenuta del sistema, i socialisti sapevano di trovarsi in una fase di passaggio della società italiana, in cui di fronte « allo stato in cui versa la finanza pubblica, sempre in crisi e con tendenze al peggioramento » , il ruolo e soprat­ tutto le capacità di intervento del governo erano diventati molto limitatil1•

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Il berlinguerismo postcomunista ali ' inizio della transizione Se queste erano le preoccupazioni di un partito di governo che giudicava positivamente le trasformazioni della società italiana, negli stessi fenomeni il PCI non poteva che vedere la conferma di un'interpretazione pluridecennale della società italiana. La rela­ zione di Occhetto al XIX Congresso del PCI, nel marzo 1990, si aprì infatti con la

18. Un rifòrmismo moderno, un socialismo liberale. Tesi programmatiche, Rimini, 22-25 marzo 1990, in Finetti (a cura di), Il socialismo di Craxi, cit., p. 455· 19. M. Gervasoni, François Mitterrand. Una biografia politica e intellettuale, Einaudi, Torino 2007, p. 221. 20. Un rifòrmismo moderno, un socialismo liberale, cit., p. 461. 21. PSI, Direzione nazionale, 13 luglio 1990, in Fondazione Bettino Craxi (d'ora in avanti FBC ) , Archivio Bettino Craxi (d'ora in avanti ABC ) , Bettino Craxi 1959-2ooo, sezione 1. Attivita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Direzione nazionale ed Esecutivo, VA 130. 244

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descrizione di un mondo impoverito dai disastri sociali realizzati dal liberismo. Occhetto presentò così la svolta come un'azione per ampliare la forza antagonistica dei comunisti, che dovevano abbandonare la loro tradizione per meglio combattere le « forme di dominio del capitalismo » n e proporre una politica di « contestazione delle logiche di pura crescita quantitativa » �3• Per questo, ancorché procedere a pri­ vatizzazioni, il «pubblico » doveva rafforzare la sua capacità di « direzione strategica e di controllo » e la politica introdurre « nuove forme di regolazione economica e sociale » �4• A dispetto della svolta postcomunista, non era una lettura molto diversa da quella del XVI II Congresso, l'anno precedente, quando, pochi mesi prima della caduta del Muro, Occhetto voleva ancora « rilanciare il comunismo » . Come spiegò del resto Bertinotti nel suo intervento al XIX Congresso, era venuto il momento di « uscire dal ciclo degli anni Ottanta » e far ripartire un processo di conflittualità, di fronte « all 'espansione dell'offensiva del capitale »�5• Abbiamo citato interventi di esponenti del "sì" e del "no" alla svolta di Occhetto perché, pur con molte differenze, per altri versi accentuate in sede congressuale, tra i due campi l' interpretazione della società non era molto diversa: semmai le letture di Tortorella e di Cossutta, primi firmatari rispettivamente della mozione 2 e 3, contrarie all'abbandono dell' identità comunista, rimanevano agganciate al linguaggio della tradizione marxista, laddove, come faceva rilevare polemicamente Cossutta, le posi­ zioni di Occhetto erano caratterizzate da « espressioni e motivazioni di tipo mistico comunque predicatorie e poco produttive» �6• La visione anticapitalistica e alternati­ vistica, presente nelle due aree del "no", era tuttavia ben salda anche nella maggioranza. Il Partito comunista in transizione, proprio nella veste in cui lo presentava il suo segretario, si definiva dunque con un'identità antagonista, intenta a promuovere e organizzare le conflittualità, mentre il PSI si sforzava di fornire una risposta di governo alle inquietudini che agitavano il corpo sociale. Non era, come abbiamo detto, una divisione dettata solo dall 'essere il PCI all'opposizione e il P S I al governo. In realtà, nella maggioranza del P C I la costruzione di una cultura di governo fu frenata dalla rivendicazione dell'antagonismo e della conflittualità, dal retaggio del passato, dalla consistente opposizione del "no" e infine dai dubbi di diversi esponenti della maggioranza, che avevano sposato la proposta di Occhetto in piena emergenza ma che volevano il più possibile mantenere vive le tradizioni comuniste. Questo conservatorismo si sposava del resto con l'esprit du temps. I capisaldi minimi della sinistra europea, che avevano retto negli anni Ottanta, cominciavano infatti ali ' inizio 22. A. Occhetto, Un nuo vo inizio: la fase costituente di una nuova formazione politica. Relazione al XIX Congresso, 7 marzo 1990, in "l ' Unità", 8 marzo I 99 0. 23. Intervento di W. Ve/troni al XIX Congresso Nazionale del PCI, ivi, I O marzo I 9 9 0. 24. Occhetto, Un nuovo inizio, cit. 25. Intervento di Fausto Bertinotti al XIX Congresso nazionale del PCI, in "l' Unità", 9 marzo I 9 9 0. 26. Mozione 3· L'intervento di Cossutta, ibid.

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degli anni Novanta a sgretolarsi abbastanza vistosamente, come si vide con il declino elettorale delle forze socialiste francesi e spagnole, con le difficoltà delle social­ democrazie scandinave e con l 'ormai cronica incapacità di tedeschi e di inglesi di vincere le elezioni. Le difficoltà della social-democrazia europea non fecero perciò che rinfocolare, non solo tra gli ingraiani e i cossuttiani, ma anche in larga parte della maggioranza occhettiana, il paradigma berlingueriano della « crisi della social-demo­ crazia » . Anche se l' anticraxismo vi giocò una parte rilevante, non fu solo quindi per smarcarsi da un P S I sempre più impopolare a sinistra che il nome "socialista" per il nuovo partito fu contemplato solo dalla pattuglia migliorista. Entrare nell ' Interna­ zionale socialista era ritenuto dalla maggioranza occhettiana necessario per acquisire legittimità e rompere l' isolamento internazionale; ben diversa cosa però era dotarsi di una cultura riformista social-democratica che nel Partito democratico della sinistra ( Pns ) era considerata anch'essa messa in discussione dal crollo del Muro di Berlino.

La crisi del

s

PSI

nell'interpretare la società italiana

Durante la campagna elettorale per le politiche del 1992, Craxi batté spesso sul tasto dei vincoli imposti dall 'economia internazionale sulle possibilità di azione dei governi nazionali, in modo particolare di quello italiano, di un paese gravato da un deficit sempre in crescita. Erano poi ben presenti al leader socialista i vincoli esterni dell' Eu­ ropa e di Maastricht, trattato che il governo andava firmando in quei giorni. Dopo Maastricht, spiegò Craxi, « non sarà più possibile il ricorso alle svalutazioni compe­ titive, al finanziamento della spesa pubblica con il debito pubblico, alla ricostruzione dei margini di profitto delle imprese con le fiscalizzazioni pagate dal drenaggio fiscale » , tutte « vie che ci porterebbero fuori dall' Europa » 17• Erano temi certo presenti anche nella cultura politica del PDS, e già ai tempi del P C I , ma rimasti ancorati a una dimensione astratta. E tuttavia, proprio l'antagonismo del P D S , gli inviti alla società civile e al superamento della "forma-partito" predispo­ sero i postcomunisti a porsi meglio in sintonia con il vento di protesta che scuoteva il paese. Ecco così delinearsi, nella propaganda postcomunista del 1992 un ' Italia dei cittadini onesti incarnata dai magistrati e rappresentata dal PDS, ma anche dalle forze antisistema, e un'altra Italia, come scriveva Luciano Violante, « sudamericana » e « centroafricana » , dedita alla corruzione e ai taglieggiamenti, incarnata da Craxi18• Quella dell ' Italia dei cittadini onesti (la maggioranza) contro la classe politica (ma di governo) disonesta era una rappresentazione che doveva moltissimo a Berlinguer. 27. B. Craxi, Discorso al teatro Lirico, 26 febbraio 1992, in FBC, ABC, Bettino Craxi 1959-2ooo, sezione 1. Attivita di partito, serie 4· Elezioni, sottoserie 2. Comizi. 28. L. Violante, I dilemmi di Craxi, in "l' Unità", 4 giugno 1992.

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Il quale però - e non era una differenza da poco - rimase sempre convinto della centralità del sistema dei partiti, la cui rigenerazione sarebbe giunta in primis dal Partito comunista e poi dalle spinte riformatrici interne alle varie forze politiche, e non certo dalle azioni della magistratura. L'immagine pidiessina delle due I tali e non richiedeva inoltre di definire gli attori e i settori sociali cui la sinistra, in questa fase di transizione, doveva rivolgersi. I continui inviti dei mesi precedenti di Occhetto a individuare i « soggetti sociali » vennero quindi accantonati per indirizzarsi a un'in­ distinta entità, appunto la maggioranza degli onesti. Con queste categorie il P D S non poteva che vedere il governo Amato come il fantasma dei tanto odiati anni Ottanta, fautore di « scelte neoliberiste non solo socialmente inique ma anche fuori dal tempo » , «prosecuzione aggiornata del cra­ xismo, anche senza Craxi » , frutto dei « vecchi partiti » da un lato e dei «poteri forti » dall 'altro. A parlare non erano Cossutta, Garavini o Ingrao ma Occhetto19• Eppure, nella discussione sulla fiducia al governo, svoltasi alla Camera nel luglio 1992, le parole di Amato erano suonate ben diverse da quelle dei suoi predecessori. L' Italia, spiegò il presidente del Consiglio, rischiava di «perdere il cuore » delle « attività produttive » , di diventare « una terra non più adatta ad insediare attività produttive nel primario e nel secondario » , solo un «paese di servizi, di gioco, di svaghi e di altro » . Il risanamento era perciò inevitabile per far ripartire lo sviluppo, con una «politica dei redditi » che salvaguardasse «l'equità » attraverso sacrifici «equamente distribuiti » 30• Un'analisi, quella del nuovo presidente del Consiglio, pienamente condivisa da Craxi, che, nella Direzione del 6 agosto 1992, spiegava la crisi dell'associazionismo poli­ tico e dei partiti, «l'impoverimento della loro vita associativa » , con l'accelerazione imposta da una società « divenuta più ricca, più libera, più colta, più esigente » ; rispetto a questi mutamenti i partiti erano rimasti legati alle modalità «fideisticamente mobili­ tative del dopoguerra » 31• Quanto all' Italia, la diagnosi di Craxi era altrettanto severa di quella del presidente del Consiglio: il paese correva infatti il rischio reale di un «processo di sudamericanizzazione » , con l'intrecciarsi di « disoccupazione, accentuata deindu­ strializzazione, criminalità diffusa del nuovo proletariato metropolitano, instabilità monetaria, fuga dalla moneta domestica e fuga di capitali »31• Sia pure nel pieno di Tangentopoli, Craxi colse quindi i dati di mutamento di un paese dominato da «un sentimento di egoismo sociale che appare radicato in ceti del benessere » , con una società « diversamente stratifìcata, resa assai più complessa dal suo vigoroso sviluppo, una società in cui tutto cambia con una rapidità impressionante e che è a un tempo più forte e più 29. A. Occhetto, Ricostruire la sinistra e l'Italia, ivi, 3I dicembre I992. 30. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XI Legislatura, Discussioni, seduta del 4 luglio I992. 3I. PSI, Direzione nazionale, 6 agosto I992, relazione di Bettino Craxi, in FBC, ABC, sezione I. Attivita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Dire­ zione nazionale ed Esecutivo, VA I8I. 32. PSI, Esecutivo, I7 luglio I992, relazione di Bettino Craxi, ivi, UA I8o. 247

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debole. Più forte perché più organizzata e più ricca, più debole perché più articolata, più divisa, più influenzabile e più volubile »33• Quello che Craxi non riuscì a fare fu però tradurre questa visione in tattica e in strategia, come invece gli era riuscito nel passato.

6 Populismo e giustizialismo Con il crollo del PSI all'inizio del 1993 e con la morte di uno dei contendenti, finiva la lunga guerra a sinistra, di cui il P D S non sembrò dispiacersi troppo34• I postcomu­ nisti restavano, infatti, se non il solo soggetto politico nel campo della sinistra, quello di gran lunga preponderante e centrale, in grado di organizzare il campo e le alleanze. Con l 'ingresso nell ' Internazionale socialista, il PDS proclamò con enfasi di incarnare, assai più di quanto non avesse fatto il P S I , il ruolo di sinistra riformista, social­ democratica e di governo - anche perché qualche importante esponente del socia­ lismo europeo aveva tutto l'interesse a farlo credere a Botteghe Oscure. Ma il rifor­ mismo social-democratico europeo non era solo un pacchetto di slogan buoni da recitare fuori dell' Italia: era una cultura politica e un sentire il mondo ancora poco diffusi non solo nei vertici ma soprattutto nella base postcomunista35• Proprio mentre il PDS si proclamava riformista e social-democratico in Europa, in Italia si presentava infatti come "rivoluzionario", di quella "rivoluzione" tutta partico­ lare ribattezzata "Mani pulite", che stava spazzando via il sistema politico dell' Italia repubblicana. Del resto, i leader del PDS andavano fieri di essersi sempre battuti, loro e i loro padri, Togliatti, Longo e Berlinguer, contro un sistema tarato fin dalle sue fondamenta, e sempre caratterizzato, spiegava il vicesegretario D 'Alema, dal «doppio stato illegale che si è retto in Italia, ed è stato coperto, in nome dell 'anticomunismo »36• Solo ora l' Italia - aggiungeva Violante - può « voltare pagina » , purché gli interventi della magistratura incidessero non solo nella classe politica ma anche nella società: il nuovo, per « vincere » , doveva agire co n «la durezza necessaria » , se co ndo le « aspe t­ tative e [i] bisogni della grandissima parte del popolo italiano » 37• Un discorso di matrice giacobina e semanticamente vicino all' antiparlamentarismo non solo verbale della Lega e del Movimento sociale italiano (Msi) . Un discorso rafforzato dalle mobi33· PSI, Assemblea nazionale, 25 novembre I992 (relazione di Bettino Craxi), FBC, ABC, Bettino Craxi I9S9-2000, sezione I. Attivita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 2. Assemblea nazionale, UA I I. 34· C. Pinto, Lafine di un partito. Il PSI dal I992 al I994, Editori Riuniti, Roma I999; G. Acqua­ viva, L. Covatta (a cura di), Il crollo. Il PSI nella crisi della prima Repubblica, Marsilio, Venezia 20I2. 3S· M. Gervasoni, La guerra delle due sinistre. Socialisti e comunisti dal '63 a Tangentopoli, Marsilio, Venezia 20I3. 36. M. D'Alema, Il problema ora e il collasso del sistema, in "l' Unità", I2 febbraio I993· 37· L. Violante, Il nuovo c 'e, ivi, 7 aprile I993·

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litazioni antipolitiche e dall' interpretazione "rivoluzionaria'' del referendum del 18 aprile 1993, che, con uno spirito nuovo, come spiegò Veltroni, ha spazzato via il « tanfo » degli anni Ottanta38 •

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Quale Italia dopo il crollo dei partiti : le illusioni della sinistra Sulle macerie del sistema politico il PDS cercò di ergersi a partito perno di un nuovo sistema, a cui avrebbe certamente aderito, come diceva Occhetto, larga parte degli elettori socialisti. Un errore di prospettiva, come si sarebbe visto da lì a poco, figlio di una lettura semplificata e di un'analisi assai imprecisa degli effetti sociali prodotti dal crollo del sistema dei partiti e dagli interventi fiscali sul welfare e sul rapporto tra Stato ed economia introdotti da Amato e da Ciampi. Né l'approssimarsi delle elezioni amministrative spinse il PDS a una riflessione sui mutamenti della società italiana durante la transizione. Gli scarsi risultati dei candidati di Segni e della D C e la vittoria di quelli "progressistt convinsero infatti i dirigenti del P D S che il centro era ormai svanito ; un risultato storico che, così credeva Occhetto, faceva del P D S non solo la forza principale a sinistra, ma anche il fulcro del sistema in un'elezione nazionale, vista l'impossibilità della Lega e del M S I di varare un governo. Forse il centro politico era sparito. Ma larga parte degli elettori della DC e del P S I non aveva alcuna intenzione di riconoscersi nel P D S . E non solo elettori "moderatt: a cominciare dalla sconfitta dei progressisti al Comune di Milano, una città in cui fino a pochi anni prima il P C I era ancora il primo partito, ora finita nelle mani della Lega, per concludere con il « colpo subito nei ceti popolari » sia nel capoluogo lom­ bardo che a Torino. Voti operai che almeno in Piemonte erano in parte rifluiti sull'ex sindaco Diego Novelli, candidato della Rete e di Rifondazione comunista, mentre a Milano erano proprio finiti sul vittorioso candidato leghista Marco Formentini39• Tra i principali dirigenti del PDS solo D'Alema tentò un'analisi più fredda dei mutamenti della società italiana, in cui si era esaurito il compromesso sociale degli anni Settanta e nuovi e diversi gruppi sociali cercavano una rappresentanza: al Nord « una nuova classe dirigente espressione di una piccola e media borghesia aggressiva » , che conta « sull 'integrazione sovranazionale di un pezzo del nostro Paese » ; al Sud una « borghesia assistita, al confine tra economia legale e criminale, che può venire attratta da un mezzogiorno che si collochi nel Mediterraneo come una comunità a debole sta38. W. Veltroni, E ora diamo corpo alla speranza, ivi, 20 aprile I993· 39· S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (I9S9-2ou), Laterza, Roma-Bari 20I2, pp. 3I-9. La citazione sul «colpo subito» è di M. D'Alema, La Quercia Segni e Gara vini, in "l' Unità", 1 1 giugno I993·

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tualità » . Pur nella piena demonizzazione di Craxi, a cui D'Alema contribuiva non poco, egli riconobbe - e siamo nel giugno 1993 - nel PSI il solo partito che aveva compreso la crisi del compromesso sociale democristiano negli anni Ottanta, e che aveva anche avviato « un grande tentativo di modernizzazione » che ora doveva essere ereditato dal PDS, attraverso l'alleanza tra forze del mondo del lavoro e quelle dell' imprenditoria40• Era un'analisi con molti elementi tipici della tradizione comunista italiana, e tuttavia una delle poche attente da parte di dirigenti del PDS, e stonava con le parole di Occhetto. Per il segretario infatti la « borghesia italiana » aveva puntato sul PDS, garante di « efficienza, ordine, sicurezza, ma anche solidarietà » , partito che garantiva « di contenere il costo del lavoro e l'inflazione, attivando nuove politiche economiche e industriali, privatizzazioni comprese » : un riconoscimento, aggiungeva Occhetto, che veniva anche dal "Financial Times"4•. Occhetto si paragonò persino al de Gaulle del 1958; come lui, il suo partito aveva attuato « un cambiamento di regime » , favo­ rito dalle «inchieste di Mani pulite che hanno funzionato un po' come l'artiglieria contro il vecchio regime » in quella che è stata una « rivoluzione democratica dal basso » , guidata da un PDS in cui senza dubbio si sarebbero riconosciuti gli « strati del ceto medio produttivo che tradizionalmente si rivolgevano alla DC » 4l. L'assoluta certezza di vincere le elezioni politiche non tanto per via di un'alleanza capace di sfruttare il nuovo sistema elettorale, ma proprio per la convinzione di rap­ presentare la maggioranza degli italiani fece chiudere la porta di Occhetto verso quei dirigenti socialisti che, al contrario, avevano compreso l'entità del vuoto lasciato dal crollo dei partiti di governo e che la sinistra postcomunista non poteva riempire. Si trattava infatti - spiegava uno di loro, Amato - di rappresentare « i ceti medi che hanno rotto con i vecchi partiti di governo e non stanno con la Lega, ma non si fidano degli ex comunisti » . Un centro fatto di imprenditori grandi e piccoli, di « quadri e di borghesia delle professioni » 43• Preoccupazioni, quelle dell 'ex presidente del Con­ siglio, che furono bollate sprezzantemente da Occhetto come « craxismo di ritorno » 44•

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L' Italia " nuovà' del

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Nel frattempo, lavorava nell'ombra - ma neppure troppo - quel Berlusconi che si apprestava a riempire il vuoto politico, e a rappresentare le fasce sociali che Occhetto e Veltroni davano già per alleate alla sinistra. Il Cavaliere venne subito sottovalutato dal PDS, lo fu ancor più durante la campagna elettorale, e nel marzo del 1994 si parò 40. M. D'Alema, La sinistra e le trasfo rmazioni dell 'Italia, ivi, 21 giugno 1993. 41. A. Occhetto, Siamo la sicurezza democratica, ivi, 24 novembre 1993. 42. Id., Ora questa alleanza punti al governo, ivi, 7 dicembre 1993. 43· E Amato tesse un 'intesa sinistra-centro, in "la Repubblica", 24 ottobre I 993· 44· Occhetto esulta e avverte, ivi, 22 novembre 1993·

L IMMAG INE DE LLA S O C I ETA ITAL IANA NEL C ETO P O LITI CO ,

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di fronte ai dirigenti di Botteghe Oscure un ' Italia nuova sì, ma molto diversa da quella vagheggiata4\ A commentare a caldo intervenne Veltroni, direttore dell '"U­ nità,: Berlusconi aveva vinto in opposizione al « messaggio di rigore e di cambia­ mento » incarnato dalla sinistra, che fin dalla proposta « sacrosanta » dell'austerità berlingueriana aveva sempre rappresentato lo « schieramento della serietà » . Tuttavia, la sinistra aveva commesso l'errore di non entrare in sintonia con la società, a partire dai giovani ( che avevano massicciamente votato per il Polo ) , in un' Italia che gli anni Ottanta avevano trasformato in una società « individualista »46• Ma per Veltroni il fenomeno Berlusconi era destinato a una brevissima durata, dovuta alla crisi econo­ mica che ha fatto credere al « sogno » offerto gli dal Cavaliere, soprattutto « negli strati sociali impauriti » mentre solido era il sostegno della « media borghesia » nei confronti del PDS47• Aggiungeva infatti Luigi Berlinguer che a votare per il Polo erano cittadini immersi in una « società disgregata » ; non a caso laddove v'era una « società evoluta » , come in Toscana, i progressisti avevano raccolto una gran messe di voti48• Con queste chiavi di lettura si rischiava però di non andare molto lontano. Non che tutti nel PDS le condividessero. Per il sindaco di Napoli Bassolino la convinzione della sinistra di essere « la parte più colta » dell' Italia le aveva i mpe di to di « fare i conti con i sentimenti complessi di un Paese come il nostro »49• Anche per Napolitano il PDS, con grande « superficialità » , ha diffuso « l'euforica rappresentazione di un' I­ talia che attendeva soltanto di essere "liberata, dalle degenerazioni del sistema poli­ tico, dal dominio democristiano e socialista per imboccare la strada del cambiamento » ;o. Un'analisi molto vicina a quella di Amato, per il quale Berlusconi «ha raccolto i frutti della campagna del "nuovo che avanza, perché doveva essere non politico e lui è quello che gli assomigliava di più » , ha catalizzato i peggiori sentimenti egoistici di un elettorato moderato « in libera uscita » e ha « colto un vento anticomunista » , che ha travolto anche l'elettorato socialista finito in larga parte su Forza Italia5•. Le parole di Bassolino, e ancor più quelle di Napolitano e di Amato, furono però ancora una volta vox clamantis in deserto in un PDS in cui, ben prima delle europee del giugno 1994 che segnarono un'ancora più clamorosa vittoria di Forza Italia, si aprì un dibattito in vista del superamento della segreteria occhettiana, con la nascita ufficiale del dualismo tra D'Alema e Veltroni. Dietro a questo dualismo, sempre ufficialmente negato da entrambi, ancora troppo legati all'unanimismo della cultura comunista, v 'erano anche due diverse rappresentazioni dell' Italia. Per Veltroni il berlusconismo era un fenomeno transitorio, in quanto continuazione del vecchio sistema craxiano : Craxi e Berlusconi rappresentavano una « malattia » del paese, una 4S· Colarizi, Gervasoni, La tela di Penelope, cit., pp. 48-s6. 46. W. Veltroni, Ricominciamo e ripartiamo, in "l' Unità", 30 marzo I994· 47· Id., Ora l 'unita di tutte le opposizioni, ivi, 3I marzo I994· 48. L. Berlinguer, L 'opposizione dei progressisti, ivi, I 0 aprile I994· 49· A. Bassolino, È esplosa la questione settentrionale, ibid. so. G. Napolitano, I riformisti siamo noi, ivi, 2.4 aprile I994· S I. G. Amato, Partito democratico? Sì oppure si resta allo zoccolo duro, ivi, 8 aprile I994·

MARCO GERVASON1

« cattiva politica » da battere sul piano identitaria lasciando fermi alcuni punti chiave, a cominciare dalla figura di Berlinguer; sul piano operativo, immergendosi nella società, ripartendo « dagli interessi reali, dalla condizione materiale della gente » 5l. Nonostante lo sguardo "americano" e le continue invocazioni del bipolarismo, agli occhi di Veltroni l'avversario non aveva volto, non rappresentava interessi e men che meno idealità. Tanto che, ancora nel 1995, in un volume indirizzato appositamente a un pubblico vasto, Veltroni si diceva convinto che Berlusconi fosse un fuoco fatuo in un' Italia in transizione. E ancora una volta guardava a Berlinguer che aveva capito la « finta modernità degli anni Ottanta » , che « azzeccò il giudizio su Craxi » e che « ebbe ragione sull 'austerità e sulla rivoluzione femminile » 53. L' Italia insomma non era ancora uscita dagli anni Ottanta - un'ossessione veltroniana -, il decennio della politica immorale e in sostanza dell'antipolitica, ripresa da Berlusconi e dal suo populismo54. A questa analisi D 'Alema contrappose invece una rappresentazione apparente­ mente più tradizionale, ancorata a un apparato concettuale gramsciano, in cui il radicamento sociale berlusconiano nasceva dall 'incontro tra i settori più dinamici del capitalismo e ampi strati sociali « non tutelati o vivacemente critici delle forme in cui le politiche sociali avevano trovato attuazione » , un « intreccio tra liberismo privatista e antistatalismo ( popolare ) democratico » . Era perciò sbagliato per D 'Alema limitare il successo del consenso berlusconiano alla sola proprietà delle televisioni: dietro vi era infatti un nuovo « rapporto organizzato con la società: sia nelle forme tradizionali sia nelle forme nuove del partito impresa, sempre garantendo una ricca capacità di rappresentanza di concreti bisogni e interessi sociali » . La compattezza del blocco sociale berlusconiano era assicurata dalle trasformazioni dell'economia globale; perciò la sinistra, se si fosse limitata a rappresentare il « vecchio compromesso sociale » senza sforzarsi di cogliere il « nocciolo di verità » che stava nella « rivolta dei ceti sociali più dinamici e moderni » , difficilmente sarebbe riuscita a governare la società ita­ liana55. Per questo si doveva riscoprire « nell' industrialismo moderno una risorsa e non solo un rischio » , mettere al centro « le libertà » dell'individuo e di conseguenza discutere criticamente il ruolo dello Stato nell 'economia per poi provvedere a una seria riorganizzazione del welfa re state5 6 • Tutti temi ripresi una volta diventato segre­ tario del PDS57, e che D 'Alema avrebbe sintetizzato con il recupero della gobettiana « rivoluzione liberale » . Ma c 'era un non detto in tutto ciò : le intuizioni della cultura socialista, e non tanto di quella della Conferenza di Rimini del 1982 ma proprio di quelle dell'ultimo Craxi, tra il Congresso dell 'Ansaldo e la Conferenza di Rimini. 52. W. Veltroni, La sfrda interrotta. Le idee di Enrico Berlinguer, Baldini e Castaldi, Milano 1994, P· 23. S3· Id., La bella politica, Rizzoli, Milano 1995, p. 6 o. S4· lvi, p. 74· SS· M. D'Alema, Sinistra e centro insieme all'opposizione, in "l' Unità", 8 maggio 1994. s6. Id., Relazione al Consiglio nazionale del PDS, giugno 1994, in Id., Un paese normale. La sinistra e ilfuturo dell'Italia, Mondadori, Milano 1995, p. 84. S7· Id., Relazione al Consiglio nazionale del PDS, dicembre 1994, ivi, p. 125.

Il P C I di Occhetto e le riforme istituzionali. Dalla critica al consociativismo alla via referendaria di Sandro Guerrieri

La riforma del sistema politico fu uno dei temi centrali dell 'elaborazione del Partito comunista italiano (Per) durante la leadership di Achille Occhetto. Esso fu posto all'ordine del giorno già nel novembre 1987, alcuni mesi dopo la nomina di Occhetto a vicesegretario del partito, e fu rilanciato dopo la sua ascesa alla segreteria nel giugno 1988. Successivamente, a seguito della svolta della Bolognina del novembre 1 9 89, si intrecciò strettamente al processo di trasformazione del PCI in un nuovo partito che si distaccasse dalla tradizione comunista per confluire nelle strutture internazionali del socialismo : il soggetto politico da costruire sarebbe stato attore di un'innovazione istituzionale che garantisse il passaggio a una democrazia dell'alternanza, con il supe­ ramento, pertanto, di ciò che Occhetto aveva definito sin dal 1987 come il mecca­ nismo consociativo caratteristico della storia repubblicana. Per un partito come il PCI, che in precedenza aveva fatto della difesa della cen­ tralità del Parlamento - accentuatasi con i regolamenti parlamentari del 1971 - e del sistema proporzionale la sua bandiera istituzionale, si trattava di una svolta radicale. In questo saggio si prenderanno in esame i momenti essenziali del dibattito all ' in­ terno del partito, basandosi, a livello archivistico, sui verbali del suo principale orga­ nismo dirigente, la Direzione. Nell'ultima parte, ci si soffermerà sul modo in cui il tema della riforma delle istituzioni fu successivamente portato avanti dal Partito democratico della sinistra ( PDS) e, in particolare, sul significato dell 'assunzione della strategia referendaria come strumento di innesco del processo di transizione.

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La svolta istituzionale di Occhetto : l 'obiettivo di una democrazia dell 'alternanza Difesa e attuazione della Costituzione repubblicana erano state le parole d 'ordine del PCI nel quadro della sua strategia di radicamento nella realtà nazionale italiana\ 1. Cfr. R. Gualtieri (a cura di), Il PCI nell'Italia repubblicana {I943-I99I), Carocci, Roma 2001. 2 53

SANDRO GUERRIERI

che aveva fatto sempre più da contraltare, nel tempo, al "legame di ferro" con l ' U­ nione Sovietica. Questa forma di patriottismo costituzionale aveva costituito una netta differenza rispetto all'esperienza dell 'altro grande partito comunista dell ' Eu­ ropa occidentale, il Partito comunista francese (PcF). Quest'ultimo aveva partecipato alla genesi, negli anni 1945-46, della Costituzione della Quarta Repubblica, ma si era contraddistinto per una strategia di scontro con la Democrazia cristiana francese, il Mouvement républicain populaire (MRP ), che aveva contribuito a indebolire consi­ derevolmente il compromesso raggiunto, mai assurto in seguito a fondamentale risorsa valoriale. E nel 1958 i comunisti francesi avevano dovuto subire il passaggio alla Quinta Repubblica gollista, la cui evoluzione in senso semipresidenziale era stata da loro duramente condannata. Per il PCI, invece, la Costituzione rappresentava un punto di riferimento essen­ ziale tanto sul piano dei valori quanto su quello degli ordinamenti. I due aspetti apparivano del resto, agli occhi dei comunisti italiani, strettamente interconnessi: la forma di Stato democratico-sociale configurata nella prima parte della Costituzione doveva necessariamente avere come veicolo attuativo la forma di governo imperniata sulla centralità parlamentare. Solo in questo modo, per i comunisti, era possibile attivare un circuito di comunicazione tra governanti e governati che soddisfacesse le domande sociali. Ciò presupponeva il ricorso, a livello elettorale, al sistema propor­ zionale, l'unico ritenuto in grado di assicurare un efficace esercizio della funzione di rappresentanza, facendo sì che la forza dei partiti in Parlamento corrispondesse, come in una sorta di proiezione in scala, all'effettivo consenso nel paese. In termini di strategia politica, questo impianto concettuale comportava che l'attuazione delle grandi norme di principio della Costituzione, assunte con il tempo dal PCI come criterio direttivo del proprio programma politico, venisse demandata all'incontro tra le grandi forze popolari protagoniste della stagione costituente. Ciò si era tradotto innanzitutto nell 'impegno a valorizzare al massimo le possibilità offerte dal confronto parlamentare. Non che il "partito nuovo" togliattiano si fosse subito rivelato in grado di padroneggiarne gli strumenti. Al contrario, all' inizio aveva pesato nel corpo del partito un' insufficiente considerazione del lavoro nelle Camere, tanto che nel 1 9 5 1 Togliatti era dovuto intervenire per stigmatizzare come « in questa o quest'altra organizzazione » si registrasse « una sconsiderata sottovalutazione dell'attività parlamentare » 3. Gradualmente, tuttavia, l'attività comunista in Parla­ mento si era rivelata molto più incisiva e, a partire dal 1969, la valorizzazione dell' isti­ tuto parlamentare era divenuta uno dei criteri ispiratori anche dell 'attività dei comu-

2. Sul processo costituente in Francia negli anni I945-46 mi permetto di rinviare a S. Guerrieri, Due Costituenti e tre referendum. La nascita della Quarta Repubblica francese, FrancoAngeli, Milano I998. 3· Circolare di Togliatti del 29 dicembre I95I, in Archivio della Fondazione Istituto Gramsci (d'ora in avanti AFIG), PCI, Archivio M, mf 233, Gruppi parlamentari I948-I 95I-I9S3-I954· 254

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nisti al Parlamento europeo. Anche in questo caso, la differenza rispetto ai colleghi francesi si rivelò molto netta, visto che gli eurodeputati del P C F considerarono l 'emi­ ciclo di Strasburgo come una mera tribuna di propaganda politica a fini interni. Per quanto riguarda il percorso di legittimazione come partito di governo, la ricerca del dialogo tra le grandi forze popolari aveva trovato la sua più compiuta espressione, come è noto, nella strategia del compromesso storico. Ma la chiusura della stagione della solidarietà nazionale, nel 1979, e l'adozione da parte di Enrico Berlinguer, all' inizio degli anni Ottanta, della linea dell "'alternativa democratica" crearono le premesse per modificare l'angolazione da cui guardare agli assetti istitu­ zionali. Con il ritorno all'opposizione e la formazione della maggioranza di Penta­ partito, la linea del P C I poteva ancora attestarsi sulla difesa e l'attuazione della Costituzione, o si dovevano anche creare le condizioni per un sistema politico più dinamico ? Una prima sollecitazione a prendere in considerazione il modo in cui i principi costituzionali avrebbero potuto conciliarsi con alcune innovazioni volte a rendere più efficiente la forma di governo avvenne nel corso dei lavori della Commissione bicamerale presieduta da Aldo Bozzi, istituita nel 1983. I rappresentanti comunisti al suo interno proposero una radicale revisione della struttura del Parlamento tramite il passaggio al monocameralismo: proposta, questa, che si ricollegava all'orientamento inizialmente assunto dai comunisti alla Costituente, e subito abbandonato a causa della radicale opposizione della Democrazia cristiana (ne) . Sul piano della legge elettorale, i rappresentanti del P C I avanzarono l'ipotesi del passaggio, per la Camera, al collegio uninominale ma in un quadro generale di stampo proporzionalistico, sulla falsariga del modello tedesco, del quale peraltro non si accoglieva la clausola di sbar­ ramento. Erano invece respinte ipotesi di riforme elettorali più radicali come, sempre da sinistra, il progetto Pasquino-Milani che, allo scopo di incentivare un confronto tra schieramenti alternativi, prevedeva la concessione di un premio di maggioranza nell'ambito di un meccanismo a doppio turno4• Il fallimento nel gennaio 1985 della Commissione Bozzi, che mise in luce la profonda difficoltà del sistema politico ad autoriformarsiS, comportò che anche per il PCI il tema delle riforme passasse decisamente in secondo piano, fatta eccezione per il Centro per la riforma dello Stato ( CRS ) , l' istituto di ricerca del PCI - fondato nel 1972 da Umberto Terracini - presieduto da Pietro lngrao e diretto da Giuseppe Cotturri. Fu proprio Pietro lngrao ad avanzare, in occasione della preparazione del Congresso di Firenze dell'aprile 1986, un 'audace proposta per avviare un percorso

4· Cfr. Centro per la riforma dello Stato

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CRS, Come ha lavorato la commissione Bozzi. La rela­

zione del presidente. Le relazioni di opposizione. Ipotesi di riforma elettorale. Documenti, bibliografia, schede, Editori Riuniti, Roma I98S (supplemento a "Democrazia e Diritto': 2). S· Cfr. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (I945-I996), il

Mulino, Bologna I 997· pp. 423 ss.

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riformatore. Il presidente del C RS auspicò infatti la formazione di un « Governo costituente » , inteso come un « Governo a termine » che fornisse « il quadro politico positivo perché il Parlamento e il paese » potessero « dar luogo alle innovazioni istituzionali indispensabili » , affrontando anche la questione del sistema elettoralé. Osteggiata però dalla maggioranza del partito, al congresso nazionale la proposta fu ritirata. Il momento di diventare protagonisti di un processo di riforma delle istitu­ zioni non era ancora giunto7• A riaprire all' interno del P C I la riflessione sulle questioni istituzionali provvide la sconfitta elettorale del giugno 1987, quando esso scese dal 29,9 % del 1983 al 26,6%8• Il segretario Alessandro Natta avvertì l'esigenza di un rinnovamento del gruppo dirigente. Achille Occhetto fu nominato vicesegretario e nella segreteria, resa più snella, fecero il loro ingresso Piero Fassino, Gianni Pellicani e Claudio Petruccioli, che andarono ad affiancare Massimo D'Alema e Livia Turco, entrati l'anno prece­ dente9. Per l'elaborazione del P C I in ambito istituzionale, ciò si tradusse in un netto cambiamento di marcia10• La svolta in questo campo ebbe luogo nella riunione di Direzione del 16-17 novem­ bre 198i1• Nella relazione di Occhetto si affermò che la strategia dell'alternativa democratica, la cui validità era stata ribadita dal Congresso di Firenze dell'anno pre­ cedente, doveva misurarsi con la crisi del sistema politico. Tale crisi era interpretata da Occhetto in termini di declino di un metodo politico consociativo al cui interno il PCI aveva finito per restare prigioniero, rimanendo in una posizione « oggettivamente conservatrice, nobilmente conservatrice » 1l: «Abbiamo governato dall'opposizione, questa è la verità » 13• L'accento doveva allora essere posto d'ora in avanti a livello siste­ mi co sulla capacità di governo anziché su quella di mediazione : « Occorre governare più ancora che mediare: questo è il punto fondamentale » 14• Da questa analisi Occhet­ to era portato per un verso a riconoscere a Craxi di aver colto alcune dinamiche di crisi della vecchia politica, ma per l'altro a stigmatizzarne l'orientamento volto a pun­ tare non al rinnovamento del sistema politico, bensì alla sua destrutturazione. Spetta6. L'emendamento di Pietro lngrao sul governo costituente è riportato in G. Pasquino (a cura di), La lenta marcia nelle istituzioni. I passi del PCI, il Mulino, Bologna 1988, pp. 209-I2. 7· Cfr. G. Cotturri, Ingrao e il CRS {I979-I99J). Ricerca di autonomia e processo costituente, in L. Benadusi (a cura di), Ricerca e intervento. La storia del CRS nelle carte del suo archivio e nelle rifles­ sioni di Ingrao e Cotturri, Ediesse, Roma 2007, pp. 49-1 15. 8. Cfr. R. Gualtieri, L 'ultimo decennio del PCI, in P. Borioni (a cura di), Il riformismo nell'Europa degli anni Ottanta, Carocci, Roma 200I, pp. I7 5-206. 9· Cfr. A. Vittoria, Storia del PCI (I92I-I99I), Carocci, Roma 2006, pp. I S2 ss. IO. Cfr. A. Romano, Il "nuovo PCI " e il tema istituzionale, in G. Acquaviva, M. Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia 2011, pp. 22I-9. 1 1. Cfr. Gualtieri, L'ultimo decennio del PCI, cit., pp. I92-s. I2. AFIG, PCI, Direzione, mf 8 804, riunione del I6-I7 novembre I987, seduta antimeridiana del I 6, P · I 8. I3. lvi, seduta pomeridiana del I7, p. I4. I4. lvi, seduta antimeridiana del I6, p. 2I.

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va allora al PCI farsi carico della sua rifondazione, perseguendo un indirizzo che, al contrario di quello craxiano, mirasse a salvaguardare la dinamica della dialettica demo­ cratica e a rilanciare la funzione progettuale dei partiti1;. La relazione di Occhetto suscitò in Direzione adesioni ma anche perplessità, in un dibattito ampio ma un po' generico e a tratti molto nervoso, intrecciato con il grado di legittimazione del gruppo di "giovani" ai quali, sotto la guida di Natta, era stata come si è detto affidata la segreteria. A suscitare riserve era ad esempio l'uso estensivo della categoria della "consociazione", assunta a paradigma interpretativo onnicomprensivo della storia repubblicana. In effetti, se l 'appello a fuoriuscire dall'orizzonte del consociativismo serviva a rimarcare la necessità di un netto salto di qualità rispetto alla scarsa incisività che fino a quel momento aveva contraddistinto la stessa proposta dell 'alternativa democratica, si profilava però una chiave di lettura semplicistica della vita politica del dopoguerra16, che nelle sue forme più estreme avrebbe successivamente concorso ad alimentare visioni superficiali e liquidatrici dell' intera esperienza della democrazia dei partiti. L' impulso a un maggiore dina­ mismo sui temi istituzionali, comunque, era stato dato. « Oggi vogliamo costruire una democrazia dell'alternativa: questa è la novità » , aveva sottolineato Massimo D 'Alema17• E una volta che il nuovo indirizzo fu fatto proprio dal Comitato centrale che si svolse alla fine del mese, il PCI si predispose ad avviare un confronto costrut­ tivo con le forze politiche della maggioranza di Pentapartito. Questa disponibilità al confronto andò tuttavia ben presto delusa. Il segretario Natta ebbe una serie di incontri con i leader dei partiti della maggioranza su cui riferì in Direzione il 20 gennaio 1988. L' impressione avuta era sostanzialmente positiva: vi era stata una convergenza nel constatare l'aggravamento del sistema politico-isti­ tuzionale ed era emersa una volontà di dialogo sulle riforme. Per quanto riguardava l'orientamento dei socialisti, Natta riportava che, se da un lato Bettino Craxi aveva ribadito la sua propensione per il passaggio all'elezione diretta del capo dello Stato « nel quadro dei suoi attuali poteri » , dall'altro non ne aveva fatto un punto discri­ minante: «lo la penso così - ci ha detto - ma lascio da parte questa idea perché non è condivisa » 18• Inoltre, di fronte al rifiuto del PCI di accettare la sua proposta di far elaborare un progetto di riforma solo dalla maggioranza di governo per poi discuterlo con l'opposizione, il leader del Partito socialista italiano (Psi) non si era « irrigidito » e aveva « dimostrato qualche disponibilità » 19• In ogni caso, secondo Natta, i partiti non potevano più « fallire la prova per non uscirne squalificati » 2.0• IS. lvi, pp. 22-3. I6. Cfr. M. Prospero, Sinistra e cambiamento istituzionale, Philos, Roma I997· I7. AFIG, PCI, Direzione, mf 8804, riunione del I 6-I7 novembre I987, seduta antimeridiana del I7, p. I8. I8. lvi, mf 8803, riunione del 20 gennaio I988, p. 3· I 9· lvi, p. 6. 20. lvi, p. 2. 25 7

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La Direzione era di nuovo convocata per il I0 febbraio I988 al fine di mettere a punto un insieme di proposte sulla base delle quali avviare il confronto con gli altri partiti. Essa doveva esprimersi su una relazione di Aldo Tortorella, peraltro non fortemente innovativa rispetto al passato. Ma lo scenario di apertura descritto da Natta nella riunione precedente si era chiuso. Le posizioni degli interlocutori si erano irrigidite, in particolare per la scelta dei socialisti di porre come pregiudiziale l'esten­ sione del campo di applicazione del voto segreto nei regolamenti parlamentari11• Su questo tema, nei mesi seguenti il PCI dovette assumere una posizione di fronte all'offensiva condotta dalla maggioranza. Le opinioni, all' interno del partito, erano diversificate. «L'esigenza di restringere l 'uso e di evitare l 'abuso del voto segreto » era stata sottolineata il I0 febbraio I988 in Direzione da Giorgio Napolitano, secondo cui tale modalità di voto aveva ormai dato politicamente « tutto ciò che poteva dare » ll. Ma questa tesi era stata respinta ad esempio da Adalberto Minucci, per il quale, invece, non si poteva ignorare che nella legislatura precedente il governo era stato messo in minoranza in virtù di esso su una lunga serie di leggi a carattere sociale: il voto segreto, a suo giudizio, era stato infatti «l 'espressione politica dell'anima cattolico-popolare della DC che non aveva altro modo di esprimersi » 13. Divenuto segretario del partito nel giugno I 9 88, fu alla fine Occhetto a dettare la linea da seguire. In coerenza con l'indirizzo di rinnovamento che doveva essere assunto in generale sulle riforme istituzionali, il PCI non poteva attestarsi a suo giudizio su una linea di difesa a oltranza di questo istituto : se da un lato doveva opporsi al progetto della maggioranza perché troppo radicale, dall'altro doveva accettare il passaggio al voto palese sulle leggi di spesa. E, una volta superate le resistenze presenti all' interno del gruppo comunista alla Camera1\ fu questa la posizione assunta dal P C I nell'acceso confronto parlamentare dell'ottobre I 9 88. Al di là comunque di questo nodo, il PCI doveva riprendere per Occhetto le fila del discorso avviato nella Direzione del novembre I987 sul tema di una riforma in profondità del sistema politico. Divenuto presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita aveva del resto espresso nell 'aprile I 9 8 8 l'intento di superare la situazione di stalla venutasi a creare a seguito del fallimento della Commissione Bozzi, e in maggio si 2I. Craxi, affermava Tortorella, cercava con la questione del voto segreto di rendere impraticabile il cammino per le riforme istituzionali: « La sua iniziativa non è del tutto riuscita, ma è grave ». Tor­ torella lamentava inoltre il fatto che Craxi e De Mita avessero poi parlato di un referendum sulle questioni istituzionali: « Si va ad una rottura di un patto costituzionale se ci si vuole rivolgere diret­ tamente al popolo. E perché non ne hanno parlato con noi ? [ ] Non si vuole seguire il metodo parlamentare, con una discussione aperta alle più ampie conseguenze, senza vinti né vincitori ?» (AFIG, PCI, Direzione, mf 8803, riunione del I 0 febbraio I988, p. 3 ) . 22. lvi, p. 9· 23. lvi, p. IS. 24. « Non è stata impresa facile quella di portare il nostro gruppo parlamentare e i suoi dirigenti a fare propria l'idea di Occhetto», osservò il capogruppo alla Camera Renato Zangheri nella riunione di Direzione del s ottobre I988 (AFIG, PCI, Direzione, mf 8812, p. 7 ) . ...

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era svolto in Parlamento un nuovo dibattito sulla questione. In tale contesto, il nuovo congresso del partito, che si sarebbe svolto nel marzo 1 9 89, doveva servire secondo Occhetto anche a esplicitare l' impegno del PCI su questo versante. Nella riunione della Direzione del 13-14 ottobre 19 88, dedicata alla discussione sul documento con­ gressuale, il segretario del PCI ribadì la critica al « consociativismo a centralità demo­ cristiana » e sottolineò che era finita «l 'epoca e la funzione dei governi deboli » , una strada che avrebbe condotto « allo svuotamento delle istituzioni » l;. Su impulso del segretario e del gruppo dirigente che lo affiancava, il PCI si avviò così ad assumere come proprio orizzonte quello di una democrazia dell'alternanza fondata anche su una riforma elettorale che, come Occhetto dichiarò il 18 marzo 1989 nella relazione di apertura del XVIII Congresso, consentisse al cittadino «di decidere più direttamente sui programmi e sui governi » l6• Sui caratteri della riforma del sistema politico si presentava ancora, peraltro, la difficoltà di uscire da una certa vaghezza. Soprattutto, come emerge dai dibattiti svoltisi in Direzione prima e dopo il congresso, si manifestava una notevole incertezza su alcuni orientamenti di fondo. Se in passato il PCI si era sempre espresso molto negativamente sulla proposta socia­ lista di elezione diretta del presidente della Repubblica, nella riunione del 13 marzo 19 89, volta a discutere le linee generali della relazione di Occhetto, si aprì un con­ fronto su questa ipotesi alla luce anche dell'ampio consenso da essa raccolto in un sondaggio dell ' Istituto di studi politici economici e sociali (ISPES), i cui risultati erano stati da poco resi pubblicil7• Alcuni dirigenti del partito si dichiararono disponibili a discutere di questa opzione qualora fosse stata inserita in un disegno istituzionale più ampio. Affermò ad esempio Giglia Tedesco : «Elezione diretta del Presidente della Repubblica: non demonizzare la proposta. Definire invece le riforme istituzionali entro le quali può essere posto il problema » l8• E Giorgio Napolitano rilevò : « Que­ stioni istituzionali. Nessun tema è tabù. Così è per la stessa elezione diretta del Presidente della Repubblica. Due modelli: USA e Francia » . Peraltro Napolitano sottolineava anche l'ambiguità della campagna condotta su questa material9• Del tutto negativo era invece il giudizio espresso da Alessandro Natta: « Cambiamento della democrazia rappresentativa italiana ? No. Chi vuole il presidenzialismo dica che vuole 25. AFIG, PCI, Direzione, mf 8 812, riunione del I3-I4 ottobre I9 88, seduta antimeridiana del I3, P· 3·

26. La relazione di Occhetto fu pubblicata in "l' Unità" il I9 marzo I989. Cfr. S. Fabbrini, Le strategie istituzionali del PCI, in "il Mulino", I990, s, pp. 753-77. 27. Cfr. A. Caporale, Quella voglia di riforme, in "la Repubblica", I2-I3 marzo I989; Sondaggio. "Elezioni con alleanze dichiarate", in "l ' Unità", I2 marzo I989. li sondaggio, realizzato su un campione di mille elettori, attestava che il 79,2% degli intervistati si era dichiarato a favore dell'elezione diretta del capo dello Stato. Un gradimento ancora maggiore ( 8 8,9%) era stato manifestato per l'ipotesi dell'elezione diretta del sindaco. È da notare che al sondaggio aveva collaborato il Movimento per la riforma elettorale guidato da Mario Segni. 28. AFIG, PCI, Direzione, mf 8904, riunione del I3 marzo I989, seduta antimeridiana, p. I I. 29. lvi, p. I2. 259

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il cambiamento della democrazia rappresentativa! Attenti ai sondaggi ! » 30• Nella riu­ nione del 28 aprile 1989, il confronto interno si spostò invece sulla struttura del Parlamento. La linea proposta da Occhetto era di ribadire una propensione a livello di principio per il monocameralismo, accompagnata però dalla disponibilità al man­ tenimento di un sistema bicamerale purché si attuasse una significativa differenzia­ zione tra le due Camere e « una riduzione consistente del numero dei parlamentari » 31• Sulla questione si aprì una discussione tra chi, come Luigi Berlinguer e Gavino Angius, era favorevole all' ipotesi, già ventilata dal PCI, di una Camera delle regioni31 e chi invece, come Ugo Pecchioli, riteneva improponibile seguire questa strada a causa del rifiuto opposto dalle altre forze politiche33• I contrasti che si manifestarono su questo punto nevralgico indussero la Direzione a rinviare la decisione a un futuro momento di confronto. A dimostrazione di come il PCI puntasse in ogni caso a fornire una maggiore incisività alla dialettica politico-istituzionale, fu avviata nel luglio 1989 - mentre si formava il governo Andreotti - l'esperienza del governo ombra, che, coordinato da Gianni Pellicani, avrebbe dovuto costituire un significativo passo nella direzione di una più precisa configurazione del ruolo dell'opposizione.

2.

Il confronto sulle riforme nel passaggio dal

PCI

al

PDS

A partire dalla svolta della Bolognina, ali ' indomani del crollo del Muro di Berlino34, l'obiettivo lanciato nel novembre 1 9 87 di rifondare il sistema politico si legò al pro­ cesso di formazione del nuovo partito : la maturazione di un 'alternativa di governo e il passaggio alla democrazia dell'alternanza sarebbero stati accelerati, nel contesto dell'esaurirsi della Guerra fredda, dalla nascita di un nuovo soggetto politico contro il quale si sarebbe finalmente infranta la conventio ad excludendum che aveva colpito il PCI. Le modalità con cui si attuò il passaggio dal PCI al PDS35, con il duro contrasto interno che, protraendosi per due congressi, si manifestò per più di un anno deter­ minando un logoramento che non favorì l'afflusso di nuove forze, limitarono però in generale, nel corso del 1990, la capacità di iniziativa del partito36• Se ne ebbe la

30. lvi, seduta pomeridiana, p. 4· 3I. AFIG, PCI, Direzione, mf 8905, riunione del 28 aprile I989, seduta pomeridiana, pp. 6-7. 32. lvi, pp. 8-9. 33· lvi, p. I5. 34· Cfr. S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale {I9I7-I99I), Einaudi, Torino I99I. 35· Cfr. P. lgnazi, Dal PCI al PDS , il Mulino, Bologna I992. 36. Cfr. G. Vacca, Vent 'anni dopo. La sinistra fra mutamenti e revisioni, Einaudi, Torino I997, pp. I9I ss. 26 0

I L P C I D I O C C H ETTO E LE RI F O R M E IS TITUZI ONALI

dimostrazione con le elezioni amministrative del maggio 1990, che si tradussero in un ulteriore calo di consensi. Lo stesso governo ombra si era rivelato uno strumento scarsamente dinamico : nel giugno 1990 Giorgio Napolitano, "ministro degli Esteri ombra", osservava in Direzione che esso era « nel limbo da un anno »37. Lo scontro sulla trasformazione del partito aveva avuto anche l'effetto di rallentare lo sviluppo della riflessione sulle riforme istituzionali, che stentava a sfociare in un progetto organico e condiviso. La frattura tra i favorevoli e i contrari alla svolta della Bolognina tendeva infatti ad alimentare dissensi sulle direttrici di rinnovamento del sistema politico. Era opportuno o controproducente aprire con il P S I un confronto sul tema dell'elezione diretta del capo dello Stato, rilanciato dai socialisti alla Conferenza di Rimini del marzo 199 0 ? Quale posizione doveva assumere il P C I verso i referendum promossi dal Movimento per la riforma elettorale guidato da Mario Segni ? E che valutazione andava espressa riguardo all'ipotesi di un'elezione diretta del primo ministro, presentata da Augusto Barbera come una valida alternativa al presidenzia­ lismo socialista ?38 Il gruppo dirigente che guidava la transizione al nuovo partito proponeva da un lato di valutare la possibilità di un dialogo con il P S I , dall'altro di cogliere appieno l'opportunità fornita dal movimento referendario per giungere a un cambiamento del sistema elettorale. Sul primo aspetto, nella relazione presentata in Direzione l' n aprile 1990 Massimo D'Alema affermava che il PSI aveva «posto in modo nuovo (anche con vaghezze e furbizie ... ) il tema della proposta "presidenzialistica" collocan­ dola nel quadro delle riforme istituzionali, mentre prima la dava come una soluzione forte al di sopra della crisi istituzionale » . La proposta risultava ora inserita « in uno schema di alternativa tra le due aree » e questa evoluzione era da seguire con interesse: «Noi stessi abbiamo chiesto una simile collocazione della proposta socialista non per convertirci ma per capire bene cosa era la proposta del "presidenzialismo" » 39. Quanto alla via referendaria, essa era vista come uno strumento di pressione sul Parlamento per evitare il riprodursi della paralisi che aveva finito per contraddistin­ guere il lavoro della Commissione Bozzi. Dopo che nell'ordine del giorno sulle questioni istituzionali approvato al congresso del marzo 1990 si era guardato a essa « con interesse e favore » 40, il 18 aprile 1990 fu lo stesso segretario Achille Occhetto ad apporre la firma ai quesiti referendari relativi alle leggi elettorali di Camera e Senato. La minoranza contraria alla svolta della Bolognina esprimeva però una posizione molto critica tanto sul confronto con i socialisti quanto sulla scelta referendaria.

37· AFIG, PCI, Direzione, mf 9007, riunione dell' 8 giugno I990, seduta del mattino, p. 25. 38. A. Barbera, Un 'alternativa neoparlamentare al presidenzialismo, in "Democrazia e Diritto", I990, 2, pp. 23-49· 39· AFIG, PCI, Direzione, mf 9004, riunione dell' n aprile I 990, seduta del mattino, p. 9· 40. Cfr. il resoconto in "l' Unità"', I I marzo I990.

SANDRO GUERRIERI

Secondo Lucio Magri, si scivolava « verso un Governo presidenziale » contro il quale occorreva « una opposizione pregiudiziale » 41• Per Giuseppe Chiarante, se da una parte era giusta la preoccupazione di sfuggire all ' immobilismo, dall'altra occorreva stare « attenti anche alla doppia disponibilità: al referendum e al "presidenzialismo", come passerelle e per aprire varchi nelle istituzioni » 4l. E ancora più severo era il giudizio di Sergio Garavini: «Non siamo contro il PSI sul "presidenzialismo" e non siamo contro la sinistra D C sulla riforma elettorale ? Certo, ma così siamo subalterni a riforme non democratiche ( "presidenzialismo" più legge maggioritaria ) »43. Né era vista con favore l 'elezione diretta del premier proposta da Augusto Barbera, valutata da Aldo Tortorella come più pericolosa di quella del capo dello Stato44• La sconfitta riportata alle elezioni amministrative del 6 e 7 maggio 1990 deter­ minò una rinnovata critica da parte del "fronte del no" agli indirizzi perseguiti dalla maggioranza del partito. Nella riunione della Direzione che si svolse dopo il voto, però, Occhetto non solo respinse le accuse sul percorso seguito a partire dalla svolta della Bolognina, ma trasse la conclusione che occorreva intensificare l 'iniziativa sul terreno delle riforme istituzionali. L'affermazione del movimento leghista, che in Lombardia aveva conseguito il 20%, era considerata dal segretario del PCI come un elemento che poneva ulteriormente in risalto la centralità di questo nodo. Il P C I in corso di trasformazione ( che aveva già presentato una proposta di legge per riformare in senso maggioritario il sistema elettorale dei Comuni e introdurre l'elezione diretta del sindaco ) doveva diventare perciò la forza politica più attiva nel promuovere la riforma del sistema politico. Ciò comportava per un verso un maggiore impegno a favore della raccolta delle firme per i quesiti referendari, per l'altro l'elaborazione di un progetto istituzionale organico che investisse le leggi elettorali, i rapporti tra i poteri e le relazioni centro-periferia ( e qui Occhetto si chiedeva, alla luce dell'affer­ mazione elettorale delle leghe, se fosse « stato sensato non riflettere di più sulla proposta di una Camera delle Regioni, nel contesto di una rivalutazione dei poteri regionali » 45 ) . Con il sostegno ai referendum elettorali il P C I di Occhetto, il cui contributo alla raccolta delle firme fu determinante, mostrava di saper cogliere le potenzialità che la via referendaria poteva offrire al fine dell'effettiva apertura di un processo riforma­ tore. Nel momento, però, in cui conduceva il partito a lasciarsi definitivamente alle spalle la prudenza eccessiva con cui fino ad alcuni anni prima aveva guardato alla prospettiva di un rinnovamento del quadro istituzionale, Occhetto non coglieva le possibili ambivalenze a cui avrebbe potuto dar luogo questa strategia di mobilitazione

4I. AFIG, PCI, Direzione, mf 9004, riunione dell' u aprile I990, seduta del mattino, p. I4. 42. lvi, p. I7. 43· lvi, p. I9. 44· lvi, p. 24. 45· AFIG, PCI, Direzione, mf 9006, riunione del IO maggio I990, seduta del mattino, p. 9·

I L P C I D I O C C H ETTO E LE RI F O R M E IS TITUZIONALI

dal basso. Nell ' indicare l' indirizzo da perseguire nella riflessione istituzionale del PCI, egli sottolineava che non si doveva « stare con la società politica (i partiti) » contro quel che era in movimento, bensì occorreva « guidare e condurre l 'opposizione all 'at­ tuale sistema politico » 46• Cominciava così ad affiorare uno schema concettuale che, nell'assumere come prioritario l'obiettivo « dello sblocco del sistema politico » attra­ verso la valorizzazione delle spinte al rinnovamento emergenti nell'opinione pub­ blica, avrebbe ostacolato negli anni successivi una più puntuale capacità di lettura del carattere multiforme del sostegno al movimento referendario e, più in generale, della critica al sistema dei partiti. A seguito della spinta impressa da Occhetto, l'elaborazione istituzionale riprese nelle settimane successive, trovando espressione innanzitutto nella riunione della Commissione permanente del Comitato centrale sui problemi istituzionali che ebbe luogo, sotto la direzione di Cesare Salvi, il 29 maggio 1990 . Nella relazione introdur­ riva, Salvi definiva un quadro di misure che andavano da una profonda riforma regionalista dello Stato a una legge elettorale che consentisse ai cittadini di scegliere fra programmi e coalizioni, con un premio di maggioranza e l'eventuale indicazione del presidente del Consiglio. Era invece esclusa l'elezione diretta del capo dello Stato47• Un successivo momento di confronto si svolse, l' I I e il 12 giugno, in occasione dell'Assemblea annuale del CRS48• In entrambe le sedi, il dibattito si svolse in modo piuttosto sereno, ma permanevano divergenze di fondo che si manifestarono nella riunione di Direzione del 17 settembre 1990, in cui le tensioni tra le componenti del partito furono ulteriormente alimentate dalle diverse letture della crisi del Golfo scoppiata nel mese precedente. Aperta nuovamente da una relazione di Cesare Salvi, la discussione sui temi istituzionali fu caratterizzata dalla conferma dell 'opposizione della minoranza ai quesiti referendari. Armando Cossutta manifestò ad esempio un'assoluta contrarietà nei confronti del collegio uninominale, con la motivazione che avrebbe aumentato i poteri delle segreterie dei partiti e favorito la Democrazia cristiana in tutto il paese49• Ersilia Salvato parlò di « fughe in avanti sconsiderate » e chiese, inoltre, che fosse sancita in maniera definitiva l' indisponibilità ad accettare l'elezione diretta del capo dello Stato proposta dai socialisti : «Nero su bianco in Direzione e in c c sulla nostra scelta elettorale e contro il "presidenzialismo" craxiano. Al PSI la Presidenza della Repubblica, a noi la Presidenza del Governo ? Chiariamole queste cose, perché sono ipotesi che corrono e non aiutano » 50• Perplessità sulla direttrice indicata da Salvi di trasferire ai cittadini il potere di scelta dei governi 46. lvi, p. 8. 47· Cfr. F. Rondolino, Riforme, il PCI lancia le sue proposte, in "l' Unità': 30 maggio I990. 48. CRS, Strategie istituzionali della sinistra. Forme di governoforme di Stato. Atti dell:Assemblea CRS I990, Editori Riuniti, Roma I990 (supplemento a "Democrazia e Diritto", 3-4). Cfr. Cotturri, Ingrao e il CRS (I979-I99J), cit., pp. w8-Is. 49· AFIG, PCI, Direzione, mf 90Io, riunione del I7 settembre I990, seduta del pomeriggio, p. 3· so. lvi, p. 7·

SANDRO GUERRIERI

furono peraltro esposte anche dalla presidente della Camera Nilde lotti, secondo la quale si rischiava di provocare un depotenziamento del Parlamento che contraddiceva il dettato costituzionale51. Nell'ottobre 1990 la Conferenza programmatica del partito confermò l 'opzione per un regime parlamentare rinnovato e il rifiuto del presidenzialismo, la cui capa­ cità di attrattiva all' interno del P C I fu del resto ulteriormente ridotta per via dei comportamenti assunti dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga a partire dalla vicenda di Gladio. L' incarico di mettere a punto un progetto organico di riforme fu conferito a un gruppo di lavoro coordinato da Salvi nel quale erano presenti anche personalità della minoranza. A dicembre il gruppo presentò una proposta che prevedeva profonde modifiche tanto della struttura del Parlamento quanto di quella dell'esecutivo. A essere investita del potere legislativo e della fun­ zione di indirizzo politico sarebbe stata un'Assemblea nazionale di 400 membri, la maggior parte dei quali eletti con il sistema uninominale, nell 'ambito di un mecca­ nismo di confronto tra liste singole o coalizioni. Qualora nessuna lista o coalizione di liste avesse raggiunto la maggioranza assoluta dei voti al primo turno, si sarebbe svolto un secondo turno per assegnare un premio di maggioranza. La figura del presidente del Consiglio veniva fortemente valorizzata: eletto dall'Assemblea nazio­ nale, il premier avrebbe formato un governo di legislatura, nel senso che la rottura del rapporto fiduciario avrebbe comportato lo scioglimento automatico dell'Assem­ blea. Novità radicali erano poi previste sul ruolo delle Regioni: da un lato sarebbero state a esse conferite le competenze non espressamente attribuite allo Stato o non devolute a comunità sovranazionali, dall 'altro sarebbe stata istituita una Camera delle Regioni5l. La proposta del gruppo di lavoro suscitò un nuovo scontro in Direzione il 9 e il 10 gennaio 1991, alla vigilia del passaggio al nuovo partito. Il punto al centro del dibat­ tito53 fu il ruolo da attribuire al premier. Poiché Occhetto si era dichiarato favorevole all 'elezione diretta del premier54 e Salvi aveva aggiunto che questa era una delle ipotesi su cui lavorare55, la minoranza ribadì la sua totale contrarietà a soluzioni di questo tipo e chiese che su tale aspetto si facesse piena chiarezza: «Elezione diretta del Capo del Governo ? Il Parlamento, la presidenza della Repubblica, i partiti, non conterebbero più niente. Il mandato non è più politico, è istituzionale » , dichiarò ad esempio Gavino

s I. lvi, p. S· 52. Cfr. F. Inwinkl, Voto diretto per le coalizioni, in "l' Unità", I4 dicembre I 990. S3· La discussione si svolse sulla base di un ampio testo presentato da Cesare Salvi: Archivio del Partito democratico della sinistra e dei Democratici di sinistra (d'ora in avanti APDS-DS ) , Ufficio stampa del PCI, Relazione di Cesare Salvi alla riunione della Direzione del PCI di mercoledì 9 gennaio I99I. S4· Cfr. F. Rondolino, Il governo scelto dagli elettori, in "l' Unità", 23 dicembre I990. SS· Cfr. l' intervista a Cesari Salvi di F. Rondolino, Salvi: "il PSI sbaglia ad inseguire un referendum zmmagmano , IVI, 3 gennaio I99I. .

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Angius56• Analoga opposizione era espressa nei confronti dello scioglimento automatico dell 'Assemblea in caso di crisi di governo. Dichiarò su questo Giuseppe Chiarante : «Per cambiare il "premier" si deve andare a nuove elezioni ? Se sì, non è più il Parla­ mento preminente » . E la sua conclusione era che a quel punto era « meglio il "presi­ denzialismo" della Presidenza della Repubblica, [con] un bilanciamento istituzionale, piuttosto di quello del Presidente del Consiglio senza bilanciamenti » F. Di fronte a queste critiche, i sostenitori del progetto precisarono che l' indica­ zione del premier da parte della coalizione non significava una sua formale elezione, compito che era pur sempre attribuito all'Assemblea58• Un meccanismo come quello proposto da Augusto Barbera veniva quindi esplicitamente scartato. Il rinnovamento della forma di governo nella direzione di una democrazia maggioritaria incentrata sulla figura del premier era inoltre presentato come una soluzione antitetica a forme plebiscitarie di presidenzialismo: «la nostra proposta » , affermava Massimo D 'Alema, prevedeva infatti « i Partiti, i soggetti sociali per la conquista della maggioranza utile per governare » : «Non vogliamo la partitocrazia ma nello stesso tempo vogliamo salvare la ricchezza del sistema politico dei partiti » 59• Quanto all 'idea del governo di legislatura, essa era difesa da Salvi come un antidoto contro i trasformismi e i possi­ bili stravolgimenti del programma presentato alle elezioni. Le direttrici indicate nel progetto discusso in Direzione furono riprese nell 'ordine del giorno sulle riforme istituzionali approvato dal Congresso di Rimini che si svolse dal 31 gennaio al 3 febbraio 1991, mentre infuriava la Guerra del Golfo. Il xx e ultimo Congresso del PCI segnò il compimento del farraginoso processo di transizione alla nuova formazione politica, con la clamorosa coda dell'episodio del mancato raggiun­ gimento del quorum per la riconferma di Occhetto a segretario generale (fu necessaria una nuova votazione quattro giorni dopo). L'identità del PDS restava ancora per molti aspetti da costruire. Non favoriva quest'opera di definizione della sua cultura politica la resistenza, in nome della ricerca di nuovi orizzonti, ad adottare un profilo di mag­ giore ancoraggio alla tradizione del socialismo europeo. Né, per altro verso, la agevo­ lava la difficoltà a guardare allo stesso patrimonio storico lasciato in eredità dal PCI senza esaltazioni acritiche che lo isolassero dall'esperienza comunista mondiale, ma anche senza banalizzazioni liquidatrici di una tensione ideale in virtù della quale era stato fornito un contributo fondamentale al radicamento della democrazia repubbli­ cana. Sul terreno istituzionale, comunque, il PDS si presentava come un partito dal netto profilo riformatore. E si sarebbe davvero caratterizzato ben presto come la forza politica più attiva nel perseguire lo "sblocco del sistema politico". Con quali esiti ?

s6. APDS-DS, PCI, Direzione, mf 9IOS, riunione del 9-Io gennaio I99I, seduta del pomeriggio del 9 gennaio, p. IS. S7· lvi, p. 1 1. s 8. Cfr. in particolare le repliche di Salvi e D'Alema, ivi, seduta del mattino del IO, pp. 7-1 1. S9· lvi, seduta del pomeriggio del 9, p. I7.

