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Italian Pages 176 Year 2011
MODERNITÀ E SOCIETÀ
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a cura di Roberto Cipriani
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Andrea Spreafico
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LA RICERCA DEL SÉ NELLA TEORIA SOCIALE
ARMANDO EDITORE
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SPREAFICO, Andrea La ricerca del sé nella teoria sociale ; Roma : Armando, © 2011 176 p. ; 20 cm. (Modernità e società) ISBN: 978-88-6677-003-9 1. Il sé nella teoria sociale 2. Identità psichica e scienze sociali 3. Interazione sociale
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© 2011 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 26-06-030 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]
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Sommario
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Introduzione
7
Ringraziamenti
15
Una molteplicità di termini
17
Concezioni antiche ed al contempo anticipatrici
27
Uno sguardo ai primi classici
35
La possibilità di un sé psichico interiore
47
Primi passi sociologici
53
Attorno agli Stati Uniti. Sociologie dell’interazione
57
Alcune osservazioni intermedie
73
Nel frattempo… Sociologia funzionalista e fenomenologica
81
Avvicinamento al linguaggio. Attorno all’etnometodologia
91
Per ricominciare il lavoro. Dall’idioma mondano allo strutturalismo
113
Difficoltà nell’uscire fuori dagli assunti tradizionali
127
Conclusione. Un soggetto davvero sociologico: l’interazione sociale cooperativa
155
Riferimenti bibliografici
166
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Introduzione
Quante volte vi sarà capitato di assistere a una conversazione in cui – discutendo, come si usa dire, “del più e del meno” – gli interlocutori sono stati pronti a dichiararsi membri di un qualche insieme descrivibile grazie a un qualche previo processo di categorizzazione, o hanno attribuito ad altri individui una certa appartenenza descrivibile con una specifica espressione linguistica connessa a una determinata categoria? O meglio, quante volte si considera naturale la possibilità di essere descritti mediante una connessione linguistico-concettuale come se essa rappresentasse la “realtà” dell’individuo descritto? Tutto ciò, poi, operando magari anche dei confronti. Ad esempio (semplificando ed estremizzando fino al luogo comune e riassumendo): «io mi sento romano, non potrei mai essere milanese, tutto preso dal lavoro e sempre arrabbiato»; o «come sono snob i francesi… e che dire degli americani, così poco raffinati; invece noi italiani amiamo piangerci addosso, ma siamo dei cittadini del mondo; è proprio il nostro essere cosmopoliti il motivo per cui mi sento italiano». O ancora: «mi sento appartenente al mio comune, ma anche all’Europa» o «guarda, quello lì è un vero vincente, ed il suo amico è il classico uomo d’altri tempi, mentre la sorella è il tipo della sportiva». Oppure, sempre più considerando gruppi: «i giovani di oggi sono post-materialisti, ma anche consumisti»; o «la classe politico-partitica nazionale si distingue per il suo particolarismo». Se mettiamo da parte gli stereotipi, a incuriosirci è la tendenza a descriverci e a descrivere gli altri come portatori di una qualche caratteristica che ne costituirebbe non solo un elemento identificativo, ma una parte consustanziale, la sostanza del nostro o del loro essere, in ogni occasione e luogo. I primi esempi riportati sono fin troppo evidenti, ma in quasi tutto ciò che viene detto sembra essere sempre all’opera 7 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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la tendenza ad attribuire un’identità (A = B, cioè A è B) essenziale a ciò che ci sembra di vedere o di aver osservato. Sembra un modo per affrontare la complessità dell’esistente, di semplificarla per gestirla a partire dalle nostre razionalità limitate: se l’individuo A ha la caratteristica B, sarà poi più facile spiegare perché ha fatto ciò che ha fatto. Pare entrare in gioco la preoccupazione di trovare le cause di ciò che ci sembra essere avvenuto. In ogni ambito di interazione vi è uno sfondo di senso comune in cui si trovano associazioni, date per scontate, naturali, tra determinate categorie e certi tipi di azioni, che sono considerate caratteristiche di coloro che sono ritenuti “appartenere” a tali categorie. Il punto è che, nella quotidianità ma spesso anche nell’ambito della discussione politico-giornalistica ed in quella scientifico-accademica, si è poi persa consapevolezza del fatto che tale “identità attribuita” in realtà non costituisce in alcun modo la natura dell’individuo, ma è solo un’etichetta semplificatrice – frutto di processi di categorizzazione che potrebbero invece essere approfonditi – assegnata nell’illusione che esista all’interno di quest’ultimo un nucleo fondante permanente che lo caratterizzerebbe, un “sé” di alcuni linguaggi sociologici (o ciò che altri chiamano autocoscienza, altri io, altri mente, altri personalità, altri anima, o spirito e così via), forse localizzato nel cervello. Tutto questo fondandosi sull’ulteriore, e poco discusso, presupposto che l’elemento di partenza sia un soggetto che abbia, ora come nel passato e nel futuro, confini ben chiari e un’interiorità su cui fare affermazioni evidenti. Si finisce per dare per acquisito un elemento dopo l’altro e, così, oggi identità, sé e soggetto sono termini con cui si costruiscono riflessioni ed interpretazioni semplificate, ed a volte distorte, di problemi complessi, che dal singolo finiscono poi per coinvolgere collettività diversamente immaginate (nel momento in cui egli si attribuisca o gli vengano attribuiti caratteri in comune con altri, che lo distinguerebbero così in maniera significativa da certi altri ancora in diverse situazioni): solo a titolo di esempio si possono ricordare i dibattiti sugli scontri di civiltà, sulla convivenza multiculturale, l’integrazione degli immigrati, l’identità nazionale1, l’identità europea e molti altri. Ma cosa è allora l’identità 1 Persino studiosi del calibro di Bateson (1972/2008, 124-143), seppur in base a riflessioni più sofisticate ed articolate di altre, finiscono per ricadere in una visione ingenua riguardo alla realtà di un “carattere nazionale”. Ma ancora oggi, anche nei ri-
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del sé di un soggetto? E questo sé? È davvero ciò che intendono coloro che fanno affermazioni quali: «io sono un liberale, ateo, europeista»? O assomiglia maggiormente a quella che sembra emergere nel Leonard Zelig di Allen2? Vi sono singoli “instabili” che interagiscono ed al contempo collaborano alla produzione di identificazioni temporanee frutto di categorizzazioni che affondano le radici in descrizioni inconsapevolmente radicate in sensi comuni condivisi? O forse è meglio pensare che non vi sia addirittura niente al di sotto di tali identificazioni temporanee? O che sia meglio ragionare come se così fosse? Qui si proverà a parlarne. O almeno si proveranno – pur senza fornire alcuna soluzione certa – a mettere in luce alcuni degli elementi che possano contribuire a stimolare un dibattito approfondito sull’argomento, un dibattito che dia sempre meno cose per scontate, che non si accontenti di semplificare per poi adagiarsi nel mito dell’identità, ma che accetti il dubbio e la possibilità che le affermazioni nette, come quelle sopra ricordate, possano essere fatte senza dimenticare che si fondano su una grande quantità di condizioni e sul timore per ciò che muta, per ciò che non permane e si mescola (come è invece naturale che sia) con un’alterità che lo costituisce inevitabilmente. correnti dibattiti sull’identità italiana o europea, si crede che un certo percorso storicoculturale, e le scelte fatte al suo interno, abbiano dato luogo a una specifica identità, sulla quale si continua a indagare come se, una volta costituita/ricostruita nei suoi tratti essenziali, essa potesse rimanere la medesima nel tempo (ad esempio, ciascuno di noi “italiani” sarebbe in fondo fatto in questo modo: “avremmo”/possederemmo un’identità nazionale debole ed eterogenea, costituita di più componenti che si amalgamano attorno a un substrato storico comune, che va dalla bellezza del paesaggio a quella delle espressioni artistico-culturali, dal retaggio antico romano a quello cristiano, dall’ingegnosità dei singoli al valore della democrazia; non è chiaro, poi, come si coordini il riconoscimento-recupero di questi elementi generali provenienti da passati differenti – e di cui bisogna anche stimolare la consapevolezza – con un’ideale progettualità condivisa, con aspirazioni e trasformazioni supposte comuni; così come non è chiaro cosa debbano essere i “nuovi italiani”, o gli “italiani all’estero”, a cui vengono di volta in volta applicate nuove etichette allo scopo di forzare i singoli in definizioni collettive, magari più ampie ma sempre discutibili). Nel momento in cui si afferma l’esistenza di un’identità, si sostanzializza ed eternizza ciò che si sosteneva essere il risultato di un processo storico, più o meno lungo e che si tratti di un singolo o di una collettività, così come si sia deciso di pensarli e distinguerli. È bene dunque fermarsi a riflettere e capire cosa si stia dicendo, così che scopi ed illusioni non si alimentino reciprocamente. 2 Nel film Zelig, di Woody Allen, del 1983.
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In questo libro, dunque, verrà affrontato nell’ambito della teoria sociologica il tema del sé del soggetto – qui con il termine “sé” genericamente inteso come espressione equivalente a “identità dell’individuo”. Se molti approfondimenti utili provengono dagli Stati Uniti, recentemente anche in Paesi come Francia, Gran Bretagna ed Italia vi è stato un ritorno di interesse della sociologia per questo argomento. Precedentemente, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, “identità” era divenuto progressivamente un termine sempre più usato nei titoli di libri ed articoli delle scienze umane, non sempre a proposito: si trovano ancora, solo per fare un esempio, identità negate, violate, rubate, autonome, ricche, multiple, composte, sovrapposte, subordinate, scisse, deviate, sotto attacco. Sui motivi del suo impiego massiccio, riferito a singoli o ad entità collettive, si è scritto e si scrive; ma il fiorire di lavori non ha sempre contribuito a chiarire cosa si possa intendere con “identità”, almeno quando ci si riferisca a una singola persona. Il termine risulta tuttavia oggi accettato nel linguaggio scientifico ed impiegato spesso come se il suo significato fosse evidente, scontato e oggettivo, così come il suo referente. Del resto, spesso le teorie sociologiche dell’azione non hanno tematizzato approfonditamente la soggettività: l’interiorità viene considerata un dato di fatto originario, indipendente, su cui non soffermarsi troppo, a parte il postulare razionalità, utilitarismo, intenzionalità nel soggetto3. Identità e sé sembrano fare tuttora lo stesso effetto di parole come “potere” o “valori”: fatti sociali già costituiti, variabili “naturali”, che agiscono in maniera non direttamente visibile sulla realtà sociale, che influenzano in modo non visibile l’agire sociale, ed al di là della consapevolezza che ne hanno gli attori sociali. Questo volume, allora, lo si torna a sottolineare, si propone di provare a chiarire meglio cosa si possa dire quando si impiegano i termini “identità” o “sé”: non intende fornirne una definizione, ma mostrare anzi, alla fine, che ciò che sarebbe realmente interessante per la sociologia è descrivere come funziona nella pratica ciò che viene chiamato “identità”, è descrivere l’ordine visibile di questo “fenomeno sociale”, senza dover supporre che dietro vi siano altri fattori nascosti a cui sia necessario rifarsi per 3 Non rientra tra gli scopi di questo libro quello di approfondire e sviluppare il pur importante tema del rapporto interiorità-identità-azione-condizionamenti sociostrutturali.
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“renderlo” chiaramente. La stessa idea diffusa di un sé sembra del resto rappresentare qualcosa di nascosto dentro di noi, che ci condiziona e su cui possiamo fare solo ipotesi discutibili e discusse senza fine. Quella di “identità”, in fondo, è solo una parola che viene impiegata nella descrizione di interazioni sociali, utilizzata come uno strumento di semplificazione utile a tali descrizioni, mentre, come si vedrà nell’ultima parte, non vi è niente di concreto, fuori dal linguaggio, che corrisponda al termine “identità”. Il percorso espositivo adottato, nel confrontarsi criticamente con alcuni aspetti delle differenti proposte della letteratura sociologica, dopo una premessa dedicata a una ricognizione preliminare della pluralità di termini che costituiscono l’ambito semantico generale del tema in questione, muove da una breve descrizione dell’itinerario storico-concettuale delle idee di sé, seguita da un denso e sintetico percorso di ricostruzione dell’evoluzione della riflessione sociale sul sé e l’identità individuale, passando dai classici ai contributi di esponenti di correnti interazioniste, funzionaliste, strutturaliste, fenomenologiche, etnometodologiche, in loro diverse declinazioni (ad esempio, quella dell’Analisi della Conversazione), ramificazioni ed interrelazioni, fino a giungere a una conclusione in cui si auspica da parte della sociologia uno spostamento di attenzione, a quel punto più consapevole, dal soggetto e dalla sua interiorità alla descrizione dell’interazione cooperativa. Oltre a una serie di importanti complementi filosofici, ci sì è talvolta trovati a dover ricordare anche quelli psicoanalitici ed antropologico-linguistici del discorso condotto – giungendo in un caso fino a discutere la suddivisione tra queste discipline e la sociologia. Inutile dire che si tratta comunque di un itinerario selettivo tra i diversi che potevano e possono essere compiuti all’interno di un tema la cui attualità torna oggi a rinnovarsi più frequentemente e che è attraversato da una letteratura vastissima (ad esempio in filosofia, alla quale si è in alcuni punti accennato). Anche per questo si rende necessario fin d’ora precisare che si è potuta meglio cogliere la complessità dei concetti in campo solo con un approccio aperto all’interdisciplinarietà e dunque secondo una più ampia prospettiva, capace di considerare anche contributi affini a quelli della sociologia. Una seconda importante precisazione riguarda il fatto che qui non ci si interesserà né degli eventuali specifici contenuti di un ipotetico 11 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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sé nell’epoca in cui viviamo, né di come oggi tale sé venga ridefinito, descritto, vissuto e formato in maniere diverse rispetto al passato, ad esempio in termini postnazionali, sulla spinta della simultaneità e delle interconnessioni globali o delle pressioni individualizzanti o atomizzatrici che caratterizzerebbero la nostra contemporaneità, così come delle spinte di fattori interagenti quali riferimenti etnici, sessualità, genere, età, condizione sociale e politica, ambiente economico dominante, teorie sociali influenti, narrazioni diffuse, linguaggio e simboli disponibili. Ciò che ci interessa, invece, è solo cosa si possa intendere con le espressioni “sé” o “identità” riferite a un soggetto umano. Questo nella convinzione che solamente chiarendo questo ultimo passaggio sia possibile affrontare, in altri saggi specifici, gli aspetti che qui sono stati esclusi. Messa da parte è anche la questione dell’identità collettiva, tema che, pur strettamente interconnesso con quello qui trattato, ed affrontato in una vasta letteratura (che si spinge anche a toccare concetti contigui come quelli di comunità, etnia, nazione, movimento e così via), necessiterebbe di una discussione a parte, anch’essa rivolta ad evidenziare i limiti ed i paradossi di un’ulteriormente “scivolosa” costruzione metaforica, espressa attraverso lo stesso costringente termine “identità”. Il criterio con cui sono state selezionate le argomentazioni discusse è stato quello dell’utilizzare la letteratura – più che per confrontare approcci differenti e capire quale sia il più convincente o efficace o coerente nella rappresentazione di ciò che ci interessa – innanzitutto per mostrare il complesso delle dimensioni e degli elementi che costituiscono i riferimenti dell’idea di sé. Alla fine, così, almeno una parte dei termini il cui significato viene dato per scontato nei dibattiti che presuppongono il fenomeno identità individuale verranno forse impiegati con maggiore consapevolezza, perlomeno del fatto che non solo la forma, ma anche il contenuto di un’“identità”, se proprio si vuole continuare a utilizzare questo termine, non dovrebbe costituire qualcosa di definibile a priori, in modo da non risultare mezzo di politiche strumentali ad obiettivi ideologico-politici, ma essere considerato la risultante di processi flessibili, frutto di interazioni che continuamente enunciano e ridefiniscono la semplificazione delle proposizioni di sé. Per questo sappiamo che in parte assistiamo a scontri ed incontri di definizioni identitarie differenti – le cui motivazioni si rifanno ad elementi economici, politici, sociali 12 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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e culturali – tra attori dotati di risorse e obiettivi diversi, che tuttavia interagendo generano una situazione, un ordine sociale a sé, che limita l’influenza di fattori differenziatori interni ed esterni, mentre al contempo produce regole influenti sue proprie. Tale ricerca di approfondimento, oltre a trovare innanzitutto in se stessa la sua spiegazione, è connessa anche al fatto che in questo lavoro si è al contempo provato a dare risposta, a completare, a fornire ulteriore sfondo ed inquadramento teorico, ad alcuni degli interrogativi che di volta in volta erano nati in seguito alla stesura di precedenti pubblicazioni di chi scrive – inerenti argomenti quali la comunità, la differenza culturale, l’integrazione degli immigrati in società d’arrivo –, alle quali si rimanda per ulteriori approfondimenti, anche per quelli di natura bibliografica. Si tratta di argomenti che inevitabilmente finiscono per imbattersi nell’uso della nozione di identità (il modo di concepire la quale influenza, ad esempio, i dibattiti sul multiculturalismo), nei suoi aspetti individuali-relazionali e poi collettivi. Il desiderio che forse emergerà da queste pagine, ma che rimane solo sotterraneo, è così anche quello di provare a costruire alcune fondamenta iniziali grazie alle quali poi passare, in altri lavori, a studiare certe modalità del nostro interagire, non solo in generale ma anche nei contesti or ora ricordati, un interagire complesso e che tocca una vasta pluralità di meccanismi. Anche per questo, invece di seguire il consiglio “poche cose, ma bene”, ho pensato che fosse meglio fornire una visione ampia della complessità del problema. Questo verrà così dimenticato nei suoi dettagli, ma forse ne rimarrà un’idea centrale: quando si parla del sé non ci lasciamo ingannare da chi semplifica eccessivamente e rischia di farci imboccare la strada delle contrapposizioni frontali. Quello che potremmo fare è invece descrivere, meglio che possiamo, come si fa quello che si fa, ad esempio: come facciamo a comportarci da cristiani, musulmani, credenti in una specifica situazione. Ciò vuol dire, ad esempio, che ci si potrebbe concentrare sul modo in cui i parlanti assumono certe “identità/identificazioni proposte” durante gli scambi verbali, cioè su come le attività dei soggetti in interazione costruiscano e usino il fenomeno “identità” (la sua costruzione) nel corso di una conversazione. Per questo il libro si propone di offrire, e si limita ad offrire, un panorama teorico preliminare, allo scopo di suggerire, a chi volesse poi intraprendere 13 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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una ricerca empirica su come si manifesti nell’interazione concreta ciò che siamo abituati a chiamare “sé” o “identità”, domande, dubbi, alcuni possibili approcci di fondo, ma non ancora consigli operativi o tecniche di osservazione, per le quali si rimanda di nuovo a lavori successivi. L’offerta, infine, non è fatta in maniera neutrale, dato che tende a mettere in risalto il fatto che sia necessario non continuare a contribuire, più o meno passivamente, alla diffusione di profezie che si auto-adempiono – con ripercussioni politiche – come quelle che tutti i giorni ci vedono impegnati a pensare un certo altro come separato e costitutivamente diverso per natura. Oltre a prendere posizione su alcuni dibattiti in corso e oltre a tentare di demistificare la diffusa tendenza essenzializzatrice risultante dalla necessità quotidiana di ognuno di semplificare per agire, il discorso condotto lungo l’itinerario proposto invita dunque ripetutamente la sociologia a ricordare l’utilità che avrebbe il riuscire a fornire descrizioni accurate – cosa per niente scontata – dei fenomeni su cui essa rivolge la propria attenzione (senza dimenticare, però, che tali descrizioni sono a loro volta attività pratiche volte a dare un senso a quei fenomeni attraverso l’uso di categorie), i cui protagonisti sono però interazioni, relazioni, connessioni, in cui si formano e riformano continuamente soggetti diversamente concepibili. Un’operazione per cui è tuttavia prima necessario, come in un processo circolare, disporre di consapevolezza teorico-concettuale e molto meno di definizioni a priori di termini. Sebbene qui si sia tentato di illustrare posizioni diverse, cercando spesso di mostrarne la successione cronologica senza lasciarsi troppo condizionare dalla preferenza per alcuni approcci, quello etnometodologico è progressivamente emerso sopra gli altri – ma non necessariamente in opposizione ad alcuni di essi – e risulterà così chiaro, attraverso il procedere della lettura, che chi scrive ritiene di dover attribuire grande rilevanza all’ipotesi che non vi siano soggetti nucleari in sé, personalità autonome, né che vi debbano essere categorizzazioni di individui che precedano la descrizione del loro interagire; vi sono atti che vengono compiuti, attività pratiche, ed i loro referenti possono essere descritti, e possono descriversi, in modi differenti, attraverso categorie storicamente e socialmente costruite, ma che assumono un senso specifico nell’atto della descrizione, categorie costituite e disponibili in determinati ambiti spazio-temporali, ove sono intersoggettivamente intelligibili. 14 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Ringraziamenti
Premesso che mi assumo ogni responsabilità riguardo ai contenuti e ad eventuali errori, imprecisioni e omissioni, vorrei qui ringraziare tutte le persone che, direttamente o indirettamente, hanno reso possibile la pubblicazione di questo libro e l’attraversamento delle non sempre facili fasi che la hanno preceduta. Un grazie va innanzitutto a Paolo Signorini, da cui non smetto mai di imparare. Ringrazio poi Roberto Cipriani, per aver deciso di accogliere il libro nella collana “Modernità e Società” da lui diretta. Paolo Ceri, per aver letto e commentato una delle versioni finali del libro, indicandomi diversi punti di miglioramento e ulteriori, possibili, vie di sviluppo. Enrico Caniglia, che ha letto e commentato alcune versioni del testo, fornendomi sempre preziosi suggerimenti scientifici, ed in generale per la sua disponibilità alla discussione di questo come di altri temi appassionanti. Tommaso Visone, per aver gentilmente rivisto alcune parti e per i suoi consigli. Fabrizio Franci, che mi ha ascoltato per ore raccontare l’idea di fondo di questo libro e molto altro. Maurice Aymard, Mario Caciagli e Franco Cazzola, per il loro sostegno. Mia madre, Gilberta e Federica, che continuano a sopportarmi. Il libro è dedicato a mio padre. «Mi comporto come chi non ha confini precisi» (F.P.).
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Una molteplicità di termini
Se si vuole trattare sotto il profilo teorico il tema dell’identità individuale nel campo della sociologia ed in relazione alle discipline affini, con l’obiettivo successivo di giungere a un uso più consapevole dei termini inerenti i fenomeni cui ci si intenda riferire, bisogna innanzitutto constatare che le parole impiegate dagli studiosi per descrivere ciò di cui qui si parlerà sono numerose e con differenze di significato non sempre chiare o rilevanti, fino al punto da poter risultare in più occasioni intercambiabili, a volte intrecciate o parzialmente sovrapposte, oltre che pronte a rinviare a un senso mutevole nel tempo (cfr. Ferrara 2008). Troviamo ad esempio: identità (individuale), sé, me, io, ma anche personalità, carattere, psiche, ego, mente, coscienza, interiorità, animo, anima, spirito, soggettività, individualità, ipseità, ed in alcuni casi pure soggetto, persona, individuo – anche se è possibile pensare che il sé sia solo un aspetto di una persona, come ad esempio il suo auto-presentarsi, e che dunque i due termini non vadano confusi, sebbene si riferiscano a fenomeni strettamente connessi. Le parole sopra elencate, da identità a ipseità, oggi in Occidente sembrano spesso rivolte a manifestare l’idea, o a descrivere la sensazione, che esista dentro di noi, ad esempio in qualche parte del nostro corpo come il cervello, un qualcosa che fondi la nostra supposta percezione di esistere in modo specifico, individuale e distinto, e che dunque ci caratterizzerebbe come una determinata unità di base dell’agire. Non ci interessa qui discutere su quali siano le cause di una tale costruzione, ma solo rilevare che essa comporta la distinzione di un interno da un esterno, attorno alla quale viene prodotto un discorso diffuso – effettuato tramite i termini ricordati, in modo più o meno diverso secondo l’influenza delle discipline (sebbene all’interno di una stessa disciplina si possa poi anche trovare una certa pluralità di 17 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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impieghi) e delle lingue di riferimento – sulla presunta presenza di certe caratteristiche impalpabili, interne, dei corpi umani: solo ad esempio, la capacità di essere consapevoli del proprio esistere, quella di voler vivere in armonia con dei valori o con una concezione del bene, quella di distinguere e consolidare un proprio modo, supposto specifico, di essere al mondo, attraverso un passaggio incessante per una serie di identificazioni più o meno intense, mutevoli e sovrapponentisi, quella di interpretare dei ruoli, quella di percepire, conoscere, comprendere ed elaborare stimoli, quella di effettuare costruzioni di pensiero, creazioni artistiche, di attivare consapevolmente e/o istintualmente parti del corpo, quella di sentire la supposta influenza di spinte provenienti da un inconscio profondo e da un pre-conscio, di predisposizioni, quella di immaginare di avere in sé qualcosa che possa in qualche modo proseguire dopo la morte e così via. Si tratta di un discorso in base al quale dentro ogni persona vi sarebbe una qualche ipotetica forma nascosta – nel nostro caso un’identità individuale che si costituisce, e ci orienta, nell’interazione – che si riempie di contenuti e che può distinguere un individuo dall’altro (mentre potrebbe essere invece presa a testimonianza dell’idea opposta, cioè che effettuiamo distinzioni artificiali all’interno di un tutto). Detto questo, è necessario tornare a sottolineare come nella letteratura delle scienze umane e sociali le stesse parole sembrino venir impiegate per significare cose più o meno diverse, e termini diversi appaiano rimandare a contenuti molto simili, motivo per cui qui ci si è in buona misura limitati a riportare i termini utilizzati nei testi consultati, rinunciando in anticipo al tentativo di fornire omogeneità e coerenza ai diversi impieghi linguistici di sociologi, psicologi, filosofi, antropologi e così via, così come alla loro costruzione di specifiche sfumature di senso. Tuttavia, dato che, come si è esplicitato nell’introduzione, non vi è qui l’intenzione di proporre definizioni, ma al contempo risulterà utile al lettore disporre di una guida preliminare e provvisoria, grazie alla quale orientarsi tra i discorsi che seguiranno e così appropriarsene in maniera critica, valutandone almeno in parte autonomamente le qualità ed i difetti, compiremo ora una breve ricognizione di alcuni aspetti chiave dell’interiorità umana, seguendo avvertiti contributi, spesso esterni alla sociologia – ma di cui essa potrebbe talvolta, forse, tenere maggiormente conto per fondare le proprie teorie –, che possono essere 18 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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per il momento considerati come descrizioni, se non dominanti, almeno sufficientemente accurate e diffuse dell’interiorità, e che troveranno più avanti, con il procedere del testo, ulteriori approfondimenti o, in alcuni casi, tentativi di più o meno forte messa in discussione. Si considerino dunque le prossime righe come un modo per cominciare a prendere confidenza con il nostro tema. L’identità del singolo può essere vista almeno sotto due profili. Per il primo essa appare come la descrizione della riconoscibilità sociale di un individuo in modo da poterlo differenziare da tutti gli altri; un’operazione che può essere compiuta descrivendo, ad esempio, caratteri anagrafici, collocazione sociale, aspetto fisico. Si tratta di un modo con cui gli altri possono identificare il singolo dall’esterno. Molte delle caratteristiche a cui ci si rifà per effettuare tale identificazione assumono connotazioni qualitativo-valutative differenti secondo gli ambiti socio-culturali, possono mutare nel tempo o essere percepite in maniera e con rilevanza diverse; forse il passo, il modo di sorridere o di fare alcuni gesti con le mani possono offrire maggiore continuità per chi non abbia accesso ad altre informazioni. Questo modo di vedere l’identità individuale è soggetto al rischio di concepirla come una struttura. Per il secondo profilo l’identità appare come l’auto-riconoscimento soggettivo del proprio esistere4 in un certo modo (la sensazione di esserci come specifica immagine corporea ed affettiva di sé), della propria individualità e distinzione caratteristica, grazie al pur ambiguo e carente ruolo della memoria. Si tratta di un’auto-descrizione (apparentemente basata su un bisogno istintivo di auto-descriversi come esistenza unitaria, solida e consistente – cfr. Jervis 2011, 148) che ci classifica e ci valorizza costantemente – al fine di ottenere accettazione, riconoscimento e di costruire e mantenere autostima – e che si fonda preliminarmente sull’autocoscienza. Tale descrizione è basata anche sul come, interazionisticamente, riteniamo che ci vedano gli altri, su come pensiamo o ci illudiamo più o meno segretamente di essere, tra auto-inganni e progettualità, e la sua validità è continuamente contrattata negli scambi con altre persone: dallo sguardo del genitore in poi, l’identità persona4 Il sentimento di esistere è sempre precario e va costantemente ricostruito in connessione con il mantenimento dell’autostima, dell’altrui riconoscimento ed in parte anche della propria condizione socio-economica.
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le è legata al «fissare la rappresentazione di sé in relazione a un certo gruppo di riferimento» (Sparti 2008, 105) che reagisce alle nostre azioni, così riconoscendoci. L’interazione di riconoscimento identificativo e riconoscimento estimativo-valorizzativo (presenti nel primo profilo) contribuisce a formare e ad alimentare, come una sorta di ricompensa emozionale, l’auto-descrizione dell’identità personale come storia di successivi riconoscimenti sociali (conferenti considerazione sociale) – per inciso, la sociologia entra maggiormente in gioco proprio nel momento in cui il fenomeno di cui si parla è connesso anche con elementi esterni al singolo. Da questo secondo punto di vista, l’identità (soggettiva/personale) può anche essere chiamata “sé”. Il sé sarebbe dunque l’auto-presentazione dell’esperienza e della rappresentazione che si ha della propria interiorità, l’esposizione dell’autocoscienza. Il sé corrisponderebbe alla descrizione del nostro modo di cogliere introspettivamente ciò che designiamo con termini quali persona, psiche o mente, o loro parti (cfr. Jervis 2011, 36), con le relative supposte caratteristiche distintive. Queste percezioni del proprio vissuto, queste immagini auto-esperienziali, più o meno realistiche, conflittuali, emozionali e diversamente rielaborate, «costituiscono per ciascuno di noi la continuità con noi stessi e col nostro passato, sono […] rappresentazioni e quindi contenuti della coscienza, o più in generale della mente (in parte infatti rifluiscono nell’inconscio)» (ivi, 37). Anche questo secondo modo di vedere l’identità individuale corre però il rischio di reificare l’interiorità della persona in un’entità oggettiva e unitaria (che è a volte descritta con termini come anima, spirito, ma anche mente o altri termini sostanzializzati a significare proprio persona), seguendo una sorta di spontanea tendenza a illuderci che l’essenza dell’individuo ne preceda l’esistenza, o addirittura a concepirci come entità che utilizzano corpi fisici. L’introspezione tende a reificare l’interiorità cosciente, e dell’autocoscienza di sé si tende a produrre una rappresentazione unitaria, mentre il sé sarebbe un concetto esperienziale soggettivo e non essenzialistico (anche se è visto come oggetto della coscienza), oltre che non necessariamente unitario (cfr. Elster 1986/1991). Inizialmente è solo l’ambiente esterno ad essere oggetto dell’attenzione della coscienza. L’autoriconoscimento come consapevolezza che (la rappresentazione del)l’immagine del proprio corpo è la propria, 20 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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e quindi la prova fondamentale dell’esistenza di una rappresentazione di sé come base dell’autocoscienza, non comincia a verificarsi prima del quindicesimo mese, per giungere a compimento verso la fine del secondo anno di vita. È giustificato ritenere che non si possa affatto parlare di consapevolezza di esistere e di avere un corpo prima che vi sia la capacità […] di rappresentare la propria immagine sapendo che è la propria immagine; ed è giustificato altresì ritenere che l’auto-riconoscimento allo specchio ne sia la verifica appropriata (Jervis 2011, 76).
Prima del quindicesimo mese il bambino non è ancora capace di separare categorialmente una sua mano da altri oggetti di uso domestico (come il suo cuscino) che non fanno parte del suo corpo. L’autocoscienza adulta non si limita alla capacità di effettuare l’operazione cognitiva di costruire un’immagine corporea considerando al contempo questa immagine «come fonte attiva della rappresentazione di sé» (ivi, 78), ma riguarda anche quella di appropriarsi introspettivamente delle proprie azioni, cioè di rappresentarle e riconoscerle come proprie, considerando quindi il loro significato. Per far questo, però, il soggetto deve essere capace di rappresentare non solo le azioni corporee ma anche le intenzioni e gli affetti che egli produce dentro di sé, e quindi deve essere capace di rappresentare le proprie fantasie e il proprio mondo interiore, oggettivando quest’ultimo ma al tempo stesso facendolo proprio. È questa l’introspezione: cioè il sapere che si stanno considerando, “oggettivamente”, i vari aspetti della propria stessa soggettività. Il luogo della riflessività non è qui più solo il corpo come dimensione reale, ma la mente come dimensione virtuale “interna” (ivi, 78-79).
Tra il terzo o quarto anno di vita all’autocoscienza corporea si aggiunge quella relativa alla capacità cognitiva di rappresentazione e descrizione delle proprie produzioni mentali all’interno dello spazio immaginario della mente. Grazie all’autocoscienza introspettiva si ha la capacità di prendere in esame riflessivamente, rendendosene così responsabili, le proprie azioni ed i propri progetti. La coscienza prende 21 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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consapevolmente per oggetto non più solo il proprio corpo e l’ambiente esterno, ma se stessa (potendo così, ad esempio, descrivere ricordi, pensieri, fantasie). Nell’acquisire tale capacità di auto-monitoraggio psicologico svolge un ruolo importante il linguaggio, la capacità di usare pronomi personali come “io” o “tu” e quella di applicare a sé o agli altri termini utili a descrivere comportamenti e stati a contenuto mentalistico. Tuttavia, Jervis ci ricorda anche come l’acquisizione della coscienza di sé rimanga sempre precaria, carente, spesso parziale – non solo nelle popolazioni preletterate – e come in fondo l’autocoscienza sia in gran parte un’illusione, una costruzione sociale narrativa fatta di dimenticanze, accantonamenti, razionalizzazioni, modificazioni, auto-inganni interessati e malafede (sebbene talvolta utili, come l’entificazione di sé, alla cooperazione, alla reciproca intesa e, nuovamente, all’autostima), e costituisca comunque la coscienza introspettiva di una superficie scambiata per una profondità. L’introspezione come capacità di accedere direttamente all’interiorità – oltre ad essere rara nella sua forma piena (monitoriamo e siamo autocoscienti della nostra interiorità solo di rado: un’osservazione di cui ricordarsi durante la lettura delle pagine che seguiranno) – è in fondo un mito. Infatti, la descrizione della propria interiorità ha una variabilità culturale, si armonizza con le aspettative di altre persone e, a volte, con l’immagine di sé che si ama coltivare; inoltre, invece che al mondo interiore accediamo a una dimensione immaginaria in cui esistono costrutti giustificativi socialmente convenzionali: si può suggerire l’idea che quella che chiamiamo, un po’ approssimativamente, la coscienza umana, invece di consistere in uno stato cognitivo continuativo della mente, consista perlopiù nella capacità di rimotivare ex post le proprie azioni, ovvero nella capacità di “approvare” di continuo ciò che si sta facendo. Secondo quest’ultima ipotesi, i processi mentali sarebbero tutti sostanzialmente inconsci e, per così dire, automatici, ma verrebbero poi parzialmente descritti e correntemente giustificati, in forma narrativa, con l’aiuto di costrutti del tutto convenzionali quali “scelta”, “ispirazione”, “intuizione”, “auto-determinazione”, “volontà” (ivi, 33).
