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Italian Pages 200 [208] Year 2019
Collana di Scienze Sociali
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16 Corrado Punzi
LA MEMORIA OSTINATA Il cinema di Patricio Guzmán come ricerca sociale
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Corrado Punzi, La memoria ostinata Copyright © 2019 Tangram Edizioni Scientifiche via dei Casai, 6 – 38123 Trento www.edizioni‑tangram.it – info@edizioni‑tangram.it Prima edizione: dicembre 2019 – Printed in EU ISBN: 978‑88‑6458‑161‑3 Isegoria – Collana di Scienze Sociali – NIC 16 Direzione Anna Maria Jellamo, Mariano Longo, Gianpasquale Preite Comitato scientifico editoriale Humberto Bergmann Ávila, Universidade Federal do Rio Grande do Sul, Brazil Giuseppe Cascione, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, Italia Vittorio De Marco, Università del Salento, Italia Fabio De Nardis, Università del Salento, Italia Jorge Douglas Price, Universidad Nacional Comahue, Argentina Giuseppe Gioffredi, Università del Salento, Italia Anna Maria Jellamo, Università della Calabria, Italia Donato A. Limone, Università TELMA “La Sapienza” Roma, Italia Mariano Longo, Università del Salento, Italia Roberto Martucci, Università del Salento, Italia Carlo Mongardini, Università “La Sapienza” Roma, Italia Carlos Padrós Reig, Universidad Autonoma de Barcelona, España Stefano Petrucciani, Università “La Sapienza” Roma, Italia Fabio Pollice, Università del Salento, Italia Gianpasquale Preite, Università del Salento, Italia Antonella Rinella, Università del Salento, Italia Teresa Serra, Università “La Sapienza” Roma, Italia André Ramos Tavares, Pontifícia Universidade Católica de São Paulo, Brazil Pierre Teisserenc, Université Paris XXIII, France Antonio Tucci, Università degli Studi di Salerno, Italia Ughetta Vergari, Università del Salento, Italia Anderson Vichinkeski Teixeira, Universidade do Vale do Rio dos Sinos, Brazil Marta Vignola, Università del Salento, Italia Responsabile di redazione Luca Benvenga Comitato di redazione Filippo Corigliano, Giuseppe Gaballo, Patrizia Miggiano, Matteo Jacopo Zaterini In copertina: Bruno Barillari, 2001
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Collana peer review sottoposta a valutazione scientifica. Il regolamento e la programmazione editoriale sono pubblicati sul sito dell’editore all’indirizzo www.edizioni‑tangram.it/isegoria Pertinenza disciplinare e settori ERC (European Research Council): La Collana Isegoria pubblica opere pertinenti e/o affini ai Settori ERC SH: Social Sciences and Humanities del Consiglio Europeo della Ricerca, https://erc.europa.eu. In particolare le fasi di revisione interessano i seguenti ambiti disciplinari: SH1 Individuals, institutions and markets SH1_5 Political economy, institutional economics, law and economics SH1_9 Competitiveness, innovation, research and development SH1_12 Public economics SH1_14 History of economic thought, quantitative economic history SH2 Institutions, values, beliefs and behavior SH2_2 Social policies, work and welfare SH2_5 Democratization, social movements SH2_7 Political systems and institutions, governance SH2_8 Legal studies, constitutions, comparative law, human rights SH2_9 Global and transnational governance, international studies SH2_10 Communication networks, media, information society SH2_11 Social studies of science and technology SH3 Environment and society SH3_1 Environment, resources and sustainability SH3_5 Population dynamics, health and society SH3_10 Urban studies, regional studies SH3_11 Social geography, infrastructure SH3_12 Geo‑information and spatial data analysis SH6 The study of the human past SH6_6 Modern and contemporary history SH6_8 Social and economic history SH6_10 History of ideas, history of sciences and techniques SH6_12 Historiography, theory and methods of history Stampa su carta ecologica proveniente da zone in silvicoltura, totalmente priva di cloro. Non contiene sbiancanti ottici, è acid free con riserva alcalina
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Il documentario è una fonte di creazione artistica, ma rappresenta soprattutto la coscienza critica di una società. Rappresenta l’analisi storica, geografica, ecologica, sociale, scientifica, artistica e politica di una società. Un Paese che non ha un cinema documentario è come una famiglia senza memoria, senza specchio, senza album di fotografie. Patricio Guzmán
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INDICE Prologo – Cinema come memoria
13
Atto I – La ricerca visuale come unità tra arte e scienza
23 23 34
1.1 La genesi di un trauma come imposizione di una differenza 1.2 La sociologia visuale, figlia di un’accademia minore
Atto II – Il cinema di Allende
47 47 82 101
Atto III – Il cinema di Patricio Guzmán
113 113 132 151 167
Epilogo – Ecologia della memoria
175
Bibliografia
187
2.1 Le ricerche visuali del cinema allendista 2.2 La memoria clandestina: il cinema di Miguel Littín 2.3 La memoria assolutoria: il cinema di Carmen Castillo
3.1 Le memorie del futuro: il sogno aparecido 3.2 La memoria traumatica: La Battaglia del Cile e il sogno desaparecido 3.3 La memoria ostinata 3.4 La memoria della (in)giustizia
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LA MEMORIA OSTINATA Il cinema di Patricio Guzmán come ricerca sociale
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Prologo – Cinema come memoria
L’11 settembre del 1973 le Forze Armate cilene, guidate dal genera‑ le Augusto Pinochet e sostenute dagli Stati Uniti, bombardarono il Palazzo di governo, La Moneda, e “suicidarono” Salvador Allende, il primo Presidente socialista eletto democraticamente, appena tre an‑ ni prima. Questo colpo di stato è sicuramente uno dei più celebri del‑ la Storia: innanzitutto per il modo volutamente spettacolare in cui è avvenuto, con la precisa intenzione di mostrare lo “splendore del supplizio”1, per minacciare e addomesticare qualsiasi sogno rivolu‑ zionario, tanto in Cile quanto in altre parti del mondo2; in secondo luogo, perché durante la dittatura instaurata dopo il golpe, il Cile di‑ venne un laboratorio per testare l’applicazione delle politiche econo‑ miche neoliberiste di Milton Friedman, poi applicate anche negli anni L’ormai famigerata espressione ‘splendore del supplizio’ è stata utilizzata da Michel Foucault per descrivere una delle principali pratiche del potere pre‑moderno, repressi‑ vo e corporale. L’espressione si riferisce a una punizione tanto pubblica quanto spetta‑ colare, un rituale espiativo che aveva la funzione di celebrare e ricostituire la sovranità, ma soprattutto di mostrare l’intrinseca superiorità del potere e di terrorizzare, impe‑ dendo che qualcun altro seguisse l’esempio del “criminale” punito. Cfr. M. Foucault (1975), Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it., Torino, Einaudi, 1993, pp. 35‑75. 2 In Italia, per esempio, pochi giorni dopo il golpe, Enrico Berlinguer, allora segretario di uno dei più suffragati partiti comunisti in Europa, si convinse che il colpo di Stato cileno fosse la prova dell’impossibilità geopolitica che il partito comunista italiano potesse governare da solo e quindi propose il compromesso storico con la democrazia cristiana. Cfr. E. Berlinguer, Riflessioni dopo i fatti del Cile – Alleanze sociali e schie‑ ramenti politici in Rinascita, rivista settimanale, 12 ottobre 1973, n. 40; A. Mulas, Allende e Berlinguer. Il Cile dell’Unidad Popular e il compromesso storico italiano, San Cesario di Lecce, Manni, 2005. 1
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Ottanta da Margaret Thatcher in Inghilterra e da Ronald Reagan ne‑ gli Stati Uniti, fino a raggiungere oggi pieno dominio internazionale3. Durante il terribile assalto militare della Moneda, Allende decise di non fuggire e di rimanere all’interno del Palazzo di governo, dove morì durante il bombardamento, forse sparandosi un colpo di pisto‑ la. Sebbene la circostanza della morte non sia del tutto chiara, è inve‑ ce evidente il senso che Allende stesso volle attribuirle nelle sue ultime parole, rivolte via radio al popolo cileno: «Pagherò con la mia vita la difesa di principi che sono cari a questa patria. […] Loro hanno la forza e ci possono rendere schiavi, ma non possono fermare i processi sociali del mondo, né con atti criminali né con le armi. La Storia li giudicherà. Queste sono le mie ultime parole, e sono certo che questo sacrificio non sarà vano. Costituirà una lezio‑ ne morale che punirà la vigliaccheria, la perfidia e il tradimento»4.
La Storia non ha “giudicato” i golpisti così come si aspettava Allende e il suo “sacrificio” può sembrare piuttosto “vano” se si pensa a cosa visse il Cile dopo di lui: 17 anni di una feroce dittatura militare che tortu‑ rò almeno 500.000 persone e ne uccise altre 3.000, tra morti e desapa‑ recidos. E senza dubbio il “sacrificio” di Allende può apparire ancora più vano se si ricorda che Augusto Pinochet è morto in Cile da uomo libero, durante un governo democratico in cui lui continuava a essere senatore a vita e capo delle forze armate. D’altra parte, se il Cile aves‑ se davvero fatto i conti con il suo passato e giudicato i militari golpisti e quella parte di società che li sostenne, non si troverebbe oggi, esatta‑ mente a trent’anni da quel 1989 che segnò la fine della dittatura, a ri‑ viverne il fantasma: il 19 ottobre 2019, infatti, il Presidente Piñera, in seguito a delle manifestazioni causate dall’aumento dei prezzi dei mezzi pubblici, ha decretato lo stato di emergenza e ripristinato il co‑ prifuoco, come non accadeva dai tempi della dittatura. La protesta è cresciuta ancora di più e oltre un milione di persone si è riversato nelle strade di Santiago. “El error fue pensar que lo que habia era paz, cuando Cfr. Moulián T., Una rivoluzione capitalista, Il Cile primo laboratorio mondiale del neoliberismo, Milano, Eterotopie Mimesis, 2003. 4 P. Guzmán, Salvador Allende, documentario, 100 min., Argentina‑Francia, 2004. 3
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la verdad era un terrible silencio”5: scritte come questa hanno comin‑ ciato ad apparire sui muri delle città, dimostrando che il problema del Cile non è affatto il rincaro dei prezzi, ma l’oblio6, cioè aver preferito rimuovere e dimenticare il proprio passato traumatico, piuttosto che affrontarlo e giudicarlo. E in effetti, il Cile, come molti altri paesi usci‑ ti da lunghi periodi di guerre civili, ha preferito gestire la (giustizia di) transizione7 verso la democrazia mettendo tra parentesi la giustizia e concentrandosi esclusivamente sulla riconciliazione e sulla semplice ri‑ costruzione storica degli eventi accaduti. Così, alla giustizia retributiva dei processi giudiziari è stata preferita la giustizia riparativa delle Com‑ missioni di Verità e Riconciliazione: riconoscendo gli avvenimenti ma non i responsabili, questa forma politica di (in)giustizia ha la semplice funzione di superare il conflitto interpretativo sul passato e di far tran‑ sitare la società verso il futuro. In questo modo, il Cile ha rinunciato al‑ la soluzione giuridica per privilegiare gli interessi politico‑economici e evitare di destabilizzare eccessivamente un’economia che gli aveva fat‑ Foto su Twitter di Yungay Te Ve, mezzo di comunicazione della Assemblea Autocon‑ vocada dei Vicini del quartiere Yungay di Santiago del Cile. 6 Cfr. M. Augé (1998), Le forme dell’oblio. Dimenticare per vivere, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 2000. 7 Con l’espressione ‘giustizia di transizione’ si indicano quei processi giuridico‑sociali attraverso cui le società provano a fare I conti con il passato, cioè con una storia di atrocità che è necessario affrontare per provare a rendere giustizia alle vittime di quella barbarie e per poter transitare da un periodo di guerra a uno di pace e da una forma di governo (dittatoriale) a un’altra (democratica). Le Commissioni costituiscono una terza via tra il massimalismo dei tribunali e il minimalismo dell’amnistia. Secondo Cohen, in caso di crimini dello Stato contro il suo stesso corpo sociale, ci sono almeno tre ragioni che legittimano l’adozione di questa via che privilegia la rivelazione della verità (in uno spazio espiativo pubblico) sulla ricerca della giustizia: in primo luogo il riconoscimento della verità è simultaneamente riconoscimento della dignità delle vittime; in secondo luogo, consente di elaborare il lutto, alleviando la condizione di sospensione e disperazione in cui versano le famiglie delle vittime; infine, favorisce il nunca mas, cioè che mai più si ripetano certi crimini, una volta conosciuti. Cfr. S. Cohen (2001), Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contempora‑ nea, trad. it., Roma, Carocci, 2008; P. P. Portinaro, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, Milano, Feltrinelli, 2011; A. Lollini, Costituzionalismo e giusti‑ zia di transizione. Il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconcilia‑ zione, Bologna, Il Mulino, 2005. 5
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to guadagnare il soprannome di giaguaro del Sud America. D’altra par‑ te, il golpe militare, voluto e finanziato dagli Stati Uniti, fu anche un golpe economico, in cui gli ormai famigerati Chicago Boys, un gruppo di economisti che studiarono negli Stati Uniti con Milton Friedman, importarono in Cile le sue teorie ultraliberiste. Schiacciando qualsiasi forma di opposizione e diffondendo un clima di terrore, il Cile fu tra‑ sformato in una grandissima ZES (Zona Economica Speciale) dove attuare il capitalismo selvaggio. Nei primi anni si ebbero dei risultati positivi, ma più apparenti che reali: dettati innanzitutto da un ritorno a una normalità economica dopo l’isolamento e i bloqueos delle derra‑ te alimentari imposti al governo di Allende. Alla fine degli anni Ottanta, infatti, quando gli Stati Uniti inizia‑ rono a ritenere non più necessario e utile un governo militare, la po‑ polazione iniziò a riprendere fiducia nella possibilità di dimostrare il dissenso e così il Cile si accorse anche che quella del giaguaro del Sud America era solo una favola ben costruita mediaticamente: ad aver cor‑ so come un giaguaro, infatti, era stata solo l’economia di una ristretta élite, che si era avvantaggiata dallo smantellamento dello stato socia‑ le e dalla svendita di tutte le principali imprese che Allende aveva na‑ zionalizzato. E oggi le proteste che tornano a esplodere nelle strade di Santiago, insieme a una nuova cruenta repressione, dimostrano che la società cilena ha dovuto “sopportare una duplice forma d’impunità: quella concessa a Pinochet per i crimini contro l’umanità e quella ga‑ rantita alla dottrina friedmaniana per i crimini economici”8. Questa duplice forma d’impunità rappresenta anche una duplice forma di ri‑ mozione, un oblio de facto e de jure9, che inevitabilmente chiede, an‑ cora una volta, di essere affrontato, rimettendo al centro del dibattito non solo e non più la questione della verità, ma piuttosto la questione della giustizia: sia quella penale, che deve giudicare la “perfidia” della dittatura, sia la giustizia economica e sociale, per tentare di riequilibra‑ re le enormi diseguaglianze create dal giaguaro. In definitiva, in Cile ci M. Vignola, L’America Latina tra sviluppo, dipendenza e diritti umani: il caso Cile, Lecce, Besa editore, 2009, p. 27. 9 Cfr. H. Quaritsch, Giustizia politica. Le amnistie nella storia, Milano, Giuffré, 1995. 8
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sono ancora almeno due generazioni e un’intera classe sociale su cui il potere ha esercitato tutte le forme possibili di violenza, fisica, econo‑ mica, culturale, per annientarle o annichilirle, abbandonandole silen‑ ti nelle periferie della modernità o della scena sociale. Questa parte del Paese sembra voler riacquisire ora dignità e forza. In questo momento in cui scrivo, però, non è possibile prevedere cosa accadrà, se il Cile che protesta riuscirà o meno a crearsi uno spazio politico stabile da prota‑ gonista, ma quello che sta accadendo in altri paesi dell’America Lati‑ na non lascia ben sperare e può far pensare che la situazione libertaria possa peggiorare: dalle politiche di estrema destra del Brasile di Bolso‑ naro e di Moreno in Ecuador, al tentato golpe di Guaidò in Venezue‑ la, fino a quello realizzato in Bolivia, dove Evo Morales è stato costretto alle dimissioni e alla fuga, dopo una denuncia nei suoi confronti, co‑ sì come era avvenuto in Brasile con l’ex presidente Lula, arrestato gra‑ zie a un decreto di un giudice poi entrato nella compagine governativa. Questa svolta reazionaria non lascia presagire nulla di buono per i tentativi di svincolarsi dai modelli di sviluppo ultraliberisti, ma il fu‑ turo è ancora aperto. Tant’è che in Cile, con il risvegliarsi dello spiri‑ to di protesta, tenuto assopito per anni, sugli striscioni è tornato anche il volto di Allende e alcune delle sue frasi celebri, come “La historia es nuestra y la hacen los pueblos”. Pertanto, nonostante il sacrificio di Al‑ lende possa non aver avuto le conseguenze storiche da lui attese, non si può negare la sua esemplarità: per molte generazioni, non solo di ci‑ leni, il fascino della rivoluzione democratica di Allende e soprattutto la sua coerenza, portata fino alle estreme conseguenze, hanno esercita‑ to – e evidentemente continuano a esercitare – un elevato valore sim‑ bolico, “una lezione morale” che non ha punito “la vigliaccheria, la perfidia e il tradimento”, ma ha consentito a molti cileni e a tanti altri giovani nel mondo di sentirsi parte di un sogno collettivo che per alcu‑ ni non può finire desaparecido. Ad alimentare questo sogno ha contribuito anche, e in modo deci‑ sivo, una generazione di registi cileni che, ancor prima della dittatu‑ ra, ha documentato le sofferenze e le diseguaglianze del Cile, lasciando emergere in controluce la soluzione, incarnata dal volto di Allende e dal programma di Unidad Popular, la coalizione delle sinistre cilene che sostenne la vittoriosa campagna elettorale del 1970. Questa ge‑ 17 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
nerazione di registi rappresentò Il cinema di Allende, come lo definì Francesco Bolzoni già nel titolo di un suo libro, pubblicato in Italia e in Spagna pochi mesi dopo il golpe. Secondo il critico cinematografi‑ co, però, quel cinema «era un testimone troppo scomodo […] per non sacrificarlo. E, un giorno d’ottobre10, il cinema cileno muore. Finisce suicidato come Al‑ lende […]. Sugli schermi di Santiago, tornarono le commedie, i polizie‑ schi, i western americani […] i tentacoli del colonialismo culturale»11.
Pur senza negare ciò che accadde “sugli schermi di Santiago” dopo il golpe, vorrei dimostrare non solo che il cinema di Allende non finì suicidato, ma rafforzò la sua identità. Anche in esilio o in clandestini‑ tà, infatti, assunse l’arduo compito di documentare e diffondere la me‑ moria di Allende e la memoria traumatica delle violenze della dittatura e delle successive politiche dell’oblio e dell’impunità: di fatto diventò “mediatore della memoria”12 e “testimone secondo – un testimone del testimone”13. I fautori di questo cinema erano ragazzi che si erano for‑ mati già durante la prima campagna elettorale di Allende del 1964 e in quella del 1970 arrivarono a sottoscrivere un Manifiesto de lo cineastas de la Unidad Popular, in cui definirono le proprie intenzioni e in par‑ te il loro stile, convinti che “un popolo che ha una cultura è un popolo che lotta, resiste e si libera”14. Dal mio punto di vista, “il cinema di Al‑ lende” non indica semplicemente la cinematografia cilena durante i tre anni di governo socialista, ma quei registi formatisi con le idee di Al‑ lende e che, alla sua morte, seguirono il suo esempio di coerenza conti‑ Probabilmente Bolzoni confonde settembre con ottobre oppure si riferisce al mese in cui molti registi cileni, tra cui Patricio Guzmán, riuscirono a fuggire in esilio, dopo essere stati detenuti nello Stadio di Santiago. 11 F. Bolzoni, Il cinema di Allende, Venezia‑Padova, Marsilio Editori, 1974, pp. 9‑10. 12 A. Assmann (1999), Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, trad. it., Bologna, Il Mulino, 2002. 13 D. Lacapra, History in Transit. Experience, Identity, Critical Theory, Ithaca, Cor‑ nell University Press, 2004, p. 77. 14 J. Mouesca, Plano secuencia de la memoria de Chile. Veinticinco anos de cine cileno (1960‑1985), Madrid, Ediciones del Litoral, 1988, pp. 70‑72. 10
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nuando la militanza attraverso l’arte, come forma di ricerca e impegno sociale. Tra tutti i registi del cinema di Allende, uno in particolare si è assunto questo compito come se fosse la missione della sua vita, tanto da diventare un militante della memoria: Patricio Guzmán, uno dei più importanti e premiati registi cileni a livello internazionale, sicuramen‑ te il più apprezzato nel campo del documentario. Questo libro intende dimostrare come il cinema documentario di Guzmán costituisca una vera e propria forma di ricerca sociale che ha consentito di creare quella memoria condivisa che il potere politico, durante e dopo la dittatura, ha cercato di cancellare a ogni costo, ren‑ dendola una memoria censurata15. Dal 1970 fino a oggi, Guzmán ha gi‑ rato quasi venti documentari che raccontano, ossessivamente, l’infinita Battaglia del Cile, dagli anni di Allende a quelli di Pinochet, fino all’e‑ poca della cosiddetta democradura, quella forma di democrazia ancora intrisa di elementi del precedente governo dittatoriale. Il percorso ci‑ nematografico di Guzmán è così coerente che è come se i suoi film fos‑ sero un unico grande film, che come titolo potrebbe avere quello di uno solo di essi, il più incisivo: La memoria ostinata. La vita di Guzmán, in‑ fatti, finora è stata soprattutto un lavoro ostinato sulla memoria, tant’è che la sua ricerca visuale è inseparabile dalla sua stessa esistenza, dal bi‑ sogno di superare l’ossessione sua e delle altre vittime della dittatura: rivelare la loro verità e curare, in parte, le ferite del Cile, mutando “in primo luogo la valorizzazione dei discorsi, di ciò che è menzogna, e che prima era verità, e di ciò che diviene verità, e prima era menzogna”16. Pertanto, davanti alla programmata desaparecion dei corpi del reato e della stessa giustizia, la ricerca audiovisuale di Guzmán diventa, alme‑ no in parte, un sostituto funzionale del rituale giudiziario perché, co‑ me il processo, è “l’esatto contrario della rimozione: è un superamento che passa innanzitutto per una rappresentazione”17. Così il cinema Ricoeur distingue tra memoria censurata, manipolata e imposta. Cfr. P. Ricoeur (2000), La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Cortina Raffaello, 2003. 16 C. Demaria, Semiotica e memoria. Analisi del post‑conflitto, Roma, Carocci, 2006, pp. 159‑160. 17 A. Garapon (2002), Crimini che non si possono né perdonare né punire. L’emergere di una giustizia internazionale, trad. it., Bologna, Il Mulino, 2004, p. 211. 15
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assume anche un potere terapeutico, perché diventa una “protesi del dentro”, colmando la necessità di un fuori18, cioè di una separazione tra spazio pubblico archiviante e spazio individuale e intimo. Si tratta del cinema come archivio19, sistema e anche processo che regola la memo‑ ria, spazio e tempo di deposito, ma anche di una rielaborazione finaliz‑ zata a evitare la stagnazione di una memoria negativa20, cioè dominata dal trauma. Così, il cinema militante di Guzmán costituisce la più pro‑ fonda e completa ricerca sociale sull’identità negata del Cile e sul biso‑ gno di un Paese di guardarsi nello specchio del cinema, per ritrovare le sue memorie e, di conseguenza, verità e dignità21. Prima di approfondire il lavoro di Guzmán, proverò brevemente an‑ che a inquadrare il cinema di Allende e a descrivere almeno due altri documentaristi che ritengo fondamentali nel lavoro di militanza del‑ la memoria: Miguel Littín e Carmen Castillo. Littín, autore del docu‑ mentario su Allende Compañero Presidente (1971) e uno dei redattori del Manifiesto, è diventato famoso a livello internazionale soprattut‑ to dopo che Gabriel Garcia Marquez scrisse il libro Le avventure di Miguel Littín, clandestino in Cile (1986): in forma di un’autobiogra‑ fia romanzata, lo scrittore Premio Nobel dava voce alle memorie di Littín, lasciando emergere, in prima persona, le sue gesta eroiche: esi‑ liato nel 1973 con proibizione assoluta di tornare nella propria terra, nel 1985 decise di rientrare clandestinamente in Cile per documentare la dittatura militare e realizzare Acta general de Chile (1986). Carmen Castillo, invece, fu militante del MIR (Movimiento de Izquierda Revo‑ luzionaria) e collaboratrice dello staff del Presidente Allende: arresta‑ Derrida propone un’interpretazione delle tesi elaborate da Freud in Al di là del principio di piacere. Cfr. J. Derrida (1995), Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, trad. it. Napoli, Filema, 1996, p. 30. 19 Per un approfondimento del concetto di archivio, si veda, oltre a J. Derrida, op. cit., anche M. Foucault (1969), L’archeologia del sapere, Milano, Bur Rizzoli, 1971, pp. 172‑174. 20 P. P. Portinaro, op. cit., p. 205. 21 Sulla connessione tra diritto alla verità, costruzione della memoria e restituzione della dignità, si veda: S. Rodotà, Il diritto alla verità, in G. Resta, V. Zeno‑Zen‑ covich (a cura di), “Riparare, risarcire, ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi”, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012, pp. 497‑516. 18
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ta dalla polizia segreta, dopo un combattimento in cui uccisero il suo compagno Miguel Henriquez, leader del MIR, fu espulsa dal paese e tornò dopo la fine della dittatura, filmando due documentari partico‑ larmente rilevanti per la ricostruzione della memoria: La flaca Alejan‑ dra (1993) e Rue Santa Fe (2007). Questa ricostruzione del cinema di Allende è finalizzata a dimostra‑ re come il documentario allendista abbia rappresentato un esempio concreto di ricerca sociale visuale, in quanto è stato uno strumen‑ to essenziale per l’emersione di una memoria negata e sommersa e, di conseguenza, per la rielaborazione e i tentativi di cura di un trauma profondo della società cilena. In effetti, le attuali proteste dimostra‑ no quanto ancora sia necessario confrontarsi con quella memoria trau‑ matica e farlo anche tramite uno strumento, come il documentario, che può restituire immagini e suoni di quel trauma, consentendo di ottenere “una sorta di sintesi ecologica”22 del passato, perché riesce a rappresentarne la multidimensionalità, superando alcuni limiti delle ricostruzioni verbali. Pertanto, il presente lavoro, nel descrivere la ri‑ levanza dei documentari di Allende come ricerche sociali, costituisce, indirettamente, anche un’apologia della sociologia visuale, che può es‑ sere interpretata non solo come uno strumento di semplice ausilio al‑ le metodologie tradizionali di ricerca qualitativa, ma anche come “un vero paradigma conoscitivo”23. Per questo motivo, aprirò la mia rifles‑ sione con una breve descrizione della genesi delle ricerche visuali sulla società, evidenziando come la scienza ufficiale abbia manifestato sem‑ pre una certa diffidenza nei confronti di questo tipo di approcci, ma anche dimostrando come chi li ha utilizzati abbia tentato di confutare, nella teoria o nella pratica, questi dubbi sulla scientificità del metodo visuale. Infine, in apertura del lavoro, proverò a dimostrare come le ri‑ cerche visuali possano essere utili non solo per curare le memorie trau‑ matiche, ma anche per suturare la frattura che la modernità ha creato tra arte e scienza e di cui la sociologia visuale non certo beneficia nella sua perenne richiesta di legittimazione scientifica. Proverò poi a spie‑ gare come questa frattura moderna abbia la sua genesi remota nella se‑ 22 23
F. Mattioli, Sociologia visuale, Torino, Nuova Eri, 1991, p. 125. P. Faccioli, L’immagine sociologica, FrancoAngeli, Milano 1997, p. 15.
21 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
parazione tra animale e umano, che è all’origine stessa del pensiero e della ricerca della propria identità. In questo modo, potrò chiarire an‑ che la genesi remota di questo lavoro che coincide con la scissione che io stesso ho applicato alla mia vita, separando la mia passione e il mio lavoro di ricerca sociale nell’accademia dal mio lavoro di ricerca socia‑ le nel cinema. Questo libro, quindi, rappresenta un modo per tornare alle origini di più memorie traumatiche e per provare ad affidare la ri‑ composizione di unità infrante alla sociologia visuale, che è, essa stes‑ sa, unità di arte e scienza sociale.
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Atto I – La ricerca visuale come unità tra arte e scienza
Ogni singolo individuo vede che si avvicinano a lui contemporaneamente e con angosciosa rapidità una forma scura e una chiara. Una delle due si può tenerla lontana in maniera da vedere soltanto l’altra, ma entrambe sono presenti lo stesso, incessantemente Elias Canetti
1.1 La genesi di un trauma come imposizione di una differenza Questo libro ha origini lontane, tanto quanto il mio desiderio di lavo‑ rare osservando e problematizzando il reale. Infatti, la mia passione per la ricerca e per il racconto visuale della società ha trovato la sua scintilla decisiva proprio in Cile, a pochi chilometri dalla Terra del fuoco, in uno dei Sud più a sud del mondo. Era il 2002 ed ero uno studente universi‑ tario di 23 anni quando atterrai a Santiago: di lì a poco, avrei iniziato la mia prima esperienza di ricerca empirica nel Centro de las mujeres di Temuco, una ong che lavorava nelle baraccopoli indigene e si occupava principalmente della lotta contro la violenza sulle donne. Il Presidente del Centro era Fresia Cea Villalobos, una donna imprigionata e tortu‑ rata durante la dittatura di Pinochet e costretta all’esilio dopo che suo marito diventò uno delle migliaia di desaparecidos. Da Fresia sentii, per la prima volta, una testimonianza diretta della violenza del potere, della brutalità delle torture subite, delle scosse elettriche e dei topi nella vagi‑ na, di un’intera generazione annientata fisicamente o psicologicamente e distrutta ancora di più dal ritorno di una presunta democrazia che ave‑ va chiesto di dimenticare il passato e far finta di niente. Ma gli occhi lu‑ 23 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
cidi di Fresia e il tono della sua voce, trafitto tanto quanto i suoi sogni di ragazza, sembravano implorarmi di diventare testimone della sua testi‑ monianza, in una sorta di staffetta della memoria, in cui non si può che diventare militanti della memoria e della richiesta di giustizia. Così, per la prima volta, decisi di usare una piccola videocamera palmare per regi‑ strare le testimonianze tragiche di Fresia e di tante altre vittime della dit‑ tatura24. Mi sembrava necessario che i loro racconti restassero impressi per sempre su un nastro, in modo tale da superare i limiti del racconto verbale di racconti: volevo conservare le espressioni del volto, i gesti, il tono della voce e riprodurre il più possibile la pienezza di quell’umanità che avevo conosciuto e che desideravo che anche altri potessero cono‑ scere, anche ascoltando e vedendo quello che io avevo ascoltato e visto e che mi aveva segnato per sempre. La mia convinzione di voler indagare e raccontare il reale è nata lì, nel Sud del mondo, concimata dalle idee di Salvador Allende e di un’intera generazione di giovani che aveva lottato contro ogni forma di repressione e di ingiustizia sociale. Da questa mia personale epifania cilena, sono trascorsi 15 anni in cui ho alimentato ancor di più il mio ardore per l’osservazione del reale: sia approfondendo la mia carriera accademica e lo studio della socie‑ tà, sia documentando, con lo strumento audiovisuale, storie margina‑ li che mi sembrava potessero restituire problemi universali. Queste due forme di osservazione del reale, però, le ho sempre tenute separa‑ te, come due strade che non si incrociano mai: da una parte la scienza e dall’altra l’arte. Ora mi è chiaro, tuttavia, che in entrambi gli ambiti, anche se in modo autonomo e indipendente l’uno dall’altro, ho cerca‑ Quelle registrazioni furono poi montate all’interno di un documentario, realizzato con Marta Vignola, con cui condivisi quell’esperienza e perfino la genesi del biso‑ gno di studiare la società (Cfr. C. Punzi, M. Vignola, Le bende del giaguaro. Cile 1973‑2003, documentario, 42 min., Italia, Camera a sud, 2003). Con lei abbiamo an‑ che seguito e analizzato il processo contro Alfonso Podlech, il militare cileno estradato in Italia e accusato di essere il responsabile delle torture e della scomparsa del cittadino italo‑cileno Omar Venturelli, il marito di Fresia Cea Villalobos. Sul processo e Fresia abbiamo scritto un saggio e realizzato un documentario: Cfr. C. Punzi, M. Vignola, Trial narratives of truth. From a political tragedy to a judicial comedy. The case Podlech, in “Italian Journal of Sociology of Education”, 2018; C. Punzi, Fresia, documentario, 77 min., Italia, Fluid Produzioni & Muud Film, 2017. 24
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to sempre di osservare le periferie della modernità e le sue zone d’om‑ bra: dalle vene aperte del Sud America25 o degli altri continenti minori condannati allo sfruttamento e all’emigrazione, alle vene nere di quel Sud Italia in cui vivo, un Salento colonizzato dai piani industriali del Nord e ormai contaminato, fin dentro al sangue, da combustibili fos‑ sili portati a tonnellate sotto le sembianze di una promessa di svilup‑ po, poi implosa sotto il peso reale della sua enorme bugia26. Davanti agli occhi e all’obiettivo ho sempre avuto i morti di progresso27, le mor‑ ti fisiche o simboliche di quella che ora mi appare come una grande e unica Questione meridionale28: quella aperta da un processo di mo‑ dernizzazione ambivalente29, che costruisce Nord e Sud del mondo, centri e periferie della modernità, con lo scopo di creare una intercon‑ nessione, o un vero e proprio nesso di funzionalità, tra lo sviluppo del Cfr. E. Galeano, Le vene aperte dell’America Latina, trad. it., Milano, Sperling & Kupfer, 1997. 26 Cfr. C. Punzi, Una ricerca visuale sulle memorie di una città industriale. Il caso Brin‑ disi, in “H‑ermes. Journal of Communication”, n. 15, 2019; C. Punzi, M. Vignola, Taranto come utopia distopica. Narrazioni letterarie e sociologiche di un modello di svi‑ luppo, in “Sociologia del Lavoro”, n. 153, Milano, FrancoAngeli, 2019. 27 P. Jedlowski, Presentazione, in M. Vignola, La fabbrica. Memoria e narrazioni nella Taranto (post) industriale, Milano, Meltemi, 2017. 28 La locuzione “questione meridionale”, infatti, può superare la sua dimensione na‑ zionalistica e acquisire un carattere universale, indicando non solo la sproporzione socio‑economica tra Nord e Sud Italia, ma più in generale l’interconnessione, o il nesso di funzionalità, tra sviluppo del Nord e sottosviluppo del Sud del mondo. Allo stesso modo, vale anche l’inverso. Infatti, alcune categorie teoriche coniate dai sociologi neo‑ marxisti – per osservare le politiche di colonialismo attuate in Sud America – possono essere altrettanto valide per l’analisi del sottosviluppo dell’Italia meridionale o di altri Sud del mondo. È il caso, per esempio, della categoria della “dipendenza interna” di Andre Gunder Frank: essa riesce a porre più immediatamente in evidenza i rapporti di dominio e sfruttamento tra regioni all’interno di una stessa nazione; nel caso italia‑ no manifesta la funzionalizzazione dell’arretratezza delle regioni meridionali a favore dello sviluppo delle regioni settentrionali. 29 Cfr. N. Luhmann, Osservazioni sul moderno, Roma, Armando, 1996; M. Longo, L’ambivalenza della modernità. La sociologia tra disincanto e reincanto, San Cesario di Lecce, Manni, 2005; P. Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità, Milano, FrancoAngeli, 1989; A. Giddens (1990), Le conseguenze della modernità, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1994. 25
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Nord e il sottosviluppo del Sud: “non l’industria contro il sottosvilup‑ po ma l’industria del sottosviluppo”30, si disse dei piani di moderniz‑ zazione attuati nel sud Italia per “risolvere” la questione meridionale. E lo stesso si potrebbe dire delle politiche neoliberiste sperimentate per la prima volta nel laboratorio cileno affidato alle cure di Pinochet: non politiche contro il sottosviluppo, ma politiche del sottosviluppo, cioè della desaparecion di alternative politico‑economiche e dell’au‑ mento delle diseguaglianze (endogene ed esogene) tra ricchi e pove‑ ri31. Ma la modernità, per autoproclamarsi moderna, è continuamente costretta a occultare questo suo paradosso costitutivo, che le consente di essere moderna al prezzo di una primitività imposta alle sue perife‑ rie, che proprio per questo devono rimanere anche alla periferia dello sguardo. Quando però le periferie escono dalla loro latenza ed emer‑ D. De Masi, A. Signorelli, L’industria del sottosviluppo, Napoli, Guida Editori, 1973; R. Koselleck, Il vocabolario della modernità, trad. it., Bologna, Il Mulino, 2009. 31 E così ai diversi Sud del mondo vengono proposte teorie e ricette di sviluppo che mirano a imporre diversi gradi di annientamento fisico o culturale, accentuando la differenza o l’omologazione, ma comunque la dipendenza di chi è collocato a Sud. Le dosi degli ingredienti variano al variare della geografia della modernità e infatti, all’al‑ lontanarsi dalle periferie, il potere coloniale diventa tanto più economico e invisibile e tanto meno politico e fisico. Non è un caso che più osservatori hanno ritenuto che gli anni Settanta, in Italia, siano stati quelli degli Spaghetti in salsa cilena, cioè di un golpe soft realizzato con l’aiuto degli Stati Uniti, con forme e strategie (della tensione) diverse, più idonee al contesto di un Paese al centro della modernità. Ogni Nord trova sempre un Nord più a nord di sé che gli impone le proprie ricette di sviluppo: così l’I‑ talia ha prima sperimentato liberamente l’imposizione endogena di piani di sviluppo per colmare le differenze interne e poi l’imposizione esogena di quelle stesse teorie che non prevedevano solo un’omologazione economica ma anche politica, dimostrando la possibile universalità della questione meridionale, che invece nasceva per lo specifico contesto italiano. In Italia, infatti, contrariamente ai paesi latinoamericani, la dipen‑ denza interna non era interna a un continente, ma a una stessa nazione. Nei paesi del Sud America la colonizzazione era attuata da un paese straniero come gli Stati Uniti e quindi da un Nord percepito come estraneo; nel Sud Italia, invece, la colonizzazione non era percepita nemmeno come tale perché il Nord era una parte della stessa nazio‑ ne e quindi non veniva percepito come ostile. A differenza dei paesi del Sud America, pertanto, nel Meridione d’Italia c’è stata una diffusa predisposizione alla benevola ac‑ cettazione dei modelli di sviluppo pensati nel Nord, nella convinzione che potessero rappresentare un’ancora di salvezza. 30
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gono alla vista, viene utilizzata proprio l’antitesi sviluppo/sottosvilup‑ po per giustificare la presenza del sottosviluppo, ribadendo però che si tratta di una parte di modernità più arretrata nel tempo, ma in grado di raggiungere chi è più avanti, ma solo seguendo le ricette (delle re‑ toriche) del progresso. La diseguaglianza nella possibilità di esperire il progresso è ciò che Koselleck chiama la “non‑contemporaneità del contemporaneo”32. In questo modo la diseguaglianza non viene asso‑ lutizzata, ma spazializzata nella differenza nord/sud e temporalizzata nella differenza avanti/indietro: di conseguenza, chi è più indietro nel tempo deve impegnarsi per rendersi contemporaneo o deve essere sotto‑ posto a politiche di “sviluppo”. Pertanto, la questione meridionale può essere interpretata, in modo più ampio, come la questione dell’imposi‑ zione di una differenza (di valore). Nell’osservare sempre questa questione nelle diverse latitudini della modernità, ho usato due metodologie che ho deciso di tenere delibe‑ ratamente separate, autocondannandomi a una scissione interna e alla necessità di switchare da un’identità all’altra in base al contesto lavora‑ tivo. Infatti, ogni campo professionale tende a riaffermarsi come po‑ tere‑sapere che include l’uguale ed esclude il diverso, assumendo l’uno e l’identico come principio di specializzazione e quindi di grandezza professionale. Così, ogni settore si autolegittima attraverso una pro‑ pria ortodossia, basata innanzitutto sull’innalzamento di muri cogni‑ tivi lungo i propri confini disciplinari. Qualsiasi eterodossia, quindi, viene interpretata come dispersione di energie e mancanza di dedizio‑ ne a quella che ognuno, dal suo parziale punto di vista, vede come l’u‑ nica causa su cui investire. Inevitabilmente, per non essere sminuito in ogni contesto lavorativo, ho sempre preferito rimuovere una delle mie due identità principali, in modo da evitare di essere considerato uno studioso con l’hobby del cinema o un documentarista con l’hobby dell’università, come in effetti accadeva all’inizio, in cui restavo ovun‑ que un ibrido, un precario, sospeso tra due anime e evidentemente costretto a scegliere una e una sola professione, come sulla carta d’iden‑ tità, il certificato della propria unicità. Tuttavia, scavando nella genea‑ R. Koselleck (1979), Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, trad. it., Bologna, Clueb, 2007.
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logia di questa scissione interna, si vede che è una separazione imposta dalle strutture (e dalle aspettative) sociali, derivante dal progetto di ra‑ zionalizzazione della modernità che si manifesta, innanzitutto, come processo di settorializzazione delle attività e di specializzazione osses‑ siva. Così l’uomo finisce per auto‑rinchiudersi in una weberiana gab‑ bia d’acciaio, ridotto a una macchina specializzata in un solo compito e apprezzata e riconosciuta per la quantità e qualità dei risultati ottenu‑ ti nell’esecuzione di quel singolo compito33. L’uomo, quindi, viene in‑ serito all’interno di una specifica catena di potere, con le proprie regole da seguire per salire di status: derogare da quelle regole significa uscire dai confini disciplinari e quindi negarsi le possibilità di carriera, termi‑ ne che etimologicamente indica una strada per carri, cioè la strada da seguire, senza deviazioni, strade parallele o alternative34. Pertanto, con la rivoluzione scientifica del Seicento, viene decretata una separazione tra i saperi, che si manifesta anche come separazione netta tra arte e scienza35. A partire dalla modernità, infatti, implode la struttura gerarchica della società e quindi – almeno in teoria – si rompe la transitività tra il possesso di denaro, di potere, di verità, e così via. La società si differenzia in più sistemi sociali che costituiscono una strut‑ tura orizzontale e reticolare, in cui ognuno conserva la propria auto‑ nomia e indipendenza operativa. Così i sistemi sociali rappresentano frammenti di mondo, perché ognuno di essi osserva e descrive il mon‑ do, quindi lo riproduce, dal suo particolare punto di vista e con le sue specifiche operazioni, adottando propri codici comunicativi sostanzial‑ mente differenti36. La scienza opera secondo il codice binario verità/fal‑ sità ed è questo codice che le consente di dire se una comunicazione è Cfr. M. Weber (1922), Economia e società, trad. it., Vol. IV, Torino, Edizioni di Co‑ munità, 1961; J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, trad. it, Roma‑Bari, Laterza, 1987. 34 R. Sennett (1999), L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, trad. it., Milano, Feltrinelli, 2001. 35 Cfr. C. P. Snow (1959), The Two Cultures and the Scientific Revolution, London, Cambridge University Press, 2001. 36 Cfr. N. Luhmann, R. De Giorgi, Teoria della società, Milano, FrancoAngeli, 2003, pp. 247 e ss. 33
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scientifica o non lo è. D’altra parte, la funzione della scienza è proprio la produzione di verità: assumendo questa funzione, essa guida la rivolu‑ zione moderna della differenziazione dei sistemi, perché libera la verità dal vertice della società, svincolandola sia dalla dogmatica della religio‑ ne sia dal potere o dalla morale. A partire dalla modernità, quindi, è la scienza che costruisce verità in modo autonomo e autoreferenziale, cioè senza alcuna referenza o influenza esterna da parte degli altri sistemi so‑ ciali: la scienza giudica la scienza e dipende solo da sé stessa. Ogni scien‑ ziato, infatti, sottopone le sue osservazioni ad altre osservazioni, cioè a osservazioni di secondo ordine, in una catena potenzialmente infinita tramite cui la comunità scientifica può continuamente smentire sé stes‑ sa e le sue verità37. La verità scientifica, pertanto, pur nella sua sempre possibile relatività, si stabilizza quando un numero sufficiente di osser‑ vazioni di grado superiore consente di arrivare a una condivisione sulla metodologia di osservazione e sulle descrizioni attuate. In questo mo‑ do la scienza stabilisce l’efficacia e la validità delle sue stesse narrazioni, che poi sistematizza all’interno di una rete di altre narrazioni che, quan‑ do assume una struttura coerente, viene chiamata teoria. L’arte, al contrario, pur utilizzando anch’essa – sotto forma di cri‑ tica – le osservazioni di secondo ordine, non è apparentemente inte‑ ressata a costruire verità, perché essa non costituisce la sua funzione. L’arte, infatti, opera secondo un altro codice che, nell’estetica tradi‑ zionale, veniva espresso dalla distinzione bello/brutto38. D’altra parte, nonostante entrambe operino tramite comunicazioni sul reale (narra‑ zioni), l’arte – in particolare quella letteraria e cinematografica – si ca‑ ratterizza come descrizione di tipi sociali e di casi di studio, mentre la scienza (sociale) “cerca generalizzazioni. Dagli studi di caso della sto‑ ria e della letteratura astrae le leggi e i principi del comportamento umano”39. Eppure, nonostante queste ovvie e palesi differenze, rima‑ Cfr. N. Luhmann, Osservazioni sul moderno, cit. N. Luhmann (1995), L’arte della società, trad. it., Milano, Mimesis, 2017; C. Ba‑ raldi, G. Corsi, E. Esposito, Luhmann in glossario. I concetti fondamentali della teoria dei sistemi sociali, Milano, FrancoAngeli, 1995. 39 R. E. Park, E. W. Burgess, Introduction to the Science of Sociology, Chicago, The University of Chicago Press, 1921, p. 143. 37 38
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ne indubbio che “questa separazione, che vede nell’arte un processo soggettivo di approssimazione intuitiva del reale e nella scienza un processo metodico di conoscenza oggettiva della realtà, è tipicamen‑ te moderna”40. In un saggio del 1962, dal titolo provocatorio Sociology as an Art Form, Nisbet riflette indirettamente sulla (non) differenza tra sociologia e arte, ricordando che nel Rinascimento e nell’Illumini‑ smo arte e scienza convivevano perfettamente, come dimostrano i casi esemplificativi di Leonardo Da Vinci e Wolfgang Goethe. La sociolo‑ gia contemporanea, a suo avviso, si sarebbe impoverita culturalmente, perché ha subordinato la capacità intuitiva alle tecniche: come se, an‑ cora una volta, volesse cercare un criterio di scientificità, di maggiore certezza dei confini del suo sapere. In questo modo, secondo Nisbet, avrebbe tradito gli stessi padri della sociologia, che invece si affidava‑ no molto all’intuizione e all’immaginazione iconica, superando quin‑ di i confini tra i saperi e quella che da Primo Levi verrà poi chiamata una schisi innaturale: «sovente ho messo piede sui ponti che uniscono (o dovrebbero uni‑ re) la cultura scientifica con quella letteraria scavalcando un crepac‑ cio che mi è sempre sembrato assurdo […] quasi che lo scienziato e il letterato appartenessero a due sottospecie umane diverse, recipro‑ camente alloglotte, destinate a ignorarsi e non interfeconde. È una schisi innaturale, non necessaria, nociva […]. Non la conoscevano Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile»41.
La genesi della separazione moderna tra arte e scienza, però, può esse‑ re collocata in tempi molto più lontani: nel trauma primordiale da cui ha origine lo stesso pensiero occidentale. L’etimo greco traûma42 indi‑ M. Longo, Il sociologo e i racconti. Tra letteratura e narrazioni quotidiane, Roma, Carocci, 2002, p. 24. 41 P. Levi, L’altrui mestiere, Torino, Einaudi, 1985. 42 A partire dagli anni Ottanta, il trauma è tema di riflessione di discipline diverse, che spesso lo declinano in modi anche contrastanti. In ambito anglosassone, si è creato un filone di studi specializzato, i Trauma Studies, che si occupa del trauma in quanto 40
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ca una ferita, un perforamento, quindi un foro che buca e frattura una unità, che può essere tanto fisica quanto psichica. In alcuni casi questo perforamento può essere così profondo da spezzare quell’unità, fino a dividerla in due unità separate. Nel primo libro della Metafisica, Ari‑ stotele scrive che la filosofia nasce dal thauma e dal thaumazein: dalla meraviglia e dal meravigliarsi. Probabilmente non è un caso che il prin‑ cipio del domandare filosofico sia connesso a due termini molto simi‑ li: thauma e traûma. Senza capacità di meravigliarsi l’uomo non può interrogarsi sul mondo e chiedersi “che cos’è?”, ma l’atto stesso di chie‑ dere «implica una separazione, una distanza, tra chi pone la domanda e ciò su cui la domanda è posta. Potremmo forse addirittura dire una postura, per cui chi interroga, non è implicato nella situazione, non sta parlando in atto, non sta vivendo in atto. La domanda proviene da un fuori e irrompe sulla scena»43.
Il pensiero occidentale nasce separandosi dal mondo e, a sua volta, se‑ parando sé stesso da tutto ciò che è mancante di Logos: in questo inizio del domandare, il thauma coincide con il traûma, la meraviglia con la frattura, tant’è che è anche meraviglia della frattura. E la frattura di cui si parla è innanzitutto quella tra humanitas e animalitas, la frattura che provoca meraviglia e consegna all’uomo la sua identità. Non a caso, l’i‑ dentità è sempre “identità di una differenza” e infatti non ci sarebbe un sistema, individuale o sociale, se non ci fosse un ambiente da cui esso si distingue: “identità è tenere a distanza”44. L’identità dell’essere umano, evento che determina una crisi delle fondamenta di una identità individuale o so‑ ciale, con effetti dirompenti sui processi di significazione. Cfr. R. Luckhurst, The Trauma Question, London, Routledge, 2008; J. Alexander, R. Eyerman, Cultural Trauma and Collective Identity, Berkeley & Los Angeles, University of California Press. 43 L. Nuzzo, Il diritto e la differenza: Jacques Derrida e Niklas Luhmann, in L. Nuzzo (a cura di), La differenza e il diritto. Saggi di filosofia, storia e sociologia giuridica, Gala‑ tina (Le), Congedo Editore, 2018. 44 Le ultime due sono definizioni di Luhmann riportate in: R. De Giorgi, Multi‑ culturalismo, identità, diritto, in Aa.Vv. (a cura di), Serta Iuridica. Scritti dedicati a Francesco Grelle, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011, p. 146.