2.65

SANDRO GUERRIERI

Il

3

PDS

e il tentativo di superare il paradosso kelseniano delle riforme

La definizione delle proposte di riforma istituzionale proseguì nell'ultima fase della legislatura apertasi nel 1987 da un lato con la presentazione di un progetto di riforma elettorale per la Camera che prevedeva collegi uninominali, un riequilibrio propor­ zionale e un eventuale premio di maggioranza al secondo turno60, dall'altro con la precisazione delle direttrici di riforma della Costituzione. Nel forum sulle riforme istituzionali che il PDS organizzò l' 11 febbraio 1992, fu approfondito il quadro neo­ parlamentare entro il quale collocare il rinnovamento della forma di governo ( accet­ tando, per quanto riguardava la figura del premier, che esso potesse essere eventual­ mente sostituito una volta nel corso della legislatura tramite il ricorso alla sfiducia costruttiva) . L'accentuarsi dello scontro con Cossiga, nei confronti del quale il P D S aveva avanzato nel novembre 1991 la richiesta di messa in stato d'accusa, aveva inoltre evidenziato la presa di distanza dalle ipotesi presidenzialiste. I ripetuti attacchi del capo dello Stato avevano messo in guardia dai rischi di uno stravolgimento dell'e­ quilibrio dei poteri. La strategia referendaria fu invece giudicata come la via democratica alle riforme che si contrapponeva, con il suo coinvolgimento della società civile, al tentativo di demolizione dall 'alto perseguito da Cossiga. Dopo che la Corte costituzionale bocciò nel gennaio 1991 due dei tre quesiti referendari, il P D S si impegnò con grande energia per la vittoria del referendum superstite sulla preferenza unica per l 'elezione della Camera dei deputati. Il successo del "sì", il 9 giugno 1991, fu definito da Occhetto « uno spartiacque della vita nazionale » 61• Il segretario del PDS poteva del resto van­ tare la vittoria referendaria come il primo risultato conseguito dal partito dopo la svolta della Bolognina. A un anno di distanza dal deludente esito per il P C I delle elezioni amministrative, il nuovo partito era riuscito a mettersi in sintonia con una parte rilevante del paese, mentre la maggioranza di governo, e in particolar modo il P S I di Craxi, aveva clamorosamente sottovalutato la posta in gioco, con conseguenze che per il leader del P S I si rivelarono disastrose: con l 'invito a non votare e ad andar­ sene al mare, « Craxi perde la scommessa e non sa ancora di aver perso in questo stesso momento l' intera partita politica della sua vita » 62.. Di fronte alla persistente difficoltà a vincere l'immobilismo e il gioco dei ve ti incrociati che dagli anni Ottanta avevano bloccato la strada delle modifiche istitu­ zionali, la via referendaria apparve al P D S lo strumento privilegiato per superare quel 6o. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. x Legislatura, Disegni di legge e Relazioni, n. s63I. 6 I. Rinnovare la sinistra, rafforzare l'opposizione per un 'alternativa di governo, per aprire una nuova fase nella vita della Repubblica, relazione e conclusioni di Achille Occhetto al Consiglio nazionale del PDS, Roma, 4-s-6 luglio I99I, s.l., [I99I ] , p. S· 62. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, ilpartito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2oos, p. 252. 266

I L P C I D I O C C H ETTO E LE RI F O RM E I ST I TUZ IONALI

che Hans Kelsen aveva definito a suo tempo il paradosso della riforma istituzionale: il fatto, cioè, che più forte è la necessità delle riforme perché il sistema non riesce a decidere, più difficile, per la stessa ragione, diventa assumere la decisione di farle. Dichiarò infatti Cesare Salvi al forum sulle riforme l ' I I febbraio 1992: La scommessa sui referendum è la scommessa, per quanto ci riguarda, di chi crede che l' ag­ gravarsi della crisi sollecita sempre più l'urgenza e l'ampiezza del disegno riformatore. [ . . . ] Abbiamo visto i referendum come lo strumento con il quale si può superare il paradosso kelseniano delle riforme : quel paradosso per il quale un sistema in crisi, incapace di prendere grandi decisioni, non può prendere la decisione più forte di tutte, quella di autoriformarsi6\

Di qui l'entusiasmo successivamente per l'esito dei referendum del 1 8 aprile 1993. « Cambia la Repubblica » , affermò Achille Occhetto6\ secondo il quale oltretutto il P D S , essendo stato tra i principali protagonisti della battaglia referendaria, appariva il naturale candidato a raccoglierne i frutti. Il punto è che con il decisivo impegno nel garantire le vittorie referendarie, il PDS raggiungeva effettivamente l'obiettivo di superare il paradosso kelseniano sul piano dell'avvio del processo di riforma, ma rimaneva ben lontano dal prospettare una fuoriuscita da esso per quanto riguardava la conclusione del percorso avviato. Con l'impegno alla realizzazione di una democrazia dell'alternanza, il PDS si faceva interprete di una necessità storica per il paese, tanto più che i meccanismi di corru­ zione sistemica, portati alla luce dalle inchieste giudiziarie, avevano anche beneficiato in una certa misura dell'assenza di ricambio nella gestione governativa. E il ruolo effettivo svolto dal PDS nell 'apertura della transizione è stato davvero centrale: sia perché era stata la sua stessa nascita a introdurre un fattore di dinamismo nel sistema politico65, sia per l' impegno profuso nella progettazione istituzionale e nei refe­ rendum, sia perché non era certo secondario, al fine della legittimazione del percorso di riforma, che a promuovere risolutamente l'innovazione fosse la formazione politica erede del PCI, il partito che più aveva difeso in passato la centralità parlamentare e il sistema proporzionale, considerandoli gli assetti più rispondenti allo spirito della Costituzione. Ciò che fece difetto al PDS fu la capacità di governare il processo di cambiamento. La crisi di regime, che, con la scoperta di Tangentopoli e i vincoli introdotti dal Trattato di Maastricht66, assunse un ritmo dirompenté7, rendeva molto difficile 63. APDS-DS, C. Salvi, Dai rejèrendum alle riforme: la forza della democrazia, Forum del PDS, Roma, I I febbraio I992, p. I4. 64. Cfr. A. Leiss, Occhetto: "la sinistra ha votato si", in "l' Unità", 20 aprile I 993· 6 s. Cfr. Vacca, Vent'anni dopo, cit., pp. 2I 8-9. 6 6. Cfr. M. Piermattei, Crisi della Repubblica e sfula europea. I partiti italiani e la moneta unica (1933-1993), CLUEB, Bologna 20I2. 67. Cfr. F. Barbagallo, L 'Italia repubblicana. Dallo sviluppo alle riforme mancate (1945-2oo3), Carocci, Roma 2009, pp. 200 ss.; G. Crainz, Il paese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia di oggi,

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delineare un percorso costruttivo per l'apertura della "seconda fase" della Repub­ blica68. Ma pesarono nel PDS evidenti carenze analitiche. Nel 1991 Occhetto aveva affermato che i « mille rivoli » della «protesta trasversale » espressasi nel referendum del 9 giugno non rappresentavano « solo gli agenti di un processo di erosione dei vecchi poteri » , ma erano anche « gli affluenti di una corrente democratica forte e profonda » 69. In realtà, come emerse anche nel sostegno molto variegato che inizial­ mente accompagnò le inchieste sulla corruzione politica, quegli affluenti erano ben lontani dal convergere tutti nell'alveo di una crescita civile della nazione. La stessa indicazione della via referendaria come radicalmente alternativa a quella delle "pic­ conate" dall'alto trascurava il fatto che in una parte dell'opinione pubblica questa distinzione appariva molto meno netta, poiché di entrambe si apprezzava soprattutto la carica antipartitocratica. Le ragioni della democrazia maggioritaria erano inscritte nell 'effettivo degrado del sistema politico edificatosi nel dopoguerra. Il P D S non prestò però sufficiente attenzione al fatto che una società come quella italiana, con le carenze storiche sul piano del sentimento di cittadinanza ( fondamentale elemento di continuità invece, assieme a una pubblica amministrazione efficiente, nel succedersi delle repubbliche in Francia ) e le trasformazioni che aveva conosciuto negli anni Ottanta, sarebbe dovuta giungere a questo passaggio in un quadro di minore indeterminatezza e mag­ giori garanzie, a cominciare da quelle relative al sorgere di conflitti di interessi. Il PCI-P D S di Occhetto avvertì pienamente, in netto contrasto con la posizione difen­ siva manifestata in precedenza dai comunisti, la necessità di una profonda riforma istituzionale e, aderendo alla strategia referendaria, fu un attore decisivo del processo di trasformazione. Ma, alla luce anche di una superficiale lettura delle dinamiche di una società civile che non si sentiva più rappresentata dai tradizionali soggetti politici, non fu in grado di evitare, nel 1994, lo sbocco anomalo della via italiana all'alternanza politica.

Donzelli, Roma 2012,

pp.

225 ss.; S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica {IgSg-2oii), Laterza, Roma-Bari 20I2. 6 8. Cfr. F. Lanchester, L'innovazione istituzionale nella crisi di regime, Bulzoni, Roma I996. 6 9. Rinnovare la sinistra, cit., p. S· 268

Tra sogno e realtà : ! "' Unità socialista" nelle carte di Craxi di Andrea Spiri

I

Il "duello a sinistra" L' «Unità socialista » , scrive Bettino Craxi in un appunto del 30 agosto un volo pindarico, un'astrazione, una pretesa del tutto illusoria » :

1999,

«era

I comunisti [ ... ] pensavano ad accordarsi con la DC o con gran parte di essa. [ ... ] I socialisti andavano messi d'un canto. Poi, invece, furono tolti di mezzo con campagne di aggressione di cui ancora non si è fatta tutta la storia che è per tanti aspetti impressionante1•

Desideroso di ricostruire alcuni passaggi per « mettere le cose al loro giusto posto » \ il leader socialista ha riflettuto a lungo sulle ragioni del fallimento di un processo di ricomposizione unitaria della sinistra in Italia, come si evince dalla lettura delle sue note conservate negli archivi della Fondazione Bettino Craxi a Roma. Le carte di Craxi sul "duello a sinistra"3 ripercorrono le principali vicende che hanno lacerato il tessuto dei rapporti tra socialisti e comunisti, a cominciare dallo scontro frontale che oppose lo stesso segretario di via del Corso al leader del P C I Enrico Berlinguer; un conflitto le cui motivazioni andrebbero ricercate anche nella «Psicologia » e nella « storia personale » del numero uno di Botteghe Oscure: Lui veniva da una famiglia nobile, socialista e massone, quando decise di diventare comunista consumò un atto di rottura profonda con i suoi. Evidentemente il suo rapporto con me, il suo antisocialismo, risentiva della rottura consumata con il padre4•

1. Appunto di B. Craxi del 30 agosto 1999, senza titolo, in Fondazione Bettino Craxi (d'ora in avanti FBC ) , Archivio Bettino Craxi (d'ora in avanti ABC ) , Carte di Hammamet, fondo non catalogato. 2. Appunto di B. Craxi del 16 febbraio 1998, dal titolo Per la Storia, ibid. 3· li riferimento è a G. Amato, L. Cafagna, Duello a sinistra. Socialisti e comunisti nei lunghi anni '7o, il Mulino, Bologna 1982. 4· Appunto di B. Craxi del 16 giugno 1996, dal titolo lo, Enrico Berlinguer e i comunisti italiani, in FBC, ABC, Carte di Hammamet.

AND REA S PI RI

Le riflessioni più significative dal punto di vista dell'analisi storiografica sono quelle che investono il confronto e le prospettive di evoluzione dei rapporti tra comunisti e socialisti dopo l 'uscita di Craxi da Palazzo Chigi. Al termine di un quadriennio « aspro e travagliato » , nel corso del quale il P C I non ha saputo o voluto cogliere il valore positivo dell'esperienza di governo a guida socialista5, il leader del Garofano lancia segnali distensivi all' indirizzo di Botteghe Oscuré, convinto che quella della sinistra italiana sia per lunghi tratti « storia comune e non storia di diversi » ; per delineare possibili strategie unitarie occorre tuttavia che il P C I imbocchi seriamente la via maestra di una « concezione democra­ tica e liberale del socialismo, di una strategia di cambiamento ispirata da un moderno riformismo » 7• L'evidente proposito del partito di Craxi è quello di spingere i comunisti in direzione di un definitivo chiarimento di fondo ideologico, come dimostra l'aspra polemica esplosa nella primavera del 1 9 88 dopo la decisione di Mosca di procedere alla riabilitazione di Nikolaj Bucharin e di altre vittime dello stalinismo8• I socialisti incalzano Natta e compagni a riflettere sulla figura stessa di Togliatti, «per trent'anni complice e carnefice dello stalinismo » , tuona il vicesegretario del P S I Claudio Mar­ telli9, a sua volta accusato di « meschinità culturale » e di « sconsiderato attacco » alla storia comunista10• A rendere ancora più incandescente il clima è il Convegno internazionale orga­ nizzato a Roma da "Mondoperaio"11: dopo le feroci polemiche di fine anni Settanta, il confronto sul profilo ideale della sinistra torna dunque a essere il terreno su cui si scava un fossato tra le principali anime del movimento operaio italiano . .. E in questa turbolenta fase dei rapporti a sinistra che Achille Occhetto assume S· B. Craxi, L 'Italia che cambia e i compiti del riformismo, replica conclusiva al XLIV Congresso del PSI, Rimini, s aprile I987, ora in E. Catania, Il vento di Rimini. Diario di un congresso, Critica Sociale Nuova Editrice, Milano I 987, p. 2IO. 6. Nella relazione introduttiva al Congresso di Rimini dell'aprile I 987, Craxi rende omaggio, nel cinquantesimo anniversario della morte, al fondatore del PCI Antonio Gramsci, definendolo « esempio di virtù morali» e uomo « armato di una formidabile intelligenza critica, che seppe dirigere contro le degenerazioni e le involuzioni della rivoluzione comunista» (cfr. U. Finetti, a cura di, Il socialismo di Craxi. Relazioni e documenti dei Congressi socialisti, 197S-1991, M&B Publishing, Milano 2003, p. 273 ) . Non può s fuggire l' importanza di siffatto riconoscimento, specie alla luce delle polemiche scatenate dal dibattito dissacratorio sul gramscismo avviato alla fìne degli anni Settanta sulle colonne della rivista "Mondoperaio". Cfr. su questo aspetto F. Coen, P. Barioni, Le cassandre di Mondoperaio. Una stagione creativa della cultura socialista, Marsilio, Venezia I999· pp. 70-83. 7· B. Craxi, L 'Italia che cambia e i compiti del riformismo, relazione introduttiva al XLIV Congresso del PSI, Rimini, 3 I marzo I987, ora in Finetti (a cura di), Il socialismo di Craxi, cit., p. 273. 8. A. Jacoviello, Bucharin, una pagina bianca che Gorbaciov ha riempito, in "la Repubblica", 6 febbraio I988. 9· A. Stabile, Perché Togliatti fu colpevole, ivi, I 0 marzo I988. IO. Natta: '1 comunisti non abiurano", ivi, I 0 marzo I988. 1 1. Per una sintesi degli interventi, cfr. "Argomenti Socialisti", IV, I 988, 3, pp. I2I-69. 27 0

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la guida del PCI nel giugno 1988. Craxi fa spesso riferimento nei suoi scritti agli incontri con il successore di Natta, il quale si mostra inizialmente determinato a «porre fine a ogni conflittualità » tra via del Corso e Botteghe Oscure; una dispo­ nibilità al dialogo che con il trascorrere del tempo si sarebbe sempre più affievolita: Una volta [ ... ] ebbi modo di dirgli: « Achille, devi sapere che quando io parlo di Unità Socialista, non faccio della propaganda, ma parlo sul serio. Io penso anche a preparare le condizioni per una Federazione tra i nostri partiti » . Occhetto [ ... ] mi rispose in modo franco ed onesto, dicendomi: «lo sono d'accordo con te, ma per la verità ho il dovere di dirti che la maggioranza del mio partito pensa piuttosto ad una prospettiva di alleanza con la Demo­ crazia cristiana » 12•

I primi passi del neosegretario comunista deludono comunque le aspettative del leader del Garofano, che non intravede nella vita del PCI segnali innovativi tali da giustificare parole di apprezzamento : permangono nell' impostazione di Occhetto numerosi « elementi di continuità con il passat0 » 13, appare troppo ambiguo e poco coraggioso l'obiettivo di un « nuovo PCI » 14 per delineare possibili convergenze di analisi e di proposte. «Ne parlai con Nilde lotti, che mi sembrava anch 'essa convinta della prospettiva che andavo illustrando » , ricorda ancora Craxi : In quella occasione l'allora presidente della Camera mi espresse un giudizio critico nei con­ fronti del nuovo segretario Occhetto, e mi disse che bisognava pensare ad un altro giovane di valore. Ricordo che mi fece il nome di D 'Alema. [ ... ] Egualmente, in più occasioni, mi aveva espresso la sua insoddisfazione per la linea a dir poco non chiara del partito, Giancarlo Pajetta•s.

Ad accrescere le reciproche diffidenze è il nodo dei rapporti con la Democrazia cristiana, soprattutto con la sua parte «peggiore » 16, quel « gruppo di potere che prende ordini da Licio Gelli e da Silvio Berlusconi » 17, incalzano D 'Alema e Violante; e se Occhetto invoca apertamente una « guerra di liberazione » 18 dallo scudo crociato in nome dell 'alternativa, Craxi gli risponde per le rime: « La benedetta alternativa I2. Appunto di B. Craxi del I 6 marzo I997, dal titolo Le vie dell'Unita Socialista, in FBC, ABC, Carte di Hammamet. 13· B. Craxi, Dieci punti per una riflessione ideale e politica, relazione al XLV Congresso del PSI, Milano, I3 maggio I989, ora in Finetti (a cura di), Il socialismo di Craxi, cit., p. 326. I4. A. Occhetto, Relazione introduttiva al XVIII Congresso del PCI, Roma, 1 8 marzo I989, in

"l ' Unità", 19 marzo 1989. IS. Appunto di B. Craxi del 16 marzo I 997· dal titolo Le vie dell'Unita Socialista, in FBC, ABC, Carte di Hammamet.

I 6. M. D'Alema, Ma quanta paura del PCI, in "l' Unità", I7 maggio I989. I7. L. Violante, Gel/i, Berlusconi e il CAF, ivi, 4 dicembre 1989. I8. G. Passalacqua, Una guerra di liberazione dalla DC, ivi, I7 settembre I989.

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di Botteghe Oscure cambia colore come un camaleonte » e funziona solo quando la D C « non si mostra disponibile ad accordi e ad alleanze con i comunisti » 19• Dopo le dimissioni del governo De Mita il 19 maggio 198910, il leader socialista rilancia la formula del Pentapartito in nome di una « stabilità necessaria per non creare situazioni di vuoto che possono portare danni » 11, sostenuto dall 'ala "mini­ sterialista" di via del Corso, capeggiata da Gianni De Michelis, che spinge in dire­ zione di un "patto forte" con Andreotti e Forlani per garantire al paese la gover­ nabilità. La scelta di tenere in vita l 'alleanza di governo con piazza del Gesù apre comunque una prima minacciosa crepa nel monolite socialista, soprattutto dopo il deludente esito delle elezioni europee11; il modesto incremento di un mezzo punto percentuale rispetto alle politiche del 198 7 ha smentito le rosee previsioni della vigilia, in particolare quelle di Craxi, convinto che il rafforzamento del P S I avrebbe favorito una « prospettiva veramente europea di unità socialista e demo­ cratica » 13• Il confronto elettorale per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo si infiamma dinanzi alle proteste di piazza a Pechino culminate nel massacro di Tien'anmen. E pressoché scontato, in un clima di aperto scontro a sinistra, l'uso politico strumentale della vicenda: nel futuro stesso della società italiana, è la velenosa frecciata della Direzione socialista, « non possono esserci prospettive ipotecate da nessuna forma di comunismo, neppure se revisionato, riformato e corrett0 » 14; il P C I è l'unica forza che « non ha nulla a che vedere con i banditi di Deng, il nostro è un partito demo­ cratico e autonomo » 15, ribatte un indignato Occhetto dopo aver già pubblicamente condannato l'atto di forza delle autorità cinesi. ..

I9. B. Craxi, Dieci punti per una riflessione ideale e politica, relazione al XLV Congresso del PS1, Milano, I3 maggio I989, ora in Finetti ( a cura di ) , Il socialismo di Craxi, cit., p. 326. 20. Per una ricostruzione delle settimane che precedono la crisi del governo De Mita, cfr. G. San­ giorgi, Piazza del Gesu. La Democrazia cristiana negli anni Ottanta: un diario politico, Mondadori, Milano 2005, spec. pp. 688-7 I4. 21. PSI, Direzione nazionale, 27 giugno 1989, in FBC, ABC, Bettino Craxi I959-2ooo, sezione 1. Atti­ vita di partito, serie 2. Vìta interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Direzione nazionale ed Esecutivo, VA I22. 22. Il 27 giugno I989, nel corso del dibattito in Direzione, sono soprattutto Claudio Signorile e Giorgio Ruffolo, a nome della sinistra socialista, a lamentare l 'immobilismo del partito e a chiedere espressamente un cambio di linea politica ( PSI, Direzione nazionale, 27 giugno 1989, ivi ) . Claudio Martelli, dal canto suo, avverte che « sarebbe sbagliato dire che non succede nulla e infùarci in fretta e furia in un governicchio democristiano» ( cfr. B. Palombelli, E Craxi si trova una lite in famiglia, intervista a Claudio Martelli, in "Corriere della Sera", 23 giugno I989 ) . 23. PSI, Direzione nazionale, 6 giugno 1989, in FBC, ABC, Bettino Craxi I959-2ooo, sezione I. Attivita di partito, serie 2. Vìta interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Direzione nazionale ed Esecutivo, VA I21. 24. Ibid. 25. R. Bianchin, Sono Craxi e Forlani i veri amici di Deng, in "la Repubblica", 8 giugno 1 9 89. 27 2

TRA S O G N O E REALTÀ : L ' " UNITÀ S O C IALI STA" NELLE CART E D I C RAXI 2.

La crisi del

PCI

e la tentazione egemonica craxiana

Le polemiche tra le due principali forze della sinistra aumentano paradossalmente di intensità dinanzi alla rapida dissoluzione dell ' impero sovietico. Pur proponendosi come interlocutore « attivo e dinamico » del nuovo corso gorbaceviano16, il leader del P S I non nasconde le proprie perplessità per l' « acritico entusiasmo » con cui buona parte del gruppo dirigente di Botteghe Oscure guarda all'uomo della perestrojka17• Quando poi le campane a morto del comunismo internazionale suonano i primi rintocchi a Varsavia e a Budapest18, in Craxi si rafforza la consapevolezza che anche in Italia la questione comunista non possa avere soluzione mediante la riproposizione di ciò che la storia si sta incaricando di «liquidare » 19• Di fronte alle trasformazioni in atto nei paesi dell 'Europa orientale, il partito di Occhetto fatica però a porsi in sintonia con il nuovo corso della storia, incalza il direttore dell"'Avanti !", l'ex comunista Antonio Ghirelli, sicuro che ai socialisti vada riconosciuta « non già l'egemonia » , ma «certamente e di gran lunga » la primoge­ nitura storica « nell'affermazione del nesso indissolubile tra socialismo e democrazia » 30• Fondamentalmente cauto nel valutare il discorso pronunciato da Occhetto alla Bolognina3•, Craxi invita ora i suoi a offrire al P C I tutto il tempo necessario «per riflettere »3\ e manifesta al contempo il desiderio di seguire con attenzione le tappe della « fase costituente » sulla cui base far vivere « una forza politica che, in quanto nuova, cambia anche il nome » 33• 26. Su questo aspetto, cfr. G. Acquaviva, A. Badini, La pagina saltata della Storia, Marsilio, Venezia 20IO, spec. il cap. VII, L'indefinibile "prospettiva Gorbaciov", pp. I37-s8. 27. l. Ariemma, La casa brucia. I Democratici di Sinistra dal PCI ai giorni nostri, Marsilio, Venezia 2000; cfr. anche S. Pons, L'invenzione del "postcomunismo": Gorbacev e il Partito comunista italiano, in "Ricerche di Storia Politica", 2008, I, pp. 21-36. 28. T. L. Boria, L'Ungheria demolisce la cortina, in "Avanti !", 3 maggio 1989; E. Unfer, Polonia, il potere seduto sul vuoto, ivi, 24 giugno 1989. 29. Scrive Bettino Craxi nell'aprile I997: «li terremoto che investì i Paesi dell'Est poneva un problema. Approfittarne ed organizzare un attacco a fondo ai comunisti italiani, o indicare subito una via d'uscita per tutti, che risolvesse a un tempo i problemi ereditati da una storia travagliata e intro­ ducesse un nuovo fattore di forza, di stabilità e di progresso nella società politica e nella democrazia italiana. Mi mossi in questa seconda direzione. Non so se per demerito mio o per colpa di altri, questa prospettiva andò incontro ad un fallimento», appunto di B. Craxi del I3 aprile I 997, dal titolo L'inizio di una nuova era, in FBC, ABC, Carte di Hammamet. 30. A. Ghirelli, Ci convince di più la svolta dell'Est, in "Avanti !", 26-27 marzo I989. 3I. W. Dondi, Occhetto ai veterani della Resistenza: "Dobbiamo inventare strade nuove", in "l' Unità", I3 novembre I989. 32. B. Craxi, Lasciar riflettere il PCI, in "Avanti !", 17 novembre 1989. 33· A. Occhetto, Una costituente per aprire una nuova prospettiva della sinistra, m "l' Unità", 2I novembre I989.

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Nella riunione della Direzione del 29 novembre 1989 prevale tuttavia un forte scetticismo : la « svolta » di Occhetto appare una « grande operazione trasformistica e opportunistica » ( Tiraboschi) , «obbligata più dai fatti che da scelte autonome » (Formica), dunque tale da non giustificare affatto « sbrigativi, superficiali e incon­ trollati "trasporti"» ( Tognoli). Tutti i membri dell 'organo direttivo socialista, anche coloro i quali manifestano maggiore ottimismo ( Cicchitto, Lago rio, Tamburrano ) , plaudono alle parole di Martelli: il percorso avviato nel PCI ha valore se inserito in una prospettiva di unità « tra tutte le famiglie che hanno avuto nel socialismo italiano la loro origine » 34• Un ammonimento subito rispedito al mittente dal segretario comunista, che dopo aver definito « di sapore ottocentesco » la proposta di "Unità socialista': lancia il guanto di sfida invitando Craxi a imboccare anch'egli la strada del rinnovamento : un rapporto costruttivo tra via del Corso e Botteghe Oscure non può che realizzarsi « all'interno di un partito che vada oltre la tradizione comunista e oltre la tradizione socialista » 3;. Il leader del Garofano si sente orgogliosamente dalla parte giusta della storia, e dunque ha gioco facile nel bocciare in maniera sbrigativa l'idea di un « lavacro gene­ rale » in cui tutti, « in un clima di esaltante purificazione, dovrebbero cambiare abito, nome e connotati » 36• Per di più, riflette l'ex direttore di "Mondoperaio" Federico Coen, in un paese dove si vota in continuazione le « rispettive e simmetriche ossessioni elettorali » 37 contribuiscono a mantenere alta la tensione tra le due sponde contrapposte. Il risultato delle amministrative della primavera 1990 è incoraggiante per il P S I , che si attesta sul 15,3% dei consensi a livello nazionale: i maggiori incrementi si regi­ strano nel Mezzogiorno, mentre la forte avanzata delle Leghe penalizza il partito di Craxi in diverse aree del Nord. La cosiddetta "onda lunga" avanza molto lentamente, ma il leader socialista trae evidenti motivi di soddisfazione quando volge lo sguardo in casa comunista; il partito di Occhetto cala di quasi sei punti percentuali rispetto alla precedente tornata amministrativa, e il riequilibrio tra socialisti e comunisti, tematica che compare di frequente nelle carte di Craxi38, assume caratteri vistosi in relazione al dato comunale: in quaranta delle ottanta città capoluogo in cui si è votato per il rinnovo delle amministrazioni, il PSI è infatti il primo partito della sinistra, a 34· PSI, Direzione nazionale, 29 novembre I989, Dibattito, in "Argomenti Socialisti", V, I989, 1 1-12, pp. 99-I09. 3S· Occhetto sfula Craxi: "Anche il PSI ridiscuta il suo nome", in "la Repubblica", I7 febbraio I990. 36. PSI, Direzione nazionale, 6 marzo I990, in FBC, ABC, Bettino Craxi I959-2ooo, sezione I. Atti­ vita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Direzione nazionale ed Esecutivo, VA 128. 37· F. Coen, Il muro di Livorno, in "la Repubblica", 8 novembre I989. 38. Dalle riflessioni del segretario del PSI emerge con chiarezza che il vero nodo da sciogliere è quello della ridefìnizione dei rapporti di forza a sinistra; a tal proposito, Craxi evoca in più di un'oc­ casione le vicende d'oltralpe e la strategia vincente di François Mitterrand; cfr. ad esempio la nota del 25 luglio I997, dal titolo Di Cosa in Cosa, in FBC, ABC, Carte di Hammamet. 274

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dimostrazione, chiosa il segretario di via del Corso, che la crisi comunista « non è una nostra invenzione o una nostra provocazione » 39• Il clima a sinistra si fa un po' meno incandescente alla vigilia del XIX Congresso del P C I , un'assise straordinaria che avrebbe ratificato la « svolta » annunciata da Occhett040• Craxi ripercorre nei suoi appunti quella particolare fase del "travaglio" comunista, con lo spirito di chi ha provato a tessere la tela del dialogo in maniera decisa e costante: Ricordo che dopo la relazione del segretario Achille Occhetto, mentre ero seduto al mio banco di invitato, scrissi e feci consegnare tre lettere. La prima indirizzata allo stesso segretario del PCI, la seconda a Tortorella, che rappresentava la tendenza ingraiana [ .. . ] , la terza a Cos­ sutta, leader della tendenza che potremmo chiamare antirevisionistica, divenuta poi "Rifon­ dazione comunista". In queste lettere, scritte a mano, indicavo sinteticamente già allora, rivolgendomi agli esponenti tanto della maggioranza che della minoranza del PCI, la pro ­ spettiva della Unità Socialista. Subito dopo il Congresso, chiese di incontrarmi Cossutta. [ . . ] Mi ringraziò per la lettera che gli avevo indirizzato e mi chiese con franchezza se io potevo immaginare che, in un movimento di natura socialdemocratica o laburista, potesse esserci posto per una corrente comunista di minoranza. [ .. . ] Ricordo che risposi affermativamente. Il mio proposito, rivelatosi del tutto astratto, era infatti quello di avviare un processo che mirasse a superare tutte le divisioni del passato, e non certo quello di crearne di nuove. Per questo mi rivolgevo in quel momento a tutto il partito comunista ed a tutte le sue correnti41• .

Nelle settimane successive, il segretario socialista assume però un atteggiamento maggiormente critico dinanzi alle difficoltà del partito di Occhetto di sciogliere gli ormeggi che lo legano al passato, in gran parte dovute, a suo giudizio, all' incertezza con cui il gruppo dirigente di Botteghe Oscure ha impostato sin dal principio il problema dei rapporti con via del Corso4t. Il processo di trasformazione del P C I si sta in effetti avvitando in un dibattito interno estenuante43, e a tenere banco è anche la questione del nome del partito, un insopprimibile « grumo di vissuto » 44, come lo definisce Pietro Ingrao. 39· PSI, Direzione nazionale, 17 maggio I990, in FBC, ABC, Bettino Craxi 1959-2000, sezione I. Atti­ vita di partito, serie 2. Vìta interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Direzione nazionale ed Esecutivo, VA I29. 40. S. Bonsanti, Addio vecchio PCI, in "la Repubblica", 8 marzo I990; E. Scalfari, La cosa che nasce, ivi, 8 marzo I990. 41. Appunto di B. Craxi del 16 marzo I997, dal titolo Le vie dell'Unita Socialista, in FBC, ABC, Carte di Hammamet.

42. PSI, Direzione nazionale, I3 settembre 1990, in FBC, ABC, Bettino Craxi 1959-2000, sezione 1. Attivita di partito, serie 2. Vìta interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Direzione nazionale ed Esecutivo, VA 132. 43· G. Napolitano, Dal PCI al socialismo europeo. Un 'autobiografia politica, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 247-8. 44· A. Stabile, Come una sentenza, il no di lngrao, in "la Repubblica': 22 novembre I989. 27 5

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Eppure la denominazione "socialista'' dovrebbe essere l, approdo più naturale e meno traumatico per una forza politica che « dichiara addirittura di non appartenere da tempo al movimento comunista internazionale » 45, chiosa il leader del PSI, cui viene subito rimproverata un' invasione di campo : migliori rapporti a sinistra, lo ammonisce Walter Veltroni, « richiedono rigore e rispetto delle reciproche autonomie » 46• In soccorso di Botteghe Oscure giunge anche il fondatore della "Repubblica'' Eugenio Scalfari, per il quale r aggettivo "socialista'' evoca in realtà la « decrepitezza culturale e i compromessi trasformistici della Seconda lnternazionale » 47• A svelenire un clima siffatto non contribuisce certo la mossa a sorpresa con la quale Craxi procede al restyling del simbolo del suo stesso partito : il garofano rosso inserito in una corona circolare recante in alto la scritta "Unità Socialista'' e in basso la sigla " p s 1 ''. Difficile stabilire se si tratti di uno « sgarbato contropiede » nei confronti di Occhetto o al contrario di un « coraggioso azzardo » 48 per aiutare i comunisti a uscire dal guado ; nonostante Craxi escluda a più riprese ogni tentazione egemonica da parte del PSI49, il suo stesso modo di agire alimenta nelruniverso comunista la certezza che egli punti a una mortificazione storico-politica del PCI50• Appare piuttosto significativo che a distanza di alcuni anni tocchi al socialista Giuliano Amato fare autocritica: il cambiamento del simbolo « avrebbe avuto senso se concordato con coloro cui era rivolto r invito alrunità; deciso unilateralmente, appariva un puro e semplice tentativo di annessione » 51• Quando il 10 ottobre 1990 un emozionato Occhetto rompe gli indugi e presenta il nuovo Partito democratico della sinistra (P n s ), il segretario di via del Corso lo gela con poche, sbrigative parole: « Sentirsi socialisti ma con la vergogna di chiamarsi socialisti [ ] , tutto questo francamente non convince [ . . . ] e non può suscitare grandi entusiasmi » s 2. . ...

45· B. Craxi, Il nodo di un nome, in "Avanti !", 9 ottobre I 990. 46. Riguarda solo noi la scelta del nome, in "la Repubblica': 20 settembre I990. 47· E. Scalfari, Passato ilguado, ivi, 11 ottobre I990. Cfr. anche la testimonianza dello stesso Scalfari in N. Ajello, Il lungo addio. Intellettuali e PCI dal I95S al I99I, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 391. 48. G. Battistini, Tutto il PSI plaude alla svolta. I miglioristi: "È cosi che si fa", in "la Repubblica", 7 ottobre I990. 49· B. Craxi, Per il bene comune, Aesse Libri, Roma I990. so. A. Asor Rosa, La sinistra alla prova. Considerazioni sul ventennio I976-I996, Einaudi, Torino I996. S I. G. Bosetti, lo, la sinistra e i meriti di Craxi, intervista a Giuliano Amato, in "Reset", agostosettembre 2000. Recentemente anche Claudio Martelli ha messo in discussione la bontà della proposta craxiana di «Unità socialista » : « Dubito che si sia trattato di un'apertura vera [ . . ] , pretendere se non l'abiura la resa degli altri non è un'apertura. [ . . ] Se l'obiettivo è quello di dare vita dopo un secolo di divisioni all'unità delle forze di progresso, chiamiamole laburiste, chiamiamole democratiche, perché ergere come un ultimatum la parola "socialista" ?» (cfr. la testimonianza di C. Martelli in G. Acquaviva, L. Covatta, a cura di, Il crollo. Il PSI nella crisi della prima Repubblica, Marsilio, Venezia 20I2, p. 276). 52. B. Craxi, Il nodo di un nome, cit. «Partito democratico della sinistra » , scrive Craxi in una nota del 25 luglio I997, «è in fondo una classica sigla da Democrazia popolare, dove le Repubbliche .

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La scelta di Occhetto, in realtà, non persuade neppure l"'ala migliorista" di Botteghe OscureB, erede del vecchio togliattismo, maggiormente incline a ricercare le ragioni di un dialogo con il partito di Craxi nel quadro dei valori e degli obiettivi strategici in cui si riconoscono le forze del socialismo democratico europeo, e per questo guardata in casa comunista con sospetto se non addirittura accusata di intelligenza con il "nemico"54• I contributi in special modo di Chiaromonte, Macaluso e Napolitano per definire una chiara, coerente caratterizzazione ideale e nuove prospettive politiche55 aiutano a tenere aperta la porta del dialogo a sinistra, nonostante l'esecutivo del PSI giudichi « assolutamente deludenti » 56 anche i risultati del xx Congresso di Rimini, quello del definitivo scioglimento del P C I . « Competizione e collaborazione tra forze distinte e autonome per costruire e far vincere un'alternativa di governo, lasciando aperta la prospettiva di una ricomposi­ zione unitaria tra le forze di ispirazione socialista » 57: così la componente "migliorista" guarda al rapporto con il partito di Craxi, parole messe nero su bianco nel documento con il quale viene motivata l'adesione alla mozione congressuale di maggioranza. Una linea politica da seguire senza contrapporre al P S I posizioni « schematiche e massimaliste » , chiarisce Napolitano nel corso della presentazione del « manifesto riformista » ; ad ascoltarlo al cinema Capranica di Roma l ' n dicembre 1 9 9 0, vi sono in rappresentanza di via del Corso Rino Formica e Claudio Signorile: non può che essere musica per le loro orecchie il passaggio del discorso nel quale il leader "miglio­ rista" esprime il deciso rifiuto di porre le difficoltà del socialismo europeo sullo stesso piano del drammatico fallimento dei regimi comunisti58•

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Un dialogo impossibile : Guerra del Golfo e nuove polemiche Le schermaglie tra le due principali anime della sinistra italiana toccano punte di massima asprezza anche tra i banchi del Parlamento, come dimostra nel luglio 1 9 9 0 erano Democratiche, i partiti democratici, le associazioni democratiche» (appunto di B. Craxi del 25 luglio I997, dal titolo Di Cosa in Cosa, in FBC, ABC, Carte di Hammamet). S3· Napolitano, Dal PCI al socialismo europeo, cit., p. 250. S4· Cfr., tra gli altri, ivi, pp. 248-9 e 261-2; E. Macaluso (con P. Caldarola), Politicamente s/corretto. La sinistra dalla Bolognina a oggi nel racconto controcorrente di un protagonista, Dino Audino, Roma 20I2, spec. p. I9 e pp. 57-8. SS· E. Macaluso, G. Napolitano, Coerenza riformista. Ecco la "cosa" che vogliamo, in "l' Unità", I4 luglio I990; G. Chiaromonte, PDS, un decollo difficile. Travagli e speranze di una trasformazione annunciata, CUEN, Napoli I992. s6. PSI, Esecutivo, s febbraio I99I, in FBC, ABC, Bettino Craxi I959-2ooo, sezione 1. Attivita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Direzione nazionale ed Esecutivo, UA 142. S7· Napolitano, Dal PCI al socialismo europeo, cit., p. 251. s 8. F. Martini, Napolitano va alla riscossa, in "La Stampa", I2 dicembre 1990.

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la vicenda relativa all'approvazione del testo di legge che disciplina il sistema radio­ televisivo pubblico e privato. Se i socialisti premono per un rapido varo del provve­ dimento redatto dal ministro repubblicano Oscar MammÌ59, i comunisti al contrario gridano al colpo di mano e lamentano le eccessive concessioni alle aziende del gruppo Berlusconi60• La decisione del governo Andreotti di porre la fiducia alla Camera provoca una spaccatura interna allo stesso partito di maggioranza relativa e spinge i ministri della sinistra D C ( Misasi, Martinazzoli, Fracanzani, Mannino e Mattarella) ad abbandonare per protesta l'esecutivo61• L'obiettivo è chiaro, riflettono a via del Corso : la corrente di De Mita si avvale della sponda che gli offre il P C I per dare una spallata al governo e ridurre i socialisti a più miti consigli62.. Di lì a poche settimane, la crisi internazionale apertasi a seguito dell ' invasione del Kuwait da parte dell' Iraq di Saddam Hussein allarga il fossato tra il partito di Craxi e quello di Occhetto. Il PSI esprime pieno sostegno all' invio nelle acque del Golfo Persico di un con­ tingente italiano chiamato a garantire il rispetto dell 'embargo contro l ' Iraq imposto dalle Nazioni Unite; orientamento a cui si contrappongono le difficoltà della segre­ teria comunista di trovare un compromesso con la minoranza interna capeggiata da lngrao, che nel corso del voto parlamentare si dissocia clamorosamente dalla linea dell'astensione stabilita63• Rivelatosi vano ogni tentativo di risoluzione della crisi per via diplomatica, la comunità internazionale decreta l'uso della forza contro il regime iracheno : il 17 gennaio 1 9 9 1 , chiamati a esprimersi sulla risoluzione con la quale il Parlamento autorizza la partecipazione dell' Italia alle operazioni militari per il ripristino della legalità internazionale, socialisti e comunisti si ritrovano sui lati opposti della bar­ ricata. La ferma opposizione di Botteghe Oscure a un coinvolgimento italiano nel con­ flitto, unitamente alla richiesta di ritiro delle unità aeree e navali già inviate nell 'area del Golfo, suscita la reazione sdegnata del fronte socialista, sintetizzabile nelle parole S9· L' Ufficio di Segreteria del P SI, riunitosi il 19 luglio 1990, dopo aver ribadito la necessità che si proceda «con coerenza e chiarezza sulla base degli accordi di Governo», licenzia un testo nel quale si ritiene priva di ogni giustificazione la «logica dirigistica, autoritaria e sostanzialmente punitiva» di quanti si oppongono all'approvazione della legge televisiva (PSI, Ufficio di Segreteria, I9 luglio I990, in FBC, ABC, Bettino Craxi I959-2ooo, sezione 1. Attivita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sotto­ serie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 4· Ufficio di Segreteria, VA 12 ) . 6o. La requisitoria del PC/ in Aula: "Sara la fulucia di Berlusconi", in "la Repubblica", I9 luglio I990. Cfr. anche M. Ruffolo, Occhetto denuncia un colpo di mano. E Craxi s 'arrabbia, ivi, 28 luglio I990. 6 I. M. Mafai, De Mita dice: "Cosi si puo rovinare la n e ", ivi, 28 luglio I990. 62. A. Stabile, È uno scontro tutto nella DC, ivi, 28 luglio I990. Cfr. anche L. Colletti, Gli ultimi nostalgici, in "Corriere della Sera': 23 agosto I990. 63. Cfr. la ricostruzione del dibattito interno al PCI in A. Bianchi, Guerra e pace, i due PC/. Ingrao e tutto il "No" non partecipano al voto. Gli altri si astengono, in " il manifesto", 24 agosto I990.

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del ministro degli Esteri De Michelis: «L'annichilimento di Saddam Hussein sarà anche l'annichilimento del PCI-PDS » 64• La posizione assunta dai comunisti diviene per Craxi l'occasione di calibrare nuovamente il giudizio sul percorso avviato da Occhetto : altro che « svolta » , è il senso del suo ragionamento, se alla prova dei fatti prevalgono le tesi di un pacifismo assoluto, dietro cui si celano gli antichi fervori antiamericani di un partito che pure siede nella delegazione italiana all'assemblea parlamentare della NAT065• Il litigio tra socialisti e comunisti è così destinato « a diventare come "Beautiful": non finirà più » , commenta sarcastico il quotidiano "la Repubblica"66• A ben poco serve il comunicato congiunto sulle conseguenze inumane della guerra firmato dai due leader della sinistra a metà febbraio67: sorprendentemente, alcuni tra i principali dirigenti di via del Corso e Botteghe Oscure si affrettano a svuotar!o di significato68• Nella primavera del 1 9 9 1 anche il quadro politico italiano è in fermento. Il 14 marzo, aprendo i lavori dell'Assemblea nazionale del PSI, Craxi si dice convinto che la compagine governativa abbia esaurito le proprie capacità realizzative; di conse­ guenza, per evitare il rischio che la collaborazione con la DC si riduca alla gestione dell'esistente, perdendo di vista gli obiettivi di sviluppo di un nuovo corso riforma­ tore, il segretario socialista auspica la nascita di un nuovo esecutivo e una «puntuale definizione degli impegni programmatici di fine legislatura » 69 • E il viatico alla formazione del VII governo Andreotti, un quadripartito DC-PSI..

64. A. Di RobUant, De Michelis: (1 pacifzsti? Immaturi", in "La Stampa", 20 gennaio I99I. 6 s. B. Craxi, Tre gravi errori, in "Avanti !': I 0 febbraio 1991. Per Biagio De Giovanni, al contrario, quello del PCI non è un passo indietro: « Craxi non ha capito che proprio il nostro essere divisi sul conflitto è un segno della nostra transizione verso U socialismo. [ . . ] li socialismo umanitario ha come caratteristica peculiare il pacifismo, mentre U comunismo no, anzi la guerra è lo strumento della sua stessa affermazione » ( cfr. A. Del Giudice, ((Non siamo piu comunisti. Craxi non lo vuoi capire", intervista a Biagio De Giovanni, in "l' Unità': 3 febbraio I99I ) . 6 6. S. Messina, Craxi: ((Entrare nell'Internazionale? Tina Anse/mi ha piu chances del PCI ", in "la Repubblica", 2 febbraio I99I. 67. Nella dichiarazione congiunta, resa nota U I4 febbraio I99I, i segretari di PSI e PDS chiedono un'immediata cessazione dei bombardamenti sui centri abitati, al fine di evitare vittime tra la popo­ lazione civile, U ritiro delle truppe irachene dal Kuwait « aggredito e occupato», una soluzione finale «pacifica e giusta » con affermazione dell' « autorità dell' ONU», ed esprimono infine solidarietà ai militari italiani impegnati al fronte (cfr. Craxi e Occhetto: non bombardate le citta, in "La Stampa", IS febbraio I99I ) . 6 8. Per Giuliano Amato, vicesegretario del PSI, «la posizione dei socialisti sul Golfo non cambia. Semmai è stato Occhetto a fare un passo avanti verso U governo». Sull'altro versante, altrettanto distaccato è U commento del numero due di Botteghe Oscure, Massimo D 'Alema: «Una dichiarazione congiunta raccoglie opinioni comuni, evidentemente non è un documento del nostro partito» (cfr. A. Di RobUant, La tregua Craxi-Occhetto spiazza la DC, in "La Stampa", 15 febbraio I99I; F. Martini, Svolta a sinistra?, ivi, IS febbraio I99I ) . 6 9. B. Craxi, Discorso altAssemblea nazionale del PSI, Roma, 14 marzo 1991, in FBC, ABC, Bettino Craxi 1959-2000, sezione 1. Attivita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 2. Assemblea nazionale, UA 9, p. 3 I. .

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e a giudizio di molti è anche l'errore politico decisivo che il leader del Garofano compie nel risvolto finale della Prima Repubblica70• Prevale infatti, nella narrazione del vecchio gruppo dirigente socialista, la ten­ denza a interpretare la mancata rottura dell 'alleanza con il partito cattolico come il segnale di un evidente esaurimento della forza propulsiva espressa dalla leadership craxiana71: « Si trattava di provocare lo scioglimento anticipato delle Camere e cam­ biare le carte in tavola [ .. ] , assumendo noi la guida della sinistra italiana » 7\ riflette con il senno di poi Giuliano Amato. In più di un 'occasione, Craxi ha riferito di aver scartato l 'ipotesi di elezioni anticipate dopo esplicita richiesta dei dirigenti di Botteghe Oscure, timorosi di affrontare un esame così complesso nel pieno della propria trasformazione73; tendere loro la mano in un momento di difficoltà, e anzi !asciargli il tempo per riorganizzarsi, avrebbe probabilmente fugato il sospetto che egli puntasse a un'operazione egemo­ nica e annessionistica74• Su quello snodo cruciale, un documento d'archivio rivela parzialmente gli umori del segretario socialista: PLI-P S D I ,

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Mi si rimprovera di non aver provocato, nel 199 1, la fine del governo Andreotti e nuove elezioni anticipate. Se lo avessi fatto, da solo com'ero, li avrei avuti tutti addosso. Sarei stato il bersaglio privilegiato, con corredo di stivali e camicia nera, di tutta la campagna elettorale75•

70. Cfr. F. Cicchitto, Il PSI e la lotta politica in Italia dal 1976 al 1994, Spirali/Ve!, Milano I995· pp. 1 15 ss.; L. Covatta, Menscevichi. I riformisti nella storia dell'Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 2005, p. I79; V. Spini, Compagni siete riabilitati! Il grano e il loglio dell'esperienza socialista 1976-2o o 6, Editori Riuniti, Roma 2006, pp. 53-4; U. Finetti, Storia di Craxi. Miti e realta della sinistra italiana, Boroli, Milano 2009, pp. I74-5· 7 I. Acquaviva, Covatta (a cura di), Il crollo, cit. 72. G. Bosetti, lo, la sinistra e i meriti di Craxi, intervista a Giuliano Amato, cit. 73· Massimo D 'Alema ha confermato a più riprese questa versione. Di recente ha dichiarato: « lo e Veltroni avevamo una missione precisa [li riferimento è all ' incontro avvenuto a Rimini, sede della Conferenza programmatica del PSI, nella primavera I990, N.d.A. ] : chiedere a Craxi di non interrompere la legislatura. Infatti, le elezioni anticipate avrebbero colto il nostro partito in mezzo al guado: ci eravamo avventurati nella macchinosa procedura dei due congressi e sarebbe stato un guaio presentarci agli elettori nell' incertezza persino sulla nostra identità. Craxi acconsentì e prese un impegno che poi mantenne. Penso che l'abbia fatto anche per altre ragioni, a cominciare dal suo buon rapporto con il gruppo dirigente della DC, che da poco aveva messo in minoranza Ciriaco De Mita. Va detto, tuttavia, che Craxi non ci fu ostile in quel frangente » (cfr. M. D 'Alema, con P. Caldarola, Controcorrente. Intervista sulla sinistra al tempo dell'antipolitica, Laterza, Roma-Bari 20I3, pp. 9-IO ) . 74· Questa chiave interpretativa trova assai scettico Claudio Martelli, secondo il quale, se a far decidere in tal senso Craxi « fosse stata solo l 'occasione di dare una dura lezione al PCI-PDS, egli non avrebbe esitato. li punto è che voleva mantenere l ' impegno preso con Andreotti [ .. ] per consolidare la sua alleanza con la DC» (cfr. la testimonianza di C. Martelli in Acquaviva, Covatta, a cura di, Il crollo, ci t., p. 28 I ) . 75· Appunto di B. Craxi del 28 ottobre I998, senza titolo, in FBC, ABC, Carte di Hammamet. .

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La questione delle riforme istituzionali Nello scorcio finale della legislatura il braccio di ferro a sinistra investe anche le modalità e i passaggi essenziali per una concreta riforma del sistema politico-istitu­ zionale. Il dibattito sull' insostenibilità degli equilibri esistenti attraversa tutti gli anni Ottanta76, toccando punte di massima asprezza ogni volta che i socialisti rilanciano la « grande riforma » in senso presidenziale, l'elezione diretta di un capo dello Stato munito di poteri di alta direzione politica77• Nonostante i passi in avanti compiuti dal P C I nell'assunzione dell 'orizzonte del mutamento istituzionale78, la pietra angolare per Botteghe Oscure resta la modifica del meccanismo elettorale, terreno sul quale si registrano non poche convergenze con la sinistra democristiana79• Dinanzi all ' incapacità delle forze politiche di trovare un approccio organico alla questione, una forte spinta giunge dall 'esterno dei partiti grazie soprattutto all ' ini­ ziativa del democristiano Mario Segni, promotore di alcuni referendum volti a modificare il sistema elettorale vigente80• L'operazione nel suo complesso assume agli occhi di Craxi una chiara valenza politica: una parte della Democrazia cristiana ( il segretario del P S I vi annovera in prima fila De Mita) è accusata di « trafficare » in modo spregiudicato per via refe­ rendaria con « un certo confuso vagabondaggio comunista » per aprire le porte a nuove e inaccettabili regole elettorali ispirate dalla « filosofia bipolare » ; di conse­ guenza, a essere minacciati in modo insopportabile sono lo spazio politico e il ruolo autonomo del Partito socialista8•. Per il segretario di via del Corso una riforma elettorale « radicale » può essere solo un capitolo connesso a una più generale « grande riforma » delle istituzioni8l; non di meno, egli tenta di disinnescare l'ordigno proponendo una « razionalizzazione 76. L. Covatta, La legge di Tocqueville. Come nacque e mori la riforma della prima Repubblica, Diabasis, Roma 2007. 77· Per Cafagna l'opzione presidenzialista di Craxi può leggersi nel senso di un'accelerazione verso un esito mitterrandiano del "duello a sinistra" (cfr. L. Cafagna, La grande slavina. L 'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia 1993, pp. I29-30 ) . 78. A. Romano, Compagni di scuola. Ascesa e declino dei postcomunisti, Mondadori, Milano 2007. 79· P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (I945-I996), il Mulino, Bologna 1997, pp. 434-S· So. M. Segni, La rivoluzione interrotta, Rizzoli, Milano 1994. 8I. PSI, Direzione nazionale, I3 settembre I990, in FBC, ABC, Bettino Craxi I959-2ooo, sezione 1. Attivita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Direzione nazionale ed Esecutivo, VA I32. 82. n segretario del PDS Occhetto esprime posizioni antitetiche. Intervenendo in Parlamento nel dibattito sul messaggio del presidente Cossiga alle Camere, afferma: «Qualsiasi grande riforma, lo voglio dire a Craxi, non può che basarsi in primo luogo sulla legge elettorale - e mi sembra ovvio - e questa è la vera grande novità che attendiamo dal Partito socialista: che si dichiari disposto a entrare in campo 28 1

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e una correzione delle leggi esistenti » , in modo da porre un freno « ai danni di instabilità e di dispersione derivanti dal proporzionalismo puro » 83• Dopo il vaglio della Corte costituzionale, a rimanere in piedi è solo uno dei tre quesiti presentati, quello volto ad abolire il sistema delle preferenze multiple nelle elezioni per la Camera dei deputati. La modifica richiesta, incalzano i socialisti, riducendo a una soltanto le preferenze esprimibili, va nel senso esattamente opposto a quello proclamato dai promotori del referendum : «Essa porta infatti non ad aumentare, ma a ridurre il potere di scelta conferito ai cittadini » 84; ragion per cui essi sono invitati a concorrere, « con la loro non partecipazione al voto » , alla boc­ ciatura di un referendum « inutile, dannoso e anticostituzionale » 8;. Anche in questa occasione P S I e PDS manifestano orientamenti alquanto diversi: il partito di Occhetto sostiene infatti le ragioni del referendum, che a giudizio di Veltroni rappresenta la chiave con cui i cittadini possono finalmente far partire il motore delle riforme86• Non credo che a Craxi sfuggì il senso politico del quesito sulla preferenza unica, così come non appare plausibile che guardasse con distacco agli appelli di Segni per una « guerra di liberazione dalla partitocrazia » 87• Egli scelse in realtà di percorrere fino in fondo la strada dell 'autonomia della politica, convinto che « toccasse solo e soltanto ( almeno in prima battuta) ai partiti compiere le scelte politiche davvero qualificanti » 88• Nei suoi appunti emerge unicamente il rammarico per il disimpegno degli alleati democristiani, che lo hanno lasciato solo a fronteggiare il composito schieramento referendario : « Chiesi di sicuro alla D C di fermare Mario Segni e il suo referendum, ma la DC era divisa; o rispose "ni" o se ne lavò le mani, del resto non si schierò neppure nella campagna referendaria » 89• Il 10 giugno 1 9 9 1 l 'immagine del Craxi « grande sconfitto » alimenta i propositi di rivalsa degli ex comunisti90, sicuri di aver finalmente « mandato nel pallone » il leader di via del Corso91• Il quale, dal canto suo, deve ora fronteggiare l'offensiva di alcuni esponenti della sinistra socialista che gli addebitano tutti i limiti di una poli­ tica caratterizzata da « atteggiamenti autarchici ed opportunismi tattici » 92.. su questo terreno per discutere con tutti noi, comuni mortali, di simili modeste questioni » (Atti Par­ lamentari. Camera dei Deputati. x Legislatura, Discussioni, seduta del 25 luglio I99I, pp. 8637s-8638I). 83. PSI, Ufficio di Segreteria, 6 settembre I990, in FBC, ABC, Bettino Craxi I959-2ooo, sezione I. Atti­ vita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 4· Ufficio di Segreteria, VA I3. 84. PSI, Esecutivo, 2I marzo I99I, ivi, sotto-sottoserie 3· Direzione nazionale ed Esecutivo, VA I48. 8s. PSI, Esecutivo, 6 giugno I99I, ivi, VA IS8. 86. S. Messina, Il si serve ad accendere il motore delle riforme, in "la Repubblica", 6 giugno I99I. 8 7. Id., Liberazione, dai partiti... , ivi, 26 aprile I99I. 88. R. Chiarini, Tangentopoli, in Acquaviva, Covatta (a cura di), Il crollo, cit., p. 7S7· 89. Appunto di B. Craxi del 20 aprile I998, senza titolo, in FBC, ABC, Carte di Hammamet. 90. Stavolta e vittoria, in "l' Unità", IO-II giugno I99I. 9I. Sconfitta la coppia Craxi-Cossiga, ivi, I4 giugno I99I. 92. P. Battista, La sinistra PSI all'ofnfi siva contro Craxi, in " La Stampà', IS giugno I99I. 28 2

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Occorre prendere atto dell'esaurimento di una fase politica, tuona Signorile dalla tribuna del Congresso straordinario di Bari, e ricercare le ragioni di un vincolo uni­ tario a sinistra come « momento essenziale del rinnovamento della Repubblica » 93; gli fa eco, seppur in maniera più cauta, Martelli: « Incontrandosi, socialisti e pidies­ sini [ ... ] non potranno non riconoscere di avere radici comuni nello stesso antico partito, nello stesso movimento, nella stessa idea » 94• Segnali di apertura che incontrano il favore dei "miglioristi" Colajanni e Chiaro­ monte, ambedue fiduciosi che con il PSI si possa costruire la nuova strategia per una sinistra di governo9;. A gelare i loro facili entusiasmi ci pensa però D 'Alema: « Il PDS non può essere sottoposto continuamente a shock che ne appannano l'immagine » 96• Nelle ore che precedono l'apertura del Congresso di Bari, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga trasmette al Parlamento un messaggio sulla riforma delle istituzioni97• Consapevole più di altri che il "terremoto, del I 9 8 9 ha già mutato in profondità gli equilibri sistemici anche in Italia, Cossiga sfida le resistenze dei partiti a misurarsi con la realtà che cambia, rivendicando a sé « il compito di guidare la transizione verso i nuovi assetti » 98• L' insolito protagonismo del capo dello Stato appare armonico al progetto di una riforma della Costituzione in senso presidenziale perseguito da Craxi99; il leader di via del Corso offre dunque una sponda interessata all'inquilino del Colle, che oltretutto rivolge i propri strali verso il suo stesso partito di appartenenza, la Democrazia cristiana, definita un blocco conservatore che frena l'avvio del processo di modernizzazione del paese : niente di più vantaggioso agli occhi del segretario del P S I , convinto che r indebolimento di Andreotti e Forlani possa spianargli definitivamente la strada per un ritorno alla guida del governo. La propensione dei socialisti ad atteggiarsi a "partito del presidente,, contraria­ mente alla determinazione del PDS di promuovere un procedimento di accusa contro Cossiga per attentato alla Costituzione100, introduce dunque nel tratto finale della legislatura nuovi e più gravi elementi di deterioramento nei rapporti tra le due prin­ cipali forze del movimento operaio italiano101• 93· Unire i socialisti. Rinnovare la Repubblica, Atti del XLVI Congresso socialista, Bari, 27-30 giugno 1991, intervento di C. Signorile, ora in "Argomenti Socialisti", VII, 1991, 7-8, pp. 42-7. 94· Unire i socialisti. Rinnovare la Repubblica, Atti del XLVI Congresso socialista, Bari, 27-30 giugno I99I, intervento di C. Martelli, ora ivi, pp. 73-84. 95· N. Colajanni, I due rivali della sinistra senza la spinta propulsiva, in "Corriere della Sera", I 8 giugno I99I; G. Chiaromonte, PDS: tutti d'accordo sulla linea? Non credo, in "l' Unità'', 11 luglio 1991. 96. G. Caldarola, "Avetefatto un favore a Craxi": D:Alema critica i riformisti, ivi, I 8 luglio 1991. 97· S. Messina, ((La Costituzione e un abito vecchio", in "la Repubblica", 27 giugno I99I. 9 8. S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2oo6, Laterza, Roma-Bari 2007, p. I8I. 99· Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., pp. 463-72. IOO. A. Leiss, Ecco perché accusiamo Cossiga, intervista ad Achille Occhetto, in "l' Unità", 24 novembre I99I. IOI. «Le iniziative di stampo comunista del PDS, dirette contro il capo dello Stato, vanno ferma­ mente respinte », spiega Craxi il 22 novembre 199I nel corso di una riunione di Segreteria: « li PSI difende la persona del capo dello Stato, difendiamo l'istituzione e il suo alto ruolo politico-costitu-

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Il 1 9 9 1 si chiude con l'amaro Requiem per la sinistra firmato da Massimo Luigi Salvadori, il quale registra l'incapacità del PSI e del PDS di « dar vita a uno schiera­ mento coerentemente riformatore capace di offrire un'alternativa di governo » 102..

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La slavina giudiziaria Sordi a ogni richiamo unitario, i duellanti intensificano la battaglia in vista dell'ap­ puntamento decisivo : le elezioni politiche del s aprile 1 9 9 2 . Che la posta in gioco sia alta lo riconosce lo stesso Occhetto, per il quale è ormai giunto il momento di dare concretezza al « grande sogno di Berlinguer » : sconfiggere la politica di Craxi, con tutto ciò che essa ha significato in termini di « divisioni e rancori nella sinistra » 10 3 • In questo frangente, anche i misurati rapporti tra i socialisti e la componente "riformista" di Botteghe Oscure si fanno burrascosi, soprattutto dopo la nascita a Milano di una nuova giunta (nc-PSI-PLI-PSDI) guidata da Giampiero Borghini, "migliorista" uscito dal PDS104: un amareggiato Giorgio Napolitano manifesta il forte dubbio che Craxi stia puntando alla disgregazio ne del partito della Quercia105• Il verdetto delle urne è deludente per il PSI, che pur conservando una percentuale quasi intatta rispetto al 1987, di poco inferiore al 14%, fallisce l 'obiettivo che a Craxi sta maggiormente a cuore : il sorpasso elettorale a sinistra non avviene, nonostante il PDS sia crollato al 1 6%106• Riannodare il filo del dialogo tra le forze di ispirazione socialista, democratica e zionale nella vita democratica » ( PSI, Esecutivo, 22 novembre I99I, in FBC, ABC, Bettino Craxi 19592000, sezione 1. Attivita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Direzione nazionale ed Esecutivo, VA I6 9). I02. M. L. Salvadori, Requiem per la sinistra, in "La Stampa", I4 dicembre I99I. I03. PDS-PSI ai forri corti, in "la Repubblica", IO marzo I 992. I04. Emanuele Macaluso ha di recente ricordato che Craxi, per U tramite di Borghini, propose una lista in comune, per le elezioni del 1992, tra socialisti e area riformista del PDS: «Era un invito alla scissione, con la motivazione che U suo gruppo dirigente si era esaurito, i più noti esponenti socialisti erano diventati dei boiardi di partito. Bisognava riformare e rinsanguare U gruppo dirigente, e lo si poteva fare attraverso l'area riformista dell'ex PCI. Io gli dissi che era pazzo, che la cosa non esisteva» ( Macaluso, Politicamente s/corretto, cit., p. 3 8). IOS. A. Polito, "Così caro Bettino tu uccidi la sinistra", intervista a Giorgio Napolitano, in "la Repubblica", 29 dicembre I99I. La polemica di Napolitano nei confronti di Craxi si fa più esplicita nelle settimane successive, soprattutto dopo la decisione del PSI di candidare a Napoli la deputata uscente Angela Francese, "migliorista" della prima ora. Napolitano in quell'occasione denuncia, senza mezzi termini, U « chiaro atteggiamento annessionistico» del leader di via del Corso (cfr. S. Marroni, I miglioristi contro il PSI. Dall 'idillio alla guerra, ivi, 3 marzo I992). I06. J. Besson, G. Bibes, Né maggioranza né opposizione: le elezioni politiche del 5 e 6 aprile 1992, in S. Hellman, G. Pasquino ( a cura di ) , Politica in Italia: i fatti dell'anno e le interpretazioni. Edizione 1993, il Mulino, Bologna I993, pp. 57-83.

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riformista per rendere possibile lo sviluppo di un 'efficace azione di govern0107 appare ora ai maggiorenti di via del Corso uno sbocco obbligato. Ne è persuaso Martelli, secondo il quale occorre lavorare a un' intesa sui programmi tra P S I e P D S «per governare oggi insieme alla D C , cambiare le regole istituzionali ed elettorali, e can­ didarci domani all'alternativa » 108: una linea che fa proseliti in casa socialista, stando ai verbali della Direzione nazionale riunitasi il 15 aprile109• Le speranze di una ricucitura dei rapporti a sinistra vengono però rapidamente travolte dall 'onda delle inchieste giudiziarie, destinate a rivelare l'esistenza di un iniquo legame tra politica e affari110• Il PDS agita la bandiera della questione morale, ritenendola pregiudiziale rispetto alle stesse formule politiche: la frecciata è rivolta al P S I , su cui si sta abbattendo, soprattutto a Milano, la slavina giudiziaria111• L'obiettivo di una sinistra unita è ormai materia da libro dei sogni, nonostante i gesti distensivi che si registrano sulla questione legata all 'ingresso del PDS nell' Inter­ nazionale socialista, traguardo infine raggiunto nel settembre 1 9 9 2 112. , a cui Craxi dedica particolare attenzione nei suoi scritti: Ad Occhetto dissi che non avrei frapposto ostacoli ad una loro eventuale e futura richiesta di adesione, ma al contrario, se i miei compagni fossero stati d'accordo, in un tal caso avrei dato senz'altro via libera. [ ... ] Non ci fu allora nessuna preclusione da parte mia. Se io avessi deciso di oppormi e di precludere, è certo che non sarebbero entrati. [ ... ] Posi una sola con­ dizione, e cioè che la comune presenza nell' Internazionale doveva rappresentare il punto di partenza per una prospettiva di unità tra i nostri partiti anche in Italia. Quando si dovette decidere sulla domanda di adesione del PDS all' Internazionale Socialista, Willy Brandt mi disse : « La S P D è favorevole, ma la decisione spetta a te » . Altri leader importanti dell' Inter­ nazionale invece non erano per nulla favorevoli. Anzi, quando seppero che io mi stavo orientando in senso favorevole, cercarono di dissuadermi dicendo che mi stavo sbagliando e I07. PSI, Esecutivo, 8 aprile I992, in FBC, ABC, Bettino Craxi I959-2ooo, sezione 1. Attivita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Direzione nazionale ed Esecutivo, VA 174. 108. P. Franchi, Martelli: 'Prima intendersi a sinistra", intervista a Claudio Martelli, in "Corriere della Sera': 10 aprile I992. I09. Interventi alla riunione della Direzione nazionale del PSI del IS aprile I992, in "Argomenti Socialisti", VIII, 1992, 4-5, pp. I76-7. 1 10. Su Mani pulite, cfr. Cafagna, La grande slavina, cit.; P. Scoppola, La coscienza e il potere, Laterza, Roma-Bari 2007; M. Damilano, Eutanasia di un potere. Storia politica d'Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica, Laterza, Roma-Bari 20I2. I I I. s. Marroni, ceE adesso fatti da parte': Occhetto liquida Craxi, in "la Repubblica", 6 maggio I 992. 1 12. Sulla vicenda, cfr. le ricostruzioni di parte comunista in P. Passino, Per passione, Rizzoli, Milano 2003, pp. 206-30 e 26o-s; Napolitano, Dal PCI al socialismo europeo, cit., pp. 244-7; per le ricostruzioni di parte socialista, cfr. L. Lagorio, L 'esplosione. Storia della disgregazione del PSI, Poli­ stampa, Firenze 2004, pp. I20-2; M. Pini, Craxi. Una vita, un 'era politica, Mondadori, Milano 2006, pp. 486-9.