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L’inconscio sembra così dominare su tutta la vita mentale; pur potendo fare affermazioni sulle nostre intenzioni, qualificandole come deliberate e giustificandole secondo canoni socialmente accettati e sistemi di spiegazione accreditati, non sappiamo davvero quali esse siano. La «più esplicita espressione dell’intenzione non basta, da sola, a fornire l’evidenza dell’intenzione» (Wittgenstein 1953/2009, 216); «sembra che l’“intima esperienza vissuta” del volere scompaia […]. In sua vece ci ricordiamo di pensieri, sentimenti» (ivi, 217). «Si potrebbe dunque dire: l’azione volontaria è caratterizzata dall’assenza di sorpresa» (ivi, 213), è cioè quella che, subito dopo, non ci stupiamo di aver compiuto. Il confine tra conscio ed inconscio è molto incerto, il secondo pare estendersi fino a poter mettere in discussione l’idea stessa di coscienza. «L’autocoscienza in quanto riflessività introspettiva è dunque, essenzialmente, un’attività di riappropriazione narrativa dei prodotti di elaborazioni cognitive inconsce» (Marraffa 2011, XLII). In generale, la coscienza sarebbe un semplice nome, generico ed ambiguo, attribuito a numerose funzioni e fenomeni tra loro eterogenei, a forme variegate di rapporto attivo di un soggetto con l’ambiente. Ma il sé, la coscienza, l’io, la mente non sono fenomeni unitari e ben identificabili, non sono entità o cose di nessun tipo, sono, se non una vera e propria finzione, termini convenzionali ed evanescenti con cui raggruppare, a volte a scopi conoscitivi, fenomeni differenti tra loro, che immaginiamo in buona misura nel cervello; un cervello in cui non vi è alcun vertice funzionale, né alcuna funzione superiore, nessun Autore Centrale (cfr. Dennett 1991/2009). Cominciamo così ad inoltrarci in un dibattito che si articola tra scienze della mente e filosofie della mente (cfr. Di Francesco e Marraffa 2009a5) e che potrebbe offrire anche alla sociologia occasione di riflessione e confronto. Le posizioni in campo sono diverse e non si è ancora giunti ad ampi consensi su quale sia possibile ritenere la più fondata tra quelle che possiamo considerare accurate ipotesi sulla possibile esistenza e qualità dell’io. Secondo Damasio (1999/2000) vi sarebbe prima un livello biologico preconscio, il proto-sé, una collezione coerente di configurazioni neurali che producono momento per momento mappe dello stato della 5
Testo a cui, oltre a quelli citati in questa sezione, si rimanda per ogni ulteriore approfondimento di una letteratura ormai molto ampia.
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struttura fisica con rappresentazioni di sé di tipo subpersonale; da questo emergerebbe poi il “sé nucleare” dotato di una “coscienza nucleare” di sé preverbale, per immagini (il cervello è capace di produrre immagini dell’organismo che percepisce consapevolmente un oggetto e modifica così il suo stato); da qui, infine, si arriverebbe alla formazione di una coscienza estesa, frutto della capacità di imparare e memorizzare le esperienze passate e di riattivarle, in modo da generare un senso di prospettiva individuale. Il passaggio completo a un io esteso, narrativo, avviene però grazie al pieno possesso di un linguaggio, che offre la capacità di narrazione verbale, di una ricca auto-rappresentazione sociale e culturale della propria soggettività. In questo modo la costruzione dell’io sembra avere sia componenti biologiche e prelinguistiche, sia componenti sociali e culturali. Se queste ultime sono le più evidenti quando osserviamo l’io in azione nelle normali interrelazioni tra individui, e in molti processi mentali descritti dalla psicologia di senso comune, le prime si manifesterebbero in domini quali l’esperienza percettiva, la propriocezione somatica, il dualismo sé-mondo nel ragionamento spaziale, le interazioni psicologiche precoci, e sembrano rappresentare il punto di partenza per il passaggio da una coscienza “nucleare” di matrice biologica a una “estesa” in cui cultura e società hanno un ruolo rilevante (Di Francesco e Marraffa 2009b, 3).
Dennett (1991/2009) ritiene che il suddetto passaggio sia biologicamente previsto, vi sarebbe una continuità naturale tra io biologico e culturale. Inoltre, lo studioso americano ricorda come una serie di abitudini indotte proprio dalla cultura, oltre che dall’auto-esplorazione individuale, abbiano portato i circuiti cerebrali specializzati del nostro cervello – che sarebbero in realtà i veri responsabili del funzionamento cognitivo dell’individuo – a produrre una sorta di presunto comandante virtuale. Ma nel cervello non vi è nessun sistema esecutivo centrale che coordina tutte le operazioni cognitive. Vi è un parallelismo dell’elaborazione neurocognitiva, vi sono processi neurocognitivi inconsci, specializzati, distribuiti e paralleli, che fissano contenuti il cui carattere cosciente è legato al “peso” che riescono ad acquisire nel cervello, alle 24 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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loro capacità di monopolizzare l’attenzione e di influenzare altre fissazioni di contenuto (non vi è coscienza unitaria). Non vi è dunque un io unitario e continuo nel tempo, la cui finzione è il prodotto di comportamenti linguistici appresi come le forme di auto-stimolazione linguistica (ad esempio, parlare a se stessi), che finiscono per “creare” un io, narrativo ed astratto, ambito virtuale e plurale in cui sembrano incontrarsi le storie che ciascuno racconta di sé e che gli altri raccontano su di lui. All’interno del dibattito si inserisce poi il “modello della mente estesa” (cfr. Di Francesco 2009), per cui la mente non sarebbe all’interno del cervello, ma si diffonderebbe nel corpo e nell’ambiente. La mente non sarebbe un medium interno che mette in relazione un soggetto con la realtà esterna, poiché vi sarebbero processi cognitivi che si estendono oltre i confini del cervello e del corpo, localizzabili nell’ambiente fisico e sociale in cui agisce un organismo. Il veicolo della cognizione umana è così un sistema che comprende cervello, corpo e ambiente, elementi che cooperano, originando un unico flusso causale integrato, per il raggiungimento dei nostri compiti cognitivi. Il linguaggio svolge qui un ruolo centrale, sia nell’influire sulle prestazioni cognitive, sia come strumento per effettuare cambiamenti nell’ambiente – il linguaggio pubblico permette la formulazione di pensieri poi sottoponibili ad ulteriori riflessioni. La mente risulta descrivibile (Clark 1997/1999) come un processo spazio-temporalmente esteso, non limitato all’involucro della pelle e della testa, comprendente sì cervello, corpo, linguaggio, ma anche strutture sociali e tecnologie (strumenti di supporto esterni della cognizione). Si tratta di un modello che porta a un approccio antisostanzialista all’io; una nozione, quest’ultima, vista come usata più per abitudine che per necessità, dato che l’io non sarebbe nella testa degli individui e che ciò che si avrebbe invece di fronte, più che soggetti tradizionalmente intesi, sarebbero coalizioni di fattori-agenti; o soggettientità distribuiti nel mondo sociale e culturale. Diffusa è anche l’idea del carattere composito e plurale della mente, senza che vi sia un sé mentale interno e cosciente che controlli le attività cognitive, che si deve confrontare con l’ipotesi dell’operare fin dalle prime ore di vita di un’auto-consapevolezza individuale minimale, ecologica, pre-linguistica (parte della nostra identità individuale apparterrebbe così a un livello precedente quello dell’acquisizione 25 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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di una lingua), non concettuale, cui si associa l’auto-consapevolezza corporea permessa dalla propriocezione (cioè la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei propri muscoli anche senza il supporto della vista). Si tratta di un dibattito molto ampio ed in corso, cui si aggiunge quello sulla continuità dell’io. Di Francesco e Marraffa (2009b, 42) ricordano a proposito che se la base «dell’idea di io è quella di un soggetto di esperienza interiore, presente a se stesso in un’esperienza dotata di auto-evidenza e immediatezza, la durata di questo io […] in un singolo flusso di coscienza […] è piuttosto breve (possiamo parlare di pochi secondi)». Strawson (1997) ipotizza, ad esempio, che vi sia una sequenza di brevi selves momentanei che si succedono l’uno all’altro, che esista un io mentale minimale discontinuo, il quale esiste in ogni periodo di coscienza ininterrotto o privo di lacune. Ma si ricordi che l’accesso al mondo interiore è in larga misura accesso a una dimensione immaginaria (cfr. Marraffa 2009), che attinge a sistemi di spiegazione di senso comune, a teorie psicologiche ingenue. Come si è cominciato a vedere, l’“identità individuale” viene descritta secondo diverse dimensioni e differenti declinazioni dell’importanza di ognuna di esse; è utile esserne consapevoli per proseguire in un itinerario che prova a capire cosa possiamo fare con tale espressione.
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Concezioni antiche ed al contempo anticipatrici
La concezione del sé come qualcosa di legato a un singolo corpo individuale non è sempre stata propria di ogni essere umano in ogni luogo e tempo, neppure oggi. La consapevolezza di quanto contenuto in questa affermazione si è però diffusa per gradi. Un parziale passo in avanti lo ha fatto Mauss (1938/1965) quando ha abbozzato una storia del concetto di io dove si tenta di mostrare come questo cominci ad essere considerato qualcosa di individuale, soprattutto dopo l’influenza del diritto romano e della concezione interiore dell’anima del cristianesimo – anche se si tratta di un’affermazione che può essere discussa e che ha una variabilità spazio-temporale (ad esempio non risulta corretta per ambiti complessi come quello cinese od altri, in cui peraltro il significato di io può assumere connotazioni diverse). Così, quella di “persona” è l’idea con cui l’uomo occidentale dell’età moderna rappresenta e percepisce se stesso e gli altri. Mentre il concetto di personaggio sarebbe maggiormente universale – molte società sono infatti arrivate alla nozione di personaggio, di maschera sociale: secondo Mauss le risultanze etnografiche mostrerebbero come spesso il clan venisse concepito come formato da un certo numero di personaggi e come il ruolo di tutti questi personaggi consistesse nel raffigurare, ciascuno per parte sua, la totalità prefigurata del clan –, quello di persona (in quanto “fatto” giuridico e morale) risulterebbe più propriamente occidentale, si sarebbe formato a Roma (dove lo schiavo, non capace di incarnare un ruolo sociale, non era persona6) e, con il tempo, avrebbe poi assunto un carattere sacro. Ciò che oggi è importante ritenere, tuttavia, è che, al di 6
Sul dibattito inerente il riconoscimento di una persona come tale cfr. Sparti (2008).
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là dell’essere pensabile come un fascio di relazioni o come un organismo biologico, la categoria di persona non è una struttura psichica innata, ma una struttura di credenze sociali linguisticamente mediata che l’individuo impara ad apprendere, una fragile produzione umana. In più punti di questo lavoro finiremo anche per imbatterci nella constatazione che l’assunto dell’esistenza di un sé personale che fa esperienza di un mondo oggettivo esterno è il frutto di una costruzione storico-sociale e culturale, e non un dato universale; qui incontreremo solo alcuni degli elementi che ci possono spingere in questa direzione, mentre se ne troveranno altri – a ulteriore sostegno, chiarificazione ed approfondimento dei primi – più avanti, soprattutto quando si ricorderà l’importante riflessione di Pollner (1987/1995) in merito. Dato il tentativo di seguire un percorso per quanto possibile cronologico, grazie al contributo del sopra ricordato sociologo americano, qui ci si limiterà per il momento solo a sottolineare come – anche se si decida di riferirsi esclusivamente alla storia occidentale – vi siano importanti differenze con cui si è costruita nel tempo la concezione (per l’appunto occidentale) della mente e del sé. Sembra, ad esempio, che i Greci, ed altri popoli antichi, non avessero una concezione unitaria dell’individuo, e che per essi non esistesse il senso del corpo come un tutto unico, ma solo quello di parti indipendenti diversamente assemblate; allo stesso tempo non vi erano distinzioni precise tra ciò che oggi chiameremmo “anima” e “personalità”, non vi era l’idea di una psiche autonoma che pensa, prova sensazioni ed è capace di introspezione; nella Grecia antica probabilmente non vi era proprio una soggettività (Jaynes 1976/2007), né una coscienza così come oggi la intendiamo. La “mente cosciente soggettiva”, la coscienza individuale, è un “operatore” che ha avuto una sua storia evolutiva e potrebbe essere comparso in forma avanzata intorno al 1500 a.C., quando la mente degli uomini ha imparato ad essere cosciente e si è affermato il linguaggio della soggettività. La soggettività risulterebbe così essere un prodotto ed al contempo un fattore attivo dell’evoluzione umana (Addario 1989), legato all’attività linguistica e cognitiva. La soggettività, dunque, intesa come autocoscienza frutto della capacità di auto-osservazione riflessiva mediata dal linguaggio (attraverso cui i singoli si descrivono e si costruiscono in un determinato ambito socio-culturale), si è formata 28 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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storicamente7. Essa sarebbe il prodotto, relativamente recente, di un processo di oggettivazione linguistico-cognitivo che ha costituito nel tempo un “linguaggio identitario”. Tale linguaggio ha teso a rappresentare gli umani in prima istanza «in termini di volontà, intenzione, progetto, scelta, decisione» (ivi, 42) e viene ora dato per scontato, mentre è stato parte attiva nella produzione della nostra soggettività. Fino al XVI secolo, poi, il discorso dominante ha avuto la tendenza a rifiutare la distinzione tra un interno e un esterno, il soggetto e l’oggetto delle enunciazioni erano infatti collocati nella stessa struttura, di cui faceva parte anche l’enunciazione linguistica stessa, il nome, del legame tra individuo e realtà (cfr. Reiss 1982). Solo con il Cinquecento il mondo conoscibile avrebbe cominciato, invece, a diventare un oggetto di analisi distinto dal discorso con cui gli uomini ne parlano. Secondo Foucault (1966/1978, 336), l’idea di individuo razionale, capace di prendere decisioni e di progettare, si è sviluppata grazie al razionalismo del Seicento, ma solo agli inizi del XIX secolo «l’uomo appare con la sua posizione ambigua di oggetto nei riguardi di un sapere e di soggetto che conosce», come si vedrà meglio più avanti. «L’“umanesimo” del Rinascimento, il “razionalismo” dei classici poterono agevolmente dare un posto privilegiato agli umani nell’ordine del mondo; non poterono tuttavia pensare l’uomo» (ivi, 343). La sociologia storica di Elias (1939/1988) ci permette di chiarire maggiormente le osservazioni appena fatte. Così come avviene a livello filosofico, ad esempio nella filosofia dell’io pensante di Cartesio – che nel Seicento osservava come l’io individuale, l’io che pensa, fosse la prima sostanza, in ordine logico, e l’unica che potesse costituire il fondamento dell’esistenza di tutte le altre (l’autocoscienza precede le altre cose ed è capace di interrogarsi sulla loro reale esistenza fuori 7
La soggettività viene da Addario (1989, 49) definita, infatti, come «una proprietà emergente nel corso dell’evoluzione della mente», come una capacità cognitiva di autoosservazione realizzata da un sistema auto-poietico individuale come quello costituito dal sistema mente-sistema nervoso-organismo «quando raggiunge un certo stadio della propria auto-evoluzione» bio-culturale. Un’evoluzione connessa a quella del sistema sociale (ad esempio, alla differenziazione e razionalizzazione delle strutture normative e funzionali che in Durkheim hanno portato alla solidarietà organica), al cui interno è compresa ed in cui, per il sociologo italiano, ci permetterebbe di adattarci all’incertezza ed alla precarietà della vita, consentendoci di rappresentare e definire riflessivamente le situazioni nell’interazione.
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della coscienza che si ha di esse), come vi fosse un’unione intrinseca tra anima e corpo, una stretta congiunzione dell’io con il corpo, e come in fondo pure le cose rappresentate dalle idee esistessero realmente al di fuori del sé in quanto sicuramente Dio esiste (dato che il soggetto non può aver creato da solo l’idea della perfezione totale) e un essere perfetto non può ingannare il pensante ed è dunque la garanzia che tutto ciò che appare come chiaro ed evidente corrisponda a una realtà oggettiva –, anche nell’esperienza della vita quotidiana il sé dell’individuo, la sua identità, è nelle società occidentali considerato come qualcosa di chiuso dentro di esso, separato dalle altre persone e cose che sono al suo esterno. Ma il fatto che in Occidente si tenda a dare per scontata, a considerare come auto-evidente, come qualcosa di proprio della stessa condizione umana, l’idea che un individuo sia un essere autonomo delimitato dai confini del proprio corpo, dalla pelle, l’idea che abbia una psiche interna separata dal mondo esterno, e più in generale l’idea della distinzione tra soggetto e oggetto, non è in alcun modo un fatto in conseguenza del quale sia corretto considerare tutto ciò come un assunto che possa essere dato per acquisito, anche se ha una presa tale che chi è socializzato in un ambiente che lo assume irriflessivamente ha poi grandi difficoltà a concepire in modo alternativo l’esistenza di persone che vivono se stesse in un’altra maniera. Invece, la diffusione dell’idea, considerata ovvia, che il singolo sia un homo clausus, cioè un essere autonomo e a sé stante, con un sé interno separato, ha finito per determinare l’immagine dell’uomo (occidentale) in generale. Non sembra esserci una buona ragione per dire che vi sia una psiche distinta rinchiusa dentro un corpo, tale percezione ci appare tuttavia autoevidente a causa di alcuni processi diffusisi nel tempo e legati a quello di civilizzazione. Il processo di differenziazione della società e la connessa e crescente interdipendenza funzionale tra i singoli hanno fatto sì che gli individui fossero costretti a controllare, regolare e stabilizzare i loro comportamenti, adattandoli alle necessità del nuovo ordine. Al contempo, l’istituzione di uno Stato centralizzato più stabile ed in grado di monopolizzare l’esercizio legittimo della forza fisica ha potuto sorreggere il suddetto processo di regolamentazione dei comportamenti impulsivi e violenti, generando spazi pacificati che inducono anch’essi a una ridu30 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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zione e controllo dell’istintualità, generando un meccanismo che, come si vedrà, contribuisce alla costruzione di un’organizzazione psichica individuale autonoma. Utilizzando i manuali di etichetta a partire dal XIII secolo in avanti, Elias mostra, infatti, come si sia andato diffondendo un controllo sul comportamento spontaneo e impulsivo degli uomini nell’ambito della vita quotidiana, un controllo progressivamente sempre più intenso e pervasivo esercitato in particolare nei confronti delle funzioni corporali e degli orifizi (ad esempio nel corso del mangiare a tavola). La regolamentazione diviene via via più sottile e differenziata e si amplia fino a rivolgere i propri dettami sia agli adulti sia ai bambini. Le restrizioni indicate sono interiorizzate fin nel profondo, influenzano il senso più intimo del sé, il senso di interiorità del singolo e, col tempo, divengono inconsciamente ritenute parte della stessa natura dell’uomo, al punto che una loro violazione è associata a sentimenti di disagio e vergogna e, quando prolungata, possibile segno di comportamento deviante. Ma sono proprio i vincoli posti agli impulsi a formare quel confine di separazione tra il mondo interno dell’individuo ed il mondo ad esso esterno, ad essere vissuti come elemento fondante la distinzione tra soggetto e oggetti del conoscere, tra ego ed alter ego, tra individuo e società, a permettere quella conseguente maggiore correttezza e padronanza di sé che a sua volta consente lo sviluppo del senso di sé come persona individuale autonoma e distinta – sebbene sia errato separare l’individuo dai suoi contesti e dalle sue interdipendenze. Per Elias (1987/1990, 113), inoltre, già all’epoca di Descartes era avvertibile il passaggio «da un’idea di sé e del mondo fortemente imbevuta di religione a un’idea secolarizzata»: il «passaggio da un pensiero ancora prevalentemente basato sull’autorità a uno più autonomo […] [è] in stretto rapporto con la più ampia individualizzazione avvenuta in Europa nei secoli XV, XVI e XVII, che procedette parallelamente al passaggio da una formazione della consapevolezza più dipendente da autorità “esterne” a una più autonoma ed “individuale”» (ivi, 115116). Il progresso della conoscenza e l’acquisizione graduale dell’autoconsapevolezza hanno fatto sì che se prima gli uomini vivevano e sentivano se stessi in modo conforme alla loro educazione ed alle loro forme di vita, come membri di forma31 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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zioni, di gruppi familiari […] o magari di ceti, inseriti in un regno dello spirito governato da Dio, ora, pur senza perdere del tutto l’altra rappresentazione, videro e sentirono se stessi sempre più come individui singoli. Conformemente alle mutate forme sociali di vita e soprattutto al crescente ritegno imposto ai sentimenti che ora si esigeva, e data la necessità sempre più pressante di osservare e pensare prima di agire – e ciò sia nei confronti degli oggetti fisici, sia, non meno, degli uomini –, nella consapevolezza dei singoli la loro esistenza si proiettò come un dato singolo distaccato da tutti gli altri uomini e cose ed acquistò un valore superiore (ivi, 125).
L’atto del pensare si condensò nella rappresentazione di un “intelletto”, di una “ragione”; il pensare ed il crescente controllo delle pulsioni affettive erano così propri di un uomo consapevole e capace di sottoporre se stesso a riflessione. Tuttavia, ancora nel Seicento Spinoza ricordava come l’uomo semplicemente non avesse consapevolezza di essere parte del tutto (tutto ciò che ci circonda, l’intero universo, è Dio: Deus sive natura, Dio ovvero la natura stessa), non intuisse facilmente il fatto che l’io è parte di un’unica sostanza divina, e come dunque fosse erroneamente convinto di avere un’esistenza autonoma mentre è solo un aspetto del tutto Dio-natura-uomo. Taylor (1991/2002 e 1992/2001), riconducendoci invece all’evoluzione illustrata da Elias, ci permette di aggiungere che solo più avanti, alla fine del Settecento, è emersa una ulteriore nuova visione di sé e dell’identità individuale, attraverso la progressiva affermazione di un’identità individualizzata rivolta alla fedeltà autentica al proprio particolare modo di essere, alla propria profondità interiore. È emerso cioè un legame tra identità ed importanza morale del contatto con se stessi e dunque con la propria autenticità che da Herder è oggi giunto fino a noi, dato che ora, ancor più che alla fine del XVIII secolo, gli uomini connettono solo in parte la propria identità e definizione di sé alla posizione sociale, al ruolo sociale così come riconosciuto da uno sguardo esterno, e si rifanno invece spesso all’ideale dell’autenticità. Procedendo ancora nel tempo, il processo identitario sembra «intrinsecamente legato alla modernità» (Kaufmann 2004; 2006, 594): in una prima fase storica si forma a partire dall’alto, grazie allo sviluppo 32 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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della burocrazia statale che, attraverso l’identificazione amministrativa, controlla gli individui e attribuisce a intere popolazioni una carta d’identità concepita come in grado di concentrare tutta la realtà di una persona, dunque semplificandola forzatamente8. I diversi settori dello Stato – come ad esempio, ed in primo luogo, la scuola (che entra in competizione con la socializzazione familiare e religiosa) – contribuiscono a fabbricare le identità, in un percorso che può essere visto modificarsi notevolmente in una seconda fase, quella degli anni Sessanta del Novecento, quando – una volta divenuta più contraddittoria l’influenza delle strutture sociali – per buona parte della popolazione occidentale si apre la strada all’emergere del Soggetto, della libertà di scelta dell’individuo democratico, progettuale, riflessivo e capace di autocontrollo, all’invenzione di sé, al culto del sé, all’individualismo, su cui si concentra anche la teoria sociologica più recente, individuandone con accenti diversi pure i limiti e le condizioni di possibilità (cfr. Corcuff, Le Bart e de Singly 2010). Una letteratura che, ad esempio, passa per Touraine, Wieviorka, Dubet, Giddens, Beck, Bauman, Lipovetsky, Sennett, Lasch, Inglehart, Bell, de Singly, Deleuze, Guattari, Baudrillard, Taylor, Habermas, Honneth, Collins, Castells, Turkle, Dumont, Gauchet, Ehrenberg e si ramifica in tematiche differenziate, che vanno dall’affermazione di autonomia del Soggetto – che costruisce e cerca di controllare la propria storia di vita in un contesto di condizionamenti e domini – alla tensione, per alcuni anche emotiva, tra frammentazione ed omogeneizzazione cui esso è sottoposto di fronte ai processi di globalizzazione, cosmopolitizzazione, diffusione del disagio e del consumismo, postradizionalizzazione, atomizzazione, fino all’importanza del riconoscimento e diverse altre ancora, che qui tuttavia ci allontanerebbero dai nostri obiettivi più immediati, all’inizio esplicitati e rivolti alla forma generale e non al contenuto specifico, ad esempio individualistico (o egoistico, o autenticitario, o auto-realizzativo, o narcisistico, o privatizzato), flessibile, parzialmente frammentato, dislocato, scisso, schizofrenico, decomposto, fluido, indefinibile, fluttuante, incerto, incoerente, effimero, annoiato, superficiale, esibizionistico, libero, di reinvenzione 8 In Italia, in seguito alla sentenza 3769/1985 della Corte Suprema di Cassazione, il diritto all’identità personale è stato compreso fra i diritti inviolabili dell’uomo garantiti dall’art. 2 della Costituzione.
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istantanea (più o meno tecnologicamente mediata), attribuito al sé ed alla sua supposta identità. La questione identitaria è il risultato storico della disgregazione delle comunità, del frazionamento sociale, dell’individualizzazione, in seguito ai quali (secondo modalità che erano state descritte anche dalla sociologia classica di Tönnies, Simmel, Durkheim, Weber) l’individuo viene come liberato e costretto ad auto-definirsi dall’interno, dato che l’identità concessa/attribuita dall’esterno, dalle strutture in cui il singolo si trova inserito, lo è in modo sempre più parziale ed imperfetto. Anche se qui non verrà ricostruito, ciò che importa ritenere, dunque, è solo che la produzione di un’identità individuale pienamente dispiegata – identità spesso oggi intesa (cfr. Kaufmann 2004) come griglia eticocognitiva individuale fluida che, stimolata anche da immagini, emozioni e sogni, contribuisce a costruire la realtà e ad influenzare il modo in cui agire in essa – è un processo storico relativamente recente, così come l’individuo stesso e la sua autonomizzazione per diversi studiosi sono un prodotto della storia sociale: l’individuo come oggi ordinariamente concepito è una costruzione sociale apparsa tardivamente nella storia a seguito di processi di differenziazione di contesti sociali sempre più sofisticati (cfr. White 2008/2011).
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Uno sguardo ai primi classici
Il tema dell’identità ha suscitato nel tempo, direttamente e indirettamente, un interesse estremamente ampio e diversificato, in molti dei diversi settori di espressione e di conoscenza a cui si è applicato l’essere umano, dalla letteratura all’arte, dal diritto alla biologia, dalla storia alla filosofia. Se anche si prendesse in considerazione solo uno dei campi più prossimi a quello della riflessione sociologica (quello filosofico) ci si imbatterebbe in una letteratura vastissima, che trova nel venire meno delle certezze proposte dalla tradizione cristiana occidentale un punto di svolta significativo. Già in Montaigne (1580-92/2005) troviamo un soggetto fragile ed in perenne trasformazione: non c’è alcuna esistenza costante, né del nostro essere né di quello degli oggetti […] [,] andiamo scorrendo e rotolando senza posa. […] E se, per caso, fissate il vostro pensiero per voler afferrare il suo essere, sarà né più né meno che se voleste afferrare l’acqua: poiché quanto più […] [si] serrerà e stringerà ciò che per sua natura cola via dappertutto, tanto più [si] perderà ciò che [si] voleva tenere e stringere in pugno. Così, essendo tutte le cose soggette a passare da un cambiamento all’altro, la ragione, cercandovi una reale consistenza, si trova delusa, non potendo afferrar nulla di consistente e permanente (ivi, II, XII, 801). Non c’è niente che rimanga, né che sia sempre uno (ivi, 803).
Se nel Seicento i Pensieri di Pascal avevano mostrato la molteplicità dell’io, dei suoi ruoli e qualità, che per di più mutano nel tempo, facendo sì che non vi sia unità sostanziale, né sincronica né diacronica, di una persona, Bodei (2002/2009) – al quale si rimanda per l’accurato 35 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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approfondimento di tale letteratura a partire dalla svolta sopra citata – individua simbolicamente nel 1694, anno di pubblicazione della seconda edizione del Saggio sull’intelletto umano da parte di Locke (in cui quest’ultimo aveva coniato l’espressione “identità personale”), il momento in cui si afferma con maggiore evidenza il dubbio circa la fede religiosa nell’esistenza ontologica di un’anima individuale, sostanziale, immortale, permanente, su cui scorre il fluire mutevole delle esperienze. Da Locke in poi viene scossa la fiducia nell’ininterrotto permanere della coscienza di sé e «la questione della consapevole permanenza nel tempo del proprio io durante l’arco di un’unica vita» (ivi, 8) ha così continuato ad assillare fino ad oggi la filosofia occidentale. Per il filosofo inglese ormai non è più possibile provare l’ininterrotta continuità della coscienza – coscienza che percepiamo intuitivamente – attraverso il tempo. Non è più possibile rifarsi né a un’“anima sostanza”, né al cogito cartesiano, ma l’identità personale persiste, pur nelle variazioni del corpo (essa non consiste, infatti, nell’identità del corpo), in quanto identità della coscienza di sé lungo l’asse del tempo, grazie allo sforzo di mantenimento della capacità di gettare dei ponti attraverso le discontinuità prodotte, ad esempio, dall’oblio dei ricordi, che necessitano, invece, di essere continuamente rinfrescati dalla mente. «La coscienza non si limita al presente, ma si estende al passato, nella forma della memoria, e al futuro, nella forma della preoccupazione o della cura […] per la propria eterna felicità» (ivi, 39). L’identità è dunque per Locke sempre intermittente, ma è anche la stessa causa dell’intermittenza, la memoria, a poter compiere lo sforzo di stabilire una connessione tra i diversi stati di coscienza che essa è in grado di richiamare, ponendo il susseguirsi sensato dei momenti lungo la serialità del tempo. L’identità personale si configura, così, come estensione della consapevolezza attuale da parte di una singola coscienza, di un legame di continuità tra due o più eventi seriali lungo il filo di un tempo che dal passato scorre verso il futuro. Locke si avvale proprio del termine “identità”, che risulta essere un prodotto costruito della coscienza, capace di legare fra loro la molteplicità delle esistenze e delle azioni di cui è fatto un individuo. La coscienza stessa consiste nell’attività, sempre precaria nel tempo, di unificazione e auto-attribuzione che dà luogo alle mutevoli configurazioni dell’identità personale. Può anche accadere che la coscienza non 36 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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riesca a unificare le azioni e ad attribuirle a un’unica persona, lasciando così emergere la molteplicità e facendo dunque mancare un’identità dell’io, un’identità quindi sempre instabile. Come si ricorderà anche più avanti, sarà poi Hume (1739-40/2010) nel Settecento a mostrare l’impossibilità di provare teoricamente la persistenza (cartesiana) e la consistenza dell’io. Nel primo libro del Trattato sulla natura umana egli osserva come la coscienza di sé sia, di volta in volta, solo il frutto di una specifica percezione. Non è possibile osservare qualcosa che non sia una percezione, dunque anche quella di se stessi è una percezione. Le percezioni sono intermittenti, lacunose, disomogenee ed incoerenti e non colgono nient’altro al di là di quella percezione. Noi possiamo coltivare solo l’illusione di una continuità delle percezioni di noi stessi ed immaginare un’identità fittizia dell’io nel tempo, ben poco aiuto ci viene dalla memoria e dalla sua azione unificante, che è imperfetta ed alle cui carenze sopperisce l’immaginazione. Inoltre, non sembra esserci un centro identitario dell’io separato dalle esperienze, dalla relazione con le cose e con gli altri; «altro non siamo se non un fascio o un accumulo di sensazioni diverse, che si susseguono con inimmaginabile rapidità e sono in perpetuo flusso e movimento» (ivi, 264). Le particolari percezioni che cogliamo nella nostra mente non necessitano dell’ipotesi di un io che le possieda o raccolga, possono esistere separatamente, senza nulla che le sostenga. L’uomo è un insieme di stati mentali autonomi, ma ha tuttavia una propensione naturale ad attribuire identità a parti successive del flusso delle percezioni, illudendosi dell’invariabilità dell’oggetto che vi corrisponde, incorrendo così nella costruzione di nozioni di anima, di sé, di sostanza, al fine di dissimularne la variazione. Dunque, alla mente dell’uomo si attribuisce una finzione di identità, l’identità è uno sbaglio inevitabile dell’immaginazione di cui però occorre essere consapevoli. Invece, ancora nel Settecento, in Kant (1781-87/2005) il soggetto empirico, l’io in carne ed ossa, deve la sua stessa identità (per cui io so di essere io) alla funzione unificatrice della forma trascendentale preesistente dell’Io penso, che è la medesima per tutti i soggetti empirici (è una forma senza contenuto, un’attività di pensiero) ed in base alla quale è la coscienza che io ho di me come soggetto sintetizzante che mi consente di avere delle rappresentazioni del mondo, coscienza 37 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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per la quale io resto sempre identico a me stesso nel rappresentarmi (ordinare, sintetizzare) la mutevolezza e la molteplicità dei fenomeni. So che io sono, ma non so cosa e come sono (vi è un io privo di contenuto); posso pensarmi, ma non conoscermi; la coscienza di sé, che può essere colta allo stato puro, è cioè una consapevolezza primaria di esserci indipendente dal sapere di esistere in un certo modo, è dunque distinta dalla conoscenza di sé ripercorsa anche da Crespi (2004, 26) e Remotti (2010) – non vi è traccia dell’“io penso” nel mondo empirico, ma solo dell’attività di unificazione. Avvicinandoci così, lentamente, ad affrontare il contributo della sociologia (la cui comprensione necessita di questo preliminare e breve excursus filosofico, e successivamente psicoanalitico, dato che essa considera, o parte, o reagisce anche a tali apporti), sarà poi bene ricordare che prima della, ed accanto alla, riflessione sociologica si possono ancora rintracciare ulteriori utili elementi di comprensione e contestualizzazione teorica del tema dell’identità e della soggettività nella riflessione ottocentesca. Si pensi a filosofi come Hegel (1807/2000), che ci mostra l’interesse fondamentale dell’individuo al riconoscimento da parte dell’altro al fine di costituire la propria auto-consapevolezza; il che richiede al contempo il positivo e reciproco riconoscimento di questo altro. Ma non si tratta solo di questo, riconoscimento per Hegel è un irrinunciabile e reciproco porre l’altro nella propria coscienza (come nell’amore), è qualcosa che fonda i soggetti: il riconoscimento costituisce i soggetti ponendoli fin dalla formazione in rapporto con l’altro, precede il soggetto e ne fa un io negli altri. Il soggetto si forma così, storicamente, tramite il costituirsi di una relazione dialettica con l’altro e grazie all’altro (in tal senso si vedano le pagine dedicate alla figura del servo-padrone ed al reciproco riconoscimento delle autocoscienze), nel superarne i confini. Al contempo, il nostro presentarci in maniera unitaria e coerente è indirizzato proprio al riconoscimento che ne ricaviamo all’interno della nostra comunità. Altrimenti, l’identità appare come una continua, possibile, sempre in trasformazione – in combinazione con un’alterità che la compenetra fin nel suo nucleo e finisce per distruggerla –, progettazione da parte di un intelletto rigido e dominato dalle proprie astrazioni, come un principio fuorviante per la comprensione della realtà all’interno dell’opera della storia, come una categoria inutilizzabile per descrivere qualsivoglia 38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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esistenza. O come Schopenhauer (1819/2011), che, continuando a suo modo a porsi in relazione con Kant, vede il singolo individuo da un lato non come una cosa in sé, ma come una pura apparenza, un fenomeno descritto come mutevole, temporaneo e senza continuità, un fluire conoscente e un non realmente conoscibile oggetto di rappresentazione, e dall’altro, invece, come una manifestazione di ciò che egli chiama “volontà” (vista come l’essenza dei fenomeni, che, nel caso dell’uomo, può essere vista come espressa da aspetti della corporeità, bisogni, impulsi, desideri, sentimenti, emozioni, passioni, interessi, come una forza, un’energia, che tende a un’inappagata affermazione di sé e della propria individualità), per cui l’identità della persona è basata solo sull’identità dell’anonima ed eterna volontà espressa dal corpo, volontà intuita e che costituisce l’incosciente e universale nucleo dell’essenza di ogni individuo, la sua particolare identità “individuale”. Così, ogni individuo è, da un lato, il soggetto della conoscenza, cioè la condizione complementare della possibilità dell’intero mondo oggettivo; e dall’altro è un fenomeno particolare della volontà, la stessa che si oggettiva in ogni cosa. Ma questa duplicità della nostra essenza non si basa su un’unità di per sé sussistente, altrimenti noi potremmo diventare coscienti di noi perfino in noi stessi […] ma ciò non lo possiamo assolutamente; […] appena noi, per tentare di farlo [cioè, per tentare di conoscere il nostro io], entriamo in noi stessi, e dirigendo la conoscenza all’interno vogliamo pienamente riflettere, ci perdiamo allora in un enorme vuoto, ci troviamo uguali a quella sfera di vetro cava, dal cui vuoto parla una voce, la cui causa però non si può trovare all’interno; e volendo così afferrare noi stessi, acchiappiamo con orrore nient’altro che un fantasma senza consistenza (ivi, 306, n. 3).