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quindi, tiene innanzitutto a distanza l’animale, che è definito per ne‑ gazione e in negativo, come non‑umano, perché mancante di linguag‑ gio e “d’arte e di ragionamenti”45. La questione dell’animalità è un tema filosofico molto complesso, affrontato inizialmente da Aristotele e ripreso da molti filosofi, da Heidegger fino a Derrida, passando per Linneo46. Dalle loro molte‑ plici e differenti riflessioni, emerge che il traûma umano/animale è stato utilizzato per costruire una macchina antropologica47, con la fun‑ zione di marcare l’esterno di ciò che è proprio dell’uomo, tramite l’e‑ sclusione/inclusione di animali in forme umane: la scimmia‑uomo, il bambino selvaggio, l’uomo lupo, lo schiavo, il barbaro, l’ebreo, lo stra‑ niero. Lo stesso umanesimo, pertanto, è soltanto un modo per collo‑ care l’uomo al di fuori del mondo animale e cioè: escludere qualcuno o qualcosa dalla condizione umana, a partire dagli animali fino ad ar‑ rivare alle stesse persone, di cui si postula il sottosviluppo. Nel corso delle diverse epoche storiche, infatti, la macchina antropologica ha consentito la ricorsività di un dispositivo di esclusione che si è con‑ cretizzato in sempre nuove animalizzazioni, tramite equivalenti fun‑ zionali della distinzione umano/animale. Una distinzione, in cui una parte della distinzione, l’animale, è sempre una definizione in nega‑ tivo rispetto alla definizione dell’umano. L’animale, o chi occupa la sua posizione, è quindi sempre mancante: la mancanza è il principio di ogni animalizzazione, cioè di ogni degradazione. Lo storico tede‑ sco Koselleck ha coniato la nozione di concetti antitetici asimmetri‑ ci: distinzioni in cui le due parti della distinzione sono contrarie, ma in modo diseguale, perché una delle due parti è connotata negativa‑ mente48. Aristotele, Metafisica, trad. it., Milano, Bompiani, 2000. M. Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida, Milano, Mimesis, 2012; C. Wolfe, Davanti alla legge. Umani e altri animali nella biopolitica, Milano, Mimesis, 2018; F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, Roma‑Bari, Laterza, 2013. 47 Cfr. F. Jesi, Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Torino, Einaudi, 1979. 48 R. Koselleck R. (1997), Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, trad. it., Bologna, Clueb, 2007, p. 182. 45 46
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Da questa prospettiva, la stessa separazione tra scienza e arte – co‑ sì come quella tra sviluppo e sottosviluppo, tra nord e sud, tra destra e sinistra ecc. – può essere interpretata come un equivalente funziona‑ le della distinzione umano/animale, in cui l’istintività dell’arte e del‑ lo stato di natura viene separata (e degradata) rispetto alla razionalità della scienza e della civiltà. Così, si può ritenere che la frattura scienza/ arte appartenga soltanto a un ramo del più grande albero genealogico della razionalità umana: un albero che è stato da subito espiantato dal suo habitat naturale, strappando le radici dell’uomo dalla terra con cui erano simbioticamente unite. Il problema da affrontare, allora, è innanzitutto provare a ricom‑ porre l’unità infranta tra scienza e arte, ma soprattutto l’unità infran‑ ta tra umano e animale, sia da un punto di vista teorico‑astratto, sia da un punto di vista concreto, provando a suturare la frattura tra uma‑ no e animale che ha subito il Cile e intere generazioni per cui l’uma‑ no è diventato il lato rimosso e negato: intere generazioni di giovani animalizzati, privati di ogni orizzonte. Credo che la sociologia visua‑ le, come unità della distinzione tra arte e scienza sociale, ricomponga la frattura teorica, così come le ricerche visuali di Guzmán restitui‑ scono l’umanità e la dignità negata a gran parte dei cileni, provando a denunciare non solo la loro animalizzazione (passata?), ma anche il loro sottosviluppo presente. Credo, infatti, che attraverso i film di Guzmán e di altri registi allendisti, il Cile possa ritrovare nel cinema lo specchio dove riosservare il proprio volto umano e ricomporre l’u‑ nità della propria memoria e identità. Allo stesso modo, credo che anch’io, nel tracciare questo percorso, possa ritrovare nella sociologia visuale lo strumento teorico‑empirico per riappropriarmi della par‑ te di me di volta in volta rimossa. La sociologia visuale, pertanto, sia come teoria sia come pratica empirica, verrà descritta come medium per osservare e narrare il rimosso inguardabile e inenarrabile, perché la ricerca visuale è come lo scudo che permette a Perseo di avvicinar‑ si a Medusa senza guardarla direttamente negli occhi e quindi senza uscirne sconfitto49. Così il medium visuale si rende quella mediazio‑ Didi‑Huberman G. (2004), Immagini malgrado tutto, trad. it., Milano, Cortina editore, 2005.
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ne tra noi e Medusa che serve a “difenderci dall’orrore nello stesso momento in cui ci serve a conoscerlo”50. Attraverso questo medium, penso sia possibile costituire una sociologia visuale della memoria ci‑ lena, da cui forse in futuro sarà possibile anche creare una nuova Epi‑ stemologia (visuale) del sud51, che possa consentire una conversione teorico‑metodologica in grado di Ridescrivere la questione meridio‑ nale52, cioè ri‑visualizzare il “sottosviluppo” e i Sud del mondo, ri‑vi‑ talizzandoli.
1.2 La sociologia visuale, figlia di un’accademia minore La sociologia visuale, come disciplina autonoma, nasce soltanto a par‑ tire dalla metà degli anni Settanta, grazie al saggio Photography and Sociology di Howard Becker53, un sociologo statunitense che svolge‑ va ricerche nei ghetti delle metropoli nordamericane, richiamandosi esplicitamente alla Scuola di Chicago. Il suo testo mirava a descrive‑ re le metodologie da seguire per realizzare ricerche visuali scientifiche, chiarendo così quando è possibile parlare di fotografia sociologica. Tuttavia, non bisogna certo aspettare gli anni Settanta perché s’inizi‑ no a realizzare le prime ricerche visuali. Infatti, già dalla seconda metà dell’Ottocento, etnografi e antropologi si lasciarono affascinare dal‑ le possibilità aggiuntive fornite dall’uso di una macchina fotografica e addirittura di una cinepresa cinematografica. Infatti, nel 1895 l’antro‑ pologo francese Felix Louis Regnault utilizzò le prime cineprese per documentare i movimenti corporei di alcuni abitanti dell’Africa occi‑ dentale e del Madagascar, esaltando le capacità del cinema di fissare “per sempre tutti i comportamenti umani risolvendo i problemi dei P. Jedlowski, Intenzioni di memoria. Sfera pubblica e memoria autocritica, Milano, Mimesis, 2016, p. 52. 51 B. De Sousa Santos, M. P. Meneses, Epistemologias do Sul, Coimbra, Almedina, 2009. 52 G. Corsi, R. De Giorgi, Ridiscrivere la questione meridionale, Lecce, Pensa, 1999. 53 H. Becker, Photography and Sociology, in “Afterimage”, 1, 2, 1975. 50
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nostri studi”, perché consente di “analizzare, scomporre e misurare tut‑ ti i movimenti che compongono l’azione”54. Nel corso del Novecento, questa capacità del cinema di registrare tutte le componenti dell’azio‑ ne sociale sarà evidenziata da molti sociologi per esaltare l’utilità della cinematografia nelle scienze sociali, il cui oggetto, in fondo, è proprio l’azione sociale, cioè il movimento55. Alle origini del cinema, però, Regnault era preoccupato soprattutto che il successo dei fratelli Lumiere e dell’idea di cinema come spetta‑ colo potesse far “dimenticare l’importanza del film per la ricerca scien‑ tifica”, poiché “soltanto il cinema fornisce in abbondanza documenti oggettivi”56. Sulla base di questa convinzione, fu proprio Regnault a ipotizzare di usare il cinema per creare un nuovo modello di museo etnografico che potesse diventare un laboratorio visuale fondamen‑ tale per documentare l’esistenza e quindi per l’implementazione delle scienze dell’uomo57. Gli strumenti visuali, d’altra parte, non solo con‑ sentivano a un ricercatore “di trasformare la sua esperienza personale in conoscenza condivisa”58, ma anche di avere immagini antropome‑ triche, utilizzabili per misurare le proporzioni anatomiche degli ap‑ partenenti a culture diverse: la funzione riconosciuta allo strumento fotografico era riuscire a fornire una evidenza sperimentale della real‑ tà. Così, a fine Ottocento, molte istituzioni s’impegnarono in progetti di musealizzazione delle culture umane, per creare una memoria stori‑ ca visiva. Nel 1898, nello stretto di Torres, in un’altra delle primissime spedizioni etnografiche, fu il biologo Alfred Cort Haddon, convertito all’antropologia, a usare per primo le fotografie e le riprese cinemato‑ A. M. Toti, Biografia, visualità, memoria. Per una sociologia dell’intersoggettività, Napoli, Liguori Editore, 2009, p. 144. 55 T. Curry, A. C. Clarke, Introducing visual sociology, Kendall Hunt, Dubuque, 1981; R. Girod, Le cinéma comme instrument de recherche dans le domaine sociolo‑ gique, in “Revue internationale de filmologie”, 4, 14‑15, 1954; E. Morin, Cinéma et sciences sociales, in Id. L’industria culturale, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1963. 56 A. M. P. Toti, op. cit., pp. 144‑145 57 Ibidem 58 P. Chiozzi, Manuale di antropologia visuale, Milano, Edizioni Unicopli, 1999, p. 26. 54
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grafiche come strumento illustrativo, ma fondamentale per il rileva‑ mento dei dati59. Questi primi esempi etnografici e antropologici di integrazione tra media visuali e ricerca scientifica saranno poi seguiti dagli studiosi di scienze sociali, che invece inaugureranno l’uso docu‑ mentale della fotografia. È il caso delle ricerche empiriche che la Scuola di Chicago realizzò già a fine Ottocento: tra il 1896 e il 1916 l’America Journal of Sociology pubblicò ben 31 articoli corredati da un ricco ma‑ teriale fotografico documentale60. Tuttavia, le sperimentazioni visuali della Scuola di Chicago furono scoraggiate dalla diffidenza dell’acca‑ demia, probabilmente preoccupata di confondere le indagini sociolo‑ giche con quelle di altre discipline, rischiando di mettere a rischio la sua ancor giovane autonomia e legittimità scientifica: nell’uso di foto e video‑camere, infatti, la scienza vedeva più una pratica artistica, che può provocare sì fascinazione nell’uomo, ma una reazione di sufficien‑ za e distacco nello scienziato. Per questo, nonostante i primi e impor‑ tanti studi pioneristici anche in ambito sociologico, la ricerca visuale fu demandata all’etnografia e all’antropologia, legittimate dal bisogno di illustrare le specificità di popoli sconosciuti, come infatti fecero so‑ prattutto Malinowski, lo psicanalista Gregory Bateson e l’antropologa Margaret Mead61. Questi ultimi due, all’interno di una riflessione espli‑ cita sull’uso delle immagini nell’antropologia, sostennero la necessità di uno studio che consentisse di integrare la descrizione strutturale del‑ la società con quella visivo‑emotiva, unendo così la cultura scientifica e quella umanistica. Dagli anni Venti, però, non si può trascurare anche il ruolo esercita‑ to dal cinema stesso nell’approfondimento teorico‑pratico delle ricer‑ che visuali. Tra il 1922 e il 1926 uscirono due dei capolavori del regista U. Fabietti, Storia dell’antropologia, Bologna, Zanichelli, 1991. Cfr. L. Gariglio, I visual studies e gli usi della fotografia nelle ricerche etnografiche e sociologiche, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, n. 1, gennaio‑marzo 2010. 61 Cfr. B. Malinowski (1922), Argonauti del Pacifico Occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, trad. it., Roma, Newton Compton, 1973; G. Ba‑ teson (1936), Naven. Un rituale di travestimento in Nuova Guinea, trad. it., Torino, Einaudi, 1988; G. Bateson, M. Mead, Balinese Character. A Photographic Analysis, New York, New York Academy of Sciences, 1942. 59 60
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statunitense Robert Flaherty: Nanuk l’eschimese e L’ultimo Eden62. Nel primo film, Flaherty trascorse 15 mesi a osservare la quotidianità de‑ gli eschimesi, mentre nel secondo seguì e filmò per due anni la vita e la lotta per l’esistenza di un popolo dei Mari del Sud. Secondo il regista inglese John Grierson, L’ultimo Eden costituì un fulgido esempio di come l’arte possa coesistere con il documento63 come testimonianza so‑ ciale: non a caso, da allora iniziò a diffondersi un uso più puntuale del termine documentario64 e Flaherty oggi è considerato un “antenato to‑ temico” dell’antropologia visuale, a dimostrazione di come non sia ri‑ levante la disciplina in cui un autore viene catalogato, ma piuttosto la metodologia utilizzata. E il documentarista statunitense, con il suo de‑ siderio di ricercare quello che lui stesso definiva “lo spirito dell’uomo”, realizzava senz’altro ricerche visuali dal valore sociologico, rendendo il cinema non solo strumento di documentazione ma anche medium d’indagine. Negli stessi anni, in Unione Sovietica imperversava l’idea di “cogliere la vita alla sprovvista”, grazie alla metodologia avanguar‑ dista del cine‑occhio di Dziga Vertov, adoperato fin da L’uomo con la macchina da presa (1929)65. L’intento era osservare la realtà e docu‑ mentarla senza alterarla. Eppure, nei film dell’avanguardia sovietica, il montaggio assumeva un ruolo cruciale nel facilitare l’interpretazione da attribuire alla realtà, tant’è che il cinema sovietico non si poneva tanto come strumento scientifico, ma rivoluzionario e di propaganda. Nonostante ciò, nel 1960 il sociologo Edgar Morin definì quello di Vertov un cinema‑verità, locuzione che da alcuni fu poi trasformata Cfr. A. Napolitano, Robert J. Flaherty, Firenze, La Nuova Italia, 1975. Cfr. M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma‑Bari, La‑ terza, 2009. 64 Per un approfondimento del cinema documentario e, più in generale, del rapporto tra cinema e racconto della realtà, si vedano: J. Breschand (2002), Il documentario. L’altra faccia del cinema, trad. it., Torino, Lindau, 2005; B. Nichols (2001), Introdu‑ zione al documentario, trad. it., Milano, Il Castoro, 2006; F. Casetti, L’occhio del No‑ vecento. Cinema, esperienza, modernità, Milano, Bompiani, 2005; A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997; M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Firenze, Le Lettere, 2008. 65 Cfr. P. Montani, Dziga Vertov, Milano, Il Castoro, 2013. 62 63
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in cinema‑diretto, cioè capace di filmare la realtà in “presa diretta” sen‑ za mediazioni narrative. Morin e Rouch importarono in Francia il ci‑ nema‑verità, collocandosi quindi “su una linea dominata da Flaherty e Dziga Vertov”, laddove “cinema‑verità significa che abbiamo voluto eliminare la finzione e avvicinarci alla vita”66. Un altro importante re‑ gista francese, Chris Marker – autore del famoso video‑fotografico La jetée (1962) e futuro collaboratore di Patricio Guzmán –, riconosce che il cinema‑verità rappresenta una vera e propria “predisposizione all’indagine” e quindi può quantomeno costituire una fase prelimina‑ re di ricerca che precede una futura indagine, che possa poi analizzare il film come testimonianza. Negli anni Trenta, anche il documentario sociale dei Paesi Bassi si sviluppò in modo determinante, soprattutto grazie a Joris Ivens, che si è guadagnato la ribalta del cinema mondia‑ le con il suo documentario Terre di Spagna (1937) sulla guerra civile spagnola67. In questo periodo, il già citato regista inglese Grierson contribuì in‑ vece a far crescere la scuola documentaristica britannica, che negli an‑ ni Cinquanta influenzò anche il nuovo movimento del Free Cinema inglese e negli anni Sessanta il cinema statunitense di osservazione, di autori come Friederick Wiseman, Richard Drew, Richard Leacock. Il cinema‑verità diffuso con il documentario sociale, d’altra parte, ha esercitato un’enorme influenza anche sul cinema di finzione francese dei primi anni Sessanta, che si è distinto sotto l’etichetta di nouvelle va‑ gue, ereditando in parte anche l’esperienza del cinema neorealista ita‑ liano, strutturata nella teoria del pedinamento di Cesare Zavattini. Le acute riflessioni del più noto teorico e sceneggiatore neorealista, furo‑ no messe in pratica nelle opere di Rossellini (Roma città aperta, 1946), De Sica (Ladri di Biciclette, 1948) e Visconti (La terra trema, 1948), che – secondo Bazin –, pur se film di finzione, “presentano un valore documentario eccezionale”68. Si tratta di film, infatti, che nascono dal‑ la curiosità zavattiniana “per le persone comuni considerate sociologi‑ Cfr. E. Morin, J. Rouch, Chronique d’un été, in “Interspectacles”, Lherminier, 1961‑1962. 67 Cfr. V. Tosi, Joris Ivens. Cinema e utopia, Roma, Bulzoni Editore, 2002. 68 A. Bazin, (1958), Che cos’è il cinema, trad. it., Milano, Garzanti, 1973, p. 280. 66
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camente dei veri e propri attori sociali”, perché “non si tratta più di far diventare realtà (far apparire vere, reali) le cose immaginate, ma di far diventare significative al massimo le cose quali sono, raccontate quasi da sole”69. In Italia, del resto, i primi anni Cinquanta sono gli anni del‑ la nascita del film etnografico, con le ricerche di Ernesto De Martino, costruite intorno a un’equipe interdisciplinare in cui il ricercatore col‑ labora con l’etnomusicologo, il fotografo e il regista cinematografico. Le sue ricerche ispirarono i lavori di Vittorio De Seta, Cecilia Mangi‑ ni, Michele Gandin, Giuseppe Ferrara, Gianfranco Mingozzi e altri70. Senza i loro documentari, la nostra memoria non avrebbe un’imma‑ gine così precisa del Mezzogiorno d’Italia nel lungo Secondo Dopo Guerra. Senza dubbio, i loro film costituiscono un importante stru‑ mento conoscitivo della realtà e realizzano l’ossessione ottocentesca di riprodurre fotograficamente i movimenti del mondo e di fornire una prova del reale. Le scienze sociali, per un lungo periodo, hanno sospeso l’uso fre‑ quente dei media visuali, sperimentato durante le ricerche pionieristi‑ che dell’etnografia e dell’antropologia visuale. Per oltre un ventennio, infatti, l’uso di fotografia e cinema nelle ricerche sociali fu quasi assen‑ te. Alla fine degli anni Sessanta però, il dibattito fu riaperto dal libro Visual Antropology: Photography as a Research Method, scritto dagli an‑ tropologi John e Malcolm Collier71. È anche grazie a questo dibattito che si arrivò al saggio Photography and Sociology di Howard Becker e alla stessa nascita della Sociologia Visuale come disciplina autonoma. Negli stessi anni, in Italia, Ferrarotti prima e Lello Mazzacane poi, oltre a riflettere sulle metodologie visuali72, realizzarono ricerche so‑ ciali fotografiche nelle borgate romane, in Sud America o nei paesi della Basilicata. Tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottan‑ C. Zavattini, Neorealismo, Milano, Bompiani, 1979, p. 97. Cfr. F. Marano, Il film etnografico, Bari, Edizioni di Pagina, 2007. 71 J. Collier, M. Collier, Visual Antropology: Photography as a Research Method, New York, Rinehart & Winston, 1967. 72 F. Ferrarotti, Dal documento alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali, Napoli, Liguori, 1974; L. Mazzacane, Per una metodologia d’impiego dei mezzi au‑ diovisivi nella ricerca e nella didattica, in “La critica sociologica”, 39‑40, 1977. 69 70
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ta, si diffuse invece un vero e proprio fervore di ricerche di sociologia visuale, ma anche di riviste e convegni, anche se molto più negli Stati Uniti che in Europa, dove invece continuarono a prevalere “metodo‑ logie qualitative che assegnano un ruolo marginale – per lo più illu‑ strativo o di mero stimolo – ai mezzi audiovisivi”73. Nel 1986, il IV Convegno dell’International Association of Visual Sociology, fondata tre anni prima, si svolse nel cuore dell’Europa, a Bielefeld: la maggior parte delle relazioni tentò di approfondire aspetti teorici, metodolo‑ gici e semiologici, interrogandosi sulla credibilità della nuova discipli‑ na e, in particolare, sul Direct cinema as sociological research technique o sul Direct cinema films: art or science?74. A partire dai dubbi sullo sta‑ tuto positivistico della sociologia visuale e dalle riflessioni sulla natu‑ ra iconica delle immagini e sul loro rapporto con la realtà75, si cercò di capire se la ricerca visuale potesse essere considerata un semplice stru‑ mento d’indagine aggiuntivo o un nuovo e diverso paradigma cono‑ scitivo. Anche negli Stati Uniti il dibattito di quegli anni fu molto acceso: John Wagner76 individuò cinque modalità di utilizzo dei materiali vi‑ sivi nell’ambito della ricerca sociologica; Leonard Henny77 divise in‑ vece le ricerche visuali in image‑oriented, più interessate allo studio delle funzioni sociali della comunicazione visiva, ed equipment‑orien‑ ted, più orientate all’uso delle tecniche visuali nel processo di ricerca; Douglas Harper78 individuò, più sinteticamente, due filoni principa‑ li della sociologia visuale: quello metodologico, che riguarda l’uso di F. Mattioli, op. cit., p. 111. Ivi, p. 108. 75 La maggior parte delle riflessioni sociologiche sullo statuto delle immagini e sul loro nesso con il reale si avvale innanzitutto della classificazione dei segni proposta da Charles Pierce, secondo cui i segni si distinguono in indici, simboli e icone (immagine, diagramma, metafora). Cfr. C. S. Peirce, Semiotica, trad. it., Torino, Einaudi, 1980. 76 Cfr. J. Wagner (a cura di), Images of Informations, London, Sage Publications, 1979. 77 Cfr. L. M. Henny, Theory and Practice of Visual Sociology, in “Current Sociology”, 3, 1986. 78 Cfr. D. Harper (1988), Orizzonti sociologici. Saggio di sociologia visuale, trad. it., in “Sociologia della comunicazione”, 19, 1993. 73 74
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tecniche visuali nell’analisi della realtà sociale (fare sociologia con le immagini), e quello culturologico, che si occupa dell’analisi delle im‑ magini prodotte dalla società (fare sociologia sulle immagini)79; infi‑ ne, John Grady realizzò una nuova classificazione, descrivendo tre aree di indagine: il seeing, il communicating with icons e il doing sociology vi‑ sually80. Parallelamente al dibattito teorico‑metodologico, negli Stati Uniti, però, proseguì, più intensamente che altrove, anche la ricerca empiri‑ ca visuale, grazie soprattutto alla Nuova Scuola di Chicago che riuscì a scrollarsi di dosso le diffidenze degli scienziati sociali subite dai chi‑ cagoans a inizio Novecento. Così, sotto l’influenza del pensiero socio‑ logico degli etnometodologi e di Goffman, i lavori di Douglas Harper, Bruce Jackson, Helen Stummer e Bill Aron, indagarono visualmente le istituzioni totali, la microdevianza nei ghetti, le dinamiche della vita quotidiana, inventando anche nuove tecniche di ripresa e di stimola‑ zione sociale. Una prima sistematizzazione teorica delle ricerche visua‑ li più significative arrivò proprio in questi anni grazie a uno studio del già citato Becker, dal titolo eloquente: Exploring Society Visually81. A questo studio seguirono poi quelli più recenti e significativi di Gillian Rose e Marcus Banks, con numerose riedizioni e ristampe82. Come emerge da questi brevissimi cenni sulle ricerche visuali, il dibattito sulla stessa scientificità o meno della sociologia visuale è sempre vivo e acceso fin dalle origini della disciplina. Dagli innume‑ revoli studi, però, appare chiaro come sia ormai superfluo disquisire ancora sulla scientificità o meno dell’approccio visuale, chiedendo‑ si se un’immagine sia un oggetto di sapere o un semplice strumento di sapere, ossia se una ricerca visuale possa essere un video‑saggio, cioè Cfr. P. Faccioli, L’immagine sociologica, Milano, FrancoAngeli, 1997. Cfr. J. Grady, Conclusioni. Le potenzialità della sociologia visuale, in Faccioli P., Harper D. (a cura di), Mondi da vedere, Milano, FrancoAngeli, 1999. 81 Cfr. H. Becker, Exploring Society Visually, Chicago, University of Chicago Press, 1981. 82 Cfr. G. Rose, Visual Methodologies, London, Sage, 2001; M. Banks, Visual Meth‑ ods in Social Research, London, Sage Publications, 2001; M. Banks, Using Visual Data in Qualitative Research, London, Sage Publications, 2007. 79 80
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un “saggio sociologico visuale”83 autonomo e concluso, oppure un vi‑ deo‑per‑saggio, cioè una fase preliminare di una ricerca ancora in‑ compiuta. La distinzione appare superata, perché anche ogni sapere compiuto non è mai compiuto in sé, ma è sempre fonte di altro sa‑ pere. Come si è detto, infatti, la scienza, opera tramite osservazioni di osservazioni84 e quindi ogni sapere, qualunque forma e natura ab‑ bia, è sempre fonte e strumento di altro sapere. Inoltre, il linguaggio scritto e quello visivo non sono sostitutivi, ma bensì complementa‑ ri85: dal dibattito sull’iconismo degli anni Settanta86, è ormai chiaro che non bisogna “pensare alle immagini come a testi altri, radical‑ mente diversi”87. Sia che si scriva sulla carta o con la luce si produco‑ no fonti che diventano testi da ri‑analizzare a partire dai loro specifici codici. D’altra parte, appare ormai indubitabile che le immagini ab‑ biano non solo una funzione illustrativa o pedagogica, ma possano essere un importante oggetto e strumento di ricerca, da utilizzare a vari livelli di indagine: come prima documentazione di sfondo, come raccolta e descrizione di dati, come strumento di verifica88. Le fon‑ ti visuali, inoltre, presentano degli indubitabili vantaggi tra cui la lo‑ ro natura indessicale e transculturale89, ma anche la capacità di vedere più rapidamente e fedelmente dell’occhio umano90, in una sorta di Blow‑up in cui, come nel film di Michelangelo Antonioni, la pellico‑ la si lascia impressionare da dettagli della realtà che sembravano non esserci affatto, registrando e ingrandendo gli “imponderabilia of ac‑ tual life and typical behaviour”91. G. Losacco, Il saggio sociologico visuale, in Ansaloni S, Baraldi C. (a cura di), Grup‑ pi giovanili e intervento sociale, Milano, FrancoAngeli, 1996. 84 N. Luhmann, Osservazioni sul moderno, cit., p. 24. 85 F. Ferrarotti, op. cit., p. 19. 86 U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975. 87 I. Pezzini, Immagini quotidiane. Sociosemiotica del visuale, Roma‑Bari, Laterza, 2008, p. 20. 88 F. Mattioli, op. cit., p. 124. 89 A. M. P. Toti, op. cit., p. 121. 90 F. Ferrarotti, op. cit., p. 25. 91 Malinowski, op. cit., p. 20. 83
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Pertanto, dal mio punto di vista, quando si decide di voler adotta‑ re un approccio visuale, diventa marginale la questione se le immagini e i suoni registrati siano un sapere scientifico compiuto o meno, an‑ che perché la stessa distinzione disciplinare tra il produrre immagini e analizzarle è escludente e fuorviante: infatti, “in realtà il processo di produzione dell’immagine coinvolge un orientamento e una teorizza‑ zione analitica dall’inizio alla fine”92. Così diventa fuori luogo la stes‑ sa distinzione – che propongono Faccioli e Losacco93 – tra sociologo e fotografo, secondo cui il sociologo partirebbe dalle idee per cerca‑ re fenomeni osservabili come indicatori o incarnazioni di quelle idee, mentre il fotografo partirebbe da ciò che osserva per poi tradurlo in concetti. In effetti, pur se questa differenza è indicativa di regole di‑ sciplinari distinte, nessuna profonda ricerca visuale, che sia artistica o scientifica, può essere meramente deduttiva, ma nasce sempre da accu‑ rate domande teoriche e conseguenti tentativi metodologici di rispo‑ sta, fino a che l’etica (del metodo) e l’estetica (della forma) diventano strettamente connesse. D’altra parte, come ricorda Arnheim94, persino il pensiero è legato profondamente all’immagine e qualsiasi rappresen‑ tazione linguistica del mondo inquadra selettivamente un problema, con l’unica differenza principale di avere un diverso rapporto referen‑ ziale con la realtà. Vedere è pensare, così come pensare è vedere, in un processo di astrazione in cui un atto è legato all’altro. Pertanto, nell’u‑ so del medium visuale, l’unica questione rilevante da porsi, era ed è “garantire l’ancoraggio delle immagini rappresentate a un percorso metodologico di ricerca che non si discosta minimamente da quello che useremmo per scrivere un libro [scientifico]”95. Secondo Carda‑ no, fare ricerca qualitativa significa adottare una forma di osservazione ravvicinata e sintonizzata con le caratteristiche di ciò che si osserva96. J. Grady, The Visual Essay and Sociology, in “Visual Sociology”, 6, n. 2, 1999, p. 496. P. Faccioli, G. Losacco, Nuovo manuale di sociologia visuale. Dall’analogico al digitale, Milano, FrancoAngeli, 2010. 94 R. Arnheim (1969), Il pensiero visivo. La percezione visiva come attività conoscitiva, trad. it., Torino, Einaudi, 1974. 95 G. Losacco, op. cit., p. 144 96 A. Frisina, Ricerca visuale e trasformazioni socio‑culturali, Torino, Utet, 2013. 92
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Se si ritiene che, in un determinato caso, la sociologia visuale sia la for‑ ma di ricerca qualitativa con maggiore sintonizzazione con la realtà, al‑ lora tra i tanti dubbi sulla sua scientificità, è sufficiente verificare se essa soddisfi i cinque criteri di ordine metodologico indicati da Cipolla97 oppure segua le quattro fasi di ogni ricerca qualitativa, così come indi‑ cate dallo stesso Cardano98. I cinque criteri sono la validità (principio di corrispondenza tra immagini e concetti), l’attendibilità (principio di preparazione teorica e credibilità tecnica), la comparabilità (princi‑ pio di confrontabilità secondo codici definiti), la coerenza (principio di compatibilità tra le icone e le ipotesi e metodologie di ricerca) e la convergenza (principio di congruenza con immagini collaterali, secon‑ do cui il senso di un’icona non deve essere equivocato da immagini da essa distanti, successive o esterne alla ricerca). Cardano, invece, si oc‑ cupa dei criteri di scientificità di qualsiasi ricerca qualitativa, ma i suoi criteri possono essere applicati anche alle ricerche visuali. Innanzitut‑ to è necessario prefigurarsi un disegno della ricerca: questa prima fase consiste nel porsi domande rilevanti sulla realtà osservata e nell’indi‑ viduare un preciso contesto empirico, che ci consenta di selezionare dei casi appropriati da indagare in profondità, chiarendo poi i meto‑ di che si utilizzeranno e perché. I casi selezionati diventano un campio‑ ne rigoroso non in base a ragioni probabilistiche o di rappresentatività, ma “quando le idee (le categorie) emerse su un certo tema sono consi‑ derate sature”99. Nella seconda fase, è necessario procedere all’osserva‑ zione partecipata sul campo, producendo reperti (testi), riproduzioni (trascrizioni di interviste e focus group) e rappresentazioni (note et‑ nografiche e eventuali immagini fisse o in movimento). La terza fase è quella dell’analisi dei materiali empirici prodotti precedentemente, ognuno in base al proprio codice linguistico. In realtà, la seconda e la terza fase non sono due momenti nettamente separati, perché la ricer‑ ca è sempre un processo circolare e ricorsivo, in cui dal campo si pas‑ C. Cipolla, L’apporto della comunicazione iconica alla conoscenza sociologica: un bilancio metodologico, in Cipolla C., Faccioli P. (a cura di), Introduzione alla sociologia visuale, Milano, FrancoAngeli, 1993. 98 M. Cardano, La ricerca qualitativa, Bologna, Il Mulino, 2011. 99 A. Frisina, op. cit., p. 9. 97
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sa all’analisi e dall’analisi si torna al campo e ancora all’analisi. Infine, nella quarta e ultima fase si comunicano i risultati, attraverso diver‑ se opzioni che però, nella ricerca qualitativa, prevedono quasi sempre l’alternarsi della voce analitica del ricercatore a quella di chi è stato os‑ servato e viene citato puntualmente. Com’è ovvio, questa opzione non esclude la possibilità di comunicare i risultati e di alternare le voci an‑ che utilizzando lo strumento del video, che anzi certifica in modo an‑ cora più fedele e completo la realtà osservata, fornendo informazioni aggiuntive e rilevanti su tutto il campo del non‑verbale, ossia sugli spa‑ zi abitati, sulla gestualità, sulle emozioni di cui il suono della voce e il corpo lasciano traccia. Negli anni Duemila, la sociologia visuale è riuscita a guadagnarsi una maggiore visibilità e accettazione scientifica non solo affinando sem‑ pre più la sua metodologia, ma anche favorita dall’esplosione di un ge‑ nerico desiderio di raccontare il reale tramite una caméra‑stylo: non a caso, si è parlato di documentary turn e di Reality Hunger100. Nel con‑ testo di una cultura sempre più oculocentrica101, la sociologia visuale ha iniziato a ritagliarsi una sua centralità, grazie alla sua capacità di forni‑ re profondità analitica al generico racconto visuale della realtà. D’altra parte, essa può arricchire i resoconti fenomenologici, perché da un la‑ to consente di osservare l’apparenza degli attori sociali e, dall’altro, di vedere il mondo attraverso lo sguardo di chi viene osservato102. Di conseguenza, la sociologia visuale sembra aver colmato la distan‑ za tra arte e scienza, provando a ricucire la frattura che ha provocato la loro separazione. In effetti, come sintesi e unità di cinema e sociolo‑ gia, essa può potenziare la funzione illuministica comune a entrambe: evidenziare le dissonanze della ragione quotidiana, sociale e storica, il D. Shield, Reality Hunger. A Manifesto, New York, Alfred Knopf, 2010. Cfr. W. J. T. Mitchell, Picture Theory: Essay on Verbal and Visual Representation, Chicago, University of Chicago Press, 1994; M. Jay, That visual turn. Tha advent of visual culture, in “Journal of visual culture”, vol. 1, 2002; N. Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, Roma, Meltemi, 2002. 102 Cfr. R. Chalfen, Looking Two Ways: Mapping the Social Scientific Study of Visual Cukture, in E. Margolis, L. Pauwels, The SAGE Handbook of Visual Research Methods, London, Sage, 2011. 100 101
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rimosso della realtà sociale, il suo senso latente. Così, tramite il connu‑ bio tra Illuminismo sociologico103 e cinematografico, può detecnicizzare la sociologia e consentire di sfuggire all’an‑nestesia del quotidiano104, attraverso la propagazione di quella luce collaterale sul mondo, che già nel 1934 Znaniecki attribuiva alle potenzialità dell’arte letteraria e del‑ la sua auspicata fusione con la sociologia. Pertanto, le ricerche visuali, come forma d’integrazione di due lin‑ guaggi che si prefiggono di rendere più complessa l’osservazione del reale, consentono di ampliare gli orizzonti prospettici e, come sostene‑ va Benjamin105, di guardare al di là dell’immagine, oltre i confine del‑ la cornice.
Cfr. N. Luhmann (1970), Illuminismo sociologico, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1983. 104 Toti, op. cit., p. 129. 105 Cfr. W. Benjamin (1931), Piccola storia della Fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it., Torino, Einaudi, 1966. 103
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Atto II – Il cinema di Allende
Centinaia di specialisti al Pentagono, alla Casa Bianca, in qualche centro nevralgico del potere neocoloniale non sono ancora riusciti a trovare la chiave per fare tabula rasa della cultura. La cultura ci protegge. Che cosa fa un popolo assediato? Un popolo assediato cerca rifugio nel proprio passato, nella propria memoria collettiva, che è anche il suo presente Patricio Guzmán
2.1 Le ricerche visuali del cinema allendista Il cinema cileno riuscì ad assumere una propria identità, ampliando una riflessione sul proprio specifico stile e indirizzo, soltanto a partire dagli anni Sessanta. Eppure dalle origini della cinematografia fino alla fine degli anni Cinquanta raggiunse la sua massima prolificità, con ot‑ tanta lungometraggi girati solo nell’epoca del cinema muto, ossia quasi metà dell’intera produzione cilena dalle origini a oggi: di essi, ben qua‑ ranta uscirono in un tempo ristretto, tra il 1925 e il 1927106. Il cinema cileno delle origini non fu solo molto prolifico, ma anche abbastanza prematuro: il primo film fu un documentario, Un ejercicio general de bomberos, un cortometraggio girato da un gruppo di pionie‑ ri rimasti anonimi e proiettato il 26 maggio del 1902 nella sala Odeon della città di Valparaiso. Il primo film di finzione, invece, fu girato otto anni dopo, quando – in occasione del primo centenario dell’Indipen‑ denza – Adolfo Urzua Rosas realizzò Manuel Rodriguez, biografia del 106
Cfr. F. Bolzoni, op. cit.; A. Vega, Re‑vision del cine cileno, Santiago, Ceneca, 1979.
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noto eroe dell’indipendenza. La produzione degli anni Dieci, però, fu soprattutto legata al documentario e al desiderio di sfruttare le capa‑ cità del cinema di riprodurre la realtà, filmando eventi della vita quo‑ tidiana o delle cronache dei giornali. Non a caso, furono quasi sempre editori di periodici a produrre cinegiornali, nel tentativo di sfruttare un pubblico già fidelizzato alla cronaca. Con la realizzazione di veri e propri film si distinsero invece Salvador Giambastiani per il documen‑ tario e Jorge Délano e Pedro Sienna per il cinema di finzione. Giamba‑ stiani fu un eccellente fotografo e documentarista italiano: arrivato in Cile nel 1915, nel 1919 portò per la prima volta sullo schermo le fac‑ ce dei minatori cileni, realizzando il documentario Recuerdos del mine‑ ral de el teniente. Nel 1929 Délano realizzò La calle del ensueño, restato alla storia co‑ me il primo film sonoro girato in America Latina: ottenne il premio per la miglior produzione di lingua spagnola all’Esposizione Interna‑ zionale di Siviglia. Pedro Sienna, invece, divenne uno dei maestri del cinema di finzione degli anni Venti, a partire dal film El husar de la muerte del 1925: ancora una volta il cinema cileno seguiva il filone sto‑ rico‑romanzesco delle origini, riproponendo il racconto della vita di Manuel Rodriguez. Oggi questo film di Sienna è considerato un classi‑ co della cinematografia cilena; è anche l’unico film a essere conservato dall’epoca del muto grazie a un attento restauro da parte della Cinete‑ ca della Universidad de Chile. Negli anni Sessanta la proiezione della versione restaurata di El husar de la muerte servì “a dimostrare che nel‑ la decade degli anni ’20 esisteva già qualcosa che legittimamente può definirsi cinema cileno”107. Tuttavia, secondo molti critici, fino agli an‑ ni Cinquanta il cinema cileno si limitava a imitare i modelli hollywoo‑ diani, nonostante si ispirasse ai propri eroi nazionali. Come sostiene Walter Munoz, “il Cile è un Paese che ammira le statue. Le guarda per imitarle. All’inizio del cinema cileno si ammira l’immagine di un guer‑ riero. Il Cile ha il gusto dei guerrieri. […] Manuel Rodriguez, dai gior‑ ni dell’indipendenza, serve al caso. Si sa in anticipo che la presenza di
J. Mouesca, Plano secuencia de la memoria de Chile. Veinticinco anos de cine cileno (1960‑1985), cit., p. 11.
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un guerriero sulla scena assicura il successo”108. Questa adesione acriti‑ ca al nazionalismo, secondo Bolzoni, venne palesemente utilizzata per sfuggire proprio a un complesso di inferiorità nazionale. Il cinema cile‑ no, infatti, anche quando esaltava le proprie glorie, non riusciva a non copiare i canoni rappresentativi vigenti in altri Paesi: è quanto emer‑ ge anche dalle parole con cui José Martì provò a spiegare la “marginali‑ tà” che per un lungo periodo caratterizzò un certo tipo di intellettuale sudamericano: “eravamo una caricatura, con i pantaloni inglesi, il gi‑ let parigino, il giaccone nordamericano e il berretto spagnolo. […] Né il libro europeo, né il libro yankee davano la chiave per l’enigma ispanoamericano”109. Solo partendo da questa analisi critica si può ca‑ pire perché prima degli anni Sessanta si possa certamente parlare di ci‑ nema cileno, ma di un cinema privo di una propria specifica identità, così legato com’era a modelli stranieri e incapace di raccontare il vol‑ to del Cile, se non deformandone la memoria, abbellendola con mo‑ delli distanti. Per i primi decenni, in effetti, si verificò un colonialismo statunitense non solo dei mercati di assorbimento dei prodotti cinematografici, ma anche dell’immaginario creativo dei cineasti cileni. Questa sudditan‑ za culturale venne supinamente accettata finché il governo fu in ma‑ no ai conservatori che preferivano non intaccare i buoni rapporti con gli amici nordamericani. Questi ultimi, infatti, oltre a gestire le minie‑ re cilene di rame e salnitro, si occupavano dei loro bisogni di svago, di‑ stribuendo i propri film “consolatori”110. Un passeggero segnale di cambiamento ci fu a partire dal 1938 quan‑ do andò al governo il Frente Popular, una coalizione dei principali par‑ titi di sinistra che inaugurò un periodo di importanti trasformazioni, culminanti nel 1942 nella creazione degli studi della Chile‑Films, gra‑ zie al patrocinio della Corporacion de Fomento de la Produccion (Cor‑ fo), creata nel 1938 con il compito di incentivare l’attività industriale del Paese. Per quanto dovesse essere importante nel segnare un cam‑ biamento nelle produzioni cinematografiche, la Chile‑Films fallì dopo Cfr. O. W. Munoz, PrimerPlano, N. 1, Santiago, 1962. F. Bolzoni, op. cit., p. 11. 110 Ibidem. 108 109
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appena sette anni e gli studi vennero affittati a società private. Eviden‑ temente il Paese non era pronto per comprendere cosa significasse al‑ lestire una vera industria nazionale del cinema. Inoltre non bisogna dimenticare che tra le cause del fallimento ci fu senza dubbio la caren‑ za di tecnici specializzati nel settore e la mancanza di chiarezza sugli obiettivi culturali, cioè sul tipo di cinema di cui il Cile aveva bisogno e sul modo di svilupparlo. Uno degli errori dell’iniziativa pubblica, in‑ carnata da Chile‑Films, fu di basare tutti i suoi piani nella ricerca di un mercato internazionale: non si preoccupò, cioè, della crescita dei pro‑ pri tecnici, ma ricorse a mediocri professionisti stranieri, ai quali affidò la realizzazione di film concepiti secondo scopi puramente commer‑ ciali: presenza di “stelle” internazionali, tematiche cosmopolite, opere di ricostruzione storica o spettacolari ecc. I risultati furono disastrosi: la rovina economica e l’appiattimento culturale111. Il periodo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 non presentò grosse novità, anche se, la creazione del primo cineclub, nel 1952, rappresentò un im‑ portante canale di svolta. I nascenti circoli di cinema, come del resto gli specifici corsi universitari, non solo assolsero la funzione di educa‑ re alle immagini, ma contribuirono al passaggio da un cineasta impie‑ gato a un cineasta autore, intento a ricercare una propria autonomia e identità artistica, scegliendo, come proprio interlocutore privilegiato, la classe operaia e contadina, e rifiutando di esaltare le patrie glorie e di imitare sterili modelli statunitensi112. Questo decennio di transizione, inoltre, fu decisivo anche per l’in‑ cremento del cinema documentario. Questa forma di cinematografia trovò le sue possibilità di espressione in un organismo nato in modo silenzioso, ma che avrebbe giocato nel futuro un ruolo di grande im‑ portanza. Si trattava del Centro del Cinema Sperimentale dell’Univer‑ sidad de Chile, fondato e diretto prima da Sergio Bravo e poi da Pedro Chaskel. Per capire quanto il Centro Sperimentale si segnalasse da su‑ bito come portatore di innovazione, bisogna ricordare quello che nel 1959 scrisse la rivista Vistazo: “Il cinema cileno, che vive di ricordi pas‑ sati, adesso ha finalmente un gruppo di entusiasti coltivatori cinema‑ 111 112
A. Vega, op. cit., p. 33. Cfr. F. Bolzoni, op. cit.
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tografici – che – non sono mai stati ad Hollywood, né mettono sotto contratto stelle della moda”113. È chiaro che si alludesse alla disgraziata esperienza vissuta anni prima con la Chile‑Films. L’Università cilena, tuttavia, nonostante fosse promotrice dell’attività artistica e culturale del Paese, per il settore cinematografico non disponeva dei numerosi mezzi che erano indispensabili per edificare un’infrastruttura indu‑ striale. È proprio grazie all’aiuto dell’Università e dei connessi cine‑ club, però, che si fecero dei numerosi passi in avanti con le proiezioni di film e documentari di un certo livello e con l’intervento e la parteci‑ pazione di personaggi del cinema di una certa levatura. Il primo cine‑ club, inoltre, nato proprio grazie all’Università, riuscì anche a fondare una propria rivista e a preparare un programma di cinema per la radio. Gli incerti cambiamenti avviati nel corso degli anni Cinquanta, si sostanziarono maggiormente solo a partire dal successivo decennio. Un ruolo importante per l’accrescimento culturale del cinema cileno lo ebbe il Centro di Cinema Sperimentale capendo che, per garanti‑ re un miglioramento delle professionalità dei propri tecnici, era anche necessario invitare grandi personalità del cinema internazionale: tra gli altri furono ospitati Henri Langlois, direttore della Cineteca Fran‑ cese, e il più grande documentarista dell’epoca, Joris Ivens, “l’olandese volante”. Durante la presenza di Ivens si proiettarono tutti i suoi film che prima non erano mai stati presentati in Cile e lui stesso, nel 1962, tenne una serie di lezioni di teoria cinematografica allo scopo di tra‑ sformare il livello del cinema cileno da amatoriale a professionale. A proposito delle sue esperienze sudamericane, Ivens ha ricordato come allora in Cile non ci fosse una vera e propria industria cinematografica e come le sue lezioni dovessero partire dalle basi teoriche: «A Cuba trovai una giovane industria cinematografica che sapeva di dover girare film al servizio del movimento rivoluzionario del proprio popolo […]. In Cile si voleva semplicemente imparare la tecnica dell’ar‑ te cinematografica. Solo più tardi sarebbe emerso il problema dell’ap‑ plicazione di queste nozioni»114. J. Mouesca, op. cit., p. 15. J. Ivens, Io‑cinema. Autobiografia di un cineasta, trad. it., Milano, Longanesi, 1979, p. 181.
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Durante il suo soggiorno in Cile, Ivens realizzò tre documentari, A Val‑ paraiso e Le petit chapiteau del 1963 e Il treno della vittoria del 1964. A Valparaiso fu realizzato con la collaborazione di vari studenti dell’U‑ niversità di Santiago, nell’ambito di un’esercitazione didattica. “Farò un film lirico – affermò Ivens – ma nello stesso tempo insegnerò con questo film agli studenti cileni a far cinema affinché possano fare lo‑ ro, se lo vorranno, i film militanti e impegnati sui problemi del proprio paese”115. Dal punto di vista didattico, tuttavia, il soggiorno di Ivens in Cile non fu valutato dagli studenti con la dovuta importanza, anche perché i suoi film erano completamente sconosciuti e quindi lui non poteva ancora essere, come oggi, esempio di grande cineasta attento ai piccoli e grandi avvenimenti storici del suo tempo. Cosciente dell’im‑ portanza di Ivens era invece il socialista Salvador Allende che, in prima persona, s’impegnò per favorire la venuta del documentarista in Cile. E un anno dopo, nel 1964, proprio su incarico del Frente Popular, Ivens filmò un reportage sulla campagna elettorale di Allende: Il treno della vittoria. Malgrado il titolo, però, Allende non vinse le elezioni e fu bat‑ tuto dal democristiano Frei116. Anche se un po’ sottovalutata dalla maggioranza degli studenti, la venuta di Ivens fu fondamentale sia per l’incremento del genere do‑ cumentario e sia per il miglioramento di un numero ristretto di ap‑ prendisti cineasti, tra cui Patricio Guzmán, che lavorò con lui come direttore della fotografia sia in Le Petit chapiteau che in Il Treno del‑ la vittoria. L’evoluzione cinematografica che si ebbe in Cile nel corso degli anni ’60, però, fu in gran parte determinata dal più importante cambiamen‑ to culturale e politico dell’America Latina avvenuto in quegli anni: la Rivoluzione Cubana. L’esempio di Castro, infatti, dimostrò a milio‑ ni di persone che i sogni in cui avevano da sempre creduto si potevano effettivamente realizzare. Se in Cile la Rivoluzione Cubana non influì da subito a un immediato cambiamento politico, certamente, in cam‑ po culturale, contribuì a determinare la nascita di enormi movimenti di rinnovamento che già nel nome annunciavano la loro natura inno‑ 115 116
V. Tosi, op. cit., pp. 149‑150. Cfr. J. Mouesca, op. cit.
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vativa: Nueva Cancion Latinoamericana e Nuevo Cine Latinoamerica‑ no117. È perciò grazie all’esempio cubano di una “rivoluzione possibile” e agli insegnamenti di grandi esponenti del cinema internazionale (sia quelli visivi dei cineclub, sia quelli pratici con Ivens), che a partire dagli anni Sessanta si iniziò a parlare di “nuovo cinema cileno”: di un cinema che rompeva apertamente con i parametri della modesta tradizione cinematografica del Paese e lanciava una sfida alle produ‑ zioni commerciali nordamericane e messicane, fino a quel momen‑ to padrone indiscusse del mercato locale. Respinta l’imitazione del film hollywoodiano, il cineasta cileno elaborò una linea nazionale, ma non nazionalistica, della cultura. La maggiore diffusione dei ci‑ neclub, inoltre, spostò l’attenzione verso il cinema europeo: sulla scia delle preoccupazioni estetiche e politiche dei registi italiani, france‑ si e inglesi, s’inaugurò una stagione in cui il “cinema d’autore” occu‑ pò gli spazi vuoti dell’industria cinematografica, riuscendo a proporsi anche come spettacolo popolare. Le ricerche europee vennero riadat‑ tate creativamente al sostrato latinoamericano, tanto da far parlare di “estetica della fame”, di risposta innovativa del mondo del sottosvi‑ luppo118. Nel percorso di crescita culturale ed economica del cinema cileno ebbe un ruolo di stimolo importante l’inaugurazione nel 1957 del Ci‑ ne experimental, sezione cinematografica dell’Università del Cile, di cui divenne direttore l’architetto Sergio Bravo. Fu lui, nel 1963, a gi‑ rare la prima opera della neonata sezione: La marcha del carbon, un documentario sulle motivazioni che avevano spinto i minatori a uno sciopero e che forniva un approfondimento della vicenda, che inve‑ ce era stata molto semplificata dai quotidiani. Un anno dopo, lo stesso Bravo realizzò Las banderas del pueblo che, sull’esempio del Treno del‑ la vittoria di Ivens, sosteneva l’allora campagna elettorale di Allende, raccontando la “marcia del carbone” del 1958, a cui partecipò lo stes‑ so Allende. Bravo era convinto che la descrizione dei problemi della realtà dovesse essere finalizzata anche al mutamento sociale, rendendo 117 118
Ibidem. F. Bolzoni, op. cit., p. 17.
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quindi i suoi film parte di un cinema militante, al servizio della presa di coscienza della classe operaia. Pertanto, i due documentari di Bravo, seppure non ebbero una diffusione capillare, contribuirono alla “linea di sinistra” che più tardi convergerà sotto il nome di cinema militan‑ te di Unidad Popular, la formazione politica che sostenne la candida‑ tura di Salvador Allende nel 1970. Anche il nuovo direttore del Cine experimental, Pedro Chaskel, fortificò questa linea militante, girando nel 1967 il documentario Testimonio, un lavoro che denunciava l’incu‑ ria e l’abbandono in cui erano lasciati i centri psichiatrici del Paese. Te‑ matiche “politiche” avevano anche i documentari di Alvaro Ramirez e Douglas Hubner: il primo, con Desnutricion infantil, denunciava che al 70% dei bambini cileni mancava una nutrizione adeguata; il secon‑ do, con Hermida de la victoria, difendeva il movimento Sin casa che chiedeva una politica dell’abitazione a favore degli abitanti dei quar‑ tieri periferici di Santiago. Oltre alla creazione del Cine experimental, fu molto importante per la crescita del cinema cileno la convinzione di dover implementare un sistema di incontro e collaborazione tra i vari intellettuali del continen‑ te sudamericano119. Così nel 1962, il medico Aldo Francia fondò un importante Cineclub a Valparaiso e tre piccoli festival da aficionados. La maggiore attenzione per la diffusione dei racconti cinematografi‑ ci sulla realtà non poteva che riflettersi anche nell’aumento dei docu‑ mentari: Por la tierra ajena di Miguel Littín (1965), La isla de Chiloe (1966) e Erase una vez di Pedro Chaskel e Héctor Rios, Electroshow di Patricio Guzmán e Andacollo di Jorge di Lauro, tutti del 1967. Questo fu l’anno in cui Aldo Francia riuscì a organizzare, a Viña del Mar, il pri‑ mo Festival del Cine Joven y Latinoamericano, vero trampolino di lan‑ cio del nuovo cinema cileno. Fu lì che s’incontrarono più di cinquanta registi con lo scopo anche di redigere dei documenti che stabilisse‑ ro le linee guida del nuovo cinema. “Fino a questo momento – affer‑ mò Francia – i grandi maestri europei avevano rappresentato le nostre uniche influenze. Ora iniziamo a renderci conto che esiste un nuo‑ vo cinema latinoamericano e che dobbiamo cambiare il nostro modo Cfr. J. R. Rehren, Argentina, Cile, Uruguay: le culture contemporanee, trad. it., Roma, Carocci Editore, 2003.
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di concepire la stessa idea di cinema”120. Questo clima di fermento fu sfruttato per incoraggiare la creazione della prima Scuola di Cinema cilena che, non avendo esempi locali, si basò sugli statuti delle scuole di cinema argentine di Santa Fé e di La Plata, della Scuola di Cinema‑ tografia di Madrid e del Centro Sperimentale di Roma. Fu proprio la Scuola di Cinema cilena a organizzare nel 1969 il secondo Festival del Cine Latinoamericano. La mostra, com’è ovvio, fece degli evidenti pro‑ gressi, garantendo la partecipazione di registi e uomini di cinema di fa‑ ma internazionale. Questo passo avanti rispetto al festival di due anni prima, fu sottolineato anche da Ruiz: «nel 1967 ci dicemmo: bene, non è poi tanto difficile fare cinema. […] nel 1969 il festival fu molto diverso. Nel ’69 esistevano già i primi film cileni, e i termini del problema erano cambiati. Non si trattava più della questione se fare o non fare del cinema, ma se dare o non dare un’immagine dell’America Latina e del nostro Paese»121.