AND REA S PI RI che era meglio lasciare passare un periodo di attesa e di osservazione. Di fronte al Congresso dell' Internazionale Socialista fui quindi io il relatore proponente. Illustrai alle delegazioni presenti le ragioni per le quali proponevo di accettare la domanda di ingresso del PDS. In precedenza P S I e PDS avevano siglato un documento comune che conteneva un esplicito impegno di unità. Finì quasi subito nel cestino della carta e non fui certo io a buttarcelo113•

Indebolito dalla fronda interna guidata da Martelli114, il leader di via del Corso si rivolge agli ex comunisti alternando toni sprezzanti e inviti a ricercare le ragioni di un confronto per una comune prospettiva politica e programmatica. « Sei un ostacolo da aggirare e da rimuovere » •\ gli manda però a dire senza mezzi termini Occhetto, a sua volta definito dal segretario socialista « confusionario, inaffidabile, altalenante e inconcludente » 116• Di lì a pochi giorni Craxi uscirà di scena, travolto dal peso delle inchieste avviate dalla Procura di Milano117• La sua fine politica - è in conclusione l 'amara profezia di Umberto Ranieri - avrebbe coinciso non già con la ricomposizione, ma con la defi­ nitiva « frantumazione » della sinistra italiana118•

6 Il fallimento della prospettiva unitaria All 'alba del nuovo millennio, comunisti e socialisti hanno davanti a sé l'opportunità di favorire un diverso corso della politica nazionale, lasciandosi alle spalle decenni di scontri e di avversioni. Ma il terreno più naturale per il superamento delle antiche , divisioni, il più utile per la definizione di una reale prospettiva d avvenire, non viene neppure coltivato : sulle ragioni unitarie prevalgono anacronistiche idiosincrasie e frizioni reciproche. Le evidenti contraddizioni di cui il PCI-PDS dà prova nel liberarsi del vecchio involucro ideologico che ne impedisce lo sviluppo delle potenzialità di governo, uni­ tamente al prevalere di un orientamento settario che esclude qualsiasi tipo di accordo con i socialisti « geneticamente modificati » , provocano l'irrigidimento del P S I , a sua volta indotto nell'ultimo frangente degli anni Ottanta a mantenere immutati gli

1 13. Appunto di B. Craxi del 29 ottobre I998, dal titolo Napolitano e la memoria, in FBC, ABC, Carte di Hammamet. 1 14. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repub­ blica, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 275-6. 1 15. A. Statera, Occhetto: (1o e il muro di Bettino", intervista con Achille Occhetto, in "La Stampa,, 8 novembre I992. 1 16. A. Minzolini, Craxi: 'E Amato il leader del PSI", ivi, 7 novembre I992. 1 17. E. Mauro, Fine di stagione, ivi, I6 dicembre I992. 1 18. U. Ranieri, La sinistra dopo Craxi, in "l ' Unità,, 28 dicembre I992. 28 6

TRA S O G N O E REALTÀ : L ' " UNITÀ S O C IALI STA" NELLE CART E D I C RAXI

equilibri governativi e a non rischiare « un investimento con una politica di rottura » 119• Un errore, a giudizio della storiografia prevalente, che condanna il Partito socia­ lista all 'attendismo e al tatticismo più esasperato, inducendo parimenti il segretario di via del Corso a smarrire il rapporto tra le ragioni della governabilità da garantire al paese e la prospettiva strategica di costruire uno schieramento alternativo alla Democrazia cristiana•2.o· Difficile valutare se di fronte allo storico fallimento del comunismo internazio­ nale, le aperture politico-culturali di Bettino Craxi siano autentiche, o non piuttosto dettate dalla fierezza di chi sente che la storia si è incaricata di dare ragione al socia­ lismo democratico. Che egli pecchi di eccessivo o ttimismo, e persino di ingenuità, risulta comunque evidente dalla lettura delle sue carte; come un « buon giocatore di poker » convinto di avere in mano il punto per chiudere la partita, il leader socia­ lista decide di giocare le sue fiches sulla ridefinizione dei rapporti di forza a sinistra: è una sconfitta, la sua, tutta politica. m,

1 19. Colarizi, Storia politica della Repubblica I943-2oo6, cit., p. I73· I20. Cfr., tra gli altri, M. Degl' Innocenti, Storia del PSI, 3· Dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma­ Bari 1993; Cafagna, La grande slavina, cit.; M. L. Salvadori, La Sinistra nella storia italiana, Laterza, Roma-Bari 200I. I21. Questa è la definizione che il segretario del PCI Enrico Berlinguer diede di Craxi, rispondendo a una domanda di Giovanni Minoli nel corso della trasmissione Mixer, andata in onda su RAI2 il 27 aprile I983; cfr. anche A. Tatò (a cura di), Conversazioni con Berlinguer, Editori Riuniti, Roma I984, P· 328.

Il P L I nella crisi della Prima Rep ubblica di Gerardo Nicolosi

I

Premessa La prospettiva del PLI negli anni che sono sotto la nostra osservazione1 è quella di un «piccolo partito di opinione » per il quale, come ricordava Antonio Patuelli nel I 9 8 9, in «quarantacinque anni di vita solo due fasi [erano] state positive dal punto di vista elettorale, il periodo fra il I958 e il I 9 63, e i primi anni della segreteria Zanone, mentre in tutti gli altri anni la situazione [era] stata sempre difficilissima, in molti casi angosciante » 2.. Bisogna dire però che questo non aveva impedito al PLI, sin dalle origini della storia repubblicana, di marcare significativamente la propria presenza, sia da posizioni di governo - si pensi al ruolo giocato nella svolta del maggio del I947 e quindi per l'avvio della stagione centrista e poi come fedele alleato atlantista ed europeista nei governi De Gasperi -, sia da forza di opposizione - si pensi alla fase in cui fu protagonista Malagodi negli anni del centro-sinistra, soprattutto in relazione alla capacità di prevedere, oltre alla contingenza politica quotidiana, molte di quelle storture che si dimostrarono fatali per il sistema politico italiano proprio negli anni oggetto della nostra riflessione. E si pensi ancora alla fase di opposizione 1. Sul PLI negli anni in oggetto non esiste alcun approfondimento di carattere scientifico. Un ottimo punto di partenza è la voce Partito Liberale Italiano. La fine, di F. Chiarenza, in Dizionario del liberalismo italiano, vol. I, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2011, pp. 758-61. Per la sua storia negli anni della Repubblica, invece, in anni recenti sono stati pubblicati diversi contributi, tra i quali ricor­ diamo qui: A. Jannazzo, Il liberalismo italiano del Novecento. Da Giolitti a Malagodi, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2003; G. Orsina, L 'alternativa liberale. Malagodi e l'opposizione al centro-sinistra, Marsilio, Venezia 2010, e i volumi I liberali italiani dall'antifascismo alla Repubblica, vol. I, a cura di F. Grassi Orsini, G. Nicolosi, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2008 e vol. II, a cura di G. Berti, E. Capozzi, P. Craveri, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2010. Notevoli sono stati anche i progressi registrati sul piano della ricomposizione delle fonti per la storia del liberalismo italiano nelle sue varie fasi, in particolare per questi anni è di grande utilità Il Partito liberale nell'Italia repubblicana. Guida allefonti archivistiche per la storia del PLI. Atti dei Congressi e Consigli nazionali, Statuti del PLI, 19221992, a cura di G. Orsina, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, che abbiamo utilizzato per la consultazione di tutti gli atti interni citati in questo saggio. 2. Atti del Consiglio nazionale del PLI del 7-8 luglio 1989, intervento di A. Patuelli.

GERARDO NI C O L O S I

al IV e al v governo Andreotti ( 1976-79) di "solidarietà nazionale", quando il partito riesce ad acquistare crediti nell'area liberai-democratica per il rifiuto del disegno "catto-comunista" della "grande ammucchiata", per ricorrere a un lessico molto in voga negli ambienti liberali di quegli anni. Non bisogna poi sottovalutare il fatto che la storia di questo "piccolo partito d 'opinione" è stata sempre caratterizzata dalla presenza di una classe politica con buona conoscenza delle istituzioni, di buon spes­ sore intellettuale, di cultura internazionale, in contatto con gli ambienti dell ' impren­ ditoria, della finanza, dell 'università, dell ' informazione, soprattutto del grande giornalismo d'opinione, che in certe fasi fruttò anche dei vantaggi in termini politici, se solo si pensa al ruolo svolto dal "Corriere della Sera" di Mario Missiroli e poi di Alfio Russo di "fiancheggiamento" del PLI nel contrastare l'avvento del centro-sini­ stra in Italia. Si può ben dire che il peso specifico della classe politica liberale fu superiore a quello del suo partito di riferimento. Ma tornando al nostro discorso, è dunque dall'opposizione ai governi di "solida­ rietà nazionale" che la segreteria Zanone avvia una strategia di avvicinamento a un'area di centro-sinistra e quindi abbraccia la formula del Pentapartito, in seno alla quale guarda da subito con interesse al PSI di Craxi, di cui apprezza la convinta collocazione nell 'area della social-democrazia europea e gli accenti modernizzanti. Se per Zanone la scelta del Pentapartito era stata dettata dalla necessità che il sistema politico non rimanesse vittima della "sindrome del compromesso storico", allora si trattava di una strategia che guardava al protagonismo socialista, il cui fine era espres­ samente quello di spezzare il duopolio politico D C-P C I , come a un fattore positivo, perché potenzialmente strumentale a un mutamento sostanziale degli equilibri con­ solidati, che vedevano il PLI relegato su posizioni di scarsa visibilità politica3• Tale linea viene mantenuta anche dopo le dimissioni di Zanone dalla segreteria nel 1985, nel breve periodo in cui alla guida del partito viene nominato Alfredo Biondi. Come spiega Egidio Sterpa in un suo articolo, Biondi faceva parte della minoranza di Autonomia liberale che però «per uomini, contenuti e azioni » non poteva essere assimilata alla vecchia destra liberale. Sin dal 1979 questo gruppo aveva svolto nei confronti della segreteria Zanone una «opposizione dialettica con funzioni di stimolo, controllo e critica non faziosa » , constatando un allontanamento del PLI dalla sua identità più genuina. Nel 1981 al Congresso di Firenze erano state presentate venti tesi che rilanciavano la posizione classica del liberalismo : «Una politica neo­ liberista ( ''meno Stato più libertà" ) , la rivalutazione dell 'individualità e della privata iniziativa, le privatizzazioni, il taglio delle spese e dei privilegi corporativi, la riduzione 3· Sul percorso del PS1 verso il Pentapartito, cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2005, spec. pp. 39-1 13. Cfr. anche M. Degl ' Innocenti, Storia del PSI, 3· Dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma-Bari 1993, spec. pp. 427 ss. Sulle origini della crisi del sistema dei partiti, cfr. P. Craveri, Dopo !'"unita nazionale" la crisi del sistema dei partiti, in S. Colarizi et al (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, pp. I I ss.

I L PLI NELLA CRISI DE LLA PRIMA REP UBB LICA

del peso delle burocrazie pubbliche, una radicale riforma fiscale » . Nella ricostruzione di Sterpa, quando Zanone si dimette nel luglio del 1985, c'è un rimescolamento delle varie componenti, scompare la tradizionale dialettica interna destra-sinistra, tanto che Biondi viene appoggiato, oltre che da Costa, anche da esponenti della sinistra4• Si tratta però di una esperienza breve, perché al Congresso di Genova del 19 86, la guida del PLI viene affidata a Renato Altissimo, con un'azione di Zanone che si rivelò decisiva per la vittoria della nuova maggioranza. A giudicare dagli atti, si può comunque convenire con Sterpa che, per il periodo 19 86-93, la componente di Auto­ nomia liberale continuò a giocare un ruolo importante in seno al partito, spingendo per una linea più marcatamente !iberista. Negli anni che sono sotto la nostra osservazione, il PLI sviluppa un dibattito interno in cui si riverberano tutti i sintomi della crisi che sta interessando il sistema politico italiano. Non mancano gli accenti premonitori, così come la capacità di cogliere gli elementi di novità, ma anche alcuni evidenti errori di valutazione. Di tale dibattito metterò in evidenza tre punti, che sono poi strettamente interrelati: il pro­ blema del rinnovamento della forma-partito tradizionale come strumento di lotta politica, ciò che rimandava direttamente ai problemi organizzativi interni al PLI, la discussione sui fattori di trasformazione e di crisi sistemica, con particolare riferi­ mento al sistema dei partiti, e il problema della partecipazione al governo.

2.

Il dibattito sulla forma-partito Un tema che emerge con nettezza nel dibattito di questi anni è sicuramente quello sulla forma-partito, rispetto al quale bisogna qui ricordare come in casa liberale, più che in altri contesti politico-culturali, esso ha assunto sempre connotazioni proble­ matiche. Sebbene negli anni della Repubblica il partito come strumento principe di lotta politica fosse stato ormai unanimemente accettato, è vero che ciò non servì a eliminare del tutto una storica idiosincrasia verso forme organizzative tanto "com­ piute" da rivelarsi costrittive nei riguardi della partecipazione individuale. Già negli anni immediatamente successivi alla caduta del fascismo, il rifiuto delle logiche prevalenti del partito di massa, che ricordavano così da vicino quello che era avvenuto nel passato regime, era netto. Lo scriveva molto chiaramente Mario Pannunzio in un editoriale di qualche mese precedente le consultazioni elettorali del 1946, quando appunto sosteneva che essere « massa » deriva dall'essere «parte indifferenziata di un tutto, dall 'aver perduto l'individualità delle idee, delle credenze, perfino dei gusti per divenire un granello di sabbia in un mucchio » . Ed evidentemente essere « massa in

4· E. Sterpa, La storia recente del PLI, 28 luglio 2004, in http:/ /www.cartalibera.it.

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questo senso » non poteva confacersi ai liberali e a « tutti coloro che rifiuta[vano] di marciare in ordine chiuso dietro alle bandiere rosse e alle bandiere bianche » 5• Si tratta di un contesto politico-culturale in cui è particolarmente sentito il dilemma tra il mantenere « una struttura nello stadio onesto e cordiale, ma antiquato, della persuasione e trovarsi in una posizione di costante inferiorità di fronte ad altri partiti, o passare alla "agitazione" rischiando con questo di rinnegare una parte dei presup­ posti razionalistici e di contribuire [ ... ] all'abbassamento del non troppo alto livello dell'educazione politica » , come si poteva leggere in un altro articolo pubblicato sul quotidiano del partito in quel periodo6• Quindi più che un'elusione totale dei problemi organizzativi, si trattò del perse­ guimento di un progetto ben preciso di costruzione di un partito d'opinione sul modello delle democrazie avanzate. Se si conduce uno studio attento sul primo sta­ tuto del PLI ( 1 944) ci si accorge di una struttura anche abbastanza articolata e diffusa capillarmente sul territorio, con attenzione nei riguardi delle categorie professionali e del lavoro, dei giovani e delle donne. L'attenzione verso gli aspetti funzionali e organizzativi è d'altronde confermata da una ripresa dell'attività di partito che in quegli anni interessa tutto il territorio nazionale. Sebbene sia errato pensare che si rimanesse su un piano puramente teorico, è indubbio però che tra le maglie delle disposizioni statutarie permanessero ampi spazi di libertà. E paradigmatico a questo proposito ciò che avvenne con l'organo di stampa del PLI, "Risorgimento Liberale", che di fatto fu sempre qualcosa d'altro e cioè un giornale che sacrificava volentieri l ' informazione di partito per dare spazio alla critica letteraria, al teatro, alla musica, al costume, allo sport. Con grande beneficio per la qualità dell'informazione e pari svantaggio per gli interessi della macchina organiz­ zativa. E ciò proprio in omaggio ali' idea che non ci si dovesse rivolgere a una platea di militanti, ma a un pubblico di lettori coscienti e già capaci di un 'opinione. L'idea di partito che nutrivano i liberali si basava su un assunto forse troppo ottimistico e cioè che gli italiani dopo vent'anni di fascismo fossero stanchi della propaganda, delle celebrazioni, dell' inquadramento, della tecnica dell'agitazione, ciò di cui invece si trova traccia consistente nello strumentario dei partiti di massa della nuova Italia. Nello stesso tempo, la nuova organizzazione non riuscì a imporsi a quelle logiche notabilari ben sedimentate sin dai tempi dell' Italia prefascista, che caratterizzavano i rapporti politici soprattutto nelle aree del Mezzogiorno d' Italia. Un tessuto notabilare che comunque nelle prime consultazioni elettorali del dopoguerra in alcune aree aveva '

S· M. Pannunzio, La terza via, in "Risorgimento Liberale", 20 marzo I946. 6. Erasmo, La tecnica dei partiti, in "Risorgimento Liberale", 28 febbraio I94S· Sul problema partito nel contesto di neoliberalismo nel periodo della fondazione della Repubblica mi permetto di rinviare a G. Nicolosi, "Risorgimento liberale': Ilgiornale del nuovo liberalismo. Dalla caduta delfascismo alla Repubblica (I943-I94S), Rubbettino, Soveria Mannelli (cz) 2012, spec. pp. IS6-67.

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risposto più che bene ali ' appello della mobilitazione, garantendo risultati degni di un partito di massa, ma che in seguito al verificarsi dei primi cedimenti elettorali si rivelò un elemento di freno alla possibilità di mettere in campo strategie alternative. Fu Malagodi, come è noto, a intuire la necessità di un intervento di natura organizzativa, finalizzato proprio a ridurre la storica indisciplina liberale delle periferie. Un inter­ vento che dette i suoi risultati anche perché accompagnato da un'attività di elabora­ zione politico-culturale a tutto campo, rivolta non solo ai quadri, ma anche ai giovani, centrata sull'enucleazione di problemi concreti, portata avanti con intelligenza e per qualche tempo sorretta anche da adeguate fonti di finanziamento. Ma non è un caso che lo statuto del 1 9 5 3 venne successivamente rivisto in numerose occasioni. Negli anni sotto nostra osservazione, il dibattito sulla forma-partito è alimentato dal fatto che l 'organizzazione interna presenta ancora molti elementi di criticità: un partito percorso da rivalità a livello locale e nazionale, ad alto tasso di litigiosità, diviso in correnti, con insufficienti rapporti centro-periferia, con quadri periferici logorati, con enormi difficoltà finanziarie. Sono anni in cui sono ricorrenti, nelle assise nazionali, gli appelli per un maggiore spirito di lealtà, per un partito che avrebbe dovuto essere regolato « dai metodi della meritocrazia, senza burocrazie fini a se stesse » . Riguardo alla presenza di elementi poco operosi, soltanto preoccupati di occupare posizioni di sottogoverno, si sosteneva che andasse « riqualificata la cultura politica del partito, evitando le degenerazioni verso l'incultura dorotea » e ritornava la preoccupazione di scrollarsi di dosso l'etichetta di "liberali pantofolai", bisognava cioè essere « liberali combattivi, non radicali, né smodati, [ ... ] bisognava stare al governo per cambiare le cose e non per coprire le colpe degli altri » 7• La denuncia delle derive partitocratiche si accompagnava quindi a una riflessione sulle possibilità di revisione della forma-partito. Se al livello dell'azione politica vi era coscienza del fatto che un partito minoritario come il PLI non poteva permettersi un programma eccessivamente vasto, ma avrebbe dovuto concentrarsi su poche que­ stioni e sul portarle avanti con coerenza, dal punto di vista organizzativo si avvertiva la necessità di un'apertura nei riguardi della società civile. Soprattutto a partire dal 1 9 9 0, negli atti interni si trovano numerosi accenni a una « rifondazione del partito » e alla sua capacità di modernizzarsi, di « rianno dare i fili del discorso con la gente » , diceva Altissimo. Il segretario denunciava come nell'organizzazione vi fossero « alcune spaventose smagliature, alcuni incredibili buchi neri » ai quali si sarebbe dovuto provvedere « affrontando senza remo re e con grande determinazione la ricostruzione delle aree ad encefalogramma piatto » . Il modello auspicabile era quello di un partito in cui non « imper[assero] i notabili » , capace di ristrutturarsi « in modo aperto, con il contributo di circoli, clubs, associazioni di area, personalità della cultura e delle professioni » 8• 7· Atti del Consiglio nazionale del PLI del I 0 -2 giugno I990, relazione di R. Altissimo. 8. Ibid.

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Un partito più autorevole per Biondi era un partito svincolato dalle logiche di apparato, «più liberale, più aperto » , capace di promuovere « una vasta aggregazione delle forze liberali italiane » . Sempre Biondi riteneva che il PLI avrebbe dovuto essere in grado di trasformarsi in movimento, raccogliendo i segnali che giungevano dal paese e guardare a quei settori della società civile che non godevano di protezioni corporative e alle cui esigenze poteva dare voce9• « Umanizzare la politica » , questo doveva essere il compito del PLI, che al XXI Congresso del 1991 aveva scelto lo slogan «Lo Stato dei partiti deve lasciare il posto allo Stato dei cittadini » 10, congresso in cui fu lanciato un corposo disegno riformatore e, come vedremo, coronato da un relativo successo elettorale nelle elezioni del s aprile 1992.

3

La percezione della crisi del sistema Già al Consiglio nazionale del marzo del 1 9 8 9, in prossimità delle elezioni europee e con un governo De Mita agonizzante, in seno al PLI, che aveva Zanone come ministro della Difesa e i due sottosegretari Costa (Lavori pubblici) e De Luca (Finanze), si sottolineava la necessità di un grande rinnovamento del panorama politico, il cui dato più evidente era l'impasse dell 'azione di governo in materia eco­ nomica, rallentata, per non dire paralizzata, dall 'eccessiva conflittualità interna alla maggioranza e addirittura tra ministri dello stesso partito - ministro del Tesoro era Giuliano Amato, delle Finanze Emilio Colombo e del Bilancio Amintore Fanfani. In particolare, si notava come la persistente conflittualità avesse causato uno scellerato dilazionamento della manovra, con conseguente aggravamento della situazione dei conti pubblici, sui dettagli dei quali non mi soffermo. Nella sua relazione Renato Altissimo metteva soprattutto in evidenza la rinuncia a varare una qualsiasi strategia di rientro dal debito pubblico e ciò sia per ragioni di tipo elettoralistico-clientelare - comportamento che veniva giudicato « meschino e irresponsabile » -, sia per resi­ stenze di tipo ideologico, per paura che ci fosse qualcuno che volesse smantellare lo stato sociale e non invece «le sue bardature assistenziali e clientelari » , cioè il « wel­ fare all'italiana » , che veniva giudicato come « un ibrido impasto di tutela per tutti e di burocratismo inefficiente » 11• Il problema del risanamento economico per il PLI non poteva essere disgiunto da quello delle riforme istituzionali, finalizzate a un vero ammodernamento dello Stato, giudicato indispensabile anche nei riguardi dell'integrazione europea. Nel 9· Atti del Consiglio nazionale del PLI del I 0 -2 giugno I990, intervento di A. Biondi. IO. Gli atti del convegno sono in Archivio storico della Camera dei deputati, Archivi privati, Valerio Zanone, b. 240. 1 1. Atti del Consiglio nazionale del PLI del I7-I8 marzo I989, intervento di R. Altissimo. 294

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periodo in esame sono pressoché costanti le denunce di una cultura politica domi­ nante impregnata di consociativismo, in cui i ruoli di governo e opposizione non emergevano più con sufficiente nettezza, così come si registrava - è ancora Altissimo che parla - « lo scetticismo, la sfiducia dei cittadini a riconoscere all 'attuale organiz­ zazione del nostro sistema politico la capacità di promuovere i cambiamenti, le riforme, la modernizzazione che la società stessa richiede » Dopo le elezioni europee del 1989, in cui c 'era stato un indietreggiamento com­ plessivo della maggioranza di governo (dal 5 7,3 al 54,8%), questa esigenza di riforma dello Stato si fa più urgente, per recuperare « gli errori e i guasti prodotti dallo scarso rispetto istituzionale e dalla scarsa considerazione degli interessi generali che era stata propria delle classi e dei partiti egemoni dopo il tramonto dello Stato liberale » 13. Nella relazione al Consiglio nazionale del 7-8 luglio si denunciavano l'elefantiasi della struttura pubblica, i bassi livelli di efficienza, normative e regolamenti di difficile se non impossibile applicazione, sprechi e logiche clientelari con frequenza sempre più incalzante. Secondo Altissimo, « il pubblico era ormai sentito come asservito a logiche di parte, sembra[ va] aver perduto il suo ruolo di garante del regolare sviluppo sociale, [perché] espandendosi per ogni dove, veniva utilizzato sempre più impro­ priamente come strumento di controllo sociale e come cinghia di trasmissione del consenso » . Senza mezzi termini, si giudicava la situazione « giunta a livelli insoste­ nibili [per cui] solo un elevato ricorso a cure liberali » avrebbe potuto sanarla e consentire allo Stato di liberare energie per rivolgerle verso altri fronti di intervento. Quali erano queste ricette liberali ? In primo luogo uno snellimento del pubblico attraverso le privatizzazioni, quindi l'ampliamento della fetta di mercato e della produttività, la necessità di introdurre vincoli e garanzie di bilancio, ma si parlava anche di una necessaria delegificazione, di una riforma delle autonomie locali, in particolare dell'elezione diretta del sindaco, e di nuovi meccanismi elettorali per un contatto maggiore con i cittadini, ambito di intervento nel quale maturano le rifles­ sioni sull 'abbandono della proporzionale. Di particolare interesse sono le posizioni del PLI in ordine ai fattori di cambia­ mento del sistema dei partiti. Nel corso del 1989 le attenzioni sono ovviamente rivolte a quello che avviene nei paesi dell ' Est europeo : l'ultimo Consiglio nazionale di quell 'anno veniva aperto da Altissimo con parole di omaggio alla dissoluzione del sistema sovietico e alla crisi del comunismo, « di quella drammatica utopia nel nome della quale milioni e milioni sono stati e restano oppressi [ ... ] un 'utopia crudele che è costata al mondo decenni di tragedie, di brutali repressioni, e di speranze deluse per chi aveva aderito sotto la protezione delle libertà occidentali e senza dover vivere nel comunismo realizzato » , sosteneva il segretario14• Ciò ovviamente nella convina.

I2. Ibid. I3. Atti del Consiglio nazionale del PLI del 7-8 luglio I989, intervento di R. Altissimo. I4. Atti del Consiglio nazionale del PLI del I 0 -2 dicembre I989, intervento di R. Altissimo.

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zione che il crollo del sistema sovietico avrebbe inevitabilmente avuto delle ripercus­ sioni sul nostro sistema politico. Si guardava « con attenzione e con grande rispetto » ai possibili mutamenti che avrebbero interessato il P C I , anche consapevoli che si sarebbe trattato di un processo di trasformazione lungo che certo non si sarebbe concluso con un congresso straordinario e che la svolta sostanziale sarebbe stata « molto più complicata » di quella formale. Questo realismo, molto diffuso tra i liberali, derivava dal fatto che il P C I in fondo non aveva voluto anticipare sviluppi ampiamente prevedibili. In quell'occasione Zanone rilevava che la « grande » deci­ sione di rinnovare il P C I avrebbe avuto un senso soltanto se fosse stata collegata a una capacità di preveggenza degli sviluppi politici e storici, mentre invece era avve­ nuto tutto il contrario : « Si è dimostrato che il legame dei comunisti verso i paesi dell' Est è tanto forte che stanno fermi anche quando questi regimi decidono di cambiare rotta » \ concludeva Zanone. Lo stesso realismo si ritrovava in chi sosteneva che il processo di trasformazione del PCI in Italia presentava maggiori difficoltà, perché la scelta dei comunisti italiani era stata consapevole e non imposta dall'Armata rossa. Sebbene non apparissero ancora chiari gli sbocchi che avrebbe potuto avere la trasformazione del più grande partito comunista dell' Occidente - « imbroglio tra­ sformista, socialismo massimalista o socialismo democratico » - di certo era avvertita la possibilità che, come diceva il segretario del PLI, quel « delicatissimo mix di Cip­ puri e di signore borghesi impegnate, di intellettuali organici e di amministratori locali deviati, come gli altri, da logiche clientelari e di potere, di ambientalisti luddisti e di operai furibondi per le fisime dell' inquinamento » , insomma quel coacervo di tipi sociali, di idee e di passioni « rischiava di perdere equilibrio e saltare » 16• La relativa fiducia su una trasformazione sostanziale del P C I , nel modo di pensare e di fare la politica, si affievolisce nel corso del 1 9 9 0, tanto che nel Consiglio nazio­ nale di dicembre si denunciava che il partito che stava avviandosi a diventare PDS aveva ancora « nelle corde le vecchie logiche staliniste » : il riferimento era alla stru­ mentalizzazione della vicenda di Gladio, in occasione della quale il PCI secondo Altissimo dimostrava di non avere perso il vizio di « riscrivere la storia d' Italia » , di chiamare in causa la C IA, i servizi segreti e ovviamente la massoneria per spiegare la sconfitta del comunismo e il rallentamento della « trionfale marcia della classe ope­ raia » . Per l'occasione, era stato messo in campo un vasto schieramento di forze, spiegava Altissimo, che va dai pasdaran del Manifesto, ai professorini capaci di sostenere con belle argomenta­ zioni ogni tesi, ai Guru dell' informazione, ancora orfani del compromesso storico, a certi ambienti della magistratura, che per sfortunata coincidenza (di cui non manchiamo di so tIS. lvi, intervento di V. Zanone. I6. lvi, intervento di R. Altissimo.

I L PLI NELLA C RI S I DELLA PRIMA REP UBB LICA tolineare la casualità) risultano sempre omogenei con i disegni studiati a tavolino da Botteghe Oscure, ai militanti ancora storditi dalle mazzate dell'89 e terribilmente vogliosi di rivincita.

Un atteggiamento che secondo il segretario in realtà copriva la mancanza « di un serio progetto di governo per una società postindustriale, confermando che una cultura di governo non la si inventa dall 'oggi al domani » 17• Non meno interessanti sono le posizioni nei confronti del fenomeno leghista, di cui nel PLI si comincia a parlare attorno alle europee del 1989, ma soprattutto in sede di analisi del voto delle regionali del 1990, quando l'allora Lega lombarda sfiora il 20% in Lombardia, elezioni che facevano registrare il crollo del maggiore partito di opposizione, in cui il PLI non riusciva a invertire a proprio vantaggio il trend elettorale negativo e che soprattutto avvertiva la minaccia al proprio serbatoio di voti nel Nord•8• Nella sua relazione al Consiglio nazionale - siamo ai primi di giugno del 1990 - il segretario vedeva nel successo della Lega una «fortissima carica di potenza antisistema » , ma invi­ tava a comprendere «le ragioni profonde di quel voto » che quindi non andavano né esorcizzate, né criminalizzate19• Certo, per un partito che aveva nel suo DNA i valori unitari, la distanza dalle rivendicazioni leghiste rimaneva abissale, ma si registravano voci attente nei riguardi del fenomeno : Malagodi, ad esempio, giudicava inaccettabili certe istanze quali il federalismo estremo o la contrarietà a qualsiasi forma di immigrazione, ma allo stesso tempo spingeva a battersi per un riequilibrio della situazione dei servizi pubblici che si lamentava da anni. Salvatore Valitutti, indignato per alcune esternazioni sul Risorgimento nazionale, spiegava il dilagare delle leghe con l'indebolimento dello Stato scaturito dal prevalere dei partiti di massa, soprattutto della DC «che ha il senso della Chiesa ma non dello Stato » , sosteneva da presidente del partito. li fenomeno non andava trattato né con arroganza, né con sottovalutazione, ma appariva chiaro come esso rappresentasse una protesta contro tutto il sistema politico, che coinvolgeva tutti i partiti, comprese le opposizioni. Anche Egidio Sterpa, che dichiarava la propria indispo­ nibilità a qualsiasi forma di collaborazione, riteneva però che il fenomeno non poteva essere superficialmente liquidato con banali accuse di qualunquismo, perché per le leghe I7. Atti del Consiglio nazionale del PLI del 30 novembre-Io dicembre I990, intervento di R. Altis­ simo. I8. Alle elezioni europee del I989 le varie leghe autonomiste si erano presentate con il cartello "Alleanza Nord", conquistando il 3,7% dei voti nell' Italia settentrionale, con la Lega lombarda che in Lombardia raggiungeva l ' 8,I%. Alle regionali del I990, la Lega lombarda conquistò invece più di un milione di voti, con una percentuale del I 8,I%, diventando così il « secondo partito della regione più popolata e più ricca d' Italia » (cfr. R. Biorcio, La rivincita del Nord. La Lega dalla contestazione al governo, Laterza, Roma-Bari 20IO, pp. 6 ss.). Da notare che il successo significava l 'elezione di circa 700 consiglieri, tra regionali e comunali, e l'elezione del primo sindaco leghista in provincia di Bergamo (cfr. G. Passarelli, D. Tuorto, Lega e Padania. Storie e luoghi delle camicie verdi, il Mulino, Bologna 20I2, pp. 38 ss.). Sullo stesso argomento, cfr. anche il pionieristico I. Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma I993· I9. Atti del Consiglio nazionale del PLI del I 0 -2 giugno I990, intervento di R. Altissimo. 297

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avevano votato ceti professionali e imprenditoriali che in quel modo avevano inteso esprimere una protesta contro le disfunzioni del sistema, le lungaggini di una burocrazia inefficiente, gli scandali e le lottizzazionilO. C 'erano poi posizioni più avanzate come quella di Mario Dolando, il quale vedeva nel leghismo il segno di un quadro politico in movimento ma in una direzione diversa dopo quarantacinque anni di orientamento a sinistra. Si trattava di una tendenza verso una « destra diversa da quella conosciuta in passato » e non di un voto di protesta, ma di un voto politico e allora il PLI avrebbe dovuto svolgere una funzione di argine, di salvaguardia del regime democratico inter­ cettando quei voti « in un momento di aggregazione di centro-destra » al fine di evitare che quegli stessi voti venissero polarizzati dall'estrema destra. Sosteneva Dolando: Una collocazione di centro-destra del partito costituisce una vera salvaguardia verso lo stra­ volgimento dell'assetto democratico ; sarà infatti un tutt'uno con la caduta del sistema par­ titocratico se il Partito liberale non si farà carico di individuare una alternativa democratica all'orientamento che l'elettorato sta dimostrando di assumere.

Una posizione che veniva accompagnata da una mozione di sfiducia nei confronti della segreteria Altissimo, con l'obiettivo di promuovere un cambiamento di « uomini, metodi, strumenti, prospettive, partendo dall 'alto e dal basso del partito » l1• In generale, era ben chiaro che quel voto veniva anche dal centro e quindi da un elettorato che poteva essere anche liberale. Raffaele Costa non aveva dubbi sul fatto che il PLI avrebbe dovuto aprire un dialogo con le nuove forze, avrebbe dovuto agire a tutto campo e sottoporre a verifica quanto di liberale vi fosse nelle nuove manife­ stazioni politiche. Nonostante il fenomeno leghista fosse un'ulteriore dimostrazione della « voglia di opposizione » presente nella società italiana, non era utile però « intensificare i toni minacciosi nei confronti del governo, ponendo in termini dubi­ tativi la presenza liberale nella coalizione » . Costa insomma sosteneva con forza il ruolo governativo del PLI, in accordo con la maggioranza del partito, nella convin­ zione che ciò consentiva « di evitare i guasti peggiori » n.

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Il dilemma della partecipazione al governo La posizione di Raffaele Costa al Consiglio nazionale del 1 9 9 0 è indicativa di un atteggiamento del partito nei confronti della partecipazione al governo che è del tutto particolare. Per tutto il periodo sotto nostra osservazione il dato di fondo è 20. Atti del Consiglio nazionale del PLI del I 0-2 giugno I990. 2I. Ibid. 22. Ibid.

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costituito dalla difficoltà di svincolarsi da equilibri e logiche di un sistema che pure si condannava. Il PLI aveva affrontato le elezioni europee del 1989 con la formula dell'alleanza con i repubblicani, ma aperta anche ai federalisti europei, ai radicali e agli ambientalisti, intesa come fase per la costruzione di un ipotetico polo laico liberai-democratico, alleanza che era stata votata a grande maggioranza al Congresso del 1988, una strategia che sotto diverse forme aveva caratterizzato a più riprese la vicenda del PLI negli anni della Repubblica, tanto che c 'era chi vedeva nella proposta di Altissimo un collegamento al filone culturale di Pannunzio e degli Amici del mondo, e che ora si giustificava anche in vista di una possibile scomposizione del quadro politico. Già prima di quelle elezioni europee, dalle quali tra l'altro il patto federativo uscì sonoramente battuto, tale strategia di alleanze attirava su di sé molte attenzioni e molte critiche. C 'era chi metteva a nudo la natura verticistica dell 'accordo, chi ne criticava una malcelata funzione antisocialista, chi guardava alla difficoltà dei rapporti con i radicali, in seno ai quali le posizioni « autenticamente liberali erano minori­ tarie » , o con i Verdi, che non avevano « assolutamente nulla di liberale » , o con i repubblicani, che, come ricordava Salvatore Carrubba nel 1 9 8 9, con Ugo La Malfa avevano propugnato sino a poco tempo addietro una « austerità savonaroliana, chie­ dendo ad esempio di bloccare lo sviluppo della TV a colori o di introdurre la pena di morte per i terroristi » . Per non dire poi della distanza sul piano della filosofia economica che, « da parte repubblicana, si caratterizza [va] attraverso una visione strettamente oligarchica della finanza, certamente ben lontana dalla logica liberale del mercato » . L'analisi di Carrubba presenta motivi di particolare interesse, soprat­ tutto nella critica a una convergenza di natura esclusivamente sociologica, ciò che portava a «una sorta di partito borghese del 3% sul modello del Partito d'azione » , la cui esperienza, notava giustamente il consigliere nazionale, non poteva certo con­ siderarsi « felice » 13• Non un « matrimonio d'amore ma una scappatella elettorale estiva » , dichiarava sarcasticamente Costa nella stessa occasione e che infatti era stata puntualmente punita dagli elettori, che dettero soltanto un esiguo 4,4% alla coali­ zione4. Diversamente da coloro che spingevano sin da subito per una maggiore caratte­ rizzazione liberale del partito anche passando ali 'opposizione, come Antonio Mar­ tino, l'alleanza liberai-democratica viene ribadita da Altissimo in vista delle ammini­ strative del 1 9 9 0, quando lo scenario politico, caratterizzato da una perdurante conflittualità tra P C I e P S I , allontanava ogni ipotesi di alternativa di sinistra e quindi la possibilità per l 'alleanza laico-democratica di giocare un ruolo di arbitro tra forze moderate e conservatrici da una parte e forze laburiste dall'altra. Nella totale immo­ bilità del quadro politico, non rimaneva cioè che la possibilità di una collaborazione 23. Atti del Consiglio nazionale del PLI del I7-I8 marzo I989, intervento di S. Carrubba. 24. Ibid. 2 99

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tra D C , laici e socialisti, ma in seno alla quale si invocava un cambiamento degli equilibri a vantaggio delle forze liberai-democratiche. I non buoni risultati delle amministrative del 1 9 9 0 consigliavano di caratteriz­ zare maggiormente l'azione, e già al Consiglio nazionale del giugno di quell'anno si considerava possibile un deciso passaggio all 'opposizione, per dire « no alla cor­ ruzione politica, alla lottizzazione dilagante, alla delinquenza ed all' intrallazzo ormai imperanti » 2.5• A fine anno c 'era chi dichiarava finito il Pentapartito e che bisognava andare oltre sulla strada dell'evoluzione politica, una strada in cui le riforme istituzionali dovevano costituire la premessa rispetto alle alleanze di governo. Al Consiglio nazionale dell'ottobre del 1 9 9 1 , nella sua relazione generale Altissimo faceva un'analisi impietosa di quella « felice intuizione » che era stata il Pentapartito, con un PRI che era uscito dalla maggioranza - non partecipa, infatti, al VII governo Andreotti - facendo fallire quella che ancora veniva giudicata come « la grande occasione di incontro e di collaborazione tra le forze liberali democra­ tiche » . Molto severo era il giudizio sul PSI, che dava segnali controversi, che aveva messo in un angolo la "grande riforma" e invece di approfondire il suo discorso sul presidenzialismo, aveva partorito « il topolino » dello sbarramento elettorale del s%, « una propostina che più che agli interessi generali del Paese e all 'ansia di riforme che cresce tra la gente, sembra [va] guardare ai propri interessi di parte » , sosteneva Altissimo, e che certo non poteva piacere ai liberali. Un PSI che veniva accusato di una « concezione imperialistica » e « non consensuale all ' interno dell'area laico-socialista » e al quale si rimproverava che un partito che voleva essere della modernizzazione non poteva poi opporsi a una riforma del sistema pensioni­ stico che mantenuto tale prometteva solo di affondare. Con particolare veemenza, al PSI si rimproverava di avere stravolto la politica delle privatizzazioni per lasciare ai boiardi di Stato la possibilità di guidare senza rischi la maggior parte del sistema economico del paese, e qui il riferimento era all'acquisto di Enimont da parte dell' ENI, aspramente criticato in seno al Consiglio nazionale del partito e conside­ rato un grave scacco alla lotta contro lo statalismo. Secondo Altissimo, a Craxi andava ricordato che soltanto le riforme istituzionali da un lato - in quella stessa sede furono manifestati apprezzamenti per il referendum Segni sulla preferenza unica - ed economico-strutturali dall'altro, « realizzate a colpi di mercato » , avreb­ bero potuto rendere possibile una fuoriuscita dallo stalla che stava uccidendo il sistema. In particolare sulle privatizzazioni, il segretario sottolineava come l'economia pubblica costituisse il vero « cavallo di troia » del sistema che aveva consentito l'oc­ cupazione partitica, ciò che in realtà rendeva la resistenza così tenace. In un passaggio denunciava la « sudditanza culturale anche di ambienti borghesi alle ammuffite parole d 'ordine di vetero-statalisti » , con una accusa diretta a Giorgio La Malfa, che

25. Atti del Consiglio nazionale del PLI del I 0-2 giugno I990. 3 00

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mentre si dichiarava timidamente a favore delle privatizzazioni, sentiva il dovere di sottolinearne « le motivazioni esclusivamente contingenti » e di prendere le distanze da un «liberi sta » come Altissimo, che a sua volta definiva La Malfa come « il figlio del nazionalizzatore dell ' ENEL » l6• Insomma un quadro del tutto scomposto, ma dal quale i liberali vennero fuori bene, almeno per il momento, premiati dalle elezioni del s aprile 1992, in cui il PLI registrava una crescita al Nord con il 2,7% (dal 2% delle regionali del 1990 e dal 2,4% delle precedenti politiche) ; al Centro con il 2,5% (dall ' 1,4% delle politiche e delle regionali) e al Sud con il 3,2% (dal 2,3% delle regionali e dal 2% delle politiche) . Un successo che era dovuto soprattutto alla maggiore capacità del PLI di distinguersi dalla maggioranza di governo in termini di volontà di rinnovamento, di distanza dalle logiche partitocratiche e anche di moralità pubblica. Una maggiore visibilità acquisita grazie all'azione dei ministri De Lorenzo e Sterpa, l 'uno sul fronte della riforma sanitaria e l'altro del decreto sulle privatizzazioni, due provvedimenti dura­ mente avversati dall'establishment partitocratico, e di Raffaele Costa per la sua denuncia delle storture della pubblica amministrazione. A dimostrazione di quanto sostenuto in apertura, bisogna ricordare che l'azione della delegazione liberale nel VI e nel VII governo Andreotti, con i ministri Sterpa (Rapporti con il Parlamento) e De Lorenzo (Sanità) e i sottosegretari De Luca (Finanze) e Fassino (Difesa), fu particolarmente incisiva, anche perché trovava sponda in un ministro del Tesoro "vicino" agli ideali liberali del calibro di Guido Carli. C 'è un intervento parlamentare di Sterpa in sede di dibattito per la conversione del D.L. I I luglio 1992, n. 333, recante misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica che è molto indicativo della propositività della delegazione liberale e nello stesso tempo della sua impotenza rispetto alle imperanti resistenze. In quell'occasione, evocando il decreto sulle privatizzazioni presentato dal presidente Andreotti e dal ministro Carli (poi trasformato nella legge 29 gennaio 19 92, n. 3 S l7), Sterpa sosteneva come quella legge, « nata tra lo scetticismo di molti, su insistenza ultimativa dei liberali e con la convinta adesione del ministro Carli » , segnasse « un passaggio epo­ cale nel nostro Paese » , ma proprio per questo aveva aperto un « capitolo ancora tutto da scrivere e non certamente tra i più edificanti del cosiddetto stato imprendi­ tore » . Avvertendo come si fossero verificate in seguito a quel provvedimento « bat­ taglie furiose all ' interno degli enti, con aspetti anche umilianti » che erano « il segno più cospicuo di un certo degrado della cosa pubblica » , Sterpa denunciava come nell'iter parlamentare si fosse provveduto a un vero stravolgimento degli iniziali propositi di privatizzazione, come nel testo si parlasse di « riordino » delle parteci­ pazioni statali, ma non ci fosse poi « una sola parola che stabili [sse] o dett[asse] 26. Atti del Consiglio nazionale del PLI del 25-26 ottobre I99I, relazione di R. Altissimo. 27. Con il titolo Trasformazione degli enti pubblici economici, dismissione delle partecipazioni statali ed alienazione di beni patrimoniali suscettibili di gestione economica. 3 01

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norme per il prosieguo di tale cammino » . In tempi in cui erano davvero in pochi a parlare di questi temi, si sosteneva che « la via delle privatizzazioni è ineludibile e fatale: la impongono e la imporranno sempre di più la crisi finanziaria dello Stato - che non ha precedenti - e la crisi parallela del sistema politico e dei partiti » . Alla fine Sterpa votò, per lealtà governativa, un testo di legge che egli giudicava un passo avanti, ma il cui esito era tutt'altro che sicuro. Riguardo alle privatizzazioni, si poteva infatti fare affidamento « sul dinamismo della storia [ . . . ], ma un po' meno, diciamolo pure, sulla volontà degli uomini » , concludeva amaramente8•

s

Conclusioni Il Consiglio nazionale del maggio 1992 si svolge nella fase decisiva di quel processo di crisi del sistema politico italiano cui Tangentopoli dette una spallata decisiva. E abbastanza indicativo come dagli atti interni traspaia la coscienza di un'assoluta estraneità al malaffare politico e anzi tutto l'orgoglio di un partito per il quale non ci può essere buongoverno senza moralità pubblica, senso delle istituzioni, coscienza degli interessi nazionali. Quale elemento di criticità interna vi era sì abbastanza dif­ fusa la denuncia di quelle logiche "assessorili" che soprattutto nelle sue aree perife­ riche interessavano anche il PLI, quale segno di deriva partitocratica cui non si sfuggiva, ma che appunto venivano giudicate come qualcosa di assolutamente con­ trario all 'ontologia liberale. Ma, per il resto, sono anni in cui il PLI si spende attiva­ mente, soprattutto per il tramite di Raffaele Costa, in una denuncia costante dei guasti della pubblica amministrazione e del malcostume istituzionale, ciò che, come sostenuto sopra, dette una certa visibilità all'azione del partito e fece guadagnare consensi elettorali. Quando si apre il Consiglio nazionale dell' 8- 9 maggio 1992 ci sono dunque tutti i presupposti per guardare al futuro con un relativo ottimismo, come se la crisi potesse in qualche modo risparmiare il PLI e anzi rilanciarlo verso nuove opportunità. Valerio Zanone sottolineava come alle elezioni del s aprile fossero state finalmente riconqui­ stare le posizioni raggiunte nel 1983, ricordava che erano già state avviate le trattative per l'elezione del nuovo capo dello Stato (Cossiga si era dimesso il 28 aprile di quell 'anno) e che quindi « un ciclo della vita pubblica italiana si era finalmente chiuso e un altro, nuovo, si sta[va] aprendo » 19• Dal punto di vista della linea politica da assumere, il PLI si batteva sulla necessità di distinguersi nella maggioranza quadripartita. D'altronde, la vicenda dei repubbli..

28. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XI Legislatura, Discussioni, seduta del 24 luglio I992, intervento di E. Sterpa. 29. Atti del Consiglio nazionale del PLI dell' 8-9 maggio I992, intervento di apertura di V. Zanone. 3 02

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cani, fuoriusciti dal governo, ma non abbastanza gratificati dalle urne (poco meno del s% sia alla Camera che al Senato, in aumento rispetto alle politiche del 1987, ma ancora sotto le percentuali del 1983), sconsigliava un passaggio all'opposizione. Ovviamente non mancava la percezione della complessità della situazione politica: per Altissimo, le dimissioni anticipate di Cossiga - considerato quasi un "medium" delle istanze innovatrici del PLI - erano un « estremo tentativo di sensibilizzazione della società civile sulla gravità del momento » che attestava la necessità di quella grande riforma istituzionale cui si guardava da tempo. La lettura dei risultati eletto­ rali del s aprile come «l' inizio del grande cambiamento » è una conferma che fosse presente l'idea che il PLI potesse giocare un ruolo importante nel processo di tran­ SIZIOne. Anche Altissimo non pensava nemmeno lontanamente che il PLI potesse essere coinvolto nel marasma giudiziario. Proponeva una riforma del sistema del finanzia­ mento dei partiti, « fallito per l' inconsistenza dei controlli, oggi solo formali » spiegava il segretario - e che andava superato attraverso « un meccanismo nuovo fondato sulla libera destinazione dei cittadini in sede di dichiarazione dei redditi » . Ma circa le inchieste, pur ricordando che per un liberale, rispettoso delle regole dello Stato di diritto, solo una sentenza passata in giudicato accertava e definiva respon­ sabilità penali, non esitò a schierarsi a favore della magistratura milanese, nei con­ fronti della quale ebbe parole di grande ossequio, che vale la pena citare: « Dopo anni di protagonismo, di teoremi costruiti a tavolino, dopo fiumi di dichiarazioni di natura politica [ ... ] avevamo perso l'abitudine di giudici schivi, lavoratori, senza alcuna voglia di apparire, ma solo pervasi da una grande passione per il loro dovere » . L'operato del giudice Di Pietro veniva giudicato « compassato e rispettoso » , se pur « fermo e deciso » , che restituiva fiducia nello « stato di diritto e nell ' imperio della legge » . In quell 'occasione si schierava anche a favore di una « restrizione della pro­ tezione dell'immunità parlamentare ai reati collegati alla libertà di espressione del pensiero dei parlamentari » 30• Anche se in realtà il discorso di una revisione dell' isti­ tuto dell' immunità parlamentare, che certo egli giudicava come un fattore di civiltà costituzionale, non era nuovo in casa liberale, avvertendo da tempo come si stesse trasformando ormai in un dilagante numero di casi in uno strumento di copertura del malaffare3• • E lecito pensare che non si trattasse di un'abdicazione al giustizialismo, ma, ..

30. lvi, relazione di R. Altissimo. 31. Cfr. la proposta di legge costituzionale presentata il 10 luglio I979 a firma Bozzi, Altissimo, Baslini e altri di Modifìcazioni all'istituto dell'immunita parlamentare previsto dall'art. 63 Cost. , che manteneva le immunità per le opinioni espresse e semplicemente modificava il procedimento nei riguardi dell'azione penale, per cui nessuna autorizzazione sarebbe stata necessaria, anche se la Camera alla quale apparteneva il deputato poteva deliberare la sospensione del procedimento, deliberazione che poteva essere motivata e adottata entro sessanta giorni dalla comunicazione dell'avvenuto inizio dell'azione penale a maggioranza assoluta e con voto palese.

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ancora, del tentativo di farsi portavoce di sentimenti largamente diffusi tra gli italiani, che, almeno inizialmente, guardarono con favore alle azioni giudiziarie, e in linea appunto con un'azione che il partito stava svolgendo da anni. Nella maggioranza dei casi infatti ci furono attestati di rispetto per la magistratura, non dimenticando che i liberali denunciavano da molto tempo una situazione della giustizia non consona a uno Stato di diritto, come ricordò proprio in quell'occasione Alfredo Biondi. E a dimostrazione di quanto sopra non mancarono manifestazioni di segno marcata­ mente garantista, innanzitutto di disapprovazione nei confronti delle reazioni scom­ poste che accompagnavano le gesta della Procura di Milano. Luigi Compagna, ad esempio, giudicava « inopportuno l'applauso con cui il pubblico invitato a una tra­ smissione televisiva ha seguito l'annuncio che un noto personaggio politico era stato incarcerato » . Per Compagna, in particolare, il problema della legalità nella vita interna dei partiti andava risolto vincolando questi a uno statuto, così da frenarne «l' invadenza » e fissarne «le responsabilità » . E aggiungeva: « Quanto alla prospet­ tiva del partito degli onesti è la stessa etichetta a essere offensiva. Per i liberali l'onestà è un presupposto della politica: i liberali non intendono utilizzare l'opinione pub­ blica come un tribunale che, sostituendosi alle istituzioni a ciò deputate, giudichi i poli tic i o gli amministratori pubblici » 3l. In questo senso era altrettanto eloquente la posizione del consigliere Tommaso Francavilla, che marcava una differenza tra l' integralismo di « tanti falsi profeti del moralismo i quali si travestono da Khomeini o Robespierre in sedicesimo » ( il rife­ rimento era alla trasmissione televisiva Samarcanda) e « la questione morale portata avanti con coerenza dai liberali » 33• Più radicale la posizione di Vittorio Sgarbi, secondo il quale il PLI aveva «per il futuro l'onere di aprire una diversa questione morale, quella di difendere la dignità storica dei partiti e del Parlamento, senza lasciarsi intimidire dalle iniziative di una certa magistratura d'assalto, spesso ispirata da personaggi il cui moralismo filisteo è il risvolto di un autoritarismo inaccettabile » 34• Intervento che fu ripreso nella replica di Zanone, che invece sosteneva che la magi­ stratura milanese dovesse essere sostenuta e invitata ad « andare fino in fondo, avendo dimostrato serenità e coraggio » 35• E difatti la magistratura andò avanti coinvolgendo anche il PLI nello stesso iter giudiziario che riguardò tutti i partiti della maggioranza di governo. Poco meno di un anno dopo quel Consiglio nazionale, nel marzo del 1 9 9 3 , Altissimo ricevette il primo avviso di garanzia che lo spinse a dare le dimissioni da segretario del PLI, dimissioni respinte dalla Direzione nazionale e ritirate, ma rinnovate nel maggio dello stesso anno e questa volta accettate, quando alla carica di segretario viene sostituito 32. Atti del Consiglio nazionale del PLI del1' 8-9 maggio 1992, intervento di L. Compagna. 33· lvi, intervento di T. Francavilla. 34· lvi, intervento di V. Sgarbi. 3S· lvi, replica di V. Zanone.

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da Raffaele Costa. Come è noto, il ministro De Lorenzo sarà poi al centro di un' in­ chiesta su tangenti nella sanità che ebbe non pochi risvolti oscuri, ma che molto contribuì nel clima di giustizialismo imperante in Italia a offuscare se non ad affossare del tutto quell 'immagine del PLI di partito "diverso" che aveva faticosamente difeso negli anni del Pentapartito. Una dichiarazione del presidente Zanone resa a margine della riunione della Direzione in cui erano state respinte le prime dimissioni di Altissimo, conferma come ancora in quella fase il PLI considerasse la dissoluzione del vecchio sistema politico come una grande opportunità. Disse in quell'occasione Zanone: « lo confido e pre­ vedo che dalla decomposizione dei partiti tradizionali, soprattutto dei grandi partiti di apparato, si costituirà un sistema politico completamente nuovo in cui una delle aggregazioni in campo può essere una aggregazione di stampo liberai-democratico » . La logica del passaggio al maggioritario e all 'uninominale - il 18 aprile si sarebbe tenuto il referendum sull'abrogazione del sistema elettorale vigente al Senato - ren­ deva ormai obsoleti i vecchi partiti: il PLI non avrebbe dovuto sciogliersi, ma trasfor­ marsi in quella forma associativa di cui si parlava da tempo, di « formazione dell 'opi­ nione » , con struttura molto leggera e diffusa sul territorio con associazioni, club, circoli. Continuava Zanone: « E la prima volta dal 1922 che i liberali possono avere una ragionevole ambizione e un realistico programma di governare l' Italia » . Riguardo ai risvolti dell 'inchiesta giudiziaria, era questa volta però più marcata la presa di distanza dal « clima da strage di Erode » - sono parole di Zanone - e dai metodi di giustizia sommaria che stavano avvelenando la vita politica del paese36• Renato Altissimo collezionò in seguito ben 19 avvisi di garanzia, ma dai quali uscì sempre a testa alta e con una sola condanna a 8 mesi per una tangente di 200 milioni di lire versati al PLI da Carlo Sama per conto dell'Enimont come con­ tributo per la campagna elettorale del 1992. A distanza di anni, la versione di Altis­ simo sui fatti di Tangentopoli e sull'operato della magistratura è sensibilmente dif­ ferente da quel giudizio dato in sede di Consiglio nazionale : il coinvolgimento personale viene giudicato « tanto ingiusto quanto pilotato » , uno dei molti tasselli di un quadro giudiziario visto come il risultato di un preciso disegno politico, un periodo oscuro della storia d' Italia in cui, insieme ai ladri, « i giornali e le procure fecero piazza pulita di tanti onesti che perseguivano un'idea » 37• Mentre Zanone proseguiva coerentemente il suo disegno di traghettamento verso un'aggregazione di centro-sinistra, dopo un anno di segreteria Costa, il xxn Con­ gresso del PLI che si svolse nel febbraio del 1994 dichiarò lo scioglimento del partito. Si chiudeva così la storia di un "piccolo partito d'opinione" la cui caratteristica più '

36. Intervista di Claudio Landi a Valeria Zanone del I 8 marzo I993, ora in Archivio di Radio Radicale, http:/ /www.radioradicale.it. 37· R. Altissimo in R. Altissimo, G. Pedullà, L'inganno di Tangentopoli. Dialogo sull'Italia a vent 'anni da Mani pulite, Marsilio, Venezia 20I2, p. 67.

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evidente nella fase in oggetto è quella di aver vissuto contraddittoriamente il proprio ruolo, un partito che sceglieva di essere là dove non avrebbe voluto essere, che par­ tecipava al governo della cosa pubblica volendo distinguersi dagli altri partiti della maggioranza, che denunciava prassi e "mentalità" di un governo di cui pure faceva parte. Una scelta che però deve essere messa in relazione con la tradizionale vocazione governativa della classe dirigente del PLI, costretta a tentare di instillare "gocce" di liberalismo in un contesto generale che ne diventava sempre più povero. Inoltre, non si può di certo affermare che non si fossero avvertite per tempo la distanza che divi­ deva il paese dalla sua classe politica, la deriva del sistema, e che il partito avesse subito passivamente la crisi. Le riflessioni sull' improcrastinabilità di una grande riforma istituzionale, sulla necessità di superare la forma-partito tradizionale, sull'e­ sigenza di interloquire con i nuovi soggetti della politica, erano pur sempre dei segnali di vitalismo. Ma ancor più indicativo in questo senso era l'emergere di due tendenze ben distinte, ambedue "figlie" della percezione della crisi: da una parte, vi era chi pensava che dopo il crollo del comunismo quel "piccolo" partito che si richiamava da sempre a valori vincenti, forte del patrimonio di cultura istituzionale che lo con­ traddistingueva, avrebbe potuto svolgere un ruolo fondamentale, se non di guida, di uno schieramento liberai-democratico di centro-sinistra in uno scenario libero da sovrappesi ideologici. Dall 'altra, vi era invece chi riteneva che la crisi irreversibile dei partiti di massa storici e la conseguente liberalizzazione del voto moderato avrebbero finalmente favorito la creazione di un soggetto nuovo, quel partito liberale di massa che da sempre costituiva un orizzonte del liberalismo politico italiano. Alla luce di questa consapevolezza, non si può certo affermare che alla classe dirigente del PLI fosse mancata la capacità di riflettere sul proprio futuro.

Il sistema dei p artiti dalla Prima alla Seconda Rep ubblica di Paolo Pombeni

I

Premessa: sistemi di partito e famiglie politiche Il problema della trasformazione del sistema dei partiti in dipendenza da un muta­ mento profondo del quadro politico nel cui contesto si era inizialmente formato non è stato investigato in maniera significativa dalla storiografia. Ciò dipende da una serie di fattori che indubbiamente rendono complessa l 'analisi. Innanzi tutto vi è da stabi­ lire se per mutamento del quadro politico intendiamo solo i cambi di regime costi­ tuzionale in senso stretto, oppure anche mutazioni legate a elementi che, pur non rientrando formalmente nella stabilizzazione prevista dalla Carta fondamentale, ne modifichino coordinate che per i cittadini hanno valore portante ( ad es. i cambia­ menti di legislazione in materia elettorale; una diversa distribuzione dei poteri fra le articolazioni dello Stato ) . In secondo luogo vi è da valutare che cosa si intenda per "sistema dei partiti": se il semplice panorama complessivo delle forze politiche orga­ nizzate, oppure la loro connessione, e, per alcuni versi, interdipendenza, nel quadro di un certo modo omogeneo di intendere la "forma-partito" e i ruoli a cui essa dovrebbe assolvere. Infine vi è da prendere in considerazione il molteplice contesto in cui inevitabilmente si colloca un sistema di partiti, cioè la cultura politica in cui si muove, la struttura sociale a cui fa riferimento, il contesto internazionale con cui deve confrontarsi. Per poter trarre qualche vantaggio nella considerazione del tema anche da un 'a­ nalisi di tipo comparatistico è dunque necessario circoscrivere il nostro campo di studio. Partiamo dalla considerazione banale che ci porta a restringere l'indagine ai partiti cosiddetti "moderni", cioè a quelli che agiscono come canali strutturati di raccolta e di gestione del consenso politico con capacità di coordinamento e di governo verso il personale dirigente che esprimono e con almeno la pretesa di offrire al loro elettorato un quadro ideologico entro cui esercitare le opzioni offerte per rispondere alle sfide che si incontrano. Escludiamo dunque ai fini di queste riflessioni il quadro offerto dai partiti nella loro fase ottocentesca, quando, come è ovvio, la mobilità delle appartenenze e la reattività ai mutamenti istituzionali era di tipo diverso. 3 07

PAO LO POMBEN I

Tuttavia, perché si possa parlare di "sistema dei partiti", è anche necessario che ci sia un certo quadro istituzionale che ne presuppone l'esistenza come snodi suoi propri (anche se lo fa magari malvolentieri) : solo questa condizione consente infatti di ragionare sulle ricadute di un cambiamento del quadro istituzionale su quel sistema di partiti con cui aveva instaurato una qualche forma di simbiosi1• Da questo punto di vista l'analisi si può applicare ad esempio al passaggio del sistema dei partiti in Germania dall' Impero alla Repubblica di Weimar e poi a quella di Bonn, mentre risulta più difficile per ciò che concerne la vicenda dei partiti poli­ tici francesi dopo il 19 19 e dopo il 1945, mentre è assai interessante rilevarlo per le vicende legate all'evoluzione della Quinta Repubblica. Anche in Gran Bretagna, dove apparentemente regna nel lungo periodo una maggiore stabilità, abbiamo invece evoluzioni interessanti dopo il 1945, ma soprattutto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. In Italia abbiamo un passaggio deciso nelle due fasi del 1 9 1 9 e 1945-46 (rispetto alle quali il fascismo è davvero una parentesi, per quanto significativa e pesante) per poi valutare, come faremo, quale sia stata la crisi che si è aperta anche qui a partire dagli anni Settanta del Novecento. A me sembra di poter dire, in premessa, che il problema essenziale non è mai veramente dato dai mutamenti istituzionali, radicali o meno che siano, ma dal sus­ sistere o meno di mutamenti strutturali profondi nella tessitura sociopolitica di un paese e nella sua cultura. Solo quando essi si verificano abbiamo ripercussioni signi­ ficative nel sistema dei partiti, mentre in caso contrario abbiamo solo adeguamenti del sistema alle nuove condizioni imposte dalle variazioni del contesto istituzionale. Ciò non significa che questi adeguamenti abbiano scarso peso e rilevanza, ma sem­ plicemente che appartengono alla fisiologia della presenza pubblica delle forze politiche. Per un certo periodo è stato comune ragionare dei sistemi di partito in termini di "famiglie politiche". Se prescindiamo dalle schematicità che usavano queste classi­ ficazioni come generali per tutto il contesto del costituzionalismo occidentale, pos­ siamo utilmente impiegare questo modello per valutare le trasformazioni dei sistemi di partito nel rapporto con il quadro dei mutamenti dei sistemi costituzionali. Da un lato possiamo infatti considerare che esistono mutazioni che non intaccano vera­ mente la strutturazione dell'opinione pubblica attorno a una serie di nuclei ideolo­ gico-sociali, perché contengono al più variazioni all'interno di ciascuna di esse. Dall 'altro lato possiamo verificare situazioni in cui invece la trama di questo tessuto per appartenenze a una certa serie di "famiglie" ideologico-sociali viene sconvolta e si ricompone in maniera realmente nuova rispetto al passato. Possiamo esemplificare questi passaggi con il rinvio a qualche caso storico. Nella 1. Per un inquadramento di questo approccio mi permetto di rinviare ai miei studi: Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea, il Mulino, Bologna 1994; La ragione e la passione. Le forme della politica nell'Europa contemporanea, il Mulino, Bologna 2010. 3 08

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storia dei sistemi di partito tedeschi, ad esempio, la strutturazione originaria in quattro grandi famiglie - conservatori, liberali, cattolici e socialisti - non muta nel passaggio dall ' Impero a Weimar, anche se all 'interno di ognuna di esse ( eccettuati i cattolici ) , vi sono disgregazioni e riaggregazionil. Con il passaggio al regime della Repubblica di Bonn, il sistema invece ha un sostanziale, seppur progressivo, muta­ mento : di fatto si assiste a una concentrazione bipolare, con una componente di centro-destra, la c n u- c s u ( Christlich Demokratische Union- Christlich-Soziale Union ) che non è più il vecchio "partito cattolico", e una che progressivamente diviene di centro-sinistra con la SPD ( Sozialdemokratische Partei Deutschlands ) che muterà pelle rispetto all 'antico blocco socialista di classe. In definitiva, come notò Kirchheimer in un famoso articolo, si trattava in questo caso di partiti veramente nuovi, in quanto orientati non più alle vecchie logiche identitarie delle ideologie, ma alla ricerca dell 'acquisizione del più ampio consenso possibile ( i catch-al/ parties3) . Se facciamo un cenno alla vicenda francese, vedremo invece una più lenta tra­ sformazione, perché qui la tradizionale divisione fra partiti conservatori e partiti radical-progressisti, che ha sempre conosciuto quasi un caos di sigle in ciascuno dei due campi, è dapprima leggermente incrinata dalla presenza post-1945 di una polarità cattolico-sociale, il Mouvement Républicain Populaire ( M RP, peraltro destinato a scomparire negli anni Sessanta) \ e di una comunista ortodossa, ma poi è radical­ mente costretta a ristrutturarsi dal successo della sfida gollista, però solo a partire dalle elezioni presidenziali del 1962, per giungere infine a una ricostruzione di due campi contrapposti che potremmo identificare come postgollisti e postantigollisti, sebbene in entrambi i campi la tradizionale abbondanza di sigle e di mutazioni sia rimasta ben viva5• 2. Nell 'universo, in senso lato, di destra, ai due tradizionali partiti dell' Impero, i Deutsche Kon­ servative e i Freie Konservative si sostituì un solo partito, il Deutsche Nationale Volkspartei, che assorbì anche una parte dei nazional-liberali; una parte di questi ultimi assieme al Partito liberale progressista confluì nel Deutsche Demokratische Partei, mentre altri diedero vita al Deutsche Volkspartei di Stre­ semann in cui si erano riconosciuti anche componenti dei precedenti partiti conservatori. li centro cattolico, come abbiamo detto, rimase intatto (a parte qualche sbandamento in Baviera), mentre a sinistra la SPD, che aveva già avuto una scissione sulla sua sinistra con i socialisti "indipendenti" ( usPD, Unabhangige Sozialdemokratische Partei Deutschlands), sopportò come tutti i partiti socialisti europei la scissione comunista che diede vita al KPD (Kommunistische Partei Deutschlands). Come si vede, si trattava più di mutazioni dentro il sistema delle famiglie politiche tradizionali che di un quadro poli­ tico nuovo. Ovviamente la novità fu costituita dai nazisti ( NSDAP ), che però ebbero un impatto a partire dal 1926 e specialmente dal I929. La loro estraneità al sistema dei partiti tedesco è evidente in quanto puntarono, purtroppo con successo, a cancellarlo. 3· L'articolo in cui per la prima volta compare questa analisi (allora applicata al CDU con critiche alla SPD per non essersi saputo adeguare ai cambiamenti) è: O. Kirchheimer, Notes on the Politica! Scene in Western Germany, in "World Politics", I9S4· 6, pp. 306-2I. 4· Su questa vicenda, cfr. M. Marchi, Alla ricerca del cattolicesimo politico. Politica e religione in Francia da Pétain a De Gaulle, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 20I2. S· Cfr. J. Garrigue, S. Guillame, J.-F. Sirinelli (dirs.), Comprendre la V" République, PUF, Paris 20IO.