Non abbiamo possesso né consapevolezza del nostro io, che non è altro che la manifestazione illusoria, temporanea, ripetitiva, seriale e con variazioni insignificanti della volontà. L’unicità dell’individuo è solo apparente, egli è prigioniero del principium individuationis. Ma quando,
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davanti agli occhi di un uomo, quel velo di Maya, il principium individuationis, è sollevato al punto che egli non pone più la differenza egoistica fra la propria persona e quella altrui, ma si preoccupa delle sofferenze degli altri individui tanto quanto delle proprie, e con ciò […] è perfino pronto a sacrificare il suo stesso [essere] individuo, […] ne consegue allora di per sé che un tale uomo, che in tutti gli esseri riconosce se stesso, il suo intimo e vero Io, […] [considera] come proprie le infinite sofferenze di ogni vivente e [si appropria] così del dolore di tutto il mondo (ivi, 411).
Una volta che si è sollevato questo velo e si è rinunciato all’individuazione (ad esempio attraverso l’ascesi, l’amore come compassione, l’arte e l’esperienza estetica tramite la tragedia o la musica), ci si sente finalmente un tutto, in quanto volontà, si trova il proprio sé in ogni essere e non si ha più paura della morte. La morte toglie l’illusione che separa la coscienza dell’individuo da quella degli altri, porta al tramonto dell’individuo stesso (ivi, 311), mentre l’ascesi, annullando ogni pulsione vitale della volontà e distogliendolo dalla rappresentazione dei fenomeni mondani, lo conduce a una contemplazione del nulla; così Schopenhauer apre le porte a riflessioni come quelle di Nietzsche e Freud. Nietzsche (cfr. 1887/1984), quasi precedendo tematiche freudiane, ci ricorda come la natura originaria dell’uomo fosse quella volta a soddisfare le proprie pulsioni corporee, i propri antichi istinti vitali, la propria essenza energetica, che non possono essere annullati dalla malattia della “cattiva coscienza” e dalla morale e che, proprio in reazione alla repressione operata da una morale che separa l’essere umano dalla sua condizione animale e lo spinge a vergognarsene, cercano continuamente sfogo nel mondo interiore del singolo, contro di esso, senza poter essere placati. Più avanti il filosofo tedesco ci ha tuttavia progressivamente fornito una descrizione del soggetto umano come privo di un’essenza sostanziale e unitaria, in cui la pluralità delle diverse coscienze viene illusoriamente mascherata dalla rassicurante fissazione in un’unica identità (influenzata dalla rilevanza della sfera della corporeità), mentre in realtà noi inventiamo noi stessi come unità, produciamo finzioni, immaginativamente costruite, con cui immobilizzare artificialmente il diveni40 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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re. L’io è ora una pluralità impersonale di forze di tipo personale, delle quali ora l’una ora l’altra vengono alla ribalta. «Un Es anonimo, frutto di un nostro atto ermeneutico, risultato imprevedibile degli equilibri mobili delle cellule-individuo e delle semplificazioni costanti dell’intelletto, produce e orienta l’apparenza di individualità» (Bodei 2002/2009, 86). La coscienza non è il nocciolo dell’essere umano, è solo la superficie, plurale, secondaria e mortale, sotto la quale passa la realtà dei sentimenti corporei. L’io plurale è un continuo divenire, mutare, sotto la spinta di forze contrastanti ed interagenti, pronte ad emergere nel momento in cui quelle che si trovano alla ribalta della coscienza abbassano la guardia, così che il soggetto risulta ora in un punto ora in un altro. La pluralità di io che vive in noi non dovrebbe essere sottoposta a un’unità fittizia, ma vista come un concerto di intelligenze con un baricentro mobile, come una coordinazione antagonistica volta alla incessante ripetizione della volontà di vita. L’abbandono di ogni finzione individualistica diviene imperativo (Nietzsche 1881-82/1967, 281): Smettere di sentirsi come questo fantastico ego. Imparare gradualmente a liberarci di questo presunto individuo! Scoprire gli errori dell’ego! Capire l’egoismo in quanto errore! L’opposto non è affatto l’altruismo, che sarebbe amore per altri presunti individui! No! Al di là di “me”, e di “te”! SENTIRE IN MODO COSMICO!
Allo stesso modo, ormai nel XX secolo, è poi necessario rammentare la prima ed importante fase della riflessione di Heidegger (1927/2005) sull’essere dell’uomo, della quale qui è possibile sottolineare alcuni elementi utili a una descrizione della forma, della ipotetica struttura essenziale, del soggetto vivente, il cui senso profondo risiede nella sua temporalità – aspetti che condizionano ciò che possa essere detto sul sé di un soggetto. A differenza di prima, vengono qui messe in luce delle proprietà comuni a tutti gli individui, il cui sé è il frutto di un progetto costantemente aperto in relazione con il mondo. Per il filosofo tedesco, infatti, l’uomo è un ente costitutivamente storico posto di fronte a un insieme di possibilità per il suo essere9. Esso è poter essere, si caratterizza 9
In una seconda fase Heidegger – ad esempio in (1957/2009) – approfondisce il problema del rapporto, di identità e di differenza, tra essere ed ente-uomo. Uomo
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per il fatto che si rapporta al proprio essere come alla propria possibilità, è possibili maniere di essere. L’essenza dell’uomo consiste dunque nel rapportarsi a possibilità, ma situato all’interno di un mondo di cose ed altre persone, per questo l’uomo è sia un ente progettante, sia un essere-nel-mondo, che incontra le cose assumendole come strumenti utili, e quindi già forniti di un significato (vi è una precomprensione originaria del mondo costitutiva dell’esserci), per un progetto aperto. Come afferma Vattimo (1971-2008, 31), in Heidegger «l’esserci non è mai qualcosa di chiuso da cui occorra uscire per andare al mondo; esso è già sempre e costitutivamente rapporto col mondo, prima di ogni artificiosa distinzione tra soggetto e oggetto». Altro elemento che caratterizza il soggetto umano è che si trova sempre e originariamente ad avere una certa tonalità affettiva (situazione emotiva) nei confronti delle cose del mondo; queste non solo sono sempre già fornite di un significato, ma hanno una valenza emotiva che non rende mai l’esserci uno spettatore disinteressato ma un ente affettivamente mutevole nel suo essere progettuale. Gettato senza averlo scelto nell’effettività e finitezza dell’esistenza, l’esserci è nel mondo insieme ad altri esserci, è un essere-con che, nella quotidianità media, comprende il mondo in base alle idee diffuse nell’ambiente sociale in cui si è trovato a vivere, secondo gli schemi impersonali dell’opinione comune, della mentalità pubblica10. Questo stato interpretativo quotidiano, in cui l’esserci si limita a comprendere attraverso la condivisione delle opinioni diffuse, lo rende inautentico, cioè incapace di non lasciarsi imporre pre-cognizioni comuni e di far, invece, emergere la comprensione direttamente dall’esperienza delle cose, che sono strumenti-possibilità per un progetto qualificato ed autentico. Il soggetto può essere così un progetto deciso e situato, gettato nella temporalità; l’apertura alle possibilità (per cui l’esserci in quanto semplice poter essere non è un tutto), infatti, incontra la morte come possibilità più propria dell’esserci. La morte è una possibilità a ed essere si coappartengono, abbisognano l’uno dell’altro, si volgono l’uno all’altro. «L’uomo è qualcosa di essente», un ingranaggio che può non lasciarsi sottomettere dal mondo tecnico, nel momento in cui la sua essenza si “transpropria” nel linguaggio (in cui l’essere risuona). 10 La conoscenza è una sorta di articolazione di una precomprensione in cui già sempre ci si ritrova, gli schemi impersonali dell’opinione comune sembrano a volte richiamare in negativo il fenomenologico sfondo intersoggettivo di senso comune.
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cui l’esserci non può sfuggire, è la sua possibilità più autentica e definitiva, che deve essere riconosciuta come tale dall’essere-per-la-morte. L’esserci c’è finché l’ineludibile possibilità della morte non si realizza, ed esso deve saper anticiparsi questa possibilità in modo da riconoscere la non definitività delle altre possibilità, imparando a non progettarsi per sempre in base a una o l’altra di esse ed a mantenersi, invece, aperto alla capacità di svilupparsi oltre le singole possibilità che realizza nel tempo. Grazie all’anticipazione della morte l’esserci riconosce queste altre possibilità come effettivamente tali e come sue proprie, le assume e collega in un processo di sviluppo esistenziale aperto e maggiormente unitario e può così essere costituito come un tutto autentico, se riuscirà ad uscire dall’anonimità dell’opinione comune ed a decidere da solo come essere il fondamento di sé. La scelta, la decisione, l’assunzione di responsabilità sono fatti temporali e la temporalità costituisce l’esserci, è il senso dell’essere del soggetto (dell’esserci) – e caratterizza, potremmo aggiungere, il suo sé. Non molto tempo prima si era fatta strada negli Stati Uniti la psicologia di James (1890/1965), che ha contribuito a preparare le successive riflessioni di Mead introducendo il concetto di Sé empirico, articolato in un Sé materiale, la parte visibile con cui ci presentiamo allo sguardo esterno (il proprio corpo, i genitori, gli abiti, la casa, gli oggetti personali), un Sé sociale, il riconoscimento del mondo esterno in relazione al nostro agire nella società, per i ruoli che vi svolgiamo ad esempio con il lavoro (come gli altri ci vedono, l’insieme articolato delle nostre immagini sociali), un Sé spirituale (il proprio essere interiore, le proprie disposizioni personali, il sentimento intimo che ci porta a ritenerci unici e distinti). Lo studioso pragmatista americano aveva anche criticato il dualismo cartesiano: siamo capaci di prendere come oggetto del nostro pensare il nostro corpo, le nostre emozioni, il nostro stesso pensiero ed anche la mente che pensa, ma allora non c’è distinzione tra soggetto e oggetto, dove sta il soggetto di tale capacità? Ogni parte della mente è oggetto dell’io, che si riduce a essere una semplice finzione, un artificio grammaticale. Per questa teoria dell’evanescenza dell’io, quest’ultimo è una soggettività astratta e senza spessore, una convenzione, un luogo temporaneo dell’azione. Poco dopo, a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, va invece ricordata la fondamentale riflessione psicoanalitica 43 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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di Freud (cfr. 1915-17; 1932/1985; 1922/1977), che, pur distante per contenuti e obiettivi da quelle sopra citate, ha finalmente portato alla luce anche il ruolo dell’a-razionale e dell’inconscio nella strutturazione del comportamento individuale complessivo: il sé appare strutturato da spinte inconsce, pulsioni, desideri e fantasie (che entrano in tensione con le esigenze del controllo sociale e dell’ordine culturale). La costruzione dell’identità è così configurata nei termini della relazione tra Es, Io e Super-Io, territori in cui si può scomporre l’apparato psichico della persona. In particolare la ricostruzione di Freud – che influenzerà anche Parsons – risulta interessante perché tiene conto di una pluralità di fattori interagenti, che considerano al contempo dimensioni attive ed influenze contestuali: da un lato vi è l’Es, che rappresenta l’aspetto pulsionale dell’individuo, rivolto al soddisfacimento di bisogni egoistici in base al principio di piacere, che agisce nel sub-conscio al di fuori del pensiero logico. Vi è poi il Super-Io, che costituisce una sorta di coscienza morale che giudica atti e desideri istintivi; esso non è innato (non vi sarebbero principi morali di partenza – elemento che è tuttora oggetto di dibattito11), ma si forma nel corso dell’evoluzione del bambino attraverso l’interiorizzazione di modelli ideali di Io provenienti dall’influenza dei genitori e poi di coloro che via via assumono una veste di autorità – dagli insegnanti fino alla pubblica opinione (si tratta dunque di modelli storicamente e culturalmente variabili) – che critica, proibisce e suggerisce comportamenti corretti; vi è dunque una fase di identificazione con tali modelli ideali ricostruiti di personalità, fase in cui l’Io si consolida imparando a gestire identificazioni contrastanti, a rendersene autonomo e a renderle coerenti, così come a gestire con maturità le pulsioni dell’Es adattandole alle esigenze della realtà e della società. Durante quelle identificazioni con modelli ideali che controllano dall’interno il suo comportamento, tuttavia, l’individuo rischia che l’Io divenga troppo dipendente dal Super-Io: mentre in una prima fase è un bene che l’Io prenda progressivamente le distanze dal narcisismo infantile spostandosi verso identificazioni con Io ideali provenienti dall’esterno, in seguito lo sviluppo di un Io autonomo ed equilibrato prevede una fase di relativizzazione e liberazione dall’Io ideale giu11
Cfr. Wilson (1993/1995); si veda anche Spreafico (2005, 110-119).
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dicante, che in caso contrario rischia di continuare a produrre sensi di inadeguatezza, di inferiorità e di colpevolezza. Per Freud (1921/1978) l’azione del Super-Io può poi anche produrre identificazioni collettive, nel momento in cui i membri di una comunità inseriscano nel loro Super-Io la stessa persona, così che si uniscano sotto il controllo di questo individuo storicamente determinabile. Vi è infine l’Io, che ha un ruolo conscio attivo nelle identificazioni, ma che appare al contempo prevalentemente impegnato a seguire ed armonizzare gli input che provengono dal mondo esterno, dall’Es e dal Super-Io, e che rischia di rimanere per questo un elaboratore di equilibri piuttosto che un impositore di volontà.
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La possibilità di un sé psichico interiore
Ciò che parte della sociologia accoglie, con diversi gradi di profondità, e un’altra parte della sociologia invece rifiuta, anche nettamente, come si vedrà meglio più avanti, è proprio quanto discende da determinate interpretazioni degli insegnamenti di Freud: l’identità sembra poter essere descritta come un bisogno emotivo interno alla singola persona, una modalità affettiva interiore. Per questo in questa sezione ci allontaneremo momentaneamente dal nostro itinerario cronologico, allo scopo di delineare sinteticamente alcune rilevanti osservazioni prodotte in ambito psicoanalitico, che introducono le dimensioni interiori del desiderio, delle pulsioni, del piacere, della rimozione, della gratificazione emotiva, della colpa, che in diversi modi costituirebbero la radice psicologica del sé. La concezione psicoanalitica del sé di Freud lo mostra scisso, ambivalente, dominato da spinte emotive e conflittuali nascoste all’autonomia della coscienza; in esso, inoltre, penetra l’organizzazione della società e l’influsso dei vincoli culturali. L’attività di rimozione ci impedisce di accedere alla completa conoscenza di sé, degli impulsi che, entrati in conflitto con la parte di mente che registra il principio di realtà e dunque divenuti produttori di angoscia, vengono rimossi, occultati (per poi riaffiorare nei sogni, nei lapsus, nelle distorsioni della memoria). Allo stesso tempo, il sé è caratterizzato dal desiderio: l’inconscio aspira costantemente al piacere e costituisce una forza sotterranea intenzionale che influenza l’agire personale secondo modalità complesse. Le idee e le fantasie dell’inconscio sembrano addirittura dominare il sapere conscio, l’autocoscienza è fortemente influenzata da fattori inconsci e, in generale, la coscienza non sembra essere come appare a se stessa. Siamo agiti dalla realtà pulsionale del nostro corpo biologico. Particola47 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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re importanza, ad esempio, viene attribuita al complesso edipico ed alla natura conflittuale della sessualità umana – fattori emotivi strutturanti la formazione ambivalente di un sé diviso tra passioni narcisistiche e desideri e paure inconsci, tra desiderio distruttivo, di violenza, e forme di autocontrollo e di rimozione, tra le pulsioni di morte e quelle di vita, dei legami collettivi ed affettivi. L’io freudiano pare unitario ed autonomo, ma in realtà è eterogeneo, eteronomo e volto a dissimulare la sua natura pulsionale. L’esperienza individuale della vita e della società risulta influenzata direttamente dalla psiche, dai suoi ricordi, immagini, paure, aspirazioni; il sé sembra così instaurare un rapporto attivo con il mondo, mediato, nella produzione delle rappresentazioni che si fa di esso, dal ruolo della fantasia. Un’importante evoluzione dello studio psicoanalitico del sé ci è successivamente offerta da Lacan (1949/1966/1978), per il quale il soggetto dell’esperienza pre-verbale (il bambino) riesce ad avere un senso individuale di sé identificandosi visivamente con la propria immagine riflessa da un elemento altro, esterno, come specchi o superfici riflettenti. Lo specchio rimanda al bambino un’immagine di integrità corporea, di unità e di coesione che contribuisce a definire i contorni immaginari del senso di sé in formazione, una proiezione ideale di unitarietà e completezza; tuttavia tale immagine del suo corpo entra in contraddizione con la mancanza di coordinazione fisica che il bambino ancora sperimenta nei fatti, si giunge così a un misconoscimento del sé, che risulta essere una finzione, un’immagine menzognera di ciò che non c’è, un’immagine che ha le sue radici nell’alterità. In questo modo «Lacan, mettendo l’accento sull’alterità del processo di rispecchiamento, indebolisce le nozioni convenzionali di natura umana, desideri interiori e di una identità personale vera o autentica. La teoria dello stadio dello specchio sottintende che l’Io sia costituito non dall’interno, bensì dall’esterno – le percezioni del sé si strutturano in base a un’immagine esterna. […] Le immagini del sé sono tutte intrinsecamente false, perché il sé è un’illusione» (Elliott 2007/2010, 77). Nella prima infanzia il bambino non fa distinzioni tra sé e mondo esterno, tra sé ed altro; ma successivamente, con il tramonto del complesso edipico (momento in cui il bambino deve affrontare limitazioni, conflitti, alterità, norme, cultura, obblighi, frustrazioni, che ne infrangono la compiutezza narcisistica) e l’acqui48 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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sizione del linguaggio, desideri e fantasie del bambino si trasformano per adeguarsi alle strutture sociali simboliche. Il sé è in comunicazione linguistica con gli altri. Di più: in generale, al centro dell’essere umano vi è un inconscio descritto come linguaggio autonomo, come discorso dell’altro. Con sfumature heideggeriane, si nota infatti come entro l’esistenza umana vi sia una centralità dell’alterità e della sua logica altra. Vi è dunque in Lacan un decentramento anti-umanistico del soggetto, il privilegiamento di un inconscio linguistico (ed “altro”) rispetto alla tradizionale posizione primaria attribuita alla coscienza. Il sé decentrato lacaniano (per Lacan l’intenso senso di mancanza e di frammentazione che caratterizza il sé lo porta a identificarsi in illusorie immagini narcisistiche di perfezione e completezza) verrà in seguito visto da Žižek come sempre teso alla ricerca e sperimentazione di diverse identificazioni psichiche stabili (ideologia, etnia, genere), che possano contenere il senso di mancanza interna che costantemente lo accompagna (ad esempio, il sé subisce ferite quando viene separato dal corpo della madre), anche se si tratta di forme di auto-definizione a volte incoerenti e che comunque non riescono veramente a colmare il vuoto di un sé antagonistico, il cui desiderio mai appagato finisce per essere colonizzato da un senso di estraneità e di assenza di senso. Il soggetto cartesiano non viene a mancare (cfr. Žižek 1999/2003), non scompare, ma sembra identificarsi con l’incompletezza che lo caratterizzerebbe. Su di un binario di miglioramento e completamento del lavoro freudiano, e con un atteggiamento interdisciplinare, troviamo invece, e nel frattempo, Erikson (1950/2001), che si avvale del concetto di “identità” (del senso soggettivo d’identità) per mostrare come l’identità del sé consista nel sentimento e nella possibilità della costituzione di un sé ben organizzato, fondato su di un’autostima non narcisistica all’interno di una certa realtà sociale, capace di sviluppare una personalità coerente e una continuità nell’esperienza di sé. Nell’uomo vi è il desiderio di dare coerenza e significato alla propria esistenza, una ricerca di identità che è anche accettazione di sé all’interno della cultura in cui si vive, un’identità che si fissa al termine della crisi, positiva, dello stadio di sviluppo psico-sociale dell’adolescenza. Tra i contributi psicoanalitici più utili, coevi e successivi a quelli, pur molto diversi, di Lacan ed Erikson, ricordiamo poi almeno che se Winnicott ha messo in luce l’importanza 49 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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del ruolo della madre per lo sviluppo del sé del bambino – la capacità di cura e comunicazione che può avere quest’ultima la rende in grado di accogliere speranze e paure del bambino e di rispecchiarne gli stati emotivi, tollerandoli, contenendoli ed instaurando creativamente con lui una relazione empatica (una “madre sufficientemente buona” che lo sottopone a “frustrazioni ottimali” non traumatizzanti), che gli offra la possibilità di sperimentare creativamente gli spazi potenziali del proprio sé –, Castoriadis (1987/1995), invece, ha attribuito grande rilevanza all’azione costruttiva e creativa dell’immaginazione: la psiche è costitutivamente creativa (capacità originariamente formante a partire da nessun dato naturale) e genera incessantemente flussi di rappresentazioni grazie alle quali hanno luogo successivi posizionamenti multipli di sé e degli altri, in relazione alla società ed alla storia; creazioni indeterminate di figure immaginarie che prima non esistevano. Ogni posizionamento relativo dà poi luogo a nuove identificazioni, a riorganizzazioni delle gerarchie, in un circuito senza sosta mosso dalle fantasie di singoli al contempo creatori e creati. In questo modo, i diversi sé si rifanno alle configurazioni socio-culturali esistenti per creare nuove immagini – anche contraddittorie – di sé, degli altri, della società, che costituiscono a loro volta nuove rappresentazioni da cui il percorso riparte, con esiti aperti ed ambivalenti. Uno dei modi in cui oggi la sociologia si appropria di alcune delle linee di fondo fin qui ricordate è esemplificato da Elliott (2007/2010, 67), per il quale il sé è immaginabile come «una connessione tra il nostro mondo interiore e quello esterno» e l’identità è un fenomeno costruito che «si fissa attraverso azioni e scelte individuali, attraverso l’identificazione di modelli di pensiero, predisposizioni, sentimenti e desideri, e attraverso la strutturazione dell’esperienza soggettiva in rapporto all’ordine sociale». Per il sociologo inglese ogni ambito sociale fa emergere e contribuisce a creare tipi diversi di sé. «Tuttavia, nonostante la miriade di sé attraverso cui sperimentano e definiscono la propria esperienza nel mondo, gli individui tendono ad avere la sensazione di qualcosa di profondo – un nocciolo profondo del sé – che li rende ciascuno un tutto unitario […], molti hanno la sensazione di un’identità coesa che presiede, e reagisce, alle sfide sociali e ai contesti del vivere quotidiano» (ivi, 68). Si tratta di un’idea che invece si proverà progressivamente a 50 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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mettere in discussione, così come hanno fatto anche diversi altri studiosi nel tempo. Elliott, invece, ritiene che sia necessario connettere sé ed emozione, l’autonoma performance del sé con i desideri, gli affetti e le fantasie inconsci ed interni: per «giungere a una prospettiva critica del sé è necessario collegare alla teoria psicoanalitica una sorta di narrazione foucaultiana radicale12. Dobbiamo capire in che modo le costruzioni sociali del sé sono anche fantasie della psiche. Nel momento in cui rompiamo con i convincimenti ortodossi che vedono la psiche separata dal sociale, dobbiamo comprendere come le forze sociali e culturali si configurano a livello interiore. Ciò implica» (ivi, 206) anche una riflessione su come il sé si costituisce culturalmente, all’interno di discorsi ed istituzioni, «come espressione di “profondità interiore”»; il sé non è predeterminato, ma è il frutto di costruzioni e ricostruzioni attive, «sulla base dei meccanismi interiori della fantasia e delle sue contorsioni inconsce […] nella più ampia cornice della cultura, della società e della politica» (ibidem). Vi è tuttavia il problema che entrare nell’ambito della fantasia e dell’inconscio rende estremamente difficile uscire dalle supposizioni; inoltre, l’interazione sociologia-psicologia lascia la prima sempre scoperta su un fronte di difficile accesso ed in cui il sociologo dovrebbe partire da assunti non certi, oltre che non sociologici. Anche nella psicologia sociale l’identità è vista innanzitutto come qualcosa che parte dall’interno e che si articola attorno al sentimento di sé, come una rappresentazione soggettiva da parte della singola coscienza (cfr. Tap 1979; Taboada-Leonetti 1990); al contempo, tuttavia, il sentimento-rappresentazione di sé trae spunto dalle caratteristiche concrete del singolo (ad esempio fisiche e socio-culturali), a partire dalle quali si innesta la parziale libertà creatrice della autorappresentazione e della – interagente con quest’ultima, in transazione con essa – identificazione che del singolo fanno gli altri. Senza negare che l’identità in fondo sarebbe qualcosa che si trova dentro l’individuo, anche Dubar (1991-2000/2004) torna a sottolineare, in maniera critica nei confronti della psicologia sociale (l’identità non può essere ridotta ai soli aspetti soggettivi), un aspetto caro alla sociologia: il contesto sociale, all’interno e sotto l’influenza del quale l’identità risulterebbe 12
Riguardo a Foucault si veda più avanti la parte dedicata alla sua riflessione.
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essere un prodotto di socializzazioni successive. Tentando di coniugare aspetti oggettivi e soggettivi, l’identità sarebbe così il risultato, al contempo stabile e provvisorio, biografico e strutturale, dei diversi processi di socializzazione che costruiscono gli individui. Ma anche così rimane poco chiaro in cosa essa consisterebbe: il fatto che socializzazione, interazione, comunicazione, fattori soggettivi individualmente attivi e oggettivi trasmessi ed al contempo riformulati, sia biografici, relativi a un asse “vissuto passato-aspettative future”, sia relazionali, relativi alla relazione tra singolo ed istituzioni sociali, contribuiscano tutti alla formazione dell’identità non chiarisce meglio cosa essa sia o come funzioni, o continua a darlo per scontato.
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Primi passi sociologici
A questo punto, per riuscire a mettere in evidenza gli elementi che meglio chiariscono la dinamica di ciò che descriviamo con il termine “identità”, e prima di addentrarci più direttamente nelle questioni nodali di tale processo, sarà bene effettuare rapidamente un sintetico excursus temporale tra alcuni contributi della sociologia classica, anche se solo in parte ci saranno effettivamente utili più avanti, quando si arriverà a parlare di identità nelle modalità che a chi scrive sembrano più consone al fine di mostrare come funzioni. Il termine “identità” si è diffuso quasi all’improvviso nelle scienze umane negli anni Sessanta del Novecento in seguito ai contributi di Erikson, mentre i classici della sociologia ne avevano fatto scarso uso (cfr. Pizzorno 2007). Come ci ricorda Sciolla (1983, 12) gli autori classici, «pur avendo fornito spunti teorici molto importanti alla successiva elaborazione del concetto di identità, non lo hanno esplicitamente tematizzato». Per questo ci limiteremo qui a vedere solamente alcuni sintetici esempi (che scontano anche una varietà di impieghi terminologici, di natura talvolta psicologica, e di traduzioni), che possano costituire almeno uno sfondo del nostro progressivo approfondimento – uno sfondo, inoltre, probabilmente più utile per un’analisi dell’idea di identità collettiva. Se Marx riteneva la coscienza soggettiva come il prodotto dei condizionamenti sociali e dei rapporti di classe, e nell’idea di coscienza di classe – classe per sé (cfr. Marx e Engels 1848/1973) – ha un concetto di presa di coscienza soggettiva dell’appartenenza a un medesimo gruppo che può strutturare un’identificazione collettiva, anche il lavoro di Tönnies (1887/1963), in cui non si impiega il termine “identità individuale”, viene tuttora ricordato come utile per ricostruire il sentimento di appartenenza, in particolare quella territoriale (tra gli altri, si veda 53 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Gubert 1995), proprio mentre ancora oggi si pensa all’identità individuale come costituita di molteplici ed anche conflittuali appartenenze (cfr. Maalouf 1998/1999). In questo senso è stato Simmel (1908/1989) – che, di nuovo, in genere non impiega il termine “identità individuale” – a mostrarci come la personalità di un individuo, l’“anima individuale”, sia in grado di non essere completamente determinata da una “appartenenza” e sia pronta per più appartenenze, rispetto alle quali può però mantenere una certa autonomia: nell’opera del sociologo tedesco «l’io riesce tanto più ad articolarsi e a espandersi, quanto più diventa indeterminato» (Bodei 2002/2009, 173)13; la “coscienza” pienamente sviluppata di ciò che siamo è solo il centro di una cerchia di possibilità, e noi siamo anche queste potenzialità che si agitano in noi, che rendiamo noi attraverso la volontà e, ad esempio, grazie agli stimoli dell’arte, del sogno e dell’avventura. Nell’Excursus sullo straniero ci viene permesso invece di renderci conto che la presenza dello straniero rafforza la coesione interna di un gruppo, che si riconosce tanto più nella sua identità quanto più prende le distanze e precisa la propria differenza dallo straniero (vengono costruiti dei confini). Precedentemente Simmel (1890/1982) aveva mostrato come il membro di un piccolo gruppo riceva più facilmente la forma ed il contenuto della sua essenza direttamente da quel gruppo, assorbendosi in un certo senso in esso (l’“individualità” ben chiara del gruppo esclude l’“individualità” degli individui) – sarà poi Merton (1949-1957/1959) ad approfondire la teoria dell’appartenenza al gruppo sociale. Civilizzazione, differenziazione sociale ed individualizzazione ampliano la cerchia in cui le persone agiscono e a cui riferiscono i propri interessi: attraverso un’analogia con il mondo animale e vegetale Simmel (1890/1982, 57) dice che lo sviluppo dovuto alla civilizzazione ha come conseguenza che «emerga l’identità con un insieme più grande, un’identità che va di gran lunga al di là del gruppo originariamente omogeneo», cioè la cerchia sociale di appartenenza si amplia (ma qui il termine “identità” sembra usato più nel senso di 13 Nel capitolo che Bodei dedica a Simmel, viene ricordato come quest’ultimo sia anche l’unico studioso moderno a mettere in luce la differenza di genere nella formazione dell’individualità, ad analizzare le caratteristiche della personalità femminile, ad esempio in saggi come La civetteria, Frammenti di una filosofia dell’amore, Cultura femminile, Il relativo e l’assoluto nel problema dei sessi, Frammento sull’amore.
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similitudine o al massimo di identificazione), ma il legame perde di intensità, il sentimento di appartenenza si affievolisce. Con il progredire della civiltà cresce la differenziazione tra gli individui e aumenta l’avvicinamento tra i gruppi. Più avanti nel testo si vede come Simmel usi il termine “identità” semplicemente nel senso di uguaglianza. Simmel però usa il termine “personalità”, ed ha chiaro che grazie alla partecipazione/appartenenza (anche e spesso competitive e conflittuali) a più cerchie/gruppi il singolo acquisisce consapevolezza del proprio io. “Personalità”, “individualità” e “sviluppo spirituale dei soggetti” compaiono infatti in Le metropoli e la vita dello spirito (1903/1995). In Durkheim (1893/1962, 101) il concetto di identità individuale e collettiva sembra essere sostituito con quello presente nelle espressioni “coscienza particolare” e “coscienza collettiva” (che è «l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri [di una] società»). Si usa anche l’espressione “personalità individuale”, ad esempio: «la personalità individuale si sviluppa di pari passo con la divisione del lavoro» (ivi, 393). L’individuo e la soggettività emergono con l’intensificarsi della divisione del lavoro nelle moderne società industriali, in seguito a processi di differenziazione in cui la coscienza collettiva del gruppo perde progressivamente la sua influenza sulla personalità individuale, che così si differenzia. Allo stesso tempo Durkheim ha comunque consapevolezza del fatto che un’identità collettiva troppo estesa diventa un’identità poco netta, poco marcata per i partecipanti; inoltre, un’eccessiva distanza fra i contenuti dell’identità individuale e quelli dell’identità collettiva rischia di disgregare quest’ultima, che diverrebbe incapace di legare a sé gli individui; infine, per restare coerente, un’identità collettiva ha bisogno di demarcarsi nettamente dai possibili comportamenti devianti dei membri. Successivamente, Durkheim (1912/1963) ci mostra come i gruppi raggiungano il più alto livello di consapevolezza di sé quando si riuniscono per svolgere un rituale di rispetto verso i loro oggetti sacri; i rituali, grazie ai quali un gruppo venera se stesso, permettono di ricreare periodicamente i sentimenti di appartenenza al gruppo (il rito facilita il mantenimento della coesione dell’identità collettiva). Anche in Durkheim si trova a volte il termine “identità”, ma semplicemente con il senso di uguaglianza, ad esempio: l’uomo può portare il nome di un animale o di una pianta della specie 55 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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totemica, «e si ritiene che l’identità del nome implichi un’identità di natura» (ivi, 144), ma è possibile ipotizzare un processo di identificazione tra uomo e l’essere che gli fa da totem (così l’identità appare fatta di identificazioni, dunque concepire i processi di identificazione vuol dire saper comprendere il concetto di identità anche se non viene usato il termine in quel senso). Anche in Weber (1922/1961) si trova il termine “identità” nel senso di uguaglianza. Vi sono però espressioni come “sentimento soggettivo e reciproco di una comune appartenenza”, che, sebbene utilizzate per descrivere la relazione sociale di comunità, possono individuare la base per concepire l’identità collettiva (che potremmo dire pensabile come costituita da relazioni sociali all’interno delle quali i partecipanti orientino vicendevolmente il loro agire sulla base del sentimento di possedere qualcosa in comune che susciti in loro attaccamenti di natura emotiva o legati all’abitudine). L’elemento soggettivo è importante per mostrare la creazione di sentimenti di comunanza, ad esempio di comunanza etnica, che prendono le mosse da quella che Weber chiama “credenza soggettiva di una comunità di origine”, ad esempio la credenza nella parentela d’origine, nella comunanza di sangue – si tratta di credenze e costruzioni che possono configurare identità collettive, formate da una variegata e complessa rete di differenti (ma con alcuni elementi dai singoli percepiti come comuni) forme di identificazione individuale. Per Weber, poi, tensioni e conflitti tra le credenze, le norme ed i sistemi di valori che costituiscono le identità collettive sono inevitabili, ma vi è un’altrettanto inevitabile tendenza al superamento di tali tensioni e al loro riconciliarsi in una nuova, accresciuta e più matura coerenza logica, tendenza che muove ed accompagna il processo di razionalizzazione. Al contempo, proprio la gabbia d’acciaio capitalistica rende arduo il prendere decisioni che eludano liberamente i condizionamenti della razionalità; l’uomo moderno cerca allora un senso per la propria vita, stretto dalla necessità di provare a coniugare gli opposti dell’etica della convinzione e dell’etica della responsabilità (Weber 1919/1983), e si rivolge alla coerenza con se stesso, con i fini ultimi della propria vita interiore.