In occasione del Festival di Viña del Mar ebbero modo di mettersi in evidenza tre registi cileni che iniziavano a porre basi solide al Nuevo Cine Chileno e che si ponevano come anello di congiunzione tra l’effet‑ tivo cinema degli anni Sessanta e quello dei primi anni Settanta, cioè del cinema militante di Unidad Popular: Miguel Littín con El Chacal del Nahueltoro e gli esordienti Raul Ruiz e il medico Aldo Francia, che nel 1968 realizzarono rispettivamente Tres Tristes Tigres e Valparaiso, mi amor. Con queste opere, i cineasti cileni incominciarono finalmen‑ te a trasformare le innovazioni teoriche in pratica filmica, realizzando quella descrizione critica della società cilena fino ad allora solo deside‑ rata. I tre registi attingevano dalla realtà cilena i problemi da affronta‑ re cinematograficamente ma, se Ruiz, regista dell’immagine, articolava la sua storia sulla base di una “riflessione visiva”, Francia e Littín, registi della realtà, ispiravano le loro storie a fatti realmente accaduti, cercan‑ do di presentarli da differenti punti di vista, per spronare lo spettatore J. Mouesca, op. cit., p. 33. R. Ruiz, Non fare più un film come se fosse l’ultimo in L. Micciché (a cura di), “Ame‑ rica Latina: lo sguardo conteso”, Quaderni della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro, Marsilio Editori, 1981, p. 208.
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a un’analisi critica a cui non era mai stato abituato. A proposito di Val‑ paraiso, mi amor, Francia dichiarò: «Oggi come oggi in Cile non ci possiamo permettere il lusso di sti‑ molare un cinema di evasione. In Cile ci sono problemi molto gravi e il cinema deve dare priorità a questi problemi. Quando si risolveran‑ no, potremo dedicarci a fare film sull’amore, sul sesso»122.
L’abilità di Littín e dello stesso Francia, oltre alla già citata capacità cri‑ tica, consisteva nel saper miscelare la sfera dell’immaginario e la sfera del quotidiano, combinando la tecnica del documentario con i ricorsi del melodramma. Alla base di ciò c’era, da parte dei cineasti della ten‑ denza realistica, la necessità di cercare un punto di contatto con il po‑ polo, di potersi esprimere con il loro linguaggio. Littín, del resto, si era formato nel teatro e si rendeva conto che le sue prime opere cinema‑ tografiche erano ancora dense di un linguaggio elitario, che attribuiva maggiore importanza alla forma più che al contenuto. Nel El Chacal del Nahueltoro Littín decise di raccontare un fatto di cronaca nera su cui la stampa si era scagliata, esortando alla punizio‑ ne dello sciacallo che aveva ucciso ferocemente la convivente e i sei figli della donna. Littín scelse la soluzione più difficile e, respinta l’interpre‑ tazione moralistica che chiudeva la partita con la punizione del pre‑ sunto colpevole, interrogò i rappresentanti del popolo sul caso, una volta che la sua prima eco, la più emotiva, si era spenta. Littín, che usciva anche da un’esperienza televisiva, spiegò che il suo scopo era, nello stesso tempo, sfruttare e negare questa esperienza, cercando di “smontare la meccanica consueta del reportage […]. In El Chacal […] c’è sempre un ricorso all’emotività e, subito dopo, la demistificazione della medesima”123. El Chacal del Nahueltoro e Val‑ paraiso, mi amor, sebbene rimanessero all’interno di una cultura già sperimentata altrove, furono senza dubbio importanti perché porta‑ rono sugli schermi gli emarginati, inaugurando, per il Cile, un nuo‑ vo tipo di narrazione e quindi un modo diverso di auto‑osservarsi e rappresentarsi. 122 123
J. Mouesca, op. cit., p. 37. F. Bolzoni, op. cit., p. 97.
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Oltre a questi esempi eclatanti di un rinnovamento del cinema ci‑ leno, gli anni Sessanta portarono anche un’importante riforma dell’industria cinematografica nazionale. Il governo del democratico cristiano Eduardo Frei (oggi comprovato ispiratore del colpo di Stato del 1973) non solo avviò la riforma agraria e la cilenizzazione delle mi‑ niere di rame, ma, nel cinema attuò una politica di agevolazioni fiscali che favorì la produzione locale nella lotta impari contro la concorren‑ za statunitense. Nel 1966 la produzione cinematografica cilena fu di quattro film, nel 1967 di cinque e nel ’68 di dieci. La direzione del‑ la Chile‑Films, un organismo fin lì in letargo, venne affidata a Patricio Kaulen, il quale diresse due film in due anni: Largo viaje (1967) e La casa en que vivimos (1968). Sempre nel 1967 Alvaro Covacevich girò l’interessante Morir un poco e Helvio Soto, allora giovane esordiente, realizzò un episodio del trittico Abc del amor, prima di comparire sul palcoscenico nazionale con il più maturo Caliche sangriento del 1969. Sono proprio Kaulen e Covacevich, però, a dare avvio nel 1967 alla stagione dell’analisi della realtà nazionale che sarà poi meglio sviluppa‑ ta l’anno dopo da Francia, Littín e Ruiz. Infatti, se Morir un poco dava spazio a inserti documentaristici arrivando a proporre una ribellione a livello individuale, Largo viaje si rifaceva nei moduli formali al neorea‑ lismo e, nonostante il netto divario tra intenzioni e risultati, fu consi‑ derato il risultato più interessante di quel momento124. Se gli anni Sessanta erano iniziati sotto l’invocazione della Rivolu‑ zione Cubana, gli anni Settanta iniziavano con il trionfo elettorale di Unidad Popular. L’ascesa democratica alla presidenza del socialista Salvador Allende nel 1970 poteva persino apparire un superamento dell’esempio castrista, poiché rappresentava la possibilità di instaurare una società socialista senza la necessità di un’insurrezione rivoluziona‑ ria. L’esperienza cilena commosse la coscienza popolare a livello mon‑ diale, ma soprattutto commosse, com’era normale, gli stessi cileni. La vita del Paese vide numerosi cambiamenti grazie alle riforme struttu‑ rali che il governo cominciò a introdurre a livello economico e socia‑ le, determinando un clima di eccitazione ed entusiasmo almeno in una metà del popolo, mentre l’altra metà, spronata dai dollari statuniten‑ 124
Cfr. J. Mouesca, op. cit.
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si, iniziava già a tramare un colpo di Stato. Il fervore culturale di quegli anni si manifestava in più settori artistici: nella musica, con la Nueva Cancion Chilena, fino alla letteratura, consacrata nel 1971 con il Pre‑ mio Nobel a Pablo Neruda. Per quanto riguarda il cinema, ancor pri‑ ma del trionfo di Unidad Popular, i registi già cercavano di applicare i principi socialisti al loro settore artistico, tant’è che già durante la cam‑ pagna elettorale di Allende, si riunirono per produrre un documento cinepolitico di adesione al movimento operaio e contadino: il Manife‑ sto dei cineasti di Unidad Popular. Questo manifesto rispecchiava lo stato d’animo di un gruppo di in‑ tellettuali, i quali, coscienti della propria ancora incompleta misura di maturazione ideologica, si proponevano di crescere all’interno di una realtà nazionale in trasformazione. Il documento si soffermava su tre‑ dici punti, due dei quali, il primo e l’ultimo, determinanti per chiarire lo spirito unificante di questo gruppo di registi cileni. “Prima di essere cineasti – affermava il primo punto – siamo uomini coinvolti con il fe‑ nomeno politico e sociale del nostro popolo e con il suo grande com‑ pito: la costruzione del socialismo”. Nell’enunciazione di chiusura il manifesto aveva poi un momento di alto valore, poetico oltre che politico: “Un popolo che dispone di una cultura è un popolo che lotta, resiste e si libera”. Il documento riaffer‑ mava lo statuto artistico del cinema e, in particolare, lo statuto di “ar‑ te rivoluzionaria”: non in confronto alle altre arti, ma rivoluzionaria in senso politico, ciò capace di farsi interprete delle esigenze del popolo, coadiuvandolo nel perseguire l’obiettivo della “liberazione”. Specifica‑ va, inoltre, che “non esistono film rivoluzionari in sé”, ma “al contatto dell’opera con il suo pubblico e principalmente nella sua ripercussio‑ ne come agente attivatore di un’azione rivoluzionaria”125. Le ambizio‑ ni del Manifesto erano senz’altro molto elevate, così come testimonia bene un’affermazione di Miguel Littín che sintetizza lo spirito militan‑ te dei cineasti di Unidad Popular che non dovevano porsi come un’éli‑ te di intellettuali, ma dovevano essere un tutt’uno con il popolo: “il cinema dovrà essere fatto direttamente dal popolo. Non ci devono es‑ sere persone che si dedicano esclusivamente al cinema e altre alla co‑ 125
Id., Plano secuencia de la memoria de Chile, cit., pp. 70‑72.
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struzione di un ponte. Dobbiamo, allo stesso tempo, innalzare ponti e fare del cinema”126. Tuttavia, con il passare del tempo, il manifesto dei cineasti cileni rivelò ovviamente la sua natura utopica e la sua incon‑ sistenza reale, anche se al momento della sua presentazione si basava su uno stato d’animo autentico che si manifestava non solo tra i cinea‑ sti o in certi settori di intellettuali, ma in diversi e ampi circoli sociali. L’inconsistenza del manifesto si spiegherebbe, secondo Bolzoni, con‑ siderando il fatto che in “Cile, a differenza che a Cuba, l’annuncio di un diverso impegno degli autori non si accompagnò a radicali modi‑ fiche di struttura quali la confisca degli strumenti cinematografici e la nazionalizzazione delle sale di spettacolo”127. Infatti, nonostante il go‑ verno socialista decise di ridurre sia il prezzo dei biglietti che i grava‑ mi fiscali sugli incassi, gli esercenti e i distributori, al contrario di ciò che sperava Allende, non si preoccuparono di migliorare la qualità dei film proposti al pubblico. Il governo di Unidad Popular, alle prese con le difficoltà che gli venivano dalla nazionalizzazione delle banche, del‑ le grosse industrie e delle miniere di rame, nel settore cinematografico rinunciò ad attuare quelle riforme strutturali che avrebbero garantito una reale svolta. Questa politica di scelte a metà finì, perciò, solo per scontentare lar‑ ghi gruppi di spettatori, che motivarono in modo spesso opposto il loro dissenso. Da una parte, il pubblico borghese e quello popolare meno politicizzato, venuto a mancare il tradizionale menù hollywoo‑ diano, trascurarono lo spettacolo cinematografico e si riversarono nei cabaret, nei teatri di rivista, nelle sale da ballo. I cinefili, dall’altra par‑ te, chiesero che l’intera rete cinematografica si trasformasse, di colpo, in una mostra permanente dei classici da cineteca. Gli esponenti del cinema militante, infine, pretesero solo opere invitanti alla guerriglia, stimando “evasivo” qualunque film non impegnato nella battaglia che stava loro a cuore. In più, le compagnie di distribuzione controllate dal capitale nordamericano, dopo la nazionalizzazione del rame dell’11 lu‑ glio 1971 e il blocco dei crediti da parte di Washington, decisero di abbandonare il campo. La distribuzione rimase quindi affidata all’A‑ 126 127
F. Bolzoni, op. cit., p. 28. Ivi, p. 46.
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sociacion de industriales cinematograficos de Chile (privata) e alla Di‑ stribudora nacional, un ramo della Chile films. I privati, del resto, con le non abbondanti scorte di dollari, racimolavano all’estero solo le pel‑ licole di sicura resa commerciale, ma di scadentissima confezione. Il gruppo pubblico, pur inserendo nel suo catalogo anche film non com‑ merciali, doveva evitare perdite troppo pesanti e finì per attuare scelte troppo moderate che non garantivano una buona diffusione dei pro‑ dotti di qualità. Non si può affermare che l’operazione della Chile Films fu sbagliata, ma avrebbe avuto bisogno di più anni rispetto a quelli che Henry Kis‑ singer e Augusto Pinochet decisero di far durare il governo costituzio‑ nale di Salvador Allende. Non si può negare, infatti, che la Chile Films ebbe il merito di creare una prima infrastruttura che accolse i film di dibattito e di ricerca, e di affiancare altri locali ai due soli cinema d’es‑ sai e ai pochi cineclub già operanti nel Paese128. E, nel contempo, ini‑ ziò il risanamento dei cinematografi, spesso abbandonati in condizioni penose dai proprietari che badavano solamente a sfruttarli al massimo, trasformandoli in centri di cultura e di ricreazione per gli abitanti del quartiere. Più che nelle politiche di distribuzione, in effetti, il ruolo della Chile Films, in quegli anni, fu decisivo nelle politiche di parteci‑ pazione e di produzione: il cinema doveva diventare una sorta di servi‑ zio sociale aperto a ogni contributo creativo. Lo stesso Allende decise di affidare la direzione della Chile Films a Miguel Littín129, il quale si convinse a dare fiducia a chiunque avesse avuto un buon progetto ci‑ nematografico. Grazie alla sua politica di apertura, Littín si rese con‑ to che chi prima di allora non aveva mai potuto usare una macchina da presa riusciva comunque a realizzare dei buoni cortometraggi, dimo‑ strando la semplicità del fare cinema: «Proprio allora mi sono convinto che, fare del cinema, è come parla‑ re. Ho visto i risultati di gente che non aveva mai usato la macchina Ivi, pp. 34‑44. Per approfondire i problemi del cinema di Unidad Popular e, in particolare, quelli che Littín incontrò nella direzione della Chile Films si veda: M. Littín, Il cinema cileno e Unidad Popular, in Aa.Vv., America Latina: lo schermo conteso, Venezia, Mar‑ silio Editori, 1981.
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da presa, ed erano importanti. Documenti sui mapuches, sui contadini delle regioni settentrionali, sui pobladores. Stavamo scrivendo un ver‑ bale sul Cile. Tutto questo, sfortunatamente, non è durato più di tre mesi»130.
Qui Littín evidenzia due aspetti essenziale del medium cinemato‑ grafico: è un linguaggio e ha un enorme valore documentale, perché consente di redigere verbali sulla memoria e sull’identità di un Paese, diventando archivio audiovisuale. Per iniettare ancora maggiore linfa al suo progetto, nel 1971 Littín firmò con Alfredo Guevara un accor‑ do tra la Chile Film e l’Icaic, l’Istituto Cubano dell’Arte e dell’Indu‑ stria cinematografica. I due organismi s’impegnavano a effettuare uno scambio continuativo di film, documentari, cartoni animati, testi di studio; inoltre, l’Icaic si offriva di ospitare nella scuola della capitale cubana studenti cileni e di inviare a Santiago tecnici e registi che po‑ tessero contribuire allo sviluppo dei corsi che la Chile Films aveva in programma di istituire. Sul ruolo svolto dalla Chile Films durante i tre anni di governo Allende, Littín parlò spesso in modo entusiastico: «sul piano cinematografico mai ci fu un’attività tanto importante e tanto ricca come quella vissuta durante quei tre anni. Molti giovani poterono filmare, […] è stato uno dei processi più democratici, più aperti che io abbia mai conosciuto nell’attività cinematografica»131.
Tuttavia, Littín era perfettamente cosciente che la cinematografia ci‑ lena non potesse diventare un’industria intenzionata a competere sui mercati mondiali: “siamo un Paese sottosviluppato e il nostro sarà un cinema sottosviluppato finché continueremo a essere economica‑ mente depressi. Il nostro cinema andrà sviluppandosi man mano che cambierà la nostra economia e il nostro Paese si svilupperà”132. Littín ammise, quindi, che per il primo anno di direzione della Chile Films si F. Bolzoni, Primo viene il popolo. Conversazione con Miguel Littín, in Id, op. cit., p. 108. 131 I. Parra, Conversacion con Miguel Littín, in “Araucaria de Chile”, n. 21, Madrid, 1983, p. 40. 132 F. Bolzoni, op. cit., p. 48. 130
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era prefisso l’obiettivo minimo della produzione di otto lungometrag‑ gi, a partire da un concorso aperto a tutti, allo scopo di rendere possibi‑ le l’entrata in scena di una nuova generazione di registi. Eppure, dopo avere ricordato come Valparaiso, mi amor fosse stato prodotto con i soldi di Aldo Francia, Tres tristes tigres con i fondi del padre di Ruiz e El Chacal de Nahueltoro con quanto possedevano alcuni suoi amici, non poté evitare di affermare che era necessaria una svolta: “Dobbia‑ mo continuare al modo di prima? Battere cassa da papà o dagli amici? La nostra era una soluzione ragionevole: otto film a soggetto all’an‑ no. Ma ci hanno lasciato solo dieci mesi alla Chile Films”133. La svolta, però, non arrivò mai e così, a causa di divergenze ideologiche, Littín decise di rinunciare alla direzione, che fu affidata a Leonardo Navarro, un economista. Questa scelta aveva lo scopo di produrre un riassesta‑ mento finanziario e amministrativo, ma finì per negare tutti i prin‑ cipi ideologici elaborati da Littín, tra i quali anche l’importanza dei laboratori teorico‑pratici, che furono soppressi. Gli otto lungometrag‑ gi che Littín aveva indicato come meta annuale, furono ridotti a due, entrambi basati su personaggi chiave della storia del Cile (Balmaceda e Rodriguez), rappresentando così un regresso alla produzione stori‑ co‑romanzesca anteriore agli anni Sessanta. Questa tappa della Chi‑ le Films è quella che Patricio Guzmán definì come periodo durante il quale “si attribuisce alla Chile Films più importanza come impresa. En‑ trate e uscite, pianificazione, contabilità, bilanci ecc.”134. Navarro, per risanare il bilancio della Chile Films, frenò appunto la smania del lun‑ gometraggio e incanalò i registi verso il meno costoso documentario. Paradossalmente, la svolta economicistica finì per favorire il racconto visuale dell’identità cilena. Nell’ottobre del 1972, i documentari in la‑ vorazione furono una trentina. Questo programma fu la prima conse‑ guenza della ristrutturazione della Chile Films avviata nell’estate del ’72 con la creazione di cinque sezioni: materiali d’informazione, didat‑ tici, di documentazione, destinati ai ragazzi e, infine, film a soggetto. A dirigere i cinque “centri di riflessione, discussione, analisi della realtà nazionale e della creazione cinematografica” furono chiamati Patricio 133 134
Ivi, p. 107. J. Mouesca, op. cit., pp. 57‑58.
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Guzmán e Fernando Bellet. Da essi, mediante corsi aperti a studenti e operai, non sarebbero dovuti uscire dei registi vecchia maniera, ma dei lavoratori nel campo delle comunicazioni, capaci di avviare vere e pro‑ prie ricerche sociali135. L’attività documentaristica incontrava, però, un ostacolo nella strut‑ tura del mercato. Cortometraggi e documentari giungevano su qual‑ che rete televisiva o nelle sedi di partito, ma l’ingresso nei cinema era precluso. Parlando della programmazione di quell’anno, infatti, Hec‑ tor Soto Gandarillas sostenne che il mercato cileno era invaso “dai sot‑ toprodotti più alienanti e deprimenti dell’industria cinematografica mondiale”136. L’ulteriore cambio alla direzione della Chile Films, affidata nel mar‑ zo 1973 a Eduardo Paredes (fino ad allora impegnato come Diretto‑ re della Polizia di Investigazioni), non contribuì affatto ad apportare miglioramenti. La situazione economica nazionale, del resto, andava peggiorando in tutti i settori e, nel campo della produzione cinemato‑ grafica, le cose non potevano certo essere diverse. Negli anni preceden‑ ti, le possibilità di espansione e di sviluppo inciamparono sempre con l’ostilità dell’opposizione, che bloccava sistematicamente tutto quello che poteva significare maggiori risorse per il cinema. Gli errori della Chile Films, sotto il governo di Unidad Popular, furono in ogni caso parecchi: al di là della situazione politica ed economica in cui versava il paese, infatti, si volle concentrare in un unico organismo un insieme di compiti che, per vastità e complessità, esigevano una decentralizzazio‑ ne; si vollero mescolare funzioni troppo diverse, come la formazione di nuovi registi, la produzione e la distribuzione di film. Certo, ci furo‑ no errori, ma il motivo più importante della crisi del settore cinemato‑ grafico è lo stesso alla base della crisi di tutti gli altri settori del governo di Allende: l’intenzione degli Stati Uniti di porre fine a un governo socialista che, per la sua natura democratica, sarebbe potuto diventa‑ re, ancora più della Cuba rivoluzionaria, un esempio per tutto il Sud America. Nixon, l’allora Presidente degli Stati Uniti, dichiarò la sua in‑
135 136
Ibidem, pp. 49‑64. F. Bolzoni, op. cit., p. 50.
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tenzione di “far gridare di dolore l’economia cilena”137. Il boicottaggio nordamericano fu uno degli strumenti più adottati anche per mettere in crisi l’economia del settore cinematografico. Nel 1970, prima dell’e‑ lezione di Allende, il 95% dei film proiettati alla televisione cilena era‑ no di produzione nordamericana. Questa percentuale raggiungeva il 98% nelle 337 sale del Paese. La distribuzione era controllata da 12 so‑ cietà di cui 8 appartenenti a nordamericani138. Questa situazione di assoluto dominio statunitense serve a capire che tipo di situazione ere‑ ditò Unidad Popular e l’impossibilità di mutarla radicalmente e in po‑ co tempo attraverso le vie democratiche scelte dal suo Presidente. D’altra parte, come chiarì Ruiz, a un certo punto gli Stati Uniti deci‑ sero di cambiare completamente strategia, nel tentativo di aumentare il dissenso contro il governo di Allende: «Le compagnie nordamericane boicottavano il mercato cileno e i film statunitensi diventavano sempre più rari, fu un vero affare montato deliberatamente per poter accusare il governo di opporsi ai film nor‑ damericani, nello stesso momento in cui venivano acquistati film dai paesi socialisti, che servivano a provvedere alla programmazione delle sale cinematografiche»139.
Al di là di ciò, le cosiddette “pellicole socialiste” circolavano più in pic‑ cole reti televisive o in sedi di partito che nelle sale, dove le politiche commerciali dell’Associazione privata degli industriali cinematografici finirono per distribuire film stranieri di bassissima qualità. Nell’agosto del 1973, a pochi giorni dal golpe dei generali, i best‑seller del cartel‑ lone cinematografico di Santiago erano La chica que non sabia decir de no e Cuando las mujeres tenian cola140. Davanti a questa colonizzazione culturale, non era facile superare anche le difficoltà produttive e distributive. Non si può certo negare, Cfr. P. Verdugo, Salvador Allende: anatomia di un complotto organizzato dalla CIA, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2003. 138 F. Bolzoni, op. cit., p. 42. 139 M. Martin, Chili: le cinema de l’Unité Populaire (Entretien avec Raul Ruiz), in «Ecrain», n. 22, Paris, 1974. 140 F. Bolzoni, op. cit., p. 53. 137
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però, che gli anni di Unidad Popular furono, comunque, anni di spe‑ rimentazione e apprendistato, che diedero vita a una nuova generazio‑ ne di registi che potevano essere identificati sotto l’etichetta di cinema di Allende. Questo cinema, paradossalmente, riuscì a manifestarsi con maggior vigore proprio dopo la morte di Allende, come cinema dell’e‑ silio o della clandestinità. Si trattava di registi che avevano respirato l’aria innovatrice della rivoluzione cubana e avevano sostenuto, anche con il loro Manifesto e i loro film, il governo di Salvador Allende. Era‑ no registi, però, che come Allende avevano confidato troppo nella bor‑ ghesia cilena e nella sua possibilità di capire lo spessore culturale di certe riforme politiche e di un certo tipo di film. Non avevano tenuto in conto, infatti, che il pubblico delle sale era soprattutto un pubbli‑ co borghese e che i privati che dirigevano le Associazione distributive erano altresì borghesi, troppo distanti culturalmente da quel popolo proletario che, secondo quanto indicato dal Manifesto, doveva essere il creatore e il destinatario del nuovo cinema cileno. Helvio Soto, regista che aveva sperato più volte di “ricevere” qualcosa dai ceti “istruiti”, alla fine arrivò a delineare un quadro desolante della borghesia “reaziona‑ ria” cilena, imputandole indirettamente di essere la responsabile della mancata evoluzione culturale del Paese: «la nostra è una borghesia volgare ma, per un suo maledetto orgoglio di classe, non vuole riconoscerlo. Si crede superiore agli altri […] la nostra borghesia si inoltra in una volgarità sempre più corrotta. Si ca‑ muffa vestendo al modo europeo e, da altre parti, deriva i suoi modi di pensare, di comportarsi. E, per nulla al mondo, ammette di essere per questo soprattutto, volgare»141.
E fu probabilmente anche a causa di questa volgarità della borghesia cilena, se il film Metamorfosis del jefe de la policia politica di Helvio Soto, nell’estate del ’73 sparì da tutti i cinematografi di Santiago, di‑ ventando, di fatto, il primo esempio di cinema clandestino. Del resto, pochi mesi prima del golpe, come poteva un film che già nel titolo era rivoluzionario e critico trovare spazio nelle sale cilene? Mescolan‑ do documenti e scene ricostruite, il film fotografava in modo esatto 141
Ibidem.
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la situazione politica precedente il golpe dei militari. Basato su que‑ sta contaminazione tra immagini di archivio e fiction è anche il pre‑ cedente film di Soto, Voto mas fusil del 1971: ambientato nei mesi che precedettero e seguirono la vittoria elettorale di Allende, sfruttava il sostegno del plot poliziesco. Sulla stessa lunghezza d’onda di Voto mas fusil, si pone Que hacer? (1972) firmato dal “collettivo” Ruiz, Landau, Becket, Serrano, Yahraus. Anche questo film analizzava il disegno del complotto statunitense contro Allende, ma come il film di Soto, amal‑ gamava male gli aspetti politici e gli intrighi polizieschi142. In questo triennio, però, gli esempi più elevati di cinema militante arrivarono si‑ curamente dal documentario Compañero Presidente di Miguel Littín e, soprattutto, da La Batalla de Chile di Patricio Guzmán, che inglobe‑ rà i precedenti El primer ano e La respuesta de Octubre. A questi docu‑ mentari, però, dedicherò uno spazio autonomo più avanti. Con il golpe dell’11 settembre del 1973, sugli schermi di Santia‑ go tornarono le commedie, i polizieschi, i western americani e, fino al 1977, cessò ogni attività di produzione cinematografica: vennero chiuse sia le scuole universitarie di cinema sia la Chile Films; vennero distrutti documenti scritti, ma anche pellicole, pezzi storici, negativi di quasi tutto il cinema cileno. Marcos Llona, un funzionario della Chi‑ le Films, testimone diretto dell’arrivo dei militari, raccontò che ci fu la «distruzione di tutta la propaganda murale, il sequestro di molti do‑ cumenti. Contemporaneamente avevano inizio gli interrogatori per sapere dove fosse Coco Paredes, capo della Chile Films e dove si tro‑ vassero le armi. La visita aveva un altro obiettivo importante: la distru‑ zione di ogni film che avesse l’idea di progressismo. Si fece un rogo nel cortile. Così, nel giro di tre giorni, vennero bruciati tutti i notiziari dal ’45 in poi»143.
Da subito il governo militare scelse di trascurare il cinema e di privi‑ legiare la televisione, destinandole tutte le risorse disponibili, poiché era considerata il sistema mediatico più efficace nel raccogliere con‑ senso sociale per il regime. Ora il problema principale che dovevano 142 143
Cfr. J. Mouesca, op. cit., pp. 49‑55. Cfr. S. Villegas, Arde el cine cileno, Buenos Aires, Editorial Cartago, 1974.
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affrontare i cineasti non erano più le difficoltà economiche, ma la cen‑ sura, che non solo filtrava pesantemente l’ingresso di film stranieri, ma condizionava in modo altrettanto decisivo i contenuti delle produzio‑ ni nazionali. Dal 1973 al 1977 ci fu una prima fase di smantellamento del cinema nazionale cileno, conosciuta come desarticulacion, durante la quale si produsse la scomparsa virtuale di tutta la produzione cine‑ matografica finzionale e documentaria. I principali fattori che contri‑ buirono a instaurare tale processo furono sia di ordine istituzionale che legale. Infatti, oltre alla chiusura della Chile Films, della Escuela de Artes de la Comunicacion de la Universidad Catolica de Santiago e dei restanti istituti cinematografici del paese, la dittatura abolì una legge del 1967 che conteneva delle specifiche norme a protezione del cine‑ ma nazionale. Con la scomparsa di questa legge, ogni produttore indi‑ pendente non ebbe più la possibilità di sviluppare il proprio lavoro144. In questo contesto drammatico, bisogna distinguere tra i cineasti che continuarono a operare all’interno del territorio nazionale e quelli che invece scelsero o furono costretti all’esilio. Se la cinematografia nazio‑ nale all’interno del territorio cileno fino al 1979 produsse pochissimi film e di scarso livello qualitativo, la cinematografia cilena in esilio pro‑ dusse sin da subito molti film. Solo a partire dal 1979, infatti, si intravi‑ de una possibilità di lavoro per i registi che non avevano abbandonato il paese e che soprattutto non avevano rinunciato all’idea di continuare a fare cinema. Tra questi, uno dei primi che riuscì a produrre un lavoro significativo fu Silvio Caiozzi, esordiente in lungometraggio proprio nel 1979 con Julio comienza en Julio, film che ottenne premi anche in Spagna e che in qualche modo ruppe un lustro di silenzio. Altri regi‑ sti, come Cristian Sanchez e Carlos Flores del Pino, realizzarono film che circolarono, ma solo in ambienti ristretti di cinefili. Inoltre, poiché il cinema rimaneva un settore poco redditizio, molti dei registi rima‑ sti in Cile dovettero ripiegare, almeno nei primi anni, nel campo pub‑ blicitario. Solo a partire dal 1983‑84, in coincidenza con l’inizio delle grandi manifestazioni popolari di protesta contro il regime, si aprì una fase di timida rinascita della produzione cinematografica di qualità, 144 Cfr. M. Hurtado, La industria cinematografica en Chile: limites y posibilidades de su democratizacion, Santiago, Ceneca, 1985.
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nella quale svolsero un ruolo importante registi come Gonzalo Justi‑ niano (Los hijos de la guerra fria, 1985), Pablo Perelman (Imagen la‑ tente, 1987) e Leonardo Kocking (La estacion del regresso, 1987), con film che spingevano fino alla critica della situazione nel paese e allude‑ vano persino al dramma dei desaparecidos145. In questo periodo, per gli autori di cinema si trattava innanzitutto di sopravvivere e di aprire var‑ chi nella fitta rete della censura e delle difficoltà finanziarie. I tentati‑ vi di riallacciarsi a una tradizione di cinema militante si combinavano con la necessità di trovare un nuovo sguardo per rappresentare una so‑ cietà in rapida trasformazione. Questo cinema, che raggiungeva con successo il pubblico straniero, si assumeva, anche se in modo molto ve‑ lato, la responsabilità di raccontare l’orrore della repressione militare e di alimentare il filo della memoria, affinché quegli anni non potessero ritornare nunca mas. Eppure, se i registi che rimasero in Cile durante la dittatura potero‑ no realizzare film velatamente politici solo a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, coloro che scelsero o furono costretti all’esilio, riu‑ scirono a documentare quello che accadeva nel proprio paese in mo‑ do non certo velato e sicuramente in tempi più immediati. Del resto, bisogna considerare che gli intellettuali che rimasero in patria rappre‑ sentavano un’eccezione rispetto alla più ampia “fuga de cerebros”, cioè all’esilio dei più grandi intellettuali del paese, tra cui anche molti regi‑ sti146. Durante lunghi anni, però, i canali di comunicazione fra l’interno e l’esterno rimasero poco frequentati o comunque assai deboli e la real‑ tà del Cile lasciato alle spalle cominciò a trasformarsi in un ricco ma‑ teriale immaginario fatto di ricordo, nostalgia, rimpianto e riflessione sulle proprie radici. L’esilio, infatti, non comportò soltanto sofferenza, ma nuove esperienze di vita in realtà linguistiche e ambienti culturali diversi che contribuirono ad arricchire l’orizzonte culturale dell’intel‑ lettuale espatriato. In effetti, oggi è impossibile ricostruire l’evoluzio‑ ne della cultura cilena senza considerare i percorsi nomadi di molti dei suoi protagonisti. Bisogna tenere presente, infatti, che l’esilio, in tutta 145 146
J. R. Rehren, op. cit., p. 74‑78. J. Mouesca, op. cit., pp. 137‑158.
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la sua tragicità, ebbe anche i suoi effetti positivi, apportando nuova lin‑ fa alla creatività dell’artista cileno. Certamente fu un dramma, ma an‑ che “un’avventura e un’epopea, una delle più grandi e più importanti nella storia del popolo cileno”147. Com’è prevedibile, il cinema cileno esiliato ebbe il vantaggio di riflettere sull’accaduto, cosa che altrimenti non sarebbe stata possibile. Così, durante l’esilio nacque e acquistò una notevole importanza un genere che in Cile non era mai stato coltivato in precedenza: la testimonianza. Era dunque naturale che le tematiche dominanti fossero la denuncia del colpo di Stato, le torture, la prigio‑ nia e la vita nell’esilio e che fossero affrontate nel genere che meglio le poteva diffondere: il documentario. Tant’è che nei primi dieci anni do‑ po il golpe, i registi esiliati realizzarono una grande quantità di docu‑ mentari, ma anche di film in generale: la studiosa Jacqueline Mouesca ha contato ben 178 film, includendo tutti i generi e formati. Seguendo le statistiche di ogni anno, le cifre dimostrano una progressione signi‑ ficativa: una pellicola nel 1973, sei nel 1974, quindici nel 1975, tredi‑ ci nel 1976, quattordici nel 1977, diciotto nel 1978, ventitré nel 1979, venti nel 1980, altrettanti nel 1981, ventidue nel 1982 e ventisei nel 1983148. Questi dati testimoniano un fenomeno abbastanza singola‑ re, poiché differenziano il cosiddetto “cinema cileno dell’esilio” da al‑ tre cinematografie durante i rispettivi governi dittatoriali: infatti, non ci fu mai, per esempio, un cinema spagnolo dell’esilio dopo la guerra civile del 1936 e nemmeno tra gli argentini, gli uruguaiani o i brasilia‑ ni che abbandonarono i loro paesi negli anni della dittatura ci fu una produzione dell’esilio. Gran parte di questo cinema dell’esilio poteva permettersi la libertà, impensabile in Cile, di poter essere di denuncia già nei titoli stessi: Ser‑ gio Castilla, per esempio, filmò nel 1974 in Svizzera Pinochet: fascista, asesino, traidor, agente del imperialismo e nel 1979 a Cuba Prisoneros desaparecidos. Altri titoli esemplari, di registi vari, furono: Hitler‑Pi‑ nochet, La revolucion no la para nadie, Cuando el pueblo se despierta, H. Abarzua, Por una historia en el esilio, in “Araucaria de Chile”, n. 7, Madrid, 1976, p. 45. 148 J. Mouesca, Cine Cileno. Veinte anos 1970‑1990, Santiago, Cabo de Hornos, 1992, pp. 34‑35. 147
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Asi nace un desaparecidos ecc.149. Tra gli altri, uno dei cineasti esilia‑ ti che merita attenzione è Sebastiano Alarcon, il cui percorso artistico si sviluppò interamente in Unione Sovietica: fu uno dei primi a occu‑ parsi del tema dell’esilio in La primera pagina, un cortometraggio do‑ cumentario che raccontava il punto di vista sul golpe di uno studente cileno che viveva a Mosca. Era già sulla via del successo quando rea‑ lizzò nel 1977 La noche sobre Chile che raccontava i primi giorni che si vissero in Cile dopo il golpe. Il tema del golpe e le sue conseguenze, furono ancora trattate da Alarcon nel 1980 con Santa esperanza che narrava un campo di tortura. Degna di nota è anche Valeria Sarmien‑ to che, esiliata in Francia nel 1973, raggiunse il successo nel 1979 con La nostalgia, un documentario filmato per conto delle Nazioni Unite: i protagonisti erano i bambini di famiglie di esiliati cileni che vivevano nei sobborghi parigini150. Tra gli intellettuali costretti a lasciare il paese ci fu anche lo scritto‑ re Antonio Skármeta, che però raggiunse la fama internazionale so‑ lo nel 1994, quando il suo romanzo del 1983, Il Postino di Neruda, fu adattato cinematograficamente da Michael Radford: il film Il Postino, però, fu ambientato in Italia e non in Cile e il regista eliminò uno de‑ gli aspetti centrali del libro, cioè la violenta repressione della dittatu‑ ra, subita anche da Neruda. Skármeta – che nel suo esilio in Germania scrisse anche molte sceneggiature per il cinema – era entusiasta dell’at‑ taccamento che gli esiliati riuscivano a mantenere, nonostante tutto, con la propria terra e con il desiderio di mantenerne viva la memoria, per non perdere anche la propria identità: «Mi affascina la fedeltà del regista cileno con la storia del nostro po‑ polo, e l’entusiasmo e la convinzione con le quali ha allertato e infor‑ mato popoli lontani dai nostri problemi e dai nostri modi di essere. Questa fedeltà – che dovrebbe essere definita patriottica in senso af‑ fatto ironico – segnala anche la disperata lotta del cineasta nell’esilio per mantenere un’identità»151.
J. R. Rehren, op. cit., pp. 74‑78. Ivi, pp. 74‑78. 151 J. Mouesca, Cine chileno. Veinte anos 1970‑1990, cit., p. 158. 149 150
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Questo attaccamento alla propria terra era in effetti lo stimolo che portava molti registi cileni all’estero ad affrontare il tema dell’esilio: l’e‑ silio come morte, come possibilità d’integrazione in un’altra cultura e come speranza di ritorno. Leuten Rojas ne parlò da subito in Yo recuer‑ do tambien (Canada 1975) e in Con las cuerdas de mi guitarra (Canada 1982), per poi allargarlo al tema dell’immigrazione in Canada in Ex‑ perencia canadiense (1978). Tuttavia, nella lunga lista di film che trattarono l’argomento dell’esi‑ lio, uno di quelli più noti fu Dialogo de exiliados (1974) di Raul Ruiz. In questo film vi è un punto di vista apertamente critico e a volte per‑ sino sarcastico su alcuni aspetti grotteschi della condizione dell’esule. Affresco impressionista sulla comunità cilena a Parigi, con numerosi personaggi in cerca di un difficile adattamento alla nuova realtà, espri‑ meva una visione corale delle ossessioni e allucinazioni provocate da una continua ricerca di immagini, odori, sapori, capaci di restituire l’e‑ sule alla propria terra e alla propria memoria. Tuttavia la comunità de‑ gli esiliati reagì negativamente al film di Ruiz, accusandolo di non aver tenuto conto della complessità della condizione dell’esilio e di mostra‑ re soltanto gli aspetti negativi dell’esperienza socialista cilena. Il tema della nostalgia per la terra perduta riaffiorò comunque in altri film del regista, tra cui Las tres coronas del marinero (1982), un raccon‑ to metaforico sui vagabondaggi latinoamericani. Nella sua contami‑ nazione con la nuova cultura europea, Raul Ruiz rappresentò uno dei maggiori esponenti del cinema cileno, almeno fino alla sua morte av‑ venuta a Parigi nel 2011. Insieme a lui, anche Alejandro Jodorowski fu uno dei massimi esponenti di quel cinema di finzione che credeva nella forza delle immagini, delle suggestioni, tanto da sconfinare nel surrea‑ le. Entrambi, però, non possono essere considerati appartenenti al ci‑ nema dell’esilio, perché il loro esilio non fu una costrizione quanto una scelta e, più che farsi portatori della cilenità, si fecero portatori del co‑ smopolitismo. Il loro attaccamento alla terra fu più spirituale che po‑ litico: d’altra parte non era tanto un attaccamento alla terra cilena, che aveva quasi paura di praticare quel realismo magico tanto caro a Ruiz e Jodorowski, ma piuttosto all’intera terra sudamericana e, in particola‑ re, alla cultura immaginativa di Cuba e del Brasile. Di questa vicinanza geografica, ma lontananza culturale, ne parlò anche Helvio Soto, met‑ 71 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
tendo in evidenza la freddezza e la volgarità cilena, in confronto al ca‑ lore e alla fantasia brasiliana: «Tra una natura bascocastigliana come la nostra, così scarsamente im‑ maginativa, e i brasiliani, dotati di un’immaginazione sfrenata, esiste una differenza enorme, e tutta a nostro svantaggio. C’è un abisso tra me, con i miei due cognomi castigliani, e un collega di Rio de Janei‑ ro, brillante, estroso, dotato di astuzia e di intelligenza, e così tra il nostro pubblico e altri dell’America Latina. Questa immaginazione ha permesso ai brasiliani di assumere, come un valore, la cultura della volgarità, della fame, come la chiamano. Sanno di venire da gente vol‑ gare, da gente di cattivo gusto e si buttano, con allegra fiducia, in cose spaventose come quelle di Glauber Rocha»152.
Al di là dell’eccezione di Ruiz e Jodorowski, che rappresentano cinea‑ sti che scelsero l’esilio e non a causa del golpe, per molti altri, la deci‑ sione di non far ritorno in Cile anche dopo la fine della dittatura, fu dettata dall’evidenza che in Cile non avrebbero mai trovato un conte‑ sto economico in grado di garantire le stesse possibilità produttive che avevano avuto all’estero per diciassette anni. Per molti, insomma, era difficile poter scegliere di rientrare in patria dopo essersi abituati ai li‑ velli produttivi di industrie cinematografiche ben più avanzate di quel‑ la cilena. Nella lunga lista di autori cinematografici che in quegli anni lavora‑ rono intensamente all’estero, tra quelli che raggiunsero i livelli quali‑ tativi più alti, insieme a Ruiz, non si possono non citare Helvio Soto e i due più importanti registi politici, Miguel Littín e Patricio Guzmán, che meglio di ogni altro raccontarono il golpe militare e gli anni del‑ la dittatura, confermandosi tra i migliori registi cileni. Rimase celebre il ritorno clandestino in Cile di Littín travestito da uomo d’affari uru‑ guaiano, per girare insieme a una troupe europea il film Acta general de Chile (1985), un documentario proprio sulla dittatura di Pinochet, mentre il regime militare era ancora in piena attività. Sempre nel 1985, Soto realizzò in Francia Llueve sobre Santiago (1985), una ricostruzio‑ ne documentaria del colpo di Stato militare che, dopo La batalla de 152
F. Bolzoni, op. cit., pp. 53‑54.
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Chile di Patricio Guzmán, rimase la più preziosa testimonianza in im‑ magini di quel tragico 11 settembre 1973153. Il 14 marzo 1990, nella città di Valparaiso si svolse la cerimonia uf‑ ficiale del passaggio dei poteri presidenziali dal generale Augusto Pi‑ nochet a Patricio Aylwin, eletto con il 54% dei suffragi. Con il ritorno della democrazia, ritornarono dall’esilio migliaia di cileni e, insieme a loro, ritornò anche il cinema, almeno provvisoriamente. Nell’ottobre del 1990, infatti, a vent’anni di distanza dal secondo Festival del Cine‑ ma Latinoamericano, si tenne il terzo Festival di Cinema di Viña del Mar, che s’intitolò Rincontro del Cile con il suo cinema. Il festival po‑ neva fine a un periodo che qualcuno aveva denominato, con un pizzi‑ co d’ironia, le lunghe vacanze del ’69. Vent’anni dopo dal festival che in quella stessa città aveva lanciato il nuovo cinema cileno offrendo film e registi che elevarono la cinematografia nazionale al livello delle più al‑ te dell’America Latina, molti di quei registi ritornarono un’altra volta al punto di partenza, insieme a quelli delle nuove generazioni. Molti cineasti presenti al festival non esitarono ad affermare che si trattava di una tra le più importanti tappe della storia del cinema cileno. Anche la stampa insistette nel pubblicizzare l’evento come un’occasione di rina‑ scita del cinema nazionale. Dopo molti anni durante i quali la produzione nazionale interna era limitata a uno o due lungometraggi l’anno o a un insieme di vi‑ deo documentari che potevano al limite vedersi in circuiti molto ri‑ stretti se non segreti, durante il festival si riuscirono a proiettare molti film e a farli vedere a una quantità di pubblico prima inimmaginabile. Il festival rappresentò, quindi, un evento atipico e irripetibile. L’eleva‑ ta produzione non era testimonianza della prolificità di quell’anno in particolare, ma era il naturale effetto di un silenzio e di un’impossibili‑ tà creativa dei lunghi anni di dittatura154. In questi anni, però, il cinema cileno sembrò manifestarsi soprattutto come cinema di finzione: solo nel 1990, infatti, si produssero sette lungometraggi di finzione, una ci‑ fra, per il cinema “interno”, senza precedenti. Di questi, uno, La luna en el espejo, veniva da un lavoro di molti anni; un altro, Imagen laten‑ 153 154
J. R. Rehren, op. cit., pp. 90‑91. J. Mouesca, Cine cileno. Veinte anos 1970‑1990, cit., pp. 130‑135.
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te, era del 1987‑88 e la sua proiezione tardiva fu causata dalla censu‑ ra imposta dalla dittatura. Due altri, infine, Caluga o menta e Hay algo alla afuera, erano coproduzioni europee. La luna en el espejo di Silvio Caiozzi rappresentò un modello di cinema intimista che scavava nel‑ la realtà profonda di un paese e raccontava, in modo metaforico, una società sottomessa ai dettami di un tiranno. Si trattò di uno dei film più importanti e più premiati a livello internazionale: ricevette premi in numerosi festival, tra cui il Festival di Venezia, quello dell’Havana e quello di Trieste. Anche Imagen latente di Pablo Perelman, che affrontava in modo di‑ retto il tema dei detenidos‑desaparecidos, prima della prima proiezione cilena fu premiato all’Havana nel 1987, in Italia e in Francia nel 1988 e al Festival Latino di New York nel 1990. Caluga o menta di Gonza‑ lo Justiniano fu invece importante nel demolire il mito del Cile come giaguaro del Sudamerica, denunciando l’atmosfera da falso “miraco‑ lo economico” degli anni Ottanta. Hay algo alla afuera di José Mal‑ donado, fu il film meno cileno presente alla manifestazione, proprio secondo quanto dichiarato dallo stesso regista che specificava di non appartenere alla “grande famiglia cilena del cinema”, non avendo alcun referente cinematografico locale. Secondo alcuni critici, infatti, il film si avvicinava ad alcune opere di David Lynch, per il suo modo di com‑ binare più generi in un’atmosfera generale di mistero e suspense155. Durante il festival, i mezzi di comunicazione diedero rilievo soprat‑ tutto al lavoro e all’opera dei registi esiliati tra cui, in modo particolare, Raul Ruiz. Egli, infatti, nonostante avesse avuto modo di rientrare sal‑ tuariamente in Cile già a partire dal 1982 e fosse conosciuto e stimato in patria, non aveva mai avuto la possibilità di mostrare i suoi film al‑ la maggior parte del pubblico cileno. Durante il festival del Reencuen‑ tro furono proiettati due suoi film: La ciudad de los piradas e La barca de oro. Il primo è una favola che mescola il genere avventuroso, la fan‑ tasia onirica, il film del terrore e il thriller. Invece nel secondo film, c’è, com’è frequente nella filmografia ruiziana, una storia che non segue un filo narrativo preciso e che attraverso peripezie verbali, si prende gio‑ co dell’identità cilena. Oltre alle proiezioni di questi due film, il fe‑ 155
Ivi, pp. 90‑122.
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stival contribuì alla rivalorizzazione di tutta l’opera di Ruiz, a partire soprattutto da quei film che lo avevano reso famoso in Francia e in Eu‑ ropa, come Tres tristes tigres e Las tres coronas del marinero. Per il Ci‑ le, il festival era un modo per riappropriarsi della sua memoria negata, per riaccogliere quella parte di Paese e di identità cilena che era stata espulsa. In questo lavoro di riemersione e di reintegrazione, furono accolti anche registi, come Ruiz e Jodorowski, che – come si è detto – aveva‑ no scelto l’esilio per un desiderio di contaminazione culturale. Il festi‑ val fu un’occasione, però, per farli tornare a casa e consentire ai cileni di capire cosa era stato impedito loro in tanti anni di costrizione all’i‑ solamento. D’altra parte, la qualità artistica delle opere di Ruiz e Jodo‑ rowski imponeva di offrire loro massima centralità che, però, fu anche dimostrazione della centralità che la finzione stava assumendo nel ci‑ nema cileno. Non a caso, al festival di Viña del Mar, di Jodorowski ven‑ ne proiettato e acclamato il film Santa Sangre, che come El topo e La montana sagrada, proponeva un’estetica vicina al surrealismo e quindi molto distante dagli aneliti del cinema di Allende. La vera sorpresa del festival, però, fu il film di finzione La frontera, del giovane esordiente Ricardo Larrain, che ricevette il premio Anda‑ collo da parte della Oficina Catolica Internacional del Cine. Ne La fron‑ tera si racconta la storia di un professore di matematica che, nell’ultima fase della dittatura di Pinochet, viene mandato al confino in un’iso‑ letta al largo della Patagonia, dove stringe legami d’amicizia con un palombaro e d’amore con un’esule spagnola, sfuggita al regime fran‑ chista: perderà entrambi durante un maremoto. Dopo Viña del Mar, il film fu premiato con un Orso d’argento al Festival di Berlino del 1992 e con il premio Goya per il miglior film straniero parlato in castiglia‑ no156. Nonostante l’importanza che ebbe il festival, una volta terminato, per molti registi cileni fu inevitabile chiedersi che cosa sarebbe acca‑ duto da quel momento in avanti, visto che la situazione dell’industria cinematografica cilena restava immutata. “Realizzare un film in Ci‑ le – sostenne il critico Hans Ehrmann – rappresenta una prodezza”, 156
Ibidem.
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aggiungendo, con ironia, che il fatto che nel 1990 fossero usciti set‑ te o otto lungometraggi “non segnalava la nascita di un’industria ci‑ nematografica, ma semplicemente il verificarsi parallelo di sette o otto prodezze”157. In quell’occasione, anche lo stesso Littín, confermò che il festival di Viña del Mar rappresentava solo una tappa felice all’interno di un percorso che rimaneva disastrato a livello strutturale: «se gli anni Sessanta furono gli anni della fondazione, e se gli ultimi diciassette furono gli anni di resistenza, di esilio, tanto interno come esterno, negli anni Novanta è necessario unire urgentemente le linee di creazione, produzione e distribuzione del cinema, con il fine di sta‑ bilire una solida piattaforma per il cinema nazionale. È inoltre impor‑ tante oggi recuperare la partecipazione dello Stato per stabilire una legge che almeno garantisca alcune misure minime che assicurino la continuità del fare cinematografico»158.