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Sono considerazioni che butto lì per accenni, non essendo possibile in questa sede una valutazione più ampia. Mi servono solo per sottolineare che anche in questi casi sarebbe possibile investigare la presenza dietro quelle evoluzioni non soltanto di mutazioni costituzionali, ma, in maniera altrettanto significativa, di evoluzioni a livello sia culturale sia di trasformazioni nella struttura sociale del paese. Tutto questo è posto come premessa per affrontare, nei termini sommari possibili in questo contesto, il tema dell'evoluzione del sistema dei partiti in Italia fra "Prima" e "Seconda Repubblica". I due termini sono molto discussi e discutibili, ma rappre­ sentano in ogni modo la consapevolezza che si è verificata in Italia una rottura epocale che pur non essendo stata di natura veramente costituzionale ( sebbene muta­ menti non insignificanti sarebbero da sottolineare anche a quel livello ) 6 , è stata egualmente percepita dalla coscienza comune come periodizzante.

2. 1 9 9 2. :

la fine di una lunga stabilità

Il sistema italiano dei partiti è stato caratterizzato dopo il 1 94 5 da quattro componenti: tre famiglie centrali, cioè quella cattolica, quella social-comunista e quella cosiddetta "laica", che erano espressione di tre subculture sociali profondamente radicate, più una componente sopravvissuta al crollo del regime mussoliniano, che era rappresentata dal partito neo fascista (e per un breve periodo anche da quello monarchi co ) che avrebbe poi, in forme diverse, attratto nella sua orbita il conservatorismo radicale. Il dato interessante era la multipolarità di ciascuna di queste componenti. Poteva trattarsi di una multipolarità costretta a mantenersi unita da un vincolo esterno, come nel caso dell'unità politica dei cattolici garantita dal Vaticano, oppure di una multipolarità che aveva origini in sedimentazioni storiche profondamente radicate, che a volte erano 6. Va ricordato, come minimo, che il tema della riforma della seconda parte della Carta fonda­ mentale ha affaticato tutto questo passaggio, con ben tre Commissioni bicamerali, da quella presieduta dall'onorevole Bozzi (1983-85), a quella presieduta dall'onorevole De Mita e poi dall'onorevole lotti (1992-94), infine a quella presieduta dall'onorevole D'Alema (1 997). li fatto stesso che per riconosci­ mento non solo sostanzialmente unanime, ma formalizzato da organi delle Camere elettive, si sia affrontato il tema di una riforma costituzionale certifica che l 'equilibrio istituzionale proposto dai costituenti era stato considerato ufficialmente da rivedere. Difficile non vedere in questo una rottura di fatto nel modo di intendere la cosa pubblica. Su questo tema, cfr. le riflessioni di Luigi Covatta, che fu vicepresidente dalla Commissione De Mira-lotti, nel suo libro, La legge di Tocqueville. Come nacque e mori la riforma della prima Repubblica italiana, Diabasis, Reggio Emilia 2009. Aggiungo che le riforme "regionalistiche" realizzate (2001) e tentate (2oo6) già nel quadro della cosiddetta "Seconda Repubblica" sono anch'esse una modifica e non un semplice perfezionamento della nostra Carta, in quanto impostate dando a esse un impianto diverso dalla riforma del 1970. Finisco con il ricordare non solo le riforme elettorali, che sono anch'esse un modo di ridisegnare il sistema di rappresentanza ( cfr. M. S. Piretti, Le elezioni politiche in Italia, Laterza, Roma-Bari 1995), ma anche la profonda tra­ sformazione subita dal ruolo del presidente della Repubblica. 3 10

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semplicemente bipolari (la frattura post-1921 fra socialisti e comunisti), a volte erano assai più frammentate come nel caso dell 'area laica (termine equivoco che voleva sottolineare la sua estraneità alle due "chiese", quella cattolica e quella socialista, seb­ bene in termini di fideismi e pregiudizi anche lì non si scherzasse) . La forza di questo sistema era basata sulla sua stretta connessione con la trama strutturale del paese: quasi ogni cittadino nasceva già dentro un certo sistema di relazioni, partecipava ai vantaggi e agli svantaggi di quella appartenenza, e ripagava questo fatto con la fedeltà elettorale. Come è facile dimostrare da un 'analisi della distribuzione del voto fino agli anni Ottanta inoltrati, la forza complessiva di ciascuna di queste famiglie muta in maniera marginale, addirittura a prescindere dalle scelte politiche che vengono compiute dai partiti in cui si articolano (ci sono limitati tra­ vasi di consensi da un partito all 'altro, ma in larga maggioranza gli spostamenti si collocavano ali' in terno delle singole famiglie poli ti che). Vediamo di esaminare qualche numero. Nel quarantennio che va dalle elezioni del 1953 a quelle del 198f le quattro famiglie politiche individuate8 conobbero una sostanziale stabilità di consensi elettorali. L'area cattolica oscilla fra un occasionale 42,4% del 1958 e un 3 2,4% del 1983, ma nel periodo 1963-79 si mantiene fra il 38,3 e il 39,1%. L'area della sinistra "tradizionale" (PCI + PSI) che è quella che registra la maggiore crescita, oscilla fra il minimo del 35,3 % del 1953 e il massimo successo del 44% nel 1976, ma anch'essa fra il 1963 e il 1979, a parte l'eccezione del 1976, ottiene fra un 3 8 e un 40% dei consensi elettorali. L'area laica ha qualche impennata, come per il noto effimero successo del PLI nel 19 63, ma per il resto si colloca, sempre considerando il periodo 1958-79, fra un minimo del 9,5% e un massimo del 12,1%. La destra è da questo punto di vista la componente più "mossa": lasciando da parte come eccezionali il 1 2,6% del 1953% e il 9,6 % del 1958 (quando ci sono ancora i monarchici), nella serie 1 9 63-79 normalmente oscilla fra il 5,7 e il 6,1%, con una punta occasionale dell' 8,7% nel 1972. Ovviamente qui non propongo alcuna analisi dei flussi elettorali, né valutazioni sulle ragioni contingenti delle varie oscillazioni, ciascuna certamente significativa. Voglio solo attirare l'attenzione sulla "stabilità del sistema" che sostanzialmente non lascia alcuno spazio, se non assolutamente marginale, alla possibilità di nuovi ingressi significativi. Se esaminiamo la somma dei voti raccolti complessivamente da questo sistema a quattro, vediamo che tocca il punto più basso nel 1968, quando la somma 7· Tralascio in questa analisi le elezioni del I946 e del 1948, la prima caratterizzata non solo dalla questione costituente, ma anche dalla ripresa di competizione elettorale dopo un ventennio di stasi, la seconda giocata sul bipolarismo drammatizzato comunismo/anticomunismo che diede alla DC un risultato eccezionale e non più ripetuto. 8. Dal punto di vista partitico, l'area cattolica è rappresentata dalla DC, quella della sinistra per così dire "tradizionale" da PCI e PSI, quella "laicà' da PSDI, PRI, PLI e poi Partito radicale; quella della destra inizialmente dal MSI e dal partito monarchico e poi dal solo MSI (e denominazioni diverse che assunse occasionalmente). 311

PAO LO P O M B EN I

arriva "solo" al 94% del totale dei suffragi, mentre per le altre elezioni fra il 1 9 5 3 e il 1989 si oscilla dal minimo di 96,5 % nel 1979 al massimo del 9 8,75% nel 1963. La viscosità di questo sistema si conferma sostanzialmente anche negli anni Ottanta. Alle elezioni del 19 83, la D C fa il 32,9%, P C I + P S I il 41,3%; i laici il 14,3% e la destra il 6,8%, mentre la somma totale di voti che rimane nella disponibilità delle quattro famiglie fa il 95,3% dei voti. Nelle elezioni del 1987, che sono quelle che vedono una grande molteplicità di liste, quando la quota totale controllata dalle nostre famiglie si riduce (si fa per dire) al 92,5 %, la D C ha ancora il 34,3%, P C I + P S I il 40,9 %, i laici l' 1 1,4% e la destra il 5,9%. Bisognerà attendere il 19 92, per registrare una vera rottura del sistema. Non solo perché il totale dei voti controllati dalle quattro famiglie scende (e questa volta il termine è appropriato) al 76%, ma perché mentre "laici" e destra tengono le loro posizioni tradizionali ( i primi con l' 1 1,2 %, la seconda con il 5 ,4%) crollano tanto la famiglia "cattolica" , quanto quella della sinistra tradizionale (ora PDS + P S I ) , essendo entrambe attestate al 29,7%9• Ripeto, per doverosa chiarezza, che questo tipo di analisi non ha altro scopo che mostrare la tenuta delle grandi aree di riferimento delle culture sociopolitiche che sono presenti nel paese sino all'evoluzione che esse conosceranno a partire dal 1992, quando effettivamente viene meno la struttura di questo sistema. Può sembrare banale il riferirsi a questo schema interpretativo riguardo ai mondi o, per usare un'espressione un tempo molto in voga, agli "steccati", eppure siamo di fronte a un fenomeno che non va sottovalutato.

3

" Religioni civili" e costruzione nazionale Quando nel 1974 venne pubblicato uno studio sul "caso italiano" che allora comin­ ciava a mostrare in prospettiva la non tenuta degli equilibri usciti dalla stabilizzazione post-194810, venne chiesto a un sociologo americano, Robert N. Bellah, molto noto per un suo fortunato libro sulla "religione civile" americana11 di riflettere sullo stesso tema per quanto riguardava l' Italia. In questo caso il sociologo americano individuava ben cinque religioni civilill. Tributario in parte di Croce e in parte di Gramsci, Bellah 9· I dati elettorali sono elaborazioni di quelli forniti in P. G. Corbetta, M. S. Piretti (a cura di), Atlante storico-elettorale d'Italia, IS6I-2ooS, Zanichelli, Bologna 2009. 10. F. L. Cavazza, S. R. Graubard (a cura di), Il caso italiano, Garzanti, Milano 1 964. 1 1. Cfr. R. N. Bellah, La religione civile in America, Morcelliana, Brescia 2007. L'espressione era stata originariamente coniata da Bellah in un articolo del 1 967, poi ripubblicato in R. N. Bellah, Beyond Belief: Essays on Religion in a Post-Traditional World, Harper and Row, New York 1970. 12. Le cinque religioni civili sono quella cattolica (acutamente Bellah nota che il cattolicesimo italiano è un fenomeno socioculturale, oltre che religione nel senso classico e proprio), quella liberale, 312

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aveva preso da quest'ultimo la tesi che le religioni civili rispondessero tanto a una funzione "integrativa" (o difensiva: conservare l'unità di un certo blocco sociale) e quanto a una per così dire propulsiva (offrire nuove forme di coscienza adeguate ai nuovi stadi di sviluppo sociale, senza per questo rescindere i legami integrativi dei diversi raggruppamenti). Non mi interessa qui discutere nei dettagli questa analisi, quanto ricordare come già all'inizio degli anni Settanta Bellah intuisse una modificazione significativa che era in vista nel panorama politico del nostro paese. Il punto di partenza era la con­ statazione di una peculiarità complessiva della situazione italiana che in realtà ren­ deva, a suo giudizio, potenzialmente deboli le religioni civili individuate. Comunque l' Italia dopo il 1 945 non presentava caratteristiche di società di massa, né pareva capace di mobilitazione. Non avendo avuto né la riforma, né una vera rivoluzione, le religioni e le ideologie formali continuavano a galleggiare alla super­ ficie della società italiana, rivolte a un'élite colta e mobile, senza riuscire a impregnare gran che della struttura sociale sottostante, fatta eccezione per certe zone del paese dove la religiosità cattolica (ad es. nel Veneto) o l' impegno socialista (nell' Emilia­ Romagna) acquistavano le caratteristiche di fenomeni popolari autentici13• Al di là del soggiacere di questa analisi ad alcuni miti diffusi nella nostra cultura storiografica, ciò che interessa notare è che Bellah intuiva come quel sistema fosse destinato a trasformarsi a causa di alcuni mutamenti epocali. Nel complesso si sarebbe trattato del diffondersi di una condivisione sempre più ampia di quelli che venivano presentati come i valori risorgimentali e democratici che erano stati alla base della costruzione nazionale. Se alla fine il problema della religione civile avrà una soluzione di questo genere, una solu­ zione cioè basata sulla comune accettazione di alcuni valori politici piuttosto che una lotta accanita fra diverse ideologie politico-religiose, ciò dipenderà dai cambiamenti che vi saranno sia nella Chiesa sia a sinistra nel movimento socialista. Ora, notevoli cambiamenti vi sono stati nella Chiesa [ . . . ] fin dal tempo dell'aggiornamento di papa Giovanni. Questa evoluzione non è stata senza contrasti, e negli anni più recenti si è visto qualcosa come una "inversione di tendenza". [ ... ] Quanto al Partito comunista non si è avuto un aggiornamento equivalente a quello che il Concilio Vaticano n ha rappresentato per la Chiesa, perché un atteggiamento di chiusa difensiva era obiettivamente giustificato. Il P C I ha comunque una quella comunista e socialista, quella "attivistà', a cui aggiunge una quinta, che sarebbe una religione «precristiana o sub cristiana» (quella del Meridione) che rappresenta una sorta di "basso continuo" del sentimento religioso italiano anche in alcune delle altre religioni civili menzionate. Id., Le cinque religioni dell 'Italia moderna, in Cavazza, Graubard (a cura di), Il caso italiano, cit., pp. 439-68. li testo è stato poi ripreso dali' autore nella versione originale in inglese in una silloge del 19 8 o ( Vtzrieties oJ Civil Religions) e su questa versione Matte o Bortolini ne ha curato una nuova traduzione, ora inserita in R. N. Bellah, La religione civile in Italia e in America, a cura di M. Bortolini, Armando, Roma 2009. I3. Bellah, Le cinque religioni, cit., p. 462. 313

PAO LO P O M B EN I tradizione di flessibilità, di umanesimo e di ascendente sugli intellettuali forse unica nel mondo occidentale'4•

Sebbene Bellah denunciasse come « corruzione e cinismo» avvelenassero l'orizzonte del nostro paese, gli sembrava possibile che si potesse giungere a costruire anche in Italia una religione civile di sintesi, a meno che anche questa fase non fosse « una delle ondate ricorrenti nella continua oscillazione fra idealismo e corruzione che caratterizza la storia i tali an a » •s. Indubbiamente la svolta degli anni Settanta è importante per capire la dissolu­ zione del sistema italiano dei partiti. Se in seguito parevano fondati i « molti motivi di ottimismo » che nonostante tutto erano stati colti dal sociologo americano (si sarebbe chiusa la stagione del terrorismo e avviata la stagione delle celebrazioni del consenso costituzionale con il trentennale di quella fase•6), oggi noi vediamo che il superamento delle divisioni muscolari all' interno delle corporazioni intellettuali che fiancheggiavano i « partiti-milieu » (per usare una celebre formula della ricerca tedesca sui partiti) non avrebbe portato a un consolidamento per trasformazione dei partiti chiave del sistema, ma a un suo tracollo. Fu in parte, come vedremo, per ragioni di cinismo e corruzione, ma in parte altrettanto significativa per un cambia­ mento del sistema sociale di cui non ci si volle rendere conto. Dal punto di vista dello scossone al sistema dei partiti un passaggio fondamentale fu indubbiamente costituito dal referendum per l'abrogazione della legge sul divorzio che si tenne il 1 2-13 maggio 197417• Come è noto, l 'allora segretario della D C , Amin­ tore Fanfani, che era ritornato in quella posizione il 18 giugno 1973, ritenne di poter riaffermare l'egemonia sociale del suo partito impegnandolo nella battaglia per l'abro­ gazione della legge che aveva introdotto l' istituto del divorzio nell'ordinamento giuridico italiano. Si trattava chiaramente di una scelta fondata sulla convinzione che la gerarchia cattolica avesse ancora una posizione di monopolio nell 'orientamento dei costumi sociali, anzi che la sua presa andasse oltre le frontiere dell 'elettorato democratico cristiano, coinvolgendo non solo le destre, ma persino una parte dell'elettorato comunista, anch'esso legato a un sentimento forte verso l' istituto familiare. Il prendere il comando di questa supposta "cultura popolare familista" 14. lvi, pp. 463-415. lvi, p. 466. 16. A testimonianza di quel clima vi fu la grande ricerca promossa dal Consiglio regionale della Toscana con un comitato scientifico in cui erano rappresentati i principali studiosi che facevano riferi­ mento alle varie aree politiche. Essa diede origine a 7 volumi di saggi (alcuni in più tomi) e a un volume di documenti pubblicati dall'editrice il Mulino nel 1979: Il sistema delle autonomie. Rapporti tra Stato e societa civile, ricerca promossa dal Consiglio regionale della Toscana in occasione del 30° anniversario della Repubblica e della Costituzione, 7 voli., il Mulino, Bologna 1979. 17. G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, societa civile dalla legge al referendum (I96S-I974 ), Bruno Mondadori, Milano 2007 ; A. Chimenti, Storia del referendum. Dal divorzio alla legge elettorale (I974-I999), Laterza, Roma-Bari 1 999. 314

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avrebbe legittimato nuovamente un ruolo guida per il partito cattolico di maggio­ ranza relativa (la cui posizione dominante era già messa in discussione) . La bruciante sconfitta incontrata dalla D C in questa campagna merita una valu­ tazione. In realtà, i "sì" ali ' abrogazione, per cui si erano schierati solo D C e M S I , ebbero in percentuale il 40,7% dei voti, mentre il "no" raggiunse il 59,3%: astratta­ mente i "sì" all'abrogazione avrebbero potuto rappresentare poco meno del bacino elettorale a cui attingevano i due partiti. In realtà, invece, divenne subito chiaro, soprattutto da un'analisi dei risultati a livello regionale, che il voto era stato larga­ mente un voto di opinione, poco inquadrato dagli orientamenti dei gruppi dirigenti dei vari partiti. Era una società secolarizzata che usciva ormai dalla religione civile cattolica. Il dissenso poi toccava i quadri stessi dell ' intellighenzia cattolica, una parte dei quali si schierò apertamente contro le indicazioni della DC e delle gerarchie18• Si trattava di una trasformazione sociale irreversibile come avrebbe mostrato l'esito del referendum per l'abrogazione della legge che consentiva l'aborto ( 1 7 maggio 1 98 1 ) : anche in questo caso i "no" all'abrogazione vinsero ampiamente, addirittura con il 68% dei consensi (e si trattava di un tema emotivamente più pregnante che non quello del divorzio )19• Certamente non bastarono questi passaggi a sconvolgere un sistema storicamente radicato come era quello dei partiti politici italiani, ma resero palese che esso era "sfidabile" a livello di distribuzione del potere. Non che si trattasse di un'operazione semplice. A garanzia di questo contesto non avevamo soltanto un sistema elettorale proporzionale (che di per sé, come vedremo, da solo non può garantirlo), ma un ben più forte e articolato controllo della distribuzione di una serie di benefici. Ciascuna famiglia politica (non piatta­ mente coincidente con i militanti nei partiti che vi facevano riferimento) aveva le sue aree di dominio pressoché esclusivo, tanto che diventava normale parlare di "mondi": c 'era quello cattolico, quello social-comunista (che ad esempio reggerà ben oltre la frattura sulla politica di centro-sinistraw), quello laico. La destra aveva anch'essa qualche enclave, ma più circoscritta e soprattutto più mascherata, perché ovviamente era delegittimata dalla sua opzione nostalgica. In conseguenza, quando cominciò a porsi il problema della distribuzione delle risorse pubbliche divenute

I8. Per l'evoluzione di uno degli intellettuali che con la battaglia per il "no" all'abrogazione del divorzio iniziò un lungo percorso politico di distacco dalla sua militanza nella DC, cfr. A. Giovagnoli, Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 2011. Più in generale, sull'evo­ luzione del rapporto tra Chiesa e politica, cfr. G. Formigoni, Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernita nell'Italia del 9oo, li Margine, Trento 2oo8. I9. G. Scirè, L 'aborto in Italia. Storia di una legge, Mondadori, Milano 2008. 20. Ricordo che l'alleanza PCI-PSI anche dopo l'avvio della formula di governo di centro-sinistra non venne meno in numerose amministrazioni locali, prima municipali poi regionali, così come con­ tinuò in varie strutture sociali che erano nate dalla collaborazione di questi mondi, come, per fare l'esempio più rilevante, il mondo cooperativo che stava dentro la Lega delle cooperative. 315

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cospicue, nacque l'esigenza di fare in modo che questa non turbasse la stabilità dell'insediamento delle varie componenti. Si affermerà così quel fenomeno che dap­ prima verrà presentato come esigenza di tutela del pluralismo nella sfera pubblica e che poi sarà brutalmente connotato come lottizzazione ( e, per il contenuto consen­ suale dell 'operazione, "consociativismo" ) ll. Proprio il ricorso al concetto di pluralismo ci rinvia a una delle radici del man­ tenimento di questo sistema: il suo essere espressione di subculture sociali. In effetti, nell'età d 'oro di questa storia, ogni famiglia politica disponeva di un suo sistema culturale, con il suo pantheon di figure di riferimento, i suoi linguaggi gergali, le sue abitudini sociali che avevano modo di ruotare anche intorno a diversi luoghi e ricor­ renze. Solo i vertici potevano, a volte e con cautela, intessere dialoghi e occasioni di scambio, peraltro sempre incalzati in ogni campo da ben nutrite mute di cani da guardia dell 'ortodossia a cui si rifaceva ognuna delle parti in causa. Nel caso della D C questo si complicava, perché l'ortodossia non era interamente nelle mani della direzione del partito, ma faceva riferimento anche ai vertici vaticani e all'episcopato che si ritenevano i custodi della dottrina sociale cattolican. Nel caso del PCI la simi­ litudine che collocava a Mosca il Vaticano di quel partito era venuta meno con il Sessantotto, sia per il rigetto della teoria brezneviana della sovranità limitata che aveva portato all'invasione della Cecoslovacchia di Dubcek, sia per l 'ormai realizzata scissione di leadership fra Mosca e Pechinol\ Il passaggio che porta fuori da questo sistema non avvenne per rotture istituzio­ nali, che non ci furono, ma per un profondo mutamento culturale e sociale, la cui portata fu totalmente sottovaluta dai gruppi dirigenti dei partiti politici. Sul piano culturale la cosiddetta "società dei consumi", con il suo gran sacerdote che è la TV, ha realizzato quell'unificazione che nell' Ottocento si era pensato potesse essere affidata alla scuola. Progressivamente la fruizione degli stessi spettacoli, degli stessi miti consumistici e di costume, provoca il venir meno di quelle identità di .. appartenenza che avevano connotato la "cerchia del noi" nei vari partiti. E la giovane generazione, allevata dalla nuova TV ( di Stato ) , che a fine anni Sessanta rompe per prima l 'incantesimo. Nelle università non si ragiona più sulla base della tripartizione delle rappresentanze studentesche in quei "parlamentini" che erano stati l' incubatrice di una parte non piccola della nostra classe politica, rispecchiando le tre grandi componenti : l'AGI (Associazione goliardica italiana ) i laici, l ' uG I ( Unione goliardica 21. P. Craveri, La democrazia incompiuta. Figure del 9oo italiano, Marsilio, Venezia 2002, pp. u-6s. 22. M. lmpagliazzo ( a cura di ) , La nazione cattolica. Chiesa e societa in Italia dal I95S ad oggi, Guerini e Associati, Milano 2oos. 23. Sul travaglio del vertice comunista in questa fase sono molto interessanti i materiali in A. Tatò, Caro Berlinguer. Note e appunti riservati (I909-I9S4), Einaudi, Torino 2003. Cfr. anche G. Chiarante, Da Togliatti a D:Alema. La tradizione dei comunisti italiani e le origini del PDS, Laterza, Roma-Bari 1996.

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italiana) i social-comunisti, l' Intesa i cattolici14• Nella crisi generale dell 'università che si aprì nel 1968 le appartenenze si mescolarono e il tumultuoso movimento stu­ dentesco mise insieme i figli di cattolici, social-comunisti e laici, dando anche un qualche spazio perché tornasse a rialzare la testa in pubblico la gioventù di estrema destra. Ovviamente, poiché il grosso dell 'elettorato era formato da altre classi di età, per lungo tempo la sfida sembrò essere puramente velleitaria e senza conseguenze. Ma di fatto era qualcosa che, un po' scherzosamente, mi permetterei di definire il secondo "disincantamento" weberiano. Un altro sintomo vistoso di questa disgregazione del sistema è dato dalla gestione che la politica fece del controllo statale sul sistema radiotelevisivo. Come ha mostrato Giulia Guazzaloca15, il dibattito sul "pluralismo" e la lotta dei partiti per circoscrivere la preponderanza del potere della D C su quello che ormai si era capito essere il più grande strumento di omogeneizzazione del sistema culturale nazionale avrebbero portato non più a una competizione per la gestione del versante pedagogico del sistema radio televisivo (il famoso modello BBC, a cui, tutto sommato, avevano cercato di ispirarsi i migliori dirigenti RAI provenienti dal mondo cattolico), ma a una spar­ tizione di zone di influenza in cui ciascuno avrebbe cercato di favorire i suoi clientes delle professioni, dell' informazione e dell 'intrattenimento perché producessero iden­ tificazione con le rispettive peculiarità identitarie, ma soprattutto l'audience più ampia possibile. La riforma della RAI del 1975, pur partorita con buone intenzioni e con l'apporto di persone perbene che ambivano a qualcosa di più di una becera interpretazione degli assiomi sopra descritti, non riuscì a dare risultati diversi. Nel clima di preoccupazione per la tenuta del sistema dei partiti era anche un fenomeno comprensibile, sebbene con il senno di poi non si possa dire si fosse trattato di una strategia saggia. Tuttavia, per un quindicennio il sistema dei partiti reggerà ancora, magari con qualche acciacco, progressivamente sempre più visibile e denunciato spietatamente da una stampa sempre più interessata a fare il contro­ canto alle forze politiche in nome di una "società civile" che si supponeva disgustata dall"'occupazione del potere" che era messo in atto dai potentati parlamentari (sebbene poi, di fatto, tutta la parte della società civile che era in grado di farlo non avesse grandi difficoltà a costruirsi il nido in quelle distorsioni che i giornali denun24. G. Orsina, Étudiants universitaires et politique en ltalie (I945-I96S), in "Parlement(s). Histoire et Politique", 2, 2007, 8, pp. 8s-Io2. In questi casi la connessione con i rispettivi partiti di riferimento non era così vincolante: non solo l'UGI teneva insieme socialisti e comunisti, mentre nell' Intesa giovani militanti democristiani e giovani dei vari movimenti di Azione cattolica non facevano necessariamente parte dell' identico ceppo ideologico, ma lo stesso raggruppamento laico era assai variegato. Con il passare degli anni i legami fra queste organizzazioni studentesche e i partiti divennero sempre meno stringenti, ma alla loro origine erano molto forti: cfr. i saggi contenuti in G. Orsina, G. Quagliariello (a cura di), Laformazione della classe politica in Europa (I945-I950), Lacaita, Manduria (TA)-Roma-Bari 2000. 25. G. Guazzaloca, Una e divisibile. La RAI e i partiti negli anni del monopolio pubblico (I954-I975), Le Monnier, Firenze 2011. 3 17

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ciavano ) . Ciò avveniva un poco per la viscosità dei movimenti storici, un poco per le ancora rilevanti disponibilità di risorse che i partiti potevano distribuire ai vari livelli. Non si dimentichi che il varo delle Regioni a statuto ordinario, avvenuto di fatto nel 1 9 7 5 , aveva moltiplicato le potenzialità d'azione dei partiti, anziché ridurle, e che, soprattutto, aveva riequilibrato in parte il potere della D C e dei suoi alleati per la vittoria di maggioranze progressiste in alcune Regioni e poi in non poche città significative. Tuttavia, è proprio in questo campo che avviene la seconda trasformazione. La stessa fissità delle quote di opportunità da distribuire che era legata alla percentuale di consensi elettorali raccolti, percentuale che, come abbiamo visto, non mutava significativamente, portava i partiti, in misura diversa, a dubitare della bontà della formula. Questa poteva andare bene per mantenere tutto com'era, ma per espandere la presa del proprio consenso ciascuna forza politica, e specie i partiti medi, avrebbero avuto bisogno di un surplus da distribuire. Sarà questa la strategia che giocherà, con eccessiva spregiudicatezza, il P S I di Craxi, consapevole più degli altri che la situazione stava radicalmente mutando, ma incapace di cogliere il rischio che il sistema, privato dei suoi puntelli, franasse addosso a tutti seppellendoli. Il tema della corruzione dei partiti, che si pensò di arginare con la legge del 1 9 7 5 sul loro finanziamento pubblico, iniziava proprio nel momento in cui essi per com­ petere avevano bisogno di risorse sempre maggiori. Non solo crescevano i costi della vita politica, in termini sia di spese per le campagne elettorali sia di mantenimento di ampie burocrazie interne e delle loro appendici (pensiamo ad esempio alla nume­ rosa stampa di partito, sempre meno utile e tuttavia sempre più dispendiosa) , ma cresceva l'esigenza di disponibilità per attirare nella propria orbita fasce selezionate di opinion leaders. I tradizionali luoghi di formazione e diffusione della cultura politica, le riviste, i dibattiti nelle sedi di partito, i confronti parlamentari stavano perdendo presa ed efficacia, ma per inventare luoghi nuovi non bastava infilarsi brillantemente nel cir­ cuito che stava nascendo della società dello spettacolol6• Soprattutto per quella via non si costruisce un tipo di cultura "sociale" che ha bisogno di luoghi, di riti, di pratiche ordinarie per esercitare una presa quasi quotidiana sulla socializzazione del suo "popolo". Il contesto cattolico stava perdendo il suo impianto nella società, in 26. Sempre in merito alla svolta di metà anni Settanta, mi permetto di ricordare che il 1 8 ottobre 1975 era andata in onda la prima puntata di un programma che copiava i talk show americani e che era condotto da Maurizio Costanzo: Bonta loro. Il successo del prodotto fu replicato nel 1979-80 con il programma Grand'Italia sempre condotto da Costanzo. A testimonianza di quanto queste formule abbiano contribuito al cambiamento del sistema politico italiano, soprattutto dal punto di vista della costruzione della retorica politica, si può ricordare che proprio la terza rete della televisione, quella assegnata nella spartizione al PCI, mise in onda, negli anni del crollo del sistema dei partiti, due importanti trasmissioni di quel genere, tutte ideate e condotte da Gad Lerner: Profondo Nord (1991-92) e Milano, Italia (1992-93). 318

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parte per il fenomeno della crescente secolarizzazione, in parte perché le sue élite e le sue componenti più consapevoli si erano concentrate dopo il 1965 piuttosto sul problema della riforma della Chiesa lanciato dal Concilio Vaticano n che non sul vecchio movimentismo socioculturale della "conquista del mondo". Il contesto laico era sempre stato debole su questo fronte, a prescindere da qualche area molto limitata. Resistette per un periodo solo il contesto comunista, che si era ormai scisso da quello socialista, per il persistere di un attaccamento popolare alle tradizionali radici della sua sociabilità ( case del popolo, feste dell ' Unità, associazioni sportive, ARCI e quant 'altro ) . La seconda caratteristica che stava venendo meno, in connessione con la prima, era la gestione dei partiti come sedi di partecipazione a una forma di democrazia diffusa. Con tutti i loro limiti, i partiti erano stati sedi di dibattito e di lotte per la selezione della classe dirigente. Per questo avevano attirato nel loro seno gran parte delle forze vive del paese. Ora si assisteva a due fenomeni concomitanti : da un lato l'estendersi di opportunità di affermazione anche fuori dei canali tradizionali con­ trollati dai partiti2.7 distoglieva molti giovani da quelle partecipazioni onerose e anche un po' frustranti alle liturgie di partito ; dall'altro lato la professionalizzazione cre­ scente degli apparati, l'affievolirsi del richiamo alle grandi opzioni ideologiche, steri­ lizzavano la vita interna dei partiti che cessavano di essere strumenti di coinvolgimento della società civile nelle scelte politiche e di costruzione progressiva del consenso attorno a decisioni difficili.

4

La crisi delle grandi famiglie politiche :

DC, PCI, PSI

Se non si comprende il quadro di questa "rivoluzione culturale" non si colgono veramente, a mio giudizio, le radici delle cause che portarono alla dissoluzione del sistema dei partiti. Esso era fondato, come ho cercato di mostrare, su subculture o, se vogliamo usare un'espressione più ricca di fascino, su "religioni civili": se fosse stato sradicato (disembedded, come si dice nella tradizione delle scienze sociali anglo­ sassoni ) da questo contesto, o se si fosse verificato il fenomeno della sua demagifica­ zione ( la Entzauberung weberiana) non avrebbe potuto sopravvivere come tale. E fu proprio quel che successe. A partire dalla metà degli anni Settanta i tre principali partiti del sistema politico italiano, la D C , il P C I e il P S I ( non a caso quelli che avevano retto il governo della fase costituente ) , iniziarono in forme diverse a misurarsi con la crisi delle rispettive 27. Si pensi, tanto per fare un esempio, al notevole sviluppo delle opportunità di impiego, più o meno stabili, nell'ambito della docenza universitaria, ma anche al parallelo sviluppo di molte burocrazie pubbliche a cominciare dalla magistratura. 319

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religioni civili, anche se lo fecero da un punto di vista rovesciato : misurandosi con quella che ciascuno riteneva essere non la propria crisi, ma quella degli avversari e di un contesto sociale a cui riteneva di essere in grado di offrire soluzioni peculiari. Furono anni di ritorno sulla scena politica degli intellettuali, sebbene il termine in molti casi andrebbe usato con grande cautela, il che testimonia proprio della natura specifica di questa crisi di culture politiche. La storiografia ha iniziato un lavoro spesso pregevole di indagini su questo tornante, lavoro che ha ancora bisogno di molte messe a punto, specie interpretative. Apparentemente la crisi più evidente fu quella della D C , a cui seguì quella del P S I . Il partito cattolico, acciaccato dalla sconfitta nel referendum sul divorzio e messo in allarme dalla crescita del consenso comunista alle elezioni europee del 1 9 7 5 , si sbarazzò il 25 luglio 1 9 7 5 dell 'ormai ingombrante segreteria Fanfani, per affidare la carica a Ciriaco De Mita, che appariva come l'uomo capace di unire una gestione politica consapevole degli equilibri interni (egli era un uomo "di corrente") con un'apertura ai fermenti intellettuali del mondo cattolico. In quest'ambito, infatti, una componente significativa si era staccata dai fermenti del cosiddetto "dissenso cattolico" (da sempre in rotta con la D C )2.8 per puntare invece a un recupero della tradizione riformatrice democratico-cristiana. Questo insieme di persone, nell'ot­ tobre 1 9 7 5 , avrebbe dato vita a quel raggruppamento che si definì, con una citazione storica che ormai ben pochi potevano cogliere, Lega democratica2.9• La sua esperienza fu assai vivace30 e accompagnò un lunghissimo dibattito che arrivò sino allo sciogli­ mento della D C e che vide poi alcuni suoi esponenti, come Pietro Scoppola ed Ermanno Gorrieri, confluire nel nuovo arcipelago di forze che si coagularono sul lato sinistro della nuova sistemazione politica succeduta alla crisi del panorama della Prima Repubblica. L'apertura del partito da parte di De Mita agli "esterni" era già un segno della crisi politica con cui ci si misurava: per la prima volta il partito cattolico accettava di registrare, magari in maniera un po' farisaica, una spaccatura fra la sua classe politica e i gruppi dirigenti della società civile a cui faceva riferimento. Il nuovo segretario pensava che così fosse possibile recuperare quella frattura che un tempo si sarebbe definita come distacco fra "paese reale" e "paese legale", e che adesso veniva definita come rottura fra la partitocrazia31 e la società civile. Ci si illudeva così di

28. D. Saresella, Il "dissenso" cattolico, in lmpagliazzo (a cura di), La nazione cattolica, cit., pp. 265-89. 29. La Lega democratica era la formazione fondata da Romolo Murri nel 1905. A partire dal 1909 Murri ne perse il controllo ed essa sopravvisse nell'ottica di formare una presenza democratico-cristiana nel sistema politico italiano dell'epoca. 30. F. De Giorgi, La "Repubblica delle coscienze': L 'esperienza della Lega democratica di Scoppola, Corrieri, Ardigo, in L. Guerzoni (a cura di), Quando i cattolici non erano moderati. Figure e percorsi del cattolicesimo democratico in Italia, il Mulino, Bologna 2009, pp. 139-90. 31. Il termine come è noto venne reso popolare da Giuseppe Maranini che lo usò in una pro­ lusione del 1949 (cfr. E. Capozzi, Il sogno di una costituzione. Giuseppe Maranini e l 'Italia del 3 20

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cavalcare quello che iniziava a essere un mainstream della grande stampa che aveva già acquisito spazi importanti di influenza (si pensi al "Corriere della Sera" di Piero Ottone già nel periodo 1972-77 ), spazi che stavano ulteriormente ampliandosi con il peso della "Repubblica", il nuovo quotidiano fondato da Eugenio Scalfari e apparso per la prima volta il 14 gennaio 1 976. Il travaglio della D C non sarebbe mai finito. L'esperimento De Mita si chiuse relativamente presto, con ritorno alla segreteria il s marzo 1980 del vecchio Flaminio Piccoli, la persona meno adatta per capire quanto stava succedendo nelle mutazioni della società italiana. Si trattò peraltro di una breve restaurazione, perché il s maggio 1982 sarebbe tornato alla segreteria De Mita, anche se questo nuovo lungo passaggio (sarebbe caduto solo il 22 febbraio 1989) vide una gestione molto più cauta degli slanci innovatori, che si appuntarono più che su una reinterpretazio ne del ruolo del partito in rapporto al nuovo contesto sociale, su uno sforzo di risistemazione con­ trattata del sistema politico italiano. A mio parere si è sottovalutato questo aspetto e la portata del suo fallimento. Il 14 aprile 1983 il Parlamento varava l' istituzione di una Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Sospesa la legislatura per le elezioni anticipate, la decisione venne ribadita dalla nuova Camera il 1 2 ottobre 1983 e il 30 novembre la Commis­ sione si insediava sotto la presidenza del liberale Aldo Bozzi3l: avrebbe concluso i propri lavori il 29 gennaio 1985. Ciò che è interessante notare è che di essa fecero parte le migliori intelligenze dei grandi partiti33 e che fu dominata dallo sforzo di trovare un largo consenso sulle riforme da attuare, proprio in vista di una stabilizza­ zione del sistema. Non se ne fece nulla, anzi proprio il suo fallimento mostrò una spaccatura evidente fra l' intellighenzia che bene o male si stava riavvicinando al mondo dei partiti e le direzioni politiche di questi, dominate dal problema della redistribuzione dei pesi all' interno del sistema vigente . .. E a questo punto che, per capire quanto stava avvenendo, bisogna andare ali' analisi non solo dell 'evoluzione di P S I e P C I come partiti, ma di quel « duello a sinistra » (secondo la famosa definizione di Luciano Cafagna)34 che distruggendo la Novecento, il Mulino, Bologna 200 8; per la prolusione del I949· cfr. pp. IS2-6I ) , ma per lungo tempo fu usato solo dalla critica di destra al sistema democratico italiano. Ora veniva usato comunemente anche dalla grande stampa. 32. Anche questa scelta è emblematica: la guida dei lavori era affidata non a un esponente del partito di maggioranza relativa e neppure a un politico noto per slancio riformatore, ma a un notabile (era nato nel I909 ) che doveva la sua carica all 'essere stato il proponente in Assemblea costituente di un ordine del giorno che auspicava una Costituzione semplice e comprensibile al popolo. 33· Per la DC particolarmente rilevante fu il ruolo di Leopoldo Elia e quello di Roberto Ruffilli (entrambi consiglieri di De Mita). Su quest 'ultimo e sulle vicende della Commissione Bozzi, cfr. M. S. Piretti, Roberto Ruffilli. Una vita per le riforme, il Mulino, Bologna 200 8. 34· L. Cafagna, Il duello a sinistra negli anni Ottanta, in G. Acquaviva, M. Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia 201 1, pp. IS-21.

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tradizionale religione civile del socialismo postottocentesco in cui in gran parte erano stati incapsulati sia il P S I che il P C I , avrebbe dato l 'ulteriore colpo mortale al sistema dei partiti della Prima Repubblica. Il 1 6 luglio 1 9 7 5 Bettino Craxi diveniva segretario del P S I , sull'onda di una rivolta interna in buona parte generazionale35• Praticamente da subito il nuovo segretario puntò a ridefinire lo spazio di presenza del vecchio partito ; ciò avvenne sull 'onda di un dibattito politico che coinvolgeva l 'Europa. Il rinnovato vigore del socialismo francese con Rocard e Mitterrand, in grado di tenere la scena politica anche contro Valéry Giscard d ' Estaing ; la forza della SPD che era riuscita a mante­ nere il potere dopo la caduta rovinosa di Brandt nel 1 9 74 con un personaggio come Helmut Schmidt che aveva pesato molto sul piano internazionale; il ruolo del socialismo spagnolo nella democratizzazione seguita alla scomparsa di Franco : erano tutti elementi che sembravano gonfiare le vele per un socialismo italiano, affrancato da un complesso di inferiorità verso un competitore comunista che stava perdendo lo smalto della fascinazione che aveva conservato dalle lotte dell'antifascismo europeo ( non da ultimo oppresso dal grigiore e dall' inconsistenza della leadership brezneviana in Unione Sovietica) . Craxi, cui certo non mancava l 'intuito politico, capì che si stava per aprire uno spazio per lanciare un progetto di nuovo governo della ripresa economica, quella che avrebbe riportato l ' Italia a un alto standard di benessere. Su questa intuizione chia­ mava a raccolta diverse componenti dei ceti dirigenti, offrendo il P S I come leva politica per l 'ammodernamento36• L'operazione ebbe un successo parziale : se è vero che una certa quota di intellettuali, manager, alti burocrati, iniziarono a guardare al P S I come una collocazione per loro interessante, rimase il fatto che le rispettive cor­ porazioni erano ancora radicare nelle antiche fedeltà vuoi alla D C , vuoi all 'universo dei partiti laici, vuoi allo stesso P C I . Da un certo punto di vista, il Partito comunista avrebbe dovuto essere ben attrez­ zato per l 'analisi del cambiamento sociale, radicato com'era in tante realtà del paese. Invece nel suo gruppo dirigente prevalsero contemporaneamente la vecchia sindrome dell'attesa del crollo del sistema capitalistico e la nuova paura, dei suoi gruppi di riferimento, che un'accettazione dei mutamenti potesse portarli a perdere le loro consolidate posizioni di potere e soprattutto quelle nuove, che si pensava potessero venire dalla "crisi del sistema". Seguendo una logica che era stata già da tempo impostata, il nuovo segretario 3S· Sulla vicenda di Craxi cfr., fra gli altri, P. Craveri, L'irresistibile ascesa e la drammatica caduta di Bettino Craxi, in G. Acquaviva, L. Covatta (a cura di), Il crollo. Il PSI nella crisi della prima Repub­ blica, Marsilio, Venezia 2012, pp. 6 67-83; S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2oos. 36. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010; S. Colarizi et al. (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004. 3 22

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del partito, Enrico Berlinguer37, pensò che l 'ora della riscossa fosse giunta più sul piano di affermazione di una superiore moralità politica che non su quello del governo di una nuova fase di sviluppo economico. La nota tesi dell'austerità che egli lanciò in un discorso al Teatro Eliseo nel 1 9 77 è stata vista spesso come la cartina di tornasole della vecchia cultura comunista, accanto a quello che Andrea Romano ha definito « il fascino del crollismo »38. Mi permetto tuttavia di ricordare che una delle più lucide analisi di questo passaggio è quella offerta da Luciano Cafagna in un suo fortunato saggio39. Fin dalla prefazione al libro, Cafagna denunciava « il peculiare incrocio che da noi si forma fra una diffusa propensione al massimalismo anarchico ed estremista [ ... ] e un altrettanto diffuso desiderio di rifugio sotto guida autoritaria » 40. Questa singolare simbiosi gli era apparsa come una caratteristica del comunismo italiano nella versione che ne aveva elaborato Togliatti. «Nato in un clima culturale prebellico antigiolittiano di critica estetico-moralistica della democrazia, Togliatti aggiunse a questa critica, attraverso l'esperienza postbellica, quella del massimalismo, il quale aveva aperto in Italia un vuoto di potere senza essere poi capace di occuparlo » 41. Ed ecco la conclusione a cui giungeva: La possibilità di giocare con la tradizione massimalistica, cercando di controllarla, ma usan­ dola costantemente per ricavarne una accumulazione di risorse politiche è parte essenziale dello stile forgiato in 4 5 anni di storia del PCI. [ . . . ] Nelle nuove condizioni il rischio forte è che un massimalismo sollecitato (operaio, studentesco, verde, pacifista o quel che sia) non risulti più controllabile per manco di briglia, e trascini esso il partito postcomunista alla deriva42•

Probabilmente quel che Cafagna diceva per il PCI a inizio degli anni Novanta sarebbe stato applicabile anche al suo grande antagonista, la D C , che, ritrovato anch'essa il suo massimalismo confessionale, con cui giocava spregiudicatamente senza poterlo in seguito tenere più a bada, finiva poi vittima in ultimo di altri che con lui potremmo definire "massimalismi sollecitati" (e qui sarebbe da ricordare che proprio con la fine degli anni Settanta il potere di Comunione e liberazione iniziava a mettere serie ipoteche sulla presenza politica dei cattolici43) . 37· Su cui F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, Carocci, Roma 2006. 38. A. Romano, Compagni di scuola. Ascesa e declino dei postcomunisti, Mondadori, Milano 2008, p. 47· Sull' impostazione culturale di Berlinguer, cfr. anche S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006. 39· L. Cafagna, C 'era una volta... Riflessioni sul comunismo italiano, Marsilio, Venezia 1991. 40. lvi, pp. X-XI. 41. lvi, p. XII. 42. lvi, pp. XVI-XVI. 43· S. Abbruzzese, Comunione e Liberazione. Identita religiosa e disincanto laico, Laterza, Roma­ Bari I99I.

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Da bravo storico Cafagna prendeva le mosse da quell' inizio Novecento che ci ha trasmesso la preminenza del "partito degli intellettuali", quelli che ci hanno lasciato un'eredità pesante: «la rappresentanza, si potrebbe dire, è interamente sostituita dalla rappresentazione - il mito - che ne fa le veci » 44• Che tutto questo si riversasse nelle pagine di riviste più o meno dotte o nei talk show più o meno strattonati delle TV forse non presentava così grandi differenze di fondo. Ciò che interessava a Cafagna era mostrare come alla fine questo approccio fosse diventato l'oppio della sinistra dominata dai comunisti, che erano riusciti a costruire un grande successo, ma « un grande successo rimasto - come dire ? - "interno" ( interno alla opposizione, vissuta come universo autogratificante), non risoltosi mai, cioè, nell'accesso al governo del paese » 45• Nel suo giudizio il P C I era stato abile ad acquisire per sé delle eredità politiche, da quelle del massimalismo socialista a quelle della cultura fascista dell 'organizzazione politica, entrambe utilissime per il suo radi­ camento, ma anche per la sua espansione. Solo che il partito togliattiano non aveva usato quelle risorse per una battaglia frontale in vista della conquista del potere (certo difficile per il contesto internazionale), ma solo per farne strumento per l'accumulo di tutte le ulteriori risorse che venivano offerte dalle varie crisi in cui si sarebbe trovato immerso il paese. Tutto era giustificato come l'attesa di quella che, per sbri­ garcela con una parola che egli non usa, sarebbe stata la mitica ora X. Solo che «la sua [del PCI ] strategia, da attendista che era, diveniva una strategia di accumulazione di risorse politiche fine a sé stessa, che non attendeva più nulla » 46• Viene qui un passaggio che a me sembra centrale: se lo stemperarsi dell 'attesa della mitica ora X comportava un'accettazione del contesto costituzionale democra­ tico, bisognava però che questa trasformazione fosse giustificata in maniera da non entrare in contraddizione con quella rappresentazione che reggeva l 'autonomia e l'autoreferenzialità del comunismo italiano. Ecco come Cafagna illustra questa evo­ luzione: L'accettazione della democrazia in senso occidentale si è accompagnata sempre a una "critica della democrazia" di stampo marxista radicale, che finiva in copertura di fatto del marxismo­ leninismo, e dunque dell'antidemocrazia. La pretesa di "occidentalità" si accompagnava sempre a un feroce antiamericanismo da "scelta di campo". La tiepidezza verso l'uRSS si accompagnava sempre a una sdegnata difesa di quel paese e dei suoi satelliti dalle "calunnie"47•

Era questo solo il PCI di Togliatti e dei suoi immediati eredi ? Cafagna conosceva troppo a fondo quella storia per cadere in una simile ingenuità. Egli sapeva bene che nel comunismo italiano esisteva anche un'anima, attiva sin dal 1956, che aveva un'idea 44· Cafagna, C 'era una volta .. , ci t., p. 1 4· 45· lvi, p. 15. 46. lvi, p. 100. 47· lvi, p. 101. .

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diversa, ma che non sarebbe mai riuscita a diventare non dirò maggioritaria, ma neppure culturalmente egemone: l'anima che sarebbe stata etichettata come "migliorista"48• Vediamo come descrive questo autentico dilemma del maggior partito della sinistra italiana. Amendola proponeva in sostanza di contribuire immediatamente alla governabilità del paese, per avanzare una candidatura di accesso al governo. Berlinguer attese la catastrofe cilena e il 1 9 7 3 per prospettare una mediazione più ampia, ma fu sempre esitante: il "com­ promesso storico" aveva le stimmate del messaggio temporeggiatore togliattiano del 1 9 5 4 ( il "dialogo coi cattolici" ) . Sotto il decisivo profilo internazionale, la formula del "compromesso storico" restava ambigua, si collocava a cavallo fra mondo occidentale e mondo comun ista proprio in un momento nel quale stava per scatenarsi l'ultima grande offensiva diplomatico­ militare sovietica. La crisi italiana degli anni Settanta parve offrire l'occasione di una con­ versione strategica radicale. Ma assai presto il successore di Togliatti e di Longo prese paura dei costi immediati di una conversione siffatta, ritornando alla prassi tattica delle tensioni manovrate ( 1 9 79 ) 49•

Non è strano che questa costellazione di eventi proponesse il già ricordato duello a sinistra50: il P S I si sentiva portatore di una nuova cultura di governo adatta alla modernità, ma in contraccambio pretendeva una egemonia sulla sinistra sul modello europeo (Mitterrand nel 1981 vinceva le elezioni presidenziali in Francia, l'anno seguente Felipe Gonzales diveniva primo ministro in Spagna) . Il P C I non poteva ovviamente concedere questo "sorpasso" che non solo non era giustificato dalle con­ sistenze elettorali, ma che avrebbe contraddetto tutte le profezie di vittoria finale del modello comunista, fosse pure quello della "via nazionale" italiana, profezie su cui si fondava la religione civile del suo mondo di riferimento. Naturalmente la D C non poteva restare uno spettatore silente rispetto a queste evoluzioni, che comunque erano fondate su un giudizio di sua inevitabile estinzione come forza egemone in quanto anche per essa sarebbe venuta meno la religione civile su cui era fondata, cioè l' identificazione della cultura politica nazionale in senso lato con la cultura antropologica, in senso ancora più lato, di un popolo inquadrato nelle sue scadenze fondamentali dai riti religiosi51• Ritengo che un problema non secondario, e, per quanto ne so, non ancora inve­ stigato sia costituito dal fatto che alla cultura politica della D C era preclusa una seria 48. G. Napolitano, Dal PC/ al socialismo europeo. Un 'autobiografia politica, Laterza, Roma-Bari 2oos. 49· Cafagna, C 'era una volta .. , cit., pp. 11 3-4. so. L. Cafagna, G. Amato, Duello a sinistra. Socialisti e comunisti nei lunghi anni '7o, Marsilio, Venezia I982. S I. A. Giovagnoli, Il partito italiano. La DC dal I947 al I994· Laterza, Roma-Bari I996; Id., La crisi della centralita democristiana, in Colarizi et al. (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, cit., pp. 6s-Ioi; R. Orfei, Gli anni di latta (osservazioni sull'epilogo della DC), Marietti, Genova I998. .

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riflessione su quella che si definiva la "secolarizzazione", cioè appunto il tramonto della presa come cultura diffusa di quella certa specie di atteggiamenti cattolici nel rapporto con l'interpretazione del mondo. Ovviamente c 'erano dibattiti e studi che affrontavano l 'argomento, ma era impossibile accettare la semplice verità: la secola­ rizzazione non riguardava semplicemente il distacco di larghe masse di cittadini dalla pratica religiosa (cosa che in parte non poteva venire negata, ma in parte aveva dimensioni ancora relativamente non drammatiche) , bensì toccava un diverso modo di rapportarsi degli stessi cattolici praticanti con il vecchio universo gerarchico della Chiesa istituzionale, come era stato rivelato dai referendum su divorzio e aborto. Questa mutazione, in seguito divenuta molto evidente, non poteva essere accettata pubblicamente perché avrebbe tolto alle gerarchie ecclesiastiche gran parte della giustificazione per il loro potere in campo civile, il che pertanto impediva si prendesse approfondita coscienza del fenomeno. Naturalmente a buona parte dei gruppi dirigenti della D C faceva poi comodo non porsi quel problema a livello teorico, illusi di poterlo risolvere a livello pratico : l'esempio della C D u- c s u tedesca, che con Kohl nell 'ottobre 1 9 82 avrebbe strappato la cancelleria ai socialdemocratici, sembrava indicare la via di una trasformazione silente in un partito di gestione moderata e senza più le effervescenze ideologiche del nuovo benessere . .. E singolare osservare a questo punto come gli altri partiti del sistema non siano stati in grado di giocare alcun serio ruolo in questo frangente. I cosiddetti "laici" (liberali, repubblicani, social-democratici) erano sempre più piccoli partiti di lobby: certo avevano qualche figura di livello, ma nel complesso erano divenuti incapaci di tenere legati a sé i ceti un tempo identificati dalla loro religione civile. Questi ormai erano per lo più passati nelle file di movimenti di opinione che si rispecchiavano in diversi organi di stampa, ma che si ritenevano liberi dalle vecchie appartenenze "di steccato". Così finirono per perdere la loro ragion d'essere, essendo esclusi anzitempo da un ruolo di gestione di quello che rimaneva del sistema dei partiti. Lo stesso M S I si avviava a cambiare pelle, pur con un travaglio per nulla indolore. Sarebbe alla fine tramontata l' identità parafascista con l'elezione a segretario nel 1987 di Gianfranco Fini, che significativamente sconfisse in quelle elezioni l 'ultimo can­ didato ideologicamente legato al fascismo, Pino Rauti. L'affermazione con cui il vecchio segretario storico Giorgio Almirante salutò quell'evento, « nessuno potrà dare del fascista a chi è nato nel dopoguerra » , è anch'essa emblematica;2• Da un certo punto di vista, un passaggio chiave potrebbe essere individuato nelle elezioni del 14 giugno 1987, che videro una buona affermazione della D C , un crollo del PRI, un deludente risultato del P S I e un risultato non buono del P C I . L' interpre­ tazione avrebbe potuto essere che in sostanza il sistema ritornava alla sua antica 52. Sull'evoluzione di questi partiti minori, cfr. G. Nicolosi (a cura di), I partiti nell'Italia repub­ blicana. Atti del convegno di Siena {s-6 dicembre 2002), Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2006.

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saldezza. Così lessero i vertici conservatori della D C , con la nota alleanza fra Andreotti e Forlani e con il sostegno esterno di Craxi che voleva sbarazzarsi di De Mita ( un'al­ leanza che divenne nota con l'acronimo CAF). Essi, al XVI I I Congresso del partito il 22 febbraio 19 89, estromisero De Mita consegnando la segreteria a Forlani e insedia­ rono poi al governo Giulio Andreotti. Si trattò, però, per tutti costoro di una classica vittoria di Pirro. Sebbene Craxi ritenesse di poter procedere sulla via dell 'egemonia intellettuale riguardo alla capacità di governo del futuro con i famosi "1o punti" programmatici che presentò al XLV Con­ gresso del PSI a Milano il 1 3 maggio 1989 e poi con le altrettanto famose "tesi" rifor­ matrici, fatte approvare dalla Conferenza programmatica di Rimini del 22-25 marzo 1990, il PSI non aveva la forza di guidare la necessaria grande trasformazione53• Come ha scritto ancora una volta Cafagna, che non è per nulla tenero nel suo giudizio su Craxi ( un tattico, formidabile in questo ruolo, ma poco interessato alle politiche di « visione » , un « animale politico di radicate convinzioni ideologiche, ma rinascimentalmente amorale » , privo del carisma di « comunicare » con la gente, qualità indispensabile in chi voglia mettersi alla testa di una grande trasformazione54 ) , la colpa del fallimento pressoché totale di quello che avrebbe voluto essere il disegno craxiano, e che non doveva necessariamente coincidere con l'apoteosi del leader socialista, fu di un Berlinguer spaventato « di fronte all 'osso duro del compromesso economico-sociale » . Così « buttando in acqua l'ala del suo partito che verrà poi detta "migliorista" aveva rovesciato maldestramente la barca "in mezzo al guado" e fatto perdere dieci anni - forse gli ultimi anni "utili" che la storia lasciava a quel partito - a quella che venne chiamata la "lunga marcia" dei comunisti italiani » 55• E prosegue: Se qualcuno "ha sulla coscienza" l'esperimento craxiano, questi è Berlinguer, o, se si vuole, il miope entourage che allora lo fece tornare indietro e che dopo di lui prese il controllo del partito. E agevole prevedere che se si fosse andati innanzi sulla strada indicata da Giorgio Napolitano, per il craxismo, nella migliore delle ipotesi, non ci sarebbe stato molto più posto sulla scena politica italiana di quanto ce ne è mai stato per lo strenuo e ottimo Pannella56• '

Concorse con questo certamente l'ultima crisi della D C , a sua volta incapace di valu­ tare il peso della vera e propria rivolta che si stava impadronendo anche di quei movimenti del cattolicesimo sociale che - dall'epoca della segreteria Zaccagnini in avanti - avevano pur accettato, obtorto collo, di continuare a militare almeno nel S3· Sul difficile contesto in cui si muoveva il riformismo italiano, cfr. L. Covatta, Menscevichi. I rifòrmisti nella storia dell'Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 2oos. S4· L. Cafagna, La grande slavina. L'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia 1993, p. 1oo. SS· Ibid. s6. lvi, p. Iol. 3 27

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perimetro esterno del partito tradizionale dei cattolici. In parte contando sulla pre­ senza sempre più forte di Comunione e liberazione, che sembrava un'ottima alter­ nativa al tradizionale movimentismo del cattolicesimo sociale57, in parte semplice­ mente non capendo quel che stava accadendo, il duo Andreotti-Forlani e i loro sostenitori guidarono il partito alla sua distruzione progressiva.

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Verso la dissoluzione del sistema Eppure vi era un altro segnale della secolarizzazione della sfera politica italiana: il successo delle Leghe, che nelle elezioni amministrative del maggio 1989 sarebbe apparso con assoluta evidenza58• Esso mostrava con tutta chiarezza come si fosse esaurito il contesto dell 'acculturazione scolastica come era stata conosciuta sino ad allora: la religione civile delle Leghe ( se possiamo anche per loro usare questo ter­ mine, in verità improprio ) era di natura elementare, fondata su una cultura fatta di luoghi comuni, di leggende metropolitane, di slogan qualunquistici. Sebbene nel Forum permanente dei cattolici democratici, che si riunì il 2 giugno 1990, ci fosse ancora da parte di molti una certa riluttanza ad abbandonare la DC59, la decisione presa nel gennaio 1991 dal democristiano Leoluca Orlando di fondare un nuovo movimento, La Rete, che ebbe subito un buon successo alle elezioni regio­ nali siciliane ottenendo un cospicuo 7%, fu un ulteriore segnale che ormai la vinco­ latività morale del sistema di appartenenze partitiche che aveva segnato la Repubblica italiana si era esaurita. Del resto, come avrebbe potuto essere diversamente ? Molti eventi, oltre a quelli che ho appena citato, trasmettevano il messaggio di un mondo che si stava sgreto­ lando. C 'era naturalmente il contesto internazionale che già aveva abbondantemente fornito elementi per far maturare questa convinzione: la crisi nell ' Unione Sovietica e nell' Europa orientale era più che visibile, soprattutto per i fatti polacchi, ma anche l'avventura di Gorbacev venne impropriamente interpretata come un processo desti­ nato alla democratizzazione dell 'universo comunista60• S7· Su questo punto si ricordi la violenta partita contro queste tendenze aperta dal settimanale di CL "li Sabato" nel 19 87, poi raccolta in A. Socci, R. Fontolan, Tredici anni della nostra storia, Editoriale italiana, Milano 1988. s 8. Su questo fenomeno, cfr. R. Biorcio, La rivincita del Nord. La Lega dalla contestazione al governo, Laterza, Roma-Bari 2010; l. Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un progetto politico, Donzelli, Roma 1993; R. Cartocci, Fra Lega e Chiesa, il Mulino, Bologna 1994· S9· M. Carattieri, Una democrazia in crisi di trasformazione. Tra ricerca sociale e nuovi percorsi politici (I9SI-2004), in M. Carattieri, M. Marchi, P. Trionfìni, Ermanno Corrieri (I920-2004). Un cattolico sociale nelle trasformazioni del Novecento, il Mulino, Bologna 2009, pp. 648-52. 6o. S. Pons, L'invenzione del "post-comunismo': Gorbacev e il Partito Comunista Italiano, in " Ricerche di Storia Politica", 2008, 1 1, pp. 21-36.

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A complicare la percezione dei cambiamenti, percezione che era indotta da quanto è stato richiamato, si aggiungeva una considerazione in parte nuova della posizione che poteva essere occupata dal PCI. I media documentavano ampiamente un'evoluzione che lo allontanava dai vecchi, tradizionali lidi ideologici, sicché appa­ riva come un gestore della transizione in atto maggiormente affidabile del PSI. Il diffondersi di questa opinione spaventava sempre di più Craxi e il gruppo dirigente del suo partito, che gestivano con spregiudicatezza la fase politica. La DC poi non si tratteneva dal tallonare il PSI in questa impresa. Se al XVIII Congresso del PCI nel marzo 1989 Occhetto faceva ancora affida­ mento sulla possibilità di rilanciare la diversità del comunismo italiano, pochi mesi dopo, nel novembre, mutava rotta: il 12 annunciava solitario in una sezione del partito a Bologna che era ormai necessario cambiare nome, e il 24 faceva sostanzial­ mente ratificare, non senza contrasti, questa decisione dal Comitato centrale. Non è ora il caso di seguire nei dettagli una storia che è ben nota nelle sue linee fondamentali6• e che porterà nel febbraio 1991 al congresso in cui verrà fondato il Partito democratico della sinistra (PDS), nome che già di suo era abbastanza confuso per segnare l'abbandono poco glorioso di una tradizione ideologica che era divenuta religione civile per masse rilevanti di cittadini. Aveva ragione Ermanno Gorrieri, ormai democristiano in uscita, ad affermare in un' intervista del 2 febbraio 199 1 : « Se io ho un rammarico è che il PCI non è abba­ stanza di sinistra: da quando tenta di resistere al declino va alla ricerca di movimenti radicali e radicaleggianti » 62.. Era una fotografia impietosa, ma si sarebbe rivelata una profezia anche sul lungo periodo. Nell 'aprile 1990 si era avviata, sotto la regia di Mario Segni e di un comitato composito riunito attorno a lui, la raccolta di firme per un referendum che puntava alla riforma della legge elettorale: la campagna si sarebbe chiusa ad agosto con la raccolta di oltre 6oo.o oo firme, con i partiti governativi che osteggiavano invano e il partito di Occhetto che si accodava. La decisione del presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nella primavera 1991, di trasformarsi nel "picconatore" delle istituzioni e poi la sua lettera al "Popolo", quotidiano della DC, del 24 gennaio 1992, in cui annunciava la sua « dolorosa sepa­ razione » dalla DC, era un altro tassello della destabilizzazione, a cui si sarebbero aggiunti lo scioglimento delle Camere, l' indizio ne di elezioni anticipate e le stesse dimissioni anticipate del presidente Cossiga. Le elezioni del s-6 aprile 1992 segneranno indubbiamente una svolta, anche se è eccessivo dire che i partiti tradizionali erano crollati, poiché, per quanto significati6 I. A. Guiso, Dalla politica alla societa civile. L'ultimo PCI nella crisi della sua cultura politica, in Acquaviva, Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, cit., pp. I8 I-220; A. Possieri, Il peso della storia. Memoria, identita, rimozione dal PCI al PDS (1970-1991), il Mulino, Bologna 2007. 62. Citato in Carattieri, Una democrazia in crisi di trasfo rmazione, cit., p. 642.

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vamente ridotti, rimanevano su percentuali che ancora non preludevano al loro sfascio. Quel che è però significativo è che in queste elezioni si registrò un pullulare di liste, di cui ben 21 con almeno uno 0,1% di voti (circa 43 .0 0 0 voti) e ben 25 altre al di sotto di questa soglia minima: la dissoluzione del sistema era ormai evidente. Si aggiunga che si stimava che ben un terzo degli elettori avessero cambiato voto rispetto a quello che avevano espresso nel 1987. A determinare il passaggio del sistema dei partiti alla Seconda Repubblica sono state dunque in primo luogo queste trasformazioni che ho cercato di documentare. Certamente le note vicende che vanno sotto il nome di Mani pulite ( il 17 febbraio 1992 veniva arrestato Mario Chiesa dando il via alle inchieste giudiziarie che avreb­ bero decapitato la classe politica italiana) hanno dato un apporto importante alla dissoluzione del vecchio sistema, ma non sono state realmente determinanti da sole. Esse infatti avrebbero potuto semplicemente causare il tramonto di una classe diri­ gente, lasciando i partiti in mano a un nuovo personale politico, secondo quello che del resto era auspicato da tempo. Si sarebbe persino potuto assistere semplicemente alla "rifondazione" sotto altro nome di quanto era andato in crisi, mentre invece tutti i tentativi in questa direzione si rivelarono ben presto poco credibili e finirono in modo fallimentare. Noto pure che una parte non piccola della classe politica che stava nei loro quadri dirigenti sarebbe rimasta in campo. Ciò che invece non è sopravvissuto per nulla è proprio il "sistema" di cui quei partiti erano figli e che avevano sviluppato fino a un alto grado di sofisticazioné3• lnnanzitutto sono venute meno del tutto le tradizionali famiglie politiche con le loro religioni civili o, se si preferisce, con le loro subculture tradizionali. Nemmeno quella comunista è sopravvissuta, e non perché la caduta del Muro di Berlino abbia privato quel partito di un riferimento internazionale che aveva abbandonato ormai da anni, ma perché in quel campo si è finito per dare vita a un partito per così dire "radicale di massa", privo di qualsiasi anima ideologica (e culturale) che non fosse la semplice pretesa di rappresentare la catarsi storica e la tutela di "diritti individuali" (veri e presunti) che si credevano espandibili senza limiti nella società dei consumi e che invece iniziavano a venir messi in questione dalle trasformazioni economiche a livello mondiale. La dissoluzione dell 'antico universo del cattolicesimo politico era, come ho accennato, iniziata ben prima, ma quella tradizione non è neppure riuscita a far sopravvivere un'esperienza di equilibrato governo delle tensioni sociali che pure aveva accumulato in anni che oggi appaiono da rivalutare. I suoi dirigenti dell 'ultima fase, non diversamente da quelli di altri partiti, si sono semplicemente riciclati in ogni luogo dove vi fosse domanda di professionismo politico o dove si potesse con­ tare sull' illusione di far rivivere delle fedeltà elettorali ormai esauste. 63. Sugli sviluppi di questa vicenda, cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (1gSg-2oii), Laterza, Roma-Bari 2012. 33 0

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La vera novità è stata costituita dal partito personale di Silvio Berlusconi, che è nato su un modello completamente alternativo alla tradizionale forma-partito : non fondato su un ' ideologia, bensì su slogan "pigliatutto", senza strutture di coinvolgi­ mento e militanza, ma con un recupero del sistema dei radicamenti notabiliari e di quelli delle mobilitazioni populiste ( amplificati dall 'uso dell 'arena televisiva ) , privo di un sistema di formazione istituzionalizzata delle decisioni e di strutturazione dei livelli decisionali, ma organizzato con l'antico sistema della corte attorno al principe. Esso non era più interessato a "fare sistema" con le altre componenti nazionali, neppure in forma dialettica, ma puntava semplicemente a quella che una volta si chiamava l'occupazione del potere, convinto che in fondo questo fosse il palio del sistema elettorale. Semmai, la democrazia sarebbe stata salvaguardata dall'alternanza che è consentita ormai dalla conquistata libertà di scelta di elettori svincolati da appartenenze pregiudiziali a subculture politico-sociali, perché queste sono esaurite. Si tratta di un 'anomalia ? Temo che chi la pensi in questo modo si illuda. Mi pare invece che almeno sino a ieri esso abbia costituito il modello di riferimento della ristrutturazione di tutte le forze politiche in campo, comprese quelle che sembrereb­ bero avversarlo radicalmente, che stanno assumendo anch'esse, per quanto a volte in maniera un po' mascherata, i tratti di cui ho detto. Il tema che sarebbe da porre è se un sistema politico fondato sul costituzionalismo democratico possa sopravvivere privo di una simbiosi con un vero sistema di partiti, considerando che, se non è nato da essa, da essa ha preso vigoré4• Ma questa è una domanda sul futuro, dunque non è domanda da porre a uno . stonco.