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Attorno agli Stati Uniti. Sociologie dell’interazione
Il filo rosso che accomuna l’uomo metropolitano simmeliano dalla personalità blasé e le descrizioni dell’ambiente urbano effettuate dai membri della Scuola di Chicago guidata da Park è l’individuazione dell’ambivalenza: «da una parte l’insolita e imprevista esposizione a stimolazioni nervose, emotive, sensoriali gli permette di muoversi fra più ruoli, facce, identità. Dall’altra, un tale turbinio di elementi eterogenei e incontrollabili lo stordisce […]. L’uomo della metropoli è costretto così ad assumere ruoli frazionati […] in un processo complessivo di progressiva depersonificazione e massificazione» (Caccamo 2003, 37). Grazie all’economia produttiva urbana di massa, l’individuo si emancipa dal controllo da parte del gruppo degli intimi, ma perde l’espressione spontanea di sé, costretto ad immergersi nel movimento della massa (cfr. Wirth 1938/1998). Siamo ancora nel campo della personalità, ma con elementi che entreranno a far parte dell’idea diffusa di “identità”, come sarà ad esempio il ruolo sociale al quale si può attribuire maggiore importanza (come potrebbe essere quello lavorativo, ad esempio: “io mi sento soprattutto un ingegnere”). Se mettiamo da parte quegli autori che hanno impiegato concetti relativi al tipo prevalente di personalità e di carattere sociale, in cui l’identità sociale degli individui è condizionata dalla struttura socioculturale della società in cui vivono, che tende a far sì che alcuni aspetti dell’identità accomunino un certo numero di membri tra loro (Thomas e Znaniecki 1918-20/1968, Sorokin 1947, Adorno et al. 1950/1973, Riesman 1950/1973, Gerth e Wright Mills 1953: cfr. Sciolla 1983), ed in cui non è messo altrettanto in luce l’aspetto parimenti importante dell’unicità del singolo e del grado di libertà dai condizionamenti sociali, arriviamo allora finalmente ad affermare che, nel nostro percorso crono57 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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logico, è all’interazionismo simbolico americano che bisogna guardare per trovare i primi veri approfondimenti della tematica dell’identità; inizialmente compiuti attraverso i termini “self”, “sé (o io)”, a cui poi col tempo si affiancherà quello di “identità”. Il sé si costruisce sul piano dell’interazione sociale. Un’anticipazione si trovava già in Cooley (1902) per il quale il nostro sé dipende da una nostra capacità riflessiva, quella di osservare ed interiorizzare il modo in cui gli altri ci vedono (inizialmente nel contesto della famiglia e degli amici), di vedere cioè riflessa dagli altri, come in uno specchio, la nostra immagine, e di vederci di conseguenza come gli altri ci vedono14 – si ha così un “io riflesso”, prodotto dell’interazione con gli altri (o meglio, frutto di ciò che pensiamo che gli altri vedano di noi, di come pensiamo che tali altri vi reagiscano e di come noi reagiamo alla reazione che percepiamo negli altri). In questo modo il self è legato alla società in cui è inserito, è un sé sociale – si avvicina, come si vedrà, al Me meadiano. All’interno della tradizione pragmatista americana, anche lo psicologo James ha poi mostrato come la continuità del sé venga messa in discussione proprio dal fatto che si trova inserito in una rete di rapporti sociali, per cui l’individuo potrebbe avere tanti sé quante sono le persone che li riconoscono; ciò mentre il filosofo Peirce15 mostrava invece il percorso di scoperta del sé tramite il fondamentale strumento del linguaggio, pubblico, verbale e non verbale, attraverso cui emerge e si trasforma il proprio mondo interiore, si “apprende” il proprio sé. Per Mead (1913-36/2011; 1934/1966) una persona non nasce con un sé, che invece si sviluppa «nel processo dell’esperienza e dell’attività sociale» (ivi, 153) – «noi siamo ciò che siamo attraverso il rapporto con gli altri» (ivi, 364), formiamo il nostro sé attraverso interazioni, simbolicamente mediate –, si forma nel corso dell’interazione sociale attraversando le fasi dell’imitazione, del gioco libero e poi organizzato. Il 14 È interessante rilevare come in precedenza Schopenhauer (1851/2010) avesse mostrato quanta importanza gli esseri umani attribuiscano a “ciò che uno è nella rappresentazione altrui”, distinguendo ciò che uno rappresenta (nel giudizio degli altri) da ciò che uno è e da ciò che uno ha. 15 Cfr. Wiley (1994) per un tentativo di coniugare elementi delle teorie di Peirce e Mead e così vedere un sé presente che dialoga con il sé futuro riguardo al sé passato, ossia pensare il sé come una conversazione interiore tra tre poli.
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soggetto, dunque, non esiste come entità indipendente dalle interazioni che lo costituiscono e che avvengono tramite gesti simbolico-linguistici interpretabili (i simboli linguistici sono ciò che permette la comunicazione nell’interazione; il linguaggio è cruciale nella fabbricazione del sé); il sé è il frutto della riflessione sul senso di tali gesti, che è riflessione sull’atteggiamento dell’altro nei nostri confronti. La coscienza di sé è possibile grazie alla capacità di assumere la prospettiva e l’atteggiamento nei nostri confronti da parte dell’Altro16 generalizzato (insieme organizzato dei diversi atteggiamenti ed aspettative degli altri – al limite l’intera società – nei nostri riguardi, sottoposto a riflessione continua in seguito a interazioni simboliche di un certo tipo e poi ad altre ancora nel tempo; bisognerebbe tuttavia considerare le differenti e potenzialmente competitive aspettative provenienti da più gruppi di riferimento non componibili). Ovverosia il Sé di cui l’individuo è consapevole è il Me, che è l’aspetto socializzato del Sé, quello sottoposto al controllo dell’Altro generalizzato e all’assunzione di norme e ruoli complessivi della società indotta da quest’ultimo. La capacità di vederci come ci vedono gli altri, o meglio di vederci come pensiamo che gli altri ci vedano (che necessita dunque anche di uno sguardo verso il proprio comportamento, oltre che di una realtà sociale in cui il sé è sempre immerso, di cui è parte, come un mulinello nella corrente sociale), si sviluppa in particolare attraverso il gioco durante l’infanzia, in cui i bambini hanno un interesse particolarmente attivo per il mondo. L’Io è invece quella parte del Sé di cui non si è consapevoli, è un insieme di desideri, bisogni ed inclinazioni personali. All’interno di un’interazione l’individuo risponde all’azione altrui attraverso l’Io, che è la risposta imprevedibile e creativa alle aspettative degli altri che il Me ha saputo fare proprie. L’Io re-agisce con un grado di libertà ed imprevedibilità a partire da una base presente nell’esperienza posseduta dal Me su cui sono però possibili nuove invenzioni (cfr. Santambrogio 2008, 137). Il Sé è l’insieme interconnesso di Me ed Io; grazie al Me l’individuo riesce a sentirsi compartecipe di una comunità, dei suoi ruoli e dei suoi significati e grazie all’Io può provare a modificare l’influenza di tali depositi di senso e produrre discrepanze tra agire individuale e norme sociali (sebbene per 16
L’individuo assume la capacità di essere oggetto a se stesso immedesimandosi nell’altro e guardando a sé da quel punto di vista.
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alcuni critici – cfr. Archer 2003 – l’Io meadiano sia poco sviluppato, con il rischio che le sue capacità di innovazione creativa individuale e potenzialità di mutamento sociale siano offuscate dall’influenza della struttura sociale). Se il Me rappresenta la conformità passata al gruppo di appartenenza, l’Io è qualcosa di mai perfettamente determinabile e rappresenta novità e libertà in una proiezione, si potrebbe quasi aggiungere, dal presente verso il futuro. La consapevolezza di sé, oltre che con la capacità di assumere il ruolo di altri, viene raggiunta quando si è capaci di distinguere Io e Me, cioè quando si riesce ad acquisire un determinato distacco riflessivo da ciò che viene visto come un obbligo sociale o culturale. Sarà Blumer a sviluppare il discorso sull’Io. Si può qui anticipare che per altre prospettive, come ad esempio quella etnometodologica, normalmente le persone interagenti non adottano un atteggiamento riflessivo come quello presupposto da Mead, ma lasciano che il significato – anche se sul momento non chiaro – emerga durante il flusso dell’interazione, senza provare veramente ad assumere l’atteggiamento dell’altro, almeno finché non si verifichi una rottura che porti a una richiesta di chiarificazioni. Rivisitando a suo modo le intuizioni di Thomas e di Mead, l’interazionismo simbolico di Blumer (1969/2008) tenta di arrivare a mostrare come gli esseri umani affrontino il mondo in quanto organismi provvisti di un Sé, formato e realizzato attraverso l’assunzione di ruoli di altri con cui si è implicati nelle attività congiunte della vita di gruppo, e come l’Io meadiano sottoponga nell’immaginazione a prova i diversi Me che potrebbero essere adottati in differenti azioni possibili, mentre l’Altro generalizzato costituisce una sorta di pubblico internalizzato. L’individuo non è dunque costretto dentro un ruolo sociale, perché può sottoporre a interpretazione possibili Me differenti; al contempo il singolo può immaginare che anche l’altro con cui si trova o troverà a interagire compia le stesse operazioni di interpretazione e definizione della possibile situazione e di prova dei suoi Me. Prima dell’azione l’Io compie un processo di interpretazione-definizione-attribuzione di significato di tutti gli elementi presenti nella situazione (si auto-indica a se stessi che le azioni e le cose hanno questo o quel significato o carattere), oltre che di eventuale trattativa con le definizioni altrui; non vi sono norme, ruoli, componenti psicologiche che entrino in gioco. Per Blumer anche 60 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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in situazioni routinarie il processo di interpretazione, anche se in modo meno consapevole, si ripete sempre, con le medesime attribuzioni di significati, ma è sempre possibile che la costruzione della realtà venga improvvisamente reinterpretata cambiando la precedente definizione della situazione. In realtà bisognerebbe anche ricordare maggiormente che la capacità definitoria dell’individuo può scontrarsi con quella di altri che possono imporne un’altra dall’esterno, oltre al fatto che la riflessività del Sé blumeriano non è propria nello stesso grado di tutte le persone in ogni ambito (la pressione al conformismo si può esercitare ad esempio in maggiore grado su certi individui piuttosto che su altri), anzi, di nuovo, altre prospettive di ricerca, tra cui l’etnometodologia, ritengono che le persone tendano ad assumere la normalità ed eventualmente a ripristinarla senza compiere particolari sforzi cognitivi. L’insistenza sull’interpretazione e l’auto-indicazione di significati comporterebbe, così, un’estrema intellettualizzazione dell’attività umana, tale da suscitare critiche come la seguente: «Blumer fonda una concezione notevolmente mentalistica delle capacità e della condotta dell’agente umano, malgrado il suo rifiuto di una psicologia dell’“io” e la sua concezione dell’interazione sociale come tema primario d’indagine sociologica» (Coulter 1989/1991, 73). Ancora diversamente da chi considera l’interazionismo simbolico troppo cognitivo e razionalista, altre critiche ritengono il sé da esso concepito come ingiustamente sganciato dalle dimensioni dell’emozione e della passione, dei desideri e delle fantasie inconsci (così come descritti da Freud), dell’esperienza corporea; per gli interazionisti simbolici predomina la manipolazione e costruzione consapevole dell’identità da parte dei singoli. Lasciati sullo sfondo i valori comuni, considerati solo come regole generali dell’interazione affinché non divenga conflittuale, nella prospettiva interazionista: l’identità dell’attore sociale viene […] sganciata dal sistema della personalità, dall’organizzazione psichica profonda dell’individuo. L’identità è soprattutto la definizione che l’individuo dà di sé, non struttura stabile della personalità, ma congettura […] che il soggetto formula e in base alla quale agisce, ma che viene […] consolidata 61 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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o modificata nel corso del processo di interazione sociale. Mentre [come si vedrà] per Parsons l’identità ha un carattere strutturale, per gli interazionisti essa ha un carattere processuale; mentre il primo ne sottolinea gli aspetti inconsci, i secondi ne mettono in luce gli aspetti consci (Sciolla 1983, 32).
Nell’interazionismo di Ralph Turner (1968/1983) viene descritto un sé centrale e stabile, la distinzione era invece effettuata tra il sé ed il comportamento palese, o meglio tra la concezione che l’individuo ha di sé e l’immagine di sé che gli viene rimandata dagli altri. Le incongruenze tra concezione ed immagine del sé che emergono nell’interazione tendono ad essere superate al fine di ristabilire un’identità individuale coerente: si rivede la concezione di sé alla luce dell’immagine rimandata dagli altri. L’identità è il frutto di questo superamento e da un lato influenza l’interazione sociale, perché è ad essa che viene dato credito quando si cerca di prevedere il comportamento, dall’altro è influenzata dall’interazione, perché è proprio quest’ultima che porta alla sua revisione al momento del superamento di eventuali incongruenze emerse. Quando l’incongruenza è troppo grande, tuttavia, l’individuo – minacciato nella propria auto-concezione – cerca di modificare l’immagine di sé presso gli altri, provando a produrre immagini di sé che confermino la propria concezione di sé. Più recentemente, bisogna poi ricordare anche la teoria dell’identità dell’“interazionismo simbolico strutturale” (cfr. Stryker 1980; Markus e Nurius 1986; Stryker e Burke 2000; Stets e Burke 2002), corrente rivolta ad evidenziare l’influenza delle strutture sociali sul sé e del sé sui comportamenti sociali. L’identità, riflesso della struttura sociale, partecipa a sua volta alla riproduzione di questa struttura, pur contribuendo anche, più o meno lentamente e parzialmente, a modificarla. Quando l’influenza della struttura diviene contraddittoria (ove tale struttura è più complessa, articolata ed in continua diversificazione) e gli schemi di pensiero entrano in conflitto, l’individuo è maggiormente sollecitato ad attivare la propria riflessività e la sua identità non è più il semplice riflesso della struttura, non vi è più una riproduzione senza sforzo mentale, ma si ha un’identità frutto di una scelta più meditata. Il sé rimane tuttavia molto strutturato e le identità personali legate ai ruoli sociali. 62 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Nella negoziazione identitaria con gli altri interagenti, ciascuno riconosce dei ruoli sociali, prima di valutare come tali altri li occupino. Allo stesso tempo, le identità non si riducono all’interpretazione di una pluralità di ruoli, tuttavia, in un dato contesto spazio-temporale, si possono manifestare delle identità particolari, puntuali, che oggi possono essere gestite con distacco e non più con modalità imposte. Nei confronti di un determinato ruolo, l’individuo ha la possibilità di scegliere una certa immagine di sé all’interno di una gamma di altre possibili (le immagini di sé17 sono un elemento portante – pur non coprendo, né cogliendo, tutti gli aspetti di un’identità – della costruzione identitaria e guidano in ogni momento i posizionamenti assunti nelle interazioni). Ciascuno può interpretare uno stesso ruolo socialmente prescritto in termini generali con un proprio stile ed attribuendogli un senso diverso, proponendo un’identità che verrà a sua volta confermata o sanzionata dagli interagenti, conferme e sanzioni che produrranno effetti emotivi, come fierezza o vergogna, sull’interprete. La valutazione delle possibili ricadute emozionali risulta importante nella scelta identitaria che precede l’azione, cioè gli individui tenderanno a proporre un’“identità di ruolo” che ritengono possa gratificarli. Questa scelta, inoltre, è facilitata e resa più rapida da una memoria emozionale personale che si è strutturata in seguito alle precedenti esperienze di interpretazione e che ha gerarchizzato le possibili identità adottabili per una certa assunzione di ruolo in determinati settori. Questa memoria costituisce una sorta di schema affettivo-cognitivo, uno schema del sé complessivo in un contesto specifico, una griglia che filtra le informazioni e guida l’azione, che regola il comportamento mediante le emozioni associate alle identità assumibili. Tali schemi sono frammentati e potenzialmente contraddittori e l’azione risulta diretta al contempo da una combinazione articolata di tali schemi interiorizzati (prodotto di passate socializzazioni) e delle ingiunzioni sociali del contesto del momento, anche se la moltiplicazione e contraddittorietà degli schemi porta il singolo a una maggiore riflessione soggettiva, a fare scelte parzialmente nuove e personali. Ma il peso della traiettoria sociale, della storia della persona, del conte17 Vi sono le immagini sociali, riflessi della struttura, poi le immagini che gli altri si formano dell’individuo considerato, ed infine anche la sperimentazione immaginaria che quest’ultimo fa visualizzando dentro di sé identità possibili.
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sto sociale interiorizzato permane, lasciando al singolo una capacità di scelta autonoma tra alternative definite a partire da tale passato. Più in generale, l’individuo si trova a scegliere tra una serie di immagini di sé che spesso precedono la riflessività nella predisposizione di strategie identitarie personali, molte di tali immagini rimangono solo dei sogni gratificanti, esse arrivano a costituire dei “sé possibili” solo quando, oltre ai risultati dell’immaginazione, vengono prese in considerazione anche l’esperienza storica personale, il contesto sociale e le reazioni degli altri. Considerati questi aspetti, i sé possibili rappresentano però la possibilità per l’individuo di intraprendere una riforma di sé nel presente, dando un certo spazio a una soggettiva invenzione di sé (cfr. Kaufmann 2004). Detto tutto questo, ci troviamo di fronte a un tentativo interazionista di tenere insieme le diverse influenze costitutive di quello che si suppone essere il processo identitario, il quale è comunque collocato all’interno di un individuo pensato come cognitivamente capace di interagire con aspetti strutturali ed emozionali complessi, che dobbiamo supporre ed identificare in base ai loro più o meno temporanei effetti esterni. L’identità individuale è qui un qualcosa che – emerso storicamente con l’emergere del soggetto (ipotizzato, però, come delimitato e distinguibile) – sembra così poter essere colto soprattutto grazie alle funzioni che assolve: quella di singolarizzare e unificare l’individuo in un determinato contesto, di creare una trama di legami tra sequenze di identificazione capace di fornire una continuità biografica, di aiutare a costruire l’autostima e di fornire-costruire provvisoriamente un senso all’esistenza (senso che per non essere perduto abbisogna di una continua riformulazione dell’identità – quest’ultima, seppur costantemente in transizione, appare dunque dover essere supposta come se fosse reale al fine di incorniciare e facilitare l’agire). Ben prima, invece, l’interazionismo di Goffman (1956-59/1969) – che in realtà rifiutava apertamente l’etichetta di interazionista simbolico18 e diveniva progressivamente consapevole delle conquiste feno18
«Goffman rigettava il qualificativo interazionista, ma ha rivoluzionato il modo in cui trattiamo le situazioni di interazione» (Cefaï 2006a, 650). Egli, pur contrario all’idea che l’ordine dell’interazione sociale fosse l’espressione di più ampie strutture sociali, non condivideva gli approcci interazionisti in cui le situazioni d’interazione erano viste unicamente come il prodotto dell’intenzionalità, degli interessi e delle motivazioni individuali (cfr. Giglioli 1990), mentre era durkheimianamente consapevole
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menologiche19, sviluppando dunque una riflessione teorica distinta da quelle precedenti e da quelle a lui contemporanee – era nel frattempo giunto a svuotare il sé di consistenza, data la difficoltà di penetrare e comprendere i significati soggettivi intenzionati dall’interiorità del soggetto, considerato ormai come maschera di una messa in scena sociale (una messa in scena le cui regole strutturali costituiscono le differenti parti recitabili dal soggetto). Pur distinto dal personaggio che interpreta, l’attore non appare dotato di un’intenzionalità attiva, ma risulta strutturato dalle regole delle interazioni sociali, dalle caratteristiche del contesto interattivo in cui agisce, in cui si manifestano solo diversi sépersonaggi-situati (ciascuno dei quali è di solito immaginato come se fosse un sé complessivo che albergherebbe nel corpo degli interpreti). Invece che a un attore inaccessibile, Goffman ci invita così a rivolgerci a ciò che concretamente si mostra nelle situazioni di interazione, a ciò che è possibile davvero osservare, cioè i sé come personaggio. Il sé di cui parlano i sociologi non ha origine nella persona del soggetto, bensì nel complesso della scena della sua azione, in quanto scaturisce da quegli attributi degli eventi locali che la rende comprensibile ai testimoni. Una scena ben congegnata e rappresentata induce il pubblico ad attribuire un sé a un personaggio rappresentato, ma ciò che viene attribuito – il sé – è il prodotto di una scena che viene rappresentata e non una sua causa [relativamente autonoma]. Il sé, quindi, […] non è qualcosa di organico […]: è piuttosto un effetto drammaturgico che emerge da una scena (ivi, 288-89);
l’individuo è una sorta di “gancio” al quale viene temporaneamente attaccato «il prodotto di un’azione collettiva» (ibidem). Il sé non è la fonte delle nostre attività, è una costruzione che coincide con i ruoli prodotti in una società. Escludendo le interpretazioni di tipo psicologico, i sentimenti e gli atteggiamenti individuali sono visti come il riflesso di dei «vincoli normativi (valori, norme, rappresentazioni collettive, forme di controllo sociale) che si impongono dall’esterno all’interazione degli individui, condizionandola» (Gili 2008, 154). 19 Tuttavia Goffman appare ad alcuni rimanere “abbastanza insensibile” rispetto all’opera di Schütz, tanto che «non vi si riferisce che per distinguersene in Frame Analysis (1974)» (Cefaï 2006b, 864).
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una scena sociale «e pertanto non possono servire a spiegarla ma, al contrario, debbono essere compresi a partire da essa. I rituali in base ai quali sono regolati gli incontri sociali […] hanno […] una funzione essenziale nella costituzione degli individui, dei gruppi o di ogni altra realtà sociale» (Crespi 2002, 182). Al contempo, nelle situazioni di interazione, ogni individuo, mentre proietta una propria definizione della situazione (che si confronta/scontra con altre), presenta anche se stesso attraverso azioni comunicative (gesti, espressioni, comportamenti, parole), con cui afferma di essere caratterizzato da certi attributi che producono un’impressione sugli altri; si tratta di una performance che si cerca di controllare al fine di presentare ed accreditare un’immagine di sé positiva e credibile, una facciata personale ma connessa a un quadro di aspettative sociali su come interpretare positivamente certi ruoli. Il soggetto è il prodotto contingente di interazioni concrete, è il prodotto delle sue azioni all’interno di un’interazione specifica, nel complesso è l’insieme dei ruoli sociali che rappresenta nelle interazioni. Nessuno è mai completamente assorbito dal ruolo previsto da una determinata situazione – situazione che offre al soggetto un’identità rispettabile a cui aderire in diversi gradi in quel momento – e si svolgono più ruoli contemporaneamente, rispetto ai quali ci si può distanziare in diverso grado proprio in nome degli altri ruoli che si interpretano o si potrebbero interpretare. Vi è una molteplicità simultanea di “sé” e un susseguirsi di identificazioni, la cui possibilità ha origine sociale. Più avanti si vedrà come l’idea di Goffman di connettere tipo di interazione e tipo di identificazione possa essere riutilizzata attribuendo forse maggiori possibilità di scelta all’attore rispetto alle attese di ruolo, lasciando indeterminata la questione se esista o meno, e con quale rilievo, un centro motore del sé. Per Goffman (1967/1988) vi è una pluralità di sé situazionali e mutevoli, invece l’idea che esista un sé individuale di fondo nasce dal fatto che l’interazione sociale richiede che si agisca come se lo avessimo: la società, il contesto istituzionalizzato che definisce i personaggi, ci spinge a presentare un’immagine coerente, un sé coincidente col ruolo. Il sé è un simbolo sacro della società moderna, che esiste non come attributo individuale ma come realtà pubblica venerata nei rituali delle interazioni della vita quotidiana. In questa prospettiva le interazioni sono basate su regole sociali riconosciute dagli interagenti, i quali al contempo si 66 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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coordinano tra loro (grazie alla già ricordata capacità di assumere il punto di vista dell’altro e a quella di dare per scontato che anche l’altro conosca certe regole) per sostenere dal basso l’ordine e normalizzare l’interazione, a volte (cfr. anche Goffman 1963/2010) fino al punto di costringere in un unico ruolo chi non appare normale, in modo che la maschera divenga uno stigma di cui non ci si può liberare (in un altro linguaggio, si può ridurre la descrizione dell’identità di un individuo a un solo termine; le identità possono essere imposte e comunque sono spesso contrattate). Normalmente ogni persona è continuamente impegnata a definire sia la situazione in cui si trova (applicando una serie di cornici di senso a successivi frammenti di interazione), sia il proprio sé in essa (in ogni momentanea cornice possono emergere identità sceniche sottili), anzi la definizione di sé sembra in parte contribuire a quella della situazione; poi la faccia presentata – positiva, convincente, credibile e socialmente accettabile – viene proposta in modo coerente nel corso del’interazione di riferimento, in modo che gli altri sappiano cosa aspettarsi e come comportarsi di conseguenza, mentre a loro volta adottano lo stesso codice rituale. Si ha così una sorta di cooperazione rituale che, basata su performances situazionali, permette la messa in atto di una realtà condivisa. I rituali delle buone maniere nel corso dell’interazione, infatti, sostengono tale cooperazione, così che le auto-definizioni di sé proposte da ciascuno non vengano in genere messe in discussione ed anzi si produca un reciproco adattamento ad esse. Il modo in cui si interagisce nella vita quotidiana, seguendo un’etichetta cerimoniale, è l’espressione del nostro sé; al contempo i rituali della buona educazione esprimono riguardo per il sé degli altri, considerato durkheimianamente come oggetto sacro. Chi viola in maniera persistente i rituali cerimoniali della vita quotidiana è considerato un deviante. Una volta fatta propria ed assunta la teoria del sé goffmaniano sin qui descritta, è possibile ricordare che lo studioso canadese-americano (Goffman 1963/2010) aveva anche distinto un’identità sociale, un’identità personale e un’identità dell’Io interagenti. Premesso che tutti hanno le stesse credenze sull’identità, l’identità sociale appare come l’identità pubblica e visibile attribuita – sia dall’esterno, dalla società, sia autoattribuita, interattivamente – a un individuo, che lo accomuna a certe persone e non ad altre. 67 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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È la società a stabilire quali strumenti debbano essere usati per dividere le persone in categorie e quale complesso di attributi debbano essere considerati ordinari e naturali nel definire l’appartenenza a una di quelle categorie. Sono i vari contesti sociali a determinare quali categorie di persone incontreremo, con maggiore probabilità, all’interno di tali contesti (ivi, 12).
Una volta così attribuita l’identità sociale, è tipico non rendersi conto che siamo stati proprio noi a stabilire i requisiti di assegnazione degli attributi evidenti all’osservazione a certe categorie. L’identità personale appare invece come quella, sempre attribuita (sia dall’esterno, sia auto-attribuita, interattivamente) ma molto meno visibile, grazie alla quale un individuo viene distinto da tutti gli altri, grazie a suoi elementi biografici. Immagine fotografica, posto occupato nella scala della parentela familiare, corpo fisico, volto, impronte digitali, nome, calligrafia, matricola, età, attestati di istruzione, vaccinazioni costituiscono un esempio di informazioni che, se conosciute, permettono di costruire l’identità personale di una persona e costituiscono al contempo precise limitazioni al modo in cui questa può scegliere di presentarsi. L’identità personale è costituita dai segni di riconoscimento e dalla combinazione unica degli elementi della sua vita che viene ad essere attribuita all’individuo con l’aiuto di questi segni della sua identità. L’identità personale dunque è legata alla supposizione che l’individuo possa differenziarsi da tutti gli altri e che intorno a questo modo di differenziazione si possa collegare una storia continua di fatti sociali che costituiscono la sostanza appiccicosa a cui si attaccano tutti gli altri fatti biografici (ivi, 74).
Sotto l’aspetto biografico, l’identità personale è costruita ed attribuita a partire da elementi presi dalla storia di vita di un individuo, storia in cui quest’ultimo ha fornito una pluralità di rappresentazioni di sé nelle diverse situazioni; tanto i diversi sé quanto il tentativo di fornirne un’unica rappresentazione coerente (identità) sono una costruzione che non riguarda una supposta natura della persona, ma il desiderio di raggiungere una coesione informativa a posteriori, con cui si assimila 68 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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nei fatti l’individuo a una biografia unica, che tende a lasciare l’impressione di poter rimanere predominante anche se vi sono immagini parzialmente diverse tra coloro che conoscono lo stesso individuo in maniera personale o indiretta, in situazioni e contatti differenti, nell’ambito di comunità di interazione che sono mutate nel tempo. A differenza dell’identità sociale e personale, infine, l’identità dell’Io non è attribuita dagli altri, ma è solo un’auto-costruzione riflessiva della propria situazione e continuità, compiuta, in parte creativamente, dal singolo a partire dagli stessi materiali con cui sono state costruite la sua identità sociale e personale; appare dunque come la concezione soggettiva, di tipo eriksoniano, che si ha di sé in seguito alle proprie esperienze sociali ed all’influenza dei gruppi a cui si fa riferimento. Essa è adottata come uno strumento di analisi, ma nonostante si ribadisca il peso delle attese normative e delle credenze sull’identità, della continua assunzione di ruoli creati dalla società o da sue parti, sembra rimanere un’ambiguità sulla sua consistenza. Bisogna, infatti, anche rammentare che in altri casi Goffman si interroga sulle caratteristiche generali dell’attore, sulle sue capacità e bisogni soggettivi minimi e sembra talvolta (Goffman 1981/198720) sottintendere l’esistenza di un sé minimo di base quando ricorda che un parlante, nel corso del discorso in cui è occupato, è costantemente impegnato ad affrontare ciò che accade momento per momento mantenendo o modificando linguisticamente la rappresentazione di sé – e/o il suo status di partecipazione21 – che gli assicura la posizione22 più 20 Nei saggi raccolti in Forms of Talk, peraltro, egli già ci ricordava un elemento utile nel momento in cui, più avanti, si toccherà l’aspetto dell’agentività, e cioè che la produzione e la ricezione ed interpretazione di un enunciato è il frutto della partecipazione dei compresenti: «quando una parola viene pronunciata, tutti coloro che si trovano nel campo percettivo dell’evento avranno qualche forma di status partecipativo in relazione ad esso» (Goffman 1981/1987, 28). Si può poi distinguere tra partecipanti ratificati e non ratificati. 21 Ad esempio, si può distinguere l’essere animatore, autore e committente di un messaggio trasmesso, distinzioni che costituiscono il formato di produzione di un enunciato. 22 La posizione per Goffman è la collocazione assunta dall’individuo che enuncia una certa espressione linguistica, è cioè il processo con cui il parlante fa sapere all’ascoltatore come dovrebbe essere inteso l’enunciato che sta verbalizzando, cioè in che scena andrebbe collocato, qual è il tipo di personaggio che lo pronuncia, con che spirito (ironico, scettico, coinvolto, distaccato) lo pronuncia, a chi ed eventualmente per conto di chi, dando così vita a una rappresentazione per un pubblico, che vede il parlan-
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difendibile che gli riesce di prendere nelle circostanze di interazione date (nella cornice costitutiva di quella specifica realtà definita socialmente), e sembra ad alcuni riuscire a scegliere queste posizioni grazie a una sorta di unità centrale motivazionale, che parrebbe spiegare come le persone si muovono tra le differenti cornici d’interazione. Per Collins (1988/1992, 411), infatti, dato che tutte le «cornici interazionali sono una serie di incassature sulla realtà primaria delle creature viventi nel mondo fisico potremmo arguire che il self sottostante è semplicemente la consapevolezza che risiede nel nostro corpo fisico, quando si cerca di trattare con gli altri corpi fisici che ci circondano», e la capacità umana di passare da un sé all’altro e metterlo in scena. Il sé consisterebbe nella consapevolezza della molteplicità dei ruoli svolti in diversi contesti specifici. Per Gili (2008, 167), invece, «la distanza dal ruolo rimane lo spazio in cui si può intravedere, anche se solo fugacemente, quell’io “nudo”, irriducibile, non-socializzato, che permane sullo sfondo della sociologia di Goffman», che non riesce a far sparire del tutto la soggettività della persona. Ma non sembra esservi un sé di fondo ben delineato: il self «non è una entità mezzo-nascosta dietro gli eventi, ma una formula che cambia per gestirsi durante gli eventi. Proprio come l’attuale situazione prescrive le sembianze ufficiali dietro cui ci nasconderemo, così provvede al dove e come traspariremo: la cultura stessa stabilisce che genere di entità dobbiamo credere di essere per aver qualcosa da far trasparire in questo modo» (Goffman 1974/2001, 586-87). Il sé appare come un concetto costruito a partire dalla fondamentale realtà dell’interazione rituale – una costruzione che diverrà ancora più evidente nel prosieguo di questo libro. Al contempo si ricordi come l’auto-riflessione su di sé rallenti l’azione sociale ed avvenga nei momenti di difficoltà, ed in questo caso probabilmente avvenga sui differenti sé messi in gioco più che su un presupposto sé nucleare, in realtà linguisticamente creato. Quindi, ciò che ci fornirebbe la sensazione che esista un sé di base sarebbe, per Collins, il corpo fisico, a partire dal quale si inseriscono strati di identificazioni situazionali più o meno durevoli. Torneremo su alcuni di questi aspetti controversi tra poco, nella prossima sezione. te come entità pronta ad assumere linguisticamente specifiche identificazioni sociali in determinate e temporanee situazioni.
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Per capire meglio come Goffman sia arrivato a descrivere il sé nella maniera precedentemente ricordata è necessario, infine, tornare a sottolineare che il suo interesse era rivolto innanzitutto all’interazione come dimensione relativamente autonoma sia dalle variabili strutturali macrosociologiche esterne (potere, genere, età, posizione sociale e così via) – la cui influenza su di essa è filtrata e selezionata da regole dell’interazione stessa – sia dalle libere ed intenzionali strategie d’azione individuali. L’interazione sociale faccia a faccia ha sempre un suo proprio ordine immanente, che non è prodotto di fattori esterni o precedenti ad esso, ma è relativamente indipendente da fattori strutturali e psicologici: la «recisione dell’interazione faccia a faccia dal resto della vita sociale» è spiegata dal fatto «che gli elementi contenuti all’interno dell’ordine in questione [sono] connessi più strettamente tra loro che con elementi esterni» (Goffman 1983/1998, 44). Come si vedrà più avanti, l’autonomia dell’elemento “interazione” ritorna ancor più evidente con l’Analisi della Conversazione. Gli individui si conformano alle regole proprie dell’ordine dell’interazione – infatti, «ci possiamo aspettare che anche in società molto diverse l’ordine dell’interazione esibirà alcune caratteristiche assai simili» (ivi, 50) –, che, come ci ricorda Giglioli (1998), hanno un aspetto tecnico-sistemico e uno ritualemorale. Il primo consiste, ad esempio, nel seguire il meccanismo di presa dei turni nelle conversazioni – aspetto che, mentre risulta centrale nell’Analisi della Conversazione, è considerato relativamente meno interessante da Goffman rispetto a quello rituale-morale. Quest’ultimo è legato al fatto che gli uomini sono anche esseri morali attenti a salvaguardare, l’uno nei confronti dell’altro, la già accennata rispettabilità dell’immagine di sé proiettata dall’interlocutore e da loro stessi, cosa che introduce nell’ordine dell’interazione una serie di rituali di rispetto per la sacralità dell’individuo, come quelli del tatto, della cortesia, della deferenza, del contegno. Il sociologo canadese «non afferma soltanto, come fanno ad esempio gli interazionisti simbolici, che l’identità è plasmata e influenzata dai rapporti sociali. Dice qualcosa di molto più radicale: il self è creato mediante il rituale virtualmente dal nulla» (ivi, 22), «non ha un’essenza trans-situazionale» durevole, dato che sono gli stessi rituali dell’interazione ad essere gli strumenti con cui le «identità sono costruite localmente». L’identità risulta essere, come si 71 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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è visto anche in precedenza, «un effetto strutturale prodotto» (ivi, 23) discontinuamente nelle interazioni. Ciò non toglie che la coordinazione e la cooperazione nell’azione degli interagenti siano possibili grazie al contributo di un meccanismo di superficie più semplice rispetto a quello dell’identità, cioè l’individuazione categorica (che vedremo più avanti in Sacks) e quella individuale: la caratterizzazione che un individuo può farsi di un altro osservandolo e udendolo è organizzata intorno a due forme fondamentali di identificazione: quella “categorica”, che implica la collocazione dell’altro in una o più categorie sociali, e quella “individuale”, mediante la quale il soggetto osservato è legato a una identità che lo distingue unicamente attraverso l’apparenza, il tono della voce, il proprio nome e altri strumenti che lo differenziano dalle altre persone (Goffman 1983/1998, 48).