Sulla stessa linea si poneva anche il regista Silvio Caiozzi, il quale ri‑ badiva questa necessità di intervenire a livello strutturale, evitando di trarre facili entusiasmi dall’esperienza del festival: “se non esiste una legge sul cinema ci saranno sempre e solo sforzi sporadici, ma mai pro‑ duzioni filmiche costanti. Continueranno a esserci altri autori come me che dovranno aspettare cinque o sei anni per realizzare un film”159. Dopo il festival di Viña del Mar, uno dei migliori film del nuovo de‑ cennio democratico fu Amnesia, realizzato nel 1994 da Gonzalo Justi‑ niano, già messosi in mostra nel 1990 con il già citato Caluga o menta. Amnesia fu senz’altro uno dei migliori film di finzione sul periodo del‑ la dittatura e sulla rimozione della memoria: narrando l’incontro ca‑ suale tra un ex soldato e il suo antico ufficiale ai tempi dei campi di tortura, il film apre un’ampia riflessione sulla necessità di giustizia e sul desiderio di vendetta. Nel 1996 si distinse invece il film di Tatia‑ na Gaviola, Mi ultimo hombre, evocazione di un mondo oppressivo e sommerso in un caos autodistruttivo, un esplicito riferimento, anche questo, agli anni di lotta contro il regime militare. Anche Naum Kra‑ Ivi, p. 135. Ivi, p. 136. 159 Ibidem. 157 158
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marenco, con Regresso al silenzio del 1996, affronta il tema della me‑ moria negata e racconta il ritorno in patria di un esiliato che ritrova e si confronta con il fratello rimasto in Cile. Gonzalo Justiniano, nel 1999, tornò a segnalarsi come uno dei migliori registi della nuova generazio‑ ne con Yo tuve un sueño contigo, melodramma in cui gioca un impor‑ tante ruolo una giovane che ritorna nel suo paese con l’intenzione di iniziare una nuova vita. Nel 2000 Juan Carlos Bustamante, in El veci‑ no, inserì in una struttura da film thriller la lotta di un uomo con i fan‑ tasmi del suo passato legato ai servizi segreti militari160. Tutti questi film furono il frutto della repressione dell’epoca del‑ la dittatura. I registi sfogarono tutta la loro rabbia cercando nel cine‑ ma di esorcizzare il male subito e di curare le ferite delle vittime della dittatura. Il tema della violenza del regime diventò addirittura un ar‑ gomento di moda all’inizio degli anni Novanta, tanto da favorire un ritorno del pubblico alle sale cinematografiche del paese. Secondo al‑ cuni, questi primi film post‑traumatici, tra cui spiccavano La frontera o Amnesia, simbolizzavano la rinascita della cultura e dell’arte, ma per la maggior parte rappresentavano un cinema poco comprensibile, con sceneggiature pesanti che pian piano, già a partire dalla seconda me‑ tà degli anni Novanta, iniziarono a stancare il pubblico e a saturare la memoria. La tematica, tuttavia, continuò a essere affrontata durante quasi tutto il decennio, contribuendo ad aumentare questo rifiuto nel‑ la maggior parte degli spettatori che continuarono a esprimere il solo desiderio di dimenticare gli anni della dittatura e di potersi avvicina‑ re a un cinema con tematiche meno problematiche e più superficiali e d’evasione. Al di là di questi pochi film che si addentravano nelle ferite storiche del paese e che lentamente iniziarono a stancare la maggior parte del pubblico, il cinema cileno si orientò presto verso produzioni che tor‑ navano, come alle origini, a seguire i modelli stranieri, evitando anali‑ si approfondite della società cilena. Tra i registi più noti degli ultimi decenni c’è sicuramente Andrés Wood che nel 1997 girò Historias de futbol, nel 2001 La fiebre del loco, fino a che nel 2004 non riuscì a en‑ trare nella Quinzaine des realisateurs del Festival di Cannes con Ma‑ 160
J. R. Rehren op. cit., pp. 93‑115.
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chuca, un film allendista ambientato nel Cile del 1973, prima e durante il golpe militare. Nel 2011 girò Violeta se fue a los cielos, film che fu pre‑ miato al Sundance Film Festival e ottenne la nomination come miglior film straniero al Premio Oscar del 2012: il film racconta la vita della famosa cantante cilena Violetta Parra, morta suicida nel 1967, dopo un’importante opera di recupero e diffusione della tradizione popola‑ re cilena, inaugurando un filone poi seguito dalla Nueva Cancion Chi‑ lena, di cui il cantante Victor Jara diventò il massimo rappresentante, prima di essere barbaramente assassinato dalla dittatura, appena cin‑ que giorni dopo il golpe. Del cinema cileno degli anni Novanta vanno segnalati, poi, i non in‑ dimenticabili Johnny cien pesos (1993) di Gustavo Graef e El chacotero sentimental (1999) di Cristian Galaz. A inaugurare gli anni Duemila ci pensò invece l’interessante Taxi para tres (2001) di Orlando Lubbert, che vinse il Festival di San Sebastian. Anche Ruiz e Jodorowski han‑ no continuato a girare film, ma senza mai raggiungere i livelli artistici dell’epoca che li rese famosi. Della nuova generazione di registi, invece, il più talentuoso e famoso è sicuramente Pablo Larrain: nato nel 1976, esordì a trent’anni con Fuga, ma solo due anni dopo, nel 2008 con To‑ ny Manero, si guadagnò l’attenzione della critica, che poi confermò in due film che affrontano il tema della dittatura: Post‑mortem del 2010 e No – I giorni dell’arcobaleno del 2012. Il primo è ambientato a Santiago del Cile nel 1973 e racconta la sto‑ ria di un impiegato dell’obitorio della città che continua a riempirsi di cadaveri dopo il golpe di Pinochet. No – I giorni dell’arcobaleno è un adattamento cinematografico dell’opera El Plebiscito di Antonio Skár‑ meta e racconta la campagna referendaria del 1988, in cui i cileni furo‑ no chiamati a esprimersi sulla volontà di confermare ancora Pinochet oppure crociare sul No. In primo piano è la storia di un pubblicitario che decide di improntare la campagna del No sull’allegria e l’ottimi‑ smo, evitando di concentrarsi sui crimini della dittatura e provocan‑ do, così, reazioni di sdegno in gran parte dell’opposizione. In realtà, il suo stile comunicativo risulta vincente e la vittoria del No premia la sua scelta. Il film è interamente girato in formato 4:3 e con una qualità dell’immagine appositamente bassa, perché Larrain utilizza frequen‑ temente immagini di archivio del 1988 e, in questo modo, riesce a ri‑ 78 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
durre al minimo la differenza fotografica tra le scene di finzione e le immagini di repertorio. Il risultato finale è molto convincente, tant’è che il film sembra quasi un mockumentary, un finto documentario, perché l’effetto è così ben riuscito che il protagonista del film sembra muoversi e interagire con persone e luoghi reali del 1988. Nella nuo‑ va generazione di registi si sono poi distinti Sebastian Silva, con Affet‑ ti e dispetti del 2009, Pepa San Martin, con Rara, una strana famiglia del 2016 e, infine, Sebastian Lelio, con Gloria del 2013 e Una donna fantastica del 2017. Tra i registi di origine cilena vanno poi citati due grandi autori, di ge‑ nerazioni diverse, ma ugualmente cresciuti lontani dal Cile e entram‑ bi affermatisi a livello internazionale negli anni Novanta: Alejandro Amenabar e Marco Bechis. Amenabar, è nato in Cile nel 1972, ma im‑ mediatamente esiliato con la famiglia in Spagna, dove è poi cresciu‑ to, diventando regista di film famosi e ultra premiati come Apri gli occhi del 1997, The Others del 2001, fino al più famoso Mare dentro del 2004. Marco Bechis, invece, è nato a Santiago del Cile nel 1955, da madre cilena e padre italiano. Bechis è però cresciuto a Buenos Ai‑ res, dove nel 1977 fu arrestato dalla polizia della dittatura militare ar‑ gentina e detenuto per quattro mesi in un carcere clandestino. Espulso dal paese, ha vissuto in esilio in Italia e ha esordito nel 1991 con il film Alambrado, girato nella Patagonia argentina. Nel 1999 ha diretto Ga‑ rage Olimpo, un film di finzione che però racconta, quasi in chiave do‑ cumentaristica, uno dei luoghi di detenzione e tortura della dittatura argentina, ma universalizza il discorso e dimostra grande sensibilità e rigore stilistico, in una narrazione estremamente realista e di alto livel‑ lo estetico: «Un documentario su un campo di concentramento in funzione non è mai stato fatto, per intuibili motivi non è possibile farlo. Per Garage Olimpo ho tentato di documentare il mio rapporto con quell’esperien‑ za e quindi di ridare immagini documentali a vicende che non ne han‑ no nemmeno una. […] Paradossalmente la ricostruzione di un campo di concentramento con elementi completamenti inventati (i muri, gli oggetti, i personaggi, la trama) mi ha dato la libertà di fare un lavoro documentario. Avevo la materia grezza (il set, gli attori), avevo il vis‑ suto degli ex‑desaparecidos e ho plasmato delle immagini che ho ten‑
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tato di rendere il più possibile documentarie. Nelle scene sotterranee la camera era sempre in spalla, la luce era semplicemente la lampadina che si vede nell’inquadratura, non c’è stata alcuna luce aggiunta. Il ca‑ meraman spesso non sapeva ciò che sarebbe accaduto nella scena, era obbligato ad andare a cercare il soggetto. Fuori, alla superficie, la città è stata invece raccontata come fiction, con luce artificiale, carrelli, che in questo dispositivo funzionavano come finzione: quella in cui vive‑ vano gli abitanti. Sotto c’era la realtà»161.
Questo film è stato girato in modo cronologico e senza che gli attori conoscessero tutto il copione, in modo che potessero lasciarsi sorpren‑ dere dalla realtà e scoprire l’emozione del proprio personaggio proprio mentre accade qualcosa che per loro diventa inaspettato. Garage Olim‑ po, presentato al 52esimo Festival di Cannes, è sicuramente uno dei racconti della violenza militare che raggiunge uno dei risultati più in‑ teressanti e coinvolgenti dell’intera cinematografia di finzione sull’ar‑ gomento. Subito dopo questo film, nel 2001 Bechis ha girato Hijos/ Figli, sulla storia dei figli dei desaparecidos, rapiti alle donne detenute e consegnati a famiglie di militari che non potevano avere figli: ragaz‑ zi cresciuti, senza saperlo, con gli assassini – quantomeno morali – dei loro genitori. Questo film termina con una sequenza molto dura e toc‑ cante di immagini documentarie, in cui i figli dei desaparecidos mani‑ festano sotto la finestra di un militare argentino per denunciare la sua responsabilità nella scomparsa dei loro genitori e nel furto della pro‑ pria identità familiare. Quest’azione di protesta e di denuncia viene chiamata estrache162, da estrachar, che significa mettere in evidenza, mostrare, far uscire al‑ lo scoperto. Gli escraches rappresentano un’azione collettiva del tutto nuova nel repertorio delle mobilitazioni dei movimenti sociali, che co‑ niuga arte, politica e memoria: s’interviene in luoghi specifici della cit‑ tà, politicizzando lo spazio con azioni che delimitano e segnano dei M. Bechis, Argentina 1976‑2001‑ filmare la violenza sotterranea, Milano, Ubu‑ libri, 2001, p. 25. 162 Il termine deriva dal lunfardo, gergo originariamente usato a Buenos Aires e nei sobborghi circostanti da immigrati, emarginati e malviventi. Parte dei suoi vocaboli e locuzioni si diffusero in seguito nel linguaggio colloquiale e nel resto del paese. 161
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confini attraverso un uso politico dei corpi, occupando la strada con un rumore assordante seguito dalla narrazione collettiva di storie in‑ dividuali. «Quando ci siamo formati come organizzazione non c’era nessun assassino in carcere, l’impunità era diffusa. Non potevamo parlare di quello che era successo negli anni della dittatura e allora abbiamo tro‑ vato negli estraches una nuova modalità di protesta. In assenza di una condanna legale, abbiamo provato a inventare una condanna sociale. Andavamo in un quartiere dove abitava un militare, responsabile di violazioni dei diritti umani durante la dittatura, e facevamo dei car‑ telloni con la sua fotografia e l’indirizzo e marchiavamo la casa con la pittura. Gridavamo “Qui abita un assassino, non lo salutate, non gli vendete il pane, non lo fate salire sul vostro taxi!””163.
Lo scopo degli estraches è individuare i responsabili dei crimini della dittatura e stigmatizzarli e condannarli socialmente per sopperire alla mancanza di una condanna giuridica. No olvidamos, no perdonamos, no nos reconciliamos – Non dimentichiamo, non perdoniamo, non ci ricon‑ ciliamo: questa è la scritta che appare sugli striscioni dei Figli durante le loro incursioni nella sfera pubblica. In questo modo rimarcano anche l’insufficienza della soluzione riparativa delle Commissioni di Verità e Riconciliazione: il perdono e la riconciliazione passano, necessaria‑ mente, per la condanna dei responsabili, tanto sociale quanto giuri‑ dica. Il finale di Hijos/Figli è uno dei pochi – della cinematografia sul genere – a riuscire a ribaltare il dolore in rabbia e speranza, affidando alle nuove generazioni la possibilità del riscatto. Nel 2008 Bechis ha girato La terra degli uomini rossi, su una tribù indigena brasiliana perseguitata dai fazendeiros e nel 2015 il docu‑ mentario Il rumore della memoria che racconta la vita di Vera Vige‑ vani Jarach, una delle fondatrici delle Madres de Plaza de Mayo, le donne che in Argentina rivendicano verità e giustizia per la scompar‑ sa dei loro figli e per il ritrovamento dei loro nipoti, rapiti e cresciuti in famiglie di militari. Il cinema della memoria di Bechis meriterebbe M. Vignola, La memoria desaparecida. Politica e movimenti per i diritti umani in Argentina, Lecce, Pensa, 2012, p. 145.
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senz’altro un’approfondita analisi, tanto per il valore stilistico quanto per quello politico‑sociale.
2.2 La memoria clandestina: il cinema di Miguel Littín Tra i registi della generazione di Allende, Miguel Littín è sicuramente uno dei più attivi e riconosciuti anche a livello internazionale, sia per la distribuzione mondiale che hanno avuto molti suoi film sia per i pre‑ mi ottenuti in importanti festival cinematografici164. A rendere famo‑ so Littín, in realtà, fu soprattutto il libro Le avventure di Miguel Littín, clandestino in Cile, che Gabriel Garcia Marquez scrisse nel 1985 per raccontare le gesta eroiche del regista cileno, che dopo 12 anni di esilio decise di rientrare clandestinamente in Cile per raccontare la dittatura di Pinochet e le sue conseguenze sociali. La storia del cinema clandestino nel Cile di Pinochet non è però li‑ mitata alla straordinaria esperienza filmica di Littín. Già pochi mesi dopo il golpe, infatti, la Germania Est decise di affidare alla coppia di documentaristi Heynowski y Scheumann il compito di documentare la violenza militare. Così, con documenti falsi, la coppia tedesca e una mini troupe europea entrarono in Cile e, tra le altre cose, riuscirono a filmare la vita all’interno dei campi di concentramento di Chacabuco e Pisagua. Le loro immagini filmate clandestinamente costituirono una trilogia sul Cile di Pinochet: La guerra de los momios e Yo fui, yo soy, yo seré del 1974 e El golpe blanco del 1975165. Pochi anni dopo, anche il regista spagnolo José Maria Berzosa entrò clandestinamente in Ci‑ le, inviato dalla Televisione Francese per realizzare il film Chili‑Impres‑ sion, un documentario in quattro capitoli di un’ora ciascuno. Il regista Per un approfondimento del cinema di Miguel Littín si vedano: J. Mouesca, Mi‑ guel Littín: la apertura latinoamericana, in Id., Plano secuencia de la memoria de Chi‑ le. Venticinco anos de cine chileno (1960‑1985), Madrid, Ediciones del Litoral, 1988, pp. 89‑108; M. Littín, Cine chileno: la tierra prometida, Caracas, Rocinante, 1974. 165 Per approfondire quali furono i registi stranieri che raccontarono clandestinamente il Cile della dittatura si veda: J. Mouesca, cit., pp. 179‑194. 164
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riuscì addirittura a intervistare quattro membri della Giunta militare nelle loro stesse case. Nel 1978, invece, furono alcuni filmakers, rima‑ sti anonimi sotto l’etichetta Colectivo Cine‑Ojo, a filmare le prime sce‑ ne di manifestazioni di protesta contro il regime e alcune di queste furono poi montate nel film Carta de Chile, che il regista Marcos Ga‑ lo mostrò a Parigi nello stesso anno. Nel 1983, il Colectivo filmò altre manifestazioni di protesta che poi furono montate in Chile, no invoco tu nombre en vano. Sempre nel 1983 ci furono altri esempi di film gira‑ ti in condizione di clandestinità o di semi‑clandestinità: Fragmentos de un diario inacabado di Angelina Vazquez, Los muros de Santiago, rea‑ lizzato da una troupe francese a partire da una sceneggiatura scritta da Carmen Castillo e, infine, i documentari Asi golpea la represion e Rebe‑ lion ahora, girati da Rodrigo Gonçalves, rispettivamente per la televi‑ sione svizzera e della Germania Ovest. Il film di Littín, però, è l’unico che ancora oggi conserva una fama mondiale, sicuramente grazie an‑ che alla celebrazione letteraria che ne fece Marquez. Prima di descri‑ vere questa sua esperienza straordinaria, vediamo però qual è stato il percorso filmico di Littín. Dal 1969, anno in cui realizzò il promettente El chacal de Nahuel‑ toro, Littín ha realizzato tre documentari e altri undici lungometraggi di finzione, tant’è che non può essere considerato un documentarista come Guzmán, ma primariamente un regista di film di finzione. Tut‑ ta la filmografia littíniana, però, non smette mai di essere militante e radicata nella realtà. Essa, infatti, è segnata da un intento rivoluziona‑ rio, “nel senso di stimolatore politico, non nel senso di rivoluzionario sul piano formale”166. Nei suoi film non si perde mai questo spirito ri‑ voluzionario e il bisogno di raccontare la società cilena, che sia nel ge‑ nere di finzione o in quello documentaristico. Anche la maggior parte delle fiction di Littín, infatti, si basa su eventi reali della storia cilena e sudamericana, proprio perché alla base di ogni sua creazione c’è l’au‑ spicio che il cinema possa essere utile allo spettatore: “credo nel cinema popolare e credo nella letteratura popolare. Popolari nel senso che de‑ vono essere diretti al popolo”167. Tuttavia, nonostante i film narrativi 166 167
F. Bolzoni, cit., p. 104. Ivi, p. 99.
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rappresentino la parte più cospicua della sua produzione, è solo nel do‑ cumentario che Littín raggiunge livelli qualitativi che gli consentono di distinguersi tra i migliori registi del panorama cileno. Compañero presidente e Acta general de Chile hanno fatto la storia della cinemato‑ grafia sudamericana, documentando rispettivamente la figura umana e politica di Salvador Allende e tutto il periodo storico da poco prima del golpe a tutti gli anni più bui della dittatura di Pinochet. Eppure Littín iniziò la sua carriera cinematografica solo in modo in‑ diretto, tramite il teatro e la televisione. A Chillan, nella scuola della Universidad de Chile, studiò teatro con Enrique Gajardo, un profes‑ sore al quale devono molto numerosi artisti cileni. All’inizio Littín si disimpegnò come attore, fino a esibirsi con la direzione drammatur‑ gica. Nel mondo della televisione entrò grazie ad Helvio Soto, il qua‑ le si occupava del canale della Universidad de Chile, la cui direzione fu affidata poi a Littín. Dapprima si occupò di realizzare trasmissioni in‑ centrate su interviste e, in seguito, diresse anche adattamenti teatrali, tra i quali Panorama desde el puente e La muerte de un vendedor via‑ jero di Arthur Miller. Nel frattempo riuscì ad avvicinarsi al settore ci‑ nematografico, frequentando il Centro Sperimentale di Santiago: “lì conobbi i primi film documentari del cinema cileno – quelli di Sergio Bravo, l’allora direttore del Centro – la prima espressione di un cinema più autentico, più collegato con la realtà e con il suo tempo”168. A lan‑ ciarlo con un’esperienza diretta nel campo del cinema fu però ancora Helvio Soto, che gli diede la possibilità di lavorare nei suoi primi film sia come attore che come assistente alla regia. L’esordio cinematografico avvenne nel 1965 con Por la tierra ajena, un cortometraggio documentario basato su una canzone di Patricio Manns e realizzato con l’aiuto di Pedro Chaskel e di Fernando Bel‑ let che, come ammette lo stesso Littín, fu uno dei suoi maestri. L’en‑ trata di Littín nel panorama del cinema cileno avvenne però nel 1969, quando realizzò il suo primo lungometraggio, il già citato El chacal de Nahueltoro. Per realizzare questo film, Littín svolse un accurato lavo‑ ro di ricerca sociale che durò due anni, durante i quali realizzò molte I. Parra, Conversacion con Miguel Littín, in “Araucaria de Chile”, n. 21, Madrid, 1983, p. 83.
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interviste in profondità, fino a giungere alla conclusione che gli inter‑ locutori popolari avevano chiaro che, dietro l’episodio dello sciacallo ubriaco che ammazza la propria famiglia, c’era un contadino povero e non istruito, “c’era una situazione molto concreta, e cioè il latifondo, e la giustizia di classe, come era applicata la legge in Cile. Avevano chia‑ ro che il sistema imprigiona l’uomo e lo spreme e, quando lui non ha più nulla da dare, lo fucila”169. Su un avvenimento che apparentemen‑ te poteva generare un solo possibile giudizio, Littín riuscì ad andare a fondo, proponendo un’analisi critica che trovò risposte strutturaliste, individuando nelle condizioni sociali le cause di un gesto folle che non poteva quindi essere imputato, in modo semplicistico, alla responsa‑ bilità di un singolo individuo. Secondo Micciché, Littín “mostra con pudica evidenza, fatta di un tono sommessamente realistico e di una misura morale che non è mai retorico sdegno, come lo sciacallo fosse tale per non avere mai conosciuto la società che come una giungla”170. Riuscendo a coniugare il cinema con la ricerca, Littín esalta la capacità del cinema di rendersi strumento di analisi sociale, capace di indagare e comprendere le cause profonde di alcuni comportamenti umani. In‑ fatti, come mai era stato fatto prima, il film di Littín osservava la realtà cilena quasi da una prospettiva sociologica, analizzando in modo criti‑ co il problema del latifondo e quello della criminalità, legandolo al te‑ ma della disuguaglianza economica e della lotta tra le classi. “Questo film – affermò Littín – è, in realtà, la storia di un doppio assassinio, quello dello sciacallo di Nahueltoro contro sé stesso (perché assassi‑ nando i propri figli e la propria moglie è come se assassinasse sé stesso) e l’assassinio commesso dallo Stato”171. Con El Chacal de Nahueltoro Littín raggiunse immediatamente una grande notorietà e fu considerato uno dei nomi chiave del nuovo ci‑ nema cileno, dimostrando nei fatti di essere un regista nato e cresciuto insieme al progetto rivoluzionario di Allende. E in effetti, forse pro‑ prio per suggellare questo legame, nel primo anno del governo Allen‑ Ivi, p. 25. Ibidem. 171 V. Ciompi, Hacia un cine latinoamericano. Entrevista con Miguel Littín, in “Casa‑ blanca”, n. 27, Barcellona, 1983. 169 170
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de, Littín girò il documentario Compañero Presidente, un film ormai storico sul colloquio tra Salvador Allende e l’intellettuale francese Re‑ gis Debray: «A Compañero Presidente ho dato una forma concitata. Il film è una specie di viaggio senza soste. Avevamo due personaggi che parlavano senza preoccuparsi di noi. Non interrompevano il loro dialogo quan‑ do noi avevamo da risolvere dei problemi tecnici. Il film cercava di sorprendere Allende e Debray nel modo più informale possibile, di cogliere i loro gesti più intimi. Volevamo catturare l’immagine uma‑ na di un presidente assediato da un interlocutore che domandava e domandava»172.
In effetti anche le tecniche di ripresa del colloquio, e cioè i continua‑ ti piani sequenza, dimostrano questa esigenza di “sorprendere” la real‑ tà, di non interromperla, in una “specie di viaggio senza soste”, il cui bisogno fondamentale è evitare, o ridurre al minimo, qualsiasi mani‑ polazione del reale. Littín dimostra così una necessità estrema di fedel‑ tà al reale, di garanzia di verità, come sostenuto anche da Pasolini e da Bazin nelle loro rispettive riflessioni sul piano sequenza e sul montag‑ gio proibito173. Con i suoi piani sequenza, Compañero Presidente vuole Ibidem, p. 97. Secondo Pasolini la soggettiva è “il massimo limite realistico di ogni tecnica audio‑ visiva. Non è concepibile vedere e sentire la realtà nel suo succedere se non da un solo angolo visuale: e questo angolo visuale è sempre quello di un soggetto che vede e che sente. […] Ora, la realtà vista e udita nel suo accadere è sempre al tempo presente. Il tempo del piano‑sequenza, inteso come elemento schematico e primordiale del cine‑ ma – cioè come una soggettiva infinita – è dunque il presente”. Il montaggio pertanto rappresenta “una moltiplicazione di presenti, come se un’azione anziché svolgersi una volta sola davanti ai nostri occhi, si svolgesse più volte. Questa moltiplicazione di pre‑ senti abolisce in realtà il presente, lo vanifica, ognuno di quei presenti postulando la relatività dell’altro, la sua inattendibilità, la sua imprecisione, la sua ambiguità”. P. Pa‑ solini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, pp. 237‑238. Bazin, d’altro canto, sostiene che “il montaggio, di cui ci si ripete così spesso che è l’essenza del cinema, è il procedimento letterario e anticinematografico per eccellenza. La specificità cinema‑ tografica, colta per una volta allo stato puro, risiede al contrario nel semplice rispetto fotografico dell’unità dello spazio. […] Bisogna solo che l’unità spaziale dell’avveni‑ mento sia rispettata nel momento in cui la sua rottura trasformerebbe la realtà nella
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scoprire la realtà, girarle intorno come fa la camera, dando però premi‑ nenza al volto di Allende – anche quando è Debray a parlare – e questo per capire anche le reazioni fisiche del Presidente, le sue possibili esita‑ zioni alle domande, il movimento delle sue mani, ricercate con zoom lenti. In questo modo, Littín dimostra tutto il potenziale delle ricerche di sociologia visuale che indagano l’etologia umana, spesso in chiave prossemica, psicologica o come interaction process analysis174. Nel do‑ cumentario di Littín, il focus dell’analisi è Allende. Poche volte, infat‑ ti, si vede Debray chiaramente in viso: al contrario di Allende, è quasi sempre di spalle o di profilo, come se rappresentasse solo l’alter ego di Littín e si identificasse con un altro possibile punto di vista del regista, il prolungamento dell’obiettivo della camera. Va sottolineato, del resto, che il fascino di questo documentario ri‑ siede nel suo essere un lavoro militante, ma non di propaganda. Littín, infatti, alla domanda di Bolzoni, se lui aderisse o meno al movimento del cinema militante, rispose cercando di chiarire la possibile ambigui‑ tà del termine: «Sì, anche se bisogna intenderci… c’è differenza tra il dedicarsi a un’arte che aiuti la trasformazione sociale di un paese o a un cinema che si muova al livello degli slogan. Nego a quest’ultimo ogni qualità. Questa è propaganda. E c’è un abisso enorme tra l’arte e la propagan‑ da. L’arte militante, per me, riscatta la nostra identità come popolo, contribuisce alla formazione di una cultura lucida, di una cultura nella quale l’uomo è soggetto e non oggetto»175. sua semplice rappresentazione immaginaria. […] Ciò di cui c’è bisogno per la pienezza estetica dell’impresa è che noi possiamo credere alla realtà degli avvenimenti sapendo che sono truccati. […] Ciò che importa è solo che si possa dire, allo stesso tempo, che la materia prima del film è autentica e che, tuttavia, è cinema”. A. Bazin (1958), Che cos’è il cinema, trad. it., Milano, Garzanti, 1973, pp. 68‑73. Considerando ciò, è chiaro che Allende e Debray avessero prima parlato con Littín per capire le sue esigenze e che sapessero di essere ripresi da una cinepresa, ma ciò non dimostra che fosse tutto preparato o che non fosse un colloquio veritiero, e a garanzia di ciò si pone proprio l’utilizzo della tecnica del piano sequenza che quantomeno testimonia la mancanza di interventi registici manipolatori nel corso di un singolo spezzone di dialogo. 174 Cfr. F. Mattioli, op. cit., pp. 131‑133. 175 F. Bolzoni, op. cit., p. 98.
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Guardando Compañero Presidente risulta chiaro che Littín non avesse lo scopo di osannare la figura di Allende e la sua politica: avrebbe po‑ tuto senz’altro limitarsi a porre una cinepresa davanti ad Allende e a es‑ sere lui stesso a porgli delle domande, senza neanche il bisogno di far sentire la propria voce, ma solo montando le risposte di Allende in mo‑ do consequenziale, per argomenti. Eppure Littín decise di porre davanti al Presidente un interlocuto‑ re “aggressivo”, che incalza, ribatte, pone dubbi, cerca di fare vacillare il punto di vista di Allende, di evidenziare le incongruenze di alcune scelte del governo di Unidad Popular ed è come se Littín volesse ana‑ lizzare e criticare il suo stesso punto di vista, riproducendo il dibat‑ tito interno alla generazione allendista. Infatti, Debray non mette in dubbio la prospettiva di Allende collocandosi all’estremo opposto, ma piuttosto in un punto ancora più a sinistra di Allende, da cui prova a dimostrare le ragioni per cui la moderazione del Presidente possa ri‑ velarsi fatale. La scelta di utilizzare Debray non come intervistatore, ma come parte attiva di un colloquio in profondità, permette a Littín di non ottenere un documento piatto, ma un’opera dialettica e di ri‑ cerca qualitativa che non dà una verità, ma che indaga su una realtà, cercando di non rivolgersi a un uomo “oggetto”, ma a un uomo “sog‑ getto”. Littín rivendica una sua prospettiva ideologica, sostenendo di essere “marxista‑leninista e, come tale,” di adottare “il metodo del mar‑ xismo‑leninismo per studiare la realtà”176. Questo metodo, del resto, non è in sé in contrasto con la possibilità di “studiare la realtà” e infatti gran parte della sociologia si colloca lun‑ go questo crinale prospettico. In questo caso, questo metodo serve a Littín per indagare la condizione del Sud America e le possibili vie di liberazione del popolo cileno, a partire da un confronto tra due teorie sulla liberazione, quella di Debray e quella di Allende. Due teorie che, seppure distinte, non sono necessariamente contrapposte e hanno il merito di essere universali, cioè di rispecchiare il dibattito che in quegli anni era vivissimo all’interno della sinistra cilena, divisa tra “la via rivo‑ luzionaria” e “la via democratica”177. Il confronto diventa spesso acceso, 176 177
Ibidem. Cfr. J. Mouesca, op. cit.
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con Debray che provoca Allende affermando che una rivoluzione sen‑ za fucili, una rivoluzione che “non straccia la precedente Costituzione borghese” è equivalente al semplice riformismo: “Voi avete conquista‑ to il governo, ma quando conquistate il potere?”. Allende si difende senza esitazioni: “Avremo il potere quando il Cile sarà definitivamente un paese economicamente indipendente”. E poi ribadisce, con fierez‑ za, di far parte di un “governo democratico” che si trova “in una tappa rivoluzionaria […] che porterà al socialismo, perché il socialismo non si impone per decreto. […] Quello che noi chiediamo al nostro popolo è che loro capiscano che loro sono il governo”178. Per sostanziare la sua affermazione e non sminuire i suoi intenti rivoluzionari, Allende sem‑ bra quasi cercare sostegno in un’icona della rivoluzione: Ernesto Gue‑ vara. Dal cassetto della sua scrivania prende un libro con una dedica firmata El Che: “A Salvador Allende che con altri mezzi cerca di otte‑ nere gli stessi scopi”179. Questo documentario, oltre a tracciare in modo approfondito la fi‑ gura di Salvador Allende e il dibattito interno alla sinistra cilena, è importante anche per la sua capacità, con due anni di anticipo, di spie‑ gare le cause politiche che portarono al golpe del 1973. La “via rivo‑ luzionaria con fucili” di Debray e probabilmente di Littín, si fondava sulla loro convinzione che la borghesia cilena e le Forze Armate osta‑ colassero qualunque riforma proposta in modo democratico e stessero già tramando contro il governo di Unidad Popular e le sue politiche di statalizzazione. Questa convinzione di “golpe imminente” porta De‑ bray a incalzare Allende, il quale è costretto a rispondere sull’argo‑ mento: «Loro pensano che uccidendo un uomo, un politico, un dirigente, si possono fermare i processi sociali. Nel caso del Cile? Se mi assassina‑ no? Il popolo continuerà il suo cammino, con la differenza chissà, che le cose saranno molto più violente, perché sarà un’aggressione molto chiara per le masse, e la gente non si dimentica di niente. Io tengo in conto questa possibilità, ma non vivo con la preoccupazione che ciò possa accadere». 178 179
M. Littín, Compañero Presidente, documentario, 70 min., Chile, 1971. Ibidem.
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Queste affermazioni di Allende dimostravano la sua coscienza rispet‑ to al problema, ma anche la sua eccessiva fiducia in un popolo che poi fu sottomesso per diciassette anni. In chiusura di documentario, do‑ po che i due interlocutori hanno sostato in diversi vani della villa pre‑ sidenziale, Allende si rivolge a Debray spiegandogli che la situazione del Cile è la situazione di tutto il Sud America, un continente che con‑ tinua a essere “un vulcano in eruzione” e nel quale i popoli “non han‑ no altra possibilità che lottare, ognuno in accordo con la sua realtà, ma lottare, lottare per conquistare l’indipendenza economica ed essere po‑ poli autenticamente liberi anche dal punto di vista politico”. Non c’è dubbio che il documentario dimostri tutta la sua valenza nell’essere non solo un archivio per analizzare l’etologia di Allende, ma anche come Allende e la generazione allendista autorappresentasse i suoi problemi e le sue aspettative sul futuro, che già evidentemente si coloravano di tinte fosche. E non a caso, al di là delle divergenze strate‑ giche accennate, l’intesa tra i due interlocutori si percepisce da una ri‑ chiesta finale che Allende pone a Debray: “E credo che tu compagno, ci puoi aiutare molto dicendo quello che hai visto e quello in cui cre‑ diamo”. Nonostante si rivolga direttamente a Debray, è come se Al‑ lende si stesse rivolgendo, in realtà, al regista Littín, per chiedergli di rendersi testimone di memoria, sfruttando la capacità del cinema di dif‑ fonderla in modo trans‑culturale180, di rendersi veicolo e detonatore di memoria. Nella sequenza finale del film, Littín torna a riproporre la scissio‑ ne tra la via democratica e razionale di Allende e la via rivoluzionaria e della forza del MIR e di chi era convinto che alla violenza economi‑ co‑militare delle destre si potesse rispondere solo con la forza, per evi‑ tare che il cinema stesso finisse per essere non un veicolo di memoria, ma memoria repressa e clandestina, come poi effettivamente fu. Così, nel finale di Compañero Presidente, mentre scorrono immagini di ar‑ chivio di vecchi scontri tra militari e popolazione, la voce off di De‑ bray‑Littín insinua il dubbio finale: “Qui, in Cile, c’è un confine labile tra ragione e forza. Apparentemente fino a oggi tutto è andato secon‑ do la ragione. Fino a quando?”. Passarono meno di due anni e i timori 180
F. Ferrarotti, op. cit., p. 25.
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di Debray‑Littín si trasformarono tristemente in realtà, palesando tut‑ ta la forza delle immagini e dei dialoghi di quel film181. Un documentario strutturalmente simile a quello di Littín fu rea‑ lizzato poco dopo dal regista italiano Roberto Rossellini, che ripre‑ se il principale nucleo tematico del film di Littín sin dal titolo: La forza e la ragione. La televisione italiana, però, probabilmente per ragioni di opportunità politica, decise di non trasmettere questo film. Dopo il golpe, tuttavia, il tema diventò così attuale che la se‑ ra del 15 settembre 1973 il documentario fu finalmente trasmesso, quando ormai però le idee rivoluzionarie di Allende costituivano solo il passato, una memoria sepolta sotto le ceneri del Palazzo del‑ la Moneda. Dopo Compañero Presidente, Littín girò soltanto un altro film di fin‑ zione nel 1972, La tierra prometida, riuscendo così a realizzare soltanto due film nei tre anni di governo di Allende. Senza rispettare una cro‑ nologia precisa, il film è “una rievocazione magica della storia del Ci‑ le. Parla di un gruppo di poveri che, dal nord e dal centro del Paese, vanno verso il sud in cerca delle terre che il governo, negli anni Tren‑ ta, consegnava ai contadini”182. Ma narra soprattutto la repressione dei militari nei confronti dei contadini, così che l’illusione della “terra pro‑ messa” si risolve con un grande massacro. In questo film, Littín vuole dare valore proprio alla memoria storica del Cile, per dimostrare che “il presente è il risultato di tutto ciò che lo precede”, perché “ogni tra‑ sformazione sociale è parte di un continuo progresso e non il risultato dell’iniziativa di pochi”183. Nelle proiezioni europee, il film riscontrò un grande successo, anche perché – come evidenziò il direttore dei Ca‑ hiers du Cinéma – la pellicola, nel momento in cui fu proiettata, creò una dimensione nuova nella relazione tra “il tempo dell’enunciato (il Cile degli anni Trenta) e il tempo dell’enunciazione (Cile del 1972) con il tempo in cui il film fu proiettato davanti al pubblico: nel 1974, quando il Cile non era più lo stesso”184. In sostanza, dopo che il gover‑ Ibidem. F. Bolzoni, op. cit., p. 100. 183 Ivi, p. 101. 184 J. Mouesca, op. cit., p. 95. 181 182
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no di Allende fu represso con il golpe, il film acquistò grande valore, dimostrando quanto profonda fosse la sua analisi politica e il valore at‑ tribuito alla memoria di certi eventi storici. Infatti, nei due film girati durante gli anni del governo Allende, è come se Littín, più che parlare di che cosa stesse riuscendo a realizzare il governo di Unidad Popular, volesse indagare su che cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco, cer‑ cando di capirlo anche osservando la precedente memoria traumatica del Cile, come per esempio nel racconto delle illusioni contadine e del‑ la repressione militare degli anni Trenta. Il cinema littíniano di quegli anni sembrava quindi più preoccupato di non raggiungere mai defini‑ tivamente quella terra promessa che pure sembrava così vicina grazie ad Allende. Dopo il golpe militare, Littín decise di fuggire in esilio in Messico, un paese allora governato da Luis Echeverrìa, vecchio amico di Allen‑ de. Nel 1975, da una novella inedita di Patricio Manns, realizzò Ac‑ tas de Marusia, un’opera – interpretata da Gian Maria Volonté – che andava ancora più indietro nella memoria del Cile, ma affrontando le stesse tematiche del film precedente. Al centro della storia, infatti, c’e‑ ra un episodio della lotta di classe cilena: il massacro della popolazio‑ ne di Marusia, centro minerario del Cile settentrionale, avvenuto nel 1907 a opera dell’esercito in occasione di uno sciopero. Ancora una volta il suo cinema s’inscriveva nella memoria cilena e, simultaneamen‑ te, contribuiva a scriverla, cercando di ricostruire nessi tra il passato e il presente. Per Littín, infatti, anche in esilio il cinema cileno deve par‑ tecipare «attivamente ai compiti della resistenza, e lo fa con la presenza a tutti i festival che hanno come obiettivi prioritari il mantenimento di una solidarietà permanente con il Cile, la raccolta di denaro destinato alla resistenza e l’incoraggiamento di una campagna mondiale di ripudio della dittatura con la denuncia dei suoi crimini e delle sue brutalità. Nel contempo, in diversi luoghi del mondo, i cineasti cileni prepara‑ no nuovi film la cui priorità è quella di presentare l’immagine di un popolo in lotta, fiducioso del trionfo finale e, inoltre, di analizzare i diversi periodi della vita del paese al fine di offrire degli elementi per una corretta comprensione di quanto è accaduto in passato che per‑ metta di progettare un futuro. Al tempo stesso, queste opere intendo‑
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no porsi come contributo alla lotta del proletariato mondiale, perché siamo coscienti che la lotta del popolo cileno è la lotta di tutti i popoli liberi del mondo»185.
In effetti, in tutto il lungo periodo dell’esilio, Littín continuò a realiz‑ zare un cinema militante, che affondava le sue radici ispirative nell’hu‑ mus traumatico del Cile e della stessa biografia del regista, ma cercando anche di ampliare la riflessione e l’analisi della repressione oltre il con‑ testo cileno e sudamericano. Così, già nel 1977 girò El recurso del me‑ todo, un film – scritto con Regis Debray – che sin dal titolo chiariva la ricorsività dei metodi repressivi e quindi l’importanza di studiare il passato per comprendere il presente. Il film era un adattamento della novella omonima di Alejo Car‑ pentier e non si limitava al racconto dei traumi cileni, ma ampliava il raggio d’analisi a gran parte dei paesi sudamericani, ugualmente e cicli‑ camente sottomessi a regimi di presidenti‑dittatori. Anche per il film successivo, La viuda de Montiel, Littín decise di trarre ispirazione dalla grande letteratura ispanoamericana e precisamente dal racconto omo‑ nimo di Gabriel Garcia Marquez. La memoria traumatica è al centro anche di questo film, ma questa volta si tratta di una memoria indivi‑ duale e non collettiva: il nucleo della narrazione, infatti, è basato sui ricordi della protagonista, interpretata da Geraldine Chaplin, che, du‑ rante un viaggio in treno, ricostruisce la vita di suo figlio e, in partico‑ lare, gli episodi che lo portarono a una morte tragica. Il film, tuttavia, fu accolto con indifferenza dalla critica, poiché non riuscì a rendere vi‑ sivamente l’atmosfera magica del racconto di Marquez. Più successo ebbe invece il film del 1982, Alsino y el condor, anch’esso ispirato a una novella, Alsino di Pedro Prado. In questo caso, Littín rielaborò abil‑ mente il contenuto favolistico del bambino di campagna che sogna di volare, tratto dal racconto cileno, integrandolo però con il tema della rivoluzione sandinista in Nicaragua. Quest’ultimo tema venne poi ap‑ profondito nel film del 1990 Sandino, che sembrava cercare nel leader della rivoluzione nicaraguense un possibile erede spirituale di Salvador Allende. Come i precedenti della filmografia littíniana, anche questo 185
M. Littín, op. cit., p. 43.
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ha lo scopo di evidenziare i problemi del popolo latinoamericano e di incitarlo a prendere coscienza sulla possibilità rivoluzionaria. Del 1994 è Los naufragos, film nel quale Littín affronta il tema che più di tutti lo ha coinvolto direttamente: quello dell’esilio e del ritor‑ no in patria dopo anni di costrizione alla lontananza. Nel 1999 girò Tierra del fuego, valendosi della collaborazione di Luis Sepulveda e To‑ nino Guerra, i quali sceneggiarono il romanzo di Francisco Coloane. Anche questo film indaga la memoria traumatica del Cile, affondan‑ do lo sguardo in un passato ancora più remoto, quando tra fine Ot‑ tocento e i primi del Novecento, i colonizzatori britannici, argentini e cileni sterminarono le popolazioni indigene della Terra del Fuoco e, in particolare, della Isola di Dawson. Questo sterminio passò alla sto‑ ria come genocidio selknam. Al film parteciparono anche alcuni italia‑ ni: gli attori Ornella Muti e Claudio Santamaria e il direttore della fotografia Beppe Lanci che “dà risalto, senza cadere nell’oleografia, ai paesaggi desolati e selvaggi della fine del mondo”, in un film che però appare “guidato da un timoniere allucinato, alle prese con un mare in burrasca”186. Del 2002 è invece il terzo documentario di Littín, girato in Palesti‑ na e intitolato Cronicas palestinas, a ribadire, ancora una volta, la sua idea di cinema come documento del reale, nonché la sua militanza della memoria. Tre anni dopo, forte dell’esperienza documentaristica, deci‑ se di girare in Palestina anche un film di finzione, operando in condi‑ zioni certo non facili. Per questo, allestì una mini troupe di 15 persone e, in uno dei luoghi più pericolosi al mondo, girò il film La ultima lu‑ na (2005), una produzione alla quale parteciparono sia attori cileni che palestinesi. Con questo film si ricollegò indirettamente alla tema‑ tica di La tierra prometida. La storia de La ultima luna inizia nel 1914 e termina nel presente: narra la vita di un gruppo di uomini, palestinesi e israeliani, che vivono di passioni e amore, fino a quando non arriva la guerra a dividerli. Questo film si collocava lungo i sentieri già traccia‑ ti dal suo autore, questa volta allargando lo sguardo anche oltre i con‑ fini sudamericani, per “mostrare la situazione dei popoli oppressi che 186 L. Morandini, L. Morandini, M. Morandini, Il Morandini. Dizionario dei film 2004, Bologna, Zanichelli, 2003, p. 1376.
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lottano per la libertà”, considerando il popolo palestinese come un po‑ polo “occupato che sta facendo uso del diritto più legittimo che hanno gli esseri umani di difendere la propria terra e la propria libertà”187. Ad anni di distanza e in luoghi diversi del mondo, è come se Littín conti‑ nuasse a filmare quella repressione cilena che era stata il movente prin‑ cipale del suo desiderio di indagare la realtà cinematograficamente. E in effetti, nel 2009, torna a filmare la memoria cilena e la Terra del Fuo‑ co, dove aveva già ricostruito il genocidio indigeno avvenuto tra Ot‑ tocento e Novecento. A dieci anni da quell’esperienza filmica, realizza un adattamento cinematografico del libro Isla 10 di Sergio Bitar, pri‑ gioniero politico durante la dittatura di Pinochet nella gelida e ino‑ spitale isola cilena. Il film, Dawson Isla 10, è stato nominato a Madrid come “miglior film straniero in lingua spagnola” alla 24esima edizio‑ ne del Premio Goya. L’ultimo film di Littín, del 2014, è Allende en su laberinto e sembra essere l’affondo decisivo del regista nel trauma, personale e collettivo, da cui ebbe origine il suo stesso bisogno di affrontarlo ed esorcizzarlo con il cinema. Il film è il racconto intimo delle ultime sette ore di vita di Allende, assediato all’interno del Palazzo della Moneda, che Littín fu costretto a far ricostruire in Venezuela perché l’allora (e attuale) Pre‑ sidente del Cile, Sebastian Piñera, negò l’autorizzazione a filmare den‑ tro il Palazzo di Governo. Il diniego di Piñera, Presidente dal 2010 al 2014 e rieletto nel 2018, dimostra quanto la memoria di Allende sia tuttora scomoda e negata e, pertanto, quanto il Cile continui a esse‑ re una democradura. L’impossibilità di girare in Cile comportò un al‑ lungamento delle riprese fino a due anni, ma nel 2014 Littín riuscì a tornare a girare in Cile e proprio dentro La Moneda, grazie alla dispo‑ nibilità concessa dal nuovo Presidente Michelle Bachelet, che fu vitti‑ ma delle torture della dittatura. Nonostante il film spesso scada in toni celebrativi, è costruito su una solida base testimoniale. Per prepararlo, infatti, Littín condusse una lunga ricerca in cui intervistò in profondi‑ tà tutti i testimoni che vissero il golpe al fianco di Allende all’interno della Moneda. Secondo alcune dichiarazioni del regista, in quel luogo era ancora viva la presenza di Allende e percepibile nella memoria dei 187
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luoghi, che per questo davano senso alla stessa presenza della troupe e, pertanto, al bisogno di scavare ancora una volta in quella memoria dopo quarant’anni; d’altra parte, “ci accompagnarono dei sopravvissu‑ ti e questo diede un valore ancora più forte al nostro atto”188. Il valore documentale del film è poi accresciuto dalle sequenze in cui vengono riprodotte le conversazioni radio originali tra i militari golpisti e l’ulti‑ mo discorso di Allende a Radio Magallanes. La vera opera memorabile di Littín, però, è il suo secondo documen‑ tario, quello del 1985, che non a caso ha un titolo quasi definitivo: Ac‑ ta general de Chile. Se i film girati in Palestina nel 1999 e 2001 e quello girato in Nicaragua nel 1982 furono produzioni molto rischiose per il contesto di guerra, questo documentario è perfino oltre il rischio, perché non si trattò di girare solo in un contesto oggettivamente dif‑ ficile, ma soggettivamente pericoloso per Littín e per la memoria de‑ saparecida che voleva ritrovare e ricostruire. Il film, infatti, fu girato in piena clandestinità, perché Littín era in una lista di 5000 esiliati con proibizione assoluta di rientrare nella propria terra e con la convinzio‑ ne, altrettanto assoluta, che se fosse rientrato e lo avessero scoperto, sarebbe stato arrestato, torturato e reso un desaparecido, come la me‑ moria negata che lui voleva far riemergere all’attenzione del mondo grazie al cinema e alla sua funzione mnemonica: “l’immagine del pae‑ se mi era svanita nelle nebbie della nostalgia, e per un uomo di cinema non esiste modo più sicuro per recuperare la patria perduta di torna‑ re a filmarla dall’interno”189. Così, all’inizio del 1985, Littín, “anche se ancora esiliato dentro me stesso”190, rientrò clandestinamente in Cile per sei settimane e filmò più di 7.000 metri di pellicola sulla realtà del suo paese, dopo dodici anni di dittatura militare. Con la faccia cambia‑ ta, con un modo diverso di vestire e parlare, con documenti falsi e con l’aiuto e la protezione delle organizzazioni democratiche che agivano nella clandestinità, Littín diresse, in lungo e in largo per il territorio “Miguel Littín: Allende cruza el umbral de la muerte para convertirse en un héroe”. Diario y Radio U Chile, 18 de diciembre de 2014. 189 G. G. Marquez, Le avventure di Miguel Littín, clandestino in Cile, Milano, Mon‑ dadori, 2000, p. 10. 190 Ivi, p. 9. 188
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nazionale, tre equipe cinematografiche europee, entrate contempora‑ neamente a lui con diverse coperture legali, e altre sei equipe giovanili della resistenza interna. Il risultato fu un film documentario di quat‑ tro ore per la televisione e un altro di due ore per il cinema. Per questo, Acta general de Chile è senza dubbio una delle opere più eroiche nella storia del cinema, anche se lo stesso Littín rifiutò questa connotazio‑ ne: “Questo non è l’atto più eroico della mia vita, bensì il più degno”, e dicendo ciò il regista dimostrava di averlo voluto realizzare soprattutto perché sentisse in modo forte un’urgenza di denuncia e di assumersi ri‑ schi e responsabilità191. La forza del suo atto filmico non era semplice‑ mente “la sua evidente portata politica”, ma il fatto di essere “una beffa alla prepotenza di Pinochet”192 e di riuscire finalmente a realizzare una contro‑narrazione del Cile, rispetto alla narrazione ufficiale imposta a milioni di cileni e alla comunità internazionale. Mostrato inizialmente dalla Televisione Spagnola, che collaborò tra l’altro alla sua produzione, Acta general fu presentato in diversi festi‑ val, atteso da grandi aspettative. Contribuirono a ciò, diversi fattori, il più importante dei quali fu – come ho già anticipato – la pubblicazio‑ ne, quasi simultanea alle prime proiezioni del film, di Le avventure di Miguel Littín, clandestino in Cile, il libro di Gabriel Garcia Marquez, in cui si racconta come fu girato il film, strutturando in forma narra‑ tiva un lungo colloquio registrato tra Marquez e Littín: “Quando Mi‑ guel Littín a Madrid mi ha raccontato quello che aveva fatto, e come lo aveva fatto”, racconta Marquez, “ho pensato che dietro al suo film c’era un altro film che correva il rischio di restare inedito. È stato così che ha accettato di sottoporsi a un interrogatorio spossante di quasi una set‑ timana, la cui versione registrata durava 18 ore”193. Nel suo libro, Mar‑ quez s’identifica con Littín e infatti racconta in prima persona le sue emozioni, per rendere ancora più empatico il racconto. Il testo del Pre‑ mio Nobel colombiano ebbe un grande successo, rappresentando un trampolino di lancio sul panorama internazionale per il film di Littín, il quale poi vinse quattro premi al Festival di Venezia. Un altro fatto‑ Ivi, p. 8. Ibidem. 193 Ivi, p. 7. 191 192
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re che contribuì al successo del film fu il clima che si creò in Cile nel 1986 e la ripercussione mondiale che ebbero alcuni fatti verificatisi nel paese. In quest’anno decisivo, infatti, ci fu il tentativo di attentato con‑ tro Pinochet, un evento che ebbe forte risonanza su tutti i mezzi di in‑ formazione. Il fatto che il film si annunciasse come un’opera realizzata in Cile in clandestinità non poteva non attirare l’attenzione dello spet‑ tatore. Acta general rappresentò uno dei punti culminanti del cinema allendista e del suo sforzo esemplare nel documentare e denunciare il regime di Pinochet. Le autorità e i militari cileni si videro tanto ridi‑ colizzati da decidere di bruciare quindicimila copie del libro di Garcia Marquez, riportando alla memoria i roghi nazisti. Prima di tornare in Cile, Littín attuò un processo profondo di sper‑ sonalizzazione e assunse una nuova identità di uruguaiano ricco, grazie all’aiuto di due psicologi e di una truccatrice cinematografica: “Do‑ vevo smettere di essere un regista cinematografico, povero e anticon‑ formista come ero sempre stato, per trasformarmi in quello che meno avrei voluto essere a questo mondo: un borghese soddisfatto. O come diciamo noi cileni: un momio”194. Paradossalmente, però, questa tra‑ sformazione consentì a Littín di mimetizzarsi nel Cile dei momios e, attraverso il nuovo sguardo, di raccontare il trauma di un’intera gene‑ razione, rendendo visibile quello che ancora era invisibile ai più o solo incomunicabile. Eppure, quando Littín arrivò a “Santiago, al contrario di quello che ci raccontavano nell’esilio, si mostrava come una città ra‑ diosa, con i suoi venerabili monumenti illuminati e con molto ordine e pulizia per le strade”195. Anche Littín fu costretto quindi a fare i con‑ ti con i suoi pregiudizi e probabilmente con un’immagine altrettanto distorta della realtà, ma la sua ricerca visuale doveva indagare proprie queste distorsioni e tentare di decifrare il volto reale del Cile. In fon‑ do, Littín era consapevole che quello “splendore materiale” di Santiago rappresentava solo uno dei modi “con cui la dittatura cercava di can‑ cellare il macello sanguinoso di più di 40.000 morti, 2.000 desapareci‑ dos e un milioni di esiliati”196. Anche perché, già la prima notte in Cile, Ivi, p. 14. Ivi, p. 25. 196 Ivi, p. 26. 194 195
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«Appena mi sdraiai sul letto mi resi conto del silenzio spaventoso del coprifuoco. Non riesco a immaginarmi un altro silenzio uguale al mondo. Un silenzio che mi opprimeva il petto, e continuava a oppri‑ merlo sempre più, e non finiva mai. Non c’era un solo rumore nella grande città spenta. Né il rumore dell’acqua nelle tubature, né il respi‑ ro […] né gli stessi rumori del mio corpo dentro me stesso»197.