64. Per questa simbiosi, cfr. Pombeni, La ragione e la passione, cit. 33 1

Politica e an tip olitica dalla Prima alla Seconda Rep ubblica di Simona Colarizi

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Populismo, neopopulismo, antipolitica La lunga stagione di movimenti contro i partiti e la classe politica e soprattutto il ruolo da loro esercitato nel disfacimento della Prima Repubblica pongono inter­ rogativi ancora aperti sulla natura di questi fenomeni del resto non circoscrivibili al solo caso italiano. Il dibattito tra politologi e sociologi ruota in particolare intorno alla questione se e in quale misura questo movimentismo, nelle sue varie forme, sia riconducibile alla categoria del populismo - o meglio del neopopulismo, dal momento che il contesto generale appare profondamente cambiato rispetto alle insorgenze populiste del secolo scorS0 1• Il richiamo a una comune matrice populista porta però a interpretare questa mobilitazione non solo come il risultato di mec­ canismi rappresentativi logori o in crisi, ma come il manifestarsi di un rifiuto della politica in tutte le sue manifestazioni - partiti, Parlamento, istituzioni -; un rifiuto pericoloso per la stessa sopravvivenza degli assetti democratici. Sotto un profilo storico, il concetto di antipolitica, specie nell'abuso che ne viene fatto a livello giornalistico, appare in ogni caso ambiguo, se non contraddittorio quando si vadano ad analizzare i singoli movimenti che, dotati o non dotati di assonanze populistiche più o meno vistose, sono mossi da una volontà collettiva di impegno nella politica; una politica, certo, che si vuole cambiare, rinnovare, rifondare, ma sempre nutrimento vitale alla loro stessa ragione di essere. Piuttosto che ipotizzare in astratto scenari distruttivi della democrazia, mi pare più produttivo verificare le ragioni di questa contestazione, le singole specificità, i processi di istituzionalizza­ zione o di sfaldamento del movimentismo e, naturalmente, quali effetti ha prodotto nella vicenda politica del paese. 1. Troppo lunga sarebbe una nota bibliografia che desse conto dei lavori su questo tema. Rinviamo ai volumi di G. Hermet, I populismi nel mondo. Una storia sociologica {XIX-XX sec.), Bollati Boringhieri, Torino 2003 (ed. or. Paris 2001), e di P.-A. Taguieff, L'illusione populista, Bruno Mondadori, Milano 2003 (ed. or. Paris 2002); e in riferimento al caso italiano, M. Tarchi, L'Italia populista. Dal qualun­ quismo ai girotondi, il Mulino, Bologna 2003. 333

SIM ONA COLARIZI

A fronte di una produzione politologica e sociologica abbastanza approfondita, la storiografia marca un certo ritardo negli studi sui movimenti politici degli anni Ottanta, Novanta e Duemila, a eccezione di quelli relativi al leghismo, oggetto di ricerche che si sono via via approfondite con il progressivo radicarsi delle leghe, in particolare della Lega Nord, il cui peso politico è aumentato a dismisura con la muta­ zione in vero e proprio partito nei primi anni Novantal.. Rispetto al primo trentennio della storia repubblicana, scandito da ondate movimentiste relativamente circoscritte, a partire dal 1968 e poi negli anni Settanta si apre una stagione di movimenti, molti dei quali non sono omologabili - non fosse altro per la carica di violenza in essi pre­ sente - all'ondata pacifica degli anni Ottanta. Da questo periodo in poi si assiste a un' intensa diffusione della protesta politica, che assume diverse forme, dalle leghe ai referendari di Mario Segni, alla Rete di Leoluca Orlando, alla sinistra dei club; tutti movimenti alimentati da una grande mobilitazione delle associazioni cattoliche e laiche e dal sostegno attivo di variegati ceti sociali, di esponenti delle istituzioni - i magistrati in particolare - e persino dello stesso establishment politico e delle gerarchie ecclesiastiche. Un fenomeno di questa portata va naturalmente ricondotto al progres­ sivo logoramento del sistema politico, entrato in una fase di declino divenuta inarre­ stabile sulla spinta di due avvenimenti esterni, la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e la scadenza di Maastricht nel 1992, entrambi distruttivi della cornice nella quale per quasi mezzo secolo si sono iscritti gli equilibri politici dell' Italia. Da un punto di vista europeo, la dissoluzione dell' Unione Sovietica e l'avvio dell'unificazione monetaria segnano del resto il culmine del passaggio da un'epoca all'altra nella storia del mondo; una transizione che già ha manifestato i suoi effetti in Italia sia nella lenta scomposizione del tessuto sociale ed economico del paese, sia nella altrettanto lenta destabilizzazione dell'edificio politico e istituzionale, rimasto per così dire congelato negli assetti fondativi degli anni Quaranta3• E questo il primo passo per comprendere la spirale in ascesa della protesta da parte di soggetti così diversi gli uni dagli altri, per alcuni aspetti eredi della mobilitazione antipartitocratica animata dai radicali negli anni Settanta, per altri decisamente nuovi, come il leghismo, che non a caso si era cominciato ad affacciare sulla scena alla fine dello stesso decennio. Un disagio di natura soprattutto socioeconomica fa da terreno di coltura delle leghe, che esprimono lo scontento di ceti sociali emergenti o comunque coinvolti nel bene e nel male nel processo di trasformazione economica che la classe politica appare incapace di gestire. Non è invece il mutamento ma proprio la continuità di una società ..

2. D. Vimercati, I lombardi alla nuova crociata, Mursia, Milano 1 990; R. Mannheimer (a cura di), La Lega Lombarda, Feltrinelli, Milano 1 992; G. De Luna (a cura di), Figli di un benessere minore. La Lega 1979-1993, La Nuova Italia, Firenze 1993; L Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma 1993 (n.e. 1996); R. Biorcio, La Padania promessa, il Saggiatore, Milano 1997; M. G6mez-Reino Cachafeiro, Ethnicity and Nationalism in ltalian Politics. lnventing the Padania: Lega Nord and the Northern Question, Ashgate, Aldershot 2002. 3· M. Gervasoni, Storia dell'Italia negli anni Ottanta, Marsilio, Venezia 2010. 334

POLITICA E ANT I P O LITICA DALLA PRIMA ALLA SEC ONDA REPUBB LICA

rimasta indietro nel processo di sviluppo a gonfiare le file della Rete di Orlando, che intercetta la protesta contro la criminalità organizzata nel Sud e in particolare in Sicilia, dove il grado di inquinamento mafioso nella politica locale soffoca la già debole economia, con conseguenze nefaste sull 'intero tessuto sociale dell 'isola. Motivazioni politiche più esplicite hanno invece altri movimenti : la mobilita­ zione referendaria di Segni, democristiano di rango, ma autonomo dalle correnti, esprime l 'impazienza di una parte dell'establishment convinto che solo una riforma istituzionale possa sbloccare il sistema, da quarant'anni guidato dagli stessi partiti. La proposta di un referendum per cambiare le leggi elettorali ha una larga eco in settori culturalmente e politicamente impegnati, tra intellettuali, accademici, nuovi professionisti della comunicazione, in gran parte provenienti dalla contestazione sessantottina, vicini al P C I e alla sinistra democristiana, alcuni anche al P S I , nella fase iniziale della segreteria di Craxi. Sono loro a dar vita alla sinistra dei club - o "sini­ stra sommersa" - con l'obiettivo di un rinnovamento complessivo della politica, a partire dagli ormai anacronistici partiti di integrazione di massa. Con il progressivo declino del P C I e il rinnovato patto di alleanza tra la D C , il P S I e i partiti laici - una coalizione governativa risalente al 1962 e rimasta più o meno inalterata nelle sue componenti - il quadro politico sembra essersi definitivamente immobilizzato. Logico che l'assenza di ricambio e le pratiche lottizzatrici abbiano dilatato l'area della corruzione, un male antico e certo non sanato dalla legge sul finanziamento pubblico ai partiti votata nel 1975. La protesta contro i politici corrotti è il motivo unificante del movimentismo, amplificato a dismisura dalle TV pubbliche e private che mettono in scena lo spet­ tacolo nelle "piazze elettroniche", estensione degli studi televisivi, dove un pubblico selezionato e partecipe assiste sempre più numeroso alle trasmissioni di infotainment finalizzate alla denuncia del malaffare e del malgoverno. Sull 'influenza della comu­ nicazione nella diffusione della protesta, si dispone oggi di una solida letteratura internazionale e italiana che ha evidenziato il ruolo dei nuovi professionisti dell 'in­ trattenimento e dell'informazione, rapidi nel cogliere la crescita esponenziale degli umori antipolitici e abili nel trasformarli in spettacolo. Uno spettacolo appassionante, se si considera che per tutti i cittadini del mondo la corruzione è il principale motivo della progressiva, impressionante crisi di fiducia nei confronti della classe politica, come dimostrano i dati dei sondaggi degli ultimi trent 'anni4• Sono sicuramente i 4· Anche in questo caso una nota bibliografica sarebbe ridondante. Si rimanda al lavoro di M. Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi, Milano 2009, che resta a mio giudizio una delle analisi più esaustive sull' intero panorama internazionale. Secondo Castells, « i dati dei sondaggi rilevano che la percezione della corruzione è il più significativo elemento di predizione della sfiducia politica » ( ivi, p. 363). I dati dell'Eurobarometer sono da questo punto di vista impressionanti: oltre l' So% dei cittadini dell' Unione Europea non si fida dei partiti politici e oltre i due terzi non hanno fiducia nel proprio governo nazionale (Euromonitor, Global Market Information Database, Statistics Service of Euromonitor lnternational, European Commission Eurobarometer, 2007 ) .

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media il veicolo principale che offre ai movimenti politici italiani, così differenti gli uni dagli altri, un comune denominatore individuato nel concetto di società civile, un concetto ambiguo nell 'uso unificante che ne viene proposto. Tanto più ambiguo e contraddittorio in presenza di un tessuto sociale così frammentato da portare alla definizione di « società liquida » 5•

2.

Piazze mediatiche e giustizialismo Quale connessione può esistere infatti tra le leghe, percorse da umori antimeridio­ nalisti al limite del razzismo, e i seguaci della Rete, quei cittadini siciliani che hanno eletto il democristiano Orlando sindaco di Palermo con un vero plebiscito ? E quale connessione tra Segni e Bossi, che non si associa neppure alla battaglia referendaria ? Quale capacità attrattiva possono avere i temi agitati dalla sinistra dei club, la cui collocazione ideologica è di per sé divisiva in un paese dove l'eredità delle grandi ideologie ha ancora un peso non indifferente ? Per non parlare dei compagni di strada missini, che sono saltati sul carro della protesta antipartitica, alla ricerca di quella piena legittimazione politica a loro negata da quarant'anni di conventio ad exclu­ dendum . Sono i media a provvedere alla sintesi, una sintesi che naturalmente si applica anche al comune "nemico" da abbattere, la classe politica del Pentapartito, anch'essa un unicum dal quale viene cancellata ogni distinzione tra attori diversi e diverse responsabilità e ruoli. L' intera società politica è semplicisticamente rappre­ sentata come un'entità afflitta dalla malattia della corruzione cui si contrappone, appunto, la società civile sana, che ha finalmente rialzato la testa rivoltandosi contro governanti, partiti, istituzioni. E questo martellamento, che attraverso le televisioni raggiunge milioni e milioni di cittadini, a innescare la deriva populista cui alla fine si piegano tutti i leader dei movimenti, ben consapevoli di quale forza distruttiva abbia in sé l'appello al popolo sovrano. Emblematico proprio l'atteggiamento di Segni, il più lontano per carattere, edu­ cazione e storia politica, da pulsioni populistiche del resto incompatibili con gli obiet­ tivi di riforma istituzionale e sistemica alla quale sono finalizzati i referendum elettorali. Non a caso, malgrado la mobilitazione referendaria registri una progressiva crescita, quando manca solo un mese ali ' apertura dei seggi, prevalgono previsioni negative sull 'affluenza alle urne. Né stupisce se si considera la complessità dei quesiti, compren­ sibili solo agli esperti della materia e a una ristretta minoranza di professionisti e di intellettuali. Eppure, a smentire le Cassandre è proprio la cifra populista scelta da Segni nei suoi messaggi televisivi finali, quando davanti alle telecamere spiega con chiare ..

S· Z. Bauman, Vìta liquida, Laterza, Roma-Bari 2006.

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parole ai cittadini lo scopo del voto : « Dare un sano calcio nel sedere alla partitocrazia » 6• Il risultato è una corsa in massa alle cabine elettorali e una valanga di sì che fanno del referendum una pietra miliare nel percorso di distruzione del sistema. Ad amplificarne il significato ha provveduto del resto l'opposizione netta alla consultazione popolare da parte di Craxi che nel 1991 è già "l'uomo nero" per anto­ nomasia, l'emblema della corrotta partitocrazia che si vuole « mandare a casa » 7• La scansione temporale degli avvenimenti va tenuta presente per comprendere sia il picco contestativo, massimo appunto a partire da questa data, sia la reazione nel complesso debole dell'establishment, scosso nei suoi equilibri dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e poi dal dissolvimento dell ' Unione Sovietica. La scomparsa del PCI elimina uno dei due pilastri del sistema politico costruito nel 1 948 e trascina con sé nella rovina anche l'altro asse portante dell 'edificio partitico, il partito cattolico, che sull'anticomunismo ha consolidato il suo potere per quarant'anni. Nessun van­ taggio ne ricava però il P S I , da sempre forza intermedia tra i due grandi partiti e illuso di sostituirsi ai comunisti nella guida della sinistra dopo la sconfitta storica del modello sovietico. I socialisti si ritrovano invece prigionieri dell'alleanza governativa con una D C in piena crisi di identità, mentre si intensifica contro di loro l 'attacco degli ex comunisti che difendono a spada tratta quanto resta - e non è poco - del loro radicamento nel paese invocando la "diversità comunista" e cinquant'anni di opposizione ai partiti di governo : insomma rivendicano la loro innocenza dai peccati della corruzione. Difficile ipotizzare se la scelta di uscire dal governo da parte di Craxi avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi, tanto più che questa strada non viene presa in considerazione dal gruppo dirigente socialista, nell 'illusione di riuscire a ridefinire il quadro sistemico da posizioni di apparente forza. Resta il fatto che la continuità di una maggioranza sempre più disarticolata alza il livello della contesta­ zione e impedisce una difesa efficace e solidale alla D C e al P S I , ognuno ripiegato su sé stesso e pronto a deviare sull 'altro il fuoco delle indagini giudiziarie sul malaffare politico ; entrambi comunque incapaci di governare la transizione ormai avviata che si conclude tre anni dopo con la loro liquidazione. Le inchieste della magistratura hanno naturalmente un ruolo deflagrante nel magma ribollente dei movimenti antipartitici. Basta ricordare quanto pesante sia stata la loro influenza sulla vicenda politica quando negli anni Settanta una prima Tan­ gentopoli si era abbattuta sui partiti di governo con il carcere per il segretario del P S D I Tanassi, il deferimento all'Alta Corte di ben tre ministri democristiani e le dimissioni di Leone, capo dello Stato. Anche allora l'enorme clamore suscitato nel paese non era stato fattore marginale per convincere la D C ad accettare il compro6. Lettera di Mario Segni al "Corriere della Sera", 27 maggio I99I. Cfr. anche A. Chimenti, Storia dei rejèrendum. Dal divorzio alla riforma elettorale, Laterza, Roma-Bari I999· 7· S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2005. 33 7

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messo storico offerto dal P C I , cresciuto in voti proprio nella veste di "partito degli onesti". Per quanto vasta, la mobilitazione antipartitocratica di quegli anni non aveva avuto però gli stessi effetti distruttivi della seconda ondata destinata appunto a esplo­ dere nel successivo decennio. Negli anni Settanta la Guerra fredda ancora in corso aveva fatto da baluardo al partito cattolico, al quale del resto lo stesso PCI offriva la sponda dei governi di solidarietà nazionale. Le contemporanee emergenze della crisi economica e del terrorismo spegnevano in larga misura la protesta antipartitica, soffocata anche dall 'aggressività di un movimentismo ideologico nelle cui file si annidavano terroristi rossi e neri. La sfida alle istituzioni democratiche ricompattava, per così dire, il paese intorno ai partiti e dopo l'assassinio di Moro persino intorno alla D C , la più colpita dagli scandali. Archiviati gli anni di piombo, appare adesso ben più difficile fermare la tempesta giudiziaria cavalcata dai movimenti. La paura ha sostituito l'orgoglio indignato di Moro, che nel pieno della prima Tangentopoli aveva proclamato : «Non ci faremo processare nelle piazze » . Adesso la piazza mediatica convertita in tribunale del popolo paralizza gli imputati politici della vecchia partitocrazia, incapaci di reagire: perché se il sentirsi parte della società sana, della società dei "buoni", ha un effetto esaltante per i movimentisti e via via per la grande maggioranza degli italiani, il ritrovarsi nel ruolo dei "cattivi" ha un effetto deprimente e disarmante. Né si tratta di un mero moto psicologico, dal momento che, colpevole o innocente, l' intera partitocrazia è nel mirino dei pubblici ministeri che nella rappresentazione dei media hanno assunto il ruolo di vendicatori del popolo oppresso. Nessun dubbio che l' ap­ poggio entusiastico delle platee televisive ne condizioni anche l'azione e concorra alla stessa autoconvinzione da parte dei giudici di avere una vera e propria missione da compiere, quella di « rovesciare l' Italia come un calzino » , per citare una frase attribuita al pubblico ministero Pier Camillo Davigo8• Logico che monti un'ondata giustizialista irrefrenabile in un paese dove Stato e classe politica hanno deboli radici nella coscienza di una cittadinanza spesso pervasa da moti qualunquisti nella sua breve storia nazionale. Tanto più che ad alimentarla concorrono anche i giornali della borghesia moderata e la maggioranza degli intellettuali9; sono pochi in quei giorni a riflettere sulle ragioni del degrado politico, specchio di una nazione con un forte deficit di legalità; e chi osa dirlo rischia impopolarità e censure, come accade su RAI 3 alla trasmissione Svalutation di Adriano Celentano, interrotta prima della fine. Eppure il cantante predicatore che fino al giorno prima entusiasmava i telespettatori, si è solo limitato a porre la questione di quale terreno favorevole nel paese abbia trovato «l'infezione » della cattiva politica10• 8. Davigo ha sostenuto di non aver mai rilasciato questa dichiarazione. Cfr. P. C. Davigo, La giubba del re. Intervista sulla corruzione, a cura di D. Pinardi, Laterza, Roma-Bari I998, p. S I. 9· Italia corrotta? La parola ai politologi, in "Corriere della Sera", 4 maggio I992. IO. M. Luzzatto Fegiz, Celentano predicatore elettorale, ivi, I 3 dicembre I992.

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Mondo economico e protesta antipartitica Governanti corrotti/governanti onesti è l'unico ritornello che gli italiani vogliono ascoltare. Agli occhi dell 'opinione pubblica, persino gli industriali concussi vestono i panni delle vittime che finalmente hanno trovato la forza di denunciare i taglieggia­ menti subiti da parte dell'avida partitocrazia, come sostiene del resto il presidente di Confindustria Luigi Abete11• Più convincente che il fiwne di confessioni e di autoaccuse sgorghi invece dalla paura del carcere, soprattutto dopo i primi arresti eccellenti. Resta tuttavia da spiegare il salto di imprenditori di rango sul carro della protesta antipartitica; una scelta non indifferente per il successo dei movimenti, se si considera quale incidenza il potere industriale e finanziario abbia sul mondo dei media, che fa da volano al movi­ mentismo. Sono soprattutto ragioni di ordine economico a spiegare la svolta che si concretizza via via con l'avvicinarsi della scadenza di Maastricht da cui l'Italia rischia di rimanere esclusa se non si affretta a far ordine nei conti pubblici. Il rispetto dei parametri europei per l'accesso alla moneta unica richiede pesanti manovre correttive del debito, tagli al welfare e persino agli aiuti che la grande industria riceve puntual­ mente dallo Stato; vale a dire, significa minare alla base l'edificio già traballante dei consensi ai partiti12.. E comprensibile che il governo si muova con estrema cautela, malgrado le pressioni del ministro del Tesoro Guido Carli, favorevole a una politica di rigore economico. E per quanto sia sgradita la medicina, anche i vertici confindustriali, legati a filo doppio al sistema partitico, si rivoltano di fronte alla passività dei governanti. A dar loro la spinta finale contribuisce soprattutto il dilagare della protesta nei ranghi della piccola e media impresa, per un verso attirata dalle opportunità di svi­ luppo che l'area euro sembra promettere, per altri versi esasperata dai ritardi, dai lacci, dall' incuria e dall' incompetenza di una gestione pubblica incapace di rispon­ dere ai loro bisogni, ma pronta a riscuotere tangenti. I capitalisti bonsai, i Brambilla, come li definisce la stampa, sono migliaia di imprenditori con al seguito un esercito di lavoratori - tessili, meccanici, mobilieri -, forti al Nord, in Toscana, in Emilia e nell' intera fascia adriatica, oscillanti tra innovazione e chiusura nell'orizzonte di un mercato territoriale, ma consapevoli del loro ruolo trainante nell'economia italiana cui i partiti fanno invece da freno. Persino Berlusconi, fedelissimo di Craxi, abban­ dona la corte del leader socialista, lasciando le sue televisioni libere di orchestrare gli scandali dei partiti e di « sostenere i giudici di Mani Pulite, in particolare Antonio Di Pietro » , come il Cavaliere avrebbe orgogliosamente rivendicato nel 199413• A ben '

1 1. Industriali vittime dei politici corrotti, in "la Repubblica", 23 febbraio I993· I2. M. Salvati, Occasioni mancate. Economia e politica in Italia dagli anni '6o a oggi, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 73-8I; P. L. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d'Italia {I796-2oos). Bollati Boringhieri, Torino 2oos, pp. 307-IO. I3. Intervista a Silvio Berlusconi, in "li Messaggero", 8 dicembre 1994, cit. in S. Rizzo, G. A. Stella, Cosi parlo il Cavaliere, Rizzoli, Milano 20I I, p. 107. 339

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vedere, nessuno più di Berlusconi può opporsi agli umori dei Brambilla, specchi della sua stessa storia imprenditoriale e portatori dei suoi valori. E agli umori dei Brambilla si piega dunque il Gotha di Confindustria, dopo il verdetto di Moody's che nel 1 9 9 1 retrocede l' Italia in serie B. La guerra alla partitocrazia, una guerra di liberazione dell'economia italiana, è dichiarata da Cesare Romiti: « Da oggi in poi intendiamo dividere le responsabilità: ciascuno si assuma le proprie. Da oggi in poi non potremo più arrivare a formule di compromesso con il governo o con la classe politica » 14• L'esternazione dell'uomo FIAT, da sempre la maggiore beneficiaria degli aiuti pubblici, lascia allibiti i politici, che la definiscono "qualunquista" ed evocano il "complotto" dei poteri forti. Un'in­ terpretazione poco credibile, dal momento che gli industriali non offrono alcuna indicazione su quale sbocco politico dare alla crisi della Prima Repubblica. Certo il gruppo finanziario-editoriale Caracciolo-De Benedetti-Scalfari sembra puntare sull 'ex P C I , del resto fin dall'epoca di Berlinguer affiancato dalla "Repubblica": per quanto ridimensionato elettoralmente, il neonato PDS sembra avere ancora la capacità di aggregare quanto di nuovo sta emergendo dalla crisi della vecchia partitocrazia. Ma è improbabile che questa prospettiva possa attirare l'intera imprenditoria, specie i piccoli e medi industriali, i più coinvolti nel processo di trasformazione economica, come del resto dimostra il successo di Berlusconi nel 1 9 94. Anzi, a mio giudizio, è proprio l'assenza di un progetto per il futuro a imprimere connotati così peculiari a questa transizione rispetto alle altre svolte della storia italiana. Sotto questo profilo, il fenomeno movimentista acquista ulteriore peso, contagia l' intera classe dirigente e in parte l'acceca.

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La nascita della Seconda Repubblica La transizione inizia dunque senza che ci sia alcun soggetto politico in grado di raccogliere con autorevolezza l'eredità delle vecchie organizzazioni partitiche con­ dannate a morte; ma soprattutto in grado di gestire e controllare il processo di fondazione della Seconda Repubblica, che per tanti versi resta nelle mani dei movi­ menti, i veri protagonisti di questa fase convulsa dal 1 9 9 2 al 1 9 94 . Le elezioni poli­ tiche del 1 9 9 2 segnano lo spartiacque: la maggioranza governativa uscita dalle urne è la stessa della precedente legislatura, ma nella realtà delegittimata dalla tempesta giudiziaria che si abbatte sui suoi esponenti, appena eletti dagli italiani a rappresen­ tarli in Parlamento. Stessa sorte per i ministri del governo Amato, rimasto in carica 14. L. Abete, Partiti, ora basta, e G. Anselmi, L 'alto/a di Como, in "Corriere della Sera", s agosto e 17 settembre 1991. Su questo e sugli altri temi, cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (1gSg-2oii), Laterza, Roma-Bari 2012. 3 40

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pochi mesi, il tempo di varare una pesante manovra economica per rispettare i para­ metri di Maastricht, che rinfocola l'odio contro i partiti, responsabili di aver dilapi­ dato la ricchezza nazionale con le loro ruberie. Stessa reazione provoca il decreto sul finanziamento illecito ai partiti derubricato a reato amministrativo : cinque milioni di spettatori seguono Il rosso e il nero di Michele Santoro dedicato alla protesta contro il "colpo di spugna"; otto milioni lo scoop di Un giorno in pretura con Antonio Di Pietro attore nella parte di sé stesso, quel Di Pietro, idolo delle folle, a cui vengono dedicate canzoni e soggetti cinematografici. Poi arriva il secondo referendum di Segni per abolire il sistema elettorale proporzionale, un altro plebiscito che affossa defini­ tivamente la Prima Repubblica. E a chiudere cinquant'anni di storia repubblicana interviene anche la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Andreotti, accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Il governo tecnico guidato da Ciampi, il governatore della Banca d ' Italia, segna il ripiegamento dei movimenti che si stanno dividendo e istituzionalizzando in vista delle imminenti elezioni amministrative. Una controprova di quanto sia improprio parlare di antipolitica, dal momento che nella competizione per i Comuni e le Pro­ vince si mobilitano gli uni contro gli altri tutti i protagonisti di questa stagione movimentista arrivata al suo epilogo. La carica populistica unificante del movimen­ tismo Ottanta-Novanta viene intercettata dalla Lega, ormai un partito a tutti gli effetti, e dal nuovo protagonista Silvio Berlusconi, salito sulla scena nel 1 9 9 4 con la sua inedita formazione politica Forza Italia (FI). Sarebbe improprio classificarla come un partito populista, e in effetti al suo apparire FI viene piuttosto definita «partito virtuale » o «partito azienda » 15• E il Cavaliere, alla guida di un grande impero televisivo e presidente del Milan, ad avere marcati connotati di leader neopopulista, come emerge dalle sue costanti esternazioni politiche: « non sono un politico » , «odio il teatrino della politica » , « non sopporto i lacci e lacciuoli della politica » , « intellet­ tuali e politici parlano un linguaggio incomprensibile » , « i sepolcri imbiancati della politica » e via dicendo16• Da questo momento in poi le ondate movimentiste sono soprattutto dirette contro Berlusconi, il cui successo alle urne nel 1 9 94 lascia stupefatti gli avversari, che lo hanno ampiamente sottovalutato, ma che soprattutto hanno per molti versi equi­ vocato la natura della protesta antipartitica esplosa nelle precedenti legislature. Per i progressisti, la società civile "sana" coincide con la sinistra; una sinistra ricca di virtù democratiche e di specchiata moralità, libera dalle utopie del passato comunista, ormai avviata sui canali del riformismo e del liberalismo. L'irrisione degli avversari che sommergono con insulti e ironie "Sua Emittenza" al momento della discesa in campo mostra quanto profonda sia nel PDS l'incomprensione sia del cambiamento '

IS. E. Poli, Forza Italia. Struttura, leadership e radicamento territoriale, il Mulino, Bologna 2001, pp. 2S-S4· I 6. Cfr. Rizzo, Stella, Cosi parlo il Cavaliere, cit. 3 41

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intervenuto nella società italiana sia del radicamento ancora forte dell'anticomu­ nismo, la carta vincente usata da Berlusconi per raccogliere i voti moderati e conser­ vatori, maggioranza elettorale in tutta la storia della Prima Repubblica. La sconfitta di Occhetto ha però anche l'effetto di mantenere viva la mobilitazione dei suoi compagni di strada, convinti - e non a torto - che il successo del Cavaliere e dei suoi alleati - Lega, M S I , AN, spezzoni della D C e radicali - vada imputato proprio alla scarsa capacità di rinnovamento del PDS.

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Berlusconismo e antiberlusconismo : la società civile divisa Va dunque valutato quale sia il peso complessivo dei movimenti comparsi sulla scena politica negli anni successivi e soprattutto quale incidenza abbiano nel logoramento dell' intera classe politica che nel 2 o i i appare chiaramente in affanno. La prima fase della mobilitazione antiberlusconiana si indirizza contro i modelli culturali diffusi dalle televisioni di Mediaset, fondamentali fin dagli anni Ottanta nel diffondere, come scrive Alexander Stille, una « cultura dell'abbondanza e dell'eccesso », costruita intorno ali' idea del successo, della ricchezza personale, del benessere materiale•7• Da oltreoceano Stille esprime lo stupore dei liberai americani di fronte alla vittoria elet­ torale del magnate delle televisioni; ma né lui né i movimentisti italiani sembrano valutare quanto vasto consenso questi valori siano in grado di suscitare in una parte del paese dove il mutamento economico e sociale ha cambiato comportamenti, men­ talità, immaginario collettivo. Tanto più che il richiamo alle capacità individuali di ascesa riaccende la fiamma del liberalismo, una cultura politica da sempre minoritaria nell' Italia democristiana e comunista, ma sicuramente gradita a settori intellettuali e soprattutto all' intera imprenditoria, grande e piccola. Con lo sguardo puntato solo alla potente macchina mediatica di "Sua Emittenza", individuata come lo strumento vincente nella campagna elettorale, gli antiberlusco­ niani non si rendono conto che il Cavaliere sta intervenendo sul concetto di società civile sana nel quale si erano riconosciuti tutti i movimenti di protesta, per riproporlo in un nuova antinomia divisiva: società sana e laboriosa/ società parassitaria e cor­ rotta. Dove nella prima categoria si iscrive la "gente comune", quella che « mantiene la famiglia e non si fa assistere da uno Stato che saccheggia le buste paga e non dà niente in cambio » , come scrive Vittorio Feltri•8• Mentre nella seconda vengono inclusi gli elettori progressisti, guidati dagli eredi del PCI statalista, assistenzialista, I7. A. Stille, Citizen Berlusconi. Il cavalier miracolo. La vita, le imprese, la politica, Garzanti, Milano 2oo6, p. 77· I 8. V. Feltri, L 'anomalia non è lui, in "il Giornale", 26 gennaio I 994· 3 42

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collettivista, la cui impronta non è stata cancellata dal sottile strato di vernice demo­ cratica e riformista appena spalmato. E proprio alla "gente comune" Berlusconi si vanta di appartenere, battendo sulla cifra dell 'uomo qualunque che viene dal mondo dell' impresa dove si lavora mattina e sera e non si perde tempo nelle chiacchiere dei politici : insomma, è lui a raccogliere a piene mani i frutti dell'ondata antipolitica19• Ad aprire gli occhi dei movimentisti non contribuiscono certo la rapidità e la modalità della caduta di Berlusconi a pochi mesi dal varo del suo governo. Il tenta­ tivo di bloccare le inchieste della magistratura con il decreto del guardasigilli Alfredo Biondi fa nuovamente salire la marea giustizialista che Bossi cavalca, deciso ormai a rompere l 'alleanza con Berlusconi, di cui teme il potere attrattivo sull'elettorato leghista. Chiusa la parentesi dell'esecutivo e considerata finita la parabola del Cava­ liere, il movimentismo ripiega. Restano però attivi i focolai di una protesta che questa volta si indirizza contro i nuovi governanti del centro-sinistra, vincente alle elezioni del 1996. Un primo assaggio si è già avuto al momento delle dimissioni di Occhetto, quando si è aperta la partita per la leadership pidiessina tra Massimo D'Alema e Walter Veltroni: il primo insofferente nei confronti della cosiddetta "sinistra som­ mersa", in realtà emersa nell'esplicito tentativo di affiancare e condizionare gli ex comunisti alla ricerca di una nuova identità; il secondo, invece, ha l'appoggio degli "esterni" che propongono un partito leggero, aperto alla società civile e libero dai lacci della burocrazia interna schierata in favore di D 'Alema. I movimentisti portano in dote a Veltroni l'antiberlusconismo, che usano come un'arma contro D'Alema, forse il più consapevole tra i dirigenti della Quercia di quanta sia la forza dell'odiato avversario e quale pericolosa divisione del paese comporti la sua demonizzazione. Quell ' Italia « normale » , evocata da D'Alema, ha bisogno di uscire dalla movimentata transizione; il che significa anche la reciproca legittimazione delle forze politiche in campo10• I fiancheggiatori di Veltroni non impediscono l'ascesa di D 'Alema alla segreteria, ma amplificano le spaccature all' interno del PDS e dell ' Ulivo, il nuovo cartello elet­ torale guidato da Romano Prodi, una coalizione disomogenea, frammentata e con­ flittuale, almeno quanto quei Poli della libertà e del buon governo, messi in piedi dal Cavaliere nel 1994. Tutta la XIII Legislatura è scandita da questa protesta, che non dimentica però Berlusconi, il nemico per antonomasia, ma paradossalmente anche l'unico vero collante del centro-sinistra. La sponda che D'Alema gli offre con la Bicamerale è dunque un peccato mortale agli occhi di tutte le componenti dell ' U­ livo e dei suoi fiancheggiatori. A spiegare tanta vis distruttiva contribuisce di sicuro l'eredità della stagione movimentista precedente, che ha suscitato un'impazienza del I9. D. Campus, L 'antipolitica algoverno. De Gaulle, Reagan, Berlusconi, il Mulino, Bologna 2006, pp. 138-47· 20. M. D'Alema, Relazione al Consiglio nazionale del PDS {giugno 1994), in Id., Un paese normale. La sinistra e ilfuturo dell'Italia, Mondadori, Milano I99S· p. 84. 343

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nuovo difficile da soddisfare quando si deve ritessere la tela di un sistema in macerie. I sogni e le utopie connaturati allo stato creativo movimentista restano sempre delusi nel confronto con la realtà, tanto più che la classe politica della Seconda Repubblica si affanna nella ricerca della sua identità, appesantita da un patrimonio culturale ormai anacronistico e costretta comunque ad affrontare i tanti problemi del presente, primo fra questi la sfida dell'euro ; problemi che finiscono per diventare l'alibi a coprire il vuoto di elaborazione politica. Da questo punto di vista è emblematica anche l'assenza di un dibattito culturale di alto profilo, come dimostra il Congresso dei DS nel 1 9 9 7, dove gli applausi più scroscianti della platea vanno a una giovanissima delegata che chiude il suo intervento con un «Voglio una sinistra bella e vincente » . Poi, intervistata da televisioni e gior­ nali, spiega la sua avversione a quella « faccia da furbo » di D'Alema che considera la politica « scienza » l1• Certo, ingenuità da sedicenne che coglie però un sentire diffuso tra intellettuali e movimentisti, tutti indignati di fronte all 'inciucio di D 'A­ lema con il Cavaliere; quel D 'Alema che, contrattaccando, li definisce anacronistici sessantottini, imbevuti di un estremismo « che ha prodotto solo dittature o Berlusconi » n. Gli risponde per le rime Flores d'Arcais: il leader del PDS non capisce che « oggi la questione cruciale in tutto l ' Occidente è l 'ondata antipolitica in nome della libertà » ; bisogna « reinventare la democrazia rappresentativa » , sottrarla al « monopolio dei politici di mestiere » l3. A lui fa eco il regista Nanni Moretti con il film Aprile, un vero e proprio attacco contro il governo del centro-sinistra; ma soprattutto un attacco agli eredi del P C I che, abbandonati gli ideologismi, hanno perso anima, calore, passione. Il grido esasperato del regista « D 'Alema reagisci, rispondi, di ' una cosa di sinistra » l4, viene accolto da un coro di consensi destinati a durare nel tempo, tanto è vero che cinque anni dopo proprio Moretti guiderà il nuovo movimento dei "girotondi"ls.

6 I girotondi Nel 2 0 0 1 la vittoria di Berlusconi riaccende una protesta dilagata ben oltre i piccoli gruppi di intellettuali antidalemiani. La guerra in Afghanistan, poi quella in Iraq e le manovre economiche imposte da Bruxelles innescano la spirale dei movimenti 21. E Francesca delegata ragazzina: qui zero passione, zero sogni, in "Corriere della Sera", 22 febbraio 1997· 22. C. De Gregorio, D:Alema guastafeste al weekend dell'Ulivo, in "la Repubblicà', 9 marzo 19 97. 23. Flores d:Arcais: ecco dove il leader della Quercia ha torto marcio, in "Corriere della Sera", 14 marzo 1997. 24. Moretti colpisce al cuore la sinistra di governo, in "Corriere della Sera", 2 8 marzo 1998. 25. M. L. Rodotà, Homo Morettianus, in "l' Espresso", 9 aprile 1998. 3 44

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pacifisti e sindacali, cui si somma l'irruzione sulla scena dei no global. Questo nuovo scenario ricompatta in larga misura la società civile perché trasversale è il dissenso alla guerra, ai sacrifici economici, alla stessa globalizzazione, che persino una parte rilevante dei ceti produttivi vive ormai come una minaccia. La sconfitta di Berlusconi nel 2oo6 va fatta risalire proprio alla delusione del suo stesso elettorato, ormai privo di fiducia nelle promesse miracolistiche del Cavaliere, che hanno avuto come esito solo un conflitto impopolare, pesanti manovre finanziarie e una crescita economica ormai quasi a zero. Ben poco merito hanno gli avversari del centro-sinistra e forse addirittura un effetto controproducente hanno i movimenti antiberlusconiani, che restano divisivi nel paese e alla fine contribuiscono a ricompattare anche gli elettori berlusconiani più delusi, tanto da ridurre la vittoria di Prodi nel 2006 a una sorta di pareggio. Del resto, per tutta la XIV Legislatura, i girotondini, nati nel 200 2, per quanto concentrati contro il Cavaliere, non hanno mancato di infliggere ferite al centro-sinistra e ai n s . L'attacco a Berlusconi si esprime però su un diverso registro rispetto al passato, quando la contestazione colpiva "Sua Emittenza" in quanto complice della vecchia partitocrazia corrotta e seguace del liberismo di marca thatcheriana. C 'è ben poco di libero mercato nella politica economica del superministro Tremonti, deciso a rispettare il vincolo europeo, malgrado le pressioni del Cavaliere e degli alleati che chiedono di mettere mano alla spesa pubblica per recuperare i consensi in uscita. L'accento si sposta dunque sul terreno delle libertà e della legalità violate dal governo di cui Berlusconi si serve per difendere sé stesso e i suoi dalle inchieste della magi­ stratura e per far prosperare le sue aziende. La legge Gasparri sulle televisioni, gli editti bulgari contro Santoro, Luttazzi, Biagi e poi il caso De Bortoli, i tanti interventi in materia di giustizia - dalla depenalizzazione del falso in bilancio al blocco delle rogatorie, al legittimo sospetto, all ' immunità per le più alte cariche dello Stato convincono i girotondini che il Cavaliere rappresenti un vero pericolo per la demo­ crazia, anzi che abbia già calpestato gli assetti democratici e instaurato un nuovo regime fascista. A ogni decreto governativo una folla di manifestanti mano nella mano circonda il "Palazzaccio" romano, il Palazzo di Giustizia milanese e la sede RAI di viale Maz­ zini, luogo simbolo della lotta per la libertà di informazione che Berlusconi calpesta. Come nei primi anni Novanta, anima del movimento sono artisti, registi, cantanti, attori, intellettuali; i politici si tengono abbastanza defilati, salvo Di Pietro, leader dell' Italia dei valori, un partito dagli stessi caratteri populisti presenti nella Lega di Bossi. Come ha osservato Tarchi, la mobilitazione girotondina incide poco sull 'elet­ torato del centro-destra2.6; colpisce invece al cuore l' Ulivo, al quale non si perdona la sconfitta del 2001, come emerge dalla dura invettiva di Nanni Moretti - « con

pp.

26. M. Tarchi, L'Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondini, il Mulino, Bologna 2003, 179-201. 345

SIM ONA C O LARIZI

questi dirigenti non vinceremo mai » - che raccoglie gli applausi entusiasti della folla a piazza Navonal7• Non si perdona ai DS neppure la sottovalutazione del pericolo Berlusconi, che intellettuali e accademici dipingono nelle vesti di un moderno Mus­ solini, distruttore dello Stato di dirittol8• A poco servono i richiami a evitare sem­ plificazioni e soprattutto a guardarsi da una divisione tra gli italiani moralmente e civilmente "sani" e gli italiani che votano il Cavaliere; una divisione antropologica inaccettabile e distorsival9• I "mille girotondi per la democrazia", i raduni degli "indi­ gnati" segnano «l'inizio della dissoluzione dei Democratici della sinistra » , com­ menta Ostellino di fronte allo sgomento crescente nei vertici dei D S30, dove però non pochi cedono alla tentazione di rincorrere il movimentismo.

La casta

7

e

il Vaffa Day

Il danno maggiore pesa comunque sull 'ala riformista dei D S ridotta al silenzio, specie quando la piazza dei girotondini incrocia la piazza pacifista e quella della protesta sociale, con ben altro impatto sul mondo politico. Nel complesso, comunque, l'of­ fensiva movimentista non aiuta la sinistra nel suo tormentato percorso di identità, che resta indeterminato anche quando per un soffio riconquista la maggioranza nel 2oo6. Il rapido fallimento del n governo Prodi riapre la strada a Berlusconi, forte di una larga maggioranza in Parlamento, ma incapace anche lui di dare identità e coe­ sione alla sua coalizione e soprattutto impotente a gestire la crisi economica globale esplosa nel 2o o8 che accelera il declino del paese da ogni punto di vista, economico, sociale, culturale. A paralizzare l'esecutivo contribuiscono gli scandali privati e pub­ blici del Cavaliere e di tanta parte dell'oligarchia politica, inquinata dalla corruzione, che fanno esplodere una diffusa, trasversale protesta contro la "casta" per molti versi simile alla mobilitazione antipartitocratica dei primi anni Novanta, anche negli accenti populistici ampiamente presenti. Basta riferirsi allo straordinario successo nel 2007 del Vaffa Day organizzato dal comico Beppe Grillo : di fronte a 30o.ooo mani­ festanti, su uno schermo gigantesco, viene proiettato un video di rara volgarità, in

27. S. Solinas, A Piazza Navona sfilano i titoli di coda, in "il Giornale", 3 febbraio 2002; M. Dami­ lana, Il ciclone, in "l' Espresso': 7 marzo 2002. 28. Per una rievocazione da due punti di vista diversi, cfr. N. Dalla Chiesa, La legge sono io. Cro­ naca di vita repubblicana nell'Italia di Berlusconi: l'anno dei girotondi, Filema, Napoli 2004, e G. Cal­ darola, Radicali e rifòrmisti. Dalla Bolognina ai girotondi, alla lista unitaria, alpartito di Prodi, Dedalo, Bari 2004. Sugli intellettuali, cfr. M. Gervasoni, La sinistra e gli intellettuali, in M. Gervasoni (a cura di), Storia delle sinistre nell'Italia repubblicana, Costantino Marco, Cosenza 201 1. 29. M. Revelli, La politica perduta, Einaudi, Torino 2003. 30. P. Ostellino, Guelfi e ghibellini. Entusiasti e indignati, in "Corriere della Sera", 14 settembre 2002.

POLITICA E ANT I P O LITICA DALLA PRIMA ALLA SEC ONDA REPUBB LICA

cui si sbeffeggiano equanimemente Prodi "valium", Berlusconi "psiconano" e tutti gli altri politici effigiati su un rotolo di carta igienica31• A questa prima performance segue nel 2009 il No-B-Day, con un successo immenso di pubblico che adesso si definisce "popolo viola", a marcare la distanza da tutti i possibili colori dei partiti politici, compreso il nuovo PD, nato dalle ceneri dell' Ulivo e dell' Unione. Sta di nuovo emergendo l' antipolitica, la cui massima espressione sono i grillini raccolti nel Movimento s Stelle, che presenta i suoi candidati nelle successive competizioni elet­ torali. Come al tramonto della Prima Repubblica, anche nel 2008-n i media ricoprono un ruolo decisivo nella delegittimazione della classe politica, le cui vicende i moduli dell' infotainment trasformano in una gara, scandita da eventi comici e tragici, raccon­ tata nel linguaggio delle competizioni sportive, sempre mirata al sensazionalismo3l. Un sensazionalismo alimentato continuamente da episodi clamorosi - crimini, sesso, ruberie dei potenti - che alla fine prevale su tutto e contribuisce a modificare il pae­ saggio politico e a incanaglire l'opinione pubblica. È fenomeno di dimensioni mon­ diali, tanto è vero che in Europa e altrove si moltiplicano i casi di cambiamento nei governi direttamente associati all 'esplodere degli scandaW3• Gli scandali di Berlusconi e di uomini a lui vicini non bastano a provocare la sua caduta, ma gli alienano pro­ gressivamente i consensi anche del mondo economico e finanziario, preoccupato dall' immobilità del governo nel pieno della crisi economica che mette in ginocchio l ' Unione Europea e minaccia il fallimento dei suoi anelli più deboli, tra i quali appunto l' Italia. Rispetto al 1992, nel 20 11 il fattore sovrannazionale ha un peso ancora mag­ giore, non foss'altro perché dopo dieci anni di moneta comune il condizionamento reciproco tra le nazioni dell'area euro autorizza interventi ben più pesanti da parte della Commissione europea sulla politica interna degli Stati membri. E nel ventennio appena trascorso il deficit di credibilità all'estero dell' Italia si è allargato con la com­ parsa sulla scena di Berlusconi, un politico improvvisato, metà leader populista e metà impresario pubblicitario, al quale l'establishment internazionale per la gran parte guarda con diffidenza e con malcelato stupore. Tanto che sarà il sorriso ironico di Sarkozy, colto dalle televisioni del mondo intero, a segnare la resa del Cavaliere.

3I. Cfr. A. Scanzi, Grillo: politici tutti a casa, in "La Stampa", 9 settembre 2007; Roberto Weber: Attenti, e un popolo di centrosinistra", in "l' Unità': IO settembre 2007. 32. G. Mazzoleni, A. Sfardini, Politica pop. Da ''Forta a Porta" a ccL 'isola dei famosi", il Mulino, Bologna 2009; C. A. Marletti, La Repubblica dei media. L'Italia dal politichese alla politica iperreale, il Mulino, Bologna 20IO, pp. 113-35. 33· Cfr. Castells, Comunicazione e potere, cit. 3 47

Parte terza Nuovi soggetti p olitici

La nascita della Lega : un cap itolo di una storia che ci app artiene .

. .

*

di Paolo Segatti

I

Premessa La trasformazione della Lega Nord da fenomeno marginale a partito di rilevanza nazionale si iscrive in un periodo di grandi turbolenze della società e della politica italiane. L' impasse e poi la crisi aperta del sistema politico nazionale, la crisi econo­ mica e l'allargamento della frattura Nord-Sud, i vincoli posti dali' Europa, il peso fiscale a fronte delle prestazioni dello Stato. Tutti questi fattori, come per tempo hanno documentato molti lavori', hanno modificato nel Nord sia la percezione dell'equilibrio tra quello che si dà allo Stato e quello che dallo Stato si riceve, sia l'opinione sulla capacità dei partiti di governo di risolvere i problemi. Il successo della Lega è figlio di questi genitori. Ma a contribuire a fare della Lega ciò che fu nei primi anni Novanta ed è oggi c 'è anche l'eredità di alcuni nonni o addirittura avi. Insomma il suo consenso non è cresciuto solo grazie alla crisi dei primi anni Novanta. Anche altre condizioni resero attrattiva proprio la Lega tra altre possibili alternative. Vorrei provare a riflettere su alcune di queste condizioni. Innanzi tutto osservando che esse rimandano a tratti relativamente costanti della cultura civica e politica degli italiani, comuni in parte a molti di essi, indipendentemente da dove vivono. Tali costanti, lo dice il nome, non possono evidentemente spiegare un evento circoscritto nel tempo e nello spazio come la trasformazione della Lega da partito paria a partito prevalente in molte aree del Nord nei primi anni Novanta. Possono tuttavia aiutarci a capire il contesto culturale nel quale ha preso forma la corrente di opinione che ha portato molti a votare poi Lega. L'ambiente, cioè, che ha fornito alla crescente insoddisfazione le idee per interpretarla e le emozioni per esprimerla. Entrambe le cose sono necessarie per spingere chi è insoddisfatto a cambiare voto e a scegliere poi un determinato partito fra i tanti che poteva scegliere. * li testo è stato inizialmente pubblicato con il titolo La nascita della Lega. Una storia che ci appartiene nella rivista "li Regno - Attualità'', s6, 201 1, 8. Si ringrazia l'editore Centro editoriale deho­ niano per la gentile concessione. 1. Cfr. R. Mannheimer (a cura di), La Lega Lombarda, Feltrinelli, Milano 1991. 35 1

PA OLO SEGATTI

La tesi che voglio sostenere è che sin dalla prima fase di esplosione del consenso alla Lega sono intervenuti fattori contingenti ed elementi culturali più profondi, e che questi ultimi sono parte di una storia più lunga di quella della Lega. In altre parole, nel voto alla Lega Nord si possono riconoscere alcuni tratti che fanno parte dell'autobiografia della nostra nazione, tanto per prendere a prestito una celebre metafora. Chiaramente sbagliata nel caso del fascismo, utile forse in questo caso. Con due caveat. Il fenomeno leghista costituisce evidentemente una variante dell'autobiografia della nazione, la variante settentrionale. E solo una variante e non un'altra autobiografia perché tra le condizioni che hanno facilitato il successo di questo partito vi sono alcune caratteristiche peculiari del Nord e altre invece comuni alla cultura civica di tutti gli italiani. Il secondo è che sottolineare i tratti della cultura civica degli italiani che hanno facilitato il successo della Lega non deve portarci a sottovalutare la capacità dell'attore Lega di trarre beneficio da questi tratti, come ci ricordano opportunamente nei loro scritti Diamanti e Biorcio3• Però va detto pure che, se per incendiare un bosco è necessario che qualcuno accenda un fuoco, l'importante è poi distinguere tra il fuoco di un cerino e quello prodotto da un lanciafiamme. Se basta un cerino nel conto vanno messe anche una straordinaria siccità e l' insipienza di chi poteva evitare l'incendio. Riflettere sulle condizioni di lungo periodo che hanno facilitato il successo della Lega ci può aiutare dunque a prendere misure più accurate circa il valore effettivo della leadership di questo partito. Vorrei ragionare su tre di queste condizioni che hanno trasformato un'ondata di protesta nel Nord in un fenomeno politico importante, dando alla protesta sensibilità ed emozioni che vengono da lontano. Queste tre condizioni hanno a che fare con: 1. il rapporto tra il voto alla Lega e le radici profonde di una mentalità conservatrice in alcune società locali del Nord; 2 . il rapporto tra il consenso alla Lega e le caratteristiche dell 'identità nazionale degli italiani; 3 · il rapporto tra il consenso alla Lega e alcuni atteggiamenti degli italiani verso la politica. ..

l

2

La Lega e la rinascita di una mentalità conservatrice Diamanti4 e Natale5 hanno colto per tempo e con precisione il legame tra il voto alla Lega e l'estensione della subcultura bianca emersa nelle elezioni del 1 948. Diamanti 2. l. Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un progetto politico, Donzelli, Roma 1993. 3· R. Biorcio, La Padania promessa. La storia, le idee e la logica di azione della Lega Nord, U Saggiatore, Milano 1997; Id., La rivincita del Nord. La Lega dalla contestazione algoverno, Laterza, Roma-Bari 2010. 4· Diamanti, La Lega, cit. S· P. Natale, Lega Lombarda e insediamento territoriale: un 'analisi ecologica, in Mannheimer, La Lega Lombarda, cit., pp. 83-121. 35 2

LA NA SC ITA DE LLA L E G A : UN CAPITOLO DI UNA STORIA C H E CI AP PARTIEN E ...

ha anche indicato, in importanti lavori su alcune aree del Veneto condotti assieme a Riccamboni, come le Leghe negli anni Ottanta ottenessero un numero significativo di voti proprio nei comuni contraddistinti allo stesso tempo da un esteso consenso alla DC e da un relativamente elevato livello di secolarizzazioné. Il legame tra declino del voto D C e aumento della secolarizzazione nelle province del Nord, e soprattutto in quelle del Nord-Est, è stato poi statisticamente confermato da alcuni studi succes­ sivF. Tutti questi dati suggeriscono alcune considerazioni. lnnanzitutto la storia della D C nel dopoguerra non è stata territorialmente omogenea. Mentre nel Nord dagli anni Ottanta in poi mostra un evidente declino, a sud di Roma il consenso a questo partito era ancora in crescita sino al 1992. Poi il consenso alla D C aveva radici diverse nelle diverse parti del paese, come aveva mostrato tra gli altri Cartocci8• Inoltre la crisi elettorale della D C nelle regioni del Nord, già dagli anni Ottanta, stava trasformando la frattura economica e culturale più importante del nostro paese, quella tra il Nord e il Mezzogiorno, in una linea di divisione politica. Aggiungo qui un 'osservazione. Nel sistema politico uscito da Tangentopoli il divario Nord-Sud è stato almeno sino al 2oo8 ricomposto elettoralmente da Forza Italia, unico partito a ottenere un con­ senso sensibile su entrambi i lati. La crisi del maggior partito di centro-destra di questi anni e la sua balcanizzazione in correnti su base regionale fanno pensare che stiamo entrando in una fase nella quale il sistema politico italiano si stia frammentando ter­ ritorialmente. Ma torniamo al declino della D C nel Nord perché esso indica un pro­ blema al quale non si presta sufficiente attenzione. L'esaurirsi del sostegno di tipo religioso a questo partito avrebbe dovuto aprire il mercato elettorale a nord del fiume Po. Cioè anche gli altri partiti, in primis quelli di sinistra, avrebbero dovuto diventare più competitivi in queste aree. Questo però non è avvenuto, non solo negli anni Ottanta, ma neanche dopo che il Muro di Ber­ lino era crollato e la D C e gli altri partiti di governo erano scomparsi. Avrebbe dovuto essere una grande occasione anche per i partiti eredi del P C I . Ma tale non è stata. Perché ? Una prima spiegazione che però vale solo per gli eredi del PCI chiama in causa l'anticomunismo, che, spesso valutato come bolsa retorica, pare invece aver contato e non poco anche dopo il 1989. Soprattutto nelle elezioni fondative del nuovo sistema politico post-Tangentopoli, perché di solito capita proprio in elezioni di questo tipo

6. Cfr. l. Diamanti, G. Riccamboni, La parabola del voto bianco. Elezioni e societa in Veneto (19461992), Neri Pozza, Vicenza I992. 7· Cfr. P. Segatti, Religiosita e territorio nel voto alla Democrazia cristiana dal 194S al 1992, in "Polis", XIII, I999, I, pp. 45-68; P. Ignazi, S. Wellhofer, Votes and Votive Candles: Modernization, Secularization, 1-dtican II and the Decline ofReligious Voting in Italy: 1953-1992, in "Comparative Politica! Studies", 46, 20I3, I, pp. 3I-62. 8. R. Cartocci, Elettori in Italia. Riflessioni sulle vicende elettorali degli anni Ottanta, il Mulino, Bologna I990; Id., Fra Lega e Chiesa. L'Italia in cerca di integrazione, il Mulino, Bologna I994· 353

PA OLO SEGATTI

che gli elettori si formino un'idea, destinata a durare, delle identità delle nuove for­ mazioni politiche. Ma la persistenza dell 'anticomunismo in assenza di comunismo non basta a spiegare perché sia stata anche la Lega a beneficiare sensibilmente del declino della D C nelle regioni del Nord. C 'è un altro fattore, oltre all 'anticomunismo, di cui è opportuno tener conto. Le aree nelle quali la D C aveva ottenuto fin dal 1946 ( anche il PPI dopo la Prima guerra mondiale ) i maggiori consensi non erano caratterizzate solo dalla presenza di un organizzato ed esteso mondo cattolico. Erano anche aree caratterizzate dalla diffu­ sione, prima dell 'industrializzazione, della piccola proprietà contadina indipendente, come gli studi di Bagnasco9 e Trigilia10 hanno mostrato. Lo stesso rapporto sembra esserci anche oggi nel caso del voto alla Lega. Secondo Linz11 in tutta Europa le aree nelle quali prevaleva questo tipo di conduzione agricola sono aree dove predominano ancora oggi i partiti di destra. La tesi è che questo tipo di realtà sociale ed economica abbia sviluppato una mentalità conservatrice che si accompagna sul piano culturale e politico a forme di patriottismo civico e a dotazioni non banali di capitale sociale in grado di produrre solidarietà a corto raggio L'aspetto elettoralmente importante è che questa mentalità ovunque è impervia alla penetrazione di una cultura di sinistra, all'opposto di quello che accadeva nelle aree caratterizzate da forme di conduzione agricola come la mezzadria o imprese con salariati agricoli. Ovviamente risalire così indietro per spiegare il voto alla Lega zoppica non poco, perché dovremmo essere in grado di illustrare i meccanismi che hanno garantito la sopravvivenza di questa mentalità, mentre la secolarizzazione stava riducendo l 'in­ fluenza dei valori religiosi e addirittura il partito che esprimeva entrambe è venuto meno. Non siamo affatto in grado di farlo. A oggi abbiamo per le mani solo un' as­ sociazione tra voto alla Lega e le caratteristiche dell 'economia agricola delle province del Nord. Ma questa suggerisce un'ipotesi interessante. Il fenomeno Lega potrebbe riflettere orientamenti che nella storia italiana del Novecento non hanno mai trovato una rappresentanza diretta, vuoi perché distorti/ coperti dal solidarismo universali­ stico di matrice cattolica vuoi perché è mancato un "normale" partito conservatore simile a quelli della destra europea. Il fatto poi che in queste aree la Lega ottenga il voto di lavoratori manuali non è un dato che indebolisce la tesi. Come innumerevoli studi hanno mostrato, non è tanto la sola occupazione a spiegare il voto, quanto l'idea che si ha di sé stessi e del proprio lavoro. a.

9· A. Bagnasco, Tre ltalie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, il Mulino, Bologna 1977· 10. C. Trigilia, Le subculture politiche territoriali, Feltrinelli, Milano 1981; Id., Grandi partiti, piccole imprese. Comunisti e democristiani nelle regioni a economia diffusa, il Mulino, Bologna 1986. 1 1. J. Linz, Patterns of Land Tenure, Division of Labor, and Voting Behavior in Europe, in "Com­ parative Politics", 8, 1976, 3, Special Issue on Peasants and Revolution, pp. 36 5-430. 12. Cfr. Diamanti, La parabola del voto bianco, cit. 3 54

LA NA SC ITA DE LLA LEGA : UN CAPITOLO DI UNA STORIA C H E CI AP PART I EN E ... 3

Sono gli elettori leghisti anti-italiani oppure sono italiani come gli altri ? La Lega nella fase della sua prima espansione, dal 1990 al 1996, almeno a giudicare da quanto dicevano e celebravano in vari riti collettivi i suoi massimi dirigenti, è una Lega che proclamava come fine ultimo della sua azione politica la secessione dall' Italia in nome della nazione padana. Si aprì allora un dibattito che ebbe molti meriti, tra i quali non ultimo quello di tornare a riflettere sull' identità nazionale degli italiani. Chi allora si occupò di analizzare che cosa pensassero le italiane e gli italiani dell 'es­ sere italiano scoprì ben presto una realtà complicata. Non era tanto vero che gli italiani in generale, e gli elettori leghisti in particolare, non si sentissero parte della nazione italiana. Il livello di orgoglio nazionale e l'attaccamento alla nazione non erano affatto diminuiti rispetto al passato, né erano inferiori a quelli presenti in altri paesi ritenuti dotati di una spiccata identità nazionale. Semmai la differenza con alcuni paesi stava nelle ragioni per le quali ci si pensava orgogliosi della propria patria. Nel caso degli italiani, leghisti compresi, era debole l 'orgoglio per le istituzioni politiche, per il funzionamento della democrazia e dell'economia, mentre forte era la fierezza per il patrimonio culturale, la cucina, il paesaggio e la bonomia della gente. Nell 'insieme, a non venire apprezzati come ragioni di orgoglio nazionale erano gli aspetti di moder­ nità di una comunità nazionale, mentre a venire valorizzati erano le "antiche" glorie, per altro solo quelle culturali o paesaggistiche. Questa idea dell 'Italia peraltro non era molto diversa da quella che Almond e Verba13 quarant'anni prima avevano trovato nella loro indagine comparata a proposito della cultura civica di cinque paesi, tra cui l' Italia. Dunque: tratti costanti di lungo periodo. Anche quando gli italiani venivano invitati a pensare a che cosa facesse di una persona un vero italiano, i tratti culturali, spesso ridotti a stereotipi, erano decisamente importanti. Gli elettori leghisti condi­ videvano peraltro questa particolare gerarchia di significati dell' identità nazionale14• Infine gli elettori leghisti non erano più localisti degli altri. Piuttosto, come tutti gli italiani esprimevano identità plurime, nelle quali l'attaccamento alla nazione si com­ binava con quello al luogo di nascita o di residenza. Si notava però tra gli elettori leghisti un certo maggiore attaccamento alla regione. Insomma, scorrendo questi dati il punto da fissare è che gli elettori leghisti non erano poi radicalmente diversi dal resto degli italiani quanto all ' intensità del sentimento nazionale, ai significati attri­ buiti all ' identità nazionale e alla configurazione delle identificazioni plurime. Dopo quasi vent 'anni di azione politica della Lega e di sforzi mitopoietici attorno, sopra e sotto il fiume Po, il quadro descritto da quegli studi non pare cam­ biato in profondità. Bisogna aggiungere, però, sino a oggi. I3. G. Almond, S. Verba, The Civic Culture: Politica! Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton University Press, Princeton (NJ) I963. I4. l. Diamanti, P. Segatti, Orgogliosi di essere italiani, in "Limes", I994· 4, pp. I S-26. 3 SS

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Infatti sino a ora non si è ancora raggiunto il punto di svolta oltre il quale l 'a­ desione a identità regionali o all'identità padana diventa un'opzione che ha un suo peso nella vita quotidiana di molti. Peraltro, il punto di svolta potrebbe non essere a distanza siderale, a giudicare da quanto alcune regioni, non solo quelle governate dal centro-destra, investano sui temi della cultura regionale e delle lingue locali, e dall'uso che fanno delle peculiarità regionali nei negoziati con il centro. Se diamo credito al ruolo svolto dalle istituzioni politiche nella costruzione delle identità nazionali, sarebbe opportuno chiedersi se il cosiddetto "federalismo regionale" più che salvare l'unità politica della nazione italiana non possa accelerarne la dissoluzione. Vedremo. Per il momento chiediamoci come sia possibile che le proposte più o meno apertamente secessioniste della Lega riuscissero ( e riescano ancora oggi ) a convivere con un senso di appartenenza all ' Italia. A me pare che questa contraddizione sia più apparente che reale, se riflettiamo su alcuni tratti della nostra identità nazionale. In tutta Europa gli individui hanno identificazioni plurime, si identificano con il villaggio o il comune in cui sono nati, con la regione e, a salire, con la nazione. Pochi, anche se in crescita, vanno oltre alla nazione e si identificano anche con l' Europa. Identità plurime sono presenti pure in Stati effettivamente multinazionali come la Spagna, il Regno Unito o il Belgio. Dunque l'elemento che dobbiamo considerare per cogliere l'eventuale specificità italiana non è tanto la diffusione di identificazioni plurime alla nazione e alle entità subnazionali, quanto i significati che vengono attribuiti all 'identità sovraordinata, cioè a quella nazionale. Se questi ultimi si limitano a essere la proiezione di quelli che sono ritenuti caratteristici delle identità subnazionali ( e quindi in particolare quel serbatoio di affinità etniche e culturali percepite come l'eredità "naturale" del gruppo locale ) , sono possibili due conseguenze. La prima è che siano deboli nell ' identità nazionale proprio quei significati che qualificano una nazione come nazione politica, cioè come un gruppo di individui che percepisce di avere un comune destino politico e di possedere gli strumenti per governarlo ( su questo si veda dopo ) . La seconda è che il significato dell'essere italiani si limiti a essere il contenitore della varietà di stereotipi positivi e negativi che qualificano le identità subnazionali. Anni fa un gruppo di ricercatori guidato da Paul Sniderman'5 pubblicò quello che a mio avviso rimane il lavoro più importante sul pregiudizio degli italiani verso gli stranieri. Sulla base di un ' indagine svolta nel 1 9 9 3 , Sniderman e i suoi collabora­ tori trovarono che chi aveva pregiudizi verso gli stranieri tendeva ad averli anche nei confronti degli italiani di una parte del paese diversa dalla propria ( segnatamente quelli del Nord verso quelli del Sud ) . Il che evidentemente rappresenta un'anomalia per le teorie psicosociali sulla formazione delle identità di gruppo. Ma nel nostro caso anomalia potrebbe non essere se pensiamo che per un numero da definire di

15. P. Sniderman et al. , The Outsider: Prejudice and Politics in ltaly, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2000.

LA NA SC ITA DE LLA LEGA : UN CAPITOLO DI UNA STORIA C H E CI AP PART I EN E ...

italiani il significato di essere italiano forse altro non è che la somma degli stereotipi regionali o municipali. Una simile configurazione identitaria è esposta all'enfatizza­ zione delle differenze culturali intraitaliane, quando queste per ragioni politiche ed economiche sono messe in tensione. Il consenso alla Lega dunque può convivere con queste forme di identificazione nazionale. Chi le coltiva infatti non sente che la proposta leghista mette in discussione il significato che si dà all'essere italiano. Gli basta attribuire alle caratteristiche tipiche dell'italiano i significati positivi attribuiti alla propria identità subnazionale ed elimi­ nare quelli negativi attribuiti a un'altra identità subnazionale. D'altra parte la sfida leghista all'unità politica della nazione potrebbe non inquietarlo poiché debole o inesistente è la percezione che egli ha di essere anche cittadino italiano, parte di una comunità politica in grado di governare il proprio futuro. Ci sarà forse un punto di svolta quando alle caratteristiche tipiche dell'italiano verranno attribuiti solo gli stereo­ tipi negativi delle identità subnazionali diverse dalle proprie. Difficile dire per quanti degli elettori della Lega è già così. Vorremmo saperne di più. Come vorremmo saperne di più sui meccanismi identificativi che scattano quando il confronto non è fra identità subnazionali, ma nei confronti di uno straniero. Si noti che quando la Lega manipola il più importante fattore di xenofobia, il senso di minaccia culturale, l'identità minac­ ciata di cui si parla è sempre quella italiana. Non certo quella padana o subnazionale. Ancora solo buona per giocare la solita partita con gli abituali stereotipi del bar Italia. Forse, pace Sniderman, lo straniero è ancora diverso dall' italiano altro da te. Alla fine se si guarda da questa prospettiva allo "strano" rapporto tra votare Lega e sentirsi italiani non si può non pensare che il nodo sia quello indicato da molti (tra questi, di recente, Gentile16) per i quali, dopo cinquant'anni di democrazia e centocinquanta di Stato unitario, sono stati fatti in qualche modo gli italiani, ma forse non sono ancora stati fatti i cittadini italiani. Questo è un nodo le cui origini non possiamo nemmeno affrontare qui, se non considerandone un aspetto partico­ lare, e cioè il rapporto tra il voto alla Lega e gli orientamenti verso la politica degli italiani. Cioè la nostra terza condizione culturale di lungo periodo che ha fatto pendere l' insoddisfazione di molti al Nord verso il voto alla Lega.