Successivamente anche Butler (1990/2004), in cui non a caso si leggono influenze goffmaniane e foucaultiane, ha provato a mostrare il carattere performativo e costruito dell’identità, qui in particolare quella di genere, per cui il sé risulta essere un effetto discorsivo le cui categorie di descrizione sono influenzate dall’immersione in codici linguistici e culturali. Il sé si produce nella contingenza della messa in atto, nella ripetizione di performances che, con il tempo, generano l’illusione di un sé psichico interiore, rappresentato quotidianamente ed accuratamente in tali diverse e specifiche performances, presentato tramite comportamenti agli altri.
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Alcune osservazioni intermedie
Come preannunciato durante l’esposizione di alcuni commenti di Collins alle posizioni di Goffman, si potrebbero a questo punto cominciare a fare alcune considerazioni, utili a mostrare come la concezione occidentale dell’individuo sia viziata da etnocentrismo. Seguendo il buddhismo, ad esempio, niente nell’universo è chiuso in sé, esiste in condizione di solitudine, tutto, anche la mente nasce e si manifesta in una serie di connessioni; la vita individuale è un sogno. Il Buddha insegna la via dell’attento sentire, della piena consapevolezza che conduce spontaneamente alla liberazione dalla sofferenza: c’è un cammino da percorrere e bisogna percorrerlo, ma non c’è viandante; azioni vengono compiute, ma non c’è chi le agisca. Ma pure senza rifarci alla filosofia buddhista (o a quella Sufi) possiamo ipoteticamente pensare a un sé che non sia ancorato a un singolo corpo o oggetto (umano, animale, vegetale, minerale), ma che sia onnicomprensivo dell’universo, un sé universale unico, di cui ciascuna “àncora” che può essere distinta arbitrariamente al suo interno non sia che una parte di un tutto, che è stata da esso estrapolata con un qualunque criterio casuale di classificazione; lo sforzo che è possibile fare sarebbe dunque quello di provare a distaccarci dall’illusoria sensazione di costituire un elemento separato da altri e di immergerci con la meditazione nel tutto di cui siamo parte, a cui ricongiungerci ed in cui confonderci fino al punto da poter immaginare di pensare ed agire come tutto, liberandoci della nostra supposta individualità. Vi sarebbe una sorta di flusso continuo, forse concepibile se smettessimo di categorizzare e ci abbandonassimo, appunto, al fluire inseparabile dell’esistenza23. 23
Se, invece, proprio la nostra capacità di categorizzare ci dovesse distinguere in quanto umani, o animali di un certo tipo, da altri elementi esistenti, almeno è possibile
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Per le discipline spirituali orientali come quella Zen, per raggiungere una consapevolezza illuminata è necessario sospendere o trascendere la convinzione di avere o essere un sé separato dagli oggetti che si percepiscono, o bisogna superare l’illusione che soggetto e oggetto del conoscere siano distinti, mentre possono essere fusi tra loro. «La trascendenza non può essere raggiunta intellettualmente, in quanto l’“intelletto”, o la “mente”, è precisamente quel processo che riproduce e riflette la dualità di soggetto e oggetto» (Pollner 1987/1995, 245), ma può essere ottenuta tramite l’esperienza diretta conseguibile con l’addestramento. Quest’ultimo è rivolto a inibire la capacità di salvaguardare le distinzioni “occidentali” tra sé e realtà, soggetto e oggetto, in modo da vedere il sé e le cose, il corpo del singolo e gli oggetti, come intrecciati, inseparabili, confusi l’uno nell’altro. Lo Zen dei maestri giapponesi contribuisce a mostrarci la possibile esistenza di modi di essere concreti «che non comprendono se stessi nei termini di un “soggetto” di fronte a un “oggetto”» (ivi, 248), un a-dualismo che è difficile da comprendere per chi non è cresciuto in un certo ambiente culturale. L’auto-concezione di sé come individuo distinto da altri non è propria di tutte le culture nel tempo, ve ne sono state alcune in cui ci si vedeva innanzitutto come semplici elementi di un gruppo considerato come unità individuale principale24. La nozione di persona è variabile secondo le culture e non si deve necessariamente pensare a un io interiore che stia dentro l’individuo, il sé è qualcosa che può vivere ed incorporarsi anche in pratiche collettive rituali ed interattive. Tale affermazione di variabilità trova degli echi, ad esempio, nel contributo di Héritier al libro che Lévi-Strauss (1977/1980) ha curato negli anni Settanta al fine di fare il punto sul tema dell’identità; un tema che, a partire soprattutto dal decennio precedente, era ormai fonte di sempre più frequenti analisi teoriche e ricerche empiriche e che ha visto, appunto, Héritier (1977/1980) ricordare come presso i Samo dell’Alto Volta immaginare che la parsonsiana distinzione tra particolarismo e universalismo ci renda possibile affermare che gli universalisti siano i più predisposti a un’azione che tenga in maggiore conto le conseguenze su un più ampio pubblico, in modo aperto, fino alla considerazione dei possibili effetti negativi su elementi animali, vegetali e minerali, oltre che su quelli umani. 24 Per alcuni approfondimenti critici al riguardo e per un invito al dibattito, cfr. però Lozerand (2010) e Flahault (2010).
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l’identità costituisca un elemento socialmente concesso, subordinato e non un processo autonomo. La regola sociale collettiva si incarna nell’individuo e gli attribuisce un’identità nel momento in cui gli assegna un posto, un nome e un ruolo specifico in ragione della sua posizione genealogica e cronologica in uno specifico lignaggio: ad esempio, costui può essere nato in un lignaggio di maestri della terra o di maestri della pioggia, essere uomo o donna. L’identità è il ruolo assegnato, consentito, interiorizzato e voluto, contenuto nel nome. L’identità, dunque, può essere messa da parte in questo tipo di società, poiché in quanto tale non ha un ruolo motore, ma è solo un effetto; si può dire che individui e/o gruppi abbiano certe caratteristiche identificative, ma non esiste alcun problema d’identità nel senso assunto nelle società contemporanee. Al contempo, si può aggiungere che attraverso l’uso della lingua è possibile convalidare, illustrare, riprodurre ma anche mettere in discussione determinate visioni dell’ordine sociale e la nozione del sé che è parte di questo ordine (cfr. Rosaldo 1982); infatti, come si osserva anche nell’antropologia interpretativa di Geertz (1973/1987), quando si vedono persone che partecipano coordinandosi all’effettuazione di un’azione, esse contemporaneamente presuppongono una certa visione del mondo che comprende anche una nozione locale del sé. Tale nozione è assunta ed al contempo prodotta nell’interazione, in cui un particolare concetto di “persona” viene comunicato nel momento stesso in cui viene posto in essere. Vi sono modi differenti di apprendere e figurarsi ciò che appare, visioni del mondo quasi incommensurabili. In alcune regioni del mondo, come per gli animisti in America del Nord o in Malesia (in cui si trovano maschere di spiriti animali che combinano un viso – indice di un’interiorità di tipo umano – e un corpo di specie animale), si percepivano gli animali e le piante con un’interiorità simile a quella degli umani: sotto il loro pelo, piumaggio o fogliame sono persone come noi (cfr. Descola 2010). Si concepivano passaggi nelle due direzioni tra la dimensione animale e quella umana. Nel totemismo degli aborigeni australiani, invece, si pensa che, nonostante le loro differenze di forma, alcuni umani ed alcune specie di animali e di piante condividano, all’interno di uno specifico e distinto gruppo, le stesse sostanze e le stesse disposizioni, perché provengono da uno stesso antenato totemico. Vi sono poi popoli, 75 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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come erano i melanesiani della Nuova Caledonia studiati da Leenhardt (1979)25, in cui si osserva ciò che a noi appare come una sorta di consustanzialità tra persona e natura; vi è cioè un’idea di elemento “vivente”, che può essere vista come una condizione umana di cui però possono partecipare anche piante, animali ed esseri mitici. L’idea di vivente/ umano trascende la divisione tra uomo e natura e quella tra corpo fisico dell’uomo e ciò che è ad esso esterno. Vi è incapacità di distinguere il corpo dalla natura, così come di concepire il primo come luogo in cui si trova il sé. I melanesiani non riescono a vedere il corpo come uno degli elementi dell’individuo, proprio perché non riescono a isolarlo e considerarlo distinto dall’ambiente, il corpo è esperito come permeato dalla natura, mentre il sé è visto come diffuso e dunque non necessariamente corrispondente a un corpo fisico specifico. Ogni volta che il melanesiano di quell’area si trova in relazione sociale con altri, si realizza un determinato personaggio con un suo nome specifico, personaggio che vi è solo nel momento della relazione (nella quale, ad esempio, riceve un certo riguardo dall’interlocutore), ma non vi è l’idea che vi sia un singolo agente autonomo a cui si assegna un ruolo diverso via via che entra ed esce da determinate relazioni sociali (vi sono qui alcuni aspetti di convergenza con la posizione di Goffman), non vi è consapevolezza di sé in quanto individuo chiuso e separato dalle proprie relazioni, le diverse identità relazionali non sono raccolte in un singolo sé, è come se non vi fosse la capacità di raccoglierle insieme, il che non dà luogo a una consapevolezza di sé come unico ed autonomo. Un vivente senza relazioni non risponde a nessun personaggio riconoscibile, è perduto e non esiste più socialmente (è solo un essere sociale del momento). Mentre una nozione elusiva di persona come era quella di questo popolo – in cui, lo si ripete, non vi erano confini chiari tra corpo e natura, vi era un sé diffuso e non coincidente col corpo, e che non trovava in esso la sua residenza – dava anche luogo a difficoltà nel fare descrizioni con riferimenti spazio-temporali in cui fosse necessario distinguere un soggetto da un oggetto, un evento da chi lo narra e dalla narrazione stessa (distinguendo un soggetto che descrive da un oggetto che venga descritto, dunque da una realtà oggettiva ed indipendente, è più sempli25
Ricordato in Pollner (1987/1995, 254-260).
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ce compiere una descrizione linguistica), in Occidente la coscienza di sé si è invece fissata in un corpo circoscritto, un corpo biologico distinto dalla natura esterna oltre che dalle forze soprannaturali, un’entità organica in cui le identificazioni relazionali manifestatesi nel corso delle interazioni vengono viste trovare una sorta di luogo di cristallizzazione. Come osserva Pollner (1987/1995, 260), le stesse nozioni di “mente”, “percezione”, “memoria” richiedono almeno un minimo di riferimento indiretto alla distinzione tra una realtà oggettiva esterna al soggetto che la percepisce e quest’ultimo, mentre se ci si potesse porre al di fuori del modo occidentale di rappresentare la soggettività ci si renderebbe meglio conto che vi sono popoli che non possiedono un concetto popolare di “mente” – come qualcosa che immagazzina le esperienze del sé, cioè la memoria delle esperienze – come il nostro. Anche in ambito occidentale, per coloro che praticano l’ipnosi è possibile che il senso dell’io possa essere distaccato dal proprio corpo. Si potrebbe poi osservare ancora: ma cosa ci garantisce che esista un corpo fisico al di fuori di un supposto sé che percepisce cognitivamente (e dunque crea: cfr. von Foerster 1973/2006) un ambiente? Non vi è realtà indipendente dallo sguardo posto su di essa ed al contempo vi è una circolarità della percezione, che si trova inserita in una sfera cognitiva di cui non può varcare i confini. Possiamo forse, e solo ad esempio, con linguaggio heideggeriano, concepire un “esserci” come “essere-per-lamorte”26 alla base dell’auto-concezione di sé, sebbene anche la morte possa essere in alcune filosofie concepita come passaggio a un’altra forma di essere piuttosto che di non essere. Si tratta nel complesso di un dibattito che ci mostra la necessità di mettere in discussione tutte le pre-concezioni, radicate anche nel linguaggio stesso e nelle categorizzazioni stratificate in una cultura determinata, con cui si organizza l’esperienza di sé in modo che risulti per forza centrata su un esistere individuale distinto da altri esistere. Nonostante siano fondate anch’esse su questa distinzione, la neurologia e la neuropsicologia occidentali odierne giungono lo stesso alla descrizione di sindromi dell’emisfero destro, di turbe neurologiche, che 26 Per il primo Heidegger l’individuo incontra se stesso solamente nel prefigurare il proprio inevitabile annientamento; nell’anticipazione della propria scomparsa si arriva a trovare il senso autentico dell’esistere.
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colpiscono il sé mettendone al contempo in luce la labilità dei confini. La neurologia personalistica è rivolta ad individuare i fondamenti fisici del sé di un individuo colpito da un deficit, il quale tenta sempre di reagire per ristabilire, sostituire, compensare o conservare il proprio senso di identità in circostanze avverse, ed illustra dei casi studio significativi, come quello che il neurologo americano Oliver Sacks (1985/2009, 23) ha chiamato della “disincarnata”. Qui si osserva bene l’importanza del senso di “propriocezione”, grazie al quale ogni soggetto riesce ad avvertire il proprio corpo come suo. Il corpo è in genere un dato non in discussione (Wittgenstein, 1950-51/1969/1999, riteneva l’incontestabilità del corpo alla base di ogni conoscenza e certezza; egli si chiedeva però se fosse sensatamente possibile dubitare di tale certezza del proprio corpo, del “sapere” – e non “credere” – che “qui c’è una mano”, certezza accettata ed appresa in una forma di vita, ed in quali situazioni o condizioni se ne potesse dubitare, dato che ciò che sappiamo è come se fosse anteriore al dubbio stesso), ma un danno alle fibre propriocettive può far cambiare le cose. Il senso del corpo è dato da tre fattori che lavorano insieme: la visione, gli organi dell’equilibrio (sistema vestibolare), la propriocezione. Quest’ultima può essere descritta come il modo in cui il corpo vede se stesso; se viene a mancare è come se il corpo fosse cieco e non riuscisse più ad auto-percepirsi, se non ricorrendo in qualche modo, comunque carente, agli altri due fattori. Così, la “disincarnata”, colpita da una perdita completa di propriocezione, riferisce di non sentire più il proprio corpo come suo, dalla testa ai piedi, di non sentirlo e di aver perso il senso della sua posizione nello spazio; la paziente aveva la percezione che il corpo fosse come morto, irreale, senza un senso di sé, aveva così, secondo l’autore, perso l’àncora organica dell’identità, «almeno di quella identità corporea, o “io corporeo”, che Freud considera la base dell’io» (Sacks 1985/2009, 80). La mancanza parziale del senso di sé può così produrre una deficienza del sentimento egoistico d’individualità. Il sé è ancora una volta qualcosa di non necessariamente rinchiuso dentro i limiti di un singolo involucro e si presta a una pluralità di costruzioni differenti, anche nel tempo. La modernità tende invece diffusamente a pensare l’individuo come una totalità unificata e distinta, stabile ed autonoma, così lo rappresenta come immediatamente identificabile dagli altri e l’identità costituisce 78 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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allora lo strumento di tale identificazione, è il contenitore che conferisce l’evidenza attesa di tale unità. In questo modo, qualunque forma di esistenza, natura e dimensione esso abbia27, oggi il sé e la sua proposizione pubblica sono nei fatti al centro della vita sociale contemporanea – un ultimo esempio in ordine di tempo è rappresentato da un culto del sé distinto messo in scena da molti dei milioni di utenti del social network Facebook, in cui viene proposta ai propri interlocutori una sorta di supposta identità sociale continuamente coltivata e più o meno apertamente o sottilmente auto-glorificata, costruita per un pubblico che riceva, e sia costretto anche a subire, l’altrui esaltazione dei contenuti di cui essa viene, più o meno arbitrariamente e temporaneamente, riempita, anche indipendentemente dalle conferme ricevute. In un ambito sociale in cui tutti si percepiscono maggiormente sullo stesso piano, la tecnologia offre possibilità aggiuntive, ed illusorie, di proposta della propria definizione e distinzione di sé, nella speranza di uscire da un’ombra in cui l’ambiente non virtuale spesso colloca. L’orientamento del, o dei, sé è al centro delle differenti interpretazioni teoriche dell’individualismo, o anche delle ricerche empiriche su di esso, interpretazioni e ricerche che lo legano all’egoismo o all’altruismo, e che vanno dalla valutazione delle sue potenzialità di legame sociale e di produzione di solidarietà fino all’analisi di dimensioni quali autenticità o espressività, e sulle quali qui, lo si ricorda, non ci si soffermerà28, per non allontanarsi dall’interesse primario cui questo scritto si rivolge ed a cui tornerà immediatamente, cioè quello di comprendere le dinamiche della produzione di sé come contenitore, non necessariamente legato a un singolo corpo.
27
Vi è chi, per fornire ancora un altro esempio, ritiene che il cervello ospiti al proprio interno sia un io, di cui è domicilio principale, sia, in diversa misura, altre coscienze (“strani anelli”), le quali hanno al contempo la loro dimora principale in altri corpi. Douglas Hofstadter (2007/2010) tenta anche, così, di descrivere come una singola persona possa abitare diversi corpi simultaneamente. «Con intensità variabili, noi esseri umani viviamo già all’interno di altri esseri umani, anche in un mondo completamente privo di tecnologia» (ivi, 323). 28 Per questo si rinvia ad esempio alla prima parte di Spreafico (2005).
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Nel frattempo… Sociologia funzionalista e fenomenologica
Nel frattempo, mentre era già in corso l’apporto ed il dibattito interazionista precedentemente illustrato, alla fine degli anni Sessanta il funzionalismo di Parsons (1968/1983) era lentamente giunto a individuare il concetto di identità (ripreso dalla psicologia sociale di Erikson, che vedeva nell’identità qualcosa di situato nelle strutture psichiche interne e persistenti del singolo). L’identità è vista come la parte centrale del sistema della personalità, che funge da quadro di codici di riferimento entro cui il singolo attribuisce personalmente significati sociali a propri ed altrui comportamenti. Parsons impiega il termine “identità” approssimativamente nel senso comunemente utilizzato in sociologia a partire dagli anni ’60, anche se con le proprie specificità definitorie. Prima di chiarirle, vediamo una serie di definizioni di Parsons che, pur nel loro particolare linguaggio, sembrano utili per avere un panorama degli elementi componenti: l’identità è «il sistema centrale dei significati di una personalità individuale nella sua modalità di oggetto nel sistema di interazione di cui è parte» (ivi, 70) e «designa un aspetto strutturale della personalità dell’individuo, concepita come un sistema» (ibidem); il sistema dell’identità «è il terreno di riferimento per l’interpretazione del significato delle azioni sia da parte degli altri che dello stesso soggetto agente» (ivi, 80); l’identità è «il sistema dei codici di mantenimento del modello della personalità individuale» (ivi, 81) e «deve essere considerata fondamentalmente come appresa: essa è un prodotto dell’esperienza di vita dell’individuo, vale a dire della sua interazione con il proprio ambiente» (ibidem); «l’identità è appresa attraverso quel processo che concretamente chiamiamo interazione sociale» (ivi, 82), si tratta «di un “precipitato” di processi di interazione che raggiunge 81 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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una relativa indipendenza dalle proprie origini» (ibidem); l’identità può «“controllare” tanto l’azione sociale dell’individuo quanto il suo comportamento organico e la sua produzione ed “espressione” culturale. Una volta che si è costituito, tuttavia, un sistema di identità possiede il livello di stabilità più alto di qualsiasi altra componente primaria della personalità» (ibidem) e «non è modificabile dalle normali ricompense e frustrazioni dell’ambiente» (ibidem); l’identità come struttura di codici è «il quadro di riferimento all’interno del quale si stabilisce quali significati personali possono essere concretamente […] “espressi”, “agiti” e “realizzati” e quali no. In questo senso, l’identità individuale […] è […] un insieme di modelli per l’organizzazione e di canoni per l’interpretazione e l’articolazione dei significati» (ibidem). Per Parsons un sistema di azione è differenziato in sottosistemi, come il sistema culturale, il sistema sociale, il sistema della personalità individuale (distinta dall’organismo comportamentale). L’identità svolge la funzione di “mantenimento del modello” nel sistema della personalità. Tra i sottosistemi che compongono il sistema della personalità, quello dell’identità è il più stabile e sovrintende e controlla le altre parti della personalità (che sono i sottosistemi dell’Id, dell’Ego e del Super-ego, che sovrintendono rispettivamente alle funzioni di adattamento grazie alla mediazione nelle relazioni con l’organismo, di conseguimento biografico degli scopi, di integrazione di ruoli e norme interiorizzate). L’identità è l’ampio quadro di senso derivante dai valori della società, è una struttura generale di codici simbolico-culturali che permette all’individuo di collocarsi e orientarsi all’interno del campo di possibilità esistente in una società; campo definito e ordinato culturalmente da tali codici simbolici, che l’individuo interiorizza in modo da riuscire a orientare la propria azione. L’identità ha dunque una funzione di orientamento soggettivo per l’azione dell’individuo e lo guida nella scelta tra alternative di comportamento, conservando la coerenza interna del sistema psichico grazie alla sua compatibilità con il sistema dei valori. L’identità è appresa nel corso della socializzazione prodotta dalle interazioni sociali (in ambiti che vanno dalla famiglia alla scuola, alla cittadinanza, all’etnia), attraverso l’interiorizzazione di insiemi di ruoli istituzionalizzati di portata sempre più ampia. I valori ed i codici culturali condivisi, interiorizzati nel corso del processo 82 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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di socializzazione, configurano un’identità individuale che rappresenta una componente tendenzialmente stabile della personalità, soprattutto raggiunta la fase della maturità. L’identità dunque non viene sottoposta a revisioni e, inoltre, è in buona parte inconscia: non si ha necessariamente consapevolezza del sistema dei significati interiorizzato (in Parsons tendenzialmente unitario e coerente, come l’identità a cui sembra dar luogo). Come ricorda Sciolla (1983, 30), il singolo «è in grado di ordinare le proprie preferenze individuali e di scegliere in modo razionale tra diverse alternative di azione in quanto ha interiorizzato i codici culturali che definiscono la situazione e la ordinano in una gerarchia di fini sociali condivisi dalla collettività. Tra i fini individuali e i fini sociali non esiste dunque discrepanza e l’attore sociale opera in modo congruente con le aspettative culturalmente stabilite» (ma vi è dibattito sul grado di libertà dell’individuo parsonsiano, cfr. ad esempio Addario 1989, 46). La libertà di scelta nell’azione di cui gode l’individuo non sarebbe un suo attributo caratteristico, ma farebbe parte dei valori condivisi in una certa società ed insieme ad essi parteciperebbe al raggiungimento del suo ordinato funzionamento. L’individualismo strumentale della modernità prevede l’impegno autonomo di ciascuno in ruolo strumentale, cioè utile al benessere della società, seguendo criteri generali istituzionalizzati che guidano l’individuo nell’assunzione delle sue responsabilità nell’agire, ma senza prescriverne i contenuti nel dettaglio. L’identità ha la funzione di orientamento generale dell’individuo, organizzando sistemi di significati il cui contenuto può mutare nel tempo. Nel 1969 troviamo impiegato nuovamente il termine “identità”, questa volta nella sua veste collettiva, ad esempio in Parsons (1969/1975, 33): perché una comunità sociale abbia un adeguato livello di integrazione e solidarietà «deve essere “portatrice” di un sistema culturale sufficientemente generalizzato e integrato per legittimare l’ordinamento normativo. Tale legittimazione richiede un sistema di simbolismo costitutivo che fonda l’identità e la solidarietà della comunità, come pure credenze, riti, e altre componenti culturali che esprimono tale simbolismo». Più avanti si usa il termine “lealtà collettive”: le stesse persone ricoprono ruoli in collettività diverse, «pertanto la regolamentazione della lealtà dei membri verso la comunità stessa e verso varie altre collettività 83 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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è il problema principale per l’integrazione di una comunità sociale [integrazione che Parsons attribuirà alla “comunità societaria”] […]. Una comunità sociale è costituita da una rete complessa di collettività intersecatesi e di lealtà collettive» (ivi, 63). Del resto, prima di questi scritti Parsons impiegava già termini come “legami” di “appartenenza” a una “collettività”: il membro di un gruppo sviluppa un atteggiamento di lealtà nei confronti della collettività di cui è parte, che diviene «un oggetto di attaccamento, come quando parliamo dell’“amore per il Paese”» (1951/1965, 84); «esistono simboli quali le bandiere, gli emblemi, gli edifici ed i capi nella loro capacità espressiva, che costituiscono centri di orientamento espressivo per i membri della collettività» (ivi, 84-85). Tutte espressioni che mostrano l’influenza dell’identità collettiva nella costituzione di quella individuale. Mentre in Parsons l’identità appare come un presupposto regolativo dell’azione, la fenomenologia aveva già da tempo sviluppato un approfondimento teorico estremamente articolato (cfr. Romano 2010) ed in buona parte alternativo, soprattutto nelle sue prime formulazioni. Schütz (1932/1974; 1943-59/1962-66/2007 e 2008) – che prima di morire era stato in contatto critico anche con Parsons e che osservava come si dessero per scontati fino a prova contraria sia l’esistenza corporea del proprio simile, sia il fatto che la sua vita cosciente avesse essenzialmente la stessa struttura della nostra (si presuppone una concezione della psiche analoga) – vede il “sé” (si noti, di nuovo, la differenza di termine e di significato annesso) emergere come insieme del senso che l’individuo ha attribuito alle proprie esperienze passate attraverso lo sguardo riflessivo che ha posto su di esse. L’insieme sensato delle sue esperienze passate costituisce il suo sé. Se cambia il significato che si attribuisce a una certa esperienza vissuta allora si modifica parzialmente la percezione che si ha di sé. La capacità di auto-riflessione si esercita su esperienze relative a passate interazioni e si sviluppa mediante la capacità acquisita di fare esperienza dell’altro grazie all’esistenza di un senso intersoggettivo comune – oggi potremmo dunque aggiungere che ha una componente relazionale (il sé non è un attributo dell’individuo sganciato dalla relazione con l’altro). La costituzione del noi, infatti, precede e permette quella dell’io – l’io di un soggetto produttore di senso e base della realtà, ma che al contempo fa esperienza, nel ricordo, 84 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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della discontinuità, frammentarietà, parzialità e possibile incoerenza dei suoi diversi sé. Sviluppiamo il ragionamento. Schütz (1936-37)29 ritiene il sé sociale fin dalla nascita (il mondo della vita quotidiana in cui il sé agisce è condiviso con altri ego, è dal principio intersoggettivo) ed il soggetto «frazionato in una molteplicità di ruoli e stati soggettivi, la quale è in diretta relazione e rinvia alla molteplicità delle province di significato, dei contesti di senso, ed infine della pluralità dei mondi sociali» (Sacchetti 2010, 88). Ma tale soggetto è capace di mantenere la coscienza della propria unità. Nonostante la frammentazione delle esperienze vissute, il soggetto si esperisce anche come uno, sperimenta un’identità nel mondo della vita quotidiana, grazie al fenomeno unificante del working, l’esperienza che consente di vivere le diverse esperienze frammentarie come appartenenti a un unico sé. Vi è un sé pragmatico che lavora, e lavorando fa esperienza di sé come dell’autore unitario delle corrispondenti azioni in corso. Questo ego-agente e cognitivo sopravvive alla morte degli io parziali, la sua unitarietà è pragmaticamente fondata nel tempo e nello spazio, in cui si sviluppano le attività ordinarie del mondo della vita come quelle lavorative del fare. Un ulteriore approfondimento di quanto detto sin qui è rinvenibile proprio attraverso le parole di Schütz (1943-59/2008, 107): il significato di un’esperienza è «il risultato di un’interpretazione di un’esperienza passata che viene presa in considerazione a partire da un adesso»30; i miei atti acquisiscono significato «se io li colgo come esperienze ben circoscritte del passato, e dunque retrospettivamente», se posso ricordarli fuori dalla loro attualità e così attribuirgli un significato soggettivo. Il sé comunica con gli altri e organizza le differenti prospettive spaziali del mondo della vita quotidiana attraverso le proprie azioni nel mondo esteriore; il sé che agisce in quest’ultimo, con un progetto pre29
Si tratta di un manoscritto con saggi incompiuti e non ancora pubblicati, ma disponibili come microfilm – per i quali si fa qui riferimento a Sacchetti (2007 e 2010) –, in cui il sociologo austriaco riprende e rende più complessa ed articolata l’idea di io di Mead. 30 Da qui in poi la traduzione delle frasi citate è fatta, a partire dalla versione francese, da chi scrive. Una recente rilettura approfondita di Schütz è contenuta in Santambrogio (2006), al quale dunque si rimanda per una più ampia e meno settoriale trattazione del suo pensiero, che non è qui possibile compiere. Cfr. anche Spreafico (2007).
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concepito e l’intenzione di produrre la situazione progettata attraverso movimenti corporei, “vive nei suoi atti” e la sua attenzione è attivamente diretta esclusivamente “verso la realizzazione del suo progetto” (ivi, 110). Tuttavia, così «vivendo nel mio agire, io sono orientato verso la situazione che deve essere prodotta con questo agire. Ma non guardo […] alle esperienze che ho di questo processo in corso. Per farlo, devo rivolgermi verso il mio agire con un’attitudine riflessiva. Come ha detto un giorno Dewey, devo fermarmi e riflettere. Tuttavia, se adotto questa attitudine riflessiva, non è il mio agire che colgo. La sola cosa che posso cogliere è l’atto effettuato (il mio agire passato)» (ivi, 111) (distinzione tra l’azione come agire in corso e come atto effettuato). «Visto dal presente attuale in cui adotto l’attitudine riflessiva, il mio agire al passato […] non è concepibile se non in termini di atti effettuati da me» (ibidem). Il sé che agisce nel presente (il sé quotidiano, irriflesso), nello svolgimento dei suoi atti orientati verso obiettivi da realizzare, si autoesperisce «come origine delle azioni in corso ed anche come sé indiviso e totale. Esso fa dall’interno l’esperienza dei suoi movimenti corporei; vive nelle esperienze essenzialmente attuali e correlate che sono inaccessibili al ricordo ed alla riflessione. […] Ma questa unità crolla se il sé fa ritorno, con attitudine riflessiva verso gli atti» (ivi, 113) effettuati. «Il sé che ha effettuato gli atti passati non è più il sé totale indiviso, ma un sé parziale, l’esecutore di quell’atto particolare che rinvia a un sistema di atti correlati al quale [quest’ultimo atto] appartiene. Questo sé parziale è semplicemente un interprete del ruolo o un Me» (ivi, 114) in un senso meadiano. Il sé passato non sarà mai altro che un aspetto parziale del sé totale che si realizza nell’esperienza dell’azione progettata in corso (sé esperito in modo diverso a seconda della provincia limitata di significato in cui ci si trova). Nel mondo intersoggettivo della vita quotidiana io agisco e reagisco su miei simili che fanno altrettanto ed a cui sono legato da numerosi rapporti sociali. La reciproca azione sociale implica la comunicazione, cioè l’effettuazione di atti nel mondo esteriore, che gli altri interpretano come segni di quello che una persona desidera trasmettere. La relazione frontale è la struttura fondamentale del mondo della vita quotidiana, «è nella sola relazione frontale che un partner può vedere il sé del suo simile come una totalità intatta in un presente attuale» (ivi, 118). «I 86 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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molteplici rapporti sociali sono derivati dall’esperienza originaria della totalità del sé dell’altro in una comunità di tempo e di spazio» (ivi, 119). Invece, negli altri tipi di rapporti il sé dell’altro appare semplicemente come un sé parziale, che agisce in una prospettiva temporale derivata da quella fondamentale della copresenza. Questo ragionamento torna utile, ad esempio, se facciamo la seguente riflessione: quando ho di fronte a me un individuo, che sui giornali viene descritto come diverso in quanto portatore di pratiche culturali apparentemente diverse da quelle diffuse tra la maggioranza degli abitanti di un determinato ambito territoriale (lo straniero in Schütz è in realtà portatore di diversi riferimenti cognitivi e morali, di differenti modelli culturali e normativi31), sono invece maggiormente in grado di cogliere il complesso del suo sé e la sua ricchezza, mentre se la mia relazione con questo altro non è diretta, è mediata ad esempio proprio dalla lettura di articoli su di esso, ne riesco a cogliere solo aspetti parziali, più facilmente suscettibili di essere stereotipati. L’orientamento del sé nello spazio avviene a partire dal luogo che il corpo occupa nel mondo, così come le prospettive temporali che gli permettono di organizzare gli avvenimenti sono legate al suo adesso, mentre l’esperienza fondamentale (detta “ansietà fondamentale”) dell’atteggiamento naturale dell’uomo è la consapevolezza di dover morire e la paura di morire. Schütz mette in evidenza in più punti un elemento che influenza l’auto-percezione di sé, cioè il corpo: oltre a immaginare di svolgere un ruolo a mia scelta attraverso sé immaginati, posso anche immaginare di «cambiare apparenza fisica, ma questa libertà […] è limitata dall’esperienza originaria delle barriere del mio corpo. Esse continuano ad essere ciò che sono, che io mi immagini di essere nano o gigante» (ivi, 140); anche il sé che dorme continua a percepire il proprio corpo. Allo stesso tempo, però, in province di significato come quella del mondo della teoria scientifica agisce un sé parziale, quello che indossa il ruolo del teorico, che, a differenza del mondo della vita quotidiana e di altri mondi, è separato da «tutte le esperienze legate al suo corpo, i suoi movimenti ed i suoi limiti» (ivi, 150). Il sé teorizzatore, inoltre, non può cogliere il sé dell’altro in quan31
Oltre al saggio dedicato dallo stesso Schütz allo straniero e rinvenibile nei Collected Papers, si veda anche Cotesta (2002).