Il silenzio del coprifuoco era così spaventoso perché era imposto, un’in‑ tera città condannata al silenzio e a quell’autocensura che ti opprime perché non ti fa percepire più neanche i rumori del proprio corpo. E purtroppo, nonostante la militanza della memoria di autori come Littín, il Cile è tornato a vivere, ancora oggi a trent’anni dalla fine del‑ la dittatura, la stessa congiura del silenzio. Ma un’identità negata e op‑ pressa non può che cercare i mezzi per riaffermarsi. Acta general de Chile era e continua a essere un invito a riaffermare la propria voce e a farla riemergere da un silenzio opprimente. Il film di Littín è una tetralogia documentaria che racconta alcuni tra gli aspetti principali della vita dei cileni sotto la dittatura, riproponen‑ do alcuni periodi della storia politica e sociale del paese. Ma è anche qualcosa di più: la ricostruzione visuale di una memoria clandestina. Anche la memoria del Cile, infatti, vive quella che per Littín è “la con‑ dizione strana di esiliato nel mio stesso paese, che è la forma più ama‑ ra di esilio”198. Con questo film, d’altra parte, Littín dimostrò di non rappresentare il modello tradizionale di documentarista cileno, poiché Acta general non è un semplice reportage di stampo televisivo, ma è co‑ struito su una struttura narrativa che trae la sua forza da un’intenzio‑ ne lirica mirata a sottolineare, tra le altre cose, l’emozione di un esiliato al ritorno in patria, ma soprattutto la grande funzione della scienza e dell’arte di raccontare le zone d’ombra della realtà, i traumi rimos‑ si. Nel film, Littín divide il suo percorso – geografico, umano, storico, personale – in quattro tappe riassunte nei quattro titoli che compon‑ gono questa ideale tetralogia: Miguel Littín clandestino in Cile – Nor‑ te, viaggio nella Pampa – Cile, dalla frontiera all’interno: la pianura accesa – Allende: il tempo della Storia. Nonostante tutti i critici ricono‑ 197 198
Ivi, p. 31. Ivi, p. 47.
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scano la portata dignitaria e rivoluzionaria del film, il capitolo ritenuto più interessante è, paradossalmente, l’ultimo, quello dedicato ad Al‑ lende e integralmente realizzato con materiali d’archivio, ad eccezione di alcune interviste fatte fuori dal Cile. Tra le altre, spiccano le testi‑ monianze di Gabriel Garcia Marquez, Fidel Castro, Hortensia Bussi. Dopo quattordici anni da Compañero Presidente, Littín svolse un’altra indagine sulla figura politica e umana di Salvador Allende, condotta questa volta, non più con intenti polemici o autocritici, ma di nobili‑ tazione della sua memoria, grazie alla testimonianza viva e significati‑ va di chi lo conobbe: il premio Nobel per la letteratura Gabriel Garcia Márquez tratteggia un ricordo personale del Presidente cileno; Fidel Castro ricorda il loro primo incontro e sottolinea le virtù politiche e la coerenza dell’impegno del Presidente nella difesa dei diritti del popo‑ lo; particolari familiari e commoventi giungono dal racconto accorato della moglie, Hortensia Bussi, mentre Joan Garcés, politologo, rive‑ la particolari sconosciuti della cospirazione militare e dei tentativi del Presidente di evitare il confronto armato. Nel libro di Marquez, si racconta l’indagine della troupe di Littín nelle poblaciones, gli enormi quartieri periferici delle città cilene, che “interessavano, prima di tutto, per conoscere le condizioni in cui vi‑ vono, il grado di coscienza di fronte alla dittatura, le loro forme im‑ maginifiche di lotta”199. In questa indagine, il cinema sembra quindi essere soltanto uno strumento per un interesse che è quasi primaria‑ mente sociologico e in effetti Littín sostiene che lo scopo di queste ricer‑ che nelle poblaciones era stabilire “quale è lo stato d’animo popolare nei confronti della dittatura e fino a che punto si mantiene vivo il ricordo di Salvador Allende”200. Ed effettivamente “il nome di Salvador Allen‑ de è quello che sostiene il passato, e il culto della memoria raggiunge una dimensione quasi mitica nelle poblaciones”201 tant’è che “nel nostro lungo giro del paese non trovammo un posto in cui non ci fosse una sua traccia”202; tuttavia, la troupe si accorge che la memoria allendista Ivi, p. 72. Ivi, p. 71. 201 Ivi, p. 72. 202 Ivi, p. 73. 199 200
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sopravvive solo in chi ha vissuto quel periodo, mentre i giovani sem‑ brano saperne ben poco, a testimonianza di quanto la dittatura abbia annientato gran parte di quel passato rivoluzionario: “la nostra prima sorpresa fu verificare che i grandi nomi dei dirigenti in esilio non dico‑ no molto alla nuova generazione”203. Il documentario si accinge alla fine con alcune immagini d’archivio degli ultimi discorsi di Allende, fino a che alcuni sopravvissuti ricorda‑ no la mattina dell’11 settembre. Per la prima volta, il Cile può ascoltare i messaggi radio fra i vari posti di comando dei militari ribelli e i vertici della giunta militare: è un documento unico per la ricerca, incompara‑ bilmente superiore a qualsiasi ricostruzione verbale, grazie alla indu‑ bitabile capacità del medium cinematografico di essere “moltiplicatore di informazioni”204. Concludono il contributo scene toccanti di una moltitudine popolare che, in atto di sfida, accompagna il corpo sen‑ za vita di Pablo Neruda, alcuni giorni dopo il Golpe. Un critico spa‑ gnolo ha detto di questo capitolo che è uno dei pezzi cinematografici “più convulsi, più vibranti e meglio composti della storia del cinema documentario”205.
2.3 La memoria assolutoria: il cinema di Carmen Castillo Tra i militanti del cinema di Allende non si può non citare Carmen Castillo, nonostante sia diventata cineasta e scrittrice soltanto durante l’esilio. Nata a Santiago nel 1945 in una famiglia dell’alta borghesia cat‑ tolica cilena, collaborò con lo staff del Presidente Allende e fu membro della sinistra rivoluzionaria del MIR. Dopo il colpo di Stato, passò al‑ la resistenza clandestina, ma dopo pochi mesi, quando era incinta, fu trovata dalla polizia segreta della DINA e durante il successivo com‑ battimento fu gravemente ferita e arrestata, mentre il suo compagno Ivi, p. 71 E. D’Amico, Il prodotto cinematografico come strumento d’indagine nella Sociologia Visuale, Napoli, Liguori Editore, 2008, p. 9. 205 V. M. Foix, El Pais, Madrid 29/07/1986.
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Miguel Henríquez, leader del MIR, fu ucciso. Poco dopo l’arresto non fu torturata ma immediatamente espulsa dal Cile, forse grazie anche alle sue origini familiari e al fatto che il padre fosse un uomo influen‑ te e politicamente vicino al regime, nonché ex Rettore dell’Universi‑ tà Cattolica del Cile. Rifugiata in Francia, ha aspettato dieci anni dalla morte del compagno per iniziare a lavorare per la televisione pubblica francese, per la quale scrisse il già citato Los muros de Santiago che girò clandestinamente nel 1983 insieme ai francesi Pierre Devert e Fabien‑ ne Servan‑Schreiber. Il testo del film fu scritto da Castillo a partire dal suo precedente libro Un dia de Octubre en Santiago, nato dall’intenzio‑ ne di rispondere a una domanda sociologica: “Come sono una città e un Paese dopo dieci anni di dittatura?”. Nel documentario la risposta arriva non solo da numerose testimo‑ nianze visuali, ma anche da una storica intervista a Orlando Saenz, uno dei dirigenti degli industriali cileni che, davanti alla videocamera, fa un coraggioso mea culpa per aver appoggiato il colpo di Stato. Altrettan‑ to storica è l’intervista a una giovane coppia che cinicamente spiega le ragioni per cui sostenevano la dittatura. Così il film compone un qua‑ dro in cui la tristezza del presente si confronta con una memoria a cui però si allude solo in forma di nostalgia. In questa assenza del passato, si colloca la commovente testimonianza di Fernando Castillo Velasco, padre di Carmen, che fissando l’obiettivo si rivolge ai suoi figli in esi‑ lio, alludendo a una quotidianità in cui i cileni sono schiacciati dalla sottomissione e dalla mancanza di qualsiasi speranza206. Questa testi‑ monianza non solo rimarca la frattura traumatica tra il passato e il pre‑ sente, ma anche tra chi è stato costretto all’esilio e chi è rimasto in Cile, ma è stato ugualmente costretto a esiliarsi da sé stesso: gli uni e gli al‑ tri ugualmente assediati dalla propria de‑soggettivazione, che significa che ognuno “diventa testimone del proprio dissesto, del proprio per‑ dersi come soggetto”207. A questo film seguirono tanti altri per un totale di venti documen‑ tari per la televisione e due per il cinema. All’interno di questa grande J. Mouesca, cit., pp. 187‑188. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 97. 206 207
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produzione, Carmen Castillo non ha quasi mai abbandonato il rac‑ conto delle memorie traumatiche del Sud America, dal Nicaragua a Cuba, fino al Messico. Anche il Cile ha continuato a essere al centro delle sue attenzioni, tanto da tornare in altri quattro documentari do‑ po quello del 1983: La flaca Alejandra del 1994, El pais de mi padre del 2004, Calle Santa Fe del 2007 e Chile 1973: una embajada ante el golpe de estado del 2019. Tra questi, soltanto Calle Santa Fe è stato pensato per una distribuzione cinematografica: acclamato al Festival di Can‑ nes, ha vinto il premio “Salvador Allende” del Festival del Cinema La‑ tino Americano di Trieste. Durante la premiazione, Castillo chiarì il senso del film e indirettamente la funzione del suo cinema nella mili‑ tanza della memoria: «Vengo da una storia che, malgrado tutte le sofferenze, le torture e l’esilio subiti, mi ha spinto a trasmettere il ricordo di quell’epoca, per far trionfare la vita e sconfiggere la morte. Mi ha spinto a trasmettere la memoria di quell’impegno rivoluzionario, e della grande epoca del Cile di Allende. Raccolgo questo premio con umiltà e lo accetto come un enorme regalo»208.
La memoria che vuole trasmettere Carmen Castillo, almeno negli in‑ tenti, è innanzitutto quella “dell’impegno rivoluzionario, e della gran‑ de epoca di Allende”: quindi, non tanto o non solo una memoria traumatica, ma piuttosto la memoria allendista, come un’intera gene‑ razione di giovani sognatori immaginò un mondo più giusto e pagò per quel sogno, che oggi sembra desaparecido come molti di quei gio‑ vani. Nonostante gli intenti, i suoi film parlano poco della gioia della rivoluzione e molto di più del trauma e della memoria come strumen‑ to per superarlo. Anche se Calle Santa Fe è il suo documentario più noto – probabilmente anche grazie alla distribuzione cinematografi‑ ca –, i suoi contenuti sono esplicitati già in La flaca Alejandra, il primo film post‑esilio e sicuramente il suo racconto meno filtrato dal tem‑ po e più denso e intimo, quello in cui lei apre per la prima volta la bo‑ tola in cui aveva nascosto e rinchiuso il suo dolore, le sue domande, il https://www.teatro.it/notizie/cinema/premio‑salvador‑allende‑alla‑regista‑cile‑ na‑carmen‑castillo.
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suo bisogno di verità e giustizia. La sua voice‑over diventa un io‑me‑ moria che s’interroga sul trauma, ma anche sul perdono e la riconci‑ liazione, attraverso un confronto con un altro io‑memoria: quello di La flaca Alejandra209. Il titolo del film si riferisce al soprannome che Marcia Merino aveva quando a diciassette anni entrò nel MIR, fino a diventarne uno dei massimi dirigenti a ventiquattro. La memoria sof‑ ferente di Carmen Castillo s’intreccia con quella altrettanto sofferente della flaca, sua ex compagna militante, che però, quando fu catturata e torturata, decise di collaborare con il regime per salvarsi la vita. La po‑ tenza artistica, storica e sociologica di questo film è proprio nella sua eccezionalità di aver dato voce né al puro carnefice o alla pura vittima, ma a un ibrido di entrambi, a chi è sul confine tra carnefice e vittima, tra umano e animale: il “delatore abietto” che non riesce a essere né l’u‑ no né l’altro ed è denigrato dagli uni e dagli altri, perché destabilizza le certezze di entrambi e per questo la sua memoria viene abbandonata a sé stessa. Castillo, invece, ha il merito di caricarsi il compito di dare spazio e voce a questa memoria liminale e scomoda. Perché anche que‑ sta memoria individuale è indispensabile per correggere i quadri della memoria sociale cilena. Il film si apre osservando Santiago, la capitale dell’oblio, ma ora luo‑ go del ritorno e del tentativo di ricomposizione delle memorie. La vi‑ deocamera inquadra dall’alto i grattacieli e le strade della città, come se le luci delle auto e dei palazzi e le architetture squadrate potessero già raccontare l’immobilismo e l’indifferenza di un intero Paese, che anco‑ ra non sa cosa e come accadde e lascia che quella storia rimanga sper‑ duta e senza volto, come fa notare la voce di Carmen. La camera poi plana sull’origine del trauma, in calle Santa Fe, quella che darà il tito‑ lo al documentario del 2007: è qui, al numero 725, che Carmen era ri‑ fugiata insieme al compagno Miguel Henríquez, quando il 5 ottobre del 1974 arrivarono i militari della DINA e lo uccisero. Carmen tor‑ na davanti l’ingresso della casa, dove bussa ma nessuno le risponde o apre. La porta d’ingresso diventa inaccessibile come la memoria del Ci‑ le, che ora per Carmen rappresenta un’immagine immobile, una soglia Cfr. C. Demaria, La voce di un io‑memoria e il perdono: La flaca Alejandra di Carmen Castillo, in Id, Il Trauma, l’archivio e il testimone, cit., pp. 223‑257.
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non attraversabile: “Mai ho potuto attraversare quella porta, come in una foto in cui non posso entrare dentro”. Sul cancello del cortile ci so‑ no ancora i fori delle mitragliatrici che i militari scaricarono contro lei e il suo compagno: sono passati vent’anni e la memoria, seppur nega‑ ta, conserva ancora le sue tracce materiali. Qualche minuto dopo, pe‑ rò, Carmen ricorda che nonostante sia il 1993 e la dittatura sia finita, “una strana amnesia avvolge il Paese. Non ci sono archivi, molti pochi racconti e tanta memoria di sopravvissuti. File e file di tombe […]. E i militari continuano ancora a godere dei privilegi della loro vittoria, ma dove è finita la storia degli sconfitti? Come si può pretendere la ricon‑ ciliazione del Paese senza giustizia e verità?”. Nel film, la flaca, la magra, viene presentata con giornali d’archivio del 1992 che le dedicano un articolo, annunciando che la flaca chiede perdono dopo diciotto anni di collaborazione con il regime. Da lì l’i‑ dea di Carmen di incontrarla e di provare a passare dalla stigmatizza‑ zione dei giornali all’umanizzazione che può darle lo sguardo profondo e paziente del cinema, di una ricerca che vuole decostruire qualsiasi processo di moralizzazione. Carmen e il suo operatore decidono di in‑ contrare Marcia direttamente con la camera, evitando incontri preli‑ minari, in modo che anche lo spettatore possa vedere le reali reazioni delle due donne a confronto e assumere il punto di vista del ricercato‑ re, di colui che vuole comprendere e che vede, alternativamente, con gli occhi di Carmen e con quelli di Marcia. Non a caso, quando le due donne entrano a Villa Grimaldi, uno dei luoghi di tortura, la video‑ camera osserva tutto in soggettiva, per restituire lo sguardo delle due donne e il senso di straniamento, dato da un lungo e traballante pia‑ no sequenza che esplora le stanze e i corridoi, cercando che la memo‑ ria dei luoghi lasci emergere altre immagini e parole. D’altra parte, da sempre anche la sociologia visuale adotta la tecnica del before/after210 per comprendere al meglio le trasformazioni strutturali dei territori e come queste incidano sulle identità individuali e sociali. Insieme alla flaca – che ora non è più neanche magra, ma trasformata sia nell’animo 210 F. Mattioli, op. cit., p. 129. Per approfondire il ruolo e l’importanza dei luoghi della memoria nella costruzione identitaria, si veda: Nora, P., Les Lieux de la mèmoi‑ re, Paris, Gallimard, 1987.
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sia nel fisico –, Carmen ripercorre anche le escursioni in auto in cui era costretta dalla DINA a passare da alcuni punti di incontro e riconosce‑ re membri della resistenza. Carmen interroga la memoria dei luoghi e fa rivivere a Marcia il suo passato più traumatico; alla ricerca delle sue emozioni più pure la porta a mimare gesti già compiuti, a riabitare spa‑ zi della costrizione e del dolore, ma ora anche della vergogna, cioè del fare esperienza della sua insopprimibile presenza a sé stessa211: “Ogni volta che riconoscevo qualcuno, cadevo sempre più in basso, mi senti‑ vo ogni volta più colpevole, più abietta”212, confessa Marcia. A essere davanti all’obiettivo, “sotto processo”, non è però solo Mar‑ cia, ma anche Carmen. Infatti, la regista, – che non è solo colei che par‑ la e vede, ma anche colei che ascolta dando riconoscimento e dignità alla memoria della flaca – deve anche rendere conto alle domande di Marcia: “è stato così, non posso modificarlo. Tu sei stata torturata? Tu quando sei uscita dal carcere?”. La flaca sa benissimo di porre doman‑ de retoriche di cui conosce già la risposta, ma usa la domanda in tutto il suo potere di afferramento e di penetrazione, soprattutto come dife‑ sa da altre domande213. Così all’improvviso i ruoli s’invertono e la col‑ pevole sembra diventare implicitamente la stessa Carmen, le sue origini alto borghesi che le hanno consentito di fuggire in esilio già il primo anno di dittatura, mentre Marcia è rimasta imprigionata per 18 anni, morta dentro, senza identità, autodistruggendosi e costretta agli psico‑ farmaci: “Se potessi trovare delle parole precise per descrivere l’orrore, ma non le ho, perché credo che non esistono. Io sono morta, non solo quando ero lì, ma anche quando sono uscita, nella mia vita da soprav‑ vissuta… io sono morta”. E in queste parole c’è innanzitutto l’enorme consapevolezza dei sopravvissuti, gli unici che sanno che quando l’uo‑ mo sprofonda nel subumano non c’è possibilità di alcuna testimonian‑ za, perché tutto è indicibile e inaudibile214. Ma l’orrore di cui Marcia G. Agamben, op. cit., p. 97. Sulla concetto di abiezione si veda J. Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abie‑ zione, Milano, Spirali, 1980. 213 E. Canetti (1960), Massa e potere, Milano, Adelphi, 1981. 214 Sull’impossibilità di testimoniare l’orrore come impossibilità di reperire un pubbli‑ co disponibile all’ascolto ha scritto delle pagine molto intense Benjamin, a proposito 211 212
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non può parlare è ciò che non solo l’ha uccisa, ma l’ha anche distrutta. Come nota Cavarero, “Nell’atto che colpisce l’umano in quanto uma‑ no, l’orrore è, per così dire, abbracciato dai carnefici con convinzione […] come se la violenza estrema, volta a nientificare gli esseri umani, pri‑ ma ancora che a ucciderli, dovesse contare sull’orrore piuttosto che sul terrore”215. L’orrore è un effetto di sfigurazione che annienta l’identità, la flaca, e produce l’inerme, l’uomo che ha perso la sua unità e nella frat‑ tura è diventato negazione di una parte, cioè non‑uomo. Le vittime sen‑ tono che la figura della “morte in vita” è l’unica immagine possibile per raccontare un trauma inaudibile che “considerano alla stregua di una frattura radicale nella propria esistenza”216. Davanti all’orrore, Carmen ha il buon gusto di non rispondere direttamente alle domande pro‑ vocatorie di Marcia e, comprendendo il suo “stordimento animale”217, evita di farsi trascinare nella polemica; risponde però con le sue scelte registiche, incontrando Myriam, un’altra donna che fu torturata bru‑ talmente ma decise di non parlare, perché – come sostiene nel film – «la collaborazione è la morte. Parlare non è salvarsi la vita: quella non è vita. La vita è quello che possiedi, i tuoi valori, i tuoi principi. Voi mi ammazzerete comunque ma se mi fucilate senza che io abbia tradito alcun mio compagno e senza averlo condannato a morte, allora io non muoio davvero, perché mi ricorderanno come una persona valorosa».
Myriam, con il suo “io non muoio davvero”, si contrappone voluta‑ mente al “io sono morta” di Marcia, perché nel nobilitare la propria dei reduci della prima guerra mondiale. Ma sull’indicibilità e l’inaudibilità dell’orrore c’è una letteratura sterminata, nata soprattutto dopo la brutalità nazista della Seconda Guerra Mondiale, ma di cui non è possibile rendere conto in questo contesto. Cfr. W. Benjamin (1936), Sul narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolaj Leskov, in E. Ganni (a cura di), Opere complete di Walter Benjamin. VI. Scritti 1934‑1937, Torino, Einaudi, 2004; P. Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità, Milano, FrancoAn‑ geli, 1989; G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. 215 A. Cavarero, Orrorismi ovvero della violenza sull’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 17. 216 P. Garavaso, N. Vassallo, Filosofia delle donne, Roma‑Bari, Laterza, 2007, p. 42. 217 L’espressione è di Heidegger e viene approfondita in M. Calarco, op. cit., pp. 21-60.
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scelta degrada quella altrui, confermando la legittimità della stigma‑ tizzazione sociale e segnando la memoria individuale della flaca come memoria non degna di essere condivisa e compresa. Sebbene la memoria cilena sia polarizzata tra vincitori e vinti, e tra accusati e accusatori, la forza del film di Castillo è ampliare al massi‑ mo l’inclusività dei concetti di vinti e di accusati, perché nel suo film, come nel Cile, non ci sono vincitori. E se anche i carnefici sono vin‑ ti, allora la memoria da costruire è una memoria che potremmo defi‑ nire assolutoria. Questo concetto, però, non implica l’assoluzione di chiunque, come se non ci fossero colpevoli o come se fossero tutti colpevoli e quindi tutti innocenti; la memoria assolutoria è possibile solo se si ristabilisce una simmetria e una reciprocità tra gli attori in campo, tra quelli che si autoproclamano vincitori e i vinti; solo se si ammettono le proprie colpe, allora è possibile concedere il perdono e quindi costituire una memoria assolutoria che favorisca la costituzione di una memoria con‑ divisa. In La flaca Alejandra mi sembra ci sia il tentativo registico di costruire parzialmente questa memoria assolutoria, a partire però dalla presupposta disponibilità di Marcia Merino a mettersi in discussione, a lasciarsi riprendere in primo piano dall’obiettivo, a rispondere a do‑ mande che nessuno le ha spiegato preventivamente. Eppure la prospet‑ tiva di Carmen non è condivisa da molti e infatti sia Myriam sia Alicia, un’altra donna incontrata insieme a Marcia, rifiutano di riconoscere la flaca come soggetto dell’interlocuzione. Per loro, a Marcia Merino non può essere riconosciuta né la dignità né tantomeno il perdono, anche perché ha collaborato a Crimini che non si possono né perdonare né pu‑ nire218: quando i crimini sono senza misura, sono imperdonabili e for‑ se anche senza possibile sanzione, nonostante le vittime non possano rinunciare mai alla richiesta di giustizia219. Per Carmen, invece, è ne‑ cessario riconoscere l’alterità dell’altro e la sua dignità, anche perché – come dice a inizio film – “io sono ferma a quel passato e ho bisogno di cercare il male, per sapere non solo che faccia aveva, ma come opera‑ A. Garapon, op. cit. Cfr. J. Derrida, Perdonare. L’imperdonabile e l’imperscrittibile, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2004.
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va”. Per questo, Castillo prova ripetutamente a telefonare al colonnello Krassnoff, responsabile sia dell’uccisione del suo compagno sia del‑ le torture a Marcia, che però fu colpita dalla cosiddetta “sindrome di Stoccolma”, cioè da quel processo per cui una vittima finisce per identi‑ ficarsi con il suo aggressore, in un meccanismo di difesa in cui l’ansia e l’angoscia vengono sedate dall’identificazione220. Krassnoff, però, si ne‑ gherà sempre alle telefonate di Castillo, negando qualsiasi possibilità di confronto e di costruzione di una memoria riparatoria, anche per‑ ché lui, al contrario della flaca, ha dichiarato di essere uscito da quegli anni da vincitore e infatti nel 1993 non solo era libero, ma al coman‑ do di una divisione militare nel Cile del sud. Anche Marcia vorreb‑ be confrontarsi con Krassnoff, perché “credo che possa essere qualcosa di riparatore, la cosa più gratificante della mia vita. Potermi confron‑ tare con lui non come sua prigioniera ma da eguale”. Ecco che anche qui ritorna il tema della necessità di una simmetria perché si possa solo pensare a una possibilità di riparazione: ed ecco spiegata la ragione del fallimento della Commissione di Verità e Riconciliazione. Così la regista, non riuscendo a parlare con il colonnello, cerca al‑ tre tracce e testimonianze della sua violenza e organizza un incontro tra la flaca e Gladys, un’altra donna torturata da Krasnoff. Gladys riu‑ scì a confrontarsi brevemente con il suo torturatore davanti a un giudi‑ ce, “di fronte come eguali, perché c’era il magistrato e allora lui doveva fare attenzione, non poteva insultarmi come a Villa Grimaldi”. Questa nuova posizione di simmetria le consentì di ri‑descrivere il suo passato in modo differente, rimodulando così la sua memoria e dimostrando che la memoria è sempre al presente e il passato non è mai dato e im‑ mutabile, ma ri‑visto e ri‑esperito in sempre nuovi presenti221. Trovan‑ dosi di fronte a lui “come eguali”, infatti, Gladys riuscì a «demistificare il torturatore. Perché quando si è in una posizione così debole e vulnerabile come quella che si produce quando si è detenuti Per approfondire la sindrome di Stoccolma si vedano: S. Ferenczi, Diario clinico. Gennaio‑ottobre 1932, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1932; A. Freud, Acting Out, in “International Journal of Psico‑Analysis, 49, 1967, pp. 165‑170. 221 Cfr. P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1998; R. Koselleck, Futuro passato, cit., pp. 308‑309. 220
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in prigioni segrete, quando non si è nemmeno riconosciuti come tali, ci si trova alla loro mercé, perché sono loro a decidere tutto quello che ci capita. Quando uno si trova in una condizione così assoluta, si è portati a vedere il torturatore più alto di quello che è. Ce lo si im‑ magina perfino bello. Forte. Ce lo si immagina potentissimo. E una si sente minuscola. Io scoprii che sono alta tanto quanto Krassnoff. Che è brutto e che non è bello. Che non è biondo, che ha i capelli scuri, che non ha gli occhi chiari, che non è atletico. Che parla malissimo. Che non è tanto intelligente. Io credo che questa sia stata la cosa più ripa‑ ratrice: scoprire che io, che ero così piccola, così minuscola quando mi torturavano, lo avevo ingrandito, lo avevo mistificato nella mia testa e quindi lo avevo visto come un nemico molto più grande di quello che era realmente».
In condizioni di parità, la vittima è riuscita finalmente a riparare parte del suo trauma, perché ha reinterpretato il suo passato, ma soprattut‑ to si è alleggerita dal carico di colpe ed è riuscita a vedersi non più così animalizzata, “così piccola, così minuscola” come un non‑uomo, un es‑ sere schiacciabile. Lo schiacciare “è espressione di disprezzo. Si schiaccia qualcosa di molto piccolo, che conta poco, un insetto, poiché altrimen‑ ti non si saprebbe cosa farne”222. Anche Castillo vorrebbe confrontarsi con il suo carnefice, ma si scontra sempre con la gentilezza di segre‑ tarie e centraliniste del colonello che dietro ai suoi presunti impegni nascondono il suo negarsi. Così la regista cammina nel cimitero tra lunghe file di bare, mentre però sembra pensare a quei familiari di desa‑ parecidos che non hanno né una bara né un corpo, nessuna prova che il trauma sia realmente avvenuto, a dispetto del foro invisibile che ognu‑ no ha nell’anima. La sua voice‑over, allora, prova a fare almeno i con‑ ti con sé stessa, visto che il Cile non vuole fare i conti con il proprio passato: “quel giorno di inverno a Santiago avevo quindi appreso che si tratta di uomini ordinari. Restano però ancora molti fili da dipana‑ re… bisogna che la verità sia detta e ridetta perché il passato smetta di minacciare come un fantasma la democrazia, perché si possa ricomin‑ ciare”. Davanti a crimini orrendi, a prescindere se siano ingiudicati o ingiudicabili, Carmen Castillo è convinta che non resta che dire e ri‑ 222
E. Canetti, Massa e potere, Milano, Adelphi, 2004, p. 245.
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dire la verità, pubblicamente, come lei fa con il suo film, che inevita‑ bilmente è molto più di un film, è una ricerca sulla memoria ed è un atto performativo: Revealing is Healing, come il motto della Commis‑ sione di Verità e Riconciliazione, istituita in Sud Africa dopo l’apar‑ theid. Solo nell’iterazione pubblica della verità e, in questo caso, di una contro‑narrazione della verità ufficiale, è possibile allontanare il pha‑ sma del trauma e di una memoria contesa. Come nella Grecia classica Creonte vieta di dare sepoltura al fratello di Antigone, i militari cile‑ ni inventano i desaparecidos non solo per eliminare le prove, ma per‑ ché – come nelle mancate sepolture dei greci – intendevano non dare mai pace al morto (e ai suoi familiari). Carmen Castillo, però, è consa‑ pevole che il cinema, come iterazione pubblica della verità, può essere quel rito funebre che consente a lei di rendersi una moderna Antigone e ai vivi di non essere più minacciati dai fantasmi, riconciliandosi con il morto e con una memoria negata e conflittuale.
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Atto III – Il cinema di Patricio Guzmán
Una pellicola documentaria si colloca sopra al reportage giornalistico e sotto al saggio scientifico, anche se spesso utilizza risorse narrative di entrambi ed è molto vicina ai loro metodi Patricio Guzmán
3.1 Le memorie del futuro: il sogno aparecido Il massimo rappresentante del cinema di Allende è senza dubbio Pa‑ tricio Guzmán. Sin dal primo anno del governo di Unidad Popular, si distinse con il documentario El primer ano e subito dopo con La re‑ spuesta de octubre, dimostrando precocemente la sua forte volontà di osservare e approfondire il processo rivoluzionario, fino a costituirne la memoria storica visiva223. Questa sua volontà, infatti, rimarrà ferma e integra anche dopo la morte di Allende. Anzi: dopo il colpo di stato, Guzmán sarà ancora più determinato e ostinato nel voler testimoniare le origini di un trauma che da cinquant’anni assedia come un fantasma la tranquillità del Cile e dello stesso Guzmán. Per tentare di elimina‑ re questo fantasma, il regista cileno lo ha affrontato in addirittura 13 dei suoi 17 documentari: El primer ano (1971), La respuesta de Octu‑ bre (1972), la trilogia di La Batalla de Chile (La insurrección de la bur‑ guesía del 1975, Il colpo di Stato del 1977 e Il potere popolare del 1979), En nombre de Dios (1987), La Cruz del Sur (1992), La memoria osti‑ 223
F. Mattioli, op. cit., p. 135.
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nata (1997), Salvador Allende (2004), Il caso Pinochet (2011) e, infi‑ ne, la trilogia sulla memoria della natura (Nostalgia della luce del 2010, La memoria dell’acqua del 2015 e La cordigliera dei sogni del 2019). Questi 13 film tentano simultaneamente di osservare, narrare e cura‑ re il trauma cileno, dimostrando che il cinema di Guzmán incarna la memoria ostinata del Cile, come il titolo del suo film del 1997, che rappresenta una sorta di summa sulle teorie della memoria e sull’oblio imposto al Cile. Patricio Guzmán nacque nel 1941 e sin da giovane mostrò inclina‑ zioni narrative, che però espresse dapprima in chiave letteraria, scri‑ vendo un libro di racconti, Cansancio en la tierra, e un romanzo, Juegos de verdad, pubblicato nel 1964. Grazie al romanzo attuò già una gra‑ duale conversione al linguaggio cinematografico, perché il libro era ricco di suggestioni visive e più che un romanzo sembrava una sceneg‑ giatura. Successivamente visse l’esperienza del cineasta e realizzò con un gruppo di amici diversi film in 8mm. Uno di questi richiamò l’at‑ tenzione dei tecnici dell’Instituto Filmico de la Universidad Catolica che lo chiamarono per lavorare all’interno dell’istituto come assisten‑ te alla regia. Nel 1965 girò Viva la libertad, un cortometraggio di venti minuti in 16mm: la tematica del film è l’oppressione dell’uomo creata dalle istituzioni. Successivamente girò Electroshow, un montaggio di foto fisse che riesce a evidenziare le contraddizioni della società con‑ temporanea: l’uomo bombardato dalla pubblicità, la miseria estrema di gran parte della popolazione di fronte all’opulenza assoluta di altri. Questo film ottenne maggiore diffusione perché fu proiettato al Fe‑ stival di Viña del Mar del 1967. A metà degli anni Sessanta, Guzmán decise di lasciare il Cile e di emigrare in Spagna per frequentare a Ma‑ drid la Escuela Oficial de Cine e formarsi con importanti registi della cinematografia spagnola, tra cui Fernando Mendez Leite, Ana Diosda‑ do e Manuel Gutierrez Argon. Nel 1964 Salvador Allende aveva perso le elezioni contro Eduardo Frei, candidato della Democrazia Cristia‑ na, finanziato dalla CIA con 2,6 milioni di dollari: non sembrava che il Cile potesse emanciparsi dal suo sottosviluppo e così Guzmán pensò che per la sua crescita culturale fosse più utile migrare in Europa. A Madrid lavorò anche nel settore pubblicitario, cosa che considerò molto uti‑ le per la comprensione del linguaggio cinematografico nei suoi aspetti 114 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
pratici. Come studente della scuola realizzò due cortometraggi di fin‑ zione: La tortura y otras formas de dialogo e El paradiso ortopedico224. Appena finì la Scuola di cinema, ritornò in Cile: erano gli inizi del 1971, Guzmán aveva compiuto trent’anni e il Manifesto dei cineasti di Unidad Popular era stato già scritto. Formalmente Guzmán non ave‑ va preso parte alla costituzione del cinema di Allende, eppure ne di‑ venterà il massimo rappresentante, sfruttando anche la sua formazione europea. Del resto, al termine dei suoi studi europei Guzmán scris‑ se Reflexiones sobre una escuela de cine chilena in cui cercava di inserir‑ si anche nel dibattito teorico‑metodologico avviato dal Manifesto dei cineasti cileni. Nasceva un Nuevo cine latinoamericano intenzionato a trovare la sua identità in un radicale mutamento di focus dall’indivi‑ dualismo alla società: il nuovo protagonista del cinema latinoamerica‑ no non doveva essere più il singolo individuo, ma il popolo, la massa, la classe operaia. Del cinema cileno di quegli anni, Guzmán apprezzò particolarmente El Chacal de Nahueltoro di Littín e Tres tristes tigres di Ruiz, ma sape‑ va che la strada per attuare questa auspicata rivoluzione etico‑esteti‑ ca era il documentario, un genere a cui però la stessa scuola di cinema spagnola non lo aveva formato. Dopo poco tempo dal suo arrivo, en‑ trò nel Centro de Cine Experimental de la Universidad de Chile per oc‑ cuparsi della direzione di alcuni laboratori. In quel periodo, propose anche un ambizioso progetto alla Escuela des Artes de la Comunica‑ tion de la Universidad Catolica: la sua idea era documentare i traguardi raggiunti dopo il primo anno di governo di Unidad Popular, convin‑ to che fossero in atto grandi trasformazioni sociali e che quindi fosse necessario documentarle e analizzarle: “ho la sensazione che il Cile si stia muovendo, spostando la sua prua, come se si trattasse di un grande transatlantico immobile che per la prima volta cambia direzione, o co‑ me se stessimo dentro un sistema solare, vivendo il passaggio da un’e‑ ra a un’altra”225. Per girare il film chiese il minimo indispensabile: una Arriflex, una Perfectone, soldi per le spese di produzione e per i viag‑ J. Mouesca, Plano secuencia de la memoria de Chile. Veinticinco anos, cit., pp. 73‑83. J. Ruffinelli, Patricio Guzmán, Madrid, Ediciones Catedra, 2001, p. 87. Tutte le citazioni di questo libro sono tradotte da me.
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gi. Costituì una mini troupe di tre persone (lui, un fonico‑produttore di 20 anni e un cameraman di 19) e così avviò il progetto di El primer ano, che inizia con l’elezione di Allende e termina con il viaggio di Fi‑ del Castro in Cile. Guzmán filmò i fatti visibili, pubblici, ricorrendo al materiale di archivio solo quando era necessario, perché riteneva di dover fare un cinema nel quale egli stesso e la sua troupe dovessero es‑ sere partecipi degli avvenimenti, perché “la cosa più importante era l’a‑ zione, vedere le cose accadere davanti ai propri occhi”226. El primer ano non fu solo un modo di celebrare i primi dodici mesi del governo di Allende, ma ebbe anche il merito storico‑sociale di testimoniare visiva‑ mente alcuni dei fatti principali del 1971, dallo storico dia de la digni‑ dad nacional (durante il quale Allende firmò la legge che nazionalizzò il rame), fino alla leggendaria e fatidica marcia de las cacerolas, punto di partenza dell’offensiva reazionaria che culminò due anni dopo con il colpo di Stato. In cento minuti, il film racconta la memoria agitata del Cile, per‑ ché “documenta la realtà di un anno vitale, ricco di euforie, tensioni e successi”227. Del film si fecero due versioni, una in 16 mm, destinata ai circuiti paralleli, e l’altra in 35 mm per la proiezione nelle sale commer‑ ciali. Ebbe una buona accoglienza da parte del pubblico, particolar‑ mente nelle province, perché “la gente poteva rivedersi”228. Si proiettò anche all’estero, in Francia, Belgio, Svizzera, Canada, Algeria, cioè in tutti quei paesi francofoni, per i quali il regista francese Chris Marker preparò una versione apposita, con un prologo esplicativo e l’utilizzo di interpreti francesi per il doppiaggio della voce off narrante229. Il li‑ mite del film, però, rimaneva il suo intento celebrativo e la sua eccessi‑ va divisione per argomenti, che lo faceva apparire come un insieme di cortometraggi distinti piuttosto che un discorso unitario: tra il pro‑ getto iniziale e la pellicola c’era una distanza eccessiva percepibile nel fatto che “il focus sociologico del progetto si trasformò poco a poco in Ivi, p. 81. J. Millan, La memoria agitada. Cine y represion en Chile y Argentina, Huelva, Fundacion del cine iberoamericano, 2001, p. 24. 228 J. Ruffinelli, op. cit., p. 99. 229 Cfr. A. Linares, El cine militante, Madrid, Miguel Castellote Editor, 1976. 226 227
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un focus politico”230. Nonostante ciò, il film conservava anche un inte‑ resse sociologico, perché dava immagine e voce agli indigeni mapuche che alternavano la loro lingua e lo spagnolo, a seconda dell’interlocuto‑ re a cui intendevano rivolgersi fissando dentro l’obiettivo della camera. D’altra parte, il film non poteva parlare solo agli indigeni o alla classe operaia e infatti in montaggio vennero inserite, come voce fuori cam‑ po, “delle spiegazioni tipiche del cinema etnografico, in cui gli esperti si riferiscono agli indigeni e lo ‘chiariscono’ usando sempre la terza per‑ sona singolare o plurale”231. Dopo questa esperienza, Guzmán cercò di realizzare un film di fic‑ tion, anche lui attorno alla figura di Manuel Rodriguez, ma con lo scopo di reinterpretare la storia cilena dal punto di vista marxista. Si trattò, in accordo con l’aspirazione comune dei cineasti di Unidad Po‑ pular, di fare un cinema rinnovato, diverso e sperimentale, per nulla celebrativo e epico. L’intenzione era fare un cinema di finzione che pe‑ rò fosse allo stesso tempo un documentario sul modello del Chacal de Nahueltoro di Littín: il film doveva partire con una ricerca per le stra‑ de, per chiedere alla gente informazioni e opinioni su Manuel Rodri‑ guez: chi fosse, cosa sapevano di lui, come se lo immaginavano, come credevano che morì. In questo modo Guzmán riuscì a sapere almeno due cose rilevanti: innanzitutto che il popolo era stato manipolato at‑ traverso la narrazione retorica di una falsa storia di Manuel Rodriguez; in secondo luogo, che il popolo cileno aveva un forte istinto di inden‑ tificarsi con un eroe patriottico. Di questo film riuscì a scrivere la sceneggiatura e a formare una troupe che lavorò alla ricerca delle locations. “Fu una lotta molto dura – af‑ fermò Guzmán – perché la sceneggiatura potesse passare”232: si viveva infatti una seconda tappa della Chile Films, definita da lui stesso co‑ me “tecnocratica”, e durante la quale i progetti dovevano essere appro‑ vati preventivamente dai rappresentanti dei diversi partiti di Unidad Popular. L’accordo si raggiunse, ma si riuscì a filmare solo la prima se‑ quenza, poiché in quel periodo del 1972 ci fu “lo sciopero di ottobre”, J. Ruffinelli, op. cit., p. 91. Ivi, p. 100. 232 Ivi, p. 260. 230 231
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che rappresentò il tentativo più serio dell’opposizione per destabilizza‑ re il governo di Allende. Durante quell’anno gli oppositori prepararo‑ no un piano minuzioso che prevedeva diversi tipi di azioni destinate a creare difficoltà al governo. In quel momento era già stata presa la de‑ cisione ufficiale del governo nordamericano di partecipare e di finan‑ ziare il golpe. I partiti di destra e la democrazia cristiana appoggiarono il tentativo di destabilizzazione: fu così che nacquero gli scioperi del mese di ottobre. Partendo da un falso conflitto creato dai camionisti, si organizzò una vasta paralisi del lavoro che compromise vari settori sociali. Si visse, secondo lo stesso Guzmán, “un clima spettrale”233. Lo sciopero durò tutto il mese e il regista decise con la sua troupe che era assolutamente impossibile non filmare ciò che stava accadendo in quei momenti. Richiese immediatamente l’autorizzazione alla Chile Films per disporre della troupe prevista per il film su Manuel Rodriguez, che non aveva la stessa “urgenza” di essere girato. Questa decisione rappre‑ sentò la svolta decisiva della vita di Guzmán, perché da allora iniziò a concentrare le sue ambizioni estetiche ed etiche sul cinema del reale, mettendo da parte la fascinazione per la finzione. Con il direttore di produzione Federico Elton e l’operatore Jorque Muller, Guzmán filmò La respuesta de Octubre, un documentario di quaranta minuti che mostra alcuni degli sforzi organizzativi sostenu‑ ti dai partiti del governo di Unidad Popular per contrastare l’offensi‑ va reazionaria. Tuttavia, “il film – secondo lo stesso autore – risente di una certa monotonia, dal momento che non ci fu il tempo di elabora‑ re una vera e propria struttura”234. Secondo molti, invece, questo docu‑ mentario risente soprattutto dell’eccessiva impostazione ideologica del regista che non lo portò semplicemente a documentare la realtà di allo‑ ra, ma a concentrarsi su una serie di interviste agli operai nelle fabbri‑ che per capire una possibile reazione allo sciopero. Lo stesso Guzmán, però, provò a giustificarsi sostenendo di aver voluto realizzare un “film completamente specializzato, un film che non era pensato per ogni ti‑ po di pubblico”235. In effetti, il film sembrava parlare solo agli operai Ivi, p. 259. Ibidem. 235 Ibidem. 233 234
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industriali, per i quali infatti furono organizzate le principali proiezio‑ ni, con lo scopo che il film potesse costituire uno spunto di riflessione e azione, secondo gli intenti del Manifesto dei cineasti. «In quelle poche occasioni in cui si tentò di mostrarlo a un altro tipo di pubblico, il risultato fu poco stimolante, poiché trattandosi di una tematica specificatamente operaia e di un film piuttosto arido per tutti coloro che non erano direttamente implicati, il pubblico si annoiava e non riusciva a comprendere bene la complessità del problema»236.
In effetti, sebbene il cinema di Guzmán sarà sempre militante, in La respuesta de Octubre la militanza non si limita a essere una prospetti‑ va ideologica all’interno di un paradigma conoscitivo, ma un film a te‑ si, che non dimostra la maturità indagatrice dei film successivi: è un film pensato per comunicare non con qualsiasi spettatore, ma esclu‑ sivamente con certi settori massimalisti di Unidad Popular o di mo‑ vimenti ancora più estremisti come il MIR237. La conferma che il film non lasciò soddisfatto neanche Guzmán arrivò definitivamente nel 1979, quando decise di smontarlo e includere gran parte di quel gira‑ to in Il potere popolare, il terzo film della trilogia La Battaglia del Cile: un film che, in effetti, sembra anche separato rispetto ai primi due del‑ la Battaglia (La insurrezione della borghesia e Il colpo di Stato) perché è un chiaro ritorno a un momento antecedente a quello della genesi e della realizzazione del golpe narrato nei primi due. E, infatti, El primer ano e Il potere popolare (che – come detto – include anche La respuesta de Octubre) sono film ante‑golpe, che da una parte elogiano il sogno aparecido di Allende, ma dall’altra già prefigurano un possibile golpe, che sarebbe la fine di tutte le illusioni. E in effetti, tutti gli altri film di Guzmán rappresentano il racconto delle memorie traumatiche, men‑ tre di come il Cile si immaginò durante gli anni di Allende resta solo una vaga nostalgia e le immagini di Salvador Allende, in cui, nel 2004, Guzmán cercò nuovamente di recuperare quel sogno fragile che ave‑ va già indagato in El primer ano e nella terza parte di La Battaglia del Cile: Il potere popolare. Quasi inaspettatamente, Guzmán aveva chiu‑ 236 237
A. Linares, op. cit., p. 164. J. Mouesca, Plano secuencia de la memoria de Chile. Veinticinco anos, cit.
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so la sua trilogia con Il potere popolare, un documentario che crono‑ logicamente avrebbe dovuto essere il primo film della trilogia, perché raccontava i primi mesi del governo Allende o comunque fatti ante‑ cedenti al golpe. Probabilmente questa scelta fu dettata dal non voler chiudere la trilogia con Il colpo di Stato e le immagini tragiche del gol‑ pe, ma tentare di riconoscere la forza e la bellezza unica dell’esperien‑ za di governo di Allende, cercando anche di lasciare una sensazione di speranza, grazie ai sogni della generazione allendista. Chiudere la trilogia della Battaglia con il racconto di Allende, for‑ se costituiva per Guzmán anche un tentativo di rimediare alle sue scel‑ te precedenti, quando si era concentrato più sulla critica interna alla via democratica di Allende e di Unidad Popular, piuttosto che alla ce‑ lebrazione, un po’ come aveva fatto anche Littín in Compañero Pre‑ sidente che era un’intervista che più che elogiare Allende cercava di metterlo in difficoltà e di mostrare le contraddizioni della sua prospet‑ tiva. Montare quel film a distanza di anni dalla morte di Allende, con‑ sentiva a Guzmán di celebrare quel passato che allora aveva trascurato, di “rivedersi” e di confrontarsi con le “memorie del futuro”238 del Ci‑ le, cioè con il tentativo di ricordare il futuro immaginato in passato. Il concetto di “memoria del futuro”, infatti, indica “una prospettiva sul passato che non lo considera tanto come una collezione di fatti storici, quanto come l’insieme di immagini, progetti, visioni, ambizioni e in‑ teressi riguardanti il futuro che i nostri predecessori hanno coltivato, che possono essersi realizzati o essere rimasti incompiuti”239. Ma le me‑ morie del futuro non riguardano solo la contemplazione di ciò che si è perduto, ma riguardano soprattutto l’atto di “colmare con la riflessio‑ ne la distanza fra il futuro immaginato in passato e quello che si è di‑ spiegato. Nel chiedersi perché le cose siano andate come sono andate, insomma”240. El primer ano, Il potere popolare e Salvador Allende sono gli unici tre film di Guzmán in cui non si è davanti alle memorie trau‑ Cfr. P. Jedlowski, Memorie del futuro: un percorso tra sociologia e studi culturali, Milano, Carocci, 2017. 239 B. Adam, C. Groves, Future Matters. Action, Knowledge, Ethics, London, Brill, 2007, p. 217. 240 P. Jedlowski, op. cit., p. 60. 238
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matiche del Cile, ma alle sue memorie del futuro, al sogno desaparecido di un’intera generazione di giovani che sostenne Allende e in lui trovò un simbolo di un sogno e della necessità di rendersi suoi testimoni. In questi film, è possibile vedere nel presente come il Cile si auto‑rappre‑ sentasse nel passato, cosa sognasse durante gli anni di Unidad Popu‑ lar, perché quel sogno fosse così rivoluzionario e, infine, perché e come quel futuro immaginato venne sottratto con la violenza. In quei film c’è, in modo molto più prepotente che negli altri, un’emozione forte: la nostalgia, per i sogni e i successi di quel passato, ma anche per le im‑ mense aspettative nei confronti del futuro241. La nostalgia, però, si sviluppa in almeno due differenti direzioni: co‑ me nostalgia restauratrice manifesta il desiderio di tornare a quel pas‑ sato, che è una sorta di “dimora perduta”; come nostalgia riflessiva, invece, accetta la perdita e si confronta con essa, in un’azione critica che indaga le cause di ciò che è avvenuto242. Ma rivedendo quei film, e soprattutto El primer ano che fu l’unico a essere completato in que‑ gli stessi anni, ci si rende conto che questo tipo di critica riflessiva era presente già allora, non come visione retrospettiva, ma prospettica: in effetti, quei film – pur non essendo film sulle memorie traumatiche – sono premonizioni di un trauma imminente, dettate dalla paura che la violenza potesse trasformare il sogno in un desaparecido. E infatti, dal‑ la labile fiducia di El primer ano, si passerà al timore della disillusione, La nostalgia è tema di riflessione in molti ambiti. Per un approfondimento si ve‑ dano: G. Stauth, B. Turner, Nostalgia, Postmodernism and the Critique of Mass Culture, Theory, Culture and Society, 5, 1988, pp. 509‑526; J. Starobinski (1966), Il concetto di nostalgia, in A. Prete (a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento, Cortina, Milano, 1992, pp. 85‑117; M. E. Tonizzi (a cura di), Memoria, nostalgia, utopia. Il potere politico dei sentimenti, Italia contemporanea, 263, 2011, pp. 255‑270; S. Boym, Ipocondria del cuore: Nostalgia, storia e memoria, in Modrzeiewski F., Sznajderman M. (a cura di), Nostalgia, saggi sul rimpianto del comunismo, trad. it., Torino, Bruno Mondadori, 2010, pp. 1‑88; S. Boym, Nostalgie, utopie e pratiche di straniamento, in R. Petri (a cura di), Nostalgia, Roma‑Venezia, Edizioni di storia e letteratura, 2011, pp. 85‑87; S. Boym, The Future of Nostalgia, New York, Basic Books, 2001; F. Davis, Yearning for Yesterday: A Sociology of Nostalgia, New York, Free Press, 1979; H. A. Kaplan, The Psychopathology of Nostalgia, Psychoanalytical Review, 74, n° 4, 1987, pp. 465‑486. 242 Ivi, pp. 45‑54. 241
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prima scatenato da La respuesta de Octubre e poi confermato da L’in‑ surrezione della borghesia. Il Colpo di Stato sarà solo una conseguenza di una cronaca di un trauma annunciato. Le memorie del futuro rac‑ contate da Guzmán ci mostrano quindi anche i “quadri sociali”243 in cui si inscriveva la memoria dell’epoca e quindi lo scarto che si creò tra le aspirazioni, i futuri preferiti, e le previsioni, cioè i futuri probabili che non si riuscì a evitare o che forse si contribuì ad accelerare. Per questo, soprattutto i primi film di Guzmán sulle memorie del futuro oscillano continuamente tra memoria autoassolutoria e memoria autocritica244. Il potere popolare (1979), come ho già detto, costituisce il terzo film della trilogia di La Battaglia del Cile e segna un ritorno indietro agli an‑ ni di Allende e soprattutto a quel primer ano, in cui il futuro non sem‑ brava ancora essere del tutto in pericolo, come invece lo era già quando nel 1972‑73 Guzmán documentò prima L’insurrezione della borghesia e poi Il colpo di Stato. Il potere popolare contiene molti elementi delle due parti precedenti, ma ha anche alcune importanti innovazioni, co‑ me per esempio l’introduzione di una colonna sonora musicale, che evidentemente serviva a rendere più emozionale il racconto del pote‑ re popolare. D’altra parte, dei tre film è anche quello con la maggiore percentuale di voce fuori campo, probabilmente perché le immagini degli altri due erano intrinsecamente più drammatiche e quindi me‑ no bisognose di enfasi aggiuntiva. Tutto il materiale di questo film è antecedente al golpe e non allude mai a quel trauma, proprio perché il film ha lo scopo di riscattare gli elementi positivi e i momenti felici di un’epoca che si concluse tragicamente. Il film, infatti, vuole raccon‑ tare l’anima di un popolo che, nonostante abbia perso la sua battaglia, Cfr. M. Halbwachs (1935), I quadri sociali della memoria, Napoli, Ipermedium, 1997. Halbwachs sostiene che il senso della memoria individuale si colga solamente quando le singole coscienze si inseriscono entro quadri collettivi di significato, cioè cor‑ nici di riferimento a carattere sociale che ne condizionano profondamente i contenuti. Al mutare dei quadri sociali di riferimento, muta anche la memoria del passato che il gruppo va ri‑costruendo adattandola ai quadri sociali del presente, e allo stesso tempo ri‑organizzandola per progettare il futuro. Pertanto, senza la dimensione sociale nean‑ che la memoria individuale può essere compresa. 244 P. Jedlowski, Intenzioni di memoria. Sfera pubblica e memoria autocritica, Milano, Mimesis, 2016, pp. 26‑29. 243
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ha costituito un esempio storico di cui il film testimonia l’importanza. Anche il sociologo Alain Touraine – che nel 1973 scrisse un diario sul‑ la Vita e morte del Cile popolare245 – evidenziò l’importanza dei labora‑ tori di organizzazione spontanea dei lavoratori cileni e, in particolare, l’esempio storico dei cordoni industriali. Lo stesso Guzmán enfatizzò l’importanza della pellicola proprio a partire dalla sua capacità di aver mostrato e analizzato questo aspetto unico della classe operaia cilena: «La reale rilevanza della pellicola consiste nell’aver mostrato un fatto fondamentale: si mostrò che il Cordone Industriale è come un ente invisibile. Tu ‘non lo vedi’. Tu puoi vedere solo la facciata della fab‑ brica […]. Questa fu la principale scoperta: imparare a vedere i fatti invisibili contenuti nella realtà»246.