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La Lega, ovvero le ragioni del fascino di un 'offerta populista Secondo una delle interpretazioni più comuni della crisi politica dei pnmt anni Novanta, il tracollo dei partiti tradizionali e il successo dei nuovi attori sarebbero I6. E. Gentile, Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento, a cura di S. Fiori, Laterza, Roma­ Bari 2011. 35 7

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stati causati da un aumento significativo dell' insoddisfazione verso le prestazioni basse del sistema e dall 'esplosione, in particolare, della disaffezione di massa verso la politica causata dalla scoperta di Tangentopoli. I due atteggiamenti non sono la stessa cosa. Il primo è un ingrediente normale di ogni ciclo elettorale e certamente ha contato in quelle vicende. Il secondo invece si compone di sentimenti negativi verso la politica in generale e verso i partiti in particolare. Tali sentimenti di solito riman­ gono latenti e convivono in una certa misura con vari orientamenti politici, anche non di destra. Un fiume carsico, insomma, che ha attraversato tutta la storia della Repubblica e prima ancora dell' Italia liberale. In molti pensano che il fiume sia emerso impetuoso nei primi anni Novanta e avrebbe premiato le formazioni più populistiche, la Lega in particolare. I dati però non segnalano nei primi anni Novanta e neanche dopo un aumento significativo del livello di disaffezione verso la politica rispetto al passato. Non è cioè cresciuto sensibilmente rispetto agli anni Cinquanta il numero di cittadini che giudicava negativamente la politica, i partiti e i politici17• Dunque per comprendere le ragioni del fascino di un 'offerta con spiccati contenuti populistici come quella della Lega dobbiamo pensare che Tangentopoli più che dif­ fondere l'antipolitica abbia reso più evidente di prima quello che molti avevano sempre pensato dei partiti e della politica. E dunque meglio chiedersi quale immagine di politica, di partito o di competizione tra partiti anima un sentimento antipolitico. Molte delle immagini negative della politica riflettono evidentemente gli aspetti degradati della politica per come è. Però l'antipolitica non è solo una reazione alla politica per come è, o è diventata. Si nutre anche di aspettative su come dovrebbe essere. Il comune denominatore di molte di queste aspettative è un'idea di politica che nega sé stessa, enucleando da sé il conflitto. Nel nostro passato abbiamo cono­ sciuto una di queste aspettative. Quella qualunquista per la quale la politica andava ridotta ad amministrazione18• Ma c 'è anche un altro genere di aspettativa. In questo caso il conflitto viene espunto dalla politica non riconoscendo legittimità all'avver­ sario, e quindi pensando che la propria parte racchiuda entro di sé una totalità sociale, valoriale o morale. Questa in realtà è un'idea elevata di politica che si accompagna a disinteresse verso le procedure e le regole formali da un lato e a una forte polariz­ zazione, non sui contenuti di policy, ma tra identità ideologiche dall 'altro. Scoppola19 ha suggerito che questa idea di politica fosse il lascito delle modalità con le quali è avvenuta la politicizzazione di massa degli italiani durante il fascismo e che soprav­ vivesse in una certa misura anche nei grandi partiti di massa del secondo dopoguerra. Ora, la Lega è certamente il partito più estraneo alle ideologie del Novecento italiano, ..

17. G. Sani, P. Segatti, Antiparty Politics and the Restructuring of the ltalian Party System, in N. Diamandouros, R. Gunther (eds.), Parties, Politics and Democracy in the New Southern Europe, The Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD) 2001, pp. 15 3-82. 18. S. Setta, L'Uomo qualunque (I944-I94S), Laterza, Roma-Bari 1975. 19. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profdo storico della democrazia in Italia (I945-I990), il Mulino, Bologna 1991.

LA NA SC ITA DE LLA LEGA : UN CAPITOLO DI UNA STORIA C H E CI AP PART I EN E ...

per di più il suo consenso è cresciuto in gran parte durante e dopo Tangentopoli, in un clima di fortissima indignazione verso i partiti che sino a poco prima molti ave­ vano votato. Eppure la sua proposta ha incontrato il favore di molti nonostante sia caratterizzata da un ' idea della politica totalizzante, sprezzante verso le procedure, retoricamente violenta, disponibile a giustificare in nome dei fini qualsiasi contor­ sione dei mezzi. Insomma un'idea di politica che per molti aspetti era presente nel modo di agire dei vecchi partiti. Il successo della Lega quindi fa pensare che questa idea "totalitaria" di politica sia radicata in profondità nelle aspettative di molti ita­ liani, come lo sono anche i sentimenti negativi verso la politica. Come se gli atteg­ giamenti degli italiani fossero costretti a oscillare tra questo tipo di "buona" politica e la "cattiva" politica. Sorprende anche un 'altra cosa. Mentre la Lega è il partito che più esplicitamente di altri suggerisce di sé stesso di essere anche totalità politico­ sociale - che lo sia o meno è cosa da valutare -, anche altri partiti, alcuni insospet­ tabili, coltivano questa immagine di sé. Persino i moderati del terzo polo alla fine pare vogliano definirsi "Polo della Nazione". Mentre forse stupisce di meno che anni fa Alleanza nazionale si definisse "partito degli italiani". Per non citare i nomi che Berlusconi ha voluto dare alle sue creature politiche. Evidentemente se queste formule hanno successo e non suscitano banali interrogativi sull 'uso di questi ossimori, ciò vuole dire che nel fiume carsico della disaffezione verso la politica degli italiani continuano a fluire una bassa propensione ad accettare il conflitto tra parti che sanno di essere solo parti di una medesima comunità politica e un' inclinazione a considerare buona una politica totalizzante.

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Conclusioni Se il consenso alla Lega sin da subito ha attinto, come a me pare, a tratti profondi della nostra struttura sociale e della nostra cultura civica e politica, allora forse la tesi che la Lega Nord sia un capitolo della nostra autobiografia nazionale ha qualche fondamento. Il che vuole dire che il suo successo non è la causa dell'emergere di un conservatorismo talvolta intriso di piccolo moralismo, di una chiusura verso lo stra­ niero che viene di là dal mare ma anche verso quello di là del ruscello, di un sentimento nazionale intriso di stereotipi, di una persistenza di modi di rapportarsi alla politica che appartengono a un passato remoto . Semmai è l'effetto di questi tratti presenti nel Nord ma anche comuni agli altri italiani. Collegare il consenso alla Lega ad alcuni tratti di lungo periodo della nostra cultura non significa nemmeno pensare che tutto questo proteggerà il suo consenso elettorale quando l'organizzazione del partito dovrà fare i conti con l'esaurirsi della leadership del suo fondatore. Certo è che l'avere mobilitato questi tratti ancora una volta garantisce la loro riproduzione. Anche se il partito dovesse disgregarsi, la sua eredità non si disperderà tanto facilmente. 3S9

Nord non chiama Sud. Genesi e svilupp i della questione settentrionale ( 1 9 7 3-20 1 3 ) di Filippo Sbrana

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Premessa All ' inizio degli anni Novanta s' inizia a parlare diffusamente in Italia della "questione settentrionale,1• Diventa un tema di particolare rilievo negli organi d' informazione dopo la significativa affermazione della Lega Nord nelle elezioni politiche del 1 9 9 2 . Nello stesso anno il Parlamento approva l'abolizione dell' intervento straordinario nel Mezzogiorno, e la questione territoriale che aveva accompagnato la storia italiana sin dall' Unità, quella meridionale, perde rapidamente la sua centralità senza che i pro­ blemi del Sud siano stati risolti2.. Questo rilevante passaggio avviene negli stessi anni in cui nasce la Seconda Repubblica e la coincidenza non è affatto fortuita: l'adozione di politiche economiche volte a ridurre il divario fra Nord e Sud rappresentava una scelta di rilievo nei primi decenni repubblicani, mentre l'attenzione al malessere del Nord caratterizza la nuova stagione politica. L'intento di questo saggio è di rico­ struire le origini di questi cambiamenti epocali, offrendo anche alcuni spunti sugli sviluppi successivi.

1. L'espressione, molto utilizzata, ha un' indubbia efficacia pur presentando alcuni limiti, poiché - com'è noto - l 'area non ha mai smesso di avere caratteristiche eterogenee, sia sul piano culturale sia dal punto di vista economico e politico. Al riguardo, si segnalano, fra gli altri: M. Meriggi, Breve storia dell'Italia settentrionale dall'Ottocento a oggi, Donzelli, Roma 1996; G. Casati, Luigini contro contadini. Il lato oscuro della Questione Settentrionale, Guerini e Associati, Milano 2011; S. Conti, C. Salone (a cura di), Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale, Rapporto annuale della Società geografica italiana, Società geografica italiana, Roma 2010. 2. n termine "questione" evoca una situazione problematica di una porzione di territorio e viene utilizzato in riferimento sia alla situazione meridionale sia a quella settentrionale, ma le due tematiche hanno caratteri sostanzialmente opposti. Una riguarda le regioni più povere, si fonda sulla solidarietà fra le diverse aree del paese e riconosce allo Stato una funzione cruciale per superare il dualismo eco­ nomico; l'altra nasce nelle aree più ricche, punta a un federalismo con legami di interdipendenza attenuati e si propone di ridurre il ruolo dello Stato centrale.

F I L I P P O SB RANA 2.

Dalla crisi economica ali , insofferenza verso il Sud La questione settentrionale è una vicenda relativamente recente, seppure con radici antiche. In età repubblicana Luciano Cafagna e Antonio Giolitti sono fra i primi a utilizzare questa espressione. Lo fanno negli anni Sessanta, in riferimento alle lotte operaie, ai costi economici e umani della congestione urbana e ad altre vicende legate allo sviluppo del Nord\ Tali problemi non motivano secondo questi uomini, attenti al dualismo italiano e al ritardo del Sud, la rinuncia all 'azione dello Stato per lo sviluppo del Mezzogiorno, perché essa risponde a una finalità nazionale oltre che locale. Si rendono conto, tuttavia, che le difficoltà delle aree ricche possono avere ripercussioni negative su quelle meno sviluppate. E quanto avviene con la crisi economica internazionale suscitata dallo shock petrolifero del 1973 che, oltre a essere una vicenda fortemente periodizzante nella storia economica del Novecento\ rap­ presenta lo snodo decisivo anche per il sorgere della questione settentrionale. Gene­ ralmente il suo inizio viene collocato negli anni Ottanta, perché in questo periodo , comincia a manifestarsi il fenomeno leghista. Tuttavia, in una lettura d insieme del fenomeno, gli avvenimenti degli anni Settanta rappresentano una premessa impre­ scindibile. La crisi energetica, che s' innesta sulle turbolenze seguite all ' inconvertibilità del dollaro e si somma ad altri elementi di fragilità dell'economia italiana, rappresenta un passaggio cruciale per il sistema produttivo nazionale5• In poco tempo peggiorano tutti gli indicatori macroeconomici - in particolare r inflazione che rimane alta per diversi anni - e termina il ciclo di stabile crescita che durava ormai da molto tempo. Fra le conseguenze ce ne sono tre che, ai fini della presente ricostruzione, hanno un rilievo particolare: una forte recessione nelle regioni del Nord, l' incepparsi dell' in­ tervento straordinario nel Mezzogiorno e, a livello globale, la crisi dell' industria fordista. Per comodità espositiva in questo paragrafo ci concentriamo sulle prime due. L'aumento dei costi energetici colpisce duramente l'industria italiana: i mecca­ nismi di costo riducono i margini specie nelle aziende più grandi e sindacalizzate, cresce r indebitamento, aumentano gli oneri finanziari, si riducono gli investimenti. Il numero dei disoccupati si moltiplica rapidamente, specie nelle aree più industria­ lizzate: migliaia di persone perdono il lavoro fra 1974 e 1976 in Lombardia e Pie'

3· Cfr. L. Cafagna, La questione settentrionale nell'Italia contemporanea: un 'auto intervista, in G. Berta (a cura di), La questione settentrionale. Economia e societa in trasformazione, Feltrinelli, Milano 2008', pp. 1-12, e F. Dandolo, L'impegno meridionalistico (anni 'oo- '7o), in A. Giovagnoli, A. A. Persico (a cura di), Pasquale Saraceno e l'unita economica italiana. Convegno tenuto a Milano il IO e IJ aprile 20I2, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2013, pp. 386-7. 4· P. Frascani, Le crisi economiche in Italia. Dall'Ottocento a oggi, Laterza, Roma-Bari 2012. S· Cfr., fra gli altri, N. Crepax, Storia dell'industria in Italia. Uomini, imprese e prodotti, il Mulino, Bologna 2002, pp. 285 ss.

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monte, come anche in Liguria, Veneto ed Emilia6• Per far fronte ai costi sociali della recessione e soprattutto per ristrutturare l'apparato industriale con il fine di renderlo competitivo sui mercati internazionali vengono chieste allo Stato ingenti risorse, togliendo così priorità e mezzi alle aree arretrate. Emblematica è la vicenda della legge 12 agosto 1977, n. 675, per la riconversione e ristrutturazione industriale, i cui fondi finiscono per l' Ss% a imprese del Centro-Nord7• Il dibattito che precede l'approva­ zione di tale provvedimento fa emergere plasticamente una prima rottura della solidarietà fra le due aree del paese, con una netta contrapposizione fra le ragioni del Nord e del Sud8• Sull' industria meridionale le conseguenze della crisi sono ancora più dure. Molti impianti operano nei settori di base le cui prospettive sono fortemente compromesse dalla crisi petrolifera, come ben testimonia la vicenda del v Centro siderurgico a Gioia Tauro. Viene minata la solidità delle imprese di grandi dimensioni alle quali si deve buona parte dell 'aumento dell'occupazione industriale nel Mezzogiorno, mentre le caratteristiche ambientali e sociali non favoriscono l'affermarsi di un sistema di imprese medie e piccole. Le mutate condizioni dell'economia italiana, inoltre, impongono di ammodernare gli impianti già esistenti piuttosto che costruirne di nuovi: viene così a mancare il presupposto fondamentale sul quale si era imperniata la strategia meridionalista, ossia l'espansione della capacità produttiva, che aveva permesso di collocarne quote rilevanti al Sud. Non è solo la crisi a mettere in seria difficoltà l' industria meridionale, che sconta altri elementi problematici, dal deterio­ ramento dell'efficienza gestionale delle partecipazioni statali all 'inadeguatezza della classe dirigente meridionale9• Ma è nella seconda metà degli anni Settanta che emer­ gono insieme le criticità accumulate nel tempo, suscitando preoccupazione e ama­ rezza fra i sostenitori dell'intervento straordinario10• Nell 'opinione pubblica si diffonde l'idea che l'intervento dello Stato a favore del Mezzogiorno sia inutile e foriero soprattutto di clientelismo. I giornali italiani par­ lano esplicitamente di noia e addirittura imbarazzo verso la questione meridionale,

6. Frascani, Le crisi economiche in Italia, cit., pp. I 8I-2. 7· P. Ciocca, G. Toniolo (a cura di), Storia economica d'Italia, 2. Annali, a cura di S. Battilossi, Laterza, Roma-Bari I999· pp. 462-3. 8. A titolo di esempio, cfr. E. Pucci, La lotta tra i nordisti ed i sudisti ostacola la legge di riconver­ sione, in "La Stampa", I9 marzo I977• p. I4; G. Zandano, Gli occupati del Nord contro i disoccupati del Sud?, ivi, 22 marzo I977• p. I4; M. Canino, Mezzogiorno e riconversione industriale, in "Mondo Eco­ nomico", XXXII, 8 ottobre I977• 3 8. 9· Sulla complessa vicenda, cfr. almeno F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano: dal dopoguerra a oggi, Donzelli, Roma I997· e S. Cafìero, Storia dell'intervento straordinario nel Mezzo­ giorno (I950-I993), Laicata, Manduria (TA)-Roma-Bari 2000. IO. P. Saraceno, La lunga ombra sulfuturo del Mezzogiorno, in "Nord e Sud", x xv, I978, 3, pp. 20-8; A. Del Monte, A. Giannola, Il Mezzogiorno nell'economia italiana, il Mulino, Bologna I978; F. Sbrana, L'ultimo Saraceno e la S VIMEZ in una stagione difficile {I97S-I991), in Giovagnoli, Persico (a cura di), Pasquale Saraceno e l'unità economica italiana, cit., pp. 405-32.

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sottolineando che il paese è stanco del Sud e del suo ritardo11• Iniziano a maturare le premesse per quello che avverrà nel I992, tanto che già nel I 979 Piero Barucci scrive: «Non ci sarà da meravigliarsi se, di qui a poco, qualcuno proporrà di considerare chiuso il problema [ . . . ] per decreto legge » I l. Nelle regioni del Nord il sovrapporsi della fase recessiva e del fallimento dell 'in­ tervento statale al Sud favorisce in ampie fasce della popolazione una sorta di rifiuto verso la questione meridionale. Nell'introduzione al Rapporto sull'economia del Mez­ zogiorno nel I97S dell'A ssociazione per lo sviluppo dell 'industria nel Mezzogiorno ( svi MEZ ) , Pasquale Saraceno osserva con rammarico il « risorgere di controversie che credevamo spente per sempre [ ... ] : è il Centro-Nord che sfrutta il Sud o è il Sud che succhia danaro al Centro-Nord ? » 13• Qualche tempo dopo un articolo di Salvatore Bragantini sintetizza i cambiamenti avvenuti parlando di insofferenza del Nord e osservando (con rammarico) che per tanti cittadini i trasferimenti al Sud non sono più giustificati. Il divario si è trasformato in un'iniqua rendita di posizione: «L'o­ peraio di Milano e di Modena non vuole spessissimo neanche piu sentir parlare dello sviluppo del Mezzogiorno [ . .. ] e si deve prevedere che - date le circostanze - nel futuro prossimo si [registreranno] ulteriori accentuazioni di queste tentazioni "iso­ lazionistiche" » . La causa viene individuata nella difficile situazione economica, che induce all'egoismo e alla chiusura in sé stessi, riconoscendo tuttavia che « una robusta mano alle tentazioni "isolazioniste" di una certa parte dell 'opinione pub­ blica del Nord del paese viene anche dalle inefficienze [ . . . ] dell'intervento dello Stato nel Mezzogiorno » !4. La crisi economica porta a mettere in discussione la solidarietà fra aree forti e aree deboli, elemento importante per l 'unità del paese. Il ritardo nello sviluppo del Sud aveva rappresentato fino a quel momento «la coscienza critica del processo di costruzione della nazione » 15: la ricerca di soluzioni alla questione meridionale aveva segnato la storia italiana sin dagli anni successivi all'unificazione, sempre intesa come un problema dell' intero paese16• In età repubblicana aveva rappresentato un tema politico di assoluto rilievo, divenendo un « elemento costitutivo ed essenziale del pensiero riformatore e dei programmi e criteri di azione di [tutte] le forze politiche I I. Un'efficace sintesi nell'editoriale Mezzogiorno di fuoco, in "Mondo Economico", XXXIII, 25 novembre 1 978, 46. 12. P. Barucci, La sempiterna questione meridionale, in "Appunti di Cultura e di Politica': 1979, I I, ora in Id., Mezzogiorno e intermediazione "impropria", il Mulino, Bologna 2008, pp. 49-74. L'afferma­ zione voleva essere provocatoria, ma fu presaga. 13. SVIMEZ - Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, Rapporto sull'economia del Mezzogiorno nel 197S, SVIMEZ, Roma 1979. 14. S. Bragantini, Le ragioni della ''insoffirenza", in "Nord e Sud", XXVIII, 1982, 18, pp. 37-41. n corsivo è mio. 15. Introduzione, in "Meridiana': 1993, 16, Questione settentrionale, p. 9· 16. Una recente rilettura in F. Barbagallo, La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1Soo a oggi, Laterza, Roma-Bari 2013.

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nazionali » 17• La scelta di investire ingenti risorse nella crescita delle aree arretrate - secondo una concezione fortemente unitaria del paese che si saldava a un senso complessivo di identità nazionale - costituiva un elemento caratterizzante della cul­ tura politica prevalente nei grandi partiti di massa e, in particolare, del progetto storico che aveva ispirato la nascita del centro-sinistra. Ma nella seconda metà degli anni Settanta questa visione perde consenso nell 'opinione pubblica settentrionale. Tale processo viene favorito dalla creazione delle Regioni, avvenimento che si colloca all 'inizio degli anni Settanta e ha conseguenze di ampia portata. Quella di maggiore rilievo ai fini della nostra analisi è la riproposizione, in termini nuovi, del divario Nord-Sud. Ciascuna Regione infatti può e deve valutare le proprie forze, tanto più in una stagione di gravi difficoltà dell'economia, confrontandosi con le altre18• Sintomatico in tal senso il dibattito che si svolge sulle pagine del quotidiano "La Stampa" alla fine del 1 9 7 5 , aperto da un intervento del primo presidente della Regione Emilia-Romagna Guido Fanti, che lancia l'idea della costituzione di una lega del Po, la "Padania" : un accordo fra Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto e la sua regione, per affrontare insieme la crisi economica e trattare con il governo centrale da una posizione di forza, alla luce delle funzioni attribuite ai nuovi enti locali. Un'idea nata subito dopo l 'istituzione delle Regioni, elaborata in un comitato regio­ nale coordinato da Romano Prodi e resa pubblica il 6 novembre 1 9 7 5 sulle pagine del quotidiano torinese19• Nell ' intervista emergono temi di rilievo riguardo a quella che diventerà la questione settentrionale: la contrapposizione fra le regioni forti e il Mezzogiorno debole - negata da Fanti, ma assolutamente evidente -, il bisogno di trasparenza ed efficienza nella spesa pubblica, la critica alla Cassa del Mezzogiorno. Nei giorni seguenti sulle pagine della "Stampa" la proposta viene discussa con i presidenti delle altre Regioni del Nord e con alcune del Sud2.o. Al di là delle singole posizioni, emergono tre temi decisamente significativi per quella che sarà la questione settentrionale. Il primo è il rapporto fra le nuove realtà locali, desiderose di prota­ gonismo, e uno Stato centralista e inefficiente. Con sfumature diverse, dovute in I7. G. Galasso, Meridionalismo e questione meridionale, in SVIM EZ, Nord e Sud a 150 anni dall'U­ nita d'Italia, il Mulino, Bologna 2012, pp. 35-8. I 8. Lucide osservazioni al riguardo in P. Craveri, La Repubblica dal 195S al 1992, in Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, vol. XXIV, UTET, Torino I995· pp. IOI0-2I. I9. F. San tini, Fanti spiega la sua proposta per una grande ((lega del Po", in "La Stampa", 6 novembre I975, p. 9; nell'occhiello era esplicitato l' interrogativo di fondo : «Ma nascerà davvero la super regione della Padania?». li ruolo di Prodi è riferito in Fanti: la Padania l'inventammo noi 20 anni fa, in "Corriere della Sera", I2 novembre I996, p. 4; E. Cusmai, Vent 'anni fa Prodi voleva la Padania, in "il Giornale", I2 settembre I996, p. 5· Cenni sulla vicenda in S. B. Galli, Il grande Nord. Cultura e destino della questione settentrionale, Guerini e Associati, Milano 20I3, pp. I I I ss. 20. F. Santini, Padania? Milano risponde ((ni", in "La Stampa", 8 novembre I975, p. 9; Id., Alla Liguria, Padania va bene, ivi, 9 novembre I975· p. I9; Id., Una Padania mitteleuropea, ivi, 29 novembre I975, p. 3; Id., Una Padania senza steccati, ivi, 4 dicembre I975, p. 3; Id., Un no alla Padania, ivi, 6 dicembre I975· p. 3; Id., Anche la Campania dice no alla ((superlega dei ricchi", ivi, 9 dicembre I975, P· 2.

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parte all'appartenenza partitica, gli intervistati esprimono la difficoltà a confrontarsi con problemi spinosi come la crisi di decine di piccole e medie imprese o le esigenze di migliaia di studenti universitari, senza ricevere un adeguato sostegno dallo Stato, che viene criticato con termini molto espliciti : assente, immobile, fatiscente. Mani­ festano insofferenza per essere divenuti i primi interlocutori di fronte ai problemi locali, ma senza gli strumenti adeguati per affrontarli per la contrarietà del governo centrale a regionalizzare la gestione del potere. La seconda questione che ritorna costantemente è la contrapposizione fra Nord e Sud. Gli amministratori settentrionali rigettano costantemente tale prospettiva, ma appare evidente che l 'istituzione delle Regioni ripropone questo storico pro­ blema in forme nuove e insidiose, a partire dalle diverse dinamiche e velocità di sviluppo di ciascun territorio. La proposta di Fanti viene definita in un articolo «psicologicamente inopportuna » 1\ proprio perché formulata in un momento sto­ rico in cui emerge il rischio di nuove fratture fra Settentrione e Mezzogiorno, insieme alle tentazioni di chiusure regionalistiche. Peraltro, le affermazioni a favore del Sud fatte dai presidenti dell ' ipotetica Padania sono molto "di principio" ma prive di proposte concrete. Lo denuncia il presidente della Regione Calabria Pasquale Perugini, osservando criticamente come la proposta della lega del Po rappresenti sostanzialmente un'estensione dell'alleanza delle regioni ricche, dal triangolo indu­ striale a un nuovo pentagono padano. Il presidente della Regione Piemonte Aldo Viglione lega in un solo ragionamento le due tematiche appena richiamate, affer­ mando che la radice dell ' ipotetica "Santa alleanza" delle regioni più sviluppate sia proprio nella carenza di risultati ottenuti dallo Stato nello sviluppo del Mezzogiorno, riconoscendo inoltre che sarebbe più veritiero parlare semplicemente di Nord piut­ tosto che in modo ambiguo di Padania. Il terzo aspetto da segnalare è che l' intero dibattito - che non avrà seguito anche per la ferma contrarietà del partito di Fanti, il P C I - è costantemente segnato dal richiamo alla grave crisi economica del paese, che incoraggia un atteggiamento propositivo delle Regioni. Elemento che collega il tema dell 'autonomismo locale alle dinamiche economiche ( e sociali ) rievocate nelle pagine precedenti. Fra gli elementi che collegano l'istituzione delle Regioni e la frattura fra Nord e Sud, occorre fare un cenno all'attività di un ente importante come la Cassa del Mezzogiorno. La sua efficienza risulta fortemente deteriorata dal coinvolgimento nelle sue attività dei nuovi organismi, ai quali viene affidato un ruolo crescente, prima nella realizzazione degli interventi poi in tutto il processo decisionale, con il primo risultato di indebolire la necessaria unitarietà direttiva. Le Regioni peraltro non hanno le risorse tecniche e organizzative adeguate per adempiere a tali funzioni e finiscono per favorire lo sviluppo di una rete burocratica inefficiente, incentivando

2I. C. Casalegno, Nord e Sud un solo Paese, ivi, 11 dicembre I97S·

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una commistione fra politica e affari che si fa progressivamente più stretta e dannosa, mentre i partiti e le loro correnti acquistano una crescente influenza negli organismi della Cassa e nella scelta degli amministratori n. Tali elementi negativi, che forniranno benzina alle infuocate polemiche degli anni Ottanta, sono parte del più ampio pro­ blema della scarsa efficienza delle regioni del Sud. Una questione che si manifesta nell'arco di non molto tempo e contribuisce ad ampliare il divario già esistente, concorrendo ulteriormente a « indebolire la solidarietà interregionale » 2.3• Un ultimo cenno sulle Regioni va fatto al tema più generale dei limiti della loro attuazione, che è stata ritenuta « per molti sostanziali aspetti un evidente fallimento » 2.4-. La mancanza di un serio confronto sul tema, che dura sin dagli anni della Costituente, e la contrarietà ( o comunque i forti dubbi ) verso questi enti che allignano in buona parte della classe politica nazionale fanno sì che la loro creazione non sia accompagnata dalla costruzione istituzionale di un'effettiva autonomia regionale2.5• La nascita dei nuovi enti non contribuisce a ripensare in modo nuovo il centralismo statale e l'autonomismo locale - per una poco chiara distinzione funzionale fra Stato e Regioni, alle quali non viene neanche data autonomia finan­ ziaria - aggiungendo piuttosto al sistema politico italiano un'ulteriore « stratifica­ zione, a livello istituzionale intermedio, di distribuzione della spesa pubblica, nonché di organizzazione corporativa e clientelare » . Negli anni seguenti si mani­ festa nelle popolazioni locali una maggiore identificazione con la dimensione regio­ nale ma emergono anche le contraddizioni nella loro attuazione e in particolare la mancanza di una reale autonomia, anche per la scarsa "regionalizzazione" dei partiti, i quali continuano a concepirsi come organismi caratterizzati da valori e temi nazio­ nali o sovranazionali. L'allentamento dei vincoli fra Nord e Sud innescato dalla crisi economica e le molteplici conseguenze della nascita delle Regioni rappresentano elementi fondamen­ tali nell 'emergere della questione settentrionale. Non è possibile stabilire uno sche­ matico rapporto causa-effetto, ma al termine degli anni Settanta prendono forma le prime leghe autonomiste: la prima è la Liga veneta, fra il 1979 e il 1980, seguita non molto tempo dopo da soggetti simili in Piemonte e soprattutto dalla Lega lombarda fondata da Umberto Bossi. La Liga veneta è la prima a registrare nel 1 9 83 un risultato 22. Cafìero, Storia dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, cit. ; SVIMEZ, La politica per l'unificazione economica nell'ultimo cinquantennio e i problemi di oggi, in Id., L'unificazione economica dell'Italia, il Mulino, Bologna 1997, pp. 21 ss. 23. Cfr. R. Putnam, R. Leonardi, R. Y. Nanetti, La pianta e le radici. Il radicamento dell'istituto regionale nel sistema politico italiano, il Mulino, Bologna 1985, pp. 348 ss. 24. Craveri, La Repubblica dal I95S al I992, cit., p. 1011, da cui è tratta anche la citazione seguente. 25. U. De Siervo, La difficile attuazione delle regioni, in L'Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, IV. Sistema politico e istituzioni, a cura di G. De Rosa, G. Monina, Rubbettino, Soveria Man­ nelli ( cz) 2003, pp. 389-401, al quale si rinvia per un approfondimento sul rapporto fra Regioni e Stato negli anni Settanta.

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elettorale significativo dovuto - secondo livo Diamanti - soprattutto a tre fattori: il forte antimeridionalismo ; le minacce allo sviluppo economico ; la rivendicazione regionalista e localista in contrapposizione al centralismo statalel6• Fenomeni che si erano sviluppati negli anni Settanta.

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Le trasformazioni della società postfordista in un sistema politico inerte Nel corso degli anni Ottanta una serie di cambiamenti economici trasforma in pro­ fondità il Nord del paese, favorendo il diffondersi di un forte malessere sociale. All 'origine - oltre alle vicende sin qui ripercorse e al secondo shock petrolifero - c 'è soprattutto la crisi del modello fordista, dovuta alle condizioni di instabilità dell'e­ conomia internazionale e ai cambiamenti nella domanda, che indeboliscono le stra­ tegie industriali di lungo periodo e le produzioni standardizzate, favorendo le imprese piccole e versatili. L'area del triangolo industriale subisce in pochi anni una forte trasformazione. In alcune zone la grande impresa continua ad avere un peso non trascurabile, ma deve ristrutturarsi radicalmente e assumere caratteri di maggiore flessibilità, con conseguenze anche sull' indotto : così avviene nella company town italiana, Torino, dove la FIAT rimane un riferimento indiscutibile sebbene fra il 1979 e il 1983 i dipen­ denti del gruppo scendano da 35 0.o oo a 244.0 0 0 unitàl7• Altre aree del Nord- Ovest vedono crescere rapidamente l'economia immateriale, dall 'informatica alla comuni­ cazione, dalla finanza ai servizi alle imprese, fino alle diverse tipologie di consulenza. La capitale ideale di questa nuova realtà produttiva è Milano. Come in tutte le eco­ nomie avanzate la priorità passa dai processi di trasformazione al terziario e l' indu­ stria manifatturiera perde migliaia di occupati. Si registra inoltre un progressivo decentramento delle attività produttive: la grande città industriale tende a scompa­ rire, mentre prende forma la cosiddetta "megalopoli padana", un territorio tutto urbanizzato senza soluzione di continuitàl8•

26. l. Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma I993, pp. SO-I. 27. F. Amatori, A. Colli, Impresa e industria in Italia. Dall'Unita a oggi, Marsilio, Venezia I999, p. 303; V. Castronovo, Fiat 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Rizzoli, Milano I 999, pp. I444 ss. Il calo degli addetti è dovuto anche alla cessione di rami d'azienda. 28. Una lucida lettura di tali vicende si trova nelle pagine introduttive di Berta ( a cura di ) , La questione settentrionale, cit. , opera che offre un'accurata ricostruzione delle trasformazioni economiche del Nord negli ultimi decenni. Sulle trasformazioni del territorio e in particolare sulla megalopoli padana, cfr. R. Mainardi, L'Italia delle regioni. Il Nord e la Padania, Bruno Mondadori, Milano I998, pp. I20 ss., volume di taglio geografico piuttosto sintonico con alcune posizioni leghiste.

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L'impatto dei cambiamenti sulla società è forte e genera spaesamento : « Il tra­ monto della fabbrica fordista come luogo di costruzione della società sembra improv­ visamente vanificare decenni di lotte, lasciando sul campo tanti orfani senza riferi­ menti [se non] il dispiegarsi di un individualismo competitivo essenzialmente antisociale » �9• Dopo aver vissuto in Italia una stagione di grande protagonismo, la classe operaia perde compattezza e rilevanza politica. Ci sono segnali di una crescente debolezza del sindacato, dalla "marcia dei quarantamila" nel 1980 alla sconfitta nel referendum sulla scala mobile nel 1985. La "centralità operaia" è un ricordo del pas­ sato, si parla piuttosto di "paura operaia" e molti smarriscono una visione condivisa della società, insieme alla speranza di poterla cambiare. Anche per questo si logora il tradizionale legame con i partiti di sinistra e molti operai vengono attratti dalla Lega, inclusi diversi iscritti alla CG I0°. Nello stesso periodo prende forza anche il fenomeno del "riflusso", ossia una nuova attenzione ai bisogni individuali e un ripiegamento nel privato, accompagnato da una crescente sfiducia verso i partiti politici31• Si propaga nella società una nuova antropologia, che sfugge alle logiche dell'appartenenza collettiva e diventa individua­ lista nelle aspettative e nei desideri. Dopo anni di forte militanza, si assiste alla frantumazione dei soggetti collettivi e ad un diffuso ripiegamento in direzione del privato e dell' individuale3�. Non si guarda più al futuro con la speranza di poterlo cambiare, ma con la paura di non riuscire ad affrontarlo33• Se la grande fabbrica prometteva occupazione e stabilità, trasmettendo la sensazione di un futuro sicuro34, la società postfordista appare sfuggente, competitiva e foriera di precarizzazione. Nelle regioni più ricche si diffonde un senso di forte incertezza, che si salda all 'in­ dividualismo e dà nuova linfa ai sentimenti di chiusura al Sud che la crisi aveva ali­ mentato. Fuori del triangolo industriale, ossia nell'area orientale, la crisi del modello far­ dista viene vissuta in termini molto diversi. In Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli 29. A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del nord, Feltrinelli, Milano 2008, p. 1 6. Nume­ rosi spunti sul tema in P. Ginsborg, L'Italia del tempo presente. Famiglia, societa civile, Stato 19S0-1996, Einaudi, Torino 1998. 30. G. Lonardi, Delusi dalla CGIL, tentati dalla Lega, in "la Repubblica", 9 gennaio 1991, p. 17. Il fenomeno si accentua con il passare degli anni; cfr. E. Marro, Il mosaico del nuovo sindacato CGIL , in "Corriere della Sera", s maggio 2010, p. 17. 31. G. De Luna, Dalla spontaneita all'o rganizzazione: la resistibile ascesa della Lega a Bossi, in Id. (a cura di), Figli di un benessere minore. La Lega 1979-1993, La Nuova Italia, Firenze 1994, pp. 21 ss. Più in generale, AA .VV., Il trionfo del privato, Laterza, Roma-Bari 1980. 32. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010, p. 13; G. Ruffolo, Un paese troppo lungo. L 'unita nazionale in pericolo, Einaudi, Torino 2009, pp. 215-6. 33· G. Bigatti, M. Meriggi, I mutevoli confini del Nord, in Berta (a cura di), La questione setten­ trionale, cit., pp. 13-42. 34· G. Berta, L'Italia dellefabbriche. Genealogie ed esperienze dell'industrialismo nel Novecento, il Mulino, Bologna 2001.

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Venezia Giulia - come nel resto della cosiddetta "terza Italia,, - operano migliaia di imprese piccole e piccolissime, spesso di carattere familiare, legate al territorio, gene­ ralmente organizzate nei distretti industriali e in altre forme di integrazione orizzon­ tale e verticale. Offrono la flessibilità produttiva di cui c ,è forte domanda in questi anni e permettono a regioni storicamente povere come il Veneto di cambiare rapi­ damente la propria condizione. La crescita delle piccole imprese non contrasta i processi di frammentazione sociale ma li rafforza, dal momento che la cultura di questo capitalismo è tipicamente individualista. Contribuisce al passaggio dalla con­ trapposizione fra le classi alla frammentazione in tanti singoli difficilmente compo­ nibili fra loro, se non nella dimensione locale35• Questo tipo di società e questo sistema d, imprese, che assumono in breve tempo un ruolo economico importante, hanno bisogno di un governo del territorio che favorisca innovazione ed efficienza, ma stentano a trovare servizi pubblici e infra­ strutture adeguati36• Si scontrano anche con il problema della rappresentanza. Il mondo dei piccoli imprenditori di successo e degli artigiani cresciuti o, più in gene­ rale, r intero tessuto produttivo in via di profonda ristrutturazione comprende di essere divenuto una realtà importante ma priva di adeguata tutela. Si sentono "giganti economici e nani politicf,, per usare una formula molto diffusa, e diventano rancorosi , verso una politica nazionale (ma spesso definita "romana ,) che ai loro occhi ignora il travaglio vissuto in tante zone del Nord produttivo, ma indirizza risorse a un Sud assistito. La stessa problematica, legata anche alla mancanza di una radice culturale ben definita, si riflette pure in ambito imprenditoriale. Le grandi aziende, infatti, hanno un ruolo autorevole nella società italiana e mantengono a lungo regemonia in Con­ findustria, dove bisogna attendere il 1996 perché sia nominato al vertice un presidente che non provenga dalla grande impresa37• Aziende di dimensioni diverse hanno inte­ ressi eterogenei, come d, altronde sono i loro approcci ai problemi del paese (o almeno alcuni fra essi). Basti pensare al Mezzogiorno, che diverse grandi aziende settentrio­ nali avevano considerato un ,opportunità, cogliendo i vantaggi offerti dalle agevola­ zioni statali. Al contrario, i rappresentanti delle medie e piccole imprese settentrionali esprimono spesso indifferenza, se non disprezzo, verso le problematiche del Sud. I sentimenti che si diffondono al Nord, tipici delle società segnate da rapide trasformazioni, rappresentano una sfida per chi governa. Il sistema politico italiano però non riesce a offrire risposte convincenti né ai bisogni dei soggetti emergenti né di quelli in crisi, rimanendo sostanzialmente immobile di fronte al cambiamento

35· Sui caratteri dello sviluppo nel Nord-Est, cfr. A. Bonomi, Il capitalismo molecolare. La societa a/ lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino 1997, pp. 118-29. 36. I. Diamanti, Mappe dell'Italia politica. Bianco, rosso, verde, azzurro... e tricolore, il Mulino, Bologna 2009', pp. 6 s-6. 37· V. Castronovo, Cento anni di imprese. Storia di Confindustria I9I0-20IO, Laterza, Roma-Bari 2010. 3 70

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sociale ed esprimendo in questa vicenda quell'atteggiamento autoreferenziale che lo caratterizza progressivamente dopo la stagione della solidarietà nazionale38• La Democrazia cristiana registra una significativa crisi in Veneto e in alcune aree di tradizionale radicamento nella Lombardia pedemontana, favorita sia dalla secolariz­ zazione e da una più generale crisi del partito, sia da uno scollamento tra politica centrale e comunità locale che lascia politicamente orfana la cosiddetta "subcultura bianca"39• I primi segnali di questo cambiamento vengono sottovalutati e nelle aree bianche il legame con la D C finisce per essere sostanzialmente disarticolato, lasciando ampi spazi al fenomeno leghista che guadagna rapidamente consenso, nell'ambito di una più vasta contrapposizione del Nord alla Roma considerata capitale dello Stato centralista e della lottizzazione politica40• In precedenza il partito cattolico era riuscito a stemperare atteggiamenti come il localismo, la sfiducia verso lo Stato e il familismo - storicamente radicati in alcuni territori, fra i quali il Veneto - ma l' indebolirsi dell'identità religiosa li fa riemergere, favorendo lo spostamento degli elettori democristiani verso il partito di Bossi41• Il malessere del Nord incontra scarsa attenzione anche nel Partito comunista, fatta eccezione per alcune realtà locali che però faticano a trovare ascolto negli organi centrali4�. E significativo che l 'espressione "questio ne settentrionale" non venga mai utilizzata né dagli esponenti del partito né dalle testate giornalistiche d'area: i dua­ lismi territoriali vengono visti esclusivamente nella prospettiva del Mezzogiorno e del suo ritardo. La sinistra incontra difficoltà nel confrontarsi con le dinamiche di una modernità che non rientra « nel suo tradizionale, consolidato impianto interpre­ tativo della realtà, oltre che nelle sue opzioni politiche » . Tanto che « se sofferenze riconducibili a una frattura territoriale esistono, esse vengono trattate [come] variabili dipendenti dall 'unica vera questione, quella meridionale » 43• '

38. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (I9S9-20II), Laterza, Roma-Bari 20I2, pp. 3 ss.; Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta, cit., pp. I4-S· 39· Sulla crisi della DC e la secolarizzazione, cfr. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (I945-I996), il Mulino, Bologna I997, pp. 407 ss.; sul dibattito interno al mondo cattolico in quel periodo, cfr. A. Giovagnoli, Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 201 1, pp. I 6 8 ss. 40. R. Chiarini, Il disagio del Nord, l'antipolitica e la questione settentrionale, in S. Colarizi et al (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, pp. 23 I-66. 4I. Diamanti, La Lega, cit., pp. 45-7. Le interpretazioni sul ruolo della Chiesa nella storia italiana non sono condivise, come si è potuto osservare in occasione dei ISO anni di unità nazionale. 42. li tema è trattato in un volume dedicato al fenomeno leghista in Veneto in cui vengono sottolineate le divergenze fra livello locale e centrale nell'affrontare la nuova realtà politica, sia nel PCI sia nella DC; cfr. F. Jori, Dalla Liga alla Lega. Storia, movimenti, protagonisti, Marsilio, Venezia 2009, pp. 46-si. 43· R. Chiarini, Socialisti e comunisti davanti alla "questione settentrionale", in G. Acquaviva, M. Gervasoni, Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia 2011, pp. 297-8. Significati­ vamente non si trovano accenni al tema, a conferma dello scarso rilievo che aveva nel Partito comunista, in A. Possieri, Il peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal PCI al PDS (I970-I99I), il Mulino, 37 1

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Si ha l'impressione - da verificare in futuro con maggiore disponibilità di fonti archivistiche - che le problematiche del Sud diventino una sorta di path dependence, un elemento che rende difficile cogliere quanto accade nelle zone più sviluppate. Un atteggiamento in parte simile, infatti, si riscontra anche nell'ambito del Partito socia­ lista, dove il ritardo del Mezzogiorno continua a essere indicato come la vera grande questione nazionale44• Fra le ragioni di tale orientamento c 'è sicuramente una diversa disponibilità di studi e ricerche, copiose sul Meridione - basti pensare ai lavori della SVIMEZ - ma scarse sull'economia e la società del Nord, almeno fino a quel momento45• L'approccio del PSI è almeno in parte diverso, perché viene avvertita la necessità di confrontarsi con la modernizzazione in corso : Bettino Craxi prova a interpretare la transizione postfordista in modo propositivo e porta elementi di novità nel rapporto politico fra Nord e Sud del paese, anche se coglie tardi la portata del fenomeno leghista46• La sostanziale inerzia delle forze politiche di fronte alle domande di una società dinamica fa guadagnare consenso alle diverse leghe, che si fanno interpreti del Nord e del suo disagio. Nel 1983 entra in parlamento la Liga veneta, con un eletto alla Camera e uno al Senato. Raccoglie molti voti nella fascia pedemontana che va da Verona a Belluno passando da Vicenza e Treviso, con una prevalenza nei comuni di media dimensione, in un 'area segnata dalla piccola impresa industriale. Nel 1987 i consensi si ampliano, concentrandosi soprattutto in tre aree: il nucleo del Veneto, l'alta Lombardia e alcune province del Piemonte. I caratteri socioeconomici sono omogenei: aree "bianche", altamente industrializzate, caratterizzate da imprese piccole e molto dinamiche, con scarsa presenza di servizi e intervento pubblico. Questa volta è la Lega lombarda a ottenere due eletti in Parlamento, superando anche il Io% dei consensi in numerose elezioni comunali. Bossi punta sulla comunità di interessi a livello locale, con attenzione specifica ai distretti e alle piccole imprese, ma anche alle classi popolari. Mostra un notevole fiuto politico nel cogliere alcuni temi cruciali: malessere verso lo Stato centrale, sentimenti antimeridionalisti, federalismo. I giornali ne denunciano la grossolanità e i toni spesso razzisti, il sistema politico tende soprat­ tutto a stigmatizzare la realtà leghista, ma poco vengono colti - al di là di un lin­ guaggio semplificato e aspro - alcuni elementi significativi: la Lega si fa interprete Bologna 2007, né in A. Vittoria, Storia del PCI: I92I-I99I, Carocci, Roma 2006. Sulla lentezza nel cogliere il fenomeno leghista ancora alla fine degli anni Ottanta, cfr. G. Galli, Storia del P CI. Livorno I92I, Rimini I99I, Kaos, Milano 1993, p. 307. 44· Chiarini, Socialisti e comunisti davanti alla "questione settentrionale", cit., p. 309. 45· A. Pichierri, Si fa presto a dire Nord, in "il Mulino", 201 1, s. pp. 761-8. 46. G. Berta, Nord. Dal triangolo industriale alla megalopoli padana, Mondadori, Milano 2008, pp. 235-43. Cenni sui ritardi del PSI nel cogliere il fenomeno leghista negli anni Ottanta in S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma­ Bari 2005, pp. 160 e 238, al quale si rinvia per una lettura d' insieme sul P SI. Su Craxi in questi anni, cfr. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta, cit., pp. 46-51, che accenna anche alla sua (errata) lettura del fenomeno leghista (pp. 226-8 ) . 3 72

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di problemi reali, pone molta attenzione agli elementi locali (utilizzando fra l'altro il dialetto) e va oltre il tradizionale schema destra-sinistra47• Nel corso degli anni Ottanta si accentua la sfiducia verso l'azione dello Stato nel Mezzogiorno, già forte all' inizio del decennio. Sono emblematiche, anche in questo caso, le difficili sorti della Cassa del Mezzogiorno : una precedente legge ne aveva fissato al 31 dicembre 1980 la scadenza, ma lo scetticismo dell'opinione pubblica e i problemi delle finanze statali sfavoriscono non solo il rafforzamento dell'ente ma addirittura il suo rinnovo, sul quale il Parlamento non prende alcuna decisione. Dal 1981 la Cassa viene mantenuta in vita con proroghe di breve durata, fino alla definitiva abrogazione nel 198448• Negli stessi anni i poli industriali sorti negli anni Sessanta e Settanta nel Mezzogiorno grazie all 'intervento straordinario risultano ormai « in via di disarmo, quando non [ ... ] già stati smantellati in gran parte nel corso delle varie fasi recessive » . Questi fallimenti rendono evidente che i considerevoli trasferimenti di risorse nel Sud operati per via politica, pur avendo fatto crescere i consumi e il reddito, non sono riusciti a favorirne lo sviluppo ossia l'autonoma capacità di produrre reddito. Al con­ trario, si sono moltiplicati i fenomeni di lottizzazione politica e degrado istituzionale, accompagnati da una crescente presenza della criminalità organizzata, con il risultato paradossale e perverso di rendere più difficile uno sviluppo economico endogeno49• Al problema degli insuccessi economici dello Stato è strettamente connesso quello della vorticosa crescita del debito pubblico, che negli anni Ottanta si manifesta in termini molto preoccupanti. Ne discende un progressivo inasprimento della pressione fiscale, che suscita già alla metà del decennio vivaci proteste nelle zone più ricche del paese50• L'aumento delle tasse non è peraltro sufficiente a rispondere alle crescenti esigenze della finanza pubblica e si apre la strada a quella crisi fiscale che poco tempo dopo sarà parte fondamentale della « grande slavina » destinata a travolgere il sistema politico italiano51• Tuttavia, pur in presenza di numerosi sintomi di crisi - ai quali va aggiunta la crescita degli elettori che rinunciano a esprimere il proprio voto5l - per tutti gli anni Ottanta il sistema politico sembra mantenere la sua stabilità, favorito dalla contrapposizione internazionale fra Alleanza atlantica e blocco comunista. 47· Diamanti, La Lega, cit.; Id., Il male del Nord. Lega, localismo, secessione, Donzelli, Roma 1996. Sulla prima stagione della Lega (ma anche sugli anni più recenti), cfr. anche R. Biorcio, La rivincita del Nord. La Lega dalla contestazione al governo, Laterza, Roma-Bari 20IO; G. Passalacqua, Il vento della Padania I9S4-2009, Mondadori, Milano 2009. 48. Cafìero, Storia dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, cit., pp. I23-30. 49· V. Castronovo, Storia economica d'Italia. Dall'Ottocento ai giorni nostri, Einaudi, Torino 2006, pp. 535-40 (da cui è tratta la citazione precedente, alle pp. 535-6 ) ; C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno, il Mulino, Bologna I 992, passim; L. Cafagna, Nord e Sud. Non fare a pezzi l'unita d'Italia, Marsilio, Venezia I994· pp. 67-73. so. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta, cit., pp. II I-4. S I. L. Cafagna, La grande slavina. L'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia I993· 52. P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. Societa e politica I943-I9SS, Einaudi, Torino I989, pp. S7I ss.; più in generale Colarizi et aL (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, cit., e AA.VV., L'Italia fra crisi e transizione, Laterza, Roma-Bari I994· 373

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Affermazione della Lega Nord e conseguenze politiche della questione settentrionale Alle soglie degli anni Novanta viene fondata la Lega Nord, nuovo soggetto politico che unisce sei diverse realtà regionali, fino a quel momento indebolite da molteplici divisioni interne. Bossi consegue due risultati di rilievo. Da una parte riunifica e rafforza il fronte delle diverse leghe, coniugando insieme movimenti autonomisti, una figura autorevole come il politologo Gianfranco Miglio e richiami a nobili pre­ cursori come Cattaneo e i federalisti americani. Dall'altra riesce a fondere i diversi elementi di malessere diffusi nel territorio in un solo orizzonte rivendicativo : la questione settentrionale53• In un paese segnato dalla crisi di tanti elementi di unità e coesione - la questione meridionale in chiave di unificazione economica, l 'impegno politico e sindacale collettivo, il rapporto fra cittadini e Stato - il Carroccio acquista grande forza unificando un'area vasta, con esigenze eterogenee, « attorno a una sola tensione, a una sola frattura, segnata dal contrasto con lo Stato eccessivo, inefficiente, dissi pativo » 54• In questo schema s' iscrivono le parole d'ordine leghiste: domanda di maggiore autonomia per i territori, condanna dell'intervento pubblico in economia ( specie nel Mezzogiorno ) e richiesta di una sua riduzione, critica serrata al sistema politico, contrapposizione al sistema fiscale dal punto di vista sia del prelievo sia della retri­ buzione. Tematiche che rimangono nel tempo, anche se in forme diverse, coniugan­ dosi con una visione localistica e sovente marcatamente egoistica, contrapposta a chi è diverso per provenienza o per cultura. Il territorio viene utilizzato quale chiave per rivendicare, piuttosto che come strumento per mediare come avveniva con la D C 55• Il periodo compreso fra il 1989 e il 1992 è segnato da avvenimenti di grande portata, che hanno conseguenze di rilievo sul paese e favoriscono la definitiva affer­ mazione della questione settentrionale a livello nazionale. La caduta del Muro di Berlino mette in difficoltà il P C I ma anche la D C nella sua funzione di antemurale al comunismo, mentre le inchieste di Tangentopoli portano all'apice la sfiducia verso i partiti56• Umberto Bossi, forte della prospettiva unitaria offerta al Nord, si inserisce con un linguaggio aggressivo e semplificato negli spazi televisivi che hanno acquistato grande importanza nel dibattito politico, esprimendo la rabbia verso la politica romana e contrapponendo la laboriosità del Nord ali ' inefficienza dello Stato57• La S3· A. Bonomi, Vie italiane al postfordismo. Dal capitalismo molecolare al capitalismo personale, in Berta (a cura di), La questione settentrionale, cit., p. 78. S4· Diamanti, Mappe dell'Italia politica, cit., pp. 70-1. SS· lvi, p. 6 6. s6. Per una ricostruzione, cfr. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., pp. 4S9 ss.; Cafagna, La grande slavina, cit. S7· Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta, cit., pp. 208-16. 3 74

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Lega diventa il «partito antipartiti »58: interpreta la difficile transizione di questi anni e allo stesso tempo funge da detonatore nell 'esplosione del sistema politico preesi­ stente. Secondo diversi studiosi è uno dei principali fattori di disgregazione della Prima Repubblica59• Le difficoltà della Democrazia cristiana e del Partito comunista, che avevano per­ seguito un approccio unitario alle problematiche territoriali, favoriscono l'affermazione leghista. Le elezioni regionali in Lombardia nel 1990 sono indicative al riguardo : la somma dei voti raccolti dalla DC e dal PCI, che nel 1985 era stata pari al 63%, scende al 47%, mentre la Lega raccoglie il 19% dei consensi. Ovviamente non c 'è un passaggio meccanico degli elettori, ma la tendenza è chiara: la crisi dei due principali partiti italiani facilita il dilagare dell'orgoglio identitaria del Nord e l'avversione verso il Sud. Lo scoppio di Tangentopoli imprime un 'ulteriore accelerazione a questo processo e nelle elezioni politiche dell 'aprile 1992 il Carroccio ottiene un risultato notevole: 8,6% dei voti a livello nazionale e 17,3% nelle aree dove si presenta. Bossi è il candi­ dato più votato in Italia e raccoglie a Milano ben 24o.o o o preferenze, mentre la forza elettorale dei maggiori partiti di governo si colloca soprattutto nelle regioni meri­ dionali 60. Da questo momento l'espressione "questione settentrionale", in precedenza poco utilizzata, entra nel linguaggio mediatico e s'impone all'opinione pubblica. Il malessere del Nord diventa un elemento di rilievo nazionale e attraverso la Lega, che ne rappresenta « il riassunto, lo specchio e l 'attore principale » 6\ inizia a determinare risultati elettorali e scelte di governo. Non è un caso che la definitiva sostituzione fra le due questioni territoriali avvenga pochi mesi dopo. Una serie di fatti colpisce negativamente l'opinione pub­ blica, dagli scandali legati alla ricostruzione dopo il terremoto dell' Irpinia alla cre­ scente violenza mafiosa in Sicilia. Giorgio Bocca pubblica due volumi6l - uno dei quali è per molto tempo il più venduto in Italia - in cui descrive il Sud come un'area disperata e priva di civilizzazione, dove il crimine organizzato la fa da padrone, che rischia di rovinare anche il Settentrione: si tratta di stereotipi e semplificazioni, che però si diffondono con forza nell 'opinione pubblica63• s 8. La definizione è proposta in l. Diamanti, La Lega, imprenditore politico della crisi, in "Meri­ diana", 1993, 16, pp. 99-133. S9· G. Crainz, Ilpaese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012, pp. 257-62; Cafagna, La grande slavina, cit., passim; Craveri, La Repubblica dal I95S al I992, cit., pp. 1010 ss. Sul tema si segnala anche L. Ricolfì, L'ultimo Parlamento. Sullafine della prima Repubblica, Carocci, Roma 1993, pp. 81-4 e 143-6, e Ginsborg, L'Italia del tempo presente, cit., pp. 329 ss. 6o. Colarizi, Gervasoni, La tela di Penelope, cit., p. 25. 6 1. Diamanti, Mappe dell'Italia politica, cit., p. 67. 62. G. Bocca, La disunita d'Italia. Per venti milioni di italiani la democrazia e in coma e l'Europa si allontana, Garzanti, Milano 1990; Id., L'inforno. Profondo Sud male oscuro, Mondadori, Milano 1992; il giornalista fra l'altro si schiera apertamente a favore della Lega. 63. Sulla vicenda e i suoi riflessi, cfr. l' interessante lavoro M. Huysseune, Modernita e secessione. Le scienze sociali e il discorso politico della Lega Nord, Carocci, Roma 2004, pp. 62 ss. 375

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Un referendum sull 'intervento straordinario nel Mezzogiorno, che era stato proposto nel 1 9 9 1 con finalità migliorative, viene trasformato dalla congiuntura poli­ tica in un voto sulla corruzione dei partiti e lo statalismo degenerato. Per questo le forze politiche della maggioranza decidono di non far tenere il referendum e con un decreto legge il governo fissa nell 'aprile 1 9 9 3 la cessazione dell' intervento straordi­ nario nel Mezzogiorno, delineando un nuovo sistema di agevolazioni esteso a tutte le aree depresse del territorio nazionale. Nella sostanza viene cancellata la questione meridionale, segnando una cesura epocale nella storia del paesé4• Ali 'origine di una decisione così importante ci sono molteplici ragioni - i fallimenti della politica per il Sud, una severa crisi valutaria, le difficoltà della finanza pubblica, i vincoli imposti dall' Europa, la diffusione della cultura neoliberista e di un forte antistatalismo - ma, come ben emerge dalla stampa, ha un ruolo decisivo la martellante propaganda della Lega Nord, che cavalca la sfiducia verso il Sud e la sua identificazione con le com­ ponenti meno virtuose dei partiti di governo6;. Il partito di Bossi continua ad avere posizioni molto ferme contro i trasferimenti di risorse al Sud anche dopo questo passaggio66 e la questione meridionale scompare 64. L'abolizione è sancita dal D.L. 22 ottobre I 992, n. 4I5, convertito nella legge I9 dicembre I992, n. 488; i diversi passaggi normativi a partire dal referendum sono ricostruiti in C. Trezzani, Dall'intervento straordinario nel mezzogiorno all'intervento ordinario nelle aree depresse, in "Bollettino di Informazioni Costituzionali e Parlamentari", I995· I-3. pp. 305-I7. Considerazioni al riguardo, in una prospettiva di ampio respiro, in Cafiero, Storia dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, cit., pp. I4I-6 6 ; P. Barucci, La condizione del Mezzogiorno - ieri, oggi e domani - fra vincoli e opportunita, in Id., La sempiterna questione meridionale, cit., pp. 75-I42; G. Galasso, Il Mezzogiorno. Da "questione" a "problema aperto", Laicata, Manduria (TA)-Roma-Bari 2005. 6 5. Fra i tanti articoli, se ne segnalano alcuni con passaggi esemplificativi sul tema: «L'ondata leghista stava già montando e la stessa maggioranza quadripartita era spaccata: deputati e senatori che dovevano vedersela con la concorrenza di Bossi e compagni non se la sono proprio sentita di dare una nuova arma nelle mani del nemico. [ . .. ] Ecco allora farsi strada l' ipotesi di ridisegnare tutta la fùosofia dell' intervento straordinario. Che non sarà più nel Mezzogiorno ma di carattere nazionale » (S. Cadi, Appuntamento dopo Mezzogiorno, in "la Repubblica", I2 giugno I992, p. 8). « Se il Parlamento non interviene prima con una modifica radicale dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, avremo una campagna elettorale per un referendum [ . .. ] che, al di là del suo risultato, sancirà e approfondirà questa spaccatura fra Nord e Sud: perché sarà la Lega a egemonizzare, nelle province settentrionali, una campagna razzistica contro i meridionali, e perché a "difendere gli interessi" (si fa per dire) del Mez­ zogiorno saranno le parti peggiori della DC e del PSI, che hanno costruito, con i soldi dell' intervento pubblico, un sistema di potere mostruoso e perverso» (G. Chiaromonte, A Sud della Lega, in "la Repubblica': 25 ottobre I992, p. IO ) . Significativo anche R. Stagno, Se il Sud rimane solo, in "Corriere della Sera': 8 luglio I993· p. I9, nel quale si parla dell' effetto Lega nel condizionare le politiche nazionali, con il concreto rischio di acuire il divario economico fra Nord e Sud. 6 6. Ad esempio, quando in vista delle elezioni del I994 i partiti vengono interrogati da una testata giornalistica sulle scelte di politica economica che vorrebbero attuare, il leghista Roberto Maroni indica l'abolizione del poco che è rimasto dell'intervento straordinario come uno dei punti essenziali (A. Calabrò, E. Occorsio, Destra e sinistra, un tuffo nei programmi, in "Affari & Finanza", IO dicembre I993· p. 2; è l' inserto economico del quotidiano "la Repubblicà'). Si tratta di posizioni ribadite molte volte, tanto che in alcuni casi si parla semplicemente di "note posizioni" della Lega rispetto alle leggi di spesa nel Mezzogiorno (ad es. A. Jacoviello, Il voto del Mezzogiorno, in "la Repubblica", 8 aprile I994· p. 12 ) .

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rapidamente dalle priorità dell'agenda politica, dove invece trova grande spazio la questione settentrionale, ispirata dalla prospettiva dell'autonomia territoriale67• Il cambio di priorità coincide con l'avvicendamento fra Prima e Seconda Repubblica e non è un caso che in entrambe le vicende la Lega abbia un ruolo da protagonista. Nella nuova stagione politica il dualismo territoriale viene visto soprattutto nell'ottica del Nord, puntando a ridurre i legami con il Sud. La rottura della solidarietà fra Nord e Sud e le pulsioni separatiste che accom­ pagnano il crollo del sistema politico sorto con la Repubblica favoriscono un ampio dibattito sull ' identità italiana e le difficoltà nella maturazione di un ' idea realmente unitaria del paese, con grande attenzione all'evento fondante della Resistenza68• La Lega raccoglie successi notevoli, come l'elezione di Marco Formentini a sindaco di Milano, ma in molti osservatori la sua crescita suscita inquietudine. Fra di essi Gio­ vanni Paolo n che, preoccupato dei ritardi dei partiti di fronte a chi vuole separare i destini di Nord e Sud, alla vigilia delle elezioni politiche del 1994 rivolge un appello a una grande preghiera per il popolo italiano. Un gesto forte, visto che per trovare qualcosa di simile occorre risalire a Pio IX nel 1848. Wojtyla denuncia le tendenze corporativiste e la crisi della solidarietà, auspicando una rinnovata solidarietà fra Nord e Sud69• La nuova legge elettorale, tuttavia, attribuisce ai voti leghisti una funzione cruciale, tanto che il partito di Bossi viene corteggiato nel tempo da entrambi gli schieramenti ( o da loro parti ) , anche da soggetti apparentemente molto distanti. La nascita di Forza Italia è il passaggio decisivo non solo per l'avvio della Seconda Repubblica, ma anche perché l'importanza politica della questione settentrionale si affermi fino ai nostri giorni. Il suo leader, legato al mondo imprenditoriale del Nord, si propone di rappresentare un'alternativa ai partiti preesistenti e di interpretare le istanze delle regioni più produttive, seppur con toni meno esasperati rispetto a quelli di Bossi. Le sorti dei due partiti risulteranno molto legate negli anni successivi perché Berlusconi sceglierà di puntare sull 'alleanza con il Carroccio malgrado il "tradi­ mento" dopo la vittoria elettorale del 1994, ma non sempre i rapporti saranno facili a causa della sovrapposizione dei rispettivi elettorati. Negli anni Novanta la Lega riesce a imporre nel dibattito politico diversi temi anche quando non riveste ruoli di governo, a partire dal federalismo : una proposta avanzata in chiave anticentralista sin dai primi anni di attività, che raccoglie un consenso crescente e trasversale. Da AN al PDS tanti esponenti politici la rilanciano - insieme ad altre proposte come la semplificazione fiscale, il potenziamento delle 67. G. Viesti, Abolire il Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari 2003. 6 8. Cfr., fra gli altri, G. E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione. Tra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea, il Mulino, Bologna 1993. 6 9. A. Scornajenghi, L'Italia di Giovanni Paolo II, San Paolo, Cinisello Balsamo (M I) 2012, pp. 9 1 ss.; G. Rumi, Questione meridionale e questione settentrionale nella riflessione dei vescovi italiani, in A. Acerbi, La Chiesa e l'Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, Vita e pensiero, Milano 2003, pp. 423-32. 3 77

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infrastrutture, il sostegno alle imprese - anche se spesso con modalità decisamente approssimative7°. Il tema però è sentito, basti pensare al Veneto dove si sovrappon­ gono in breve tempo le richieste di autonomia dei sindaci, la nascita dell'associazione LIFE - che unisce protesta fiscale e un forte richiamo alle origini venete -, il Movi­ mento del Nordest guidato da Massimo Cacciari e dall' imprenditore Massimo Car­ raro, fino all ' inquietante assalto al campanile di San Marco a Venezia71. Vicende assai diverse, che attestano fra l 'altro come la questione settentrionale non coincida pie­ namente con la Lega né con la rappresentazione che questo partito ne offre2.. In questi anni il Nord continua a registrare significative trasformazioni econo­ miche e sociali. Se negli anni Settanta e Ottanta si era realizzata in Italia una sorta di passaggio dalla centralità della grande industria al protagonismo delle piccole imprese, in seguito sono sempre più i singoli a farsi impresa, in un capitalismo ormai molecolare, nel quale « i confini tra lavoro dipendente, lavoro autonomo e piccole imprese sono spesso così sottili da non essere quasi decifrabili » 73. All' inizio del nuovo millennio la crisi della grande industria è ormai un dato di fatto74, ma la vocazione manifatturiera del Nord non tramonta. Si delinea un sistema produttivo fortemente orientato verso i mercati esteri, basato su alcune migliaia di medie aziende, collegate a moltissime piccole imprese attraverso distretti, reti e filiere75• Le grandi concentra­ zioni fordiste si disperdono nella Pianura Padana, sul cui territorio si susseguono piccole unità manifatturiere, capannoni artigianali e magazzini, oltre a insediamenti abitativi. Viene esaltata l 'importanza della laboriosità e dell' intraprendenza, finaliz­ zate non solo al guadagno e al consumo di beni, ma alla propria affermazione per­ sonale76. La maggioranza degli imprenditori del Nord-Est proviene ormai dal lavoro dipendente, soprattutto operaio : appena si presenta l'opportunità la gran parte di quanti svolgono un lavoro salariato tenta la via dell'attività autonoma77• Questa frammentazione del sistema produttivo - che nel tempo tende ad accen­ tuarsF8 - offre nuove opportunità, ma ha anche conseguenze problematiche. Favo­ risce, infatti, in un mercato sempre più integrato e concorrenziale, una competizione 70. Diamanti, Mappe dell'Italia politica, cit., pp. 74-7. 7 1. Jori, Dalla Liga alla Lega, cit. 72. Diamanti, Il male del Nord, cit. Cfr. anche Casati, Luigini contro contadini, cit. 73· Bonomi, Il capitalismo molecolare, cit., pp. 35-6. 74· L. Gallino, La scomparsa dell 'Italia industriale, Einaudi, Torino 2003. Nello stesso periodo il sistema bancario - in questa sede non considerato - tende a concentrarsi e collocarsi in misura pre­ valente nel Nord del paese, mentre scompaiono (o perdono autonomia direttiva) quasi tutti gli istituti di credito che erano insediati nelle zone centrali e meridionali. 7S· A. Colli, Il quarto capitalismo. Un profilo italiano, Marsilio, Venezia 2003; F. Coltorti, Un nuovo protagonista economico: la media impresa, in Berta (a cura di), La questione settentrionale, cit., pp. 379416. Con taglio più descrittivo, cfr. A. Calabrò, Orgoglio industriale. La scommessa italiana contro la crisi globale, Mondadori, Milano 2009. 76. Colarizi, Gervasoni, La tela di Penelope, cit., pp. 4-s. 77· D. Marini (a cura di), Osservatorio sugli imprenditori del Nord-Est, rilevazione 2ooo, in "Qua­ derni della Fondazione Nord Est", 2001, 2, reperibile sul sito http:/ /www.fondazionenordest.net. 78. A. Bonomi, E. Rullani, Il capitalismo personale. Vite a/ lavoro, Einaudi, Torino 2oos.