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to unità indivisa, perché non può accedere alla dimensione del presente in corso, è dunque un sé solitario, al di fuori delle relazioni sociali. Dunque, di nuovo, è solamente nelle relazioni dove vi è «una comunità di spazio e di tempo (un ambiente sociale comune nel senso forte) che si può, nell’atteggiamento naturale, sperimentare il sé dell’Altro nella sua totalità indivisa, mentre al di fuori del presente in corso della relazione-Noi, l’Altro non appare se non come un Me, che interpreta un ruolo, ma non come un’unità» (ivi, 157). Questo ci aiuta a capire la grande varietà di possibili, ed a volte problematici, contatti tra identità differenti in ambiti spazio-temporali diversi su uno sfondo di senso comune; questione importante dato che ogni conoscenza del mondo sociale è per Schütz basata sulla possibilità di fare esperienza dell’altro nel presente. In termini più ampi, il soggetto riesce a mantenere il senso della propria identità grazie all’atteggiamento naturale del mondo della vita quotidiana: «è vero, infatti, che l’individuo mantiene coscienza di sé come sé unitario grazie al suo continuo riattualizzarsi nell’hic et nunc del mondo del working. Ma la sua azione è possibile solo sullo sfondo di un mondo assunto come dato ovvio, scontato, indubitabile. Il senso della realtà [il reale è una costruzione di quella costruzione che è il senso comune] fonda e rende possibile il senso dell’identità» (Sacchetti 2010, 97). Abbiamo a che fare con un «individuo che vive la sua soggettività e l’intersoggettività del mondo come reciprocamente connesse» (ivi, 98), poli di un fenomeno unitario, il soggetto, che può di volta in volta esperirsi come un aspetto parziale di un unico sé e che è fonte autonoma di cogitazione ed azione, perno della realtà, costantemente impegnato nell’interpretazione e costruzione anche creativa del mondo sociale, mondo visto come ambito di progettazione ed azione. L’ego è principio unificante presente fin dall’inizio nel flusso di coscienza e non si riduce alla totalità dei suoi atti di coscienza (concezione egologica della coscienza), alla somma degli atti attraverso cui vengono organizzate le esperienze del soggetto. «L’unità tra stati mentali è conseguenza dell’attività ordinatrice dell’ego» (ivi, 99). La riflessione non costituisce l’ego, ma permette di osservarlo «quale artefice di ogni atto e centro a cui tutte le esperienze devono venir ricondotte» (ibidem). Una concezione che contrasta con quella non-egologica di Gurwitsch (1941), per 88 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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cui non esisterebbe un centro autonomo da cui deriverebbero gli atti di coscienza32. La fenomenologia ha poi trovato in Berger e Luckmann (1966/1969) un ritorno a una concezione meno flessibile dell’identità. Le conoscenze, gli schemi di interpretazione, le mappe di significato dati per scontati e sedimentatisi a costituire un mondo intersoggettivo, e che ci orientano nell’azione pratica della vita quotidiana, sono divenuti, attraverso la socializzazione, delle conoscenze oggettive interiorizzate dagli individui, delle strutture della loro coscienza, cioè dei componenti della loro identità individuale (pur non essendovi una base naturale originaria universale). L’identità – vista come una struttura di organizzazione delle conoscenze – ed il sistema culturale dei valori tendono ad essere congruenti, soprattutto per quanto riguarda ciò che viene interiorizzato durante la socializzazione primaria in ambito familiare (si ritorna quasi a una visione parsonsiana). Mettere in discussione tali interiorizzazioni comporterebbe un completo e difficile cambiamento in termini identitari, cambiamento che potrebbe essere invece più semplice da effettuare riguardo a ciò che si è interiorizzato durante la socializzazione secondaria. Il proprio senso di identità verrebbe modificato solo parzialmente quando si discute ciò che si è interiorizzato in questa seconda fase della socializzazione (emergere di contrasti tra libertà del soggetto e condizionamenti, tra conoscenze oggettive e capacità di metterle in discussione), più legato a ruoli specifici meno basilari e rispetto a cui sarebbe più semplice prendere le distanze (anche se – come ricorda Sciolla 1983, 38 – non è chiaro la modificazione di cosa comporti effettivamente la necessità di ridiscutere più in profondità la propria concezione di sé). Con il tempo la fenomenologia ha considerato maggiormente l’eterogeneità e la possibilità di contraddizioni nella costruzione identitaria (cioè nel modo in cui gli individui definiscono se stessi), in rapporto alla pluralizzazione dei modi di vita sociali (cfr. Berger, Berger e Kellner 1973/1983) della modernità, anche contrastanti tra loro. L’identità diviene così maggiormente frutto di scelta, una difficile costruzione, più fluida, progettata, aperta all’immaginazione di alternative possibili e compatibili, riflessiva e modificabile (questi aspetti, su cui ancora oggi 32
Sul dibattito Schütz-Gurwitsch in merito, cfr. Sacchetti (2010).
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insiste l’analisi sociologica, devono però poi essere completati con la considerazione delle differenze nella capacità di effettuare ed imporre scelte identificative-identitarie a seconda delle risorse di capitale economico, sociale, culturale e di potere politico di cui un attore dispone in differenti situazioni). Se ora l’identità è vista da un lato come una sorta di meccanismo integratore di esperienze passate e presenti e di progetti e scopi per il futuro, che permette all’individuo di agire operando delle scelte in un ambiente complesso, che grazie ad essa viene precedentemente semplificato e ordinato, cioè come un modo di spiegare parte dei comportamenti al contempo creativi del singolo, e dall’altro lato, invece, come il risultato dell’azione, il frutto di una decisione del singolo in una determinata situazione, dunque come la descrizione di ciò che l’individuo ha costruito in termini di interpretazione, di proposte di sé, in specifiche interazioni, ben più interessante risulterà a questo punto il contributo che è possibile estrarre da una parte di un’altra prospettiva che deriva dagli studi fenomenologici schutziani, quello dell’etnometodologia.
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Avvicinamento al linguaggio. Attorno all’etnometodologia
Ma oltre alla fenomenologia, nel frattempo si era già avuta anche la “svolta linguistica” – il cui rilievo generale per l’importanza di lì in seguito attribuita al linguaggio ci porta qui ad aprire una breve ma necessaria parentesi, che ci allontanerà momentaneamente dal nostro itinerario tra le dimensioni con cui è possibile parlare di identità. In periodi più o meno vicini, tra la fine degli anni Venti ed il corso degli anni Quaranta del XX secolo, Malinowski (cfr. 1935/1978, vol. 2), Austin (e ben più avanti Searle) e Wittgenstein avevano riconosciuto l’uso pragmatico degli enunciati in qualunque lingua: parlare è una forma di azione sociale e le parole devono essere comprese nel loro contesto. L’attenzione per la dimensione linguistica propria della filosofia analitica inglese aveva trovato soprattutto nel “secondo Wittgenstein” (1941-49/1953/2009, 23: «con le nostre proposizioni, facciamo le cose più diverse») un importante sostegno; egli pensava il linguaggio come un insieme di giochi o pratiche linguistiche governati da più regole mutevoli e differenti a seconda delle forme di vita, delle attività, degli usi pratici: all’interno di una determinata situazione di interazione sociale le parole assumono uno specifico significato; cioè, in ogni tipo di interazione sociale si ha un certo linguaggio o gioco linguistico in cui le espressioni assumono una certa sfumatura di senso (dunque la stessa parola o frase può assumere significati diversi a seconda dei giochi linguistici e quindi delle interazioni, a seconda delle attività e dei contesti in cui è impiegata). Il significato del linguaggio e quello dell’agire sono comprensibili a partire dalla loro stretta relazione. L’azione che una parola compie è differente a seconda della più ampia attività in cui è inserita. Il contesto socioculturale costituisce lo sfondo influente in cui gli individui apprendo91 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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no le regole dei differenti giochi linguistici legati alle specifiche forme di vita. Tali regole generano anche delle aspettative sullo svolgimento normale dell’interazione nei suoi aspetti linguistici e comportamentali (proprio uno degli aspetti messi poi in risalto dall’etnometodologia); vi è una socializzazione al modo corretto di giocare il gioco, ai suoi standard, ma allo stesso tempo si deve aggiungere che gli attori hanno una capacità creativa – l’Io capace di introdurre modificazioni creative in reazione al Me organizzato, prodotto di oggettivazioni identitarie che contribuiscono a comporre il Sé di Mead – che va al di là delle regole apprese, capacità che dà luogo a una grande varietà e sovrapposizione di giochi linguistici, passando per il filtro dei quali si manifestano i fatti (conosciuti dunque in modo socialmente condizionato)33. Il linguaggio è l’orizzonte insuperabile attraverso cui viene costruita la realtà sociale nel corso delle interazioni e dunque, come si vedrà nel corso di questa sezione, anche l’identità. Wittgenstein, inoltre, diffidava di una spiegazione psicologica del comportamento linguistico, ma rimandava alla situazione, alle istituzioni umane, all’osservazione di come viene impiegata una parola per imparare come funzioni e comprenderla nel contesto di una comunità di fruitori. Anche se vi è un legame tra l’osservazione dell’uso di una parola e la possibilità di comprenderla, non tutti comprendono una parola o un enunciato allo stesso modo, dato che non tutti avranno la stessa abilità nell’agire nel contesto/gioco in cui è usata. Così come ogni parlante può comprendere in modo diverso le stesse parole o espressioni, il suo modo di descrivere linguisticamente la stessa proprietà di uno stesso referente, di mettere in relazione in modo flessibile referente, pensiero e linguaggio, è diversa da parlante a parlante, a seconda della diversa “forma di vita”, di esistenza, che sperimenta, del contesto di socializzazione in cui apprende a usare il linguaggio, a conoscere i tipi di cose che può fare con una determinata parola o espressione linguistica. I giochi di linguaggio, o giochi linguistici, sono le forme di linguaggio, 33
Le asserzioni circa i fatti, in seguito alla “svolta linguistica” del XX secolo, possono essere plausibili, più o meno adeguate, anche al di là del contesto in cui sono formulate se connesse alla nozione di autenticità, di soggettività autentica, di auto-congruenza esemplare (cfr. Ferrara 1998/1999); un enunciato potrebbe apparire pertinente e plausibile ovunque chi lo accetti possa mantenere anche grazie ad esso un’identità autentica, nei termini con cui si decide di qualificare tale autenticità.
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i modi semplici di usare i segni, con cui un bambino comincia a usare le parole; le forme più complicate si possono poi costruire a partire da tali forme “primitive”, aggiungendo gradualmente forme nuove. Diversi usi di una lingua sono come diversi giochi, cioè possono avere – ma non necessariamente hanno – alcuni tratti in comune. Il parlare una lingua è un’attività che segue delle teorie locali e implica una serie di assunti contestuali e specifiche forme di cooperazione tra interagenti; per capire cosa significano e fanno determinate espressioni linguistiche è necessario osservare come è usato il linguaggio in un ampio contesto. Acquisiti i suddetti aspetti, così come anche la concezione performativistica del linguaggio di Austin (cfr. 1955/1962/1987) – per il quale numerose espressioni che sembrano descrivere qualcosa in realtà la producono o la compiono, cioè realizzano un atto, fanno cose, effettuano azioni – da un lato, e la fenomenologia di Husserl34 e Schütz dall’altro, il Paese di riferimento prevalente per il nostro tema tornano però ad essere gli Stati Uniti. Qui l’etnometodologia garfinkeliana (cfr. Garfinkel 1963/2004 e 1967/2007) – alla quale bisogna fare riferimento prima di innestarvi gli approfondimenti sui risvolti linguistici dell’interazione35 – vede individui appartenenti a una stessa società che agiscono ricorrendo a un comune corpo di procedure di ragionamento e di pratiche, di etno-metodi, che costituiscono il senso comune, un saper fare pratico condiviso che viene usato per rendere spiegabili e descrivibili le proprie azioni, così assicurando “ordine di significato alla vita sociale” (Caniglia 2009a, 5); il continuo uso del ragionamento pratico per inquadrare, interpretare e riconoscere situazioni sociali avviene inconsapevolmente ed è dato per scontato. Si potrebbe dire che nell’interazione quotidiana lo stesso atto pratico di fare costantemente riferimento all’idea che vi sia un qualcosa, che viene spesso chiamato “identità personale”, che distinguerebbe una parte da un tutto, un essere umano dagli altri e dal 34
Sulla quale cfr. Romano (2010). Garfinkel aveva già «intuito che le attività linguistiche, come “descrivere” e “spiegare”, rientravano nei modi con cui gli uomini danno reciprocamente senso alle loro azioni» (Caniglia 2009a, 7) e dunque la centralità del linguaggio naturale nella vita sociale. Inoltre, egli sembra aver ben presente questa affermazione di Wittgenstein (1953/2009, 70): «gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità (non ce ne possiamo accorgere – perché li abbiamo sempre sotto gli occhi)». 35
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resto dell’ambiente, sia un modo di dare ordine alla (a una) realtà in cui viviamo. Categorie che – come il genere sessuale o l’età (normalmente pensate come componenti essenziali dell’“identità”) – tendiamo a considerare come “naturali”, hanno per Garfinkel un’origine sociale e pubblica, non mentale ed interna, ma ad esempio legata alle circostanze specifiche in cui si trova in un certo momento colui che categorizza. Nella pratica ci mostriamo di condividere forme di organizzazione e classificazione di ciò che ci circonda. La categoria del genere sessuale è una di quelle che più viene data per scontata e, nel suo studio sul transessuale Agnese, Garfinkel (1967/2007) ci mostra come normalmente una persona venga considerata per come naturalmente mostra di essere, attraverso fatti e parole che vengono presi per buoni, a meno che non accada qualcosa che sollevi il velo della situazione di normalità. Nell’interazione ci si dimostra vicendevolmente con il comportamento appropriato e spontaneo a quale genere si appartiene. L’appartenenza di genere è realizzata praticamente e costantemente attraverso gesti, movimenti, attività sceniche che producono tale genere, da un lato attraverso l’esecuzione di una performance e dall’altro attraverso il riconoscimento da parte dei membri della società con cui si è in interazione. Il genere sessuale è il frutto di un interagire concreto, di un incessante lavoro locale che permette di far apparire come ovvia e naturalmente visibile la specifica appartenenza ad esso. In questo ambito, l’idea diffusa di un sé antecedente sembra invece ora essere vista come una reificazione costruita al di fuori dell’esperienza basilare delle specifiche situazioni di interazione in cui ci si trova, in cui ciascuno riesce in realtà a interagire anche senza avere già cognizioni precise delle prescrizioni di ruolo, ma più semplicemente seguendo regole prodotte nell’interazione stessa, nell’interazione verbale in particolare. Infatti, data la grande rilevanza che ha il linguaggio nell’azione sociale (l’agire sociale è realizzato attraverso il linguaggio36), è proprio in una parte specifica dell’etnometodologia, l’Analisi della Conversazione (AC) costruita da Harvey Sacks (1964-72/1995/2007) – inizialmente collaboratore e allievo di Garfinkel –, che possiamo trovare spunti interessanti per ragionare sull’identità. 36
Sulle differenze tra Austin e Searle da una parte e Sacks dall’altra cfr. Caniglia e Spreafico (2008).
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Contrario alla tendenza meadiana a studiare ciò che non è osservabile, Sacks invita la sociologia a descrivere le attività sociali ordinarie, a studiare il senso comune – spesso dato per scontato – adoperato per vedere le cose in un certo modo, e a considerare sempre i fenomeni come costruiti attivamente e localmente dagli attori sociali. Quando lo studioso categorizza un fenomeno (ad esempio definisce un’identità in qualche modo) in seguito a un’osservazione, rischia di dimenticarsi di prendere in considerazione le conoscenze di senso comune che lo hanno spinto a categorizzarlo in un certo modo37. Ciò su cui bisogna concentrarsi è invece il modo in cui i parlanti assumono certi ruoli o identità durante gli scambi verbali, cioè il come le attività dei soggetti in interazione costruiscono il fenomeno “identità” nel corso di una conversazione; ciò anche perché non possiamo pensare che il contenuto di ciò che viene detto corrisponda a una supposta realtà esterna indipendente: ad esempio, spesso le persone possono tendere a offrire descrizioni di eventi in cui sono coinvolte in modo che emerga un proprio profilo identitario adeguato allo scopo del momento (ad esempio, un profilo considerato moralmente accettabile nella propria società). Come ricorda Silverman (2000/2008, 160), infatti, gli attori sociali non sono dei “robot culturali”, né esiste una struttura sociale che ne determini i resoconti, ognuno può auto-descriversi o essere descritto in molti modi, «in nessun caso siamo di fronte a una struttura sociale esterna, preesistente, che determina il contenuto del racconto. Piuttosto tutti […] fanno riferimento a qualche struttura sociale per dare vita a un resoconto consapevole che sia adeguato allo scopo del momento»; il soggetto ha l’abilità di invocare selettivamente la struttura socio-storico-culturale in cui è inserito. Nel corso delle loro interazioni verbali, o in testi scritti, le persone descrivono continuamente altre persone avvalendosi di una conoscenza di senso comune grazie alla quale operano categorizzazioni comprensibili dagli altri. I membri di una società riescono a selezionare una 37 C’è qui una critica alla tendenza dei cultori della Grounded Theory (cfr. Glaser e Strauss 1967/2009, Corbin e Strauss 2007, Charmaz 2006) a codificare i dati – pur creando le categorie a partire dai dati e non applicando categorie preesistenti (Tarozzi 2008) – senza interrogarsi sul tipo di senso comune che il ricercatore sta usando per concettualizzarli in un certo modo.
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categoria appropriata per classificare una persona (ad esempio, l’età o il genere sessuale) in una specifica situazione di conversazione, anche in funzione del ricevente concreto che il parlante si trova davanti. Colui che si descrive, o che viene descritto, però lo fa, o comprende la descrizione, grazie a un impianto di cui è possibile ricostruire le modalità comuni; cioè la descrizione si fa grazie all’impiego di numerose categorie di identificazione (ad esempio: donna, maestra, trentenne, madre) che possono derivare da una o più raccolte (ad esempio: genere, professione, età, famiglia). A seconda del tipo di identificazione categoriale usato, vi sono rilevanti «implicazioni sul significato che colleghiamo al comportamento delle persone» (Silverman 2000/2008, 199). Quando nella descrizione si sceglie una categoria da una raccolta, quella persona non può essere identificata con nessun’altra categoria della stessa raccolta; una tale collezione di categorie di appartenenza costituisce per Sacks un raggruppamento naturale di categorie che i membri di una società percepiscono come collegate. Questo strumento/raccolta/collezione è chiamato da Sacks (1964-72/1992) “strumento di categorizzazione di appartenenza” (Membership Categorization Device, MCD) e prevede l’uso di una raccolta e di regole e massime applicative generali – come coerenza, economia, facilitazione del riconoscimento, su cui qui non ci si sofferma – per accoppiare in un certo modo i membri di una popolazione e le categorie. In una società, a certe categorie di appartenenza sono in genere associate determinate caratteristiche ed attività, dunque se conosciamo l’“attività circoscritta” di una persona ne possiamo dedurre l’identità sociale più appropriata da essa implicata: «se qualcuno viene a conoscenza di un’attività compiuta, ed esiste una categoria alla quale è legata, allora quel qualcuno suggerirà certamente che è stata compiuta da un membro di quella categoria» (ivi, vol. I, 180). In generale, vi è un legame convenzionalmente attribuito, di senso comune, tra determinate azioni e certe categorie di appartenenza. Le MCD «nascono spontaneamente tra i partecipanti e vengono usate dai parlanti e da chi ascolta per formulare e riformulare continuamente il significato delle attività e delle identità» (Silverman 2000/2008, 207), costruendo universi morali di azioni appropriate. Sacks rileva, infatti, come l’uso di categorie interconnesse permetta un’organizzazione complessa delle conoscenze comuni sulle relazioni tra la categoria di appartenenza di 96 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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un membro e la natura dell’attività che esso esegue tale che le descrizioni degli agenti e delle loro attività sono in genere co-selezionate. Così, le categorie non si limitano a descrivere, ma veicolano determinati accostamenti attesi di senso comune tra certe persone e specifici comportamenti e credenze che possono anche servire per suggerire una spiegazione-significato, con presupposti morali, a ciò che accade o è accaduto. La selezione di una certa categoria per descrivere qualcuno non suppone che costui sia proprio ciò che dice la categoria, egli può essere anche tante altre cose contemporaneamente; in generale, chi qualcuno “è” dipende da cosa sta facendo, dove, quando, con chi, e dipende anche dal contesto in cui è stata prodotta la descrizione, dall’azione che si voleva realizzare con quella descrizione (cfr. Caniglia e Spreafico 2011), da chi compie la descrizione e dal pubblico a cui intende rivolgersi38 con quegli scopi, oltre che dalle inferenze di significato che costui vuole produrre (Caniglia 2009b). Il descrivere è un’attività ordinata onnipresente nella vita sociale e descrivere qualcuno significa assegnarlo in modo metodico e ordinato – cioè seguendo procedure come, ad esempio, quella di categorizzare con coerenza le persone di una medesima scena sociale, attraverso la scelta di categorie di una stessa collezione – a una specifica categoria di appartenenza tra le tante inizialmente possibili; in generale, infatti, vi sono sempre a disposizione più categorie (designazioni di senso comune) corrette per descrivere una persona. Come si è detto, la «categorizzazione non riflette […] l’essenza di un oggetto quanto il rispetto di procedure attraverso cui i membri provano a rendere comprensibile una descrizione» (Caniglia 2010, 14), grazie all’uso di un ragionamento pratico di senso comune condiviso dai membri di una società. Le categorie per descrivere una persona divengono rilevanti secondo gli eventi e le circostanze cui ci si riferisce, dei quali divengono elementi significanti, esplicativi e chiarificatori, così che la descrizione risulta diffusamente comprensibile. 38 Si ricorda che in una descrizione si tendono a scegliere categorie di appartenenza anche in funzione di ciò che si ritiene sia a conoscenza di colui a cui ci si sta rivolgendo, la descrizione è anche progettata per i destinatari (recipient designed; cfr. Sacks, Schegloff e Jefferson 1974/2000), in modo da permettere un semplice riconoscimento della persona descritta.
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Per Sacks (1964-72/1995/2010) nelle categorie sono immagazzinate le conoscenze sociali comuni (conoscenze di cui non è possibile dubitare sensatamente), cioè le conoscenze condivise, il senso comune, che hanno e condividono i membri di una società; così, nell’agire sociale, nelle pratiche sociali quotidiane, i membri possiedono competenze comuni relative all’uso delle categorie di appartenenza ed al tipo di azioni che vi sono connesse in modo pertinente. A certe categorie sono connesse determinate aspettative, anche morali, di comportamento, vi sono “attività legate alle categorie”, date per scontate, che costituiscono lo sfondo che rende possibile l’interagire sociale. Vi è una sorta di grammatica di senso comune che connette categorie a credenze, tipi di azione, atteggiamenti. Nelle parole di Sacks, «qualunque membro viene visto come rappresentante di […] categorie; qualunque persona che sia un caso di una categoria viene vista come membro della categoria, e ciò che si conosce di quella categoria si applica ad essa, e […] vengono sistematicamente costruiti sistemi di controllo sociale intorno a queste categorie che sono validate dall’interno dai membri» (ivi, 96). L’attribuzione di identità sembra allora condizionata dall’uso metodico (un “saper fare” tacito) ed adeguato (cioè non solo corretto-veritiero, ma anche pertinente e rilevante) delle categorie in una certa società, categorie che però possono essere cambiate, anche attraverso un conflitto tra auto-definizioni e definizioni esterne, in modo che si modifichino sia i termini, sia le aspettative di comportamento ad essi comunemente legate. Ciò «che le categorie dominanti controllano sin dalle fondamenta è il modo in cui le persone percepiscono la realtà» (ivi, 89), qualunque cosa di essa possa essere detto, e una rivoluzione «costituisce un tentativo di cambiare il modo in cui le persone» la vedono. Il passaggio dall’uso di certe categorie ad altre per designare/identificare (o fornire un’identità a) certe persone può segnalare un mutamento sociale, e ciò anche quando le stesse categorie identificative si spostano da uno strumento di categorizzazione a un altro, cambiando il significato con cui sono usate. Vi sono, tuttavia, delle categorie che – almeno nelle odierne società occidentali – possono ritornare spesso nelle diverse descrizioni (soprattutto quando in un primo momento non si dispone di altre informazioni che permettano di adottare categorie più esplicative e fornitrici di senso, come quelle dette “ascrivibili”, frutto di una maggiore ricerca 98 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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di informazioni): si tratta delle categorie “disponibili alla vista”, cioè visibili ed immediatamente a disposizione, ad esempio quelle relative al genere (uomo, donna), alle fasi della vita (bambino, giovane, adulto, anziano), al colore della pelle o dei capelli, in alcuni casi alla professione mostrata dall’abbigliamento (prete, poliziotto, soldato) e così via (cfr. Caniglia 2009b, 36-37 e 169) – anche se tali categorie diventano più o meno salienti secondo il contesto, gli scopi e se costituiscono uno scostamento rispetto a ciò che è considerato normale, scontato, atteso, visibile in una certa società. Nell’AC la conversazione stessa crea e preserva la realtà – e la comprensione – intersoggettiva, oltre ad essere «focalizzata esclusivamente sui significati che sono resi pubblici tramite le conversazioni e assume una posizione agnostica in merito alle esperienze psicologiche» (Silverman 2000/2008, 225; cfr. Heritage 1984). Al contempo si osserva come nel corso di un’interazione linguistica vi sia un processo di definizione interazionale dell’identità degli interagenti. In termini generali, e semplificando (dato che in realtà, come si vedrà più avanti quando si considererà maggiormente il contributo dell’antropologia del linguaggio, entrano in gioco più fattori), all’interno di una conversazione l’identità può essere inizialmente costruita attraverso la proposizione di una certa descrizione39 di sé agli interlocutori, ad esempio mediante la formulazione di enunciati in una “sequenza di identificazione” (già il suono della voce può fornire indicazioni al riguardo, così come affermazioni del tipo “sono Pietro”, o “sono lo zio”) o approfondita nella narrazione di un evento a un’altra persona (in cui emerge una miriade di riferimenti identitari, da “tutte le volte che ho un esame perdo il controllo” a “adoro i quadri di Picasso”). Tale descrizione di sé è mutevole al cambiare del contesto in quanto connesso alla costruzione interazionale dell’impalcatura discorsiva – dato che è la conversazione stessa a poter generare in modo endogeno il proprio contesto o a stabilire quali aspetti del contesto sono rilevanti ed in che modo (cfr. Caniglia 2009a e 2007). 39
Il tentativo di «identificare i “discorsi” generali utilizzati dai partecipanti per definire le proprie identità od orientamenti morali» (Silverman 2000/2008, 236), cioè di analizzare, a questo scopo, i repertori interpretativi fatti di set di termini sistematicamente e coerentemente interconnessi, e spesso organizzati attorno a metafore centrali, impiegati dagli interagenti, è invece uno degli obiettivi di un approccio in parte differente da quello dell’AC, cioè quello dell’Analisi del Discorso (AD).
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Al contempo la proposizione di sé non è un atto unilaterale, ma trova o meno conferma in eventuali reazioni verbali dell’interlocutore, con il quale vi è una sorta di concertazione collaborativa delle identità in campo – sebbene si possa immaginare di riscontrare una preferenza per l’accettazione dell’altrui identità proposta, soprattutto se essa permette di non mettere in discussione l’ordinaria normalità dell’interazione e di continuare nell’attività di fare la “persona normale” identificata da Sacks; in genere la conferma è preferita perché evita di mettere in discussione il mondo comune tra gli interlocutori. Se una persona si presenta fornendo il proprio nome, anche l’interlocutore tenderà a fornire il proprio nel turno successivo (ciò che ha detto il primo parlante ha creato un’aspettativa in tal senso. Il meccanismo della “coppia adiacente” crea una mutua, intersoggettiva, comprensione e coordinazione attorno a un’attività comune). Vi è costituzione locale dell’identità nel parlato: non esistono categorie identificative onnirilevanti, ma categorie identificative che divengono rilevanti in situazioni specifiche, attraverso il lavoro pratico dei partecipanti alla “situazione”, all’interazione quotidiana (cfr. Antaki e Widdicombe 1998). Dato che non possiamo sapere cosa fanno effettivamente una parola o un enunciato durante un’interazione (quale azione compiono) fino a quando non consideriamo in che punto della conversazione sono pronunciati, e dunque prendiamo in considerazione le sequenze più ampie in cui appaiono, allo stesso modo l’identità rilevante presentata nel discorso, ad esempio grazie all’uso di termini “identificativi” (dal nome alla professione, dalle preferenze all’etnia di riferimento e così via) frutto di operazioni di categorizzazione, assume senso differente a seconda del luogo – cioè della sequenza – della conversazione in cui tali termini sono impiegati, della posizione nella sequenza, al contempo in connessione con le esigenze della situazione e del contesto che in essa si invoca di momento in momento – come si è detto, i parlanti invocano un particolare contesto per le loro conversazioni. In termini più ampi, in riferimento a una categoria identificativa come l’età, Paoletti (1997) ci mostra, inoltre, come a una stessa categoria possano essere attribuiti significati diversi a seconda dei contesti, e come il processo di categorizzazione di una delle componenti più significative per coloro che sostengono di avere un’identità personale, l’età, sia il frutto di una 100 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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categorizzazione-costruzione locale; infatti, in determinati contesti istituzionali l’appartenenza a una specifica categoria di età, come quella identificata con il termine “anziani”, viene invocata se permette l’accesso a privilegi o attività desiderabili e non utilizzata se connessa a connotazioni negative o pregiudiziali nel contesto vigente. Ma è anche possibile che nel corso di una sequenza conversazionale l’“identità operativa” e negoziata di un individuo venga negata (cfr. Sacks 1964-72/1992), o che venga sottratto all’interlocutore un aspetto – più o meno esplicitato – della sua presentazione di sé che non viene ratificato, o evitato, o contestato, durante il susseguirsi dei turni di una conversazione, dall’altro o dagli altri interlocutori. Il riconoscimento, inoltre, deve essere rinnovato nel tempo, non è mai acquisito definitivamente – anche se si tratta di un esempio non naturale, non spontaneo, ed anche se è un tema di ricerca, si potrebbe pensare a: A) “mi sembra di aver scritto un saggio di rilievo per …”, B) “forse lo era, ma oggi è superato …”; viene negata l’identificazione, magari prima accettata, di A come studioso capace di continuare a scrivere saggi rilevanti per una comunità scientifica. Nel corso di un’interazione, le categorie impiegate per designare un individuo sono dunque costruzioni emergenti che non hanno niente a che vedere con essenze naturali assegnabili autonomamente da un osservatore esterno concettualizzante. L’etnometodologia non ritiene utile «occuparsi dei meccanismi della nostra mente», ma cerca di osservare la logica pratica impiegata nelle categorizzazioni concretamente adottate in specifici contesti sociali, ad esempio per «definire e identificare in un certo modo una persona quando ci si riferisce a qualcuno»; «per l’etnometodologia, come del resto per Durkheim, le categorie della conoscenza hanno validità in quanto possiedono costrizione e coercizione a partire dalle pratiche specifiche nelle quali un gruppo sociale si impegna reciprocamente. Il progetto etnometodologico […] trasforma il problema della validità delle categorie della conoscenza da un problema filosofico astratto in un problema pratico per i membri sociali stessi» (Fele 2002, 120), in un’indagine radicalmente empirica. Nell’ambito di un’interazione conversazionale in contesti istituzionali40, l’identità individuale presentata nella conversazione è costruita 40
L’«istituzionalità di un’interazione non è determinata dal suo contesto. Piuttosto, l’interazione è istituzionale fin tanto che le identità istituzionali o professionali dei
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con un minor grado di libertà rispetto all’identità di volta in volta presentata come rilevante in una conversazione informale. «Gli incontri sociali nelle istituzioni o nelle organizzazioni formali prevedono un qualche tipo di trasformazione delle identità ordinarie delle persone che si trovano faccia a faccia, identità rilevanti legate agli scopi delle istituzioni: così ci sono “medici” e “pazienti”, “insegnanti” e “studenti”, […] “magistrati” e “imputati”» (Fele 2007a, 95-96) e così via. In un’interazione istituzionale il parlato e l’interazione sono orientati verso una relazione caratterizzata da un quadro interpretativo legato agli scopi dell’istituzione; le identità rilevanti sono connesse a tali scopi (e dunque in un negozio ci sono in prima battuta venditori e clienti) e possono essere definite subito con uno scambio linguistico di enunciati o singoli termini che rispettano la cornice interpretativa istituzionale, o essere presenti nell’abbigliamento, nel modo di porgersi in un certo spazio e così via. In seconda battuta i vincoli del contesto possono essere superati o affiancati da altre proposte identitarie (la cassiera del supermercato è anche la moglie del cliente) che divengono manifeste nelle espressioni impiegate nella conversazione. Ciò che interessa l’Analisi della Conversazione è studiare «in che modo concretamente nell’interazione e nel parlato vengano alla luce e si costituiscano le identità rilevanti di “medico” e “paziente”» (ivi, 96). Qui ormai non parliamo più di identità come qualcosa di individuale che pre-esiste all’interazione, ma come qualcosa che si forma nell’interazione conversazionale e si manifesta linguisticamente in ottemperanza all’influenza del contesto invocato come rilevante dai partecipanti a uno scambio verbale. Si tratta di un discorso che può essere radicalizzato fino al punto di non vedere più come protagonista un individuo che agisce, ma solo un’interazione in cui emergono linguisticamente identità rilevanti interpretate da parlanti la cui eventuale specificità è lasciata sullo sfondo. Si arriva fino al punto di avere difficoltà nel pensare di poter rimanere un individuo che scrive intorno a una produzione di atti che non è mai individuale e autonoma, ma sempre concertata partecipanti sono in qualche modo rilevanti nelle attività […] che stanno svolgendo» (Drew e Heritage 1992, 3-4). Inoltre, «contesto e identità devono essere trattati come costruiti localmente, sviluppati continuamente e […] trasformabili in ogni momento» (ivi, 21).
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e cooperativa. Si potrebbe arrivare poi a dire che è nella e attraverso l’interazione che viene costruita la rilevanza, l’esistenza e l’influenza di un elemento non esistente di per sé come l’identità (o meglio le identificazioni identitarie), allo stesso modo in cui si può dire che «non è che esiste qualcosa, come il “genere sessuale”, l’“età”, la “classe sociale”, i “fenomeni di scala”, che agisce come vincolo o condizionamento sugli individui nelle loro azioni o interazioni, piuttosto si tratta di aspetti che vengono realizzati come “fatti sociali” attraverso l’attività interazionale» (Caniglia 2009a, 18). Nelle parole di Fele (2007a, 115): l’analisi della conversazione sottolinea come non si tratti di identificare le proprietà degli individui, ma il sistema sociale locale costituito dall’interazione, cioè da un ordine [intermedio] di fenomeni autonomo e peculiare. In questo sistema locale, gli attributi sociostrutturali dei partecipanti non sono sufficienti a garantire l’andamento della condotta attiva in particolari situazioni, ma sono soggetti a trasformazioni secondo una procedura regolata su base locale.
Anche se in questa ultima citazione non si approfondisce il discorso del senso in cui si può dire che un attributo socio-strutturale esiste, la costruzione delle strutture sociali di un sistema sociale è comunque il prodotto delle pratiche concrete degli individui e non qualcosa di esterno ad essi. E particolarmente interessante ai nostri fini è vedere come in diverse situazioni anche «le forme di potere in atto nei contesti asimmetrici di interazione non corrispondano a un atto unilaterale di dominio, quanto piuttosto al precipitato di una procedura ratificata da entrambe le parti (dominatore e dominato)» (ibidem), in cui l’asimmetria è costruita interattivamente; cosa che potrebbe essere utile ricordare quando si rifletta su coloro che parlano di imposizione d’identità a singoli o gruppi attraverso un esercizio di potere, dato che, pur in presenza di disparità di risorse, spesso non sono fenomeni unidirezionali. Per ciò che concerne lo spostamento di attenzione verso l’interazione, così che il protagonista dell’agire non sia più l’individuo con una sua supposta identità, ma il contesto e le relazioni tra gli interagenti, diviene interessante anche il dibattito interdisciplinare, che si è rinnovato recen103 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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temente, sull’agency41 ed il linguaggio (cfr. Donzelli e Fasulo 2007). Si tratta di una discussione che trova ora in diversi settori dell’antropologia la sua spinta propulsiva, ma che spinge anche la sociologia ad approfondire la sua riflessione, in particolare grazie all’Analisi della Conversazione. Del resto, già Lévi-Strauss (1958 [1949]/1964/2002, 14-15) mostrava la contiguità di sociologia ed antropologia42: «se […] i risultati dello studio […] delle società complesse e delle società cosiddette primitive riescono ad essere integrati, […] la sociologia […] [meriterà il significato], a cui ha sempre aspirato, di coronamento delle ricerche sociali», delle scienze sociali. Ripartendo da Bourdieu (cfr. Bourdieu e Wacquant 1998) nella necessità di criticare chi, come ancora Giddens (cfr. 1984/1990), non riesce a superare la dicotomia agency-structure, tra capacità di scelta individuale e condizionamento strutturale e le loro differenti forme di composizione, Fele (2007b) trova in Goffman e Garfinkel gli spunti per studiare sociologicamente i processi di interazione sociale in base alla loro relativa autonomia, avvalendosi però dell’approccio dell’Analisi della Conversazione. Per Fele, dunque, l’analisi dell’interazione può fare a meno della nozione di agency, spostando la propria attenzione dal singolo attore alla relazione tra le parti in interazione ed al contesto ecologico in cui si svolge la relazione. Invece che a un tipo di agency, ci troviamo così di fronte a forme di comportamenti collettivi e collaborativi di produzione dell’attività in corso: una prospettiva centrata solo sull’agency non permette di cogliere il funzionamento del sistema dell’interazione. Solamente prendendo in esame la situazione nel suo complesso è possibile cogliere il sottile lavoro di coordinamento che le parti in fisica co-presenza operano nello svolgimento di un comune lavoro. Da questo pun41
Cercando di integrare i contributi di Giddens, Bourdieu e Taylor, Duranti (2005/2007, 45-46) ha proposto una definizione di agentività che ha avuto una certa diffusione: «per “agentività” si intende la proprietà di quegli enti che (I) hanno un certo grado di controllo sulle loro azioni, (II) le cui azioni hanno un effetto su altri enti (e a volte su se stessi), e (III) le cui azioni sono oggetto di valutazione». Per un approfondimento della nozione, che ne mostra uno spettro dimensionale ancor più ampio, si vedano ad esempio Donzelli (2007) ed Archer (2003). 42 In particolare l’etnografia; il che oggi ci porta a pensare a una sociologia come disciplina che descrive accuratamente come gli esseri umani fanno quello che fanno, come interagiscono, e non il perché delle loro azioni.