Questa era la missione del cinema di Guzmán ed è quella della grande arte in generale, così come della scienza: in fondo, è la grande lezione di Coser, Schutz e Berger sull’utilizzo della letteratura247 – ma il loro discorso può essere esteso ancor di più al cinema – come strumento di amplificazione dell’immaginazione sociologica248 o di fuga dall’an‑este‑ sia del quotidiano e del senso comune249. Anche il film Salvador Allende, del 2004, rappresenta un ritorno agli anni di Unidad Popular, ma soprattutto il tentativo di riconciliarsi con una figura che in quegli anni fu più criticata dall’interno che sostenu‑ ta, tant’è che nel film Guzmán arriva ad ammettere, in voce fuori cam‑ po, che “ogni fazione di sinistra conosceva il messaggio di Allende ma proseguiva per la sua strada e la solitudine di Allende era palpabile”. Il documentario – scritto insieme alla regista cilena Carmen Castillo, A. Touraine, Vita e morte del Cile popolare, diario di un sociologo luglio‑settembre 1973, trad. it., Torino, Einaudi, 1974. 246 J. Ruffinelli, op. cit., p. 103. 247 L. A. Coser, Sociology through Literature. An Introductory Reader, Prentice Hall, Englewood Cliff 1963; A. Schutz (1964), Don Chisciotte e il problema della realtà, Milano, Armando, 1995; R. Quinney, Storytelling Sociology. Narrative as Social In‑ quiry, Boulder‑London, Lynne Rienner Publishers, 2005. 248 C. W. Mills, L’immaginazione sociologica, Milano, Il Saggiatore, 1962. 249 A. M. P. Toti, op. cit., p. 129. 245
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che dieci anni prima aveva girato La flaca Alejandra – inizia dalle po‑ che tracce materiali rimaste di Allende, quelle che furono trovate sul suo corpo senza vita: il suo orologio, la tessera del partito socialista, il portafoglio. “Questo è tutto ciò che resta di Salvador Allende”, rimarca la voce di Guzmán, nelle prime parole pronunciate nel film. Il regista non si vede mai in volto, ma le sue mani sono protagoniste di questa prima scena e della successiva, quando è davanti a un muro a scrostare uno strato superficiale di vernice, per ritrovare un vecchio murales co‑ perto dalla dittatura, rappresentazione plastica dell’occultamento del‑ la memoria allendista: “La comparsa dei ricordi non è né comoda né volontaria”, precisa Guzmán per connotare il gesto delle sue mani e far comprendere che i ricordi, almeno per le vittime, sono involontari, as‑ sediano la mente anche quando si vorrebbe dimenticare; e quindi l’at‑ to faticoso che compiono le sue mani è quello che dovrebbe compiere un intero Paese e soprattutto chi ha preferito coprire il passato con uno strato di vernice. “Salvador Allende ha segnato la mia vita. Non sarei quello che sono se lui non avesse incarnato quell’utopia di un paese più giusto e più libero”, ammette finalmente Guzmán, dopo che nei primi film aveva celebrato più il processo rivoluzionario e il soggetto collet‑ tivo del popolo, piuttosto che il leader, secondo anche la prospettiva metodologica dei cineasti allendisti, secondo cui ogni forma di indi‑ vidualismo andava evitata. Ma il rifiuto dell’individualismo non può essere l’unica spiegazione per giustificare la maggiore enfasi che si die‑ de alle critiche nei confronti di Allende piuttosto che alla celebrazio‑ ne. Più avanti nel film, è un ex ministro di Unidad Popular a provare a spiegare: «si parla poco di Allende e se ne parla poco perché Allende è un golpe alla coscienza. Io credo che Allende vada recuperato necessariamen‑ te nella sua immagine etica…ma di questo in Cile non si dice alcuna parola. Anche le persone che lo rispettano, nel migliore dei casi, lo presentano come un illuso e lui quindi continua a essere una specie di silenciado nella sua stessa patria».
Tramite le parole di un’altra persona, Guzmán sembra parlare alla sua stessa coscienza, muovendosi sul confine labile tra memoria autocriti‑ ca e autoassolutoria: 124 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
«quando tornai con il mio diploma da cineasta furono i volti del po‑ polo quelli che volli filmare: Allende era lì, era parte del paesaggio umano di questa storia, però non mi resi conto che senza di lui non ci sarebbe stata storia. Oggi la sua figura occupa sempre più luoghi nella mia mente: necessito sapere chi era quest’uomo, come si può essere rivoluzionari e democratici insieme».
Guzmán scopre il volto di Allende, che riappare scorticando lo strato di vernice: ora sembra poterlo vedere attraverso nuovi occhi. La me‑ moria, del resto, funziona così: il passato non è un oggetto immutabi‑ le, ma cambia in base alla cornice temporale dentro cui lo si inquadra socialmente. Ora, quello che un tempo sembrava essere un difetto di Allende, l’essere rivoluzionario e democratico insieme, sembra essere reinterpretato come un pregio, una peculiarità unica, portata avanti con coerenza e fino alle estreme conseguenze. Subito dopo essersi riconfrontato con l’immagine di Allende, Guzmán raggiunge uno dei pittori che durante il governo di Unidad Popular si occupò di colorare i muri della città con l’immagine del Presidente, degli operai e con slogan che allora infondevano fiducia e aspettative nei confronti del futuro. È come se Guzmán volesse con‑ cretamente rendere visibile il confronto tra l’immagine di Allende nel passato e oggi. Il pittore disegna davanti alla camera e spiega che colo‑ rare i muri della città era l’unico modo per il popolo per comunicare e diffondere i propri messaggi, perché le destre, invece, erano proprieta‑ rie dei principali mezzi di comunicazione e in questa battaglia ìmpari bisognava trovare delle soluzioni creative per far sentire la propria vo‑ ce e contrastare l’imponenza comunicativa di una propaganda contro‑ rivoluzionaria finanziata dagli Stati Uniti. Su queste parole, Guzmán alterna immagini d’archivio ad altre nel presente in cui il pittore dise‑ gna un nuovo murales con il volto di Allende e con la scritta Por tu me‑ moria, quasi fosse anche la dedica del film: “il potere coltiva l’oblio, ma sotto la cappa di amnesia che copre il paese, il ricordo emerge e le me‑ morie affiorano”, sintetizza Guzmán. Poi il documentario prosegue la sua riflessione sulla memoria, mo‑ strandoci un’altra pittrice che ha costruito un’enorme cartografia del Cile, che occupa una intera parete. La sua, però, è più una mappa in‑ teriore, perché il Paese è raffigurato come una terra spezzettata in tan‑ 125 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ti piccoli frammenti, in un’altra rappresentazione visiva e simbolica del Cile e della sua memoria: “l’esilio lo vedo come una terra che è formata da tante piccole isole e dove ognuno ha i suoi paesaggi e la sua memo‑ ria. Io non lo vedo come una terra immensa dove ci sono tutti, è mol‑ to intimo”. In queste parole della donna è percepibile tutta la frattura tra la memoria individuale e quella collettiva, l’assenza di una memoria condivisa, la frantumazione di una unità. “Quando scoprii la pittura di Emma”, chiarisce infatti Guzmán, “vidi il Cile che sentivo dentro: una terra frammentata in tanti pezzi, alla deriva e che non si incontrano”. “Quando torni [dall’esilio] – aggiunge lei – provi a recuperare dei pez‑ zi ma non li trovi”. E Guzmán: “ma come fai a vivere in un paese in cui ti senti straniera?”. “Vivo in un’utopia, in un luogo che mi invento. Io ho l’immagine di una barca che non ha porto ed è un poco alla deriva”. Questa metafora artistica rappresentata in un quadro sintetizza bene la condizione delle vittime, di chi ritorna dall’esilio o è sopravvissuto alla tortura, di chi senza giustizia non ha neanche un porto o una di‑ mora dove sentirsi a casa e vive in un Paese inospitale, in un non‑luogo (del diritto), in cui per sopravvivere si può solo provare a trovare rifu‑ gio nell’immaginazione, pittorica o cinematografica250. Questo dialo‑ go eloquente conclude la riflessione iniziale sulla memoria, sul filo che tiene insieme tutti i film di Guzmán. Il focus dell’attenzione si concen‑ tra poi su Allende, su quando Guzmán lo vide per la prima volta insie‑ me a Neruda e poi sulla nostalgia attuale, su quelle parole già citate in cui prova quasi a scusarsi con Allende, riconoscendogli che “senza di lui non ci sarebbe stata storia”. Ma la storia che Guzmán ora vuole rico‑ struire è quella anche individuale di Allende e così incontra le persone che più gli furono vicine: familiari, ministri di Unidad Popular, mem‑ bri del partito socialista di Valparaiso, sua città natale. Tramite loro al‑ terna il racconto pubblico e privato di Allende, la descrizione del suo carattere e della sua formazione politica, finendo per chiarire che non fu un marxista classico né soprattutto un leninista, perché non voleva affatto la dittatura del proletariato, ma perseguire il fidelismo senza Fi‑ Per approfondire il tema del nesso tra memoria e dimora è interessante l’analisi del film Heimat del regista tedesco Edgar Reitz nel libro: P. Jedlowski, Il racconto come memoria. Heimat e le memorie d’Europa, Torino, Bollati Boringhieri, 2009. 250
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del, come chiarisce Edward Korry, ex ambasciatore Usa in Cile, che in un’intervista – non girata da Guzmán ma montata nel film – prova a legittimare la preoccupazione della Cia e il suo intervento per “stroz‑ zare economicamente il Cile” e per destituire Allende in ogni modo, anche con un golpe. L’ambasciatore conferma che i finanziamenti sta‑ tunitensi ci furono già nella campagna elettorale del 1964, “così come fu fatto in Italia nel 1948” e di nuovo in Cile nel 1970: una delle foto di propaganda più emblematiche era quella di un carrarmato sovietico da‑ vanti alla Moneda di Santiago, così come nel 1948 lo stesso carrarma‑ to era raffigurato mentre entrava a Roma, con la medesima didascalia sempre attuale: “neanche in Cecoslovacchia immaginavano che sareb‑ be accaduto…”. Questa retorica della paura, in realtà, mostrava chiara‑ mente proprio le intenzioni colonizzatrici degli Stati Uniti, mentre la Cia le imputava falsamente al suo nemico sovietico, in una guerra cal‑ da combattuta sulla pelle dei cileni. E Guzmán mostrerà in slow‑mo‑ tion, con una grande ferocia poetica, i movimenti dei carrarmati cileni sotto la Moneda, l’immagine compiuta dell’inganno e del tradimento. Prima di arrivare a raccontare il momento più tragico della vita di Allende e del Cile, Guzmán costruisce una narrazione emozionale del Presidente, in modo che lo spettatore possa percepire con più forza la futura perdita. Tra i momenti più emozionanti di questa fase del film c’è sicuramente l’intervista alla scrittrice Isabel Allende, che ricostrui‑ sce quando da piccola accompagnò il padre nelle campagne elettorali, in cui in treno attraversava tutto il Cile, incontrando campesinos, ma‑ puche e operai delle miniere, dialogando con tutti. Questi racconti so‑ no rafforzati dalle immagini di archivio del documentario Il treno della vittoria di Joris Jvens e di Banderas del pueblo di Sergio Bravo, in cui è possibile cogliere tutto l’entusiasmo dell’epoca, che nel film di Guzmán è enfatizzato anche dalle musiche dei maggiori rappresentanti della Nueva cancion chilena, dagli Intillimani ai Quilapayun a Victor Jara. Poi il documentario di Guzmán entra nel vivo del racconto dei tre anni di governo e così, inevitabilmente, ogni tanto riverbera anche la memoria traumatica affrontata nei primi due film della Battaglia. Ma prima di arrivare a scorgere la preoccupazione, Guzmán rende conto del primo anno di governo e delle riforme realizzate, con una velocità che, a pensarci ora, provoca meraviglia e nostalgia: 127 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
«Ricordo la freschezza dell’aria, la profonda ispirazione che ci univa gli uni agli altri e, più in là, al mondo intero. Filmavamo questo sogno radiante con lucidezza e fervore. Era una società intera in stato amoro‑ so. […] In ogni angolo di campagne e città, uomini, donne e bambini partecipavano alla creazione di una vita nuova. La folla era straripan‑ te. Era il tempo dei grandi eventi storici. Allende attuò il suo program‑ ma. Rese statali fabbriche e imprese di monopolio. Nazionalizzò le banche, il salnitro, l’acciaio, il carbone e il rame. Non dimenticò le sue promesse. Nel primo anno creò una situazione di grande prosperità. L’energia si poteva toccare con mano».
Ecco il sogno aparecido di Allende, concretizzato nel raggiungimen‑ to di molti traguardi, ma anche ri‑osservato come memoria del futuro, come costruzione di nuovi orizzonti verso cui camminare, in un tem‑ po aperto e pieno di possibilità, prima che il trauma spezzasse anche il tempo e creasse un baratro tra il presente e il futuro; prima che il trau‑ ma bloccasse le vittime in un foro, in un tempo morto e senza orizzon‑ ti, ma nell’orizzontalità degli animali più piccoli e infimi, quelli che da terra non vedono alcun orizzonte e possono solo strisciare e aspettare di essere schiacciati, per concedersi l’unica liberazione possibile da una vita sospesa nel vuoto del tempo e del diritto, nella negazione dell’u‑ mano. Ma Guzmán non si arrende nella lotta per la ricerca di nuovi orizzonti e così inquadra le Ande che proteggono Santiago e l’immo‑ bilismo indifferente dei suoi grattacieli: “Mi sento come uno stranie‑ ro errante in una terra ostile. Non posso dimenticare che la dittatura schiacciò la vita e la democrazia, e impose il denaro e il consumo come unico valore. Però in questa città ci sono ancora persone, sogni, lotte che voglio continuare a cercare”. E infatti una donna intervistata sem‑ bra quasi incoraggiare Guzmán nella sua missione di testimone della memoria di Allende e anche nella sua ricerca di nuovi referenti, dispo‑ nibili a rendersi testimoni e prosecutori del sogno allendista, a non ar‑ rendersi davanti alla compressione degli orizzonti: «io credo che l’epoca che abbiamo vissuto noi fu la più felice, perché avevamo leader, sogni, avevamo utopie e un mondo da cambiare. Per questo dico che dobbiamo lavorare con i giovani, per costruire nuove cose. Magari noi non vedremo i cambiamenti, ma ci sarà qualcuno che porterà avanti questi sogni, questi valori».
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Ma quel passato felice e quel futuro immaginato iniziarono già a sfal‑ darsi a partire dal famoso sciopero di ottobre, che Guzmán riaffron‑ ta rimontando in altro modo le immagini di La respuesta de Octubre e poi anche quelle della Insurrezione della borghesia, in una reiterazione visiva che senza dubbio restituisce anche il senso dell’ossessione di un “passato che non passa”. Poi arrivano delle immagini d’archivio commoventi, quando alla fi‑ ne del 1972 Allende si presentò all’Assemblea dell’ONU. In quell’oc‑ casione non solo denunciò le pesanti e continue ingerenze del governo nordamericano nella politica cilena, ma mise anche sotto accusa le azioni incontrollate e il ruolo nefasto delle multinazionali. Era la pri‑ ma volta che un capo di Stato esprimeva forte preoccupazione e indi‑ gnazione nei confronti di un soggetto internazionale nuovo. “Era il capitolo anteriore del capitalismo che oggi domina il mondo”, com‑ menta Guzmán, prima che Allende si prenda la scena con il suo dirom‑ pente discorso, ancora oggi attuale: «Ci troviamo davanti a un vero scontro frontale tra le grandi corpo‑ razioni internazionali e gli Stati. Questi subiscono interferenze nelle decisioni fondamentali, politiche, economiche e militari da parte di organizzazioni mondiali che non dipendono da nessuno Stato. Per le loro attività non rispondono a nessun governo e non sono sot‑ toposte al controllo di nessun Parlamento e di nessuna istituzione che rappresenti l’interesse collettivo. In poche parole, la struttura politica del mondo sta per essere sconvolta. Le grandi imprese mul‑ tinazionali non solo attentano agli interessi dei Paesi in via di svi‑ luppo, ma la loro azione incontrollata e dominatrice agisce anche nei Paesi industrializzati in cui hanno sede. La fiducia in noi stessi che incrementa la nostra fede nei grandi valori dell’umanità, ci dà la certezza che questi valori dovranno prevalere e non potranno essere distrutti».
I membri dell’Assemblea si alzano in piedi e applaudono Allende. Visto oggi, però, quell’applauso ha un sapore amaro e ipocrita e evi‑ denzia la straziante solitudine di Allende e quanto la sua previsione distopica non sia affatto stata evitata dai “grandi valori dell’uma‑ nità”, in cui Allende dissimulò fiducia e certezza. Poi Guzmán rac‑ conta la parabola discendente di Allende, reiterando le immagini 129 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
traumatiche già presentate nella Battaglia del Cile, concentrando‑ si ancora una volta sul tentato golpe del 21 maggio 1973 e sull’uc‑ cisione del cameraman argentino Henriquez, che filmò la sua stessa morte: di queste immagini ne parlerò più approfonditamente nel paragrafo successivo. Il finale del film è una rapida discesa verso la morte di Allende, preannunciata dagli ultimi suoi discorsi pubbli‑ ci, sempre più preoccupati, ma anche paradossalmente più convinti nell’infondere fiducia nel popolo, preannunciando che la fine di un uomo non può certo arrestare i processi rivoluzionari, come aveva già chiarito anche Castro nella sua prima visita in Cile, quando ave‑ va sostenuto che il protagonista non è Allende o Fidel, ma il popolo. Davanti a una folla sterminata, Allende dimostra di aver già chiaro cosa lo aspetta: «Non mi ritengo certo un apostolo né un messia. E non mi ritengo nemmeno un martire. Sono un lottatore sociale che ha un compito da svolgere. Il compito assegnatomi dal popolo. Che lo sappiano quelli che intendono far regredire la Storia e disconoscere la volontà mag‑ gioritaria del Cile. Senza considerarmi un martire, non farò nemmeno un passo indietro! Che lo sappiano! Lascerò La Moneda solo quando avrò assolto il compito assegnatomi dal popolo! Non ho altre alter‑ native. Solo crivellandomi di colpi potranno impedirmi di portare a termine il programma del popolo!».
Subito dopo, il documentario stacca sulle immagini mute del bombar‑ damento della Moneda e il silenzio con cui vengono accompagnati i missili serve a enfatizzare il momento in cui si sente lo scoppio e poi il fremito delle fiamme che avvolgono il balcone della stanza di Allende. Poi Guzmán, lascia sentire l’ultimo discorso di Allende, e ormai l’ot‑ timismo che il Presidente dissimulava per il futuro del popolo cileno, dopo 17 anni di dittatura e 14 di impunità democratica, rappresenta una ulteriore ferita, a cui però il regista cerca di reagire: «La morte non è la fine. Bisogna tornare a questo atto libero di Al‑ lende, ultimo combattente della Moneda. Il suo suicidio non fu né disperato né romantico, fu un atto realista che ci dice che la politica non deve inchinarsi davanti all’impossibile. Devo riprendere il filo e tornare a ricominciare un’altra volta».
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Guzmán prova a non scoraggiarsi e si ricorda che la sua missione non è compiuta e deve continuare costantemente, e con ostinazione, a “ri‑ prendere il filo” della memoria e a ricominciare in una reiterazione di cui non stancarsi mai. Così torna negli ultimi luoghi della memoria di Allende, dall’interno del Palazzo della Moneda, che è stato volutamente cambiato architettonicamente, alla villa presidenziale, che fu bombar‑ data mentre Hortensia Bussi, la moglie di Allende, era ancora dentro. Poi Guzmán ricorda che fu portata via con un aereo militare per inter‑ rare il corpo di suo marito a Viña del Mar, anche se, come ultimo sfre‑ gio, non le lasciarono vedere neanche i resti del suo corpo, che furono collocati in una tomba senza nome, per evitare che diventasse quel sim‑ bolo che poi è diventato, quasi a negarne l’esistenza o a renderlo uno dei tanti desaparecidos senza neanche il diritto a una memoria. D’altra par‑ te, anche la sua villa non fu solo distrutta dai bombardamenti, ma anche saccheggiata dai vicini e dai militari, che rubarono anche gli oggetti in‑ timi, senza che il Cile abbia mai riflettuto neanche su questo. Poi con Arturo Giron, ex ministro di UP, Guzmán ricostruisce gli ultimi istanti di vita di Allende e alterna le immagi attuali dell’inter‑ no della Moneda con le foto di archivio di Allende, al telefono con Ra‑ dio Magallanes per registrare il suo ultimo discorso al popolo cileno. Infine ecco l’ultima foto di Allende con il cranio fracassato e accascia‑ to con la mitragliatrice ancora tra le braccia, mentre l’ex ministro chia‑ risce la dinamica di quello che per lui fu senz’altro un suicidio. Insieme alla fine della vita di Allende, anche il film procede verso la fine e così il pittore José Balmes prova ancora una volta a rappresentare l’irrapre‑ sentabile, dipingendo in bianco e nero la facciata della Moneda, men‑ tre la voce di Guzmán tenta una riflessione conclusiva: «Il passato non passa. Dei nostri tempi vivi ci sono pochi testi di sto‑ ria, non c’è una biografia di Allende e gli archivi del potere continua‑ no a restare segreti, la violenza del vincitore continua. L’11 settembre 1973 è sempre presente. Salvador Allende amava la vita e la vita lo amò. Con questa vita nella testa, abbiamo continuato ad agire e a pen‑ sare il futuro, anche se il passato non passa».
Guzmán ribadisce ancora l’impossibilità di superare il passato, ma riaf‑ ferma indirettamente anche la dignità della sua missione che pensa il 131 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
futuro ed è avvalorata da una violenza (del vincitore) che continua: a negare quello che è accaduto. Tant’è che il film di Guzmán si può auto‑ legittimare come biografia di Allende, come contro‑narrazione di una storia che nessuno intende scrivere, ma che è necessario scrivere, con le parole o con le immagini, perché prima o poi il passato possa passare. E quella memoria di un sogno re‑aparece come un murales dai colori vivi, nascosto dietro le grigie incrostazioni della dittatura. Il film si chiude con le immagini in bianco e nero e le parole del poe‑ ta Gonzalo Millan: «Il fiume inverte il corso della sua corrente. L’acqua delle cascate sale. Le persone iniziano a camminare all’indietro. I cavalli camminano all’indietro. I militari annullano la parata. I proiettili escono dalle car‑ ni. I proiettili entrano nei canyon. Gli ufficiali avvolgono le loro pisto‑ le. La corrente viene restituita dai fili. La corrente penetra attraverso le spine. La tortura smette di avvenire. I torturati hanno chiuso la bocca. I campi di concentramento si svuotano. I desaparecidos re‑aparecen. I morti lasciano le loro tombe. Gli aerei volano indietro. I razzi si im‑ barcano sugli aerei. Allende spara. Le fiamme si spengono. Si toglie il casco. Il suo cranio è ricomposto. Esce sul balcone. I detenuti lasciano il retro dello stadio. L’11 settembre gli aeroplani ritornano nei loro posti. Il Cile è un paese democratico. Le forze armate rispettano la costitu‑ zione. I militari tornano alle loro caserme. Neruda è rinato. Victor Jara suona la chitarra. Canta. Gli operai sfilano cantando Vinceremos!».
Come in un film, la poesia immagina di riavvolgere il nastro della Sto‑ ria e realizzare quelle memorie del futuro bombardate in un giorno di settembre. Come sarebbe cambiata la storia del Cile, e forse del mon‑ do, senza quell’11 settembre?
3.2 La memoria traumatica: La Battaglia del Cile e il so‑ gno desaparecido Prima di arrivare ad affrontare le memorie del futuro nel documenta‑ rio del 2004 su Salvador Allende, Guzmán si trovò quasi subito davan‑ ti a un trauma incombente. Così, se El primer ano costituì una sorta di 132 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
primigenia sperimentazione sul sogno allendista, poi raccontato nel più completo e maturo lavoro del 2004, le riprese di La respuesta de octubre rappresentarono degli appunti visivi preparatori per la costru‑ zione di quella che sarebbe stata la grande opera di Patricio Guzmán: La Battaglia del Cile. Della terza parte di questa trilogia, Il potere po‑ polare, ho già parlato, sostenendo che – nonostante fu realizzata per ultima – racconta eventi, persone e umori precedenti all’inizio di quel‑ la che effettivamente sarebbe stata una battaglia, una vera e propria guerra civile, combattuta però da due forze sociali nettamente ìmpa‑ ri: da una parte Allende e il popolo, gli operai, i contadini, gli indigeni mapuche, gli artisti e gli intellettuali e, dall’altra parte, le classi agia‑ te, la borghesia e l’aristocrazia, gli industriali e i grandi imprenditori, sostenuti da quasi tutti i mezzi di comunicazione e dal governo degli Stati Uniti. Pertanto, se El primer ano si può inscrivere nel desiderio guzmániano di assistere e osservare l’entusiasmo popolare conseguen‑ te all’elezione e alle prime riforme di Allende, La respuesta de Octubre segna già l’arrivo delle prime preoccupazioni, quasi un monito per evi‑ tare il verificarsi di un possibile trauma, che poi si verificò puntualmen‑ te e fu registrato nella Battaglia del Cile. Vediamo quindi come iniziò l’avventura della prima grande opera di Guzmán. Dopo la risposta contro‑rivoluzionaria delle destre, avvenuta appun‑ to a ottobre del 1972, Guzmán decise di abbandonare le riprese del film sulla vita di Manuel Rodriguez, che nel frattempo aveva avviato. Si convinse, infatti, che in quel momento la cosa più importante fosse “porsi al servizio della realtà contingente”251, anche perché la realtà era molto più drammatica di qualunque soggetto immaginato. Creò quin‑ di il collettivo Equipo Tercer Ano, riunendo la squadra di cineasti che avevano filmato El primer ano e La respuesta de Octubre e che era già all’opera sul film di finzione su Rodriguez: l’operatore Jorge Muller, il produttore Federico Elton e il fonico Bernardo Menz, a cui si aggiunse la giovane Angelina Vasquez. Insieme decisero di ripetere l’esperienza di El Primer ano, cercando finanziamenti al di fuori della Chile Films. Guzmán chiese aiuto al suo amico Chris Marker per avere una pelli‑ P. Guzmán, La batalla de Chile. La lucha de un pueblo sin armas, Madrid, Editorial Ayuso‑Libros Hiperion, 1977. 251
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cola vergine e altro materiale difficilmente reperibile in Cile in quel momento. Gli aiuti giunsero e le riprese cominciarono quasi immedia‑ tamente: il 20 febbraio 1973. Inizialmente si misero d’accordo sul mo‑ do di lavorare, scrivendo il cosiddetto Manifiesto de metodos, nel quale si stabilì un vero e proprio approccio teorico‑metodologico, che po‑ tesse essere il migliore in funzione degli eventi che si stavano vivendo. S’imposero una disciplina molto rigida, stabilendo un programma di lavoro estremamente rigoroso, senza orari prestabiliti e giorni feriali: la troupe poteva essere chiamata a qualsiasi ora del giorno e della notte. Un aspetto importante del lavoro fu il vincolo con la redazione della rivista Chile Hoy, un settimanale indipendente di sinistra, diretto dal‑ la giornalista e professoressa di filosofia Marta Harnecker. Infatti, gra‑ zie a questo contatto riuscirono a presentarsi come operatori televisivi e quindi ad accedere anche nelle case e nei luoghi delle classi sociali che erano contro il governo di Allende. Tuttavia, già dopo quindici giorni dall’inizio delle riprese decise‑ ro di interrompere il lavoro e di rimettere in discussione la modali‑ tà di osservazione continuativa: si resero conto, infatti, che il primo istinto che portò loro a filmare tutto ciò che accadeva, era molto diffi‑ cile da assecondare, proprio per l’ampiezza, la velocità e la complessi‑ tà degli eventi che si volevano registrare. Per questo motivo, decisero di sospendere momentaneamente il lavoro, per riflettere ancora me‑ glio sulle scelte metodologiche migliori da adottare: il problema era cosa e come filmare per documentare la situazione economica, politi‑ ca, ideologica, con una selezione che non fosse eccessivamente di par‑ te. Questo dimostra quanto il desiderio di Guzmán non fosse un puro desiderio estetico‑cinematografico, ma una profonda volontà di inda‑ gare la realtà cilena e di fissarla in una memoria audiovisuale, che potes‑ se testimoniare nel tempo cosa stesse accadendo in Cile, secondo quali dinamiche sociali. Gli eventi di quell’anno avvenivano però in modo così concitato che alla fine Guzmán preferì filmare il più possibile, rendendo il montag‑ gio il momento principale di analisi e di costruzione del discorso: un momento, però, da non circoscrivere esclusivamente nella fase finale della produzione, ma da alternare continuamente con la fase di ripre‑ se, secondo le stesse metodologie attuate nelle ricerche sociologiche 134 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
qualitative, laddove uno studioso non separa nettamente le fasi di ri‑ cerca, ma crea una continua circolarità tra ricerca sul campo, analisi e nuova ricerca sul campo, a partire dalle valutazioni e dalle necessità di ri‑orientamento emerse dopo la prima analisi del materiale. D’altra parte, le riprese filmiche costituiscono solo un atto di un testo finale che acquista senso solo da «una diversa enunciazione sulle immagini, che vengono così ri‑dette o, forse, […] ri‑date, ri‑guardate. Il punto di vista nasce cioè dalla sin‑ tagmatica, dal montaggio stesso e dalla sua focalizzazione, dal modo in cui si sottrae o si aggiunge drammaticità a un gesto o a una parola sfumando l’audio con la colonna sonora extradiegetica, e quindi giu‑ stapponendo e mostrando continuamente l’interno delle immagini con il loro esterno, soprattutto indicando come il loro effetto possibi‑ le nasca da questa stessa giustapposizione»252.
Convinto di poter affidare la questione del senso principalmente al montaggio, Guzmán decise quindi di non limitare o circoscrivere ec‑ cessivamente l’uso della videocamera, ma anzi di adoperarla come una caméra‑stylo con cui prendere appunti visivi, come accade in qualsiasi ricerca qualitativa253. Pertanto, durante i mesi successivi, fino al giorno del golpe, la troupe lavorò senza sosta, impressionando metri e metri di pellicola, in un’archiviazione ampia dei fatti salienti dell’epoca: riu‑ nioni politiche, assemblee sindacali, interviste collettive e individua‑ li a persone e personaggi di tutti i settori politici e sociali, riunioni di partito, atti solenni del governo e cerimonie di diverso tipo. “Abbia‑ mo iniziato a lavorare” – affermò Guzmán –, “ad un grande quadro che raffigura la sintesi della lotta di classe in Cile”254. Da una prospet‑ tiva teorica marxista‑leninista, Guzmán voleva finalmente indagare il tema della lotta di classe in modo universale e rivolgendosi a un pub‑ blico altrettanto universale, abbandonando quindi l’impressionismo celebrativo dei primi due esperimenti filmici. La sua maturità, quin‑ C. Demaria, Documentary turn? La cultura visuale, il documentario e la testimo‑ nianza del ‘reale’, in “Studi culturali”, anno VIII, n. 2, agosto 2011, p. 172. 253 F. Cardano, op. cit. 254 P. Guzmán, op. cit., p. 31. 252
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di, fu comprendere che la militanza dovesse assolutamente evitare di confondersi con la partigianeria, secondo la via già indicata da Miguel Littín. Ed è questa raggiunta consapevolezza, oltre che l’ostinazione, a rendere il cinema di Guzmán un’accurata ricerca visuale sulla memo‑ ria del Cile. Solo dopo sette mesi dall’inizio delle riprese avvenne però il colpo di stato dell’11 settembre 1973. Pochi giorni dopo il golpe, quattro componenti della troupe furono imprigionati e lo stesso Guzmán fu detenuto per quindici giorni all’interno dell’Estadio Nacional. Anche grazie a un intervento di protesta internazionale riuscì però a otte‑ nere la libertà e ad avere la “fortuna” di essere espulso dal Cile, come del resto altri suoi compagni ugualmente costretti all’esilio. Purtrop‑ po, però, non tutti riuscirono a salvarsi in esilio: il direttore della foto‑ grafia, Jorque Muller, fu arrestato il 29 novembre di quell’anno e non fu mai più rilasciato. Insieme a lui c’era la sua compagna, l’attrice Car‑ men Bueno, il cui nome figurò mesi dopo in una lista di un centinaio di desaparecidos che secondo la dittatura di Pinochet erano “ribelli fug‑ giti in esilio”. Sin da subito la dittatura iniziò la sua opera di negazione del reale: nessuno di quei presunti “ribelli”, infatti, andò mai fuori dal Cile e, tra loro, Muller pagò con la vita il coraggio di documentare le violenze della dittatura. Un coraggio che almeno non fu vano, perché Guzmán riuscì in un’impresa che sembrava impossibile: fare uscire fuori dal pae‑ se tutto il materiale girato fino all’ultima bobina di pellicola. La forza di quel materiale di Guzmán risiede senz’altro nella sua eroica clan‑ destinità, ma soprattutto nella capacità di costruire e di validare una contro‑narrazione della storia cilena, in cui emergono le prove di me‑ morie forzatamente inabissate dalla dittatura. Se quelle pellicole non fossero riuscite a oltrepassare la frontiera, probabilmente la memoria traumatica cilena non avrebbe prove tangibili della violenza e le uni‑ che immagini di quel passato sarebbero racchiuse nei ricordi delle vit‑ time e potrebbero essere veicolate soltanto da parole. Invece, davanti a traumi così inaudibili, ricerche visuali come quella di Guzmán rie‑ scono a sostenere le parole dei superstiti, a dare loro coraggio davan‑ ti ai continui tentativi di negazione, che siano dettati dalla violenza o dalla volontà di indifferenza, cioè anche da una possibile saturazione 136 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
del dolore e quindi connessi anche alla “rimozione del dolore nella so‑ cietà contemporanea”255. L’audiovisuale è un medium che consente di opporsi a questa assenza, portando tracce della sua esistenza e ri‑presen‑ tando nel presente il passato. Pertanto, l’audiovisuale presentifica ciò che volutamente viene reso assente: il cinema, come la memoria, è trac‑ cia, “aporia della presenza dell’assenza”256. Ecco perché il cinema stesso è memoria. Ed ecco perché il cinema di Guzmán è, ancor più di al‑ tri esempi, cinema della memoria, cioè “cinema dell’assenza”257. Con i suoi documentari, Guzmán cerca di combattere contro il trauma più grande, che non è tanto quello fisico inferto dalla dittatura, ma soprat‑ tutto quello psicologico inferto dalla democradura, che ha chiuso gli occhi sul passato, fino a imporre l’amnesia, che è coincisa con un prov‑ vedimento di amnistia generalizzata. Ed è proprio questa amnesia‑am‑ nistia che il cinema di Guzmán combatte, ossessionando sé stesso e il Cile con la reiterazione ossessiva della sua memoria traumatica, perché quelle immagini siano curative per le vittime e accusatorie per i carne‑ fici. D’altra parte, se il cinema di Guzmán può assumere oggi questa funzione è perché, sin dalla teoria freudiana sul trauma, appare chiaro che non è tanto l’esperienza del trauma a traumatizzare, ma piuttosto la sua repressione, la sua ripresentazione come memoria negata e con‑ flittuale: «Il trauma è così il risultato di una dialettica tra due eventi, e non l’effetto diretto di qualcosa che assale l’individuo dall’esterno; inoltre, comporta una latenza temporale attraverso cui il passato diviene ac‑ cessibile esclusivamente attraverso un atto differito di comprensione e di interpretazione»258.
S. Cohen (2001), op. cit. P. Ricoeur (2000), La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Cortina Raffaello, 2003, p. 21. 257 S. Shapiro, The Cinema of Absence: How Film Achieves a Greater Reality By Showing Us What Isn’t There, in The Stranger, http://www.thestranger.com/seattle/ the‑cinema‑of‑absence/Content?oid=7939; Cfr. L. Rodrigues, Event Horizon: On Patricio Guzmán and the Cinema of Absence, in “The Neutral”, University of Toronto Cinema Studies Journal, https://theneutral.wordpress.com/liam‑rodrigues. 258 C. Demaria, Il trauma, l’archivio e il testimone, cit., p. 31. 255 256
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Tuttavia, se la memoria non è riconosciuta e condivisa socialmente, ma è costretta ad abitare esclusivamente nel foro della coscienza individua‑ le, allora essa si incancrenisce e si ripresenta costantemente in forma di incubo, di reminiscenze che provocano diversi gradi di sofferenza: in questo caso il dolore è causato dalla memoria e così la vittima non può che desiderare meno memoria (individuale). Privarsi della memo‑ ria non è però una soluzione alla cura del dolore. Infatti, e paradossal‑ mente, per curare la troppa memoria traumatica privata, è necessario avere più memoria pubblica. Affinché la memoria possa essere curati‑ va, deve avere la possibilità di essere narrata, cioè di avere un pubblico disponibile all’ascolto: soltanto una memoria pubblica può diventa‑ re fonte di cura di una società intenzionata a costruirsi un’identità in‑ tegra e non fratturata in due. Infatti, solo quando la memoria diventa pubblica smette di essere un corpo estraneo259 nella carne di specifici e isolati individui, ma diventa un bisturi, o qualsiasi altro strumento me‑ dico, utile e desiderabile per la rimozione del corpo estraneo, la sutu‑ ra delle ferite e la riconciliazione con l’integrità fisica e psichica di un Paese. Il cinema di Guzmán, allora, negli anni di Allende costituì il tentati‑ vo di narrare per prevenire il trauma e, infatti, El primer ano e soprat‑ tutto La respuesta de Octubre rappresentano fulgidi esempi di questa intenzione, ideologicamente posizionata. Dopo aver ricevuto il golpe traumatico e aver visto realizzate le sue paure, il suo cinema rappresen‑ tò, invece, il bisogno “differito di (ri‑) comprensione e di (re‑) interpre‑ tazione”, cioè di narrare pubblicamente il trauma per curarlo. In questo modo, Guzmán intese e intende curare i sintomi di un trauma che, co‑ me termine, già “a partire dal V sec. a.C., e poi ancora più intensamen‑ te in età imperiale, significa “sconfitta”, ma nel senso della “disfatta”; su questa linea il termine assume rilievo tanto metaforico quanto collet‑ tivo: è una sorta di ferita pubblica”260: una ferita che riguarda concreta‑ Cfr. N. Abraham, M. Torok (1978), La scorza e il nocciolo, Roma, Borla, 1993. In questo libro gli autori parlano del trauma come di un corpo estraneo che può essere compreso solo tramite una lingua criptica, ovvero parlata nella cripta interna al sog‑ getto dove sono depositati i traumi. 260 C. Demaria, Il trauma, l’archivio e il testimone, cit., pp. 27‑28. 259
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mente la disfatta di una parte della società, ma la sua cura non è un atto posizionato in una sola parte, ma riguarda tutta la società, perché se la ferita non viene sanata tramite la trasformazione di una reminiscen‑ za privata in memoria pubblica dilania fisicamente e psichicamente l’intero corpo sociale. Pertanto, dedicando la sua intera vita alla nar‑ razione artistica dell’esperienza traumatica, Guzmán tenta un’identi‑ ficazione tra arte e vita, tra pubblico e privato, convinto che ciò possa contribuire a lenire il suo trauma personale e quello collettivo. La sua memoria ostinata deriva infatti dalla consapevolezza che un’esperienza non narrata sia una “esperienza non integrata”261, cioè non assorbita e rimasta infilzata come un corpo estraneo. Il cinema di Guzmán, allora, è la costituzione ostinata di una contro‑memoria pubblica che curi la piaga e l’infezione create dal corpo estraneo. Il cinema diventa il medium per passare dal semplice acting‑out del trauma al working‑thought, il lavoro che non include solo l’atto di nar‑ razione del testimone, ma anche l’analisi critica (in questo caso filmi‑ ca), che s’impegna a portare testimonianza della testimonianza262. In questo modo, il cinema di Guzmán rappresenta una ricerca, che po‑ tremmo definire “medico‑scientifica”, finalizzata a liberare il Paese dal‑ la stessa estraneità del suo volto, consentendogli di guardarsi nello specchio del cinema e finalmente di auto‑rappresentarsi, uscendo dal buio dell’oblio in cui non è possibile vedere alcuna immagine di sé e neppure degli altri. Per Pierre Janet, infatti, l’atto di narrazione è un at‑ to di presentificazione, di auto‑rappresentazione e di auto‑osservazio‑ ne, attraverso cui è possibile costituire il presente e quindi guardare al futuro263. Per poter compiere questa missione, Patricio Guzmán cercò inizial‑ mente di riunire in Francia tutto il materiale filmato, trovando gli ap‑ Per approfondire la distinzione tra esperienza non integrata (Erlebnis) e esperien‑ za narrata (Erfahrung) si veda: W. Benjamin (1936), Sul narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolaj Leskov, in E. Ganni (a cura di), Opere complete di Walter Benja‑ min. VI. Scritti 1934‑1937, Torino, Einaudi, 2004. 262 Cfr. D. Lacapra, Working History, Writing Trauma, Baltimore & London, The John Hopkins University Press, 2001. 263 C. Demaria, Il trauma, l’archivio e il testimone, cit., p. 37. 261
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poggi necessari a Parigi. Il colpo di Stato, infatti, produsse un impatto emotivo a livello internazionale comparabile forse solo a esperienze come la guerra in Vietnam o la guerra civile spagnola. È per questo che in molti paesi si aprirono le porte della solidarietà ai perseguitati e agli esiliati della dittatura cilena. Ciononostante, i soldi necessari per completare il film erano troppi: tutto ciò supponeva lo spiegamento di molte risorse che obiettivamente, per la natura dell’impresa e per la sua scomodità politica, erano difficilmente reperibili anche in Europa. Perciò Guzmán decise di partire per Cuba, dove si stabilì con la qua‑ si totalità del collettivo originale. Alfredo Guevara, l’allora presiden‑ te dell’Icaic, si trovava di passaggio a Parigi agli inizi del 1974. Fu in quell’occasione che offrì a Guzmán e alla sua troupe l’aiuto del suo isti‑ tuto: “Fu grazie all’appoggio generoso e solidale della Cuba rivoluzio‑ naria – affermò Guzmán – che questo film, di così lunga lavorazione, riuscì a essere portato a termine”264. Il regista sostenne inoltre che il film sarebbe stato completamente diverso se fosse stato portato a termine “in un paese capitalista”. Era convinto che la rivoluzione cubana potesse influenzare profondamen‑ te la troupe: “non sarebbe stato possibile ottenere lo spirito unitario del film in un altro posto. Quando uno si trova a Cuba comprende che cos’è una rivoluzione e riesce ad analizzare molto meglio un periodo pre‑rivoluzionario come fu quello cileno”265. All’Havana ci fu un la‑ voro di stretta collaborazione con tutte le forze politiche della sinistra cilena, nel quale fu decisivo il lavoro svolto precedentemente da Mar‑ ta Harnecker e dal cubano Julio Garcia Espinoza. Per il montaggio del film ebbe un ruolo chiave Pedro Chaskel che, al di là delle sue quali‑ tà come regista, si dimostrò come il più talentuoso e sperimentale dei montatori cileni. A lui spettò l’arduo compito, insieme a Guzmán, di visionare la totalità del materiale girato e di capire cosa poter realiz‑ zare da quella massa informe che lo portò a dire: “siamo di fronte a un mostro”266. Il risultato non fu un film, ma tre, o meglio, una trilo‑ gia: La insurreccion de la burguesia, El golpe de Estado e El poder Po‑ Ibidem. Ibidem. 266 J. Mouesca, cit., p. 82. 264 265
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pular, titoli che compongono il grande affresco chiamato La battalla de Chile, che ormai rappresenta un classico della cinematografia cile‑ na e internazionale, un esempio sontuoso di memoria esternalizzata: con questo termine ci si riferisce a quel fenomeno culturale che attiene “all’insieme delle forme e delle modalità in cui si rendono disponibili informazioni e significati in un tempo e in uno spazio diversi da quel‑ li in cui sono stati prodotti”267. La Battaglia del Cile, così come gran parte del cinema clandestino o esule di Allende, è cinema di memoria esternalizzata, in quanto produce memoria culturale, a lungo termine, da memoria comunicativa, contraddistinta da ricordi caldi, quindi più immediata e a breve termine268. Ma se La Battaglia del Cile è un film di memoria esternalizzata, lo è non solo perché Guzmán riuscì a realizzare i film della trilogia so‑ lo dai due agli otto anni dopo le riprese, ma anche perché utilizzò e rimontò molto del materiale dei primi due documentari, cioè di El pri‑ mer ano e di La respuesta de octubre. Al contrario di questi due film, creati a partire da una memoria comunicativa, cioè da interviste a cal‑ do che parlavano e raccontavano il presente, la trilogia della Battaglia nasce inevitabilmente come un film retrospettivo e a posteriori: un ci‑ nema di memoria e, in particolare, di memoria traumatica. Infatti, è indubbio che la genesi del film – e, più in generale, di tutto il cinema di Guzmán – è nel trauma stesso. Se non ci fosse stato il colpo di Sta‑ to, La Battaglia del Cile probabilmente sarebbe comunque esistita, ma sarebbe stata un’altra pellicola e sicuramente non un cinema costruito come memoria. E non sarebbe stata diversa o assente solo la parte inti‑ tolata Il colpo di Stato, ma anche le altre, perché la costruzione del sen‑ so del film, l’uso della stessa voce fuori campo di Guzmán, sono stati inevitabilmente trasformati dall’avvenuto golpe, dalla morte di Allen‑ de e dei cameraman, dai giorni di prigionia e dall’esilio. D’altra parte, dopo la fine della dittatura, quando negli anni Novanta Guzmán tro‑ vò i soldi per restaurarli e proporre una nuova versione, decise non solo C. Demaria, Il trauma, l’archivio e il testimone, cit., p. 37. La distinzione tra memoria comunicativa e culturale è proposta in: J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997.
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di alleggerire la voce fuori campo, eliminando una serie di informazio‑ ni esplicative che a distanza di anni diventavano superflue, ma anche di apportare modifiche allo stile linguistico di quella voce fuori cam‑ po, perché a vent’anni di distanza era innanzitutto cambiato lui e il suo modo di ri‑vedere il passato e di ri‑approcciarsi a quella memoria. Ma Guzmán era consapevole che fosse cambiato anche il mondo e i quadri sociali tramite cui veniva osservata e descritta la società: soprattutto il Cile e il pubblico a cui intendeva rivolgersi non erano più gli stessi. Ne‑ gli anni Novanta, il cinema di Guzmán era affermato e riconosciuto in tutto il suo valore pedagogico e allora per favorire questa sua funzione, decise di cambiare anche alcuni termini usati nella voce fuori campo del film, perché riteneva che alcune parole fossero troppo connotate storicamente e ideologicamente e quindi fossero troppo distanti e po‑ co comunicative per i giovani, per coloro che, nelle sue intenzioni, do‑ vevano essere i nuovi incubatori e ambasciatori della testimonianza di un sogno desaparecido: «Soltanto in alcuni casi, cambiai le parole borghesia e imperialismo e le sostituii con classe media e governo nordamericano. Allo stesso modo moderai l’uso della parola fascismo e la rimpiazzai con estrema destra. […] Alan Rosenthal, Bill Nichols e altri teorici del documen‑ tario affermano, più o meno, che ogni generazione pretende di usare un linguaggio definitivo, perché il fluire del tempo modifica il tono del racconto. Per esempio, narrazioni che sembravano neutrali nel 1950, oggi ci sembrano eccessive e troppo pedagogiche. Il realismo di una generazione può sembrare un artificio per la generazione successiva. Per questo è necessario – costantemente – rinnovare gli stili per rac‑ contare le cose come sono»269.