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fra pari grado molto dura. Il ceto medio tende ad articolarsi in segmenti di lavoratori spesso conflittuali fra loro, che partecipano dei processi di esternalizzazione delle imprese accettando mansioni iperflessibili e rapporti di sostanziale sfruttamento. Non è un caso che in questi anni la questione settentrionale venga descritta come una vicenda non solo economica, ma venata di significativi risvolti sociali, mentre nelle regioni settentrionali ( e non solo ) scompare una convinzione storica, ossia che una vita laboriosa e operosa garantisca un benessere certo79• I partiti del centro-sinistra non riescono a dare rappresentanza politica nel Nord alle nuove professioni, a cavallo fra il lavoro autonomo e quello precario. La contrap­ posizione fra capitale e lavoro si è ormai molto affievolita e c 'è un travaglio della sinistra nel definire la propria identità, che si accompagna alla difficoltà nel confron­ tarsi con gli umori profondi di molte aree settentrionali, oltre che a rilanciare il tema del Mezzogiorno80• Anche per questo Forza Italia e Lega Nord, dopo aver stretto una nuova alleanza all' inizio del nuovo secolo, dominano la politica nazionale fra il 2 0 0 1 e il 2 0 1 1 . Il partito di Berlusconi ha un ruolo trainante nei primi anni, mentre la Lega registra risultati elettorali di rilievo nella seconda parte del decennio. I due partiti che si propongono di rappresentare politicamente la questione settentrionale gover­ nano ( oltre alle regioni settentrionali ) il paese per ben otto anni, un tempo più che adeguato per dare risposte alle ormai consolidate domande del Nord: riforma fiscale, infrastrutture, efficienza amministrativa, sostegno alla competitività. Ma i risultati sono diversi da quelli che molti elettori si attendono. Paradigmatica è la vicenda del federalismo : viene portata avanti una laboriosa strategia per modificare e rendere più incisiva la riforma voluta nel 2 0 0 1 dal centro-sinistra, ma il provvedimento approvato nel 2 0 0 9 appare svuotato nei contenuti e ha tempi di attuazione lunghissimi, susci­ tando critiche anche da sostenitori convinti del federalismo8'. Secondo un recente sondaggio, in Italia il giudizio sulle riforme legate al federalismo è di forte delusione: solo il 6% degli intervistati ritiene che i risultati di tali riforme siano stati positivi. Non risultano fra l'altro differenze apprezzabili a livello territoriale, se non una elo­ quente maggiore insoddisfazione nel Nord-Est8l. 7 9· Bonomi, Il capitalismo molecolare, cit. So. M. L. Salvadori, La Sinistra nella storia italiana, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 219-30; P. Rumiz, La secessione leggera. Dove nasce la rabbia delprofondo Nord, Feltrinelli, Milano 2001, pp. s-4S· Sull'esperienza di governo del centro-sinistra fra 1996 e 2001, con un'attenzione specifica alle vicende meridionali, cfr. N. Rossi, Riformisti perforza. La sinistra italiana fra 1990 e 2001, il Mulino, Bologna 2001. Sulle prospettive attuali del Mezzogiorno, cfr. C. Trigilia, Non c 'e Nord senza Sud. Perché la crescita dell'Italia si decide nel Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2012. 8 1. Luca Ricolfi ha scritto pagine di fuoco sulla vicenda, definendola «probabilmente il più grande errore politico che la Lega abbia compiuto da quando esiste». Egli ritiene che il Carroccio, per la necessità di tutelare il proprio ceto politico, abbia rinunciato a un reale riformismo federalista utile a risanare il paese. Cfr. L. Ricolfi, Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale, Guerini e Associati, Milano 2012', p. IS, e in generale le pagine introduttive della seconda edizione. Sulla Lega dopo il 2001, cfr. anche Diamanti, Mappe dell'Italia politica, cit., pp. 77 -9. 82. Cfr. L. Ceccarini, I. Diamanti, Passata la festa scompare l'Italia, in " Limes': 2013, 2, pp. 18 7 -9 7. 379

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Si avverte inoltre la mancanza di interventi efficaci per il rilancio dell 'economia a livello nazionale e locale, dei quali s'inizia a sentire estremo bisogno sull'onda della crisi iniziata nel 20 07-o 88\ Nel Nord-Est, ad esempio, già da diverso tempo la com­ petizione viene affrontata con difficoltà, perché durante gli anni del successo la crescita era stata più quantitativa che qualitativa e in seguito sono scarseggiate l'in­ novazione, la ricerca e la costruzione di nuovi attori collettivi oltre alle reti già esi­ stenti84. Il mondo delle piccole imprese e delle partite IVA è messo sempre più in difficoltà dal prolungarsi della crisi economica e da una concorrenza internazionale sempre più dura, che rende sempre più arduo competere nelle catene globali del valore85 . E una stagione travagliata per tutte le economie sviluppate - che devono confrontarsi prima con le conseguenze dell'attentato alle Torri gemelle, poi con la crisi finanziaria e la recessione mondiale - ma i risultati di otto anni di governi di centro­ destra sono fallimentari. Nel 201 1 l "'Economist" evidenzia che nel corso dell'ultimo decennio la performance dell'economia italiana è stata fra le peggiori al mondo e, significativamente, sono proprio le regioni settentrionali più dinamiche a registrare i risultati peggiori86. Alla fine dello stesso anno l'acuirsi della sfiducia internazionale verso l' Italia costringe il governo Berlusconi a dimettersi e affidare le sorti del paese a un esecutivo tecnico87. Poco tempo più tardi scoppia un grave caso giudiziario e politico all' interno della Lega per l'utilizzo improprio dei finanziamenti al partito. Bossi è coinvolto insieme alla sua famiglia e deve lasciare la segreteria, in una vicenda che appare una nemesi per un partito affermatosi denunciando "Roma ladrona" e la corruzione della politica. I nodi sembrano venire al pettine simultaneamente. Le indagini della magistra­ tura fanno emergere gravi difficoltà dell'ente Regione - dalla Lombardia al Lazio dando prova dell' inadeguatezza di proclami federalisti non accompagnati da un progetto istituzionale adeguato e credibile88• La lunga esperienza di governo svela i limiti delle proposte avanzate per anni, efficaci in chiave polemica ma non nell'ap­ plicazione concreta. Gli episodi di malversazione e illegalità non appaiono slegati ..

83. D. Di Vico, Limiti e illusioni del primo nordismo firmo a Gemonio, in "Corriere della Sera", 6 aprile 20I2, pp. IO-I; G. Vaciago, La mancata crescita dell'economia italiana, in "il Mulino", 201 1, 4, pp. 590-8. 84. E. Rullani, Dove va il Nordest. Vita, morte e miracoli di un modello, Marsilio, Venezia 2006. 8s. A. Accettura, A. Giunta, S. Rossi, Le imprese italiane fra crisi e nuova globalizzazione, in "Questioni di Economia e Finanza (Occasionai Papers)", 2011, 8 6. Cfr. anche E. Rullani, Modernita sostenibile. Idee, filiere e servizi per uscire dalla crisi, Marsilio, Venezia 20I2, pp. 40-I. 86. The Man Who Screwed an Entire Country, in "The Economist", 9 rh June 2011; Casati, Luigini contro contadini, cit., pp. S I-2. 8 7. Uno sguardo d' insieme su Lega, Padania e questione settentrionale alla vigilia di questo pas­ saggio in L 'Italia dopo l'Italia, in "Limes", 201 1, 2; sugli ultimi anni di Berlusconi si segnala G. Orsina, Il berlusconismo nella storia d'Italia, Marsilio, Venezia 20I3, pp. I90 ss. 88. De Siervo, La difficile attuazione delle regioni, cit., p. 40I.

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dalla debolezza di una visione e di un progetto politico che non riesce a incidere, facendo emergere gli elementi problematici lasciati in secondo piano negli anni pre­ cedenti ma comunque esistenti, a partire da un retroterra culturale molto carente e dalle difficoltà nel reclutamento di una classe politica adeguata. Nelle elezioni poli­ tiche del febbraio 2013 si manifesta la delusione di milioni di elettori verso l'alleanza di centro-destra. La Lega registra il suo peggior risultato dal 1992 e, pur ottenendo la presidenza della Regione Lombardia, perde oltre metà dei voti raccolti nelle poli­ tiche del 2oo 8 e gran parte della sua carica antisistema. Celebrati i 150 anni dell' Unità d' Italia, c 'è da sperare che la questione settentrio­ nale trovi finalmente risposte efficaci in un progetto politico in grado di rilanciare l'intero paese, favorendo una rinnovata coesione nazionale.

Tra vincolo esterno e coesione nazionale. La p arabola del governo Ciamp i nelle riflessioni e nelle carte del p residente* di Umberto Gentiloni Si/veri

I

Il cammino incerto di una lunga transizione Nei primi anni Novanta del Novecento l' Italia entra nel vortice di una trasformazione senza precedenti, immersa in una fase di profondi cambiamenti degli assetti interni e internazionali. Tutto appare in movimento, difficile trovare una convincente gra­ duatoria di urgenze e priorità che si materializzano nel breve spazio di alcuni mesi. Crisi finanziaria, politica e istituzionale si sovrappongono ; interrogativi inevasi riguardano la tenuta del sistema-paese e le strategie di risposta delle classi dirigenti1• La stagione di Tangentopoli mette in discussione il rapporto tra eletti ed elettori e la credibilità di un' intera architettura politico-istituzionale; la stessa identità nazio­ nale è a rischio, sottoposta a critiche e verifiche continue2.. * Le riflessioni di questo contributo sono parte di una più ampia analisi sulla traiettoria di Carlo Azeglio Ciampi negli anni della transizione: U. GentUoni SUveri, Contro scettici e disfattisti. Gli anni di Ciampi, I992-2oo6, Laterza, Roma-Bari 20I3. I. Cfr. G. De Rosa, La transizione infinita. Diario politico Iggo-Igg6, Laterza, Roma-Bari I 997; P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (I945-I996), U Mulino, Bologna I997· pp. 459-539; N. Tranfaglia, La transizione italiana. Storia di un decennio, Garzanti, MUano 2003; P. Scoppola, Lezioni sul Novecento, a cura di U. GentUoni SUveri, Laterza, Roma-Bari 20IO, pp. 119-46; S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (IgSg2on), Laterza, Roma-Bari 2012; G. Crainz, Il paese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia di oggi, Donzelli, Roma 20I2; M. DamUano, Eutanasia di un potere. Storia politica d'Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica, Laterza, Roma-Bari 20I2; G. Mammarella, L 'Italia di oggi. Storia e cronaca di un ventennio: I992-20I2, U Mulino, Bologna 20I2. 2. Per una rassegna del dibattito storiografìco, cfr. U. Gentiloni SUveri, Identita italiana tra crisi e trasformazioni. Il dibattito sull'ultimo decennio, IgSg-IggS, in "Storia e Problemi Contemporanei", I998, 22, pp. I l l-33· Cfr. inoltre: G. E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione. Tra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea, U Mulino, Bologna I993; Id., Resistenza e postjascismo, U Mulino, Bologna I995; P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino I995; E. Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell'idea di nazionefra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari I996; S. Lanaro, Patria. Circumnavigazione di un 'idea controversa, MarsUio, Venezia I996; E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, MUano I 997; G. E. Rusconi, Patria e repubblica, U Mulino, Bologna I997; R. Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell'I­ talia repubblicana, Einaudi, Torino I998.

UMB ERTO GENT I L ONI S I LVERI

Un contesto difficile, condizionante, per molti versi inedito e imprevedibile. Il tempo aiuta a definire contorni e problematiche, ma il passaggio tra la fine degli anni Ottanta del Novecento e il decennio successivo consegna lasciti ed eredità che si spingono molto al di là degli anni e degli eventi considerati. Una lunga ombra che condiziona il cammino della Repubblica e le sorti di quella che ben presto verrà definita con il termine accattivante ma forse anche un po' fuorviante di "transizione"; un cammino dagli approdi incerti, una ricerca di risposte e soluzioni che ancora oggi, dopo alcuni decenni, non trova conferme rassicuranti, pur cominciando a interessare studiosi di diverse discipline. Più ci si allontana da quel tornante e meglio si vede la natura di cesura periodizzante che accompagna la stagione immediatamente successiva al 1989. Sono almeno due gli aspetti che meritano attenzione e motivano la tensione interpretativa emersa negli ultimi anni. In primo luogo la coincidenza e la sovrapponibilità tra il quadro interno della Repubblica italiana e il contesto internazionale della Guerra fredda: il crollo del primo trova conferme e spiegazioni in una più ampia ride6.nizione di equilibri e rap­ porti di forza3• Troppo spesso la scorciatoia di spiegazioni semplicistiche o monocausali ha portato fuori strada, verso ipotesi interpretative segnate dall'urgenza del momento o da un uso strwnentale e distorto del passato. In secondo luogo si evidenzia la debole valenza di una ricostruzione basata sulle presunte successioni di Repubbliche non meglio definite o definibili. Che cosa distinguerebbe la Prima dalla Seconda e soprat­ tutto quando e perché sarebbe possibile narrare e interpretare una fase nuova, in base a quali assunti e riferimenti ? Interrogativi che ci hanno accompagnato nel corso degli ultimi anni e che rimandano direttamente a un complesso di eventi e questioni che tengono insieme il crollo del Muro di Berlino, l'avvio delle inchieste di Mani pulite, l'instabilità internazionale e le spinte separatiste che si affacciano nel Nord Italia. Anche lo studio degli anni della cosiddetta "transizione" conferma dunque la necessità di incrociare piano interno e quadro internazionale per riuscire a compren­ dere gli snodi alla base dell'evoluzione del sistema politico italiano. Non a caso la storiografia più attenta ha avviato da tempo un percorso di riflessione sulla storia del Novecento - in particolare del lungo dopoguerra - che prende le mosse dal tentativo 3· Cfr. C. S. Maier, Secolo corto o epoca lunga? L'unita storica dell'eta industriale e le trasformazioni della territorialita, in C. Pavone (a cura di), Novecento. I tempi della storia, Donzelli, Roma 1997, pp. 29-s 6; G. Formigoni, La politica internazionale nel Novecento, il Mulino, Bologna 2007; T. Judt, Dopoguerra. Come e cambiata l'Europa dal 1945 a oggi, Mondadori, Milano 2007; F. Romero, Storia della guerra fredda. L'ultimo conflitto per l'Europa, Einaudi, Torino 2009. Sul rapporto tra mutamenti internazionali ed evoluzione del quadro interno italiano, cfr. Italy and the Cold 1/Vtzr, numero mano­ grafico di "Cold War Studies", 4, 2002, 3; A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, I. Tra guerra fredda e distensione, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2003; F. Romero, A. Varsori (a cura di), Nazione, interdipendenza, integrazione. Le relazioni interna­ zionali dell'Italia (1917-1989), Carocci, Roma 2006; U. Gentiloni Silveri, Sistema politico e contesto internazionale nell'Italia repubblicana, Carocci, Roma 2008; Italie: la présence du passé, numero mano­ grafico di "Vingtième Siècle. Revue d'Histoire", octobre-décembre 200 8, 100.

TRA VINCOLO ESTERNO E C O ESI ONE NAZI ONALE

di superare le narrazioni nazionali, rimettendo in discussione i confini tradizionali delle discipline di riferimento. La storia internazionale diviene un vasto campo di indagine nel quale gli strumenti e i linguaggi mutano progressivamente: la dimen­ sione globale come cornice di riferimento e quadro analitico dei processi storici. Ed è così che il nesso tra le storie nazionali e il contesto internazionale diventa un livello sensibile, uno > , ivi, 5 febbraio 1995.

SIO

UN R I F O R M I S M O I N C O M P I UT O : I L P R I M O G O VERNO P R O D I

un partito riformatore che si muoveva nell 'alveo del socialismo - si era rivelata un'operazione politica coraggiosa, ma non priva di alcune ambiguità di fondo6• La fin troppo evidente eredità storica del comunismo, seppure nella particolare matrice gramsciana-togliattiana, che caratterizzava l' intera classe dirigente del PDS e la sua cultura politica, esponeva il maggiore partito della sinistra a una continua delegitti­ mazione politica da parte di chi, come Berlusconi, agitava continuamente il vessillo dell'anticomunismo, che in quel particolare contesto storico si veniva a caratterizzare anche con una vigorosa critica contro uno statalismo oppressivo e inefficiente?. Infine, quel breve profilo biografico apparso sul "Corriere della Sera", in cui veniva ricordato il passato di Prodi alla presidenza dell 'IRI e il suo essere « espressione della miglior sinistra DC » , rinviava a un elemento politicamente molto importante: a quell'antico e intenso rapporto tra l'eterogeneo arcipelago del cattolicesimo progres­ sista - numericamente minoritario ma politicamente e culturalmente rilevantis­ simo - e la sinistra di derivazione marxista. Un rapporto che aveva radici profonde, ben impiantate nella storia d' Italia, e che aveva trovato una nuova declinazione a metà degli anni Settanta, quando, sulla scia dell 'esperienza dei "cattolici del no" del referendum sul divorzio si erano affermate alcune esperienze politico-culturali - come, ad esempio, la Lega democratica o il fenomeno, più articolato, degli Indi­ pendenti di sinistra - che si proponevano di rinnovare la DC e di dialogare con quei democratici di ispirazione laica interessati alla costruzione di « una sinistra non ideologica » 8• In quella stagione si affermarono, infatti, due legami estremamente importanti: da un lato, iniziarono a stabilirsi dei luoghi di mediazione culturale tra la grande industria privata, alcune importanti case editrici e le forze politico-sindacali della sinistra9; dall'altro, nei giornali e nelle riviste, nelle università e nel Parlamento, finanche nelle grandi aziende di Stato, come l ' ENI e l'IRI, si creò un'azione di Sul mutamento dell' identità politica nel passaggio dal PCI al PDS e sull 'eredità storica della tradizione comunista mi permetto di rimandare ad A. Possieri, Il peso della storia. Memoria, identita, rimozione dal PCI al PDS {1970-1991), il Mulino, Bologna 20 07. Cfr. P. Bellucci, M. Maraffì, P. Segatti (a cura di), PCI, PDS, ns. La trasformazione dell'identita politica della sinistra di governo, Donzelli, Roma 2000; P. lgnazi, Dal PCI al PDS, il Mul ino, Bologna I 992. 7· G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, Feltrinelli, Milano 2009, pp. I7 I-2IO; S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica {19S9-2011), Laterza, Roma-Bari 20I2, pp. 5 4- 6 . 8. D. Saresella, Cattolici a sinistra, Laterza, Roma-Bari 2 0 1 1 , pp. I 5 9- 6 3. Cfr. G. Scirè, Gli indipen­ denti di sinistra, Ediesse, Roma 20I2. 9· Merita di essere ricordato il seminario di studio sul "Sistema industriale e sviluppo economico in Italia", organizzato, nell'aprile del I 97 3 , a Bologna, dall'Associazione di cultura e politica il Mulino, la cui relazione introduttiva è affidata proprio a Prodi. li convegno venne sintetizzato da Eugenio Scalfari sull' "Espresso" come il convegno che aveva stabilito «per la prima volta una pubblica "comu­ nicazione" tra la grande industria privata, cioè, per dirla chiaramente, la FIAT, e le forze politiche e sindacali della sinistra » (R. F. Levi, Il professore. Romano Prodi dall'IRI all'Ulivo, Mondadori, Milano I 9 9 6 , pp. 2 I -3 ) . 6.

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scambio e di solidarietà tra « una parte della DC non dorotea » , rappresentata sostan­ zialmente dalla « sinistra di base » , e il PCI di Enrico Berlinguer10• Ed è proprio nell 'IRI, la più grande holding dello Stato, che Prodi, dopo aver fatto una breve ma significativa esperienza come ministro dell' Industria del IV governo Andreotti nel 1978, diventa, nel novembre del 1982, uno dei più importanti e influenti manager pubblici, all'interno del vasto mondo dei "boiardi di Stato". Al di là di ogni valutazione sull 'operato di Prodi alla guida dell'IRI11, quello che è importante sottolineare, in questa sede, è la declinazione politico-culturale che assunse questo incarico e l'inevitabile eredità politica che lasciò al decennio succes­ sivo. Se da un lato, infatti, quella presidenza si collocava all' interno di un sistema politico caratterizzato dal dualismo tra Craxi e De Mitall, dall'altro lato quell'incarico simboleggiava un incontro, in chiave antisocialista e visceralmente anticraxiano, fra la sinistra democristiana e il PCI. Quell'incontro, che si sarebbe sviluppato, progres­ sivamente, lungo tutti gli anni Ottanta13, avrebbe poi trovato, alla fine del decennio, una nuova sintesi politica, in cui l'opposizione al patto tra Craxi, Andreotti e Forlani si sarebbe combinata con l'ottica «di guardare oltre la DC in una prospettiva » che potesse riuscire a coniugare « il fatto religioso con la cultura marxista » 14• Quella stagione fu caratterizzata, inoltre, dall 'illusoria ricerca di una imprecisata terza via e dall'emergere dirompente della "questione morale", come elemento deci­ sivo della dimensione politico-identitaria dei comunisti italiani. Almeno dal 1 9 8 1, da quando Berlinguer in un' intervista a Eugenio Scalfari aveva individuato nella que-

IO. G. Acquaviva, L 'antisocialismo della sinistra cattolica nel rapporto con i comunisti, in G. Acquaviva, M. Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia 2011, pp. 267-96. I I. È sufficiente confrontare la versione assolutoria dell 'ex portavoce di Pro di, Levi, Il professore, cit., con quella, invece, accusatoria di G. Da Rold, Assalto alla diligenza. Il bottino delle privatizzazioni all 'italiana, Guerini e Associati, Milano 20I2. I2. G. Quagliariello, Gli anni Ottanta: gli aspetti politico-istituzionali. Un 'interpretazione, in S. Colarizi, P. Craveri, S. Pons, G. Quagliariello (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, pp. 267-80. Cfr. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 20IO. 13. Cito a titolo di esempio solo alcuni articoli: Prodi all'IRI: «Chi sbaglia paga» (ma sarti vero?), in "l' Unità", 4 novembre I982; A. Mereu, Gli attacchi a Prodi, si riaccende la rissa tra centri di potere?, ivi, 28 novembre I 984; P. Cascella, Per Martelli, Prodi e addirittura «disgustOSO>>, ivi, 25 febbraio I987; E. Gardumi, L'IRI punta l'uRSS, ivi, 22 aprile I988; G. Campesato, ENI e IRI presidenti agli sgoccioli, ivi, 26 ottobre I 989. All' indomani dell 'avvicendamento ai vertici dell'IRI del professore bolognese con Franco Nobili, "Cuore", il settimanale satirico del quotidiano del P C I, compose, in chiave ironica, il « saluto cattocomunista a Prodi che lascia l' IRI » : M. Serra, Ode a Romano Prodi, in "Cuore", 3 0 ottobre I989. I4. In modo del tutto speculare, nello stesso periodo, si sviluppò l ' incontro fra i cattolici di Comunione e liberazione e il PSI: P. Visconti, CL va all'attacco di De Mita: «Non rappresenta i catto­ lici», in "la Repubblica", 2I agosto I988. Cfr. anche Saresella, Cattolici a sinistra, cit., p. I 64; E. Galavotti, Il ruinismo. Vzsione e prassi politica del presidente della Conferenza Episcopale Italiana, 1991-2007, in Cristiani d'Italia. Chiese, societa, Stato, 1861-2011, diretto da A. Melloni, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 201 1, pp. I2I9-38. 5 12

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stione morale il problema centrale della politica italiana, il P C I si era progressivamente arroccato dietro la bandiera della diversita comunista, quasi fosse una sorta di alterità antropologica rispetto al sistema dei partiti, ed era giunto ad abbracciare, alla fine del decennio, fideisticamente e acriticamente, il mito gorbaceviano del socialismo dal volto umano. Questa trasformazione radicale della cultura politica comunista, in cui «la pro­ pria visione etica e universalistica » si alimentava di quella critica generale alla dege­ nerazione partitocratica che era solita contrapporre la società civile « sana » a una società politica « malata » 1\ finì paradossalmente per dare un contributo decisivo alla costruzione di una nuova ideologia politica, che chiedeva reiteratamente di andare « oltre la forma dei partiti » e che avrebbe trovato il suo apice nei primi anni Novanta con lo scoppio deflagrante delle inchieste giudiziarie di Tangentopoli e, soprattutto, con l'affermazione della stagione referendaria16• In quella stagione decisiva, tra il 1 9 9 1 e il 1 9 9 3 , si delineò, infatti, un inedito impasto ideologico-culturale dai confini incerti e politicamente trasversali al sistema dei partiti, declinato attraverso due diversi schemi interpretativi che, rapidamente, si trasformarono in due paradigmi di azione politica. Da un lato si collocava il para­ digma della « rivoluzione della legalità » 17, che trovava un punto di approdo, politico e culturale, in una sorta di «politica moraleggiante » , secondo la definizione di Pizzorno, e in una fiducia acritica nei confronti della magistratura inquirente a cui veniva assegnato, implicitamente, un compito di « riforma dall'alto dell' Italia e degli italiani » 18• Dall'altro lato, invece, si collocava il paradigma della superiorità morale della società civile rispetto alla degenerazione dei partiti di massa. Secondo questo modello interpretativo, il sistema dei partiti veniva rappresentato alla stregua di un «covo di clientelismo, di inefficienza e, soprattutto, di politicantismo corrotto » , che colonizzava le istituzioni e soffocava la società civile19• L'unico rimedio per sbloccare questo sistema politico ritenuto ormai putrescente e improduttivo consisteva, per l'appunto, nel « restituire lo scettro al principe » , vale a dire consentire « ai cittadini, elettori e utenti, di esercitare con maggiore incisività i loro poteri democratici » 2.0• In questo singolare tornante storico, e lungo il solco tracciato dal movimento referendario, si possono individuare le premesse politico-culturali di quello che sarà l'ulivismo - ovvero una delle componenti più importanti del centro-sinistra degli S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 200 6 , p. 25 8. A. Guiso, Dalla politica alla societa civile. L'ultimo PCI nella crisi della sua cultura politica, in Acquaviva, Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, cit., pp. I 8 I-22I. I7. L'espressione è contenuta nell'editoriale di "MicroMega", 4, settembre-ottobre I994· pp. 4- 6 . I 8 . C. Guarnieri, Giustizia e politica, il Mulino, Bologna 2003, pp. I S 6 e I 8 9. Cfr. P. Flores d'Arcais, La rivoluzione liberale di Mani Pulite, in "MicroMega", 2 0 0 2, I, pp. 9-Io. I 9. Cfr. E. Galli della Loggia, Il mito e la realta della societa civile, in "Corriere della Sera': I 4 agosto IS. I 6.

200 6 . 20.

G. Pasquino, Restituire lo scettro al principe, Laterza, Roma-Bari

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anni Novanta - e, soprattutto, di quello che rappresenterà l 'inizio dell'impegno politico di Prodi. Tale impegno lo portò a essere uno dei relatori della convention nazionale del movimento dei Popolari per la riforma di Mario Segni che si svolse a Roma il 10 ottobre 199 2l1• Un appuntamento fondamentale, quello a fianco del leader referendario, perché sancì un mutamento significativo della figura pubblica del pro­ fessore bolognese. Da quel momento, Prodi non fu più soltanto un "tecnico demi­ tiano" o un "boiardo di Stato", ma diventò, in quella fase di disgregazione del sistema politico-economico nazionale, una risorsa per la politica, una sorta di "riserva" della Repubblica. Ed è proprio in questa particolare veste che il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nella primavera del 1993, gli propose di assumere la presidenza del Consiglio, al posto del dimissionario Giuliano Amato, e di riproporre al governo il binomio Prodi-Segni che si era affermato sulla scena pubblica nell'autunno del 1992. L'impossibilità di riprodurre, in un esecutivo semi tecnico, la formula politica dei Popolari per la riforma - a causa dell'opposizione del segretario del PPI, Mino Martinazzoli, sul nome di Segni - riportò Prodi, questa volta su indicazione di Ciampi, per la seconda volta alla presidenza dell'IRin. Una presidenza brevissima, che durò circa un anno, ma che si rivelò estremamente importante. Il ritratto caustico di Pro di che viene fornito sulla "Stampa" all' indomani del suo reinsediamento alla presidenza dell ' IRI - « il potente cattorivoluzionario dal volto umano, il prodotto del lessico antiaccademico e antipolitico, che come il Conte di Montecristo, torna spietato dopo la cacciata » l3 - testimonia l'ulteriore mutamento pubblico della sua figura. Prodi non è più, soltanto, un grand commis dello Stato, ma è, ormai, un attore del dibattito politico. E non a caso, tra l'autunno del 1993 e la primavera del 1994, il professore bolognese fu uno dei protagonisti dell'accesa discus­ sione pubblica sulla necessità delle privatizzazioni in Italia che caratterizzò i più importanti quotidiani nazionali. Una discussione che gravitò, essenzialmente, attorno a due proposte alternative : da un lato, i fautori, come Prodi, dello sviluppo delle public companies, ovvero la diffusione della proprietà tra una vasta schiera di azionisti; dall'altro lato, invece, coloro che, come il presidente onorario di Mediobanca Enrico Cuccia, sostenevano la necessità di avere un nocciolo duro d'imprenditori alla guida di un'impresa in cui concentrare la proprietà azionaria e il controllo dell 'azienda. Emblematico, all 'interno di questo dibattito pubblico, fu lo scontro tra Prodi e il ministro dell ' Industria Paolo Savona, che portò alle dimissioni, poi rientrate, di 21. S. Messina, Scocca l'ora di Segni nella fista del PalaEur, in "la Repubblica", 10 ottobre 1992; G. Valentini, «Né con Bossi né con i partiti>>, ivi, I I ottobre 1 992; S. Folli, Non ci firmeremo non ci firmeranno, in "Corriere della Sera", I I ottobre 1992; S. Folli, Martinazzoli punta sui professori, ivi, 1 4 ottobre 1992. 22. G. Valentini, ':Attenta DC, senza Mariotto vai al suicidio", intervista a Pietro Scoppola, in "la Repubblica", 16 febbraio 1993. 23. A. Statera, Romano-due, la vendetta e questa volta niente veti, in "La Stampa", 16 maggio 1993· 51 4

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quest'ultimo il 10 ottobre 1993, e che si protrasse, sulle pagine dei maggiori quoti­ diani, per tutta la primavera del 199414• Quell'aspro confronto pubblico rappresentò il naturale preambolo a un impegno politico diretto del professore bolognese, che maturò, nel volgere di poco tempo, già nell 'estate del 199415• In particolar modo, quando, dopo aver dichiarato in un'intervista il suo «impegno in politica » come « un dovere » 16, pubblicò su "MicroMegà' un breve contributo, Governare per cambiare, che, di fatto, fu la prima declinazione del programma politico di Prodi: dallo « Stato leggero » al «Welfare state compatibile » , dalla centralità della scuola al ruolo dell'Europa17• Questo contributo apparso su "MicroMega'' - una rivista che aveva fatto del primato della società civile e della rivoluzione della legalità la sua linea editoriale - è estremamente importante perché mette in luce come il progetto prodiano, sin dalle sue prime formulazioni, non solo aveva forti punti di contatto al di fuori del mondo cattolico tradizionale, ma si proponeva di dialogare con quella sinistra radical-libertaria e laico-socialista ben presente in alcuni circoli intellettuali, ma che era, in gran parte, esterna al sistema dei partiti. Sin dall'inizio, dunque, il rapporto tra movi­ mento e partito, tra società civile e società politica, ha rappresentato uno snodo cruciale di tutta la storia del centro-sinistra della Seconda Repubblica. E non casualmente, sin dal primo annuncio, nel febbraio 1995, della nascita di un nuovo movimento politico a supporto della candidatura di Prodi, I comitati per l' Italia che vogliamo, si pose la questione, non secondaria, della definizione politico­ identitaria - e non solo organizzativa - del progetto prodiano, la cui sintesi simbolica venne affidata a un ulivo : una pianta forte e longeva da mettere accanto alla quercia per poter parlare alla gente, ai cittadini e non solo ai partiti. Nella proposta iniziale, l' Ulivo aveva l'obiettivo di «definire un nuovo equilibrio politico generale » e veniva presentato come il simbolo designato per aggregare una nuova area di centro, ben più ampia del bacino elettorale del P P I , destinata ad allearsi con le forze democratiche dello schieramento progressista che ambivano ad avere un ruolo di governo18• 24. R. Ippolito, Savona attacca Prodi, Ciampi lo difènde, in "La Stampa", IO ottobre I 9 9 3 ; A. Sta­ tera, ((Prodi si e impadronito di una politica che non c 'e", intervista a Paolo Savona, ivi, 1 1 ottobre I 9 93; Id., La sinistra D C comanda ancora, intervista a Giorgio La Malfa, ivi, 7 ottobre 1 9 9 3 ; A. Mellone, Chi comandera in Italia? Qui e lo scontro, intervista ad Alfredo Reichlin, in "l' Unità': I 2 ottobre I 9 93; G. Turani, Il sogno di Cuccia si chiama COMIT. , in "la Repubblica", I3 ottobre I 9 9 3 ; A. Calabrò, Cuccia, l'estate di un patriarca, ivi, 22 aprile I 994; R. Prodi, Perché dico alt a Mediobanca, in "La Stampa", 23 aprile I 994; P. Savona, I boiardi che fanno politica, ivi, 23 aprile I 9 94· 25. G. Campesato, Un professore sempre in trincea, in "l ' Unità': I 0 giugno I 9 94; Id., Prodi dice no a Berlusconi, ivi, I 0 giugno I 994; W. Dondi, Prodi: ora torno a insegnare, ivi, 2 giugno I994· 26. Prodi «pronto a lavorare per il centro», in "Corriere della Sera", I2 agosto I 9 94; R. Silipo, Prodi: il Paese funziona ma l'errore e nel manico, in "La Stampa", I2 agosto I 9 94; C. Visani, Prodi critica Berlusconi e annuncia «Torno in politica>> , in "l' Unità", I2 agosto I 9 94; M. Smargiassi, La poli­ tica? Impegnarsi e un dovere, in "la Repubblica", I2 agosto I 994· 27. R. Prodi, Governare per cambiare, in "MicroMega", settembre-ottobre I 9 94, 4, pp. 7-22. 28. W. Dondi, Prodi: riscopriamo l'Italia vincente, in "l ' Unità", 4 febbraio I 9 9 S ; Id., Prodi vara «l'alternativa tranquilla», ivi, s febbraio I 9 9 S ; Id., Prodi sceglie il simbolo: l'Ulivo, ivi, I 4 febbraio I 9 9S; ..

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Tuttavia, anche se presentato, inizialmente, come il secondo albero della coali­ zione, questo progetto perse consistenza nell 'arco di pochi mesi perché né il P P I , né tanto meno il P D S , rinunciarono alle loro prerogative partitiche per sciogliersi dentro una nuova entità dai contorni, peraltro, ancora incerti. Dopo le elezioni amministra­ tive della primavera del 1995, venne definito il carattere della coalizione: l' Ulivo sarebbe stato il contenitore politico-elettorale di una coalizione costituita da dodici soggetti distinti, all'interno della quale ogni soggetto politico poteva mantenere la propria identità, la propria struttura e la propria storia. La costituzione dell' Ulivo sancì, dunque, la nascita di una coalizione politica che presentava forti elementi di novità nella sua proiezione pubblica, ma che aveva anche evidenti fattori di continuità con il passato. Indubbiamente, la proposta politica messa in campo dal professore bolognese portava a compimento, come è stato scritto, « l'antico progetto » del «cattolicesimo progressista » , ovvero quello «di collocarsi politicamente a sinistra » , condividendo con le « forze politiche progressiste » alcuni progetti di profonde riforme sociali per il paese9• Tuttavia, il progetto prodiano, in modo del tutto identico e speculare a quello di Silvio Berlusconi, rappresentava anche qualcosa di politicamente più rilevante ai fini del sistema dei partiti. Rappresentava, infatti, l 'anello di congiunzione e l'elemento di coagulo di una composita area poli­ tica - con forti collegamenti in alcuni settori del mondo economico-finanziario e in quello culturale-editoriale - presente da tempo sulla scena politico-pubblica nazio­ nale ma che, fino ad allora, era rimasta sostanzialmente trasversale al sistema dei partiti30• Un 'area politico-culturale che teneva assieme il variegato arcipelago del cattolicesimo democratico con il "mondo rosso" della sinistra postcomunista e alcuni ambienti laico-riformisti di matrice azionista. Pertanto, il prodismo, o meglio, il cosiddetto "ulivismo puro" senza mediazione partitica, sebbene rappresentasse una visione politica del tutto estranea alle classi dirigenti dei partiti della coalizione di centro-sinistra, in particolare del P P I e del P D S , svolse una funzione di collante che, tra il 1995 e il 1996, permise di fondere in un unico schieramento tutto ciò che si opponeva al centro-destra berlusconiano. La costituzione dell ' Ulivo, come contenitore politico-elettorale della coalizione di centro-sinistra, non cancellò, tuttavia, una delle questioni più importanti al centro del dibattito interno al P D S : la questione dell'identità politica. Se la candidatura di Prodi era vista come «lo sviluppo quasi naturale di un dialogo antico tra la sinistra e una parte del mondo cattolico » , quella scelta assumeva, però, anche un preciso significato politico : significava « rompere con la stagione del postcomunismo » per

B. Miserendino, Prodi: '1n politica per unire il centro", ivi, 15 febbraio 1995; V. Monti, E Berlusconi prepara un contratto con gli italiani, in "Corriere della Sera", 14 febbraio 1995. 29. Saresella, Cattolici a sinistra, cit., p. 183. 30. Cfr. B. Del Colle, Una semplice domanda alla sinistra democristiana, in "Famiglia Cristiana", 7 febbraio 1990; Il governissimo, in "li Sabato", 10 febbraio 1990. sr6

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chiudere definitivamente l'epoca in cui il P D S era stato «percepito solo come il superamento dell'esperienza storica del PCI e non anche dotato di una sua identità marcata e riconoscibile » 31• Un traguardo, quest'ultimo, tutt'altro che scontato. Sia per il retaggio fortissimo della tradizione, dell 'apparato di partito e delle subculture territoriali, sia perché all 'interno del partito convivevano due opzioni diverse per uscire dalla transizione postcomunista: quella prospettata da D 'Alema, convinto che il P D S dovesse orientare il proprio baricentro politico nell'orizzonte della social­ democrazia europea; e quella elaborata da Veltroni, che ipotizzava invece un nuovo soggetto politico sul modello del partito democratico americano, in cui combinare, non senza qualche arditezza, kennedismo e berlinguerismo3l. A questa dinamica interna al PDS si aggiungevano poi, all 'esterno del partito, due altre diverse declinazioni politico-sociali riconducibili al mondo della sinistra, quella sindacale e quella di Rifondazione comunista, che avrebbero svolto un ruolo diverso, ma non secondario, durante l'esecutivo Prodi. Entrambe queste due sinistre nasce­ vano, non tanto e non solo, a seguito della fine del P C I e dello storico duello a sinistra con il P S I dopo la stagione di Tangentopoli, ma trovavano la loro, opposta, ragion d'essere con l 'affermazione della politica della concertazione nei primi anni Novanta. Se con gli accordi del 1993, infatti, i sindacati avevano assunto, a volte, un ruolo di supplenza rispetto ai partiti di massa - potendo vantare, anche grazie alle loro strutture presenti su tutto il territorio nazionale, un potere di interdizione soprattutto per ciò che concerneva il pubblico impiego e i pensionati -, dal versante opposto, in polemica diretta con la politica concertativa dei sindacati confederali, dalla costola ingraiana della corrente d'opposizione della C G I L , Essere sindacato, aveva preso forma un'altra sinistra, antagonista e movimentista, che nel gennaio 1994 aveva visto il suo leader, l'ex lombardiano Fausto Bertinotti, assumere la leadership di Rifondazione comunista33• Una leadership che, nel volgere di poco tempo, tra­ sformò radicalmente l'identità politica del partito cossuttiano, mettendo ai margini l'eredità filosovietica impersonata dal vecchio leader milanese, a vantaggio di una prospettiva ingraiano-movimentista, arricchita con alcuni tratti simbolici zapatisti­ guevariani, che combinava un agire politico simil-sindacale con una radicale critica delle politiche rigoriste di Maastricht. Nonostante queste enormi differenze, la coalizione dell' Ulivo, nel febbraio 1996, riuscì a massimizzare le risorse offerte dalla tecnicalità politica stipulando un patto 3I. M. D'Alema, Un paese normale. La sinistra e il futuro dell'Italia, Mondadori, Milano I995, P· I32. 32. W. Veltroni, La bella politica. Un 'intervista di Stefano Del Re, Rizzoli, Milano I995, p. I20. 33· Sul ruolo del sindacato e sulle sue dinamiche interne, cfr. M. Carrieri, Sindacato in bilico, Donzelli, Roma 2003; G. Cremaschi, Riflusso e possibile ripresa, in "La Rivista del Manifesto", 2000, 3· Su Rifondazione comunista rimando a L. Caponi, Rifòndazione comunista. La scommessa perduta, Editori Riuniti, Roma 2003; S. Bertolino, Rifòndazione comunista. Storia e organizzazione, il Mulino, Bologna 2004. SI7

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di desistenza con Rifondazione comunista: un'alleanza solo elettorale che non pre­ vedeva alcun tipo di accordo politico per un futuro governo. Sin dal momento della sua formazione, dunque, la coalizione di centro-sinistra fu una sorta di carte/ party, caratterizzata da un elevato tasso di eterogeneità politico-culturale riscontrabile non solo nell'alleanza esterna con una forza dichiaratamente antagonista, ma anche nel suo equilibrio interno. Infatti, se la tensione verso l' Europa come orizzonte strategico e l'attenzione verso il modello renano accomunava sia Prodi che i leader dei maggiori soci fondatori dell ' Ulivo, ciò che li differenziava totalmente era il ruolo da attribuire ai partiti di massa. « Non si può pensare che la risposta » alla crisi del sistema poli­ tico, affermò D 'Alema nel maggio 1 9 9 5 , « sia l'eliminazione della politica e dei partiti e la mitizzazione della società civile. La società civile che si sostituisce alla politica è una delle peggiori catastrofi che possano investire un paese avanzato e moderno » 34• Il processo di fratture e ricomposizioni che dunque caratterizzò la coalizione di centro-sinistra, e che finì per influenzare profondamente la vita dell'esecutivo, oscillò, sostanzialmente, attorno a due pivot: da un lato, il cosiddetto "dualismo tra ulivismo e partitismo" e, dall'altro, il conflitto tra riformismo e antagonismo. Il dualismo tra ulivismo e partitismo contrapponeva coloro che, provenendo dalla società civile, si proponevano di costruire una sorta di "partito di cittadini" svincolato dalle vecchie strutture di partito e dalle storie politiche di provenienza, fondendole in una nuova esperienza politica ispirata, grosso modo, al modello del partito democratico ameri­ cano ; e quanti, invece, provenendo direttamente da quelle storie politiche e da quegli apparati ancora presenti nella società italiana - un retaggio particolarmente evidente per il P D S che aveva ereditato l'antico radicamento sociale e le strutture organizzative del P C I -, si proponevano di rimodulare le identità dei partiti considerando la coa­ lizione di centro-sinistra soltanto una sorta di contenitore politico, ovvero un cartello elettorale di "soggetti distinti". Dall'altro lato, c 'era la contrapposizione tra rifor­ mismo e antagonismo, ovvero tra: coloro che condividevano un programma di governo incentrato, sostanzialmente, su una serie di riforme strutturali dello Stato e del sistema economico e proiettato verso il raggiungimento dei parametri di Maa­ stricht per entrare a far parte, da subito, del primo gruppo di paesi europei aderenti all' Unione monetaria; e quanti, invece, uniti soltanto da un vincolo elettorale per "battere le destre", agivano come una sorta di blackmail party e trovavano i loro riferimenti politico-culturali nell 'antagonismo al cosiddetto «pensiero unico neoli­ berale » e in una fiducia acritica verso un movimentismo radicale anticapitalista e neopacifista35• Queste due antinomie, seppure rimodulate in modi diversi, avrebbero attraversato 34· M. D'Alema, La sinistra nell'Italia che cambia, Feltrinelli, Milano 199 7, p. 82. 3S· L. Cafagna, La grande slavina. L'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia 1993, P· 47· SI8

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tutta la storia politica della Seconda Repubblica e, nell ' immediato, produssero un effetto importantissimo : la debolezza strutturale della leadership dell' Ulivo. Quella di Prodi fu una leadership debole, non solo per l'assenza, alle sue spalle, di una struttura organizzativa che potesse agire come forza di interposizione tra i partiti nei momenti di più accesa conflittualità, ma soprattutto perché nessuno dei principali leader del centro-sinistra comprese, fino in fondo, l'eccezionale mutamento storico­ politico che stava segnando il passaggio dalla democrazia dei partiti alla cosiddetta "democrazia del pubblico". Una democrazia del pubblico - incarnata efficacemente da Berlusconi - in cui i partiti cedevano terreno a una progressiva personalizzazione della politica, le identità collettive si affievolivano e lo « spazio della rappresentanza coincide [va] con lo scambio tra il leader e l'opinione pubblica »36• Quella di Prodi fu, essenzialmente, una leadership dimidiata, nella sua funzione di indirizzo e di decisione, perché sempre costretta a mediare, sin dall'inizio, con tutti coloro, i partiti, che lo avevano indicato come candidato premier e che conti­ nuavano a condizionare le sue scelte. E, in definitiva, fu una sorta di leadership octroyée, ovvero elargita dai massimi dignitari dei partiti del centro-sinistra che, sin­ tetizzando le parole di D 'Alema, concedevano una parte della loro sovranità a Prodi. Una concessione statutariamente non a tempo indeterminato37•

2.

Il governo deli ' Europa

Queste due differenti antinomie, ulivismo/partitismo e riformismo/antagonismo - rese ancor più acute dal risultato delle elezioni politiche del 21 aprile 1996 che, in modo simile a quelle del 1994, avevano sancito una "vittoria dimezzata" del centro­ sinistra a causa della dipendenza del governo dai voti di Rifondazione comunista38 -, condizionarono fortemente la vita dell'esecutivo guidato da Prodi. Un esecutivo indubbiamente autorevole, in forte continuità con i governi Amato e Ciampi che l'avevano preceduto e di altro profilo istituzionale39, ma che rimase sostanzialmente imprigionato nelle contraddizioni interne della coalizione e limitato dall'eterogeneità I. Diamanti, Prefazione, in B. Manin, Principi del governo rappresentativo, il Mulino, Bologna 20IO, p. x. Cfr. S. Fabbrini, Il principe democratico, Laterza, Roma-Bari I 999, pp. 2 I 8- 9 ; N. Rossi, Riformisti perforza, il Mulino, Bologna 2002, p. 8 7. Cfr. M. Calise, Ilpartito personale, Laterza, Roma­ Bari 2 0 0 0. 37· P. Corrias, D'Alema a Prodi: il leader e lei, in "La Stampa", I I marzo I 9 9 S ; G. F. Mennella, D'Alema: «il PDS ha scelto, e lui il leader» , in "l ' Unità", I I marzo I 9 9 5 : M. Smargiassi, «Caro Profossore e lei il leader» , in "la Repubblicà', I I marzo I 9 9 5 · 3 8 . Baccetti, I postdemocristiani, cit., p. I I 7 ; I. Ariemma, La casa brucia. I democratici di sinistra dal PC/ ai giorni nostri, Marsilio, Venezia 2000, p. I 7 2. 3 9· Basti pensare che all' interno della compagine governativa erano presenti due ex presidenti del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini, due ex ministri del governo Dini, Tiziano Treu e 3 6.

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politico-culturale dell 'intera alleanza. Un'alleanza eterogenea che, di fatto, trovò un fragilissimo punto di sintesi in quella sorta di surrogato politico rappresentato dal vincolo esterno del processo di Unione monetaria europea40 - il quale, attraverso il trattato di Maastricht, fissava inderogabilmente alcuni parametri da rispettare sul deficit e sullo stock del debito, pena la non inclusione all' interno della zona della moneta unica - dopo aver sperimentato, durante la campagna elettorale, un altro mastice altrettanto controverso e precario : il vessillo dell'antiberlusconismo. Nei due anni e mezzo di governo dell ' Ulivo si assistette, dunque, a un 'accentua­ zione delle contraddizioni originarie e a un progressivo sfaldamento della coalizione di centro-sinistra, la cui tenuta venne messa alla prova già durante il dibattito parla­ mentare sulla fiducia al governo, nel maggio 1996. A un impegnativo discorso di Pro di, tutto imperniato sulla necessità improrogabile di superare la difficile « transi­ zione » del paese attraverso il raggiungimento di tre grandi obiettivi - un nuovo «patto » costituzionale « da riscrivere insieme » all 'opposizione, il rilancio econo­ mico dell ' Italia basato « sull'aumento dell 'occupazione e sul rilancio del Mezzo­ giorno » e il traguardo storico dell ' Unione monetaria41 -, si contrapposero le dichia­ razioni di Bertinotti, il quale, pur rivendicando per sé stesso il merito di aver fatto nascere l 'esecutivo, tracciò le linee di quello che si presentava come un vero e proprio programma di governo del tutto alternativo a quello tracciato dall'ex presidente dell'IRI. Al rigore di bilancio auspicato da Prodi per raggiungere l'Eurozona, il leader di Rifondazione prospettava, al contrario, una « legge per una nuova scala mobile » , la « riduzione generalizzata dell'orario di lavoro a parità di salario » e un nuovo « intervento pubblico » nell'economia. Nelle parole di Bertinotti non era stato posto nessun particolare accento sull ' Unione monetaria, sul risanamento economico e sulle riforme istituzionali, mentre, al contrario, erano presenti una severa critica al discorso di Prodi, in cui prevaleva « un eccesso di continuismo » , e una netta presa di distanza dalla politica della « concertazione » che veniva dichiarata ormai « fallita » 4l. Nonostante questo precario equilibrio politico - reso ancora più instabile da uno scetticismo diffuso nell 'opinione pubblica che evocava la possibilità di « maggioranze variabili » 43 - l'azione dell'esecutivo riuscì a cogliere, in tre tappe successive, alcuni importanti risultati che si sarebbero rivelati decisivi per il raggiungimento di almeno quattro dei cinque parametri previsti dal Trattato di Maastricht. Innanzi tutto, l 'in-

Augusto Fantozzi, l'ex presidente della Camera, Giorgio Napolitano e anche l'ex magistrato di Milano, Antonio Di Pietro, simbolo indiscusso della stagione di Tangentopoli. 40. P. Castagnetti, La destra euroscettica, in "il Popolo", 28 marzo 1996; A. Di Robilant, La sinistra europea alla riscossa, in "La Stampa", 29 marzo 1996. 41. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XIII Legislatura, vol. 1, Camera dei deputati, Roma 1 996. pp. 7 2-9. 42. lvi, pp. 296 -300. 43· Voti all'Esecutivo? Il Polo e diviso. Possibilisti Pisanu e Casini: «maggioranze variabili, una necessita», in "Avvenire", 3 1 agosto 1 996. 5 20

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tuizione di Ciampi di presentare, nel mese di giugno, un Documento di program­ mazione economico-finanziaria (DPEF) che, lasciando aperto uno spiraglio alla riduzione del deficit in tempi più rapidi di quelli previsti dai governi precedenti, prefigurava un ingresso nella zona euro sin dal 1° gennaio 199944• In secondo luogo, l'attuazione di un 'azione diplomatica a vasto raggio che intendeva mostrare alla Germania e alla Francia la ferma volontà dell ' Italia di rientrare rapidamente all 'in­ terno del Sistema monetario europeo (sME) e che, secondo un'interpretazione che ebbe una vasta risonanza sulla stampa, ma che è sempre stata smentita da Prodi, avrebbe cercato di costruire insieme alla Spagna una sorta di « asse del Mediterraneo » 45 per favorire un' «interpretazione flessibile e permissiva » dei criteri di Maastricht46• Infine, l'elaborazione di una poderosa manovra finanziaria da più di sessantamila miliardi - volta a un veloce raggiungimento del rapporto deficit-FIL al 3% - che prevedeva, oltre a un taglio della spesa pubblica, l'introduzione di una nuova imposta, il contributo straordinario per l' Europa, ossia la famigerata eurotassa che, al di là delle veementi polemiche suscitate, si sarebbe rivelata determinante nel raggiungi­ mento del traguardo europeo. A questi apprezzabili risultati si aggiunse, inoltre, un importante accordo tra il governo e le parti sociali: la stipula del Patto per il lavoro, il 24 settembre 1996, che si inseriva sulla scia della politica della concertazione e della cosiddetta "stabilizza­ zione consensuale" sancita dagli accordi del luglio 199347• Questa intesa, oltre a essere un tentativo di rilancio occupazionale del Mezzogiorno - attraverso la possibilità di

L. Spaventa, V. Chiorazzo (a cura di), Astuzia o virtù? Come accadde che l'Italia fu ammessa all'Unione monetaria, Donzelli, Roma 2000, pp. 2I-2. 45· L'Europa che piace a Prodi, in "la Repubblica", I2 settembre I 9 9 6 ; G. Pelosi, Ma Prodi e Aznar promettono: pronte anche Roma e Madrid, in "li Sole 2 4 Ore", I 8 settembre I 9 9 6 . La dichiarazione è riportata in M. Monti, Un primo passo verso l'Europa, in "Corriere della Sera", 30 settembre I 9 9 6 . 46. Questa interpretazione scaturì da un' intervista del premier spagnolo José Maria Aznar al "Financial Times" del 3 0 settembre I 9 9 6 , in cui dichiarò di non voler aderire a nessuna « iniziativa congiunta sud-europea volta a piegare i criteri o a modificare la scadenze». Le rettifiche e le smentite che seguirono nei giorni successivi non disinnescarono le polemiche divampate nell'opinione pubblica. Cfr. R. l. Zanini, Veleni sulla strada di Maastricht, in "Avvenire", I 0 ottobre I 9 9 6 ; G. Ballardin, Pasquino: Madrid ci ha scoperto il gioco, in "Corriere della Serà', I 0 ottobre I 9 9 6 ; P. Ostellino, Un Paese all'angolo, in "Corriere della Sera", 3 ottobre I 9 9 6 . Prodi non ha mai ritenuto corretta questa ricostruzione dei fatti, sostenendo, invece, che alla base del malinteso ci possa essere stato un equivoco linguistico durante il colloquio con Aznar, avvenuto senza interprete. E che, inoltre, al di là di ogni incomprensione, non è mai esistita nessuna relazione diretta tra quell' incontro e la successiva decisione del suo governo di raddoppiare l 'entità della manovra finanziaria. Quella decisione, secondo Prodi, era il frutto, invece, della « traduzione» dell ' impegno che l' Italia aveva manifestato in due lettere, « inviate ai governi di Germania e Francia, le due grandi potenze e i veri "motori" dell' Unione Europea », di anticipare di un anno l ' ingresso nell ' Unione monetaria. Cfr. Prodi: per l'euro scrissi a Kohl e Chirac, in "Corriere della Sera': 20 maggio 20IO. 47· P. Di Siena, Via al patto per l'occupazione, in "l' Unità", 25 settembre I 9 9 6 ; E. Marro, Occupa­ zione 4 mila miliardi nel I997· in "Corriere della Sera", 25 settembre I 9 9 6. Cfr. M. Salvati, Occasioni mancate, Laterza, Roma-Bari 2000. 44·

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stipulare contratti d'area con salari ridotti nelle aree di crisi -, rappresentò, soprat­ tutto, il primo passo verso l'introduzione, in Italia, delle prime forme di flessibilità nel mercato del lavoro. Fu un risultato simbolicamente rilevantissimo, che avrebbe permesso di approvare, nel giugno 1997, il cosiddetto "pacchetto Treu", ovvero quell 'insieme di misure - presentate per la prima volta in Parlamento il 1 2 aprile 1995 dall'allora ministro del Lavoro del governo Dini, Tiziano Treu - che introdusse in Italia il lavoro interinale e l'istituto del tirocinio48• Ovviamente, queste scelte dell'esecutivo, caratterizzate da una politica di rigore nei conti pubblici e dali' introduzione della flessibilità nel mercato del lavoro, furono osteggiate da Rifondazione comunista49• Alla prospettiva di progressivi tagli della spesa pubblica che avrebbero provocato null 'altro che dei tagli allo stato sociale, Bertinotti contrapponeva « una piattaforma europea alternativa a quella di Maa­ stricht » che prefigurava « un'Europa dei popoli » e il ricorso a una «patrimoniale » piuttosto che il rigore imposto dalla legge finanziaria del governo Prodi50• Queste differenti e, in parte, opposte prospettive politiche, tracciate dal governo e da Rifon­ dazione comunista, portarono, nell'autunno del 1996, a un esito emblematicamente paradossale : il 9 novembre, lo stesso giorno in cui il polo di centro-destra organizzava, a Roma, una grandissima manifestazione per protestare contro l'eccesivo carico fiscale della legge finanziaria del governo Prodi5\ Rifondazione comunista, a Napoli, dette vita a un "corteo per il lavoro" che aveva l'obiettivo di denunciare «la flessibilità » e di criticare « la politica occupazionale di Prodi »5l. Anche se questo genere di manifestazioni, di lotta e di governo, contribuì a minare la credibilità pubblica della coalizione e le sue reali capacità di tenuta politica, l'esecutivo guidato da Prodi riuscì a cogliere, in quello scorcio del 1996, un obiettivo fondamentale per il raggiungimento della moneta unica: il rientro della lira nello S M E . Il conseguimento di questo traguardo rappresentò, indubbiamente, il punto di partenza e il primo autentico successo italiano nel processo d'integrazione monetaria. In definitiva, il bilancio dei primi sette mesi di governo mise in luce tre risultati differenti: al rientro della lira nello S M E - che rappresentò, indiscutibilmente, una nota di merito dell 'azione di governo - facevano da contraltare due elementi critici 48. Le linee guida del Patto per il lavoro furono, infatti, recepite dal Parlamento, che ne fece la base per l'adozione di un provvedimento legislativo: la legge 24 giugno I99 7· n. I 96, che, introducendo il lavoro interinale, superava il divieto stabilito dalla legge 23 ottobre I96o, n. I 3 6 9. C. Cambi, «Ho cambiato il lavoro. È piu facile trovare posto», in "la Repubblicà', s giugno I99 7· 49· E. Mauro, Le due sinistre, ivi, 27 settembre I 996. so. M. Giannini, «Attenti, nulla e deciso>>, in "La Stampa", 25 settembre I 996; L. Paolozzi, Berti­ notti: «Ma paghino i piu ricchi» , in "l' Unità", 25 settembre I996. S I. F. Saulino, Il Polo conquista la piazza della sinistra, in "Corriere della Sera", IO novembre I996; A. Rampino, In Soo mila contro le tasse, in "La Stampa", IO novembre I996; B. Spinelli, La borghesia smarrita, ivi, IO novembre I 996. 52. E. D' Errico, E l'Italia comunista sfdo a Napoli, in "Corriere della Sera", IO novembre I996; V. Faenza, E a Napoli 200 mila con Bertinotti, in "l' Unità", IO novembre I996. 52.2

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quali lo scetticismo diffuso, nell'opinione pubblica italiana e internazionale, sulle reali possibilità di risanamento economico dell' Italia e la progressiva accentuazione pubblica delle contraddizioni politiche all 'interno dello schieramento di centro­ sinistra. Non solo per ciò che concerneva il rapporto dinamico e conflittuale tra il governo e Rifo ndazione comunista, ma anche, e soprattutto, per quel che riguardava le differenti prospettive politiche che, da sempre, si scontravano all 'interno dell' Ulivo. Simbolo paradigmatico di questa difformità di prospettive politiche fu, indub­ biamente, il seminario di studio che si svolse a Gargonza, nel marzo 1 9 9 7, al quale parteciparono i più importanti leader del centro-sinistra e molti intellettuali d'area. Il seminario ebbe un impatto rilevantissimo sull 'opinione pubblica, probabilmente superiore alla sua effettiva importanza, e di fatto venne presentato dalla stampa come una sorta di "processo ai partiti". Fu un processo che finì per mettere sul banco degli imputati colui che più di tutti gli altri leader riusciva a incarnare il partitismo, ovvero il segretario del P D S , Massimo D'Alema, il quale, nella sua relazione, riprendendo quanto aveva già detto nel maggio 1 9 9 5 , ribadì che la politica non è altro che « un ramo specialistico delle professioni intellettuali » e che «l'idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla tout court ai cittadini è un mito estremista che ha prodotto o dittature sanguinarie o Berlusconi » n. In quella discus­ sione si fronteggiarono, dunque, non solo due diverse modalità organizzative - il catch-al! party ulivista e il partito di integrazione di massa d' ispirazione social­ democratica -, ma anche due diverse concezioni dell 'agire politico - il primato della società civile e dei "cittadini" contro il primato della politica "come professione" - che caratterizzarono l' Ulivo sin dal momento della sua genesi e che la nascita del governo non solo non aveva diluito ma, all'opposto, aveva addirittura acuito. I congressi del P P I e del P D S , così come il primo incontro nazionale del Movi­ mento per l' Ulivo, che si erano tenuti tra gennaio e febbraio 1 9 9 7, circa un mese prima del convegno di Gargonza, avevano ribadito queste originarie divergenze di prospettiva politica. A quanti ritenevano che la coalizione fosse soltanto un'alleanza di «partiti dell ' Ulivo » 54 in cui il P D S fosse «la forza centrale » e il P P I la « seconda gamba » , gli ulivisti ribadivano l'importanza del « valore aggiunto » della «coali-

R. Armeni, D:Alema frena l'Ulivo-partito. Per Ve/troni la via e aperta, in "l' Unità", 9 marzo I 9 97; Id., Ve/troni e Mussi attaccano D:Alema. «Il PDS da solo non puo vincere>>, ivi, IO marzo I 9 97; F. Saulino, Il semiologo: un sistema a rete non piu a piramide, in "Corriere della Sera", 9 marzo I 99 7 ; M. Caprara, Gargonza, match D:Alema-Veltroni sull'Ulivo, ivi, 9 marzo I 9 97· Cfr. http:/ / www.perlulivo. it/ radici/ movimento/ gargonza. S 4· V. Ragone, D:Alema, una sfula alla sinistra, in "l' Unità': 23 febbraio I 9 9 7 ; L. Paolozzi, Prove per un nuovo partito, si alla casa comune, ivi, 23 febbraio I 9 9 7 ; B. Ugolini, Flessibilita? Il PalaEur si divide, ivi, 23 febbraio I 9 9 7 ; G.F.P., Mancina: un simbolo senza falce e martello per il nuovo partito, ivi, 23 febbraio I 9 9 7 ; G. Mennella, Trionfo al Congresso, ivi, 2 4 febbraio I 9 9 7 ; Baccetti, I postdemocristiani, ci t., pp. I 3 3-44. S3·

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zione » - intesa come un «potente strumento di coordinamento interpartitico » e una sorta di «crogiolo di idee propedeutico ai partiti » - senza la quale « i partiti da soli » non avrebbero potuto « vincere le elezioni » 55• Il convegno di Gargonza ratificò, dunque, questa originaria contrapposizione tra ulivisti e partitisti, alla quale la stampa fornì una rappresentazione pubblica in cui l'elemento partitico sembrava uscire simbolicamente ridimensionato. In quella sede, infatti, il "lungo addio" tra gli intellettuali e il partito erede della tradizione comunista segnò un ulteriore salto di qualità. Iniziò, infatti, un processo di distacco tra una parte, non secondaria, degli intellettuali di sinistra e i politici di professione, il cui ruolo iniziò a essere letto e interpretato, in una sorta di trasposizione etico-morale, come qualcosa di sempre più avulso e distante dalla vita reale dei cittadini e che, per di più, stava legittimando la destra berlusconiana attraverso i lavori della Commis­ sione bicamerale per le riforme56• A ben guardare, dunque, il convegno di Gargonza si inseriva all'interno di una più generale messa in discussione dell ' identità della cosiddetta "sinistra del duemila", continuamente oscillante tra la ricerca affannosa di un'utopica terza via e l'approdo sicuro, invece, verso le tradizionali culture politiche novecentesche. Un ripensamento generale del complesso patrimonio storico-identi­ taria della sinistra che, nello stesso periodo, investiva anche il mondo del lavoro e la cosiddetta "lotta per l'egemonia" a sinistra. D'altra parte, dal progetto dalemiano di lanciare la cosiddetta "Cosa 2 ", ovvero un grande partito social-democratico che inglobasse tutte le grandi tradizioni poli­ tiche della sinistra italiana, prendevano le distanze sia il segretario della C G I L , Sergio Cofferati, sia il leader di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti. Il primo perché, rivendicando orgogliosamente la totale autonomia dai partiti, non lesinava dure critiche sia al governo Prodi sia al segretario neocomunista colpevole di saper caval­ care soltanto « il malcontento sociale » 57• Il secondo perché teorizzava l'esistenza di « due sinistre » : una antagonista, Rifondazione, che, muovendo «da rinnovate ragioni di classe » , si poneva il problema della trasformazione della società; l'altra

SS · C. Coscia, Prodi subito in Europa per formare la Lega, in "La Stampa", 1 6 febbraio 1997. Cfr. http:/ /www.perlulivo.it/ radici/ movimento/ comitatimovimento/ domuspacis.html. s6. Il 24 gennaio 1997 era stata promulgata la legge costituzionale per l' istituzione di una Com­ missione parlamentare per le riforme costituzionali. n s febbraio era stato eletto presidente Massimo D'Alema grazie ai voti della maggioranza, di Forza Italia e dei centristi del Polo. n 1 4 marzo, all' in­ domani del seminario di Gargonza, il direttore di "MicroMega" Paolo Flores d'Arcais, in una lettera pubblicata sul "Corriere della Sera", sostenne che le « attuali destre» andavano « combattute radical­ mente e frontalmente, invece di essere "santificate" con gli accordi della Bicamerale ». P. Flores d'Arcais, Ecco dove il leader della Quercia ha torto marcio, in "Corriere della Sera", 14 marzo 1 997. Circa due mesi più tardi, riferendosi ai lavori della Bicamerale, egli parlò esplicitamente di « tradimento delle promesse elettorali dell' Ulivo»: P. Flores d'Arcais, Giustizia, promesse tradite, in "la Repubblica", 21 maggio 1997. S7· S. Cofferati, A ciascuno il suo mestiere. Lavoro, sindacato e politica nell'Italia che cambia, Mon­ dadori, Milano 1997, pp. 38-41 e 6 8-72.

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moderata, il PDS e la CGIL, che, dirigendosi verso «l'indistinta concezione del cit­ tadino » , accettava il sistema di produzione capitalistico58• Tale sistema di produzione, invece, secondo Bertinotti, andava scardinato attraverso una « radicale revisione » delle politiche neoliberiste del Trattato di Maastricht e con una « riduzione dell'orario di lavoro a 3 5 ore a parità di salario » 59• In questo singolare contesto, caratterizzato da un fragilissimo equilibrio, si colloca la crisi politica del 1 9 9 7, che si sviluppa, progressivamente, in tre momenti successivi: innanzi tutto, con l'approvazione della cosiddetta "manovrina" di aprile ; poi con l'autorizzazione della missione di pace in Albania; infine, con la crisi di governo a seguito della verifica della maggioranza nell'autunno del 1 9 9 7 che portò alle dimis­ sioni, poi rientrate, di Prodi. L'approvazione della manovra aggiuntiva di aprile da quindicimila miliardi, nonostante le dure critiche a cui fu sottoposta da molti commentatori 60 e i vigorosi strali di Bertinotti, che denunciò «una pressione violentissima sull' Italia » attaccando l'Europa « tecnocratica guidata dalla Bundesbank» 6\ si rivelò determinante per ridurre ulteriormente il disavanzo pubblico e portare il rapporto debito-PIL al di sotto della soglia del 3% prevista dai parametri di Maastricht. Tuttavia, se il vincolo europeo aveva resistito all 'approvazione della "manovrina" nulla poté, invece, durante lo svolgimento del dibattito parlamentare sull'approvazione della missione di pace in Albania sotto l'egida dell' O N U . La missione Alba - nonostante fosse il «primo intervento multinazionale gestito dagli europei senza gli Stati Uniti » - venne votata, congiuntamente, dalle forze di governo e da quelle del centro-destra, ma con l'op­ posizione di Rifondazione comunista che, pur confermando la fiducia al governo, rivendicò la propria « scelta di fondo pacifista senza tatticismi » e bollò la missione in Albania come un'operazione neocolonialél.. Una decisione che contribuì a minare ulteriormente la coesione politica della maggioranza parlamentare e che rappresentò solo un'anticipazione di quello che sarebbe accaduto nel volgere di pochi mesi. A far precipitare la situazione contribuì, indirettamente, la vittoria, alle elezioni generali francesi del 25 maggio e del I0 giugno, di una coalizione di sinistra, la cosiddettagauche plurielle, guidata dal socialista Lionel Jospin, che comprendeva insieme ai socialisti anche comunisti, verdi, radicali e il Movimento dei cittadini. Le elezioni generali francesi ebbero una vasta risonanza in s 8. F. Bertinotti, Le due sinistre, Sperling & Kupfer, Milano I 9 97, p. I 2 . S9· lvi, pp. 40-I e 77· 6 o. F. Giavazzi, Ciampi, misure cosi e meglio ritirar/e, in "Corriere della Sera", 27 marzo I 9 97· Cfr. Spaventa, Chiorazzo (a cura di), Astuzia o virtu ?, cit. , p. 3 I . 6 I. F. Rampini, «l tecnocrati dell'Europa non ci metteranno all'angolo», in "la Repubblica", 25 aprile I 997· 62. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XIII Legislatura, vol. 26, Camera dei deputati, Roma I 9 97, p. I 47 I 4. Cfr. E. Costa Bona, L. Tosi (a cura di), L'Italia e la sicurezza collettiva. Dalla Societa delle nazioni alle Nazioni unite, Morlacchi, Perugia 20 07, pp. 3 0 9- 1 1. 525

A N D R E A P O S S I E RI

Italia e in Europa, e furono interpretate, da parte di Rifondazione, come un invito a modificare radicalmente le politiche neoliberiste di Maastricht63• Tra la seconda metà di settembre e l' inizio di ottobre, Rifondazione comunista chiese, a più riprese, che la nuova manovra finanziaria, dopo i sacrifici richiesti da quella precedente, si concentrasse sulle politiche per risollevare l'occupazione attra­ verso una riduzione generalizzata dell 'orario di lavoro, seguendo il modello francese. E così la discussione parlamentare sulla verifica della maggioranza si svolse attorno a due diverse linee politiche che, come due rette parallele, parvero non incontrarsi mai: l'obiettivo principale del governo rimase il raggiungimento dell' Unione mone­ taria, mentre Rifondazione comunista continuò a chiedere nuove politiche « in direzione della giustizia sociale » . Durante il dibattito parlamentare, Prodi evocò, ancora una volta, come nel suo discorso d'insediamento, la «lunga e difficile transizione italiana » che stava per essere superata anche grazie ai meriti del suo governo, il quale aveva già raggiunto « quattro dei cinque parametri » di Maastricht e aveva avviato « il processo di ammo­ dernamento del sistema Italia » . Un processo che non andava interrotto, pena il fallimento dell'intero progetto di rinnovamento del paesé4• Bertinotti, invece, con­ testò il rigore della finanziaria, continuamente legittimato con l'oppressiva retorica della moneta unica - «l'Europa è stata strumentalizzata per qualsiasi cosa » - e propose, nuovamente, « una correzione rilevante in direzione della giustizia sociale » : ovvero la riduzione dell'orario di lavoro a 3 5 oré\ La mozione con la quale Rifondazione comunista confermò il giudizio negativo sulla manovra finanziaria portò alle dimissioni del professore bolognese, in quella che venne definita dallo stesso Prodi come «la crisi più pazza del mondo » . Nell'arco di una settimana, però, dopo un intenso lavoro di mediazione - e grazie anche ai risultati del vertice bilaterale franco-italiano di Chambéry, in cui Prodi e Jospin si espressero a favore di una riduzione generalizzata dell'orario di lavoro66 - venne stipulato un accordo di programma tra Rifondazione e governo destinato a durare per tutto il 1998 e la crisi di governo rientrò. Questo stato latente di tensione, però, che scaturiva da un'escalation progressiva delle contraddizioni interne della coalizione di centro-sinistra, contribuì a sfibrare l'eterogenea maggioranza parlamentare che appoggiava il governo. E nei primi mesi del 1998, in concomitanza di due fatti politici di rilievo, l'esecutivo Prodi imboccò rapidamente la parabola discendente che lo avrebbe portato all'esaurimento di quell'e­ sperienza di governo. Il fallimento della Commissione bicamerale, da un lato, e il 63. Il documento conclusivo approvato dal

CPN

a larga maggioranza, in "Liberazione", 3 giugno

1 9 97·

64. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati.