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to di vista parlare della maggiore o minore libertà d’azione di un soggetto non ha molto senso se non si considera il continuo lavoro di aggiustamento reciproco che i partecipanti fanno per anticipare uno all’altro le azioni rilevanti e i corsi d’azione successivi possibili (Fele 2007b, 183).
Una prospettiva volontarista che veda al centro un individuo con una propria identità distinta ed influente (frutto di condizionamenti strutturali e di gradi di libertà riflessiva di azione in un contesto) rischia di non cogliere bene il fatto che il risultato è che è stata prodotta un’azione collettiva interattiva e concertata. Per una sociologia che studia l’interazione43 è meglio non concentrarsi tanto su un soggetto agente individuale quanto sulla più ampia situazione d’interazione e relazione in cui si trova inserito, che costruisce le possibilità di scelta apparentemente imputabili al soggetto. Invece di parlare di diversi gradi di agentività o libertà di un singolo, nell’analisi dell’interazione è bene ricordarsi che: i soggetti non sono semplicemente di fronte a un’audience che assiste a una performance, ma sono inseriti in meccanismi di aspettative e di feedback, di anticipazioni e di retroazioni, che sono localmente e temporalmente situate. Questi meccanismi “omeostatici” riguar43 In generale, ed in ottiche diverse, si vedano anche Simmel, la teoria del dono del MAUSS guidato da Caillé, la teoria relazionale di Donati, su tutti i quali si veda la prima parte di Spreafico (2005). Un interessante esempio rivelatore può essere trovato in questa affermazione: il pensiero relazionale è «quel modo di pensare che organizza le proprie mappe cognitive e simboliche attribuendo le qualità agli enti non già in base a una loro pre-supposta identità, ma piuttosto definendo tale identità come realtà relazionale di un ente-in-un-contesto» (Donati 1991-1998, 14). Per il sociologo italiano si tratta di pensare per e attraverso relazioni e focalizzarsi primariamente su di esse, invece che sui soggetti in relazione o sul sistema/struttura sociale; i concetti vanno ridefiniti, così, non tramite entità statiche o idee essenzialistiche ma attraverso modalità relazionali. All’inizio c’è la relazione, come azione reciproca, e la relazione sociale è l’oggetto della sociologia: «l’essere umano non può esistere senza relazioni con gli altri. Questa relazione è il “costitutivo” del suo poter essere “persona”, come lo sono l’aria e il cibo per il corpo. “Sospendete la relazione-con-l’altro e avrete sospeso la relazione-con-il-sé”. Di questo, e non di altro, tratta la sociologia» (ivi, 69). «Per molti, forse troppi, la sociologia è ancora la disciplina che studia le relazioni fra soggetti o fra atti sociali, oppure ancora fra “variabili” (l’azione, il potere, il denaro, le classi, ecc.), anziché la disciplina che studia i fenomeni sociali come relazioni (o meglio come relazioni di relazioni)» (ivi, 83).
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dano tutte le persone che sono alla presenza fisica reciproca. Il grado di integrazione reciproca e di coordinamento collettivo aumenta quando queste persone non sono solo alla presenza fisica reciproca ma condividono un comune scopo nell’esecuzione di una attività svolta di concerto (ivi, 191).
Siamo nuovamente di fronte a uno svuotamento del ruolo dell’identità come qualcosa di permanente al di là di specifiche situazioni di interazione, situazioni la cui analisi viene condotta attraverso tecniche di videoregistrazione e trascrizione che pongono attenzione all’aspetto verbale. A partire da una psicologia sociale (Fasulo 2007a, 218) che si avvalga dell’Analisi della Conversazione si può invece giungere goffmanianamente a sottolineare l’esistenza di un quadro di agentività diffusa, in cui «non solo l’ascoltatore collabora nell’andamento della produzione del parlato, ma tutti coloro che partecipano, seppur a diverso titolo, a una situazione contribuiscono alla forma che assumeranno tanto gli atti di produzione che quelli di ricezione» di parole e/o enunciati. Con una posizione meno radicale della precedente44, viene inoltre mostrata la possibilità che qualcuno occupi in parte o espropri l’agency di un interlocutore mettendone in discussione di fronte ad altri interlocutori l’identità proposta in una determinata situazione. Vi sono dunque diversi gradi in cui viene considerata rilevante l’esistenza di un soggetto con una sua specifica identità. La stessa Fasulo (2007b, 27-28) ricorda infatti che la base per la costituzione del sociale «è il riconoscimento dell’interlocutore che si esibisce nella responsività alle sue azioni linguistiche»; l’atto di parola in quanto tale permette una dimostrazione di presenza ed affermazione di sé, mentre contemporaneamente «è l’altro a essere costituito come persona sociale nel suo essere destinatario 44
Come rileva Elliott (2007/2010, 9-10), «l’enfasi sulla agency umana varia considerevolmente a seconda che si stia discutendo di un approccio sociologico, psicoanalitico, post-strutturalista, femminista o postmoderno. Le teorie sociologiche, per esempio, tendono a enfatizzare il ruolo delle varie istituzioni e delle diverse forme culturali nel plasmare il sé all’interno della società […]. Le teorie psicoanalitiche, per contro, pongono l’accento sull’organizzazione dei nostri mondi interni, sui conflitti emozionali dell’identità e sul potere dei singoli di creare, preservare e trasformare i rapporti tra sé e gli altri».
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dell’atto» (come accade ad esempio nel riconoscimento implicato nei saluti). «L’assenza di riconoscimento di un atto di parola con l’atto che gli è sequenzialmente pertinente è la più grande minaccia all’agency e al senso della propria esistenza sociale in comunione con gli altri»; si esiste nel linguaggio e si ratifica reciprocamente l’esistenza dell’altro interlocutore rispondendogli, considerandolo un interlocutore valido e così permettendo lo sviluppo della sua personalità sociale (un processo che i bambini possono mettere più facilmente in crisi). Dunque, non solo, come si è visto precedentemente, una certa identificazione situazionale proposta può essere messa in discussione dal contenuto della risposta sequenziale che riceve dall’interlocutore, ma può esserlo anche a causa della semplice assenza di una risposta. Le modalità con cui viene formulato un enunciato permettono al parlante di costituire, in un gioco interattivo di “alleanze” e separazioni, la propria identificazione sociale del momento, ad esempio in riferimento a specifiche dichiarazioni di appartenenza, oltre che in connessione con il tipo di intervento dei compresenti: sequenza, tipo di verbo impiegato – ad esempio la scelta di quale verbo d’azione – e lingua in uso sono un esempio di variabili rilevanti. Duranti (2005/2007) mostra come esistano differenze tra lingue diverse nel modo di codificare lessicalmente, morfo-sintatticamente e stilisticamente l’agentività, che arrivano dunque fino a concepirla e rappresentarla differentemente. Ad esempio, rispetto all’inglese ed all’italiano, il samoano tenderebbe maggiormente a codificare gli eventi come un tutto, sopprimendo più frequentemente, o relegando in posizioni secondarie, la partecipazione agentiva umana45. Si può ipotizzare un continuum di rappresentazioni dell’agentività da una lingua all’altra. Al contempo «i parlanti possono fare un uso creativo delle risorse morfosintattiche di cui dispongono per esprimere sottili sfumature nell’attribuzione dell’agentività» (Donzelli 2007, 23), così come possono impiegare strategie discorsive di resi45 Una ulteriore constatazione che è possibile fare è che «il mondo rappresentato da lingue come l’inglese, e in parte anche l’italiano e lo spagnolo, sia un mondo in cui una vasta gamma di eventi possono essere rappresentati come dovuti all’agentività di enti non-umani e inanimati […]. Mentre il mondo rappresentato da lingue come il samoano sia un mondo in cui si distingue tra gli eventi dovuti all’agentività di enti animati (persone, certi animali) e eventi dovuti a circostanze al di fuori di un controllo di un Agente animato» (Duranti 2005/2007, 58).
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stenza per negoziare il loro grado di coinvolgimento; ciò mostra ancora una volta la varietà di modalità attraverso cui l’agency prende forma nel e mediante il linguaggio. Rimane aperto il dibattito sulla presenza o meno di un’unità agentiva individuale (con annesse unità sovra o sub individuali di volta in volta costituitesi), più o meno debole e/o capace di retroagire sulle strutture in termini di resistenza, di trasformazione creativa (alla de Certeau) o al contrario di cooperazione al mantenimento dello status quo; o invece sulla necessità di spostare il focus analitico dall’individuo all’interazione ed al suo contesto. Un tema legato al fatto che vi sono corpi che da un lato pensano e dall’altro lato, e al contempo, fanno e interagiscono (sia fisicamente sia semioticamente), è dunque connesso alla questione di «come conciliare quelli che sembrano processi cognitivi controllati dai singoli individui con performances pubbliche che al contrario si realizzano attraverso l’interazione, e nelle quali gli individui danno vita a un’attività comune che appare come qualcosa di più della semplice somma delle sue parti» (Duranti 1997/2000, 253). Si osserva allora che le facoltà cognitive individuali vengono acquisite e si sviluppano grazie a processi di interazione sociale (ad esempio durante la prima infanzia) o come la coscienza non sia da intendersi come qualcosa di innato nell’individuo, ma come una facoltà umana sorta dal lavoro umano (ad esempio nelle attività di cooperazione per raggiungere obiettivi comuni). Inoltre, dato che un’azione come un «discorso acquista un senso come parte di un’attività collettiva, in cui altri contribuiscono a dar forma a ciò che si sta dicendo e a come dev’essere inteso» (ivi, 286), è insufficiente concentrarsi sulle intenzioni del parlante pensando di poterne indovinare e comprendere lo stato mentale, mentre ci si deve rivolgere a tutto ciò che è pubblicamente osservabile, oltre che spesso non pensato precedentemente e/o consapevolmente, poiché l’azione ha luogo spesso senza essere preceduta da stati mentali; ci si deve rivolgere ai comportamenti cooperativi esterni alla mente del parlante. Vi sono azioni ripetitive ed abituali, attitudini del corpo, un ambiente costruito, manufatti in cui è incorporata una conoscenza pronta all’uso e non usata consapevolmente, simboli già creati. Troviamo dunque un invito a non pensare l’individuo come centro esclusivo di un’azione sempre mentalmente intenzionata. 108 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Senza la pretesa di considerare chiusa la discussione, è però qui possibile ricordare anche alcuni dei suggerimenti in merito che l’antropologia del linguaggio offre alla sociologia, al punto che la distinzione tra queste due può diventare spesso difficile da individuare, soprattutto se in precedenza sono stati colti alcuni degli inviti dell’etnometodologia e dell’AC, che ora vengono in un certo senso allargati, rivisti ed approfonditi. Un aspetto rilevante riguarda le osservazioni di chi, come Bourdieu (cfr. 1980/2005), riterrebbe un errore considerare ogni incontro di interazione come se fosse creato sul momento, mentre le modalità in cui si sviluppa sarebbero in realtà predefinite da più ampi rapporti di genere, classe sociale e d’età, potere, retroterra familiare, tra le persone coinvolte. Ma si tratta di strutture contestuali costruite dagli osservatori esternamente all’interazione e la cui conoscenza ci illumina solo su una parte di ciò che viene creato nell’interazione; il potere, inoltre e ad esempio, può significare cose diverse in culture diverse, in classi o confini di genere differenti, attraverso l’azione della lingua. Già per Garfinkel (1967/2007) la struttura sociale non è una variabile indipendente, che esisterebbe al di fuori delle pratiche sociali, ma emerge dalle interazioni stesse, realizzate grazie a metodi atti a rendere comprensibili e giustificabili per gli altri azioni compiute in vista di ogni finalità pratica, metodi volti a comunicare chi siamo e a far capire il modo in cui comprendiamo ciò che accade. Una successiva risposta di Schegloff (1992) alle diverse accuse di “poca contestualità” rivolte all’AC è la seguente: dato che la maggior parte delle volte non siamo in grado di stabilire a priori quali aspetti del contesto saranno pertinenti per analizzare un’interazione, la cosa migliore è attenersi a ciò che gli interagenti stessi mostrano di considerare pertinente mediante le loro azioni linguistiche; per questo, durante una medesima interazione, anche se a priori avremmo potuto immaginare che le identità sociali rilevanti per l’interazione fossero, ad esempio, quella di medico e paziente, nei fatti può invece accadere che il medico si rivolga all’interlocutore prima proponendosi come medico e poco dopo come amico, e dopo ancora come parente, tutto nel corso della medesima conversazione, rendendo pertinente via via un’identificazione differente. Duranti (1997/2000) osserva in proposito come però rimanga necessario allargare spazio-temporalmente il contesto di 109 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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uno scambio verbale, al fine di acquisire le informazioni più adatte per comprendere quali aspetti siano effettivamente pertinenti (ad esempio, risalendo a precedenti conversazioni tra gli interlocutori, o considerando, grazie alla video-registrazione, gli sguardi e le posizioni di questi, è possibile che l’identità rilevante-pertinente possa, in alcuni casi, risultare differente da quella ottenuta grazie all’analisi empirica di un contesto più ristretto – e, ancor più probabilmente, da quella risultante da una predizione a priori). «Come gli studiosi di etologia umana hanno per anni sostenuto, la documentazione visiva degli incontri tra esseri umani è davvero essenziale ai fini di un’analisi di quel che le persone fanno con gli altri, agli altri e mediante gli altri» (ivi, 288); le parole usate «sono parte di una sequenza di atti di cui fanno parte movimenti corporei e non possono essere del tutto comprese senza fare riferimento a tali movimenti» (ibidem). Il parlare, del resto, non comprende solo attività linguistiche, è un’attività sociale che fa parte di un più ampio insieme di attività svolte collettivamente, in riferimento alle quali è per l’antropologo italiano utile avvalersi del termine “partecipazione”. Anche se, a un livello semantico, negli enunciati in cui il soggetto si riferisce a se stesso in prima persona è difficile individuare con oggettività ed in modo pubblicamente accessibile il referente di “io” ed è spesso arduo attribuire al termine “io” una specifica e definita descrizione, tuttavia usare il pronome “io” o quello “noi” in un enunciato può servire ad indicare, a diversi livelli, il grado ed il tipo di partecipazione e coinvolgimento che il parlante si attribuisce in quello che dice, e gli permette di stabilire delle distinzioni e/o delle opposizioni, in cui ogni volta viene sottintesa un’identificazione differente con determinati gruppi di riferimento coinvolti in ciò che si sta dicendo (fenomeno che avviene con distinzioni e possibilità diverse in lingue diverse). Un effetto simile si può ottenere anche utilizzando determinati linguaggi, ad esempio un dialetto o una parlata, o impiegando toni e termini comprensibili in un certo modo da membri di determinati gruppi. Tutto ciò è effettuato anche in considerazione di come viene identificato il ricevente primario di un discorso; la prefigurazione del ricevente in quanto membro di un certo gruppo influisce sul tipo di formulazione e sul contenuto del discorso del parlante, che può dunque variare nel passaggio da un ricevente a un altro (passaggio visibile, ad esempio, attraverso l’osservazio110 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ne del movimento dello sguardo e della disposizione del corpo – diretta o meglio video-registrata). Vi è un susseguirsi interattivo e mutevole di identificazioni proposte nel corso di un’interazione, rilevabile attraverso il linguaggio e gli altri fattori individuabili allargando lo sguardo a un più ampio contesto. I ruoli, gli status, le identificazioni sociali e di genere, sono costantemente creati, ricreati e negoziati attraverso la comunicazione linguistica nel corso di interazioni a cui si partecipa, e si riesce a partecipare, in gradi e con configurazioni differenti ed in trasformazione, mediante produzioni linguistiche a cui collaborano in modi e con intensità diverse più partecipanti, effettivi e potenziali. Inoltre, le identificazioni (ad esempio di status) – sempre temporanee e situazionali – interattive (cioè risultanti dall’interazione tra auto-identificazione ed identificazione altrui) di un singolo possono essere legate al luogo spaziale, simbolicamente organizzato, che si occupa (o che viene fatto occupare) fisicamente con il corpo nel corso di un’interazione linguistica, ai termini enunciati da altri nel rivolgersi a tale singolo, ai termini (ad esempio di un linguaggio più o meno elevato) impiegati da quest’ultimo, ai significati che una determinata comunità condivide ed attribuisce a tali luoghi e termini, al tipo di saluti ricevuti ed effettuati, così come ai movimenti eseguiti, alle occupazioni svolte, ai tipi di abitazione occupate dal singolo in questione. Se il parlare è un’attività «nell’ambito della quale decidere, negoziare e rimettere in discussione […] cosa vogliamo diventare rispetto a un gruppo, reale o immaginario» (ivi, 293), la lingua, come si è visto, è solo una delle risorse semiotiche usate dagli attori sociali, il cui interagire si avvale di risorse verbali, corporee e visive; dunque la possibilità di realizzare comunicazioni in sequenza e […] anche simultanee attraverso mezzi diversi (lingua, movimenti del corpo, l’interazione con l’ambiente materiale ed il suo utilizzo) fa sì che valgano numerose versioni della scena sociale in corso e, al tempo stesso, molteplici identità dei parlanti. La capacità di cogliere queste qualità di un’interazione, allora, rappresenta un importante strumento per lo studio del formarsi dell’identità sociale (ivi, 293294; corsivi aggiunti). 111 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Un’affermazione che va letta, però, pensando che il termine “identità” voglia significare “identificazione temporanea, interazionale e situazionale, supposta”.
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Per ricominciare il lavoro. Dall’idioma mondano allo strutturalismo
Una volta acquisito ciò che precede, il problema che scontano molte concezioni e teorie del sé, in parte anche quelle che distinguono un parlante da un interlocutore e da ciò che viene detto (altre non si occupano della questione, lasciata in sospeso), è stato messo bene in luce da un altro etnometodologo allievo di Garfinkel, Pollner (1987/1995). Sviluppando ulteriormente le conquiste della sociologia della conoscenza46, il sociologo americano asserisce che «il discorso, la pratica e la ricerca, sia sociologica che quotidiana, sono dipendenti da assunti sulla natura di una “realtà oggettiva”: cioè, che esiste un determinato ordine oggettivo di fenomeni indipendente dagli atti di osservazione o di descrizione attraverso cui è conosciuto. L’assunto di un mondo “lì fuori”, “pubblico” o “oggettivo” è una caratteristica centrale di una rete di credenze sulla realtà, il sé e gli altri» (ivi, 22) che egli definisce “ragione mondana”: un discorso ingenuo, dato per scontato dalla maggior parte degli adulti occidentali contemporanei, che è invece problematico, al punto che le scienze umane che vi si fondano costituiscono una «forma di indagine che non è tanto “sugli” assunti dei membri quanto, piuttosto, una forma di indagine che è invischiata in essi» (ivi, 23) ed è dunque una loro espressione. Dare per scontata l’esistenza “esterna” ed intersoggettiva «di un mondo oggettivo, ciò che Husserl ha caratterizzato come l’“atteggiamento naturale”, è la base di un discorso che forma alcune delle possibilità concettuali più care alla cultura occidentale. La stessa distinzione tra “verità” ed “errore”, per esempio, presuppone 46
Sulle quali si vedano ad esempio Crespi e Fornari (1998), Fele (1995), Spreafico (2007).
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una realtà oggettiva rispetto alla quale possono essere paragonate delle “descrizioni”» (ibidem). La ragione mondana costituisce invece solo un “gioco linguistico” in cui – spostando ora la nostra attenzione su ciò che più ci interessa ai fini del nostro lavoro – vi sono anche assunti profondi sulle persone. Le stesse nozioni di “persona”, “io”, “soggetto”, “individuo” sono costruite all’interno della ragione mondana, una ragione che presuppone la distinzione tra un soggetto che osserva e un ordine oggettivo esterno, reale e condivisibile con altri osservatori (un ordine di cui fanno parte anche fenomeni simbolici e proprietà teoriche astratte, considerati comunque come oggettivi), esistente indipendentemente dall’osservazione o percezione. Invece di lasciarsi stimolare dalle osservazioni di Elias47, di Leenhardt e dagli altri contributi storici ed antropologici affini – nel senso che mettono in discussione la supposta universalità del modo “occidentalocentrico” di concepire il sé – già ricordati di volta in volta in più punti del nostro lavoro, coloro che usano la ragione mondana, nell’attività scientifica come in quella quotidiana, si auto-rappresentano incessantemente come soggetti posti di fronte a un campo oggettivo di eventi, senza riuscire a compiere un auto-esame radicale che gli permetta di cogliere i processi mondani che costituiscono gli ambiti mondani. I «resoconti conflittuali di ciò che si ritiene un ordine di eventi reale ed intersoggettivamente disponibile non vengono considerati come una prova che la realtà è radicalmente “soggettiva”. Piuttosto, le parti ritengono che erano sbagliati o problematici i modi in cui il mondo è stato osservato e descritto» (ivi, 31); così riproducendo l’apparente auto-evidenza degli assunti mondani sulla realtà, assunti che sono rintracciabili anche nell’uso dello stesso concetto di “soggettività” (ci si aggrappa all’idea che vi siano discordanze nei resoconti a causa del modo in cui soggettività diverse immaginano una realtà supposta comune). Una volta dentro i confini della ragione mondana è difficile, se non forse impossibile, poter assumere una posizione trascendentale, libera da categorizzazioni, ipotesi e pratiche dello stesso ordine che si vuole indagare. Se la ragione mondana si fonda su un discorso che separa la persona che conosce e l’oggetto del conoscere, anche la stessa etnometodologia, pur tentando 47
Illuminanti le parole di Elias (1965/2011).
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di spingersi ai confini di questa ragione, «prende posizione in uno spazio ontologico in cui ci sono un “analista” da un lato, e delle “pratiche” […] dall’altro» (ivi, 278). Del resto, i tentativi di uscire fuori dai presupposti mondani si scontrano anche con il rischio di irriconoscibilità ed inintelligibilità per il discorso che compie tale tentativo. Per Pollner l’idioma mondano è il risultato di processi storico-culturali e si è fissato nel profondo della coscienza e del discorso, come rete di termini interdipendenti che implicano l’esistenza di un mondo oggettivo (“realtà”, “oggetto”, “esteriorità”) e di qualcosa di distinto che vi si pone di fronte (come il “soggetto”, la “persona”, lo “studioso”), il quale entra in contatto con il primo attraverso “percezioni”, “esperienze”, “coscienza”, “memoria” e così via. Dunque, «essere mondani vuol dire costruire se stessi e gli altri come “persone” che “fanno esperienza” di un “mondo esterno”» (ivi, 243). Ma dato che, come si è visto in precedenza, esistono ambiti spazio-temporali in cui le categorie di “mente” e “corpo”, “interno” ed “esterno” risultano indistinte o assenti, il senso del sé, dato per scontato all’interno del nostro discorso mondano, non è universale ma una costruzione storico-sociale. Ma anche rimanendo all’interno della tradizione occidentale si possono rinvenire tentativi di sollevare il dubbio su di essa, come ad esempio anche quello filosofico di Rorty (1979/1986), che critica la tendenza della filosofia (che si potrebbe qualificare come “mondana”) a concepire la mente come uno specchio che riflette la realtà e dunque la conoscenza come rappresentazione accurata di questa: l’immagine della mente come specchio che la filosofia deve esaminare, riparare o ripulire, affinché si ricavino rappresentazioni più accurate della natura, è una costruzione storico-filosofica che indirizza verso obiettivi impropri. La mente, insiste Pollner, è costruita come un oggetto collocato in uno spazio interno e renderebbe possibile la conoscenza attraverso il passaggio per processi psichici soggettivi; il compito degli studiosi, quindi, non è quello di avvalersi di questa costruzione (presupponendo, usando ed attribuendo qualità mentali agli altri nel tentativo di spiegare una realtà supposta distinta ed esterna), ma quello di descrivere come si riescano a fare tali attribuzioni a supposti stati soggettivi interni nella pratica, come si faccia a costruire una soggettività mentalistica. Ne consegue un ulteriore invito alla problematizzazione delle nozioni di “sé”, “ego”, “agente”, “persona”, 115 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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“individuo”, costruzioni «che devono essere spiegate, e come tali non possono contenere parte della spiegazione» (1987/1995, 252), come spesso accade in discipline come la sociologia, la filosofia della mente, l’epistemologia filosofica, incassate all’interno delle strutture mondane. La ragione mondana ci porta a costruire il sé come soggetto di fronte a un oggetto, ma possono essere ipotizzati e osservati altri modi di comprendere se stessi: precedentemente, in più punti di questo testo, ne abbiamo ricordati alcuni, così da mostrare la possibilità di de-reificare la suddetta costruzione, ancora non edificata nei bambini48 ed a volte dissolta in certe esperienze psicotiche di perdita dei confini tra se stessi, gli altri e la realtà. Si è visto come si possa avere l’esperienza quotidiana, considerata ordinaria, di essere invasi dalla natura o dispersi nell’ambiente. Si potrebbe aggiungere che l’autobiografia mondana sembra poter produrre, al contrario, un atteggiamento di dominio nei confronti dell’esterno, di conquista diretta da un interno verso un esterno, che ha potenzialità distruttrici e necessita di continuo appagamento, per evitare che il fragile equilibrio della relazione tra i due lati della distinzione possa passare da scambio, interazione, conflitto, ad appropriazione, separazione, guerra, con annesse complicazioni su cui qui non ci si sofferma se non per rinviare ad altri studi l’indagine di un eventuale rapporto tra diffusione di determinate concezioni del sé e propensioni aggressive nei confronti dell’ambiente ed eventualmente dell’altro. Anche Heidegger (cfr. 1947/1973) ci ha fornito un avvertimento simile nel momento in cui si è rivolto contro la concezione filosofica umanistica che faceva dell’uomo come soggetto il valore supremo, contro la soggettivizzazione che fa dell’essenza dell’uomo un puro oggetto, cioè un soggetto rivolto ad acquisire e controllare tutte le energie naturali, 48 «Nella misura in cui la ragione mondana è un idioma storicamente contingente, le spiegazioni [della nascita del sé e dello sviluppo di un pensiero logico-analitico] che si trovano in Mead […] ed in Piaget […] non possono descrivere livelli invariabili di sviluppo di una mente e di un sé universale, ma piuttosto aspetti del processo attraverso cui gli individui, in configurazioni storiche particolari, che enfatizzano le distinzioni mondane, sono socializzati. L’attore implicitamente celebrato dai modelli di Mead e di Piaget è l’attore autonomo, cosciente, indipendente. [Mentre] […] questo modello di attore non è considerato universalmente come un modello di sviluppo. […] l’“individuo” ed il “sé” non sono categorie universali. […] il modello piagetiano dello sviluppo intellettuale e morale può derivare da quello dei maschi nelle società occidentali industrializzate, e dunque può essere applicato solo ad essi» (Pollner 1987/1995, 273-274n).
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comprese quelle di distruzione, per dominare tecnicamente il mondo, un soggetto che diviene un inautentico funzionario della tecnica. Si potrebbe aggiungere che il soggetto – a partire da Cartesio concepito come autore cosciente e responsabile dei suoi pensieri e dei suoi atti, come potere fondante della storia e della verità – si scontra oggi, infatti, ancora di più con la diffusione del rischio ecologico e della difficoltà di stabilire se e quando la sua azione sul mondo – anche quella legata alle scoperte tecnico-scientifiche – abbia effetti positivi o negativi (come la sociologia più recente continua a sottolineare). Un atteggiamento anti-umanistico è presente anche in una prima fase – in parte più vicina allo strutturalismo (da cui progressivamente si distingue e distacca) – della riflessione di Foucault (1966/1978), che ci aiuta a mostrare ancora la natura costruita di molte delle questioni che parte della sociologia rischia di dare per scontate o non pensate quando tratta della soggettività. I codici fondamentali di una cultura in una certa epoca, gli schemi di categorizzazione con cui pensiamo e ordiniamo i fenomeni e l’esperienza, gli schemi cognitivi interrelati alla base dei saperi (di senso comune, filosofici, scientifici e così via) propri di un certo ambito spazio-temporale, il sistema implicito, inconscio ed anonimo, di regole/strutture (e di eventuali riflessioni su tali regole) che definisce lo spazio di possibilità entro cui si costituiscono e operano i saperi caratteristici di un’epoca sono chiamati “episteme”. Ogni episteme ha permesso il costituirsi di determinate idee e scienze piuttosto che di altre. I passaggi da un sistema epistemico all’altro non sono spiegati, dato che avvengono per salti, attraverso rotture con il passato, e che ogni spiegazione avrebbe senso solo all’interno di una specifica episteme. All’interno di un’episteme, ogni cultura tende a considerare inconsapevolmente la propria concezione dell’uomo come l’unica possibile e solo un’analisi storico-sociale può portarla alla luce, smascherando tale illusione. Nell’età classica occidentale (circa dalla metà del XVII alla fine del XVIII secolo) l’essere umano veniva visto come essere che si limita a descrivere/rappresentare attraverso le parole di un linguaggio artificiale un ordine autonomo e già esistente delle cose – non è l’uomo che ha creato e crea il mondo –; vi era una fiducia scontata che il linguaggio potesse rappresentare adeguatamente tali cose (un linguaggio che è autonomamente in grado di rappresentare la realtà, di rispec117 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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chiare l’ordine delle cose; rappresentazione e cose erano poste sullo stesso piano) e dunque non veniva presa in considerazione o concepita la questione che l’uomo svolgesse un ruolo attivo di costruzione del rapporto tra parola e cosa, non si riusciva a figurarsi l’atto della rappresentazione compiuto da un soggetto, si concepiva la rappresentazione di una realtà, ma non l’azione di un soggetto unificato che compie la rappresentazione (l’uomo si rappresentava le cose del mondo, ma più difficile è stato pensare che si potesse auto-rappresentare come entità rappresentante); un soggetto che, per lo studioso francese, appare solo tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, con la recente comparsa dell’uomo nell’epoca della modernità. «Prima della fine del XVIII secolo, l’“uomo” non esisteva […]. È una creatura recentissima quella che la demiurgia del sapere fabbricò con le sue mani […]. L’“episteme” classica si articola in base a linee che non isolano in alcun modo un campo proprio e specifico dell’uomo» (ivi, 333). Per il pensiero classico […] [l]a natura umana si mescola alla natura […]. E l’uomo, in quanto realtà densa e prima, in quanto oggetto arduo e soggetto sovrano di ogni conoscenza possibile, non vi ha alcun posto. I temi moderni d’un individuo che vive, parla e lavora secondo le leggi d’un’economia, d’una filologia e d’una biologia ma che [,] per una sorta di tensione interna e di recupero, avrebbe ricevuto in virtù del gioco di queste medesime leggi il diritto di conoscerle e di portarle interamente alla luce, tutti questi temi a noi familiari e legati all’esistenza delle “scienze umane” vengono esclusi dal pensiero classico: non era possibile a quel tempo che si ergesse, al limite del mondo, la strana statura di un essere la cui natura (quella che lo determina, lo ha in potere e lo traversa dal fondo dei tempi) sarebbe di conoscere la natura, e se stesso quindi in quanto essere naturale (ivi, 334-335).