Tutto ciò conferma come al mutare dei quadri sociali, muti anche la memoria culturale di un Paese, i paradigmi tramite cui si osserva e ri‑ costruisce il passato, in un’operazione che avviene sempre nel presen‑ te, ossia a partire da un presente continuamente diverso: a trasformarsi e rinnovarsi, quindi, non è solo il presente, ma anche l’interpretazione del passato, cioè la nostra memoria. E il cinema di Guzmán è una con‑ 269
J. Ruffinelli, op. cit., p. 345 e 403.
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tinua reinterpretazione temporale di tracce di memoria, ri‑assemblate sempre in modo diverso e in rapporto di circolarità con nuove emo‑ zioni e riflessioni. Così La Battaglia del Cile re‑interpreta e ri‑monta le immagini di El primer ano e La respuesta de Octubre, mentre tutti i film successivi, soprattutto La memoria ostinata, Salvador Allende e Il caso Pinochet re‑interpretano e ri‑montano La Battaglia del Cile, ma anche i documentari di Joris Ivens e di Sergio Bravo, come a testimonianza di un’ossessione, ma anche di una necessità continua di ripartire costante‑ mente dal passato, di essere memoria, identità che trova il suo presente ri‑narrando il passato sempre in modo diverso: il passato che non passa, come ripete spesso nei suoi film. Eppure ciò che ha dato forza e riconoscimento al suo “unico” film sulla memoria traumatica del Cile, è sicuramente quel documenta‑ rio retrospettivo messo al mondo dal trauma del golpe e dall’ostinazio‑ ne di volerlo ri‑affrontare: La Battaglia del Cile. Definita dallo stesso Guzmán “una memoria del vissuto”270, ebbe a livello mondiale un’eco che non è frequente per il genere documentario: diseguale, com’è ov‑ vio, per ognuna delle sue tre parti, ma nel complesso, davvero eccezio‑ nale. Al di là delle proiezioni nei normali circuiti commerciali, venne selezionato da innumerevoli festival in Francia, Russia, Italia, Germa‑ nia, Spagna, Cuba, Messico, Belgio, Venezuela, ottenendo una grande quantità di premi. Grazie a La Battaglia del Cile, Guzmán si consacrò come il documentarista più importante della cinematografia cilena e, tenendo conto dei precedenti El primer ano e La respuesta de Octubre, come il cineasta “de la Unidad Popular” per antonomasia, insieme al‑ lo stesso Littín che si consacrò tale in modo definitivo con Acta gene‑ ral de Chile. Nonostante i film di Guzmán siano stati premiati da numerosi fe‑ stival e acclamati dalla critica cinematografica internazionale, ritengo però che il suo cinema non si distingua particolarmente per il livel‑ lo estetico: è vero, ci sono delle sequenze visivamente memorabili, so‑ prattutto tra quelle in bianco e nero della trilogia allendista (come i piani sequenza sui volti degli operai e tra le masse festose), ma non si può dire che la dimensione estetica sia predominante. Se però Guzmán 270
P. Guzmán, op. cit., p. 9.
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è oggi uno dei documentaristi più affermati nel mondo, è perché il va‑ lore estetico dei suoi film è profondamente connesso al loro valore eti‑ co. A prescindere dai gusti estetici di ognuno, infatti, è indubitabile che La Battaglia del Cile e tutto il cinema successivo di Guzmán abbia un valore etico indiscutibile e l’ostinazione con cui persegue filmica‑ mente questa etica è ciò che gli garantisce e gli garantirà un posto d’o‑ nore nella cinematografia internazionale. A mio avviso, però, proprio perché il valore dei suoi film è principalmente etico, è necessario che Guzmán abbia un posto d’onore anche nella sociologia visuale, perché i suoi film sono innanzitutto ricerche visuali le cui immagini riesco‑ no, intrinsecamente, a restituire gli umori vibranti della società cile‑ na, a spiegare le cause sociali della battaglia (interiore ed esteriore) del Cile: tanto che si potrebbe sostenere che quell’insieme d’immagini co‑ stituisca non una semplice iconografia del Cile, ma una più complessa sismografia della storia271. Come molti altri, anche il critico francese Louis Marcorelles ricono‑ sce l’utilità scientifica dell’approccio visivo di Guzmán alla realtà, so‑ stenendo che è “insostituibile”, nel senso che non è complementare al racconto verbale, ma è un diverso paradigma conoscitivo, che nella sua multidimensionalità è utile per costruire un’analisi più ampia, che “la‑ scia intravedere ciò che la storia potrà essere un domani, quando sarà analizzata, revisionata e corretta dal cinema, lontano dalla polvere dei libri”272. Una delle qualità delle immagini in movimento, in effetti, è che portano “necessariamente lo spettatore a cercare una spiegazione, a trarre delle conclusioni personali”273, consentendogli di avviare una eventuale riflessione analitica da immagini‑oggetto, da fatti di cui le immagini, pur nella loro parzialità selettiva, costituiscono una prova, non solo insita nell’ontologia dell’immagine, ma anche nel cinema co‑ me atto di figurazione dell’evento “nella sua temporalità più profonda, che è temporalità della prova”274. Il cinema di Guzmán, a partire da La battalla de Chile, è in fondo, la prova di una battaglia della memoria, G. Didi‑Huberman, op. cit., p. 195. L. Marcorelles, Le Monde, 20‑5‑76. 273 Ibidem, pp 11‑12. 274 Didi‑Huberman, op. cit., p. 28. 271 272
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perché la memoria è, innanzitutto, “luogo di battaglia sul confine tra individuale e collettivo o tra diversi gruppi di interesse, dove il potere diviene il fattore operativo”275. Secondo Marta Harnecker, La battal‑ la de Chile ebbe “il merito unico nella storia del cinema, di aver filmato passo dopo passo, con una straordinaria capacità premonitrice, l’agonia di un’esperienza rivoluzionaria che commosse il mondo”276: ma anche l’agonia, futura, di una memoria negata. Di una memoria traumatica. La insurrezione della borghesia, la prima parte a essere montata, ha una struttura circolare, perché inizia dalla fine, cioè dal bombardamen‑ to della Moneda, a conferma della sua natura retrospettiva. La pellicola è composta da almeno tre elementi differenti: innanzitutto è una regi‑ strazione di tutte le attività di opposizione legale e illegale ad Allen‑ de; in secondo luogo, osserva e confronta la comunicazione di Allende con quella della destra; infine, racconta il popolo cileno e i suoi inno‑ vativi tentativi di auto‑organizzazione di forme di produzione alterna‑ tive al capitalismo. Questo ultimo elemento, però, è quello raccontato in modo minoritario, perché sarà affrontato maggiormente nel terzo e ultimo film della Battaglia. La insurrezione della borghesia è montata sulla base di una divisione per argomenti e infatti è strutturata in cin‑ que capitoli tematici e in una introduzione, come avviene quasi sempre nelle ricerche scritte: 1. Accaparramento e mercato nero; 2. Il boicot‑ taggio parlamentare; 3. Adunata degli studenti; 4. Offensiva dei pro‑ prietari terrieri; 5. Lo sciopero del rame. Sebbene Guzmán abbia più volte affermato di voler realizzare un cinema stilisticamente distante dal reportage giornalistico, questo documentario non sembra molto diverso da un reportage più curato e approfondito. Questa sensazio‑ ne deriva in particolare dall’uso frequente di interviste dirette, raccolte anche velocemente per strada per registrare anche gli umori superfi‑ ciali dei cileni e rendere conto della spaccatura della società. Il regi‑ sta non solo spesso è davanti alla camera a porre lui stesso le domande, ma interviene anche con suoi commenti fuori campo, per chiarire me‑ glio il contesto e spiegare cosa accade, non diversamente da quanto in W. Busch, Testimonianza, trauma e memoria, in Agazzi E., Fortunati V. (a cura di), Memoria e saperi. Percorsi interdisciplinari, Roma, Meltemi, 2007, p. 553. 276 P. Guzmán, La batalla de Chile, p. 11. 275
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un libro di ricerca farebbe la voce dell’autore nel cercare di analizza‑ re e intrecciare le interviste realizzate in profondità. Il punto di vista dell’autore, però, è chiaramente ideologicamente posizionato, anche se nel film si dà libero spazio anche alla voce di quelli che vengono consi‑ derati aggressori. Questo tipo di prospettiva autoriale ha portato molte persone comuni, e anche qualche critico, a sminuire il valore delle ri‑ cerche visuali di Guzmán, sostenendo che non raccontano la comples‑ sità di un momento storico, ma prendono parte, semplificando anche il problema e dividendo nettamente la società cilena in vittime e carne‑ fici, senza sfumature intermedie. Lo scrittore Manuel Vazquez Mon‑ talban ha provato però a squalificare queste polemiche, sostenendo che «se ne avessi l’autorità, dichiarerei La Battaglia del Cile pellicola di inte‑ resse democratico e obbligherei a utilizzarla come materiale scolastico. […] “La Battaglia del Cile è eccessivamente manichea per un bambino”, mi obiettò un pedagogo oggettivista, una brava persona, ma ossessiona‑ ta dal fair play. Dopo aggiunse: “Un bambino, guardando la pellicola, potrebbe pensare che quelli di Unidad Popular erano degli angioletti e gli altri dei figli di puttana”. Di questo si tratta: che i bambini compren‑ dano che oltre agli angioletti a volte ci sono anche gli altri”277.
Questa riflessione di Montalban è senz’altro volutamente provocato‑ ria, ma probabilmente necessaria in un Paese in cui alcuni continuano a negare o a giustificare l’esistenza stessa dei desaparecidos e delle torture. Per quanto i film di Guzmán possano essere di parte, non nascondono mai il posizionamento del suo autore e soprattutto non semplificano la complessità degli eventi storici, mettendo quasi sempre in discussio‑ ne anche le posizioni ideologiche di persone con cui l’identificazione dell’autore è molto prossima. Non a caso, si è detto che Guzmán co‑ struisce più una memoria autocritica che autoassolutoria. L’unico mo‑ mento in cui il regista camuffa la sua identità e il suo posizionamento è quando si finge un operatore della televisione, per entrare nelle case della borghesia cilena: ma coprire il proprio posizionamento è una tecni‑ ca da sempre utilizzata da etnografi, antropologi e sociologi visuali per cercare di limitare al minimo il camuffamento dell’osservato o, addirit‑ 277
J. Ruffinelli, op. cit., p. 127.
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tura, il suo diniego a essere osservato278. Questa tecnica, d’altra parte, gli consente di registrare delle sequenze sociologicamente molto signi‑ ficative, perché entrando nelle case delle classi agiate riesce a mostrare visivamente i luoghi dove vivono, gli oggetti che comprano, le vetrinet‑ te dei liquori, la loro estetica del corpo curatissima. Così mentre la borghesia cilena attacca verbalmente Allende e il suo governo, la camera si discosta dai volti e si sofferma sui luoghi, cer‑ cando dettagli significativi: “come se l’intervista funzionasse come lin‑ guaggio di denotazione e le immagini, a loro volta, come linguaggio di connotazione multipla” e “questo gioco tra camera e intervista ver‑ bale consente di comprendere la realtà molto di più del linguaggio immediato”279. E così, questo racconto visivo, che precede quello del‑ le baraccopoli, sintetizza perfettamente la guerra civile latente, il diva‑ rio economico, sociale e di diritti esistente in Cile: un divario di cui le immagini forniscono prova inconfutabile, al di là di qualsiasi conside‑ razione, ugualmente posizionata, sul posizionamento dell’autore. Tutto il documentario acquista forza da questa dicotomia visiva tra i luoghi e i volti della borghesia e quelli del popolo allendista, raggiungendo i suoi vertici poetici proprio quando si muove, facendosi largo, tra i vol‑ ti degli operai, che manifestano gioiosi e pieni di fiducia, o quando in‑ dugia sulla frenesia con cui alcune donne della borghesia afferrano il microfono per ostentare tutto il loro odio personale nei confronti di Allende: “perché ha distrutto il Cile, questo è un governo corrotto e degenerato, signore! Degenerato e corrotto! Immondo! Disgustosi co‑ munisti, devono andarsene via dal Cile! Che siano maledetti!”. Ma il documentario di Guzmán non rinuncia affatto anche a una scrupolo‑ sa e dettagliata analisi politica, che dà conto sia delle divisioni interne Una distinzione classica nell’osservazione partecipante è quella tra un ruolo coperto e uno scoperto, a seconda se il ricercatore interagisca con le persone osservate tenendo nascosta o meno la propria identità da ricercatore e gli obiettivi della ricerca. Un’altra distinzione è quella tra il posizionamento da outsider o da insider: nel primo caso, l’osservatore è esterno al gruppo da osservare e prova a inserirsi e a partecipare man mano che la ricerca avanza; è insider, invece, quando lui stesso è parte del gruppo che osserva, perché partecipava alle sue pratiche ancor prima di iniziare la ricerca. Cfr. A. Frisina, op. cit., p. 12. 279 J. Ruffinelli, op. cit., p. 139. 278
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alla sinistra, sia di tutte le tattiche della destra cilena, dei militari e del‑ la Cia per destituire Allende. Di questi tentativi di destituzione, Guzmán porta molti esempi, da‑ gli omicidi degli squadristi del gruppo di estrema destra Patria y Liber‑ tad fino al drammatico racconto del tentativo di golpe del 29 giugno del 1973, che segna la fine dell’Insurrezione della borghesia e la prova generale del Colpo di Stato che verrà attuato poco più di due mesi do‑ po. Le immagini del tentato golpe del 29 giugno, chiudono quindi il primo film della trilogia e aprono il secondo, anche se montate in mo‑ do diverso. Questa resta in assoluto una delle scene più difficili da di‑ menticare. La troupe di Guzmán stava filmando alcuni carrarmati dei militari. Leonardo Henricksen, un cameraman della televisione argen‑ tina, stava riprendendo lo stesso evento, distanziato da Guzmán solo di pochi metri. Arrivò una jeep dalla quale scese un gruppo di solda‑ ti, comandati da un ufficiale. La camera di Guzmán riprese da un’ango‑ lazione obliqua, mentre Henricksen riuscì a inquadrare direttamente l’ufficiale, il quale prese la sua pistola e, da quindici o venti metri di distanza, lo sparò: la camera di Henricksen filmò tutto con estrema fedeltà fino a un istante nel quale cominciò a vacillare. Henricksen, commenta Guzmán nel film, “non solo registra la sua stessa morte, ma registra anche, due mesi prima del golpe finale, il vero volto dell’eserci‑ to fascista cileno”. L’immagine è una delle pochissime di La battalla de Chile a non essere stata filmata dalla troupe di Guzmán. Il suo impatto mondiale fu molto forte e in seguito fu utilizzata in molti documenta‑ ri sulla dittatura cilena. “A Henricksen” ricorda Guzmán, «gli capita qualcosa di molto strano. Sembra che si senta protetto dalla camera. Qualcosa che io notavo anche in Jorque Muller e in Ber‑ nardo Menz. Quando Bernardo reggeva il microfono e ascoltava con le cuffie e quando Jorque guardava attraverso la cinepresa, io stavo tra loro due e pensavo: com’è possibile che Jorque e Bernardo sono tanto tranquilli nel cuore di una battaglia con le pietre che ti sfiorano. […] C’è una situazione straordinaria che si crea quando tu catturi il suono o le immagini. Io credo che a Henricksen capitò grosso modo questo, perché fa uno zoom a chi lo spara!»280. 280
P. Guzmán, op. cit., p. 82.
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L’immagine finale e fatale dell’Insurrezione non poteva essere più elo‑ quente e agghiacciante. Il cinema diventa prova storica, ma potreb‑ be essere anche prova giuridica, se solo il Cile avesse voluto provare a pensare la giustizia. E questa immagine, più di qualsiasi altra, è la rappresentazione concreta della pratica dell’imbalsamazione di Ba‑ zin281, secondo cui il cinema ha la funzione di mummificare gli eventi, strappandoli al flusso mortifero del tempo e riconducendoli alla vita. Nell’immagine del militare che spara il cameraman, non vediamo in realtà la morte di Henricksen, perché lui, pur morendo, viene salvato dal cinema e ricondotto alla vita, all’eternità del tempo. Pertanto, no‑ nostante paradossalmente sia ripresa proprio la morte, qui il cinema di Guzmán mostra involontariamente l’intento della sua missione, che è anche una delle caratteristiche del cinema: creare memoria e imbalsa‑ mare la storia, proteggendola contro chi vuole che si dimentichi, a co‑ minciare dal tempo. Il colpo di Stato, secondo film della trilogia della Battaglia, inizia esattamente con la stessa immagine della morte‑imbalsamazione e procede con una struttura lineare raccontando, senza alcun capitolo tematico, il periodo che va dal 29 giugno all’11 settembre 1973. “Il col‑ po di Stato è un film politico, ma più di questo, è un trattato di scienza politica sul tema centrale del titolo”, commenta Ruffinelli282. La dico‑ tomia del film precedente, tra borghesia insurrezionalista e classi po‑ polari, si trasforma nella dicotomia, interna alla sinistra, tra soluzione democratica o reazione violenta, con consegna delle armi al popolo e inizio di una guerra civile, come avrebbe voluto il MIR e parte del Partito Socialista. Sappiamo quale fu la soluzione scelta da Allende, ma purtroppo non evitò affatto una guerra civile in cui però il popo‑ lo non poté reagire e fu schiacciato, fisicamente e psicologicamente, dalla violenza militare. Allende continuò imperterrito e coerente nel perseguire la via democratica, fidandosi della lealtà dei militari e pen‑ sando di proteggersi inserendo alcuni di loro nel suo governo, tra cui Augusto Pinochet. Molti operai e intellettuali di sinistra non approva‑ rono questa decisione, ma comunque appoggiarono il compañero Pre‑ 281 282
A. Bazin, op. cit., p. 3. J. Ruffinelli, op. cit., p. 150.
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sidente in una manifestazione di sostegno con 800.000 persone che gridavano Allende, Allende, el pueblo te defiende! Al contrario di Al‑ lende, però, la cinepresa di Guzmán aveva già registrato “il vero volto dell’esercito fascista cileno” sia nella sequenza dell’uccisione del came‑ raman argentino sia in un’altra scena difficile da dimenticare: quel‑ la del funerale dell’ammiraglio navale del Presidente, Arturo Araya, morto assassinato. Lo seppellirono a Valparaiso con onori militari. Come nota Jacqueline Mouesca283, la camera attua un movimento pa‑ noramico soffermandosi sui volti dei partecipanti alla cerimonia fu‑ nebre: autorità civili e militari che, all’analisi odierna, non sembrano particolarmente sconvolti dalla morte dell’ammiraglio. Neanche lo stesso Guzmán era cosciente che quell’indifferenza facciale era detta‑ ta dal fatto che quella morte era stata progettata dagli stessi militari e che lui stava filmando la prova testimoniale del “tradimento” e del col‑ po di stato che, in quel momento, era già in fase di programmazione avanzata. Senza saperlo, Guzmán aveva filmato i militari “senza ma‑ schere”, realizzando la missione principale del cinema documentario, così come teorizzata dal regista sovietico Dziga Vertov: “L’importan‑ te è mostrare la gente senza maschere, riprendere con la camera il mo‑ mento preciso della verità, quando non si recita, quando non si è in una situazione di finzione, per scoprire ciò che accade, ciò che la gen‑ te pensa”284. Una missione che, d’altra parte, non è molto distante da quella della sociologia goffmaniana, che mira a svelare e analizzare le differenze tra scena e retroscena285. Guzmán, in fondo, già in El primer ano e poi ancora in L’insurrezione della borghesia e Salvador Allende aveva raccontato “il vero volto” dei militari, a partire dalle immagini che mostravano l’omicidio del generale René Schneider, colpevole – appena tre giorni dopo l’elezione di Allende e prima della sua inve‑ stitura ufficiale – di aver affermato che l’esercito avrebbe rispettato la Costituzione cilena, garantendo ad Allende, democraticamente elet‑ J. Mouesca, op. cit. D. Vertov, Articles, Journaux, Projects, Inédit Cahiers du Cinéma 10/18, Parigi, 1972. 285 E. Goffmann, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969. 283 284
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to, di andare al potere. Il suo brutale omicidio chiarì immediatamen‑ te che una parte dell’esercito non sosteneva Allende, tant’è che dopo il golpe anche il generale Prats, fedelissimo del Presidente, fu costretto a fuggire in Messico, dove però poco dopo fu raggiunto e assassinato da un commando composto da agenti della Cia e membri dell’esercito ci‑ leno286. Il film Il colpo di Stato termina amaramente documentando il tradimento dei militari e di Pinochet, il cui annuncio del golpe e del‑ la chiusura del Parlamento venne filmato da Guzmán riprendendo di‑ rettamente un televisore.
3.3 La memoria ostinata Dalla fine della Battaglia del Cile al film successivo passarono quat‑ tro anni: La rosa de los vientos287 del 1983 è il primo lungometraggio di finzione di Guzmán e, in chiave magica, racconta la lotta eterna tra gli indigeni d’America e i conquistatori. Il film, però, non fu un succes‑ so né per la sua carriera di regista di film di finzione né probabilmente per il suo tentativo di cercare la catarsi del trauma nel realismo magico. Nel 1986, infatti, torna sia al racconto del dramma della dittatura sia al genere documentario con En nombre de Dios288, film sul rapporto tra i militari e la Chiesa, in cui si esalta il lavoro di quei sacerdoti che si op‑ posero al regime, sostenendo la resistenza popolare. I media annuncia‑ rono il film come “l’insperata quarta parte della trilogia della Battaglia del Cile”, ma in realtà il documentario è molto diverso, con uno sti‑ le più classico, basato su vere e proprie interviste frontali. Il suo scopo però non è dissimile da quello perseguito, almeno in parte, nella Bat‑ taglia: raccontare il potere popolare e, questa volta, dimostrare la sua ca‑ pacità di sopravvivenza, perché è dimezzato, castigato ma comunque vivo. Negli anni successivi, Guzmán si dedica a due progetti televisivi Cfr. P. Mayorga, Il condor nero, Milano, Sperling & Kupfer, 2003. Cfr. J. Ruffinelli, La rosa de los vientos, in Id., op. cit. 288 Cfr. J. Ruffinelli, En nombre de Dios. Patricio Guzmán clandestino en Chile, in Id., op. cit. 286 287
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di documentari a puntate: Mexico precolombiano del 1987 e El proyecto ilustrado de Carlos III del 1988289. Del 1992 è un altro documentario televisivo, La Cruz del Sur, in cui riaffronta il tema religioso, perché racconta la storia dell’America attraverso il filo conduttore della reli‑ giosità, dai miti precolombiani ai colonizzatori spagnoli, dalle divinità africane fino ai teologi della liberazione. Le riprese durarono quasi un anno, durante il quale Guzmán con‑ dusse un’osservazione partecipata delle cerimonie indigene delle co‑ munità, dialogando approfonditamente anche con i vari capi religiosi: “Questa esperienza mi commosse e, in una certa maniera, cambiò il mio modo di essere. Una delle ragioni più importanti che mi porta‑ no ad amare il cinema documentario è che, alle volte, è una pratica di conoscenza”290. Il film raggiunge livelli estetici molto più alti rispetto agli altri documentari televisivi e con grandi e ricercati movimenti di macchina continua a raccontare la storia degli umili e degli ultimi, al‑ ternando con misura una narrazione emotiva con una razionale. Una maggiore maturità estetica di Guzmán si coglie anche nel successivo documentario del 1996, Pueblo en vilo, anche questo girato per la te‑ levisione, a partire da un libro dello storico messicano Luis Gonzalez su San José de Gracia, il suo piccolo paese natale, raccontato nelle sue trasformazioni sociali dalla conquista spagnola fino alla fine del No‑ vecento. Anche questo è un film sulla memoria: non quella trauma‑ tica del Cile, ma la memoria di un piccolo paese di settemila abitanti del Messico centrale. A essere interessante è l’attenzione filmica per la microstoria, per come gli abitanti del paese si auto‑rappresentano gli eventi accaduti e i cambiamenti sociali e identitari. Il film è una sorta di saggio su un paese, spesso ripreso secondo l’estetica della fotografia, con le persone che scambiano la cinepresa per macchina fotografica e si fermano in posa davanti a essa, mentre poi la camera continua a fil‑ mare e a registrare il contrasto tra stage e backstage. Nonostante anche nei film precedenti Guzmán fosse spesso in scena e davanti alla came‑ ra a porre direttamente le domande, in questo film per la prima volta è Cfr. J. Ruffinelli, Dos series de TV: 1. Mexico precolombiano 2. El proyecto ilustrado de Carlos III, in Id., op. cit. 290 J. Ruffinelli, Patricio Guzmán, cit., p. 344. 289
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lui il narratore fuori campo del film, dall’inizio alla fine, così come fa‑ rà poi nei successivi documentari. Nel Pueblo en vilo è fondamentale la presenza, sul campo di ricerca e in scena, dello stesso scrittore del li‑ bro, Gonzalez: è lui, infatti, che consente alla troupe l’accesso nelle ca‑ se e nei ricordi della gente del posto, riuscendo a creare quella fiducia reciproca necessaria in qualsiasi osservazione partecipata, tant’è che “la situazione creata assomigliava a quella degli etnografi che esploravano comunità indigene difficilmente accessibili”291. La funzione mnemo‑ nica di questo film è esplicitata da Guzmán che sostiene che “gli ulti‑ mi sopravvissuti di questa ribellione hanno interessato poco gli storici. Loro non fanno parte dell’epopea messicana”292. In questo modo, il re‑ gista vuole dimostrare che anche il discorso storico ufficiale ha le sue zone di amnesia, ma il cinema documentario può colmare questi vuo‑ ti, registrando i ricordi di chi è dimenticato dalla Storia, riaffidando al‑ la memoria la funzione di lotta contro la morte. Appena un anno dopo questo documentario, Guzmán tornò a San‑ tiago, desideroso di ricominciare la sua battaglia personale contro la memoria traumatica del Cile: una lotta lasciata in sospeso nel 1979 con l’ultimo capitolo della trilogia e che ora, a distanza di vent’anni e a dittatura finita, sentiva il dovere e la necessità di riaffrontare. Così, nel 1997 Guzmán torna nel Cile della democradura e gira La memoria ob‑ stinada, che può essere considerato non solo l’effettivo ultimo capito‑ lo della Battaglia del Cile, ma il film che racchiude in sé tutti gli altri e che quindi consiste in una sorta di summa del cinema guzmániano, ma anche un saggio sulla memoria, perché quasi tutti i soggetti filma‑ ti provano a darne una definizione e a spiegare come la memoria abbia inciso nelle loro vite. L’idea della memoria ostinata nacque innanzitutto come bisogno im‑ pellente di denunciare e raccontare l’amnesia imposta ai cileni. Nella sua eterna narrazione dicotomica della realtà, Guzmán decise di assu‑ mere il punto di vista delle vittime e raccontare l’ambivalenza della me‑ moria. È importante parlare di ambivalenza della memoria, perché essa è “l’unità della distinzione tra ricordare e dimenticare”, cioè tra ricorda‑ 291 292
Ivi p. 275. Ivi, p. 276.
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re e non‑ricordare293: “ricordare e dimenticare sono sempre inestrica‑ bilmente implicati l’uno nell’altro”294. Come tutti gli altri concetti che usiamo per descrivere il mondo, anche quello di memoria è “forma di una distinzione”295 tra un termine e la negazione di quel termine. Se‑ condo la prospettiva sistemica della Teoria della società296, osservare è indicare qualcosa e distinguerla da qualcos’altro (che non è): quando si usa un concetto, o si osserva qualcosa, si indica una parte della distin‑ zione e non l’altra, e viceversa; la parte non indicata, però, non viene repressa ma rimane in latenza, che è una forma di assenza della presen‑ za, qualcosa che è stata sottratta allo sguardo ma che c’è. Se tuttavia una delle due parti viene espansa eccessivamente, si può immagina‑ re – in modo metaforico – che si crei una frattura, come conseguenza dello spostamento del muro di confine che divide una parte della di‑ stinzione dall’altra: la parte che viene implementata, infatti, allarga il suo campo d’azione e restringe quello altrui, fino a poterlo negare com‑ pletamente. Questo rischio è molto reale in situazioni post‑traumatiche: se il ri‑ schio si trasforma in realtà il trauma non viene curato, ma anzi viene amplificato o raddoppiato, in quanto la negazione del primo trauma è simultaneamente produzione di un secondo trauma: in questo ca‑ so la memoria diventa negativa, cioè dominata dal trauma. È ciò che è avvenuto in Cile dopo la dittatura, perché con l’inizio della democra‑ zia il Paese ha imposto l’espansione di una sola parte della forma: il di‑ menticare. Così l’identità della memoria si è frantumata, perché essa ha smesso di essere unità della distinzione tra ricordare e dimenticare, identificandosi soltanto con il non‑ricordare. Al Cile è stata imposta la memoria come dimenticare: l’amnistia come amnesia. Così, mentre la memoria collettiva diventava insanamente oblio collettivo, altrettan‑ to insanamente la memoria individuale delle vittime, per autodifesa, Cfr. N. Luhmann (1997), Memoria, in Id., La sociedad de la sociedad, trad. es., Ciudad de Mexico, Herder, 2006, pp. 455‑470. 294 A. Assmann (1999), Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bo‑ logna, Il Mulino, 2002, p. 30. 295 N. Luhmann, R. De Giorgi, op. cit., pp. 61‑76. 296 Ivi. 293
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espandeva la memoria come ricordo. Ma quando “memoria indivi‑ duale” e “memoria collettiva”297 non coincidono affatto, si crea uno squilibrio nell’unità della distinzione della memoria, che finisce per di‑ ventare asimmetrica, strutturandosi come assolutizzazione di una sola parte: in Cile si è assolutizzato l’oblio nel pubblico e, tendenzialmente, il ricordo nel privato. Di conseguenza, sia in un caso sia nell’altro, il ri‑ schio è che l’identità di un Paese e quella di un individuo soccombano sotto il peso della propria memoria: sotto l’insostenibile leggerezza del‑ la propria amnesia nel caso del Cile e sotto il peso del proprio eccessi‑ vo ricordare nel caso delle vittime. L’ostinazione di Guzmán è consistita nel voler ricomporre l’unità della memoria, a partire da una ricostruzione pubblica della parte del ricordo. Infatti, soltanto se al ricordare viene pubblicamente ricono‑ sciuto il suo diritto a esistere, a essere parte di una memoria collettiva e condivisa, allora anche le vittime potranno rendere più salutare e sim‑ Gli studi sull’origine sociale della memoria, da Halbwachs in poi, hanno messo in luce come a ricordare non è mai solo l’individuo nella propria singolarità, ma è sempre un gruppo o la società di cui egli è membro. Per ricordare abbiamo bisogno degli altri. Questo perché i nostri ricordi, incluso i più intimi e personali, acquistano senso solo quando si condividono con una comunità affettiva e sociale. Non a caso Durkheim fu tra i primi scienziati sociali a parlare di “coscienza collettiva”, come un primo momento di costruzione della solidarietà sociale. Raccogliendo questa eredità di Durkheim, Halbwachs critica duramente le posizioni di Bergson rispetto alla pos‑ sibilità che la memoria sia un fatto individuale, una sorta di deposito virtuale nel quale permangono a livello inconscio le tracce del nostro passato, e dal quale l’individuo, attraverso operazioni di ri‑attualizzazione di immagini trattenute e conservate, trae di volta in volta – in relazione alle esigenze della vita quotidiana – i ricordi degli eventi trascorsi. L’idea bergsoniana della memoria come deposito rimanda alla metafora del magazzino, presente già nei dialoghi platonici. Come ricostruisce Weinrich, questa metafora spaziale è stata progressivamente sostituita da un’altra temporale: la metafora della tavoletta di cera o della lavagna. Ricoeur, invece, evita il ricorso a una metaforica della memoria e prova a costruire una fenomenologia della memoria che evidenzia il suo carattere processuale. Cfr. M. Halbwachs (1968), La memoria collettiva, Milano, Unicopli, 1987; E. Durkheim (1893), La divisione del lavoro sociale, trad. it., Torino, Einaudi, 1999; H. Bergson (1939), Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito, trad. it, Roma‑Bari, Laterza, 1996; H. Weinrich, Metafora e men‑ zogna: la serenità dell’arte, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1976; P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, cit. 297
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metrica la differenza tra ricordare e dimenticare, evitando che il trop‑ po ricordare si trasformi nel desiderio irrealizzabile di dimenticare. Il cinema di Guzmán, e La memoria ostinata in particolare, sono il ten‑ tativo di creare una simmetria tra memoria delle vittime e memoria dei carnefici, tra memoria individuale e collettiva, tra esigenza di dimenti‑ care e di ricordare. La memoria ostinata non è allora un voler imporre il ricordo, ma cercare di legittimarne l’esistenza e la dignità pubblica, affinché anche per le vittime il ricordare possa essere un atto voluto (anamnesi) e non una ossessione involontaria, una affezione patemica (mneme e pathos) da cui non ci si può liberare298. Il cinema di Guzmán osserva e cura le ombre, trasformando l’ossessione involontaria del ri‑ cordare nell’ostinazione volontaria di un’anamnesi intenzionata a esse‑ re vis299 che trasforma una memoria contesa in una memoria condivisa. Alla fine della dittatura, Guzmán aveva cercato invano di proietta‑ re e distribuire La Battaglia del Cile nelle televisioni e nelle sale cilene, ma non era un problema solo del suo film: “i canali delle televisioni so‑ no molto conservatori e hanno paura del racconto del reale. Durante nove anni di transizione e democrazia, nessun canale televisivo impor‑ tante ha trasmesso alcun documentario indipendente che parli di dirit‑ ti umani e degli episodi più conflittuali della storia recente”, dichiarò Guzmán. Un’idea più compiuta di che film fare sulla memoria ostina‑ ta avvenne, però, proprio in una delle prime proiezioni della Battaglia del Cile a Santiago, in una scuola di cinema. Alla fine della proiezione nessuno studente accese la luce dell’aula e tutti rimasero in silenzio, co‑ sì Guzmán ipotizzò che fossero tutti figli di famiglie di destra. Quando però accese la luce, si accorse che quasi tutti erano sconvolti e attoni‑ ti, e alcuni di loro piangevano. In quel momento capì che la struttura principale della Memoria ostinata doveva essere costruita intorno al‑ La distinzione tra mneme e anamnesi, cioè tra semplice ricordo (che sopravviene come pathos) e il richiamo come ricerca attiva è proposta da Aristotele in De memoria et reminiscentia. Cfr. Aristotele, Piccoli trattati di storia naturale, trad. it. R. Lau‑ renti, Roma‑Bari, Laterza, 1978. 299 L’idea della memoria non come semplice archiviazione, ma come vis, come “pro‑ cesso del ricordo soggettivo che fonda l’identità personale” si trova in: A. Assmann, op. cit., p. 29. 298
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la proiezione della Battaglia del Cile. L’idea era riportare in Cile la sua trilogia e osservare le reazioni dei cileni, sia di quelle stesse persone in‑ contrate e filmate negli anni del governo di Unidad Popular sia le nuo‑ ve generazioni che non erano neanche nate quando Allende era vivo. La memoria ostinata, quindi, sarebbe stata una rilettura della Battaglia del Cile, cercando una convergenza tra memoria individuale e memo‑ ria collettiva. L’idea, infatti, obbligava Guzmán ad assumere l’onere di rendersi soggetto e oggetto della narrazione: in un suo documentario autoriale, sarebbe stata la prima volta in cui avrebbe utilizzato la pro‑ pria voce, in prima persona, come commento extradiegetico. Ciò ini‑ zialmente lo agitò molto, ma poi cercò di lavorare sul testo della voce, utilizzando aggettivi e forme che evitassero una eccessiva personaliz‑ zazione. Come segnala il critico Carlos Flores, in questo film Guzmán “non cerca più di dar conto della realtà, né mira ad avere una funzione probatoria, come nei precedenti film”300. La sua preoccupazione è, in‑ vece, cercare di recuperare il filo rosso del suo cinema, per sanare l’a‑ simmetria traumatica tra ricordare e dimenticare, tanto quella privata (sua e delle altre vittime) quanto quella pubblica. Per Flores, non a ca‑ so, il documentario si basa su “un conflitto di opposti”: presente/passa‑ to, dentro/fuori, fotografia/pittura e vari altri, tra cui, appunto, quello tra ricordo e oblio. “La memoria e l’oblio”, sostiene infatti uno degli in‑ tervistati della memoria ostinata, “sono preoccupazioni onnipresenti, sono come il positivo e il negativo”. Il film si apre, ostinatamente, con le immagini del bombardamento della Moneda. Guzmán rimarca ancora il peso dei ricordi e l’impossibi‑ lità di cancellarli, ma proprio a causa della loro cancellazione pubblica. Dal film in bianco e nero si passa al film a colori: dal passato al presen‑ te. In un’intervista frontale, Juan, uno dei difensori del Palazzo presi‑ denziale, racconta con voce tenue l’11 settembre del 1973, il giorno del trauma, il giorno che divise la storia cilena – sia quella collettiva sia so‑ prattutto quella delle vittime – in un prima e in un dopo. E Juan, do‑ po quell’11 settembre non riuscì a uscire più da quell’11 settembre, che torna a ripresentarsi nei suoi ricordi senza abbandonarlo. Quel giorno D. C. Flores, Dispositivos narrativos del documental La memoria obstinada de Patricio Guzmán, cit.
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si sarebbe dovuto sposare e invece fu costretto a rimandare tutto a cau‑ sa del bombardamento. Immediatamente, tramite il racconto di Juan, Guzmán intreccia la storia individuale e quella collettiva, che conver‑ gono nell’impossibilità di realizzare un sogno. Poi entra in scena la vo‑ ce di Guzmán, che in modo molto distaccato e sintetico spiega chi era Juan e che cosa accadde quell’11 settembre, come se lo spiegasse per la prima volta nella sua vita a un pubblico che non ne sa niente e che lui intende riconnettere con la sua memoria e quindi con la sua identità. Per la prima volta dopo 23 anni, Guzmán e Juan rientrano nel Palazzo della Moneda, mentre continuano ad alternarsi immagini del passato e del presente; Guzmán spiega che Juan è uno dei tanti personaggi “ano‑ nimi” filmati durante la Battaglia del Cile, un documentario proiettato in 37 Paesi e vincitore di molti premi, ma mai proiettato pubblicamen‑ te in Cile: “per molta gente quella memoria è ancora nascosta”. Nelle successive interviste frontali, altre vittime sostengono che con chi non vuole ricordare è “impossibile parlare e fargli riacquistare il senso del‑ la realtà”. Invece, per le vittime della dittatura, la memoria è attiva con tutto il peso e il dolore del ricordare, anche se è un atto che non può es‑ sere immediato e richiede del tempo: “Quando hai una ferita in qual‑ che parte del corpo, c’è un momento in cui non puoi assolutamente toccarla, bisogna aspettare che si richiuda. Se la tocchi troppo presto, sanguina e si infetta”. Juan attraversa le stanze e i corridoi della Moneda e aspetta che i luo‑ ghi gli restituiscano la loro e la sua memoria, in una ri‑attualizzazione performativa del trauma. Poi Guzmán incontra il pittore José Balmes, che, come si è detto, sarà filmato nuovamente nel 2004 in Salvador Al‑ lende. Qui è l’occasione innanzitutto per una riflessione sulla memoria, ma anche sul rapporto tra cinema e pittura e tra cinema e fotografia, ri‑ spetto alla funzione baziniana di congelare il tempo. Balmes ha stampa‑ to tanti ingrandimenti di una foto storica, quella in cui alcune persone, che erano all’interno della Moneda, furono fatte uscire con le mani alzate dai militari: tramite questi ingrandimenti ha potuto dipingere diversi quadri per rappresentare il dramma dell’11 settembre, raggiun‑ gendo una “apertura” che non c’è nella foto e che invece la pittura e il cinema possono restituire, come sembrerebbero voler suggerire il pit‑ tore e lo stesso Guzmán. 158 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Nella sequenza successiva, Guzmán filma invece una banda di giova‑ ni ragazzi, a cui aveva chiesto una performance301: di camminare per le strade del centro di Santiago suonando la canzone Venceremos, che era l’inno di Unidad Popular. Lo scopo della sequenza era senz’altro osser‑ vare e filmare le reazioni della gente, ma anche, evidentemente, sfida‑ re l’imposizione dell’oblio e documentare pubblicamente questa sfida. Il carattere performativo del film stesso è evidente nella reiterazione di performance. Infatti, in un’altra sequenza, Guzmán riunisce e filma gli uomini della scorta di Allende, mentre nelle strade di Santiago accom‑ pagnano una automobile vuota. Questa scena a colori viene seguita, più avanti, dalla stessa scena in bianco e nero ripresa durante La Batta‑ glia del Cile: nella prima scena la macchina è vuota e nella seconda c’è Allende. Guzmán rimarca il senso del peso della memoria come “pre‑ senza di un’assenza”. In questi atti performativi, il regista cerca di ri‑attivare i ricordi a par‑ tire dalla reiterazione di gesti oppure dalla rivisitazione della memo‑ ria dei luoghi, come un sociologo visuale che filma lo stesso ambiente a distanza di tempo perché le immagini possano restituire le differen‑ ze302. Come accadrà nuovamente in Salvador Allende, Guzmán utiliz‑ za luoghi e oggetti per dotare la memoria di materialità: la memoria si fa pietra e spazio. Così Santiago stessa diventa una “topografia della memoria”303. D’altronde, la reiterazione di luoghi e gesti è un mecca‑ nismo tipico delle ricerche sociali sulla memoria, già utilizzato anche da Carmen Castillo, i cui documentari si avviano proprio a partire dal luogo della casa di Calle Santa Fé e dal centro di tortura di Villa Gri‑ maldi. Lo stesso Guzmán alterna continuamente immagini del passa‑ D. Flores, Dispositivos narrativos del documental La memoria obstinada de Patricio Guzmán, cit. 302 Per approfondire l’idea dei luoghi come veicolo della memoria, si veda: A. Tota, Le città della memoria: introduzione, in Id. (a cura di), La memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato, Milano, FrancoAngeli, 2001. 303 Il legame tra luoghi e memoria è presente anche nella visione della città di Benja‑ min. A suo avviso, il paesaggio urbano è un magazzino dei ricordi degli individui, ma anche un campo di battaglia di un passato che rimane aperto e suscettibile alla contestazione. Su questo si veda B. A. Misztal, Sociologia della memoria, trad. it., Milano, McGraw‑Hill, 2007. 301
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to e del presente e apre La memoria ostinata ritornando nel luogo del trauma collettivo, la Moneda, che presenta e rivisita però anche come luogo del trauma personale, suo e di Juan. Come si è visto in Salvador Allende, però, la dittatura ha cambiato la stessa struttura interna del‑ la Moneda per cancellare o trasformare la forma e la funzione di que‑ sto e di altri luoghi del trauma, come se in questo modo potesse anche cancellare o trasformare la memoria di un gruppo, distruggere il pote‑ re simbolico dei luoghi e della loro memoria. Un altro luogo di memoria, importante per Guzmán e migliaia di ci‑ leni, è lo Stadio Nazionale, dove lui e molti altri furono sequestrati po‑ co dopo il golpe, in attesa che si decidesse del loro destino. Guzmán rientra in quello stadio e lascia affiorare i ricordi, mentre filma i cara‑ bineros de Chile che nei corridoi interni dello Stadio si preparano per uscire nel campo e controllare le tifoserie di due squadre di calcio che si affrontano in una partita. Sui rumori e le grida da stadio si vedono alcune foto in bianco e nero, in cui, negli stessi luoghi appena visti, al‑ tri carabineros de Chile controllano i detenuti politici, impugnando dei lunghi mitra. In un’altra sequenza, Guzmán incontra Hortensia Bus‑ si, la moglie di Allende, che – come si è visto – filmerà anche sette anni dopo in Salvador Allende. Hortensia viene osservata in modo intimo, nella sua veste privata, non tanto come moglie del Presidente, ma come donna a cui hanno ucciso il marito e saccheggiato tutti i suoi oggetti, lasciandola senza alcuna traccia del passato. Questo svuotamento for‑ zato degli oggetti rappresenta anche il tentativo forzato di svuotamen‑ to della memoria, attuato dai militari perché si azzerasse ogni traccia dell’identità familiare: «Lei mi chiede degli album fotografici di famiglia… Se c’è qualcosa che mi indigna è che mi hanno tolto anche i numerosi album di fo‑ tografia che custodivo. Perché non posso averli? Perché non me li re‑ stituiscono? Non posso neanche mostrarli ai miei nipoti. Non ho più niente di personale. Mai ho potuto regalare a un mio nipote…questo orologio che fu di tuo nonno, questo maglione, questa cravatta. Nien‑ te. Non mi resta neanche una sola cosa, né mia né sua».
In queste parole la testimonianza dello svuotamento della memoria di‑ venta anche memoria di un’ingiustizia che continua a essere tale nel 160 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
tempo: “Perché non posso averli? Perché non me li restituiscono?”. La testimonianza di un’ingiustizia ininterrotta dalla democrazia diventa allora anche richiesta di giustizia, che è poi il senso, neanche troppo la‑ tente, della memoria ostinata di Guzmán e di tutte le vittime. Dopo Hortensia Bussi, Guzmán cerca dentro la propria memoria fa‑ miliare e va a incontrare lo zio Ignacio Valenzuela, di 86 anni, all’epoca l’unico sopravvissuto della sua famiglia. Ma lo zio non è solo l’uni‑ co rappresentante e testimone dell’identità familiare del regista, è so‑ prattutto colui che nel 1973 custodì le bobine della Battaglia del Cile, consentendo che quella memoria impressionata su pellicola potesse di‑ ventare memoria storica e culturale, documento di patrimonio univer‑ sale. In alcune delle sequenze più emozionanti della Memoria ostinata, Guzmán accresce l’intensità emotiva con le note di Chiaro di luna, che in questa scena scopriamo essere suonate al piano proprio da suo zio. Questo, d’altra parte, è il primo film (non su commissione) di Guzmán con una colonna sonora ed è emblematico che la suoni un suo paren‑ te, quasi ad accentuare – con l’uso della musica e del suo autore – l’in‑ timismo di questo film, in cui Guzmán stesso diventa un io‑memoria, che intreccia privato e pubblico, come già aveva provato Carmen Ca‑ stillo in La flaca Alejandra. “Che cosa significa per te ricordare?”, chie‑ de Guzmán allo zio: “Tornare indietro. Se si torna a guardare ciò che è successo, realmente lo si può vedere”. Qui si coglie tutto il valore ag‑ giunto di una ricerca visuale che concretamente fornisce immagini al‑ la memoria, rende visivo il ricordo. Dopo le parole dello zio, la musica di piano accompagna una sequenza in bianco e nero, in cui il regista realmente fa vedere la memoria storica, una folla enorme che manifesta a sostegno di Allende. In questa ricostruzione della memoria familiare, rientra anche il ri‑ tratto di Jorque Muller, il direttore della fotografia della Battaglia del Cile, desaparecido insieme a sua moglie. Il padre di Jorque quasi non riesce a parlare sopraffatto dall’emozione, mentre un amico confessa, e conferma, che le vittime spesso cercano in tutti i modi di negare i ricor‑ di, quasi fosse una necessità per sopravvivere e non soccombere sotto il peso del proprio ricordare. Ma questa necessità apparente può risultare fatale, perché la rimozione del trauma non fa che amplificarlo: “Il mio errore è stato quello di negare il dolore. Non mi sono dato abbastanza 161 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
tempo per piangere”. Ma allo stesso modo – come si è già detto –, an‑ che l’eccessivo e involontario ricordare può essere una trappola per una vittima, per chi è assediato da ricordi che non può liberare rendendoli pubblicità e giustizia. Nel suo “saggio” filmico sulla memoria, Guzmán incontra allora l’attore e regista Ernesto Malbran, che prova a chiari‑ re cosa sia per lui la memoria e quale trappola nasconda per le vittime: «Innanzitutto, bisogna dare una definizione della parola memoria. Il termine ricordare viene dal latino re e cordum, cuore. Re che signifi‑ ca tornare a, cioè tornare a passare dal cuore per svegliarsi di nuovo. Tuttavia, questo viaggio di andata e ritorno della memoria nasconde una trappola. Perché la memoria accumula tutti i momenti importanti della vita, come se fossero degli specchi. La trappola consiste nella pos‑ sibilità di non riuscire a liberarsi dalla contemplazione di queste im‑ magini e così si comincia a maneggiare questi specchietti, a giocarci»
Le sequenze più intense emotivamente e interessanti sociologicamen‑ te sono però proprio quelle che ispirarono l’idea del film: Guzmán che fa vedere o ri‑vedere foto d’epoca e soprattutto La Battaglia del Cile, secondo la tecnica della photo o video‑elicitation, una metodo‑ logia costantemente utilizzata nel corso della storia delle ricerche vi‑ suali e anche nel cinema, come per esempio da Jean Rouch e Edgar Morin nel film Cronique d’un été304. L’intento di questo tipo di ap‑ proccio è trasformare la partecipazione in una strategia di ricerca, in cui si prova un ribilanciamento di potere tra osservatore e osserva‑ to, in quanto è come se il regista‑ricercatore e i soggetti delle riprese stessero entrambi dietro e davanti la camera. In questo modo, la ricer‑ ca viene decolonizzata, cioè liberata dall’individualità “colonizzatrice” del ricercatore305. La tecnica della photo‑elicitation fu sperimentata da Collier e ripresa e ampliata sia da Harper sia da Helen Stummer. “Essa consiste nella discussione di fotografie e filmati con i protagonisti stessi delle immagini, e consente da un lato di arricchire, mediante lo stimolo delle foto e dei filmati, un’intervista libera, una life‑story; e dall’altra, di analizzare in profondità e di verificare la congruenza e l’utilità delle immagini”; è una tecnica molto utile per comprendere i mutamenti dell’auto‑rappresentazione di sé da parte di un individuo o di una comunità. Cfr. F. Mattioli, op. cit., pp. 171‑172. 305 A. Frisina, op. cit., p. 109. 304
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Per mostrare la pellicola e creare un dibattito intorno a essa, Guzmán chiese l’autorizzazione a quaranta scuole e università di Santiago, ma so‑ lo quattro accettarono: “Le altre – ricorda il regista – mi dissero che i ragazzi si sarebbero potuti traumatizzare e che il passato era meglio dimenticarlo”306. Le sequenze in cui Guzmán adotta questa metodolo‑ gia sono collocate in diversi punti del film e distinte sulla base del focus group selezionato, fino però a utilizzarne una di queste proprio nel fi‑ nale. In questi incontri, Guzmán decide di proiettare solo le prime due parti della Battaglia del Cile, concentrandosi quindi sulla memoria trau‑ matica e omettendo il film Il potere popolare: ciò che gli interessa, eviden‑ temente, è soprattutto la reazione dei giovani al trauma, soprattutto per comprendere quale memoria sia stata loro trasmessa dalla scuola e dalla famiglia. Alla fine della proiezione, alcune ragazze delle scuole superiori discutono se il golpe fosse giusto o ingiusto. Come in un laboratorio so‑ ciale, Guzmán riesce a registrare prospettive e argomentazioni differenti, che variano dalla giustificazione all’indignazione nei confronti del golpe, in una scala graduale che muta al mutare del contesto sociale e culturale di provenienza. Le differenti opinioni e certezze degli studenti perdono im‑ provvisamente il proprio equilibrio quando una loro professoressa, con voce afflitta, prova invece a togliersi la maschera e a fare un mea culpa che, in fondo, è quello che il film e tutte le vittime vorrebbero dai militari e da tutti coloro che sostennero il golpe materialmente o ideologicamente: «Per me è stato molto forte e emozionante tornare a questa tappa storica, tornare a quel momento. All’epoca io ero iscritta all’Universi‑ tà, e partecipai anche… Non ero propriamente di destra, ma in qual‑ che modo ero convinta che in Cile era meglio che qualcosa accadesse, perché le cose non potevano continuare com’erano. Mi sbagliai. Mi sbagliai… in questo momento la penso in altro modo. È duro ricono‑ scere di essersi sbagliati, soprattutto per il costo che questo sbaglio ha significato. Io ti posso dire che nel momento stesso del golpe, la matti‑ na che accadde, io ero allegra, ma perché in quel momento non avevo coscienza di cosa avrebbe comportato successivamente».
In questa sequenza, diventa evidente la funzione del film: “Più che ri‑ cordare, La memoria ostinata, performativamente, fa ricordare: è ‘con‑ 306
J. Ruffinelli, op. cit., p. 301.
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ducente’ e transitiva. Porta i personaggi a costruirsi propri montaggi interpretativi tramite associazioni vivide di ricordi”307. Ma la scena mostra anche la capacità di Guzmán, grazie alla confessione della pro‑ fessoressa, di rendere complesso il concetto stesso di memoria, anche attraverso questi movimenti arditi sul confine tra memoria autoac‑ cusatoria e autoassolutoria: “Già due giorni dopo il golpe – prova a giustificarsi alla fine la professoressa – il mio punto di vista era però as‑ solutamente diverso. E con il tempo, ovviamente, lo è stato ancor di più”. In fondo, in aula ci sono anche i suoi studenti e la professoressa non può completamente delegittimarsi davanti a coloro che tramite il film di Guzmán sono riusciti a identificarsi con il trauma delle vittime. Il finale del film è preceduto dalle immagini dello zio di Guzmán, che passeggia in un giardino di Santiago, soffermandosi davanti al Me‑ moriale delle vittime, un gigantesco muro di marmo su cui sono incisi tutti i nomi delle migliaia di morti e desaparecidos ufficialmente rico‑ nosciuti dalla Commissione di Verità e Riconciliazione. Le note del Chiaro di luna amplificano il dolore già insito nelle immagini. La se‑ quenza finale del film, però, è una nuova proiezione della Battaglia del Cile, questa volta con gli studenti di una scuola di teatro gestita dall’at‑ tore e amico Ernesto Malbrán. Guzmán sa di essere davanti a un pub‑ blico che per provenienza sociale e formazione culturale può essere il destinatario più appropriato del suo film: una nuova generazione di ci‑ leni pronta a identificarsi con il trauma delle vittime e a prenderne il testimone, per provare anche a riscrivere la terza parte del film, Il po‑ tere popolare, magari riprendendo in consegna anche il sogno desapa‑ recido, quel futuro immaginato in passato e soffocato nella violenza della dittatura. Guzmán è finalmente davanti alla sua nuova “comu‑ nità mnemonica”308, a una generazione orfana tanto del giudizio sto‑ N. Richards, La memoria obstinada (1996) de Patricio Guzmán, in “Revista de Critica Cultural, n. 15, 1997, p. 56. 308 Secondo Eviatar Zeruvabel, il ricordo può essere pensato come un’attività di speci‑ fiche comunità mnemoniche, guidata da particolari norme della rimembranza. Tali nor‑ me fondano dei modelli che, a loro volta, costituiscono forme di autorappresentazione di una certa identità. Cfr. E. Zeruvabel (2003), Mappe del tempo. Memoria collettiva e costruzione sociale del passato, trad. it., Bologna, Il Mulino, 2005. 307
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rico quanto di quello giuridico309. La memoria con cui si confronta qui Guzmán può essere definita una post‑memoria, non solo perché è ereditata e tardiva, ma soprattutto perché il termine indica il tem‑ po trascorso per la sua ricomposizione e fruizione da parte di nuo‑ vi soggetti che non hanno avuto alcuna esperienza di quel passato: la post‑memoria “caratterizza le esperienze di coloro che sono cresciuti dominati da narrazioni che precedono la loro nascita, da storie tardive spesso rimosse, evacuate, dalle narrazioni della generazione preceden‑ te, colpita da eventi traumatici che non possono né essere compresi, né ricreati”310. In questo contesto, l’utilizzo della video‑elicitation è fon‑ damentale per consentire una figurazione e mediazione del passato, in modo da renderlo meno diretto e eccessivamente traumatizzante per una sua ri‑elaborazione discorsiva. È una nuova memoria generazio‑ nale quella a cui Guzmán ora affida la catarsi del passato e le speranze per il futuro. Al termine della proiezione, un lungo silenzio avvolge la sala, mentre la cinepresa filma diversi occhi gonfi di lacrime: in cinque prendono la parola. Prima una ragazza, con voce quasi tremante, vuole evidenziare il suo “orgoglio per il proprio popolo”, per chi ha lottato e grazie al film di Guzmán può continuare a parlarci dell’importanza di quella lotta. Un altro ragazzo, invece, prova a sfogare la sua rabbia nei confronti dei militari e di tutti coloro che sostennero la dittatura. Un altro studen‑ te ammette in lacrime che gli costa molto ricordarsi quell’11 settembre e pensare a lui bambino che saltava felice sul letto perché non sarebbe andato a scuola. Un altro, infine, prova a parlare ma il pianto lo invade e non gli consente di pronunciare alcuna parola. Le conclusioni finali del film sono affidate al volto e alle parole di Ernesto Malbrán, che in Secondo Misztal, “una generazione è un prodotto della memoria: è il ruolo per‑ formativo dei ricordi e degli eventi storici avvenuti nel periodo dall’adolescenza alla maturità di un gruppo di individui. La memoria del passato è sempre intersoggettiva […] comunque la memoria generazionale è storica non solo perché consiste nella remi‑ niscenza di momenti storici: è storica soprattutto perché è imposta da fuori e subito dopo violentemente interiorizzata”. Cfr. Misztal B. A., Sociologia della memoria, trad. it., Milano, McGraw‑Hill, 2007, p. 109. 310 M. Hirsh, Family Frames. Photography, Narrative and Postmemory, Cambridge, Harvard University Press, 1997, p. 22. 309
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primo piano si rivolge direttamente alla cinepresa, in un finale che sa‑ rà poi rievocato dal finale di Salvador Allende, in cui ancora una volta Guzmán cercherà nella poesia delle parole la catarsi definitiva: «Io credo che questo [i tre anni di governo Allende] fu un sogno di giustizia. Quel sogno non si è realizzato. Ero felice di far parte di que‑ sta nave di pazzi. In questo momento difficile, in cui sono caduti i modelli e le ideologie servono ormai a ben poco, dobbiamo assumere il compito di costituirci immagine vivente, affinché i giovani – che cercano dappertutto dove potersi aggrappare – sappiano che questo non è un naufragio ma una piccola scossa di terremoto. Nient’altro».