XIII

Legislatura, vol.

pp. 4-17. 6 s. lvi, pp. 32-3. 6 6. F. Rampini, Una mano da Parigi, in "la Repubblica",

40,

Camera dei deputati, Roma

1 9 97·

4

ottobre

1 9 97.

UN R I F O R M I S M O I N C O M P I UT O : I L P R I M O G O VERNO P R O D I

raggiungimento dell' Unione monetaria, dall'altro lato, sancirono, simbolicamente, la conclusione politica dell'alleanza di centro-sinistra, così come era uscita dalle urne del 1996. Ciò che venne a mancare, sin dalla primavera del 1998, furono, infatti, i due grandi obiettivi che, in modo diverso, avevano caratterizzato l'azione politica dell' U­ livo : il primo, la scrittura condivisa di un nuovo patto costituzionale, era stato clamo­ rosamente fallito; il secondo, l'ingresso nell' Unione monetaria insieme al primo gruppo di paesi era stato, altrettanto clamorosamente, raggiunto. Paradossalmente, però, il conseguimento di questo storico traguardo significò anche la fine del vincolo esterno dell'Europa, ovvero di quel particolare collante politico che fino ad allora aveva tenuto unito il composito schieramento di centro-sinistra. Nel marzo 1998, l' ECOFIN, il Consiglio dei ministri finanziari europei che si tenne a New York, riconobbe l' intenso lavoro effettuato dal governo italiano nell'opera di risanamento dei conti pubblici - in un anno il disavanzo era stato abbattuto di quasi quattro punti percentuali - e il 2 maggio il Parlamento europeo, in riunione straordinaria, e il Consiglio europeo sancirono la nascita dell ' Unione monetaria con 11 paesi tra cui l' Italia, che era riuscita a rispettare, con largo margine, almeno quattro dei cinque criteri imposti dal Trattato di Maastricht. L'unico para­ metro che non era stato osservato era quello, storico, del debito pubblico. Lo stesso giorno, il presidente del Consiglio Romano Prodi pronunciò un discorso a reti uni­ ficate per celebrare l'ingresso ufficiale dell' Italia nell 'euro. Questo eccezionale risultato si configurava, però, come il prodotto di una serie molteplice di fattori. Indubbiamente, era il frutto della ferma determinazione poli­ tica del governo. Un traguardo importante raggiunto, come hanno scritto Spaventa e Chio razzo, con « astuzia e destrezza » dopo un'autentica « battaglia diplomatica » in cui l'esecutivo aveva saputo ridare credibilità al paese soprattutto grazie all' im­ pegno profuso per il risanamento del bilancio dello Stato. Secondo l'analisi di Spaventa erano stati essenzialmente tre i motivi del successo della politica di bilancio del governo Prodi: alcune revisioni contabili, dettate dalla stessa Commissione europea; l 'imposizione di alcuni «limiti di cassa » per le pubbliche amministrazioni, soprattutto per gli enti decentrati; e il ricavato del « Contributo straordinario per l' Europa » 67• Tuttavia, l'obiettivo europeo, al di là degli indiscutibili meriti del governo, fu raggiunto, anche grazie ad alcuni dati strutturali dell 'economia nazionale che si erano andati consolidando a partire dai primi anni Novanta. Il risanamento dei conti pub­ blici, infatti, era iniziato già nel 1991 ed era poi stato consolidato nel 1992 con le misure prese dal governo Amato che imposero una forte correzione della spesa pub­ blica. E su questo crinale di risanamento, seppure in modo a volte incerto, si mossero anche i governi successivi che seppero incidere sulla spesa sociale rendendo più sicuro,

67. Spaventa, Chiorazzo (a cura di), Astuzia

o

virtù ?, cit., pp. S s-7.

A N D R E A P O S S I E RI

ad esempio, tutto il sistema previdenzialé8• Anche la politica antinflazionistica era il prodotto di alcune scelte operate nei primi anni Novanta ed era il combinato disposto, non senza conflittualità e dualismo, tra la prudente politica monetaria della Banca d' Italia, la politica dei redditi che conteneva la moderazione salariale e la correzione degli squilibri delle finanze pubbliché9• In definitiva, anche se le scelte operate dal governo Prodi si rivelarono decisive, il raggiungimento dell' Unione monetaria non fu soltanto il prodotto delle decisioni prese dal governo dell' Ulivo, ma fu anche il risultato di una straordinaria correzione strutturale della spesa pubblica « iniziata ben prima del I 9 9 7 » 70• Il conseguimento del traguardo europeo, però, come detto, tolse allo schiera­ mento di centro-sinistra il mastice più importante dell'intera alleanza. E a nulla valsero le dichiarazioni di Prodi, durante la discussione parlamentare sulla manovra finanziaria del 1 9 9 9 - in cui Rifondazione comunista aveva dichiarato che avrebbe espresso il suo voto contrario - di identificare nel « rilancio del Mezzogiorno » e nella « lotta alla disoccupazione » la « nuova Maastricht » dell'azione di governo71• Esaurito il vincolo europeo, si concludeva anche quell'esperienza politica. Che finiva, dunque, non per una congiura di palazzo o per un banale errore d'aula, bensì perché si era spezzato quel fragilissimo equilibrio politico che fino ad allora era riuscito a contenere le contraddizioni interne dell'alleanza di centro-sinistra. L'incompiutezza politica di quell 'alleanza, che risentiva fortemente della pesante eredità della Prima Repubblica, ovvero di quella « democrazia proporzionalistica dei partiti d'impronta fortemente statalistica » 7\ finì, inesorabilmente, per limitare l'azione del governo che, di fatto, si tradusse in una sorta di riformismo incompiuto. Un'azione riformatrice che in più occasioni seppe cogliere dei traguardi importanti - l'euro, la riforma Bassanini e il cosiddetto "pacchetto Treu" - insieme ad alcune misure dall'esito controverso - come le privatizzazioni - ma a cui mancò, più di ogni altra cosa, una visione del futuro del paese che riuscisse ad andare oltre i vincoli imposti dall'Europa. Una visio ne che, in definitiva, cercasse di elaborare una nuova fase dello sviluppo della democrazia italiana proponendo una risposta politica a quelle tre crisi latenti - fiscale, morale e istituzionale - che stavano avvolgendo il paese, e che, come aveva ammonito, con grandissima lungimiranza, Luciano Cafagna già nel 1 9 9 3 , rischiavano inesorabilmente di travolgerlo come una « grande slavina » quando « sta arrivando a valle » 73. 6 8. lvi, pp. 57 e 67. 6 9. P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d'Italia {1796-2oos), Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 3 1 6-24. 70. Spaventa, Chiorazzo (a cura di), Astuzia o virtu ?, cit., pp. 35 e 8s. 7 1. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XIII Legislatura, vol. 74, Camera dei deputati, Roma 1998, p. 2. 72. E. Galli della Loggia, Tre giorni nella storia d'Italia, il Mulino, Bologna 2010, p. 8. 73· Cafagna, La grande slavina, cit., pp. 1 6 e 140. 5 2.8

Indice dei nomi

Abbruzzese S., 3 23n Abete L., 339, 34 0n

235n, 26 0, 272, 278-9, 28 0 e n, 283, 29 0-3 0I, 3 27-8, 34I, 3SI, 495 . S I 2

Accetturo A., 3 8 on

Angius G . , 260, 265

Acerbi A., 377n

Aniello W., S i n, 52n

Acquaviva G., 23 9 n, 242n, 2 4 8 n, 256n, 27 3 n,

Anselmi G ., 7 9 n, 3 40n

276n, 28on, 28 2n, 3 2I n, 3 22n, 3 29 n, 37 I n,

Anselmi T., 27 9n

395 n, 464n, 5 1 2n, SI3 n

Apruzzese S., 225n

Adornato F., 495n

Arca in i G ., I 29 e n

Airò A., I96n

Ardigò A., 206, 208-10, 2I2 e n, 2I3 e n, 2I4, 2I9 e n,

Ajello N., 27 6n

220, 3 20n

Alberigo G., 2I7n

Ariemma 1., 273n, SI9n

Albertini G ., 43 I Alesina A., I 3 8 n

Armanini W., 7 8 Armaroli P., 9 2n, 4 9 2n

Allegretti U., 224n

Armeni R., 523n

Almerighi M., 7 6 n

Asor Rosa A., 276n

Almirante G., 3 26, 4 9 I n

Asquer E., I 9 9 n

Almond G., 3 5 5 e n

Asso P. F., I 29n

Altissimo R., 68 n, 8 I n, 29I, 293 e n, 294 e n, 29 5

Astraldi R., 8 s n

e n, 296 e n, 297n, 298, 299, 3 0 0, 30I e n, 303

Aznar J. M., 52In

e n, 304, 305 e n Alvi G., I37n

Baccetti C., S IOn, 5I 9n, 523n

Amato G., 2m, 23n, 28 e n, 37-8, 39 e n, 40, 44 e n, 8 7, I02, I 27 e n, I3I, I 3 5-6, I 64, I 67-8, 235,

Baccini M., 1 1 2

237, 247, 249, 250 e n, 2S I e n, 26 9 n, 276 e n,

Badini A., 273 n

279n, 280 e n, 286n, 294, 3 25n, 340, 3 8 9 e n,

Baffi P., I 29 e n, Ison

39 0-2, 394, 493n, S I 4, S I 9, 527

Baget Bozzo G ., I 94, 225n, 464 e n, 465

Bachelet V., 2I I

Amatori F., I 25n, 3 6 8 n

Bagnasco A., 3 54 e n

Amendola Giorgio, 75 e n , 3 25

Balbo L., I74n

Amendola Giovanni, I 6 2

Balboni

Anastasi A., so I n

Baldassini C., 406n, 46on

Anderlini F., 496n

Baldini G., 25 2n, 4 25n, 426n, 434n, 444n

Andreatta B., 43, I 29 n, I54, I62 e n, I 7 I - 2, I75,

Ballardin G., 52In

2I7, 3 9 8 Andreotti G., 24, 29, 34, 73 e n, I 23, I64, I7I, 2I4, 223, 227n, 228 e n, 229 e n, 23 0, 233 e n, 234n,

E., 223, 237n

Ballini P. L., 498n Barbacetto G., 67n, 7 2n, 75n, 78 n, 83n Barbagallo F., 1 3 2n, 227n, 267n, 3 23n, 364n, 463n

I ND I C E D E I N O M I

Barbera A., 21 n, 26 I e n , 262, 265, 3 9 sn, 396, 49m

439, 449, 451, 452n, 455, 457 e n, 458, 464n,

Barca F., I 2In, I 24n, 1 26n, I 27n, I 29n, 3 63n

466-7, 468n, 46 9n, 47 0 e n, 475, 48I, 484,

Barettoni Arleri A ., I 0 2, I49n

4 8 5 e n, 48 6 e n, 488, 49 6n, 5 0 2n, 5 0 4-6,

Barile P., 3 s n, 3 9 6 n

509 e n, S I O-I, S isn, 516 e n, SI9, 523

Baris T., 458

Bermond C., I 24n

Bartholomew R., 33

Berselli E., 4 24n

Bartole S., 43n, 93n

Berta G., 3 6 2n, 3 6 8n, 3 6 9 n, 3 7 2n, 374n, 37 8n, 3 8 6n

Bartolini S., 5 04n Barucci E., I22n

Berti E., 23 2n

Barucci P., I 22n, I 6 4, I 67, 3 6 4 e n, 376

Berti G ., 28 9 n, 406n

Baslini A., I 8 8, 303n

Bertinotti F., 245n, SI7, 5 20, 522 e n, 524, 5 25 e n, 526

Bassanini F., 2I-2, 5 2, 94n, 9 8 n, I03, Io8-9, I I I n, 1 1 2 e n, 1 1 4, 528

Bertoli P., 73n

Bassetti P., 206 e n, 2IS e n, 2I6 e n

Bertolino S., SI7n

Bassolino A., 8 2, 2IS, 2SI e n

Besson J., 284n

Battilossi S., 363n

Bettazzi L., 1 9 3

Battini S., I0 2n, l i I n, 1 1 4n, 1 17n

Beveridge W., 438

Battista P., 282n

Beyme

Battisti L., 48 I

Biagi E., 79n, 345

Battistini G., 276n, 5 0 9 n

Bianchi A., 27 8 n

Bauman Z., 336n

Bianchi G., 23 5 e n, 5 1 0 e n

Bazoli L., 207

Bianchin R., 272n

Becattini G., 48 e n

Bianco G., 225, 227n, 23 4 e n, 23 5 e n, 236 e n,

K. von, 498n

237n

Bellah R., 3 I 2 e n, 3 I 3 e n, 3I4 Belli F., I 24n

Bianconi G., 219

Bellucci P., 222n, 23 0n, 5 1 1 n

Bibes G ., 284n

Benadusi L., 256n

Bifulco R., 98n

Benedetto

Bigatti G ., 3 6 9 n

XVI

(Joseph Ratzinger), papa, 200,

Bindi R., 21 1, 223

203-4 Beneduce A., I 24n, 1 25, I 3 2n

Biondi A., 290-1, 294 e n, 304, 343

Benevolo L., 207, 222

Biondi

Benin i R., 23 2n

Biorcio R., 225n, 297n, 3 28n, 33 4n, 352 e n, 373n,

L., 2o sn

4 26n, 483n, 494n

Bentivoglio F., 224 Beregovoy P. E., 244

Bisaglia A., 2I2

Berlinguer E., 6 9, 1 9 3 , 208, 234n, 23 9, 240 e n,

Blando A., 4 4 1 n

2 4 I e n, 2 4 2, 246, 248, 251, 252 e n, 255,

Blondel J., 490n

26 9 e n, 284, 287n, 3 I 6n, 3 23 e n, 3 25, 3 27,

Bobbio L., 5 2n, 53n

3 40, 463 e n, 464n, 493n, 5 1 2, S I 3 n

Bobbio N., 20 e n, 32n, 242-3, 431, 493, so4n, so9n

Berlinguer L., 25In, 26 0, 3 95n, 3 9 6

Bocca G., 375 e n, 493n

Berlusconi S., 27, 3m, 69, 7 I , 72n, S o, 8 2-3, 9 0, 9 2,

Bodei R., 3 83n

95-6, Io9, 115, 117, I37, 164, 197, 199 e n, 203,

Bodrato G., 23 I, 23 2n

224, 237, 250-2, 27I e n, 278 e n, 33I, 339 e n,

Boeri T., 1 3 6n

340-I, 342 e n, 3 43 e n, 344-5, 346 e n, 3 47,

Bagnetti G., 3 sn

3 5 9, 377, 379, 3 8 0 e n, 400n, 40I, 4 0 3 n,

Bolgiani F., 1 9 3 n, 1 9 5 n, 207, 210, 2I6, 2I7n

4I 2 e n, 4I4 e n, 4IS e n, 4I 6 e n, 417n, 4I8 e n,

Bongini P., 134n

419, 423-7, 4 2 8 e n, 4 29-30, 431 e n, 432-5,

Bonomi A. , 3 6 9n, 370n, 374n, 378n, 379n

530

I ND I C E D E I N O M I

Bonsanti S., 275n

Calise M ., 27n, 29n, 8 8n, I 3 6n, 484n, 49 8n, S I 9 n

Borghezio M., 483

Calvino 1., 76

Borghini G., 284 e n

Cama G., 1 28 n, I 3 0n, I33n

Borioni P., 25 6n, 27 0n

Cambi C., 5 22n

Boria T. L., 273 n

Cammarano G., I30n

Borrelli F. S., 37, 75n, 83n

Cammarata D., 43 I

Borrelli V., I 29 n, I35n

Cammarrone D., 222n

Borsellino P., 70, 72

Cammelli M ., 499n

Bortolini M., 3 I3n

Campanini G., 2osn

Bosetti G., 276n, 28 on

Campesato G., 5 1 2n, SISn

Bosio L., 206

Campi A., 428n

Boso

Campus D., 3 40n, 40 3n, 4I 5n, 452n

E., 483

Bossi U., 49, 6 9-70, 7I e n, 78, 8 2, I37n, 225, 237, 336, 343, 345, 3 67, 3 6 9 n, 37I-2, 374-5, 376 e n,

Cancogni M ., 7 5 e n Canino M ., 3 63n

377, 3 8 0, 4 24, 429, 453, 48 2-3, 49 5n, S I 4n

Cantarano G., 487n

Bottai G., 490n

Capaccioli

Bozzi A., 26n, 255 e n, 258, 26I, 30 3n, 3Ion, 32I e n,

Caponi L., 222n, 5I7n

492 e n

Capozzi

E., I 0 2

E., 25n, 2 8 9 n, 3 20n, 406n, 407n, 490n

Bracalini R., I 3 6 n

Capperucci V., I 9 2n, 227n

Bragantini S., 364 e n

Caprara M., 50 9n, 523n

Brandt W., 285, 3 22

Caprio G., S i n, 52n

Breda M., 33n, 3 8 n, 40n

Caracciolo C., 340

Briquet J. L., 6 8 n, 73n

Caracciolo L., 442n

Brugué Q., S i n

Carattieri M ., 3 28n, 3 29n

Brunelli G . , 2I3 n

Caravita di Toritto B., 93n

Brunetta R., 1 1 2 e n, 1 1 5 , 1 1 6 e n, 1 1 7 e n

Carboni M., 206

Bruti Liberati E., 494n

Caretti P., 9 8 n

Buccini G ., 72n

Caringella F., 499n

Bucharin

Cariola A., 26n, 36n

N., 270 e n

Carioti A., 4 55n, 477n, 478 e n, 495n Cadi G., 24, 28n, 29 e n, 1 26, I 29 e n, I 3 0n, I 3 I,

Bufacchi V., 3 I n, 37n Burgess S., 3 1 n, 37n

I44, I son, I 6 2 e n, I 64, I 7 I, 3 0I, 3 3 9

Buttiglione R., I97, 209, 2I 8 , 225, 237, SIO e n

Cadi S., 376n Cacace P., 3 8sn, 3 8 6n

Carnazza E., 447 e n

Cacciari M ., 378

Carnevale P., 41n

Caciagli M ., ssn, I 9 9 n

Camiti P., 20 8

Cafagna L., 3 2 e n , I 3 2n, I 9 5n, 26 9n, 28 In, 28 5n,

Carraro M ., 378

287n, 3 2I e n, 3 23 e n, 3 24 e n, 3 25n, 3 27 e n,

Carrattieri M., 222n

362 e n, 373n, 374n, 375n, 4I8 e n, 464, so9n,

Carrieri M ., SI7n

S I 8n, 528 e n

Carrubba S., 299 e n

Caferra V. M ., 67n

Cartocci R., I 9 9n, 3 28n, 3 53 e n, 426n

Cafìero S ., 363n, 367n, 373n, 376n Caimi L., 2ISn

Casalegno C., 3 6 6 n

Calabrò A., 376n, 378n, SISn

Casavola P., 4I

Caldarola G., 277n, 28 on, 283n, 346n

Cascella P., 5 1 2n

Calderoli R., 98 e n

Casini L., non

Casati G., 3 6 I n, 378n, 3 8 on

S3I

IND I C E D E I N O M I

Casini P. F., 1 97-8, 202, 237, 5 0 6, 5 2on

Ciancio A., 5 0 1 n

Cassese S ., 8, 1 0 2n, 103n, 105 e n, 106 e n, 1 07-8,

Ciaschini M., 3 8 6n

109 e n, non, 1 21 n, 1 24n, 135n, 1 6 9 e n

Ciccarone G ., 3 8 6n, 3 8 8 n, 3 9 0 n

Castagnetti P. L., 23 2 e n, 520n

Cicchitto F., 274, 28on

Castellacci C., 75n

Cicconetti S. M., 3 5n

Castells M., 33 5n, 347n

Ciocca P. L., 1 22n, l l3n, 1 25n, 33 9n, 3 63n, 528n

Castronovo V., 3 6 8 n, 370n, 373n, 3 8 5n

Cipolletta 1., 133n

Catanzaro R., 59n, 498n

Cirino Pomicino P., 78, 1 64, 171

Cattaneo C., 374

Ciuffoletti Z., 495n

Cavalli L., 43 5n, 504n

Clarich M., non, 1 3 5n

Cavatorto S., non

Clinton W., 33, 3 9 8

Cavazza F. L., 3 1 2n, 3 1 3n, 4 9 5n

Codevilla G., 23 2n

Cavicchioli S., 78n

Coen F., 270n, 274 e n

Cazzola F., 67n, 68n

Cofferati S., 524 e n

Ceccanti S., 9 1 n, 1 95n, 219, 22on, 222, 504n

Colajanni

Ceccarini L., 379n

Colarizi S., 67n, 13 2n, 1 9 2n, 1 9 9 n, l23n, 228 e n,

N., 283 e n

Cecora G., 102n

l3 0 e n, 234n, l37n, 23 9 n, 249n, 251n, l6 6n,

Celentano A., 3 3 8 e n

l6 8 n, l83n, l86n, 287n, 29 0n, 3 22n, 3 25n,

Celotto A., lln

33 0n, 3 37 n, 3 40n, 37 1 n, 37 ln, 373n, 37 5n,

Cento Bull A., 46 5n, 476n

378n, 3 8 9n, 3 9 5n, 464n, 49 0n, 49 2n, 493n,

Cersosimo D., 47n, 48n

494n, 5 n n, 5 1 2n

Cerulli Irelli V., 57n

Colletti L., l7 8n

Cervi M., 74n, 8 1 n

Colletti V., 103

Cesarini F., 1 21 n

Colli A., 3 6 8n, 378n

Cheli

Colombo

E., 22n, 9 6n, 9 9 n

E., 1 64, 227n, 237 e n, 294

Cherchi R., 9 1 n

Colombo Gherardo, 75n

Chessa P., 444 e n

Colombo Giovanni, 217n, 221

Chetta A., 77n, 7 9 n

Colombo U., 3 9 6 n

Chiappori A., 425

Coltorti F., 378n

Chiarante G., 262, 265, 3 1 6 n

Compagna L., 304 e n

Chiarenza F., ll9n, 289n

Confalonieri A., 1 25n

Chiarini R., l8 2n, 3 61 n, 3 6 2n, 404n, 456n, 458n,

Conso G ., 37

472n, 47 ? n, 47 9n, 48 1 n, 483n, 4 9 1 n, 494n

Consoli G., 137n

Chiaromonte G., 31, 277 e n, 283 e n, 376

Consorte G., 1 3 6n

Chieppa R., 103

Constant B ., 1 8

Chiesa M., 72 e n, 75, 330

Conti G., l lln, 1 25n, 1 27n

Chimenti A., 3 14n, 3 37n

Conti S., 3 6 1 n

Chiorazzo V., 5 lln, 525n, 527 e n, 528n

Coppola G., 409

Chirac J., 479, 521n

Corbetta P. G., 1 9 9 n, 3 1 2n

Ciampi C . A., l9, 3 2n, 33n, 40, 4 2-3, 45, 87 e n,

Corrias P., 72n, 5 1 9 n

1 0 8-9, 1 23, 1 3 3 , 1 3 4n, 1 3 5-6, 141, 1 4 6, 1 5 0n,

Corsini P., 1 9 6 n

154, 162 e n, 164, 249, 341, 383 e n, 3 8 5 e n,

Coscia C., 524n

3 8 6 e n, 3 87, 3 8 8 e n, 3 8 9-92, 3 9 3 e n, 394 e n,

Cosentino F., 8 5 n

395, 396 e n, 397 e n, 3 9 8, 3 9 9 e n, 400-1, 428,

Cossiga F. , 3 1 , 3 3 e n, 3 4-6, 3 8 -9, 103, 227n, l30,

504, 514, 515n, 5 1 9 e n, 5 ll, 5 l5n

l64, 266, 28 1 n, l82n, 283 e n, 3 0 l-3, 3 29, 425,

Ciancimino V., 220

47 5· 493

532

IND I C E D E I N O M I

Cossutta A., 245 e n , 247, 263, 275 Costa R., 29I, 294, 298-9, 30 I-2, 305

D 'Alema M., 26 e n, I35, I7on, 248 e n, 249 e n, 250 e n, 25I, 252 e n, 256-7, 26I, 265 e n, 27 I e n, 27 9, 2 8 on, 2 8 3 e n, 3 I On, 3 I 6n, 343 e n, 344 e n, 43I, 434, 517 e n, SI8 e n, S I 9 e n, 523 e n, 524n

Costa Bona E., 525n Costanzo M., 79n, 3 I 8 n, 4 27n Costi R., I 22n Cotta M., 57 n, 49 on, 49 8n, soon

D 'Alimonte R., 97n, 504n

Cotta S., I 8 8

Dalla Chiesa N., 3 4 6 n

Cotturri G., 26n, 255, 256n, 263n

D 'Ambrosia G ., 75n

Co tula F., I 26n

Damilano M., 67n, 79n, 8 on, 8 m, 83n, 2I5n, 285n,

Cova A., I 24n

3 46n, 3 83n Dandolo F., 3 6 2n

Covatta L., 40n, 4In, 248n, 276n, 2 8 on, 2 8 I n, 282n , 3 Ion, 3 22n, 3 27n, 3 9 5n, 493n

D 'Angelo A., I 8 6n

Crainz G., 3 8n, 45n, 67n, 76n, 88n, 267n, 375n,

D 'Antone L., I 29n

3 83n, 425n, s u n

Darida C ., I03, IOS e n

Crapis G., 79n

Da Rold G., S I 2n

Craveri P., 25n, 29n, 1 28n, 228, e n, 234, 2 8 9 n,

D 'Atena A., 94n

29on, 3I 6n, 3 22n, 3 6 sn, 3 67n, 37 5n, 4o6n,

Dau M., 208 e n

464n, 492n, 5 1 2n

D 'Auria G ., I 0 2n

Craxi B., 23-4, 3 9 e n, 68n, 70, 72, 74 e n, 78, 79n,

D 'Autilia M. L., I 0 2n

8 o, I03, I 9 2, 208, 2I9, 227n, 228, 23 I, 235-6,

Davigo P. C., 7 5n, 83 e n, 3 3 8 e n

23 9 e n, 24I, 24 2n, 243 e n, 244n, 24 6 e n,

De Benedetti C., 340

247 e n, 248 e n, 250-2, 256 e n, 257, 258n,

De Bernardi A., 438n, 446n

266 e n, 26 9 e n, 270 e n, 27 I e n, 27 2 e n,

De Bortoli F., 345

273 e n, 274 e n, 27 5 e n, 276 e n, 277 e n,

Decaro C., 9 3 n

278 e n, 279 e n, 2 8 0 e n, 28I e n, 282 e n,

D e Caprariis V., 4 9 I n

283 e n, 284 e n, 285 e n, 286 e n, 287 e n,

De Cecco M., I 22n, I 24n, I 3 I n

29 0 e n, 300, 3 I8, 32In, 322 e n, 327, 3 29 e n,

D e Felice F., 437 e n, 4 3 9 n

335, 337 e n, 339, 371n, 372 e n, 395 e n, 3 9 6, 426, 444, 464 e n, 494n, 495-6, S I 2 e n, S I3n

De Felice R., 443, 444 e n De Fiores C ., 34n, 42n

Cremaschi G., SI7n

De Gasperi A., 23, I 9 0, 206, 28 9, 406

Crepax N., 362n

de Gaulle C., 250, 309n, 343n, 403n, 435, 452n

Crisafulli E., 494n

De Giorgi F., 206, 207n, 2I4 e n, 2I 9 e n, 222 e n,

Crispi F., I I I, I 6 2

3 2on

Croce B., 3 I 2, 477, 49 0n

De Giovanni B ., 94n, 23 0n, 279 n

Crucianelli F., I7on

Degl' Innocenti M., 287n, 290n

Cruciani S ., 400n

De Gregorio C., 344n

Cuccia E., I3 I-2, I33 e n, I35, I38, 5I4, SISn

De loanna P., I49 n, Ison

Curi U., 495n

Del Colle B., S I 6 n

Curreri S., 89n

Del Giudice A., 27 9n

Curti A., I44, ISO

D ' Elia G ., 9 9 n

Curtin D., 95n

Dell'Anna M. V., 75n

Cusani S., 78 e n

Della Porta D., 67n, 223n, 294n

Cusmai E., 3 6 s n

Dell' Era T., 407n Del Monte A., 3 63n

D 'Agostino G ., 233n

Del Noce A., I 94, 2I7n, 407n, 4Ion, 420

DahrendorfR., 242

De Lorenzo F., 30I, 305

533

IND I C E D E I N O M I

D e Luca S., l94· 301

Einaudi L., 29, 159n, 227n, 41 0n, 420

De Luna G ., 334n, 3 6 9n, 454n, 494n De Martio F., 1 9 0, 241 De Marzio E., 474

Elia L., 3 5, 214, 218 e n, 3 21 n

De Michelis G., 3 9, 27 2, 279 e n

Fabbrini G., 63n

De Mira C., 23-4, 1 64, 1 9 1 , 213, 223, 225, 227 n,

Fabbrini S., 21 9n, 222, 259n

Evola J., 477, 4 9 1 n

228 e n, 229 e n, 23 1 e n, 25 8 e n, 272 e n,

Faenza V., 5 22n

278 e n, 28 on, 28 1, 294, 3 1 0n, 3 20, 321 e n,

Faggioli M., 1 8 8 n

327, 497n, 5 1 2 e n

Falcone G ., 3 8-9, 70, 72-3

De Mucci R., 495n

Fanfani A., 15sn, 1 64, 1 8 8 , 1 9 1 , 207, 294, 3 14, 3 20, 491 e n

De Nardis S., 136n Dente B., 53n

Fanti G ., 3 6 5 e n, 3 6 6

De Rosa G ., 1 9 6n, 225 e n, 228n, 230, 23 1 n, 237n,

Fantozzi A., 1 64, 520n

3 67n, 383 n, 493n, 497n

Fasanella G., 33n

D ' Errico E., 5 22n

Fasone C., 8sn

De Siervo U., 8 s n, 3 67n, 3 8 on

Fassino G., 301

De Sio L., 425n, 4 9 6 n

Fassino P., 13 6n, 256, 285n

Devoti L., 227n

Fauri F., 3 8 s n

Diamandouros N., 3 58n

Fazio A., 1 3 5, 137, 1 3 8 e n, 1 3 9

Diamanti 1., 47n, 48n, 68n, 224n, 225n, 297n, 328n,

Featherstone K., 3 0 n

334n, 352 e n, 3 53n, 3 54n, 3 ssn, 3 6 8 e n, 370n,

Fedele M., 37n, 3 9 n, 4 1 n, 70n, 498n

37 1 n, 37 3 n, 374n, 375n , 378n, 37 9 n, 429n, 453 e n, 458 e n, 46sn, 489n, 494n, 519n

Fele G., 78n Feltri V., 342 e n

Di Capua G., 230 e n

Ferrara G., So, 8 1 e n, 202, 443

Dickmann R., 9 0n

Ferrari P., 43 8n, 446n

Di Gaspare G., 8 9 n

Ferri G., 1 27n, 1 3 1 n, 13 4n

Dini L., 1 0 9, 164, 5 10, 5 1 9n, 522

Festa L., 1 3 8 n

Di Nucci L., 4 1 6, 461, 5 1 0n

Finetti U., 243n, 244n, 27 0n, 27 1n, 27 2n, 28 on Fini G., 71, 82, 92, 3 26, 424, 427, 429, 455-6, 475-6,

Di Pietro A ., 71 e n, 72, 75, 78 e n, 79n, 8 1 e n, 23 6 . 303, 3 3 9. 341, 345 . 52on Di Robilant A., 279n, 520n

Fioravanti M., 1 8 n

Di Siena P., 521n

Fiorucci G . , 8 9 n

Di Vico D., 133n, 3 8 on

Fisichella D., 4 9 1 n

Di Virgilio A., ssn, 4 23n

Flores M., 4 9 2n

Dolando M., 29 8

Flores d 'Arcais P., 344 e n, 495n, 51 3n, 5 24n

Donar Cattin C., 211

Foa V., 174n, 450 e n

Dondi W., 27 5n, 51 0n, 515n

Folli S., 5 1 4n

Donegà C., 454 e n

Follini M., 19 6n, 225 e n

Donolo C., 487n

Fontana S., 1 9 5n, 1 9 6 n

Dossetti G., 218n, 219, 224 e n, 439, 497n

Fontolan R., 217 e n, 328n

D raghi M., 1 3 8, 1 6 4

Forlani A., 7 8, 103, 191, 1 9 5 e n, 212, 223, 227n,

4 8 1, 484, 486, S O l , 509

Dubcek A., 3 1 6

23 6 e n, 272 e n, 283, 3 27-8, 5 1 2

Duilio L., 9 8 n

Forlenza R., 3 9 9n, 400n

Duva A., 1 29n

Forleo R., 223

Duverger M., 149n

Formentini M., 249, 377, 427

Dyson K., 30n

Formica R., 1 64, 274, 277

534

I ND I C E D E I N O M I

Formigoni G., 21on, 215n, 221, 3 15n, 3 84n

Garzia A., 496n

Formigoni R., 213, 214 e n, 21 8, 237, 430

Gaspari 0., 400n

Forte M., 237n

Gaspari R., 105

Fortino A., 221n

Gasparri M., 345, 4 8 1

Fortuna L., 1 8 8

Gatti C., 8 9n

Fracanzani C., 27 8

Gatti R., 23 2n

Francavilla T., 304 e n

Gava A., 164, 223

Francesco

I (]orge Mario Bergoglio), papa, 204

Gelli L., 27 1 e n

Francese A., 284n

Gentile E., 3 57 e n, 3 83n, 477

Francese M., 1 4 2n

Gentile P., 490n

Franchi P., 28 5n, 509n

Gentiloni V. 0., 1 9 9

Franchini C., 1 05n, 109n

Gentiloni Silveri U., 3 83n, 384n, 3 85n

Franco F., 3 22

Gerbi S., 406n

Franzinelli M., 1 8 6n

Geronzi C., 133n, 135 e n

Franzini M., 3 8 6n

G ervasoni M., 67n, 1 3 2n, 1 9 2n, 1 9 9 n, 223n,

Frascani P., 362n, 3 63n

230 e n, 237n, 239n, 240n, 242n, 244n, 248n,

Fraschini A., 53n

249n, 25 1 n, 256n, 266n, 26 8 n, 286n, 29 0n,

Frattini F., 1 1 2

3 21 n, 3 22n, 3 29 n, 33 0n, 33 4n, 3 37n, 3 40n,

Frosini G., 21 1 n

3 46n, 3 6 9n, 37 1 n, 372n, 373n, 374n, 375n,

Fumo L., 209n

378n, 3 8 3 n, 3 9 5n, 464n, 5 I I n, 5 1 2n, 513 n

Funari G., So e n

Ghezzi E., 73n, 79

Fusaro C., 96n

Ghezzi P., 218 e n, 219 Ghirelli A., 273 e n

Gabaglio E., 208

Giacone A., 1 8 6n

Gaber G., 481

Gianfrancesco E., 9 8 n

Gaggi M., 133n

Giannini G., 408 e n, 409 e n, 41 9-20

Gaiotti A., 210

Giannini M., 103n, 38 5n, 3 94, 48 6n, 5 22n

Gaiotti P., 207, 209 e n, 210 e n, 214, 21 6n, 21 9,

Giannini M. S., 101 e n, 102 e n, 103 e n, 104 e n,

222 e n, 223 e n

10 5n, 495

Galante Garrone A., 40n

Giannola A., 3 63n

Galasso G., 40n

Giavazzi F., 137n, 525n

Galavotti E., 5 1 2n

Gibelli A., 1 99 n, 485n

Galeotti S., 23n

Gifuni G., 3 9 3

Gallerano N., 443 e n, 492n

Giglioli P. P., 7 8 n

Galli G ., 2o6n, 207n, 372n, 493n, 4 9 6 n

Ginsborg P., 19 9n, 22on, 228 e n, 369n, 373n, 375n,

Galli S. B., 3 6 5n

4 26n, 456n, 494n

Galli della Loggia E., 76, 3 83n, 404n, 427n, 430,

Giolitti A., 3 6 2

440, 441 e n, 442 e n, 444, 4 6 1 n, 495n,

Giolitti G., 28 9 n

497n, 51 0n, 5 1 3n, 528n

Giordano F., 1 22n, 1 3 0n Giovagnoli A., 87n, 1 8 sn, 1 8 6n, 18 7n, 1 8 9 n, 192n,

Gallino L., 378n, 3 8 6n, 4 1 6 n Gallo F. , 1 64, 3 9 6 n

1 9 3n, 1 94n, 21 2n, 227n, 228n, 23 0n, 234n,

Galloni G., 3 6

235n, 3 1 5n, 3 25n, 3 6 2n, 3 6 3n, 37 1 n, 3 8 4n,

Gambino S., 63n, 498n, 501n

4 9 2n, 495n

Garavini S., 247, 249n, 262

Giovanardi C., 8 m

Gardum E., 509n, 5 1 2n

Giovanni

Garrigue G., 309n

XXIII

papa, 1 8 6

53 5

(Angelo G iuseppe Roncalli) ,

I ND I C E D E I N O M I

G iovanni Paolo

n

(Karol Woj tyla) , papa, I O,

I9I e n, I95, I 9 8 , 200, 203, 23 2, 233n, 377 e n,

G uazzaloca G., 3 I 7 e n Gubert R., 223 G uerrieri S., 8 5n, 254n

463 e n Giraudi G., 499n

G uerzoni L., 2I9n, 224, 320n

Giscard d ' Estaing V., 322

G uillame S., 309n

Giuli A., 476n, 47 8 e n, 479n, 4 8 I n

G uiso A., 24 2n, 3 29n, 5 I 3 n

Giunta A., 3 8 on

G uiso L., I 3 6 n

Giuntella P., 2I4, 2I 8-9, 220 e n, 22I e n, 222

G uiso N., I 95n

Giussani L., 2I6-8, 225, 48 I Giusti M., 79 Glisenti G., 2I4 Glorio C., 222 G nesutta C., 3 8 8n, 3 9 0n Gobetti P., 48I Goldscheid R., I59 e n Gomà R., 5m Gomez P., 67n, 7 2n, 75n, 83n Gomez (Reino Cachafeiro) M., 334n Gonzales F., 3 25 Gorbacev M., 23 I, 242, 27 on, 273n, 328 e n, 4 62, 463 e n Goria G., I 64 Gorrieri E., 106 e n, 206 e n, 207, 2I9n, 222 e n, 224, 237, 320 e n, 3 28n, 3 29, 5 I on Gotor M., 87n Gozzini G., 6 9 n, 79n G ramsci A., 23 I, 270n, 3 I 2, 4I8, 464 G rassi L., 79n G rassi Orsini F., 289n, 406n G rasso A., 77 e n, 78n, 79n G raubard S. R., 3 I 2n, 3 I3n G raziani A., 3 8 8n G reganti P., 73-4 G rimaudo P., 498n G rilli di Cortona P., 498n G rillo B ., 3 46 , 3 47 n, 505-6 G ritti R., 495n G ronchi G ., 33n G roppi T., 53n, 93n G ualdo R., 75n G ualerni G., 21 6n G ualtieri R., 230 e n, 253n, 256n, 464n G uareschi G., 405, 406n

G unther R., 3 58 n Guolo R., 225n G uzzetti G ., I 3 8 Hellman S ., 284n Hermet G., 333n Heukels T., 95n Hine D., 48 5n, 486n Hobsbawm E. J., 23 I n Hopkin J., 4 3 I n Huysseune M., 375n lgnazi P., 4 9 n, 230n, 2 4 I n, 26 on, 3 53n, 42 4n, 4 25n, 43on, 433n, 455n, 46 5n, 476n, 47 8 n, 48 0n, 485n, 5 I I n Imbriani A . M., 405n, 408n lmpagliazzo M., I 8 9 n, 3 I 6n, 3 20n lngrao P., 227 n, 2 47, 255, 256n, 263n, 27 5 e n, 278 e n, 4 9 I n lntini U., 495n lnwinkl F., 264n lnzerillo U., I 3 6 n lotti N . , 4 I n, 264, 27 I, 3 I On, 496 lppolito R., 5I5n lrdi L., 73n Irti N., I 9 n, 28n Isernia P., 5oon lvaldo M., 2I4 Jacobelli J., 444n Jacoviello A., 270, 376n Jannazzo A., 28 9 n Jaume L., 405n ]ori F., 37In, 378n Jospin L., 525-6 Judt T., 3 84n

G uarino G ., 1 25n, I 3 m, I67, I 7 I, 3 8 on G uarnieri C., 5 I 3 n

Katz R., 424 e n, 43 5 e n

G uasco M., 207n

Kawata J., 494n

I ND I C E D E I N O M I

Kelsen H., 267

Loera B., 4 2.5n

Kessler B., 206

Lombardi G., I 8 8

Khomeini R., 304

Lombardini S., I50n, I 5 2n

Kirchheimer 0., I 9 n, 309 e n

Lombardo A., 492n

Kohl H ., 3 26, 3 8 8, 3 9 8, 40I, 52In

Lonardi G., 3 6 9 n Longanesi L., 405, 406n

Laclau E., 504n

Longo L., 248, 3 25

Laconi R., 49In

Lorelli A., 63n

La Francesca S., I 22n, I 24n, I 27n

Luchetti D., 76

Lagorio L., 274, 285n

Luciani M., 27n, 42n

La Malfa G., 78, I33n, 235, 237, 3 o o-I, 5 I 5n

Lumia G ., 220

La Malfa U., I49, 299

Luna R., 5 0 9 n

Lampugnani R., 509n

Lupo N., 85n, 8 9 n , 9 2n, 9 9 n , Ioon

Lanaro S., 383n, 4 5 I n

Lupo S., 4 I 2n, 446n, 447, 462n, 49 I n, 496n

Lanchester F., 26n, 8 6 n, 26 8n, 4 8 9 n

Luttazzi D., 345

Landi C., 3 05n

Luzi G., 509n

Landi G ., 207

Luzzatto Fegiz M., 338n

Langenbacher N., 483n Lanni A., 505n

Macaluso E., 2.77 e n, 284n

La Pira G., 43 9

Macario L., 206

La Russa 1., 4 8 I

Maccanico A., I34n

La Spina A . , uon

Macchiati A., I 2.2.n

La Valle R., 2.0 8

Mafai M., 27 8 n

Lazar M., 486n, 489n

Magister S., 209 e n

Lazzati G ., 209-Io, 2I4, 2.I5 e n, 2.I7 e n, 2I8 e n,

Magnifico G ., 3 85n

2I9

Magri L., 262

Legnante G ., 425n, 426n

Maier C. S., 384n

Leiss A., 3 4n, 2.67n, 283n

Mainardi R., 3 6 8 n

Leni n V. l. U., 2.3 I

Mair P., 424 e n, 4 3 5 e n

Leonardi R., 367n

Malagodi G., 28 9 e n, 293, 297, 406n

Leone G., 337, 49In

Malgeri F., 222, 23 2

Le Pen J.-M., 479

Mammarella G., 3 83n, 385n, 5Ion

Le Pen M., 484 e n

Mammì 0., I97, 229 e n, 278 , 426

Lepre A., 3 4n

Mancina C., 523n

Lerner G., 8 1, 3 1 8n

Mancini G ., 1 6 8 , 17I

Letta E., 9 6

Mancini P., 224n

Levi A., 3 8 6n

Mancino N., 5 I O

Levi L., 3 2n

Mandolini M., 23 3n

Levi R. F., 5 I I n, 5 I 2n

Mangiameli S., 93 n, 499n

Ligresti S., 74

Mann T., 405n

Lima S., 79 e n, 220

Mannheimer R., 2.2.4n, 334n, 3 5 I n, 3 5 2.n, 4 29n

Linz J., 3 5 4 e n Lipari N., 207, 209, 2I3, 222

Mannino C. A., 278 Mannozzi C., 83n

Lippolis V., 87n, 9 6 n

Manzella A., 8 6n, 9 3 n, 9 8 n

Liucci R., 406n

Maraffì M., 222.n, 23on, 425n, 456n, 477n, 494n,

Livolsi M., 426n, 496n

5IIn

537

I ND I C E D E I N O M I

Maranini G . , 3 20n, 406n, 446 e n, 49 0n, 491n

Meniconi A., 9 2n, I I 3n, I I 5n

Marchi M., 222n, 3 09 n, 328 n

Mennella G. F., 5 1 9n, 5 23n

Margiotta Broglio F., 1 93n, 1 9 5n

Mennitti D., 439 e n, 4 40, 4 6 5, 468

Marinetti F. T., 4 8 1

Menozzi D., 217n

Marini D., 378n

Mentana E., S o

Marini F., 235 e n

Mereu A., 5 1 2n

Maritain J., 202, 206, 225

Meriggi M., 3 6 1 n, 3 6 9 n

Marletti C. A., 3 47n

Merloni Francesco (docente universitario), 105n

Maroni R., 376n, 483

Merloni Francesco (ex ministro dei Lavori pub-

Marro E., 3 69n, 521n

blici), 6on

Marroni S., 284n, 285n

Merusi F., 1 0 2, n on, 1 3 1 n

Martelli C., 35-6, 39, 242, 243 e n, 270, 272n, 274,

Messina S., 279n, 282n, 283n, 5 1 4n

276n, 28on, 283 e n, 285 e n, 286, 5 1 2n Martinazzoli M., 3 6, 1 9 5 , 1 9 6 e n, 197, 213, 223 ,

Messori M., 1 1 2n, 13 4n, 135n, 13 6n, 137n Meynaud J., 490n

225, 227n, 228 e n, 229n, 233 e n, 234 e n, 235n,

Micossi S., 94n

23 6, 237 e n, 278, 4 28-9, 497n, 5 1 4 e n

Miglio G ., 23n, 374, 444 e n, 445

Martini C. M., 1 9 8 , 217-8

Milani E., 255

Martini F., 277n, 27 9n

Milani L., 75 e n

Martino A., 299, 447

Minghetti M., 47 1

Marx K., 231

Minoli G., 6 8 n, 287n

Marzano M., 225n

Minucci A., 258

Masciandaro D., 1 3 8 n

Minzolini A., 28 6n

Massacesi E., 214

Misasi R., 278

Massari 0., 430n, 497n

Miserendino B., 5 1 6 n

Mastella C., 237

Missiroli M., 290

Mastropaolo A., 403n, 406n, 4 1 2n, 451 e n, 490n

Mitterrand F., 244 e n, 274n, 3 22, 325

Mattarella B. G., 1 17n

Modugno F., 22n

Mattarella P., 221

Moioli A., 1 24n

Mattarella S., 98n, 278, 3 9 8n

Molteni A., 215 e n

Mattesini F., 134n

Monaco F., 222

Matteucci N., 3 2n

Monina G ., 367n, 407n, 493n

Mattioli R., 1 24n, 1 25, 1 3 1 n

Monod J., 3 9 n

Mauro E., 28 6n, 5 22n

Monorchio A., 164, 173

Mazzacane A., 107n

Montanelli 1., 74 e n, 81 e n, 405, 406n, 410, 462,

Mazzacurati C., 76 Mazzella L., 1 1 2 Mazzoleni G., 224n, 347n Meccia A., 77n Medici G ., 149

481 Montesquieu C.-L. de Secondat barone di La Brède e di, 504 Monti M., 30, 95 . 1 21 n, 1 24n, 13 8n, 200, 203, 505-6, 52 m

Melchionda E., 495n

Monti V., 5 1 6 n

Meli M. T., so9n

Monticone A., 21 8

Melis G ., 1 0 2n, 1 0 3n, 1 05n, 1 o 6 n, 1 07n, 1 o 8n,

Morando E., 23 0n

10 9 n, 1 13n, 1 15n

Moratti L., 431

Mellone A., 4 8 1 n, 497n, 515n

Moretti N., 76, 344 e n, 345

Melloni A., 213n, 224n, 5 1 2n

Mori R., 105n

Menichella D., 1 25-6

Morisi M., 68n

IND I C E D E I N O M I

Olivetti M., 3 5n, 88n, 9 3 n

Moro A., 25 e n, 3 3 , 67n, 8 7 e n , 8 8n, I 86 e n, I 8 7 e n, I 8 9, I 9 I, I 9 6-7, 208, 2IO-I, 267n, 3 3 8,

Olivi B., 3 85n

37 5n, 3 83n, 43 9, 493n

Onado M., I 23n, 1 26n, I 27n

Moro C. A., 8 I, 2I2 e n, 224

Onida V., 2In, 2I6 e n

Moroni S., 8 I

Orefice V., 495n

Morricone E., 4 8 I

Orfei R., I 9 6 n, 2I3n, 23 3n, 325n

Mortati C ., 24 e n, 46 e n, I49

Orlando L., 73, 82, 220 e n, 22I-2, 328, 334-6, 494n

Moschella G ., 498n

Orlando S., 76

Mounier E., 206, 2I9

Orsina G., I 9 2n, 289n, 3 I 7n, 3 8 on, 406n, 407n,

Mucchetti M., I3 3n, I35n, I 3 9 n

49In

Murri R., 3 20n

Ostellino P., 346 e n, 52In

Musella L., 6 8 n, 495n

Ottone P., 32I

Musi A., 40 on, 499n Mussolini A., 484

Pace A., I 4 2n

Mussolini B., 3 46, 40 6n, 4 6 on, 476

Pace E., 225n Padoa-Schioppa T., 29, I5I, I75, 3 8 s n

Napolitano G., 3 I e n, 4 2n, 45, 8 I, 9 6 e n, Io on,

Paganetto L., n on

200, 227n, 237n, 24I, 2SI e n, 258-9, 26I, 27 5n,

Paggi L., 439n, 449 e n

277 e n, 284 e n, 285n, 286n, 3 25n, 3 27, 400,

Pajetta G. C., 27 I

5 20n

Paladin L., 22n, I o5n, 3 9 6n

Nardelli F., 227n

Panetta F., I 3 4n

Natale P., 3 5 2 e n

Pannella M., 3 27, 400, 49In

Natta A., 227n, 256-9, 270 e n, 27 I

Pannunzio M., 29I, 292n, 299

Negri L., 20 9

Pansa G., 70 e n, 76, 493n

Nencic M., 409

Paolo V I (Giovanni Battista Montini), papa, IO,

Nenni P., 443

I 8 5 e n, I 8 6, I 8 9, I 9 I e n, I 9 2, 209

Nepi P., 23 2n

Paolozzi L., 5 22n, 5 23n

Neri Serneri S., 4 3 8 n

Paolucci C., 430n, 43I-2

Nerozzi S., I 29n

Pappalardo S., 22I

Newell L., 494n

Papuzzi A., 509

Newman B. l., 497n

Paratore G ., I49

Nicolais L., I I 2

Parenti T., 75n

Nicoletti M., 2I 9

Parlato G., 406n

Nicolosi G., 289n, 29 2n, 3 26n, 406n, 490n

Passalacqua G ., 27 In, 373n

Nobili F., I7I, 5 I 2n

Passarelli G ., 297n

Noiret S., 495n

Passerin d ' Entrèves E., 206

Novelli D., 249

Pasquini G., 227n

Novelli E., 4 25n, 4 28n

Pasquino G., 25n, I 9 5 n, 222, 225, 256n, 284n, 470n, 473n, 489n, 5 0 2n, 504n, 5I3 n, 5 2 I n

O berti A., 2I7n

Pastori G., I 0 2, 2I4

Occhetto A., 9n, 70n, 227 n, 230-I, 23 4n, 24I,

Patroni Griffi F., 1 1 7

24 2 e n, 244, 245 e n, 247 e n, 249, 250 e n,

Patrono M., 49In

253, 256-7, 258 e n, 259 e n, 260-5, 266 e n, 267 e n, 268, 270, 27I e n, 272, 273 e n, 274 e n,

Patuelli A., 28 9 e n

275-7, 278 e n, 27 9 e n, 28 I n, 282, 283n, 284,

Pavone C., 3 84n Pazzaglia L., 207 e n, 2o8n, 2IO e n, 2I4, 222

285 e n, 28 6 e n, 3 29, 342-3, 485, 49 5-6 Occorsio E., 376n

Pecchioli U., 260, 494n

539

I ND I C E D E I N O M I

Pedrazzi L., 207, 208 e n, 214 e n, 219, 23 2n

Pizzorusso A., 494n

Pedullà G ., 68 n, 8 1 n, 305n

Poguntke T., 497n

Pellegrino B., 23 9n

Poli E., 3 1 4n, 4 28n, 447n

Pellegrino C., 73n

Polito A., 284n

Pellegrino G., 33n

Polsi A., 1 22n

Pellicani G ., 256, 26 0

Pombeni P., 222n, 3 3 1 n

Pellicani L., 464n

Pons S., 228n, 23 1 n, 23 4n, 240n, 2 4 2n, 26 on, 273n, 323n, 3 28n, 384n, 463n, 5 1 2n, 5 1 3 n

Pellicanò G ., 13 4n Pelosi G., 521n

Posner R . A., 1 4 8 e n

Peluffo P., 29n, 13on, 3 8sn

Possanzini D., 8 6 n

Pera M., 446n

Possieri A., 3 29n, 371n, 5 1 1 n

Perassi T., 149

Pototschnig U., 1 0 2

Perfetti F., 8sn

Pratesi P., 208

Perissich R., 43n

Preda A., 1 8 9n

Perotti R., 136n

Preterossi G., 8 8n

Persico A. A., 1 83n, 3 62n, 3 6 3n

Prezzo lini G., 407

Pertici R., 41 6n, 4 6 1 n, 46 2n

Prodi P., 206-7, 210, 211 e n, 221

Perticone G., 8 sn, 4 9 1 n

Prodi R., 27, 29, 88, 1 1 2, 1 3 2n, 133 e n, 141, I S I , 156, 20 2, 206-7, 217, 225, 227n, 343n, 345, 346 e n,

Pertini S., 37n, 75, 7 6 n Petrelluzzi R., 7 8

347, 365 e n, 3 8 8, 3 9 2-3, 502n, 509 e n, 5 1 0 e n, 5 1 1 e n, 5 1 2 e n, 5 1 4 , 5 1 5 e n, 5 1 6 e n, 5 1 7-8, 5 1 9

Petri R., 1 23n

e n , 5 20, 521 e n, 5 22, 524 e n , 525-8

Perugini P., 3 6 6

Petriccione L., 1 0 2

Prospero M., 257n

Petrini C., 4 8 1 Petrini R., 494n

Pucci E., 3 63n Puri Purini A., 3 8 6n

Petruccioli C., 256

Putnam R., 3 67n, 4 9 8 n

Pianta M., 3 8 6n

Puviani A., 1 5 9 e n, 1 6 on, 1 63n, 1 6 5 e n , 1 68, 172n, 176n

Piccirilli G., 9 on, 9 2n Piccoli F., 212, 321

Quagliariello G., 23n, 7 1n, 8 6n, 1 99n, 215n, 228n,

Pichierri A., 372n

234n, 3 1 7n, 5 1 2n

Piermattei M., 267 n Pierobon F., 1 22n Pietrobelli R., 207

Ragone V., 5 23n

Piga F., 1 0 2

Raj an R. G., 137n

Pilo G ., 4 28

Ramella F., 59n

Piluso G., 1 28 n

Rampini F., 525n, 526n

Pinardi D., 338n

Rampino A., 5 22n

Pinelli C ., 34n, 3 5n, 4 2n, 96n

Ranieri U., 286 e n

Pini M., 1 3 2n, 28 sn

Raniolo F., 43 5n, 4 9 8 n

Pinotti F., 21 8 n

Rao N., 474n

Pintacuda E., 217, 220, 221 e n

Rapini A., 438n

Pinto C., 248n

Rauti P., 3 26, 455

Piretti M. S., 1 1 3 n, 218n, 3 1 0n, 3 1 2n, 321 n

Ravveduto M., 7 2n, 73n, 77n, 78n

Piselli F., 59n

Rawls J., 243

Pizzimenti E., 433n

Reagan R., 343n, 403n, 4 28, 452n, 4 6 2, 4 63n,

Pizzolato L., 214, 215n

464 e n Rebuffa G., 26n

Pizzorno A., 37 e n, 3 8n, 1 3 2n, 227n, 513

540

I ND I C E D E I N O M I

Recanatesi A., 1 27n

Ruini C., 94, 1 9 3n, 1 94, 1 9 7, 1 9 8 e n, 1 9 9

Recchia G., 90n

Rullani E., 378n, 3 8 on

Reichlin A., 3 94-s, s x sn

Rumi G., 377n

Reino Cachafeiro M., 3 3 4n

Rumiz P., 379n

Revelli M., 346n

Ruotolo M., 22n

Reviglio F., 1 64, 1 67, 170

Rusconi G. E., 377n, 3 83n, 4S4 e n

Ricasoli B ., 47 1

Russo A., 29 o

Riccamboni G., 3 S3 e n

Russo F., 1 9 sn

Riccardi A., x 8sn, 1 9 1 n, 1 93n, 1 9 9 n

Russo Jervolino R., 223, 22s, 237

Ricolfì L., 37sn, 379n, 4 2sn

Rutelli F., 8 2, 3 9 s-6, so x

Ridolfì M., 6 9 n, 49 0n, 498n Riva M., 1 29n

Sabbatucci G ., 1 21 n, 441n, so9 e n

Rivosecchi G., 9 0n, 9 3 n

Sabetti F., s x n

Rizzo S., 33 9n, 3 4 1 n, so3n

Saldutti N., 1 3 8 n

Rizzoni G., 9 0n, 9 1 n

Salerno G . M., 9 6 n

Robbe F., 406n

Salone C., 3 6 1 n

Robespierre M.-F.-l. de, 304

Saltari E., 3 8 6n

Robotti L., 53n

Salvadori M. L., 284 e n, 287n, 379n, 441n, 464

Rocard M., 244, 322

Salvati M., 1 21 n, 1 27n, 3 3 9 n, s21n

Rodotà M. L., 334n

Salvato E., 263

Rodotà S., 20 e n, 21

Salvemini G., 4 9 1 e n, 4 9 2n

Rogari M., 109n

Salvi C., 63n, 263, 264 e n, 26 s e n, 267 e n

Romagnoli G. C., 3 8 6 n

Salvini M., 483, 484n

Romano A., 240n, 2s6n, 281n, 323 e n

Sam C., 30S

Romano F., 2.23, 499n

Sangiorgi G., 228n, 272n

Romeo R., 27 e n

Sani G., 233n, 3 s 8 n

Romero A., 219

Santaniello G ., 1 0 3

Rom ero F., 3 84n

Santaniello R., 3 8sn

Romiti C., 340

Santarelli E., 49 2n, 496n

Ronchey A., 492n

Santini A., sxon

Rondolino F., 263n, 264n

Santini F., 3 6 sn

Ronzitti N., 94n

Santoro M., 7 9 e n, S o, 341, 34S

Roosevelt F. D., 438

Sapelli G., 13 2n, 3 8 6n

Rosanvallon P., 403n, 4 21 e n, sosn

Saraceno P., x 8 6n, 3 6 2n, 3 63n, 364

Rosati D., 20 8

Sarcinelli M., 1 29, 1 6 4

Rossi A., 409

Saresella D., 2o 2n, 2osn, 22on, 32on, s u n, s 1 2n,

Rossi E., 4 9 1 n, 4 9 2 Rossi Gianpaolo, 206

sr6n Sarkozy N., 3 47, 479 , 48s n

Rossi G uido, 137n

Sartor N., 1 47n, xs3n, 3 8 8n

Rossi N., 379n, S I 9 n

Sartori G., 462n, 490n

Rossi S., 1 2I n, 1 28 n, x nn, 137n, 3 8 0n, 3 8 6n, 3 8 8n

Sarubbi A., 494n

Rotelli E., 22n, 49sn

Saulino F., s 22n, s 23n

Ruffìlli R., 24n, 207, 210, 213, 218 e n, 321n

Saviano R., 7sn

Ruffìni R., 102n

Savino M., non

Ruffolo G., x so, 272n, 3 6 9 n

Savona P., x nn, s x 4, sxsn

Ruffolo M., 278 n

Sbrana F., 3 63n

S41

I ND I C E D E I N O M I

Scalfari E., 25n, 28n, 7 3 n, 227n, 241 e n, 27 5n, 276 e n, 3 21, 3 40, s u n, 5 1 2 Scalfaro O. L., 33n, 3 5 , 37-8, 3 9 e n, 40, 45, 73 8 1,

Somogyi S., 490n Sordi A., 7 1 - 2 Sorge B., 208-9, 210 e n, 217 e n, 220, 221 e n, 23 2n Spadolini G., 156, 1 9 2, 21 2, 227n, 23 2n, 237n, 400

227n, 3 9 0 e n, 3 9 2-4 , 400, 5 0 2, 5 1 4 Scanzi G., 347 n

Spaventa L., 164, 521n, 525n, 5 27 e n, 528n

Scelba M., 53

Spinelli B., 522n

Schadee H. M. A., 485

Spini V., 28 on, 3 9 6 n

Schedler A., 403n, 405n

Stabile A., 270n, 27 5n, 27 8 n

Schellenber B ., 483n

Statera A., 286n, S1 4n, S I S n

Schietroma D., 105

Stella G. A., 7 8n, 8 2n, 8 4 e n , 33 9n, 3 4 1 n, 503n

Schmidt H., 3 2 2

Sterpa E., 29 0, 291 e n, 297, 301, 302 e n

Schmitt C . , 444 Schumpeter J., 159 e n, r 6 o

Steve S., 148n

Scirè G . B., 18 8n, 2osn, 21 2n, 3 1 4n, 3 1 Sn, s u n

Storti B., 206

Scognamiglio C., 1 21 n

Sturzo L., 1 9 6, 204, 206, 207n, 227 n, 2 2 8 n,

Stille A., 3 4 2 e n

237 e n, 429, 49 0n, 494n, 497n

Scola A., 209, 218 Scoppola P., 26n, 67n, 8 6 n, 1 8 6n, 1 9 0 e n, 1 9 5n, 205 e n, 206 e n, 207 e n, 2 0 8 - 9, 21 0 e n,

Tabellini G ., 1 3 8 n

211 e n, 21 2 e n, 213, 215n, 217, 218 e n, 219 e n,

Taguieff P. A., 333n, so6n

222 e n, 223, 224n, 227 e n, 235 e n, 255n, 28 1n,

Tambroni F., 1 8 6

283n, 28sn, 3 1 5n, 320 e n, 3 58 e n, 3 7 1 n, 374n,

Tamburello S., 1 3 8n

3 83n, 399n, 4Sin, 49 2n, S 1 4n

Tamburrano G., 274

Scornajenghi A., 233n, 377n

Tanassi M., 337

Segatti P., 222n, 225n, 23on, 353n, 3ssn, 358 n, 485, su n

Taradel A., 101, 1 0 2n Tarchi M., 3 33 n, 3 45 e n, 4 0 6 n, 4 0 8 n, 4 5 2n,

Segni M., 25, 3 1 , 70 e n, 8 2, 1 9 5n, 1 96, 21 2, 222 e n,

455 e n, 476n, 477n, 504n

224, 227n, 23 5 e n, 23 6 e n, 237 e n, 249 e n, 259n, 26 1, 281 e n, 282, 300, 3 29, 3 3 5-6, 337n,

Tassani G., 207n

341, 3 43, 3 9 2, 427-8, 475, 49 5n, 5 1 4 e n

Terracini U., 255

Tatò A., 287n, 3 1 6 n

Serra M., 8 2, 5 1 2n

Testa S., 4 25n

Setta S., 35 8n, 40 5n, 4o8n, 409n

Thatcher M., 428, 43 5

Sfardini A., 347n

Tiberi G., 94n, 99n

Sgarbi V., 304 e n

Tiraboschi A., 274

Sgorlon C., 4 8 1

Tivelli L., 495n

Sgroi V., 3 8 Siglienti S., 13 4n

Togliatti P., 23 e n, 23 1, 24 8, 25 4 e n, 270 e n, 31 6n,

Signorile C., 272n, 277, 283 e n

3 23n, 3 24-S . 491 e n Tognoli C., 274

Silipo R., 515n

Tognon G., 212 e n, 213, 222

Simoncini A., 99n

Tonini G., 219, 222, 224

Sindona M., 1 29

Toniolo G ., 1 23n, 1 25n, 3 63n

Sirinelli J. F., 309n

Torretta P., 9 0n

Smargiassi M., S l sn, S l 9 n

Tortorella A., 245, 258 e n, 26 5, 27 5

Sniderman P., 3 5 6 e n, 3 57

Tosato G . L., 94n, 149

Socci A., 217 e n, 328n

Tosatti G., 1 0 2n, 1 05n, 1 07n

Soda A., 57 n

Tosi F., 483

Solari G., 1 8 n

Tosi L., 5 25n

Solinas S., 346n

Tranfaglia N., 3 8 3 n, 504n

542

I ND I C E D E I N O M I

Verola N., 94n

Traniello F., 1 93n, 1 9 5 e n, 205, 206 e n , 207, 210, 217n

Verrastro F., I I 3 n, I I 5 n

Travaglini G., 3 8 6n

Verzichelli L., 57n, 503n

Travaglio M., 67n, 7 2n, 75n, 83n Tremonti G ., 29, 137 e n, 1 3 8, 1 64, 345, 414n, 434

Vesperini G ., 497n

Treu T., 5 1 9n, 522, 528 Trezzani C., 376n Trigilia C., 59n, 354, 3 54n, 373n, 379n

Viesti G ., 377n Viglione A., 3 6 6

Trionfìni P., 222n, 3 28n

Vignati R., 477n

Tucciarelli C., 9 3 n

Villa G., 221

Tuorto D., 297n

Villone M., 63n

Turani G ., 1 27n, 5 1 5n

Vimercati D., 33 4n, 495n

Turco L., 256

Viola P., 441n

Turoldo D. M., 21 9

Violante L., 90, 246 e n, 248 e n, 271 e n

Vidotto V., 1 21n Vigilante R., 233n

Visani C., 5 1 5 n Ugolini B., 523n

Visco V., 3 9 5n, 3 9 6

Unfer E., 27 3n

Visconti P., 5 1 2n

Ungari A., 406n

Visentini B., 1 6 2 e n

Ungari P., 85n

Vita V., 428n

Urbani G ., 109, 428 e n, 447 e n, 448-9

Vittoria A., 230n, 256n, 372n

Urbat J., 489n

Vittorini E., 4 8 1 Viviani Schlein M . P., 9 9 n

Vacca G., 26 on, 267n, 450n, 493n, 496n

Volpi F., 159n

Vaciago G ., 3 8 on

Volpi M., 42n

Vaiano D., 134n Valente G., 1 9 9 n

Webb P., 497n

Valentini C., 23 0n, 5 1 4n

Weiler J., 95n

Valentini G., 7 8 n

Wellhofer S., 3 53 n

Valentini 1., 4 9 1 n

Wolleb G ., 47n, 48n

Vali tutti S., 297, 4 9 1 n Valle A., 1 9 6n, 2 1 1 n

Zaccagnini B., 1 8 9 n, 206, 208, 3 27

Vampa D., 485n, 4 8 6 n

Zaccaria R., 9 8 n, 9 9 n

Vandelli L., 52n, 54n, 55n, 106n

Zagari G . , 103

Van Miert K., 43, 171-2

Zagrebelsky G., 1 9 n, 2on

Varasano L., 4 28n

Zamagni G., 1 8 7 n

Varni A., 106n

Zamaro N., 1 o 2n

Varsori A., 85n, 1 23 n, 3 84n

Zandano G., 3 63n

Vassallo S., 489n, 5 04n

Zangheri R., 25 8 n

Vecchio G., 22on

Zanini 1., 5 2 1 n

Vedel G., 3 9n

Zanone V., 2 8 9 - 9 1 , 294 e n, 296 e n , 3 0 2 e n, 304 e n, 305 e n

Veltroni W., 245n, 249 e n, 250, 251 e n, 252 e n, 276, 28on, 282, 343, 503n, 517 e n, 523

Zavoli S., 40n

Veneziani M., 456 e n, 47 8, 505n

Zincone G., 497n

Ventura S., 485n

Zingales L., 13 6n, 137n, 1 3 8 n

Venturino F., 498n

Zizola G., 224

Verba S., 3 55 e n

Zoppoli L., u 6 n

Verderami F., 137n

Zornetta M., 78n

543