Quando viene meno il discorso classico, in cui rappresentazione ed essere sono connessi, emerge l’uomo corporeo, finito e dotato di inconscio, che può acquisire conoscenza di ciò che rende possibile ogni conoscenza. L’uomo, primo essere tra gli esseri, diventa ora un soggetto tra oggetti, la sua attività conoscitiva di soggetto è rivolta agli oggetti 118 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ed anche a se stesso, egli diventa quindi anche un oggetto del proprio conoscere (l’idea di uomo come oggetto di sapere specifico è un’invenzione recente). Considerazione utile ai nostri fini, dato che per poter parlare di identità, di un sé, si deve presupporre l’esistenza dell’uomo in quanto concepito come soggetto al contempo distinto dall’ambiente e capace di prendersi ad oggetto di riflessione e studio (come fanno da quel momento l’antropologia e le scienze umane che ne costituiscono i prolungamenti, in quanto lavorano con il concetto di “uomo” da essa elaborato). «Siamo a tal punto accecati dalla recente evidenza dell’uomo, da non avere nemmeno più serbato nel nostro ricordo il tempo tuttavia poco remoto in cui esistevano il mondo, il suo ordine, gli esseri umani, ma non l’uomo» (ivi, 346-347). È invece solo con l’età moderna che emerge il momento di una donazione di senso nell’atto del rappresentare che proviene dall’unità di un soggetto sovraordinato, che si sviluppa con la formazione della biologia, in cui emerge la finitudine della vita umana, dell’economia politica, in cui si afferma il parametro di valore costituito dal lavoro umano, della filologia, in cui il linguaggio è prodotto di una sorgente umana. Ma per Foucault il considerare l’uomo come base della conoscenza e della verità è il risultato di una costruzione epistemica che già si sta frammentando; nel momento in cui l’uomo diviene produttore della rappresentazione, creatore, la realtà sparisce ed il soggetto con lei. L’uomo diviene così ancor più l’oggetto che il soggetto del sapere, le scienze umane, infatti, si sono formate proprio attraverso l’oggettivizzazione dell’essere umano, al fine di studiarne l’essere e l’agire in maniera rigorosa e razionale. Tali discipline «trattano come loro oggetto ciò che ne costituisce la condizione di possibilità» (ivi, 390). La possibilità di ricominciare a pensare senza essere vincolati dall’assunto che vi è un uomo che pensa alla base di ogni conoscenza può invece trovare in Nietzsche l’appoggio di cui ha bisogno per chiudere l’epoca moderna ed entrare in una nuova fase. Una fase, forse, in cui a parlare sia la parola stessa e dove l’uomo non costituisca più quell’«a priori storico, che, a partire dal XIX secolo, serve da terreno quasi ovvio per il nostro pensiero» (ivi, 369) ed al contempo fonda le scienze umane. Queste ultime (come la sociologia), infatti, sono comparse «il giorno in cui l’uomo si costituì nella cultura occidentale come ciò che occor119 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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re pensare e, insieme, come ciò che vi è da sapere» (ivi, 370), come fonte di ogni positività e conoscenza, così producendo il “pericolo di un’antropologizzazione del sapere” (cfr. Canguilhem 1967/1978) ma non dando luogo a delle vere scienze. In ogni caso, discipline come la psicoanalisi e l’etnologia, in collaborazione con la linguistica, alla fine dissolvono l’uomo, poiché sono rivolte verso ciò che ne costituisce i limiti, verso le strutture formali inconsce dell’esperienza individuale, che costituiscono un certo numero di scelte possibili e di possibilità escluse (uno strutturalismo che declassa la componente creativa dell’uomo). Entro la formalizzazione del pensiero, dall’interno del linguaggio «si annuncia che l’uomo è “finito”, e che raggiungendo la cima di ogni parola possibile, egli non perviene al cuore di se stesso, ma all’orlo di ciò che lo limita» (Foucault 1966/1978, 410); l’uomo potrebbe sparire nel momento in cui viene assorbito dal linguaggio (ad esempio quello letterario, che può disperdere e disgregare il soggetto parlante). L’esercizio di un pensiero realmente critico si dovrebbe indirizzare, infatti, verso il ritorno di un linguaggio che revochi fin dall’inizio ogni figura che reclami diritti di sovranità sulla costituzione del senso. L’impegno esistenzialista non trova spazio quando ci si trovi a tentare di pensare in un ambito in cui non vi sia più al centro il soggetto umano (cfr. Bert in Aron e Foucault 1967/2007). Inoltre, per non cadere nell’illusione del pensare l’uomo come invariante storica, è impossibile credere di poterne effettuare uno studio oggettivo. Anche nell’Archeologia del sapere del 1969 ci si allontana dai modelli della costituzione soggettiva dell’esperienza e del senso, e prosegue il percorso di decentramento del soggetto, che non è più un elemento unificatore, di sintesi e di fondazione della conoscenza, ma è disperso nei differenti e discontinui livelli da cui esso emette enunciati, che esistono, compaiono, secondo determinate condizioni e regole storiche ed aperte (un principio d’ordine senza schema fisso, un “archivio” di possibilità locali – aspetto che per quanto flessibile appare come un “trascendentalismo differenziale”), e che compongono un discorso inserito in certe istituzioni, processi economici e rapporti sociali di una determinata cultura storica (nella storia vi è una pluralità di modelli di razionalità). Nella pratica del discorso si formano tanto gli oggetti di cui esso parla quanto i soggetti che in esso parlano. «La stessa “funzione 120 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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unificatrice di un soggetto” […], per esempio dell’“autore” o dell’“io trascendentale”, viene messa in discussione da un atteggiamento teorico che riconosce invece molteplici modalità enunciative possibili, e, di conseguenza, molteplici posizioni di soggettività che possono agire sul piano del discorso. L’archeologia chiede […] chi parla nel discorso, da quale posizione, con quale autorità, con quali effetti di verità» (Catucci 2008, 74). L’enunciato è dominato dall’apertura pluralizzante ed anonima del “si dice”, che non permette di risalire a una soggettività trascendentale che governi la costituzione del senso. Nel Foucault di questa fase noi siamo differenza, il nostro io è la differenza delle maschere, la differenza è la dispersione che noi siamo e facciamo. Ancora in Sorvegliare e punire, del 1975, i dispositivi disciplinari tendono a costituire gli individui come oggetto e strumento automatico di un potere-sapere che li osserva, li descrive, ne registra i comportamenti e dunque li controlla standardizzandone le singolarità, elevando a regola un certo grado di omogeneità descritto-prodotto tra gli individui e rispetto alla quale si possono misurare con esami successivi gli scostamenti rispetto alla “normalità” decisa; un esame che classifica, valuta, premia o punisce i singoli in base a un’affidabilità registrata in documenti che sembrano fornire al percorso dell’esistenza una forma apparentemente unitaria, in cui sono fabbricati individui utili, de-individualizzati, anonimi, vincolati ad essere strumenti attivi del proprio controllo all’interno di un regime disciplinare rivolto al controllo della trasformazione-costituzione degli stessi e dell’organizzazione della loro vita, financo – e successivamente – per ciò che attiene alla sessualità, nuovo elemento di discriminazione tra “normali” e non. Tuttavia, Foucault arriva a mostrare che il soggetto non è solo soggetto assoggettato, e con gli anni mette più in luce la possibilità di fare di cui dispone – pur privo di una sua essenza, di un’identità specifica, di una costanza corporea, che possa essere presupposta – ad esempio grazie al parlare. Se la società disciplinare nega la agency degli attori, Foucault con il tempo attribuisce maggiore rilievo alla loro capacità di intervento creativo sui condizionamenti, di governare se stessi. Si può così resistere e provare a cambiare le pratiche ed il potere connessi ai discorsi. Nei suoi lavori più recenti egli sembra, infatti, sempre più recuperare il soggetto come istanza di libertà capace di 121 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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mettere in discussione l’ordine dominante del discorso, un soggetto che, rifacendosi all’antichità classica, può volgersi con la meditazione verso l’auto-costituzione come padrone di sé (sembra così qui progressivamente contraddetto l’anti-umanismo della prima fase). Lo studioso francese tenta allora di studiare «le forme e le modalità del rapporto con se stesso attraverso le quali l’individuo si costituisce e si riconosce come soggetto» (Foucault 1984/2008, 12), in particolare i giochi di verità attraverso cui, di volta in volta, «l’uomo si applica a pensare il proprio essere peculiare quando percepisce se stesso come pazzo, quando si guarda come malato, quando si pensa come essere vivente, parlante e operante, quando si giudica e si punisce in quanto criminale» (ibidem), quando si riconosce come soggetto di desiderio, con modalità contestuali. Non sembra esservi, dunque, un soggetto con caratteristiche sue proprie permanenti, ma, di nuovo, una serie locale di costituzioni di sé come soggetto (ad esempio, è solo con il tempo che il sesso diviene la via principale per accedere alla propria intelligibilità ed alla propria identità, o comunque ciò avviene in modi parzialmente differenti in secoli e luoghi diversi, dove entra in connessione con diversi modi di concepirlo e di regolamentarlo). Vi sono invenzioni di sé, tecniche pratiche di soggettivizzazione, tecnologie del sé che, attraverso pensiero e comportamento, permettono la trasformazione di se stessi utile alle strategie di resistenza necessarie al disassoggettamento, alla costituzione ed auto-determinazione di sé rivolta a un’idea di soggetto come soggetto storicamente determinato e situato in specifiche relazioni di potere, non a un soggetto pensato come universale ed identico in tutte le epoche. Nella cultura greca e greco-latina antiche si trova, ad esempio, la valorizzazione delle “arti dell’esistenza”, cioè di «pratiche ragionate e volontarie attraverso le quali gli uomini non solo si fissano dei canoni di comportamento, ma cercano essi stessi di trasformarsi, […] di fare della loro vita un’opera che esprima certi valori estetici e risponda a determinati criteri di stile» (ivi, 15-16) e non a un codice morale – la moralità dei comportamenti non è legata a un codice di prescrizioni ma al tipo di soggettività che produce, alla stilizzazione della propria vita che realizza: sembra proprio «che le riflessioni morali nell’antichità greca o greco-romana siano state molto più orientate verso le pratiche di sé […] che non verso le codificazioni di comportamenti e la definizione rigida 122 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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del lecito e dell’illecito [che proliferano nel tardo cristianesimo;] […] l’importante non è tanto nel contenuto della legge e nelle condizioni della sua applicazione, quanto nell’atteggiamento in base al quale li si rispetta» (ivi, 35). Lo studio della problematizzazione del comportamento sessuale nell’antichità è solo una parte di una lunga storia delle tecnologie di sé, delle estetiche dell’esistenza, che sarebbe possibile raccontare – come, da e fino a un certo punto ed in determinati settori, fa Foucault –: la sessualità riveste un interesse particolare perché successivamente, attraverso di essa, il cristianesimo e poi lo Stato moderno hanno costruito una supposta “natura” dell’individuo, soggetto morale e di desiderio che segue determinati modelli di comportamento poi controllati da pratiche mediche e sociali; soggetto morale non presente in quel modo nella Grecia classica del IV secolo avanti Cristo, dove, per l’appunto, l’attività ed i piaceri sessuali erano problematizzati mediante pratiche di sé rivolte a un’arte estetica dell’esistenza, a «un principio di stilizzazione della condotta per chi voglia dare alla propria esistenza la forma più bella e compiuta possibile» (ivi, 250), invece che mediante pratiche rivolte all’elaborazione di un insieme di obblighi morali. Foucault non ha mai smesso di porsi la questione del soggetto, «ma ha sempre rifiutato di risolverla con una teoria che ne definirebbe preliminarmente lo statuto per poi chiedersi, su quella base, quali sarebbero i limiti e le possibilità del suo sapere, come avviene nelle filosofie trascendentali, nella fenomenologia e nell’esistenzialismo» (Catucci 2008, 132-133). Egli si è rivolto, invece, all’analisi dei processi nei quali l’uomo «si è percepito storicamente come un “problema”, come qualcosa su cui bisognava riflettere a costo di invalidare tutte le nozioni, le abitudini e i comportamenti con i quali fino ad allora aveva definito i contorni della propria identità» (ibidem). Libertà, autonomia, padronanza del proprio agire, capacità di apprendere, perfezionarsi e trasformarsi, temperanza, austerità, dominio di sé, responsabilità, costituiscono l’indirizzo, le pratiche, cui si rivolge la formazione del soggetto antico come sostanza etica. Mentre nel cristianesimo, e spesso ancora oggi, si invita l’individuo a cercare dentro di sé, dentro la propria anima, la propria verità (e oggi, almeno, autenticità), il pensiero greco invitava al riconoscimento dei principi razionali che regolano le cose del mondo, in armonia con i quali si poteva esercitare la propria condotta. La cura 123 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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di sé, che si diffonde ancor più nel mondo ellenistico, ha l’obiettivo di armonizzare esistenza e ragione, in direzione di un perfezionamento di sé che, invece, nel cristianesimo può divenire purificazione di sé come rinuncia a sé al fine della salvezza dell’anima. Nel pensiero antico l’uomo era presupposto libero di fare scelte in base alla ragione, il soggetto si costituiva maggiormente in assenza di codici normativi, era possibile pensare la soggettività in maniera diversa da quella che connette morale, società normalizzata e politica e prescrive anticipatamente strutture di identità, che divengono come una natura poi data per scontata. Mentre l’uomo perde la sua centralità (cfr. ivi, 154), vi sono comportamenti, scelte autonome, situate costituzioni di sé, non necessità o soggettività universali. La riflessione di Foucault, da alcuni accusata di trascurare le dimensioni psichiche del desiderio, dell’emozione e della fantasia nella formazione dell’individuo e di rinchiuderlo in se stesso, escludendolo dalle relazioni, ha poi dato il via a contributi diversi, come quelli di Turner (1992), che ha sottolineato come il sé sia incarnato nel corpo, un corpo che è fondamentale tanto per il senso di sé ed il suo auto-governo, quanto per la presentazione simbolica di sé e l’interazione con gli altri, o di Rose (1999), che ha messo in luce il ruolo del sapere psicologico nella produzione di regolamentazione del sé, nella strutturazione delle relazioni e nella concettualizzazione e descrizione di sé e dei propri problemi. Ma, allo scopo di mostrare idee del sé meno piene di contenuto e riferimenti permanenti di quelle tradizionali, è più interessante a questo punto osservare che già a metà del XX secolo lo strutturalismo francese di Lévi-Strauss (1958/1964/2002) aveva tentato, forse con ancora maggiore decisione, di rimuovere la dimensione soggettiva attiva, sulla quale si impongono strutture fondanti universali ed atemporali, che costituiscono l’attività inconscia dello spirito; con il linguaggio dell’antropologo francese: i sistemi di condotta che costituiscono le diverse forme della vita sociale hanno sostanzialmente una stessa natura, sono cioè proiezioni, «sul piano del pensiero cosciente e socializzato, delle» strutture profonde universali «che reggono l’attività inconscia dello spirito» (ivi [1951], 73-74). Con un atteggiamento che sembra mostrare un’aspirazione positivista, la realtà sociale appare manifestarsi e poter 124 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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essere descritta a prescindere dalla libertà creativa del soggetto, che non può essere colta in maniera certa e “oggettiva”, ma risalendo a capacità e procedure mentali universali, a categorie universali del pensiero umano; queste ultime, però, invece di costituire una struttura naturale esterna al soggetto (dalla natura ambigua), come indica Lévi-Strauss, potremmo forse oggi pensarle semplicemente come proprie dell’uomo (tornando allora a dibattiti sulla natura umana e riprendendo in considerazione i progressi della sociobiologia). Ciò che però qui ci interessa è proprio che per l’antropologo franco-belga la mente è ovunque la stessa e le culture costituiscono delle realizzazioni (sotto forma di sistemi di segni) – differenti secondo le diverse condizioni di vita – di proprietà logiche astratte fondamentali del pensiero, di disposizioni cognitive profonde che ordinano il mondo in base ad opposizioni binarie, comuni a tutti gli umani. Le culture sono viste come sistemi che comunicano se stessi attraverso le persone; ad esempio, i miti si comunicano diventando «pensiero dell’uomo a sua insaputa», un’affermazione che per Lévi-Strauss traduce un’esperienza vissuta, poiché descrive esattamente il modo in cui io percepisco il rapporto con il mio lavoro. E cioè: il mio lavoro si fa pensiero in me a mia insaputa. Non ho mai avuto, e non ho tuttora, la percezione della mia identità personale. Vedo me stesso come il luogo in cui qualcosa accade, ma non c’è nessun “Io”, né alcun “me”. Ognuno di noi è una sorta di crocicchio ove le cose accadono. Il crocicchio è assolutamente passivo: qualcosa vi accade. Altre cose, egualmente importanti, accadono altrove. Non c’è scelta: è una questione di puro caso (1978/1980, 16-17).
In questa prospettiva sembra non esserci più un essere umano storico, che pensa, esperisce ed è motore dell’azione, ma un soggetto astorico e non culturale; sembra sparire la specificità del soggetto, che diviene uno spazio insostanziale messo a disposizione di un pensiero anonimo affinché esso vi si dispieghi […]. […] [L]a consistenza dell’io, preoccupazione basilare di tutta la filosofia occidentale, non resiste alla 125 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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[…] sua irrealtà. Poiché quel poco di realtà a cui esso può ancora aspirare non è altro che quella di una singolarità […]: luogo di uno spazio, momento di un tempo relativi l’uno rispetto all’altro, dove sono accaduti, accadono o accadranno eventi la cui densità […] permette approssimativamente di circoscriverlo, nella misura in cui questo nodo di avvenimenti passati, attuali o probabili non esiste come sostrato ma solo in quanto in esso accadono certi fatti e nonostante questi fatti, intersecati l’uno nell’altro, sorgano da innumerevoli punti diversi e spesso non si sa neppure da dove… (LéviStrauss 1971/2008, 589).
L’identità, dunque, non ha alcuna esistenza reale, è un «limite cui non corrisponde in realtà alcuna esperienza» (Lévi-Strauss 1977/1980, 311), è una sorta di ambito virtuale cui siamo portati a riferirci ma che non ha mai avuto un’esistenza reale. Un altro modo di togliere spazio all’idea che vi sia un sé autonomo protagonista dell’agire è quello di ricordare, oltre ad alcuni filoni della sociobiologia49, l’approccio della biologia evoluzionista-neodarwiniana di Dawkins (1976-1989/2009), per la quale gli uomini (ma anche le piante, gli animali, i batteri ed i virus) sono «macchine da sopravvivenza – robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste note sotto il nome di geni» (ivi, VII). In alcuni casi i nostri geni sono sopravvissuti milioni di anni, creando – mediante le istruzioni del DNA formatesi per selezione naturale – il nostro corpo e la nostra mente allo scopo di auto-conservarsi inalterati proprio grazie all’uso di tali veicoli (di cui cercano di influenzare lo sviluppo). Infatti, «un gene può essere considerato come un’unità che sopravvive passando attraverso un gran numero di corpi successivi» (ivi, 28), un «piccolo pezzo di cromosoma che potenzialmente dura molte generazioni» (ivi, 36). Una continuità che supera quella della coscienza di sé come unità, illusoriamente propria dell’individuo.
49
Che mettono in discussione l’idea di un carattere primario e unitario della coscienza. Cfr. anche Spreafico (2005, 112-119).
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Difficoltà nell’uscire fuori dagli assunti tradizionali
Se, come frequentemente è avvenuto, non si dà seguito alle pur particolari intuizioni lévistraussiane, proseguendo nel nostro itinerario ci si imbatterà più volte in concezioni del sé dominate dalla ragione mondana. Nel corso del XX secolo, anche al di fuori degli Stati Uniti e spesso in ambito filosofico, il tema dell’identità è stato infatti più o meno direttamente oggetto di un articolato dibattito50, in genere “intra-mondano” in senso pollneriano, che qui non si affronterà se non per rammentare sinteticamente alcuni aspetti rilevanti al fine di completare, più avanti, il quadro dei possibili modi di concepire le dimensioni costitutive dell’identità e delle differenti letture inerenti la relazione di quest’ultima con una supposta soggettività distinta ed autonoma. Mentre nel primo Heidegger la giusta critica al concetto cartesiano di soggetto non elimina la dimensione soggettiva, ma la considera all’interno del suo rapporto con gli altri e con le cose, ovvero in quanto essere-nel-mondo, numerosi filosofi contemporanei (Foucault, Deleuze, Derrida, Rorty, Baudrillard e altri), a partire da Nietzsche e dall’esperienza della filosofia analitica del linguaggio, tendono semplicemente a dissolvere il riferimento al soggetto, riducendo quest’ultimo a puro prodotto dell’infinito gioco delle differenze, come effetto di linguaggio o come simulacro illusorio (Crespi 2004, 28-29).
La sottolineatura della molteplicità e relatività dell’io, del suo decentramento ed indebolimento, che poi ha trovato spazio anche nel 50
Ricostruito, ad esempio, da Crespi (2004), Remotti (2010) e Bodei (2002/2009), ai quali si rimanda.
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postmodernismo e nel costruzionismo sociale, si era precedentemente manifestata anche nel movimento surrealista parigino degli anni Venti del XX secolo. Inoltre, già nel 1913 la psicologia comportamentista di Watson invitava addirittura a rivolgersi esclusivamente a ciò che fosse pubblicamente osservabile, liquidando l’idea di una coscienza individuale ed il resto del vocabolario mentalistico in genere come non propri della serietà scientifica. Nel corso del secolo ora ricordato, poi – a differenza delle teorie sociologiche legate all’individualismo metodologico, utilitariste e, più avanti, della scelta razionale, che concepiscono il singolo come autonomo e razionale, con un’identità costante sua propria che risulta poco influenzata nella sua formazione e nell’azione da strutture ed istituzioni sociali e modelli storico-culturali –, le proposte di Goffman, Garfinkel51 e Sacks, come si è visto nelle sezioni precedenti, hanno anch’esse provato ad eliminare proprio la dimensione soggettiva e le motivazioni psicologiche del comportamento sociale ad essa connesse, anche in nome di una sociologia (tendenzialmente non mondana) del “come?” rispetto a una del “perché?”. Crespi (2004, 37), come diversi altri, ritiene che «la tendenza a decretare la morte del soggetto appare paradossale, dal momento che non si vede chi altro possa giungere a tale conclusione se non, appunto, un soggetto», e in quest’ottica indica giustamente la necessità di una teorizzazione che tenga in equilibrio l’influenza dei condizionamenti contestuali socio-culturali sulla coscienza con «la capacità attiva di elaborazione riflessiva e di negazione delle oggettivazioni» degli individui e la loro possibilità di trasformare le strutture condizionanti. Ma forse parte di queste differenze è dovuta anche al tipo di sociologia che si ha in mente: una al cui centro c’è una relazione tra due protagonisti, società ed individuo, e che mira alla comprensione delle cause degli eventi e delle configurazioni sociali, così come delle motivazioni dell’agire, e un’altra che cerca di 51
Crespi (2004, 39) osserva una contraddizione tra la capacità di prendere distanza dai ruoli attribuitigli da parte del soggetto goffmaniano e l’assenza di una spiegazione per questa capacità attribuita a un individuo non indipendente dalle rappresentazioni e dalle regole sociali; così come Garfinkel non sembrerebbe spiegare sufficientemente l’origine degli stati emotivi di ansia o le reazioni anche intense presenti in un individuo e prodotte dalle violazioni delle regole scontate della vita quotidiana. Ma si può forse capire il perché se si considera, come si accenna nelle righe che seguono, la differente prospettiva adottata dalla sociologia di questi autori.
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descrivere solo come gli individui riescono a fare quello che fanno, ponendo al centro dell’attenzione il complesso della situazione di interazione sociale nel modo che si è visto precedentemente, ad esempio attraverso le parole di Fele e Caniglia; partendo dall’attività interazionale, i fatti sociali si formano in essa manifestandosi linguisticamente e seguendo l’influenza del contesto considerato rilevante dai parlanti in uno specifico scambio verbale. A questo punto, posto che, sebbene con accenti diversi, si ammette l’esistenza di un individuo, vi è chi ritiene che invece di tentare di capire cosa c’è nella sua mente ed il contenuto del suo sé52 – compito attribuibile alla psicologia ed alla biologia –, e invece di provare a individuare in maniera equilibrata e pluridimensionale quali siano i contenitori, gli elementi formali, attraverso cui può essere meglio descritto l’individuo e la sua supposta identità – ciò di cui si occuperebbe la filosofia sociale –, la sociologia debba concentrarsi sul descrivere il come dell’interazione umana, in cui l’identità risulta essere solo un enunciato usato nell’interagire. Per capire quanto questo atteggiamento ci aiuti nella descrizione delle dinamiche umane sarà utile svolgere attività di ricerca, mettendo se possibile a fianco più prospettive e tecniche di ricerca sul tema dell’identità, senza presupporre la loro incompatibilità (cfr. Corbetta 2003; Silverman 2000/2008). Secondo Crespi (2004) – che, come si vedrà, riprende aspetti della teoria di Ricoeur – l’identità individuale53 è data dalle risposte a due domande: “chi sono io?” e “che cosa sono io?”. Riuscire a rispondere alla prima vuol dire definirsi nella propria irripetibile unicità considerando le proprie esperienze, la propria memoria narrativa ed il proprio corpo, e soprattutto aver tentato di riflettere su di sé, accrescendo la propria autocoscienza in riferimento al passato ed ai progetti per il futuro, tuttavia il risultato che si ottiene è sempre parziale, in continua evoluzione, non esauriente e chiaro. L’identità personale ci distingue ma non ci determina. Rispondere alla seconda domanda vuol dire fare riferimento alle appartenenze a differenti unità socio-culturali che tendono a definire in termini di similitudine l’identità sociale dell’individuo. L’identità personale e quella sociale, che insieme costituiscono l’identità individuale, 52
L’anti-psicologismo accomuna Wittgenstein, Goffman, l’etnometodologia e Fou-
cault. 53
Cfr., per i passaggi che seguono, Spreafico (2005).
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sono complementari – non sempre si riesce a distinguerne i confini – e connesse: la formazione dell’identità personale, infatti, «avviene sia attraverso identificazioni selettive con immagini culturali e sociali, sia attraverso la presa di distanza rispetto a queste ultime o, al limite, la loro negazione» (ivi, XI); per il sociologo italiano, inoltre, nell’epoca postmoderna il riferimento all’identità personale tende a prevalere su quella sociale54, sebbene siano ugualmente importanti: l’individuo corre un duplice rischio, «da un lato, se si adegua troppo ai modelli codificati della sua identità sociale, finisce per essere dato per scontato, perdendo il potere che gli deriva da un certo grado di imprevedibilità [, d]all’altro, affermando in modo eccessivo la sua singolarità, egli può diventare un estraneo per gli altri, non riuscendo più a comunicare con loro» (ivi, 81). Sia l’identità personale – la formazione dell’autocoscienza dipende dal suo essere riconosciuta da un’altra autocoscienza – sia l’identità sociale si costruiscono solo attraverso l’interazione con gli altri ed il riconoscimento reciproco dell’effettivo esserci di ciascuno. Come ricorda Crespi, tale riconoscimento assume più forme, dall’amore alla simpatia, alla stima, all’apprezzamento che viene dato delle proprie capacità professionali o sportive, al prestigio sociale, all’attribuzione pubblica di diritti e così via. Il mancato riconoscimento impedisce l’importante processo di realizzazione del sé per gli altri da cui si cerca di essere visti e riconosciuti nelle proprie manifestazioni di esistenza. Per ogni individuo e per ogni gruppo sociale è importante il reciproco riconosci54
Sebbene in termini variabili da individuo a individuo, ogni persona ha potenzialmente una capacità riflessiva tale da consentirgli, una volta «rafforzato il proprio sé sulla base della similarità che gli ha permesso di ottenere il riconoscimento nel suo contesto sociale, di elaborare successivamente, a partire dalla propria esperienza personale, una forma di identità maggiormente fondata sulla rivendicazione della sua singolarità o differenza» (Crespi 2004, 77). Indeterminatezza, specificità individuale e riferimento al contesto ambientale convivono in proporzioni differenti in individui differenti, in cui l’auto-socializzazione comporta sia similarità che differenza, in una tensione che non sfocia mai in una compiuta definizione e determinatezza; «le tendenze volte ad assolutizzare l’identità sociale e quella super-egoica nascono principalmente dal tentativo di evadere da tale insicurezza» (ivi, 83) esistenziale il cui maggiore controllo accrescerebbe l’autonomia dell’individuo. Per ulteriori approfondimenti sul tema dell’identità e del sé cfr. Mucchielli (1986), Sparti (1996; 2000), Bayart (1996/2009), Holstein e Gubrium (2000), Martuccelli (2002), Gruppo SPE (2004), Sen (2006), Simon (2011).
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mento, «la richiesta di quest’ultimo e il bisogno di consolidare la stima di sé55 possono essere considerati come moventi fondamentali dell’agire umano, fornendo così una categoria interpretativa assai più ampia e significativa che non, ad esempio, quella di interesse» (ivi, XV); come del resto sembrano mostrare anche le richieste di riconoscimento per la differenza culturale (sebbene in esse interesse e riconoscimento convivano), le quali non dovrebbero però essere messe in condizione di venir manipolate dall’alto in direzione della creazione di identificazioni assolutizzate ed innaturalmente irrigidite, facendo leva sul desiderio di riconoscimento per quello che può essere percepito come riferimento culturale importante. Sempre all’interno di un idioma mondano e tradizionale, e dunque rimanendo ben distante dagli insegnamenti etnometodologici, Maalouf (1998/1999) – e ben prima Simmel (1890/1982) – sottolinea come ciascuno di noi abbia una sola identità individuale fatta di molteplici appartenenze (frutto, come si è già visto, di auto-percezione e di percezione dell’altrui riconoscimento), anche conflittuali, secondo un dosaggio che non è mai lo stesso da una persona all’altra. L’identità individuale – qui dunque osservata più sotto il suo profilo “sociale” – è in continua trasformazione, in seguito allo scontro, al confronto, alla sovrapposizione ed al dialogo delle appartenenze, alcune delle quali vengono con55 La marginalizzazione ed il disprezzo causano uno sforzo nella ricostituzione della stima di sé che può, in rapporto alla percezione della mancanza subita, sfociare in implosioni individuali e/o esplosioni collettive anche violente. Peraltro, si tratta di vedere come si fa a rendere rilevante per gli altri l’identità che si è deciso di proporre in una certa situazione; non basta che vi sia una proposizione di identità, ma questa aspira ad essere rilevante per la situazione e riconosciuta come tale dagli interagenti/interlocutori. L’enunciazione linguistica della sensazione di esistenza di un’identità contribuisce a rendere effettiva la sua esistenza e produttrice di conseguenze. L’emergere di tali enunciati nell’ambito di specifiche interazioni conversazionali, con le loro regole in specifiche situazioni comprensive di risorse, obiettivi, collaborazioni, andrebbe studiato approfonditamente per individuarne i caratteri comuni. Bisognerebbe pensare, infine, alle diverse modalità di cooperazione tra attori, messe da essi in atto per sostenersi reciprocamente l’“identità proposta” interattivamente in specifiche situazioni; al punto che l’identità non appare come un attributo di una singola entità, ma come il frutto di una collaborazione interattiva (comprensiva di diversi gradi di conflittualità) tra unità individuali. L’identità individuale è il frutto di designazioni alla cui base vi è al contempo conflitto (tra definizioni diverse, corrispondenti ad esempio a moventi, bisogni ed interessi differenti) e cooperazione (tutto ciò che non è oggetto di conflitto è sostenuto anche dall’interlocutore) tra attori in potenziale interazione.
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siderate più importanti di altre, ma non in maniera assoluta56. Appartenenze che l’eterogeneità di ruoli e credenze da coordinare e la necessità di collegamento temporale tra passato, presente e futuro in un insieme dotato di senso rende debolmente integrate. Alcune appartenenze sono ereditate, altre scelte o frutto di combinazioni casuali. Appartenenza religiosa, nazionale, etnica, linguistica, familiare, amicale, professionale, sportiva, a un’istituzione, a un ambiente sociale, a un quartiere, a un villaggio, a un sindacato, a un’impresa, a un partito, a un’associazione, a gruppi che condividono passioni, preferenze sessuali, handicap fisici, rischi ed altro ancora costituirebbero possibili e complementari tipi di appartenenze cui ci si può legare. Vi è chi (cfr. Gasparini 1995) – seguendo questo filone, che in un certo senso ci riporta indietro e che dà per scontate diverse reificazioni – ha cercato di definire l’appartenenza come un sentimento di partecipazione attiva, di attaccamento emozionale nei confronti di qualcosa verso cui si prova della lealtà, come una ricerca di integrazione, di adesione a un insieme collettivo condiviso ed allo stesso tempo come un modo per costruire e consolidare la propria identità individuale57 – legata alla cultura ed al tempo in cui il singolo si trova –, fornendole una relativa stabilità58. L’identità personale e le percezioni di appartenenze a collettivi coesistono (anche se nel tempo una può o meno prevalere 56 Un esempio: «là dove gli uomini si sentono minacciati nella loro fede, è l’appartenenza religiosa che sembra riassumere la loro intera identità. Ma se a essere minacciati sono il loro idioma materno e il loro gruppo etnico, allora si battono accanitamente contro i loro stessi correligionari» (Maalouf 1998/1999, 20). 57 Erikson (1950/2001) ha chiarito come la possibilità di trovare riconoscimento in comunità e gruppi sociali più estesi permetta all’individuo, attraverso la valutazione e l’identificazione da parte di altri, di sviluppare l’auto-riconoscimento e la capacità di integrare e ordinare gerarchicamente la molteplicità dei ruoli. Foote (1951) ha ricordato come l’“accettazione del nome”, ossia l’assegnazione a una determinata categoria da parte degli altri, trasformi la mera appartenenza a gruppi sociali in un elemento della concezione del sé. Berger (1966), inoltre, ha messo in luce come la società offra all’individuo dei modelli psicologici in cui riconoscersi, modelli appresi da quest’ultimo. 58 «Il processo personale di identificazione non è che uno sforzo incessante per preservare il proprio “essere”, un’attività, mirante alla stabilizzazione e alla continuità, che cumula le esperienze di socializzazione delle diverse età della vita e le ricompone nel presente. Per fare ciò, questo lavoro individuale sull’identità (la sintesi dell’io) si accompagna alla proiezione in un’utopia collettiva o piuttosto si rifrange in un immaginario comunitario, così che si produce un’identificazione, fittizia e altalenante, con un riferimento collettivo mobile, che può essere maggioritario o minoritario, alienante o
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sulle altre): «esiste almeno una parte del concetto di sé dell’individuo che deriva dalla sua appartenenza a uno o più gruppi sociali e dal significato normativo ed emotivo che egli assegna a quest’appartenenza» (Pistoi 1983, 87n; cfr. Sciolla 1983; 1993; 2010). Il bisogno di “sentirsi parte” di un collettivo per costruire la propria identità individuale sarebbe un bisogno umano fondamentale che gli individui tendono spontaneamente a gratificare una volta soddisfatti quelli fisiologici e di sicurezza (cfr. Maslow 1954/1973). Ma anche le stesse collettività hanno bisogno dell’appartenenza degli individui per mantenersi in vita. Gli individui concepirebbero loro stessi all’interno di confini che li rendono affini ad altri che con loro li condividono (ciò sempre ricordando che «i criteri in base ai quali sono stabilite l’identità o la differenza vengono creati o scelti dal soggetto che fa esperienze e ne trae dei giudizi, e non possono essere attribuiti a un mondo indipendente» [von] Glasersfeld 1981/2006, 32). Se, come è accaduto negli ultimi capoversi, si lasciano aperte diverse domande poste nel corso di questo libro, e se dunque si rientra in una modalità più “tradizionale” e mondana di descrivere l’identità – in cui venga lasciata preminenza al ruolo del soggetto, anche al fine di proseguire la nostra esplorazione tra le teorie –, quando ci si trovi a dover dare una descrizione di noi stessi a un pubblico ci si potrebbe così sentire ancora pronti a fare riferimento ad elementi (i quali in realtà mutano notevolmente a seconda degli scopi e dei contesti: in un mondo di biondi non si farà certo riferimento alla categoria capelli ed al suo contenuto) come quelli fisici, più o meno visibili e legati, ad esempio, a caratteristiche del nostro corpo (riteniamo di essere bassi, magri, biondi, di sesso maschile – anche se le identificazioni sessuali, che si riducono spesso ad affermare ciò che appare, sono normalmente lasciate sullo sfondo come elementi dati per scontati della vita sociale), o legati al modo in cui lo presentiamo in pubblico (abbigliamento, pettinatura, andatura). Al contempo sembra possibile fare riferimento ad elementi che ci appaiono, per diverse ragioni, descrivere bene e/o utilmente in quel contesto il nostro modo di essere, come ad esempio il tipo di carattere, l’origine familiare, i valori a cui ci riferiamo, i gruppi a cui riteniamo precario». Così Gallissot (1997, 117-118) sintetizza la pluralità di aspetti del processo di identificazione.
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di appartenere (coloro che apprezzano una certa musica o certi libri, o che odiano coloro che fanno certe cose, coloro che si sentono legati a determinate usanze o spazi, o religioni e così via), l’esperienza di vita (elementi biografici ritenuti significativi, che possono essere realistici o anche trasfigurati, reinventati, sottoposti all’azione trasformatrice della memoria). Se andiamo, ad esempio, ad osservare i profili degli utenti di Facebook, troviamo che l’identità sociale viene descritta attraverso il nome ed il cognome, l’età, il sesso, l’orientamento religioso, quello politico, lo stato della eventuale propria relazione con qualcuno, i propri gusti in termini di letture, film, musica, appartenenza a gruppi preferiti (da quelli inerenti lo svago fino a quelli di impegno politico), reti di amicizie, auto-descrizioni e presentazioni di sé che riguardano ad esempio la propria immagine trasmessa con foto o video, gli studi compiuti e la loro localizzazione, la professione; tutte categorie i cui contenuti mutano e possono essere fatti mutare nel tempo, entro limiti che variano da persona a persona (vi è chi decide di omettere l’età, il cognome, l’orientamento politico, chi modifica il nome e potenzialmente anche la descrizione del genere), ma che lasciano illusoriamente l’idea che l’identità sia qualcosa che permane al di là delle interazioni in cui ci si trovi coinvolti. Quando rispondiamo alla domanda “chi sono io?” stiamo interrogandoci riflessivamente sulla nostra identità? Ma già a questo punto sorge un primo problema – messo in luce, come si è visto, da David Hume nel XVIII secolo (1739-40/2005) – legato al fatto che la costanza e la permanenza nel tempo delle qualità di qualunque elemento sono un’illusione, l’identità sarebbe dunque erroneamente percepita o immaginata come qualcosa di costante. Per Hume l’unità della coscienza è il frutto dell’assunzione di continuità attribuito a insiemi di percezioni prodotto dal bisogno di considerarci sempre gli stessi nel tempo. A questo possiamo aggiungere che in ogni caso la percezione che più individui hanno di una stessa cosa è differente, così come il senso che attribuiamo a una descrizione potrebbe non coincidere con quello che viene compreso dai nostri interlocutori. Parlando di identità dobbiamo quindi pensare che la nostra descrizione di noi stessi è contestuale, personale ed al contempo relazionale, oltre che più o meno legata a una realtà – realtà sulla cui esistenza al di fuori di noi si può, inoltre (come 134 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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si è accennato), discutere (cfr. i contributi in Watzlawick 1981/2006; Spreafico 2007). Considerato quanto detto, si potrebbe anche pensare all’identità come alla costruzione di