Malbrán dice innanzitutto che il sogno di giustizia non si è realizza‑ to ed è per questo che ha senso che Guzmán parli delle memorie del futuro: la dittatura, infatti, ha annientato migliaia di persone ma solo perché erano portatrici di un sogno che viveva nelle loro menti e sulle loro gambe. L’obiettivo di tanta violenza era far sparire quel sogno al‑ lendista di un mondo più giusto. La seconda cosa che Malbrán indi‑ rettamente ammette è che quel sogno è caduto insieme ai muri e alle ideologie, di cui si provano a nascondere anche le ceneri, perché nessu‑ no possa più ricordarsene. I giovani, quindi, sono stati privati di qualsiasi modello di orienta‑ mento dell’agire, se non il consumo, come aveva fatto notare in pre‑ cedenza Guzmán. Ma Malbrán‑Guzmán non vuole lasciare le nuove generazioni solo con il peso di questa sconfitta, di questa memoria del futuro mai realizzata e quindi afferma che è stata solo “una picco‑ la scossa di terremoto” e che nella sua generazione troveranno sem‑ pre l’immagine vivente della memoria di quel sogno. E il cinema di Guzmán rappresenta proprio l’immagine vivente della memoria trau‑ matica del Cile, ma anche della memoria del futuro della generazio‑ ne di Allende. Dal volto di Malbrán, Guzmán stacca sull’immagine di suo zio che, dandoci le spalle, cammina in una strada alberata di Santiago, allonta‑ nandosi sulle note di Chiaro di luna. Lo zio è l’ultimo custode dell’i‑ dentità familiare del regista, ma è soprattutto il salvatore della memoria culturale registrata sulla pellicola della Battaglia del Cile. La memoria del futuro cede la strada al futuro della memoria: alle nuove generazio‑ 166 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ni che dovranno assumere l’arduo compito di diventare militanti della memoria e del sogno allendista.
3.4 La memoria della (in)giustizia In tutti i film di Guzmán, e in La memoria ostinata in particolare, il racconto del trauma e del sogno è, indirettamente, anche un raccon‑ to della memoria dell’ingiustizia subita: l’ingiustizia di “un sogno di giustizia” soffocato nella tortura e di una memoria traumatica negata e mai resa pubblica come memoria condivisa. Ma fino alla fine degli an‑ ni Novanta, il racconto guzmániano dell’ingiustizia è quasi sempre la‑ tente, come il filo rosso invisibile che unisce tutti i suoi film. Guzmán non parla quasi mai direttamente di tortura né di ingiustizia, perché è come se da una parte avesse pudore nel narrare qualcosa di inenarrabi‑ le, ma dall’altra è come se fosse anche solo banale nominare la giusti‑ zia davanti alla mostruosità degli atti commessi. Del resto, la giustizia è come la memoria, unità di una distinzione: quella tra giustizia e ingiu‑ stizia. Quindi parlare dell’una è anche parlare dell’altra, della presen‑ za di un’assenza. Perché la giustizia è la grande assente della memoria pubblica cilena. Ma laddove si cerca di denunciare l’ingiustizia, in fon‑ do si parla sempre e solo di giustizia, che ovviamente non indica ciò che è moralmente giusto, ma ciò che è legalmente previsto come lecito o come illecito. La memoria della giustizia cilena ci dice che il Cile ha deciso di non decidere, di scegliere per l’amnistia come imposizione di un’amnesia generalizzata. Tuttavia, nel 1998 accade qualcosa di assolutamente imprevisto che porta Guzmán a decidere di provare a raccontare la (in)giustizia in modo diretto: Augusto Pinochet decide di prendere un aereo per Lon‑ dra e farsi operare in una clinica inglese. Evidentemente, il giaguaro del sudamerica – nella sua corsa verso il progresso neoliberista – dove‑ va essersi lasciato indietro la sanità. La presenza di Pinochet in Europa riaprì improvvisamente il dibattito su un criminale che non solo non era stato processato, ma continuava a essere Senatore a vita e Coman‑ dante delle Forze Armate. Non a caso, il 13 settembre 1995, Augusto 167 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Pinochet organizzò e partecipò alla celebrazione del ventitreesimo an‑ niversario del Colpo di Stato: non un ricordo di Allende e della sua morte, ma dell’inizio della dittatura militare! In questa occasione, Pi‑ nochet volle precisare quale dovesse essere l’unico atteggiamento da te‑ nere nei confronti del passato, in una sorta di avvertimento ai militanti della memoria: «È meglio starsene calmi e dimenticare. È l’unica cosa che dobbia‑ mo fare. Dobbiamo dimenticare, e questo non succede se si aprono processi o mandando la gente in prigione. DI‑MEN‑TI‑CA‑RE: questa è la parola. Le due parti debbono dimenticare e continuare a lavorare»311.
L’obiettivo di Pinochet era delegittimare i lavori della Commissione di Verità e Riconciliazione ed evitare che potesse indurre qualcuno a pro‑ vare un impulso di ottimismo e a impegnarsi non solo come militan‑ te della memoria, ma anche come militante della giustizia, provando a istituire processi contro l’ex giunta di Pinochet. Forte del suo ruolo in Parlamento e come capo dell’esercito, Pinochet sostenne sempre il rifiuto stesso dei militari di comparire davanti alla Commissione, an‑ che se si trattava di una semplice audizione. Non dovevano collabo‑ rare neanche alla costruzione di una memoria condivisa: la memoria traumatica era e doveva rimanere negata e contesa. Tant’è che, per por‑ re fine alle richieste di giustizia, i militari chiesero e ottennero dal Par‑ lamento la Ley del punto final, che concesse loro la già citata amnistia. Quella della giustizia era sempre apparsa, probabilmente anche a Guzmán, come una battaglia già persa, il cui eventuale racconto avreb‑ be solo amplificato il trauma. Nel 1998, però, si creò un’occasione uni‑ ca per provare a rimettere in discussione il tema della giustizia e per provare a raccontarlo: inaspettatamente Pinochet fu arrestato e posto agli arresti domiciliari, dopo un mandato emesso dal giudice spagno‑ lo Baltasár Garzon per crimini contro l’umanità, che includevano la tortura di oltre 90 cittadini spagnoli. La realtà, inaspettatamente, sta‑ va scrivendo un nuovo capitolo della storia cilena e Guzmán non pote‑ va esimersi dal compito di narrare la memoria della giustizia. Così, con 311
C. Demaria, Il trauma, l’archivio e il testimone, cit., pp. 226‑7.
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l’ostinazione di sempre, si attivò per filmare il suo nuovo documenta‑ rio: Il caso Pinochet (2001)312. Il film è un’importante ri‑scrittura storica, perché non solo raccon‑ ta la Storia, ma interviene su essa: il documentario, infatti, diventò un elemento del giudizio, tanto legale quanto etico, esercitando una for‑ te influenza sull’opinione pubblica e quindi sul presente. Ancor prima dei titoli, il film apre con un preambolo in cui la memoria traumatica viene trasformata immediatamente in reperto giuridico: il giudice cile‑ no Juan Guzmán è nel deserto di Atacama, nel nord del Cile, e assiste agli scavi per individuare fosse comuni, da dove emergono i resti di al‑ cuni desaparecidos, come chiarisce il commento fuori campo del regi‑ sta. Pian piano si presentano davanti alla cinepresa alcuni familiari di desaparecidos e il documentario registra le loro testimonianze, che fi‑ nalmente potranno non essere più solo memoria privata, ma prova giu‑ ridica, strumento per chiedere al diritto il riconoscimento della verità e l’attuazione della giustizia nella forma di una pena. Nella preoccupazione di descrivere il caso Pinochet in modo sempli‑ ce e chiaro, il documentario di Guzmán è forse il più austero di tutta la sua cinematografia, ma è anche quello in cui l’inenarrabile prova a es‑ sere finalmente narrato, perché sa di poter essere riconosciuto. Il film adotta una struttura narrativa divisa in sette capitoli: 1. l’investigazione giudiziaria; 2. il racconto di Joan Garcés, avvocato spagnolo difensore delle vittime; 3. il commento fuori campo di Guzmán sulla funzione della Chiesa Cattolica cilena nel fornire informazioni sui desapareci‑ dos e nel denunciare violazioni dei diritti umani (riprendendo un tema già affrontato in En nombre de Dios); 4. il racconto dell’avvocato spa‑ gnolo Carlos Castresana, che avviò la querela contro Pinochet e trovò i fondamenti giuridici per stabilire la competenza spagnola del caso; 5. diversi testimoni sullo sviluppo del giudizio di estradizione; 6. diversi testimoni, vittime dirette o familiari di desaparecidos; 7. manifestazio‑ Tra La memoria ostinata del 1997 e Il caso Pinochet del 2001, Guzmán girò solo La isla de Robinson Crusoe, un documentario di 42 minuti prodotto su commissione: era parte di un progetto collettivo in cui ogni regista coinvolto avrebbe dovuto scegliere un luogo del mondo da filmare in solitaria, senza l’aiuto né di un fonico né di un cameraman.
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ni londinesi di cileni favorevoli e contrari a Pinochet e, infine, la visita di Margaret Thatcher all’ex dittatore. Quest’ultima sequenza, sebbene non girata dalla troupe di Guzmán, è una di quelle che indignano mag‑ giormente, acuendo la memoria dell’ingiustizia. La Thatcher si fece fil‑ mare appositamente dalle televisioni con lo scopo propagandistico di sostenere pubblicamente l’ex dittatore: “So quanto vi siete impegnati per aiutarci durante la guerra delle Falkland, fornendoci informazioni e anche riparo per le nostre forze armate”. La sequenza si integra per‑ fettamente nel film di Guzmán, rivelando tutta la sua potenza storica, perché – inserita nel montaggio dicotomico del documentario – assu‑ me un senso opposto rispetto a quello che era nelle intenzioni propa‑ gandistiche. È la tragedia che si trasforma in commedia, in cui tanto la persona di Pinochet quanto quella della Thatcher si autoridicolizzano in una messa scena, che affiancata al dolore delle vittime, rivela tutta la sua natura grottesca. Il cuore del documentario di Guzmán è rappresentato però dalla te‑ stimonianza delle vittime il cui racconto delle violenze subite consente anche di tracciare una mappa del potere militare, delle sue strategie, dei suoi dispositivi di addomesticamento o di annientamento: Guzmán convoca queste vittime e le dispone davanti alla cinepresa, riuscendo nella capacità di rendere le storie individuali e soggettive rappresen‑ tative di storie collettive. In tal modo, come in una ricerca sociologi‑ ca qualitativa, “ogni racconto diventa singolare e plurale allo stesso tempo”313. Tra queste interviste in profondità con le vittime colpisce innanzitutto il racconto soggettivo e universale di Cecilia che descrive la solidarietà tra i detenuti, che per provare a sopravvivere all’animaliz‑ zazione del potere fingevano di parlare al telefono tra loro da una cella all’altra, per immaginare di tenere vivo il senso di una comunicazione umana, di trovare qualcuno con cui condividere e ritrovare una pro‑ va della propria umanità. Altri intervistati ricostruiscono invece le tec‑ niche di tortura dal “sottomarino secco” al “telefono”, un apparecchio che veniva sbattuto violentemente contro le orecchie, facendo diven‑ tare facilmente sordi. Particolarmente significativa è anche la memoria di Nelly, della sua speranza di tornare a vedere suo marito desapareci‑ 313
J. Ruffinelli, Patricio Guzmán, cit., p. 329.
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do, incarnata da una valigia di suoi abiti che rimase in casa e che lei mai riuscì ad aprire, come se fosse una traccia sacra della presenza del mari‑ to, ma intoccabile come una ferita ancora aperta. E poi la testimonian‑ za di Gabriela, torturata e violentata e ora indisponibile a perdonare o a dimenticare chi non chiede perdono e non accetta di riconoscere la verità delle vittime. Nel frattempo il documentario continua a descrivere la vicenda lon‑ dinese di Pinochet, fino a chiarire che il governo del Cile si oppose al‑ la sua estradizione in Spagna e al suo processo. Racconta i sedici mesi di battaglia legale all’interno della Camera dei Lord, che poi negò a Pi‑ nochet l’immunità diplomatica, concedendo l’estradizione. Nella sua seconda pronuncia, però, la Camera dei Lord ritirò la decisione prece‑ dente e negò l’estradizione “per ragioni umanitarie”, legate alle preca‑ rie condizioni di salute dell’ex dittatore. Dopo quasi due anni di arresti domiciliari, Pinochet poté ritornare in Cile da uomo libero. Guzmán filma il suo rientro in patria: appena portato giù dall’aereo, Pinochet si alzò velocemente dalla sua carrozzina, “come Lazzaro”, e camminò incontro a una giunta militare che lo accolse con il suono di una ban‑ da e con tutti gli onori militari. Due giorni dopo, però, il giudice ci‑ leno Juan Guzmán chiese alla Corte d’Appello di togliere a Pinochet l’immunità parlamentare: con 13 voti a favore e 9 contrari passò la ri‑ chiesta del giudice e Pinochet venne finalmente inquisito, ma – co‑ me precisa la voce fuori campo del regista – i suoi avvocati difensori chiesero e ottennero di affidare la decisione alla Corte Suprema, no‑ nostante l’impazienza dei familiari delle vittime. Questi ultimi, infatti, vengono mostrati all’esterno del Tribunale, mentre gridano il loro do‑ lore ai giornalisti, contenuti da un cordone di forze dell’ordine: «Che i militari abbiano il coraggio di dirmi che è una menzogna! Che riconoscano di averlo ucciso e fucilato! E che dopo averlo fucila‑ to, gli aprirono lo stomaco, lo riempirono di pietre e poi lo lanciarono in mare da un aereo, dopo averlo torturato nella FACH [Forze Arma‑ te del Cile]! Lo dico a volto scoperto, senza vergogna e orgogliosa di essere figlia di mio padre! Mi rivolgo ai figli di Pinochet: perché non sono qui?! Come possono non vergognarsi del proprio padre che è un criminale! Io do il mio volto e il mio nome: Rosa Silva, figlia di Mario Silva. Chiedo a questo Paese che si faccia giustizia!».
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È uno dei momenti più emozionanti del film. La voce della donna trema dal dolore e dalla rabbia, eppure grida tutto il suo sdegno e la differenza tra due comunità mnemoniche: da una parte la comunità pinochettista dei militari e dei loro figli che si nascondono e non rico‑ noscono la verità storica e, dall’altra, la comunità allendista che invece va in strada a volto scoperto, senza vergognarsi del proprio nome e del‑ la propria identità familiare. La lotta dei padri diventa ora la lotta dei figli che ereditano e difendono la memoria familiare, in una trasmis‑ sione generazionale in cui finalmente è possibile separare chi può pro‑ vare orgoglio del proprio passato da chi dovrebbe provare vergogna. Il 7 agosto del 2000 la Corte Suprema confermò l’espulsione di Pi‑ nochet dal Parlamento: finalmente poteva essere processato. Il giudice Juan Guzmán lo interrogò per mezz’ora, ma Pinochet negò ogni accu‑ sa e diede tutta la responsabilità ai suoi sottoposti. Ma la voce del regi‑ sta nasconde il suo entusiasmo nel dire, con tono pacato e asettico, che «La giustizia cilena era più vicina alla detenzione di Pinochet. In que‑ sta stessa epoca la prima statua di Allende fu posizionata a Santiago. Il 7 gennaio del 2001, l’esercito riconobbe di aver eliminato 180 so‑ stenitori di Allende, molti dei quali lanciandoli nel mare. Per la prima volta, i militari ammettevano un crimine, dopo aver mantenuto un si‑ lenzio di quasi trent’anni. Salvador Allende, il capo di Stato tradito da Pinochet, fu cancellato dalla Storia durante il regime militare, ma la sua immagine ha accompagnato le vittime e dato forza a chi lottava. Il 29 gennaio del 2001, il giudice Juan Guzmán ordinò l’arresto di Pino‑ chet e promulgò un ordine di processo penale. Pinochet fu giudicato colpevole e fu detenuto nella sua casa. Davanti al Palazzo di governo la statua di Allende fu collocata»314.
Guzmán filma la lavorazione, il trasporto e l’istallazione della statua di Allende, in una sequenza poetica e catartica. Il simbolo di un sogno ri‑ voluzionario è finalmente ripristinato, come la memoria delle vittime che ora torna a essere pubblica e condivisa in una piazza centrale di Santiago, proprio davanti alla Moneda. Allende e la sua memoria sono Pinochet è morto il 10 dicembre del 2006, a 91 anni, senza aver mai affrontato un processo vero e proprio.
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tornati nella propria dimora. E anche Guzmán sembra aver chiuso il cerchio del suo girovagare filmico. Il Cile non è più un’isola frammen‑ tata in tante piccole isole disperse e la sua memoria storica e culturale non è più una nave in naufragio, ma può tornare in porto. Anche il ci‑ nema di Guzmán, finalmente, ha ripristinato l’ordine degli eventi, li ha analizzati e giudicati, consentendo alle vittime di giungere a un epilo‑ go di non‑sconfitta. La conclusione del film, e il senso di un lungo per‑ corso filmico che sembra chiudersi, è affidata alle parole di due donne. La prima rimarca innanzitutto l’idea che, nella trasmissione generazio‑ nale della memoria, i “vincitori” della Battaglia del Cile diventeranno i vinti della Storia: «Credo che abbiamo vissuto una storia dura, però… però siamo vivi! Io credo che, nonostante tutto, non ci abbiano privato della possibi‑ lità di essere felici. È incredibile, perché può sembrare contradditto‑ rio, ma dopo tanto dolore si può anche essere felici. Ogni volta che incontro degli agenti della polizia speciale o dei militari o qualcuno che ha partecipato come carnefice, io dico sempre: “Voi non ci avete ammazzato, non ci avete tolto la vita. Sicuramente abbiamo provato molto dolore, ma continuiamo a vivere. E noi abbiamo qualcosa di molto importante che voi non avete: noi abbiamo l’orgoglio di ciò che siamo stati, mentre voi dovete solo vergognarvi di ciò che siete stati e avete fatto. Forse non lo farete, ma i vostri figli sì che si vergogneran‑ no, mentre i nostri no. E questo è l’importante”».
L’importante è che almeno davanti al tribunale dell’opinione pubblica e della Storia i carnefici vengano giudicati e l’eredità della loro ignomi‑ nia ricada sui propri figli, ancora una volta come in una tragedia gre‑ ca. In fondo, curare il trauma significa anche ristabilire l’ordine morale delle cose ed è ciò che Guzmán ha sempre cercato di attuare con il suo cinema. Finalmente le vittime vedono un riconoscimento, seppur par‑ ziale, del trauma subito e quindi possono rivendicare il fatto di essere ancora vive, di poter tornare a essere felici, certe di aver vinto la battaglia del giudizio storico, certe che la loro memoria, tanto quella traumatica quanto quella del futuro, sarà testimoniata con orgoglio dai propri figli. Poi parla un’ultima donna che sembra, definitivamente, chiudere i conti con il passato, sintetizzare le conclusioni finali, la funzione della memoria ostinata delle vittime e del cinema di Guzmán: 173 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
«forse non arriveremo a processare i responsabili, ma per lo meno nel‑ la memoria, nel giudizio storico, saranno giudicati responsabili: non solo Pinochet, ma tutti i torturatori e tutti i civili che appoggiarono questo e che ancora oggi lo difendono, quelli che consentirono, quelli che consigliarono, quelli che ancora oggi provano a mettere una spe‑ cie di velo di oblio. Che cos’è questa cosa che Pinochet si ritiri con dignità? Come è possibile che i dittatori e i torturatori si possano mai ritirare con dignità da qualche parte?! È ridere del nostro dolore, non riconoscere ciò che è accaduto. E io credo che la forza della memoria… è qualcosa che ci permetterà di guarire… per questo è così importante stabilire la memoria collettiva: per poter vivere ora e per poter costrui‑ re il futuro».
È questa necessità di stabilire la memoria collettiva che porta Guzmán a filmare il trasporto e l’installazione della statua di Allende proprio davanti al Palazzo della Moneda. Quella parte del Cile a cui era stato negato lo stesso diritto all’esistenza, ora ha il suo luogo della memoria: una piazza in cui viene ri‑presentato non più il foucaultiano splendore di un supplizio, ma lo splendore di un sogno, re‑aparecido con la statua di Allende, simbolo della memoria del futuro e del futuro della memo‑ ria, almeno nelle intenzioni del regista. L’immagine finale di El caso Pinochet è un’inquadratura fissa del gruppo delle vittime e dei familiari dei desaparecidos intervistati nel film, secondo la tecnica ritrattistica già adoperata nel documenta‑ rio Pueblo en vilo. Sono posizionati a una ventina di metri di distan‑ za dall’obiettivo, fermi immobili, come ad attendere che un fotografo scatti il loro ritratto familiare: è la contro‑narrazione del ritratto di Pi‑ nochet e della Thatcher. È la comunità mnemonica che Guzmán ha raccontato e rappresentato in tutti i suoi film. È la comunità che è riu‑ scito a riscattare, rendendo pubblica e collettiva la loro memoria. Il lo‑ ro album di fotografie era stato sottratto e nascosto, come quello della famiglia Allende, di cui Hortensia Bussi lamentava l’assenza. Ora è tut‑ to tornato presente. Le ricerche visuali di Guzmán hanno restituito al Cile il suo album di fotografie, lo specchio dove guardarsi e ritrovarsi.
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Epilogo – Ecologia della memoria
Proprio quando Guzmán sembra finalmente essere riuscito a ricom‑ porre l’album fotografico del Cile e a chiudere i conti con il passato e il cerchio del suo percorso filmico ecco che invece, dopo quasi un de‑ cennio di silenzio, decide di riaprire il cerchio con una nuova trilogia: nel 2010 gira La Nostalgia della luce, nel 2015 La memoria dell’acqua e nel 2019 La Cordigliera dei sogni. Evidentemente il regista forse si è reso conto di avere nostalgia tanto della luce del cinema quanto di il‑ luminare le zone d’ombra della storia cilena; oppure ha semplicemen‑ te compreso che – nonostante tutta l’ostinazione possibile – il passato non possa mai passare, perché la memoria non ha una natura stabile, ma è un processo in continuo movimento e in perenne rimodulazione: la memoria può tornare a essere un campo di battaglia in cui si affron‑ tano opposti imprenditori morali315. La memoria, insomma, va sempre rinnovata e riaffermata contro gli atti ignobili che provano a negarla o a minimizzarla, chiedendo per esempio di non processare Pinochet ma di concedergli un semplice ritiro. Un atto che per la testimonianza fi‑ nale de Il caso Pinochet è innominabile: “Che cos’è questa cosa che Pi‑ nochet si ritiri con dignità?”. La militanza della memoria comporta che non ci si possa mai riti‑ rare dalla propria militanza e dall’ostinazione di continuare a dare un nome e un volto anche al passato più oscuro, vigilando affinché nessu‑ na scintilla sociale o politica possa riaccendere un nuovo conflitto sul suo significato. La memoria non può ritirarsi, senza far perdere anche la propria identità: non può sospendere l’operazione di essere sempre Si veda R. Wagner‑Pacifici, B. Schwartz, Il Vietnam Veterans Memorial: la commemorazione di un passato difficile, in A. Tota, La memoria contesa, op. cit., p. 115. 315
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presente a sé stessa, di conservare continuamente le tracce e le prove del‑ la verità delle proprie narrazioni. Forse è per questo che Guzmán non ha interrotto la sua ricerca visua‑ le con Il caso Pinochet, ma ha sentito ancora l’esigenza di rinnovare la sua richiesta di giustizia, aggiungendo altri ritratti all’album delle me‑ morie cilene. Così, Guzmán ha portato alle estreme conseguenze quel processo secondo cui molti artisti si ritrovano a creare sempre e solo la stessa opera: la sua cinematografia è, effettivamente, un unico grande film sulla memoria traumatica del Cile, una narrazione che non può avere fine. Di conseguenza, il suo cinema è – e probabilmente conti‑ nuerà a essere – un’ossessiva e ostinata reiterazione delle stesse imma‑ gini, incastrate in modo diverso in un’eguale narrazione del conflitto sociale, in cui le differenze sono prodotte dal semplice spostamento di focus dal protagonista di un sogno rivoluzionario (El primer año, Il potere popolare, En nombre de Dios, Salvador Allende) all’antagoni‑ sta che lo distrugge e lo nega (L’insurrezione della borghesia, Il colpo di Stato, Il caso Pinochet). In questo percorso terapeutico, l’io‑memoria di Guzmán dirompe nel film che rappresenta la sintesi e la cerniera di tut‑ ta la sua ricerca visuale, il primo dove le immagini sono sostenute dalla musica: La memoria ostinata. Qui, paradossalmente, dove l’io‑memo‑ ria si scopre, Guzmán prova a ri‑costruire il noi‑memoria del Cile. Da questo film in poi, non abbandonerà più né l’utilizzo della sua voce come voce narrante né l’uso di una colonna sonora musicale per la ricerca di una maggiore enfasi emotiva, anticipando i cambiamen‑ ti stilistici evidenti negli ultimi suoi film. In questo percorso di unità e differenze, la trilogia finale dell’ultimo decennio rappresenta quin‑ di uno spostamento di focus dall’osservazione del reale all’interpreta‑ zione del reale, in un processo in cui si avvicina sempre più all’arte e, inevitabilmente, si allontana dalla ricerca sociale. Questo spostamen‑ to di focus, tuttavia, non va nemmeno interpretato come un processo netto, in cui un elemento sostituisce l’altro, ma è un cambiamento che rivela un nuovo tipo di approccio, l’esigenza di usare e far sentire mag‑ giormente la soggettività del regista e le potenzialità estetiche del cine‑ ma, fino a ora utilizzato solo come il migliore strumento per registrare la realtà in tutta la sua multidimensionalità. Dalla memoria ostinata in poi, invece, Guzmán dimostra un progressivo bisogno di esplorare le 176 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
specificità del medium audiovisuale, non più o non solo in modo “reat‑ tivo”, ma anche e soprattutto “costruttivo”316. La nostalgia della luce è ambientato nel nord del Cile, nel deserto di Atacama, dove c’è il centro di osservazione astronomica più grande del mondo. Guzmán apre il film raccontando il fascino dei telescopi che “sono una finestra sul cosmo”, come il suo cinema è, evidentemente, una finestra sul mondo sociale. Dopo una suggestiva sequenza inizia‑ le, in cui viene mostrato ciò che osservano i telescopi, si cede lo spazio a un giovane scienziato che spiega come l’astronomia si occupi del pas‑ sato, in quanto tutto ciò che osserva invia una luce che, per quanto ve‑ loce, impiega del tempo per arrivare e quindi viene sempre dal passato. A partire da questo presupposto, il film avvia una riflessione che mira a costruire e a sostenere un’analogia teorico‑poetica tra il lavoro sul pas‑ sato degli astronomi, quello degli archeologi e quello dei parenti dei desaparecidos, che in quello stesso deserto cercano le ossa dei propri cari detenuti e scomparsi durante la dittatura. Pertanto, La nostalgia della luce è un’astronomia e archeologia del sapere, ma anche una cine‑ matografia del sapere: un lavoro genealogico che osserva il passato, fi‑ no a che ognuno trovi il proprio trauma originario, il big bang da cui tutto è iniziato. Vicino al centro astronomico, ci sono le rovine di Chacabuco, il cam‑ po di concentramento più grande della dittatura militare: in realtà, i militari riadattarono a celle le stanze dove nel XIX secolo alloggiavano i minatori, che lavoravano e vivevano vicino la miniera in condizioni di schiavitù. È un luogo in cui si sono accumulati più strati di memo‑ Annalisa Frisina, nel commentare gli insegnamenti di Jean Rouch sul film etnogra‑ fico, spiega che ci sono vari modi di utilizzare la videocamera nella ricerca sul campo: “un modo più reattivo, quando si accende per riprendere qualcosa che sta accadendo; uno più interattivo, in cui la presenza dell’etnografo sollecita conversazioni di vario tipo; uno più costruttivo, in cui l’etnografo usa la camera in modo più interpretativo, per mostrare il suo punto di vista su un certo tema”. Attraverso un’equilibrata combi‑ nazione di questi modi, è possibile evitare di contrapporre arte e scienza e fare quello che MacDougall chiama “cinema transculturale”, in cui l’arte si pone al servizio di una descrizione più accurata del reale. A. Frisina, Ricerca visuale e trasformazioni socio‑culturali, cit., pp. 29‑30. Cfr. Macdougall D., Transcultural Cinema, Prince‑ ton, Princeton University Press, 1998.
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ria. Uno degli ex prigionieri della dittatura cerca e trova sul muro del‑ la sua cella il suo nome, scritto e stinto insieme a quello di tutti gli altri suoi compagni di cella. Anche in questo film, Guzmán adotta la tecni‑ ca della rivisitazione dei luoghi della memoria e della reiterazione dei gesti, così come il restituire visivamente l’idea della stratificazione del‑ le tracce. Miguel, definito “l’architetto della memoria”, è appunto un architetto che negli anni della detenzione passava il tempo a misurare, con i passi, i luoghi della detenzione. Con Guzmán ripercorre quegli stessi passi e poi mostra la mappa del campo di concentramento, che riuscì a disegnare perfettamente quando fu liberato. Ancora una vol‑ ta Guzmán reitera non solo le tecniche di stimolazione della memoria già utilizzate in altri film, ma anche il confronto tra la memoria cine‑ matografica e quella di altre arti visive. Poi inquadra “l’architetto del‑ la memoria”, seduto in un parco accanto a sua moglie: “Miguel e la sua sposa sono come una metafora del Cile. Lui è il ricordo, mentre Anita è l’oblio, da quando è malata di Alzheimer”. Anche loro sembrano una unità fratturata. Poi mentre si vedono le mujeres buscadoras, le donne che a mani nu‑ de scavano nel deserto per cercare i resti dei loro cari, un astronomo sostiene che quelle donne “non possono dormire tranquille cercan‑ do un passato che non riescono a trovare. Non dormiranno tranquil‑ le finché non lo troveranno”. Allo stesso modo, probabilmente anche il cinema di Guzmán resterà inquieto finché non potrà documentare l’ultimo ritrovamento. La sua missione è ricordata da un archeologo: “è impossibile dimenticare i nostri morti. Bisogna tenerli vivi nella nostra memoria. Dobbiamo vivere costantemente in una condizione di ricer‑ ca”, proprio come fa Guzmán. Anche una donna anziana dice di esse‑ re senza la salute e le forze di un tempo, ma di non poter abbandonare mai la speranza di ritrovare i resti di suo marito: “Non voglio morire prima di averlo trovato”. La nostalgia della luce è nuova memoria dell’ingiustizia: è la testi‑ monianza della richiesta che i militari dicano dove hanno sotterrato i corpi dei desaparecidos, dove hanno coperto i resti della memoria di un sogno, per cui le donne che scavano provano anche profonda no‑ stalgia. Il film è l’ennesima occasione per una profonda riflessione sulla memoria tramite testimonianze che parlano di tutti i temi già affron‑ 178 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
tati nei precedenti film, soffermandosi però soprattutto sull’impossibi‑ lità di raggiungere una pace senza trovare la prova della morte, senza poter seppellire il proprio caro, vedove presunte costrette alla danna‑ zione e in perenne lotta come delle moderne Antigoni. Una delle ultime interviste del film è a una giovane madre, cresciuta con i nonni che furono arrestati e torturati fino a che non rivelarono il luogo dove erano nascosti i propri figli. La giovane madre potrebbe odiare i nonni che consegnarono i loro figli e i suoi genitori ai milita‑ ri, ma invece ha solo parole dolci nei loro confronti e Guzmán evita di approfondire una questione davvero troppo intima per essere indagata dall’occhio di una videocamera, che già diventa straziante quando in‑ quadra i volti dei due nonni‑genitori, immobili davanti all’obiettivo, profondamente stanchi e segnati dal dolore. La giovane madre, invece, appare serena e da anni lavora nel centro di osservazione astronomica. La sua storia e le sue parole consentono a Guzmán di chiudere il cer‑ chio della Nostalgia della luce e di evidenziarne il senso: «Quando uno vive il dolore in modo intimo, il dolore si fa soffocante. L’astronomia mi ha aiutato. Tutto fa parte di un ciclo che non è inizia‑ to e non finirà con me, né con i miei figli. Mi dico che siamo tutti par‑ te di una corrente, di un’energia, di materia che si ricicla. Come accade per le stelle, le stelle devono morire, perché altre stelle possano nasce‑ re, altri pianeti, perché nasca una nuova vita. Da questa prospettiva, io penso che quello che è accaduto ai miei genitori, o la loro assenza, assume un’altra dimensione, prende un altro significato. E questo mi libera un po’ da questa grande sofferenza, da questo dolore, perché sento che niente finisce davvero»
Il film volge al termine portando nel centro astronomico due delle mujeres buscadoras già viste in precedenza. Le due donne osservano il cielo tramite i telescopi e finalmente sorridono, trovando nella memo‑ ria del cosmo la propria “ecologia della mente”317. Cinque anni dopo questo film, Guzmán gira La memoria dell’acqua, questa volta spostandosi nel sud del Cile, in Patagonia, “un luogo sen‑ 317 Cfr. G. Bateson (1972), Verso un’ecologia della mente, trad. it., Milano, Adelphi, 1976.
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za tempo”. Il film, vincitore di un Orso d’argento al Festival di Berlino per la migliore sceneggiatura, si apre con spettacolari sequenze visive tra i ghiacciai della Terra del Fuoco, mostrando alcune frane e la tra‑ sformazione del ghiaccio in acqua. Al centro della narrazione ci sono i nativi americani che abitarono questa zona della terra, instaurando con l’acqua una relazione strettissima e vitale. Dopo secoli vissuti insie‑ me all’acqua e alle stelle, i nativi vissero, però, “l’eclissi del loro mondo”. Il governo cileno, infatti, sostenne i colonizzatori e così gli indigeni fu‑ rono presentati come barbari e perseguitati: derubati del loro credo, della loro lingua e delle canoe, fondamentale strumento di sopravvi‑ venza. La voce di Guzmán descrive nel dettaglio il loro sterminio, chia‑ rendo che mai nessuno fu condannato per questo. Alcune foto e video girati dai primi etnografi accompagnano il racconto del regista, che poi incontra alcuni discendenti delle comunità indigene sterminate, testimoni della memoria e dell’identità dei nativi: “grazie a loro la lin‑ gua è sopravvissuta”. Tra loro re‑incontra alcune persone già fotografa‑ te da Paz Erraruiz, una brava fotografa di Santiago che fu “attratta da loro molto prima dei libri di Storia. Per secoli questa tribù è stata invi‑ sibile”. La memoria negata affonda le sue radici nella Storia rimossa del Cile, nella sua genesi, in un trauma che è all’origine della stessa iden‑ tità latinoamericana, colonizzata dall’umanesimo del Vecchio mon‑ do, dall’idea di dover costruire differenze di valore, gradi e gerarchie di umanità. Guzmán pronuncia in spagnolo delle parole di uso quotidia‑ no e chiede a una donna indigena di tradurle nella sua lingua, per sco‑ prire che i nativi non avevano nessun termine né per “polizia” né per “Dio”. Loro, infatti, non avevano bisogno di un’istituzione repressiva e, ritenendo che persino gli oggetti inanimati avessero un’anima, si iden‑ tificavano direttamente con gli elementi naturali, in una identità asso‑ luta, tra l’uomo e la natura. Poi viene raccontata la storia di Jemmy Button, “l’unico indigeno ad aver lasciato un segno nella Storia”: all’inizio del XIX secolo una na‑ ve inglese arrivò in Patagonia, sotto il comando del capitano FitzRoy. La sua missione era disegnare le mappe di questa terra e fu la prima persona a disegnare gli indigeni con volto umano. Al ritorno in In‑ ghilterra, portò con sé quattro indigeni per provare a civilizzarli. Uno dei quattro salì sulla nave in cambio di un bottone di madreperla e 180 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
per questo gli inglesi lo ribattezzarono Jemmy Button. Dopo un an‑ no trascorso in Inghilterra, in cui fu espropriato della sua identità, fu riportato nella sua terra, senza che riuscisse mai a ritrovarsi: “Navi‑ gò dall’età della pietra alla Rivoluzione industriale: viaggiò mille an‑ ni nel futuro e poi mille anni indietro nel passato. Quello fu l’inizio della fine per i popoli del Sud”. Le mappe di FritzRoy, infatti, apriro‑ no le porte ai coloni, che “per 150 anni governarono un paese silenzio‑ so. La rivoluzione di Allende ruppe quel silenzio. Nacque un grande movimento sociale che coinvolse l’intero Paese. Si udirono voci mai udite prima”. Siamo al minuto cinquanta del film, quando sulla scena irrompe nuovamente la memoria del futuro raccontata nei preceden‑ ti film. È la prima volta che il tema principale del cinema guzmániano entra in gioco solo nella parte finale della narrazione: “Allende iniziò a restituire agli indigeni le terre usurpate nei secoli precedenti. Ma la libertà durò poco. Fu annientata da un golpe finanziato dagli Stati Uniti. Nello stesso periodo la disintegrazione di una supernova fu av‑ vistata da un osservatorio cileno”. Guzmán non ha più bisogno di en‑ trare eccessivamente in dettagli descrittivi e esplicativi, come già fatto nella sua cinematografia precedente. Ora dà per acquisita la Storia e può rendere il suo cinema più costruttivo, dando sfogo a libere asso‑ ciazioni, tant’è che il bombardamento della Moneda viene racconta‑ to proprio con le immagini della disintegrazione di una supernova. È anche la prima volta, però, che Guzmán inizia a narrare l’inenarrabile delle torture, a provare a filmare la violenza318. Negli ultimi anni, il ci‑ nema ha provato sempre di più non solo a raccontare la violenza, ma anche a farlo dalla prospettiva dei carnefici, probabilmente nella con‑ vinzione che le memorie traumatiche siano sature e che lo spettatore preferisca tentare di comprendere ciò che è altro da sé, perfino mon‑ Cfr. Una delle riflessioni e attuazioni cinematografiche più interessanti sul filmare la violenza è del regista M. Bechis, Argentina 1976‑2001. Filmare la violenza sotter‑ ranea, Milano, Ubulibri, 2001. Il tema è affrontato da Bechis anche in diverse inter‑ viste: “Ritengo reazionario il cinema di denuncia che spettacolarizza la violenza. Ho cercato di percorrere un’altra strada. Nel mio film non si doveva vedere la tortura: la si doveva intuire, sentire, ma non vedere. Volevo evitare l’effetto di certi film iper violenti che si riescono a vedere anche mangiando tranquillamente i popcorn”. G. Canova (a cura di), Marco Bechis: Garage Olimpo, gli spettri della violenza, in “Duel”, n. 5, 1999. 318
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di ritenuti lontani e mostruosi, piuttosto che storie di dolore troppo prossime. Sembra essere più interessante e straniante, ormai, prova‑ re a farci identificare con chi non vorremmo mai essere, piuttosto che con l’io‑memoria delle vittime, che vuole farci vivere la sua anima‑ lizzazione, rischiando di ricordarci della nostra, seppur vissuta nelle forme più soft della precarietà esistenziale moderna. Di conseguen‑ za, anche il cinema autoriale prova a spostare l’attenzione sull’alterità dei carnefici perché evidentemente ritiene di riuscire a non abdicare alla sua funzione riflessiva e, nel frattempo, grazie all’adozione di una prospettiva “esotica”, di realizzare anche la funzione di intra‑(t)teni‑ mento. Tra i film che percorrono questa strada, gli esempi più eclatanti sono sicuramente i documentari del regista statunitense Joshua Oppenhei‑ mer: The act of killing del 2012 e The look of silence del 2014, entrambi vincitori di numerosi premi e nominati agli Oscar come miglior docu‑ mentario. Sulla scia di S‑21. La macchina di morte dei Khmer rossi di Rithy Panh319 che nel 2003 raccontava i carnefici del genocidio cam‑ bogiano, i documentari di Oppenheimer raccontano l’io‑memoria dei carnefici dell’eccidio commesso in Indonesia negli anni Sessanta: non sono più le vittime a creare una mimesis dei luoghi e dei gesti della vio‑ lenza, ma gli stessi ideatori e autori. Al contrario di questi registi, Guzmán ha sempre deciso di identi‑ ficarsi e far identificare lo spettatore con la prospettiva delle vittime, scegliendo esclusivamente la comunità mnemonica che sentiva mo‑ ralmente degna di essere raccontata, per quanto sociologicamente sia molto più significativo restituire la molteplicità dei punti di vista. C’è da dire, però, che Guzmán difficilmente sarebbe mai riuscito a farsi “accettare” dai militari che ben conoscono la sua militanza politica e sociale e considerano il suo cinema troppo schierato e di parte. In real‑ tà, nella Memoria dell’acqua c’è un tentativo di dar voce ai carnefici, ma si risolve con una semplice intervista frontale a un civile che, co‑ me tanti altri civili, partecipò attivamente ai cosiddetti “voli della Ca‑ 319 C. Demaria, Memorie prostetiche e archivi: corpi e spazi in S‑21. La macchina di morte dei Khmer rossi di Rithy Panh, in Id, Il trauma, l’archivio e il testimone, cit., pp. 193‑222.
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rovana della morte”320. Questo punto di vista alternativo, però, rimane superficiale e non aggiunge granché alla narrazione e alla sua caratte‑ ristica monodimensionalità prospettica. Tuttavia, Guzmán arricchisce il racconto filmando un volo di un elicottero della Forza Aerea Cile‑ na e ricostruendo il lancio dei corpi in mare tramite alcuni manichi‑ ni. Secondo i rapporti giudiziari, precisa Guzmán, la forza aerea gettò tra le 1.200 e le 1.400 persone nell’oceano, vive o morte. Lo scopo, ov‑ viamente, era eliminare qualsiasi prova, perché il diritto restasse iner‑ me davanti a un phasma e i familiari delle vittime distrutti dall’assenza e da un’inutile speranza: così anche la verità e la giustizia sono tra i tan‑ ti desaparecidos. Ritorna con forza visiva il tema posticipato, ma nean‑ che troppo latente, di questi due ultimi film: la necessità di sapere dove sono i corpi dei desaparecidos (e, ancora, di ottenere giustizia). Tant’è che la narrazione principale degli elementi naturali risulta essere solo una sorta di mediazione poetica per rendere le memorie traumatiche maggiormente leggibili e quindi per de‑saturarle321. “È scritto sin dalla storia antica: il cadavere va restituito”, rivendica un testimone che allu‑ de al tempo dei Greci, “perché i parenti possano piangere il lutto, per‑ ché il morto possa finire di morire e i vivi possano continuare a vivere. L’impunità è un doppio omicidio: è come uccidere due volte il morto”. Guzmán insiste allora nel racconto delle torture e prova a ricostruir‑ le, per scelta o per necessità, senza né vittime né carnefici, ma chieden‑ do a un uomo terzo di mimare l’uccisione di una donna il cui corpo fu restituito dal mare della Patagonia. Sul petto di un manichino ste‑ so su un letto di ferro, il giornalista colloca una rotaia di circa trenta kg, che veniva legata al cadavere con un filo di ferro e serviva ai militari per far affondare i corpi, una volta uccisi e gettati in mare dagli elicot‑ teri. Nel caso di questa donna, però, i militari si accorsero solo sull’eli‑ cottero che non era morta e dovettero strangolarla con il filo di ferro e buttarla in mare senza perdere troppo tempo nel chiuderla bene in P. Verdugo, Gli artigli del puma – I crimini della Carovana della morte nel Cile di Pinochet, Milano, Sperling & Kupfer, 2006; H. Verbitsky, Il volo. Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos, Roma, Fandango Tascabili, 2008. 321 G. Didi‑Huberman, Remontages du temps subi. L’oeil de l’histoire, 2, Paris, Les Editiones de Minuit, 2010. 320
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un sacco. Questo comportò che il pezzo di rotaia si staccò dal corpo e il cadavere, anziché affondare, arrivò sulla costa della Patagonia. I sub riuscirono anche a recuperare il pezzo di rotaia, su cui trovarono at‑ taccato un oggetto della donna: un bottone di madreperla. Il cerchio poetico‑narrativo costruito da Guzmán sembra essere pronto a chiu‑ dersi. E infatti non sono soltanto due bottoni di madreperla a unire il massacro di inizio Ottocento degli indigeni e quello di fine Novecen‑ to dei desaparecidos, ma anche il luogo dove furono deportati: la geli‑ da isola Dawson, già raccontata da Miguel Littín nel 2009 con il film di finzione Dawson Isla 10. “Quando fu riportato sulla sua isola, Jem‑ my Button non recuperò la sua identità. Diventò un esule nella sua terra”, commenta Guzmán, probabilmente ripensando alle tanti frasi delle vittime della dittatura sulla condizione esistenziale di esiliati nel‑ la propria patria. “I due bottoni raccontano la stessa storia: una storia di sterminio. È probabile ci siano molti altri bottoni nell’oceano”. Guzmán si avvia all’epilogo del suo documentario reiterando la tec‑ nica del video‑ritratto: una ventina dei settecento torturati dell’isola di Dawson restano immobili, gli uni accanto agli altri, a fissare l’obiettivo, probabilmente interrogando la coscienza stessa dello spettatore e chie‑ dendo, umilmente e silenziosamente, giustizia. “In Cile si sono accu‑ mulati secoli di impunità. Dawson è soltanto un capitolo” commenta Guzmán, prima di omaggiare anche la memoria indigena con ritratti fotografici dei loro volti in bianco e nero. “Gli indigeni della Patagonia credevano che le anime non morissero e che potessero tornare a vive‑ re nuovamente come stelle. Si dice che l’acqua abbia memoria. Io cre‑ do che abbia anche una voce. Se ci avviciniamo molto a essa possiamo sentire le voci degli indigeni e dei desaparecidos”. Il film si chiude con il dettaglio di un uomo che rema una canoa indi‑ gena, che scivola lenta sull’acqua del mare della Patagonia. Sullo scher‑ mo nero e sui titoli di coda si sente un uomo che prega in kawesqar, la lingua di una tribù. Come nella Nostalgia della luce, anche in La me‑ moria dell’acqua le vittime della violenza trovano la loro liberazione nella loro interconnessione con la natura, nella convinzione primige‑ nia di “tornare a vivere nuovamente come stelle” o grazie all’idea scien‑ tifico‑religiosa di essere “tutti parte di una corrente, di una energia, di materia che si ricicla. Come accade per le stelle”. È la sutura di un trau‑ 184 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
ma originario: la ricomposizione di una unità, che è, paradossalmente, unità di una molteplicità. L’ultimo film della trilogia, La Cordigliera dei sogni, presentato a Cannes nel 2019, al momento non è ancora stato distribuito in Italia e quindi non azzardo una sua descrizione analitica. Da quello che ho potuto vedere e leggere del film, però, posso ritenere che ci siano tan‑ ti elementi comuni ai due film precedenti. Il racconto della cordiglie‑ ra delle Ande, come spina dorsale del Cile, dovrebbe anche provare a unire la memoria del nord del paese della Nostalgia della luce con quel‑ la del sud della Memoria dell’acqua, rappresentando metaforicamente un’altra ricomposizione di un’unità. Un altro elemento ricorrente do‑ vrebbe essere quello di cercare un confronto tra il cinema e le arti della rappresentazione del reale, della registrazione e riproduzione della me‑ moria. In questo caso, Guzmán si confronta con un altro cineasta cile‑ no, Pablo Salas, e con lo scrittore Jorge Baradit, autore di due volumi sulla Historia secreta de Chile e un altro sulla guerra interior. La cordi‑ gliera, in ogni caso, sembra che diventi “la metafora dell’immutabile”, nonostante pare emerga una maggiore speranza, forse desiderosa che le future generazioni possano riattivare le memorie del futuro della gene‑ razione allendista oppure inventarne di nuove e ancor più ambiziose. A prescindere dalla specificità della sua narrazione, La cordigliera dei sogni si colloca comunque all’interno di un percorso chiaro, di una tri‑ logia che – come si è detto – segna l’apice di un riposizionamento, ma anche sintesi di una ricerca visuale in cui convergono e si conden‑ sano tutte le esperienze precedenti, tra cui anche quelle minori sulla religiosità come En nombre de Dios e La Cruz del Sur. In effetti, l’ele‑ mento religioso è molto presente in questa trilogia, in cui si avverte un significativo spostamento di focus dall’immanenza alla trascendenza, attraverso il racconto degli eredi delle memorie precolombiane e del‑ la loro relazione religiosa con gli elementi naturali. Tant’è che questa trilogia finale rappresenta anche uno spostamento dalla memoria col‑ lettiva alla memoria della natura. È come se negli elementi naturali, Guzmán provasse a costruire una comunità mnemonica ancora più al‑ largata, non più semplicemente interconnessa alla memoria dei luoghi ma alla memoria del cosmo. D’altra parte, è come se volesse raccontare tanto l’interconnessione tra uomo e natura, quanto la magnificenza e 185 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
l’eternità della natura, “questo grande libro aperto della memoria”, co‑ me precisa il regista in Nostalgia della luce. Davanti ai tentativi umani di cancellazione della memoria o di negazione di qualsiasi alterità, di qualsiasi unità della distinzione, la natura oppone la sua resistenza mil‑ lenaria, rendendosi testimone e custode perfino della memoria uma‑ na e della reciproca connessione, di cui serba traccia nei suoi elementi. Pertanto, con questa trilogia, Guzmán cerca nella memoria della na‑ tura la sua catarsi più matura, in una ricerca visuale in cui le analogie tra memoria umana e memoria naturale finiscono per creare una coin‑ cidenza tra escatologia marxista e religiosa: la salvezza e la liberazio‑ ne dal trauma è nell’ostinato e inarrestabile processo di ri‑costruzione del passato, nella creazione di un archivio audiovisuale che possa es‑ sere memoria della memoria: il cinema come ecologia della memoria. L’ecologia, in fondo, è la scienza che studia la relazione tra i sistemi e il loro ambiente. Credo, allora, che si possa essere certi che Guzmán potrà forse cambiare stile, ma non smetterà mai di fare ecologia visuale, provando sempre a ricomporre l’equilibrio tra un sistema e il suo am‑ biente, tra una parte e l’altra di un’unità fratturata. D’altronde, il Cile, l’America Latina, e gran parte del mondo, stanno tornando a trauma‑ tizzare la società costruendo profondi squilibri e inaccettabili asimme‑ trie che rischiano di negare chi è dall’altra parte. Pertanto si può essere ragionevolmente certi che Patricio Guzmán continuerà a essere la me‑ moria ostinata del cinema.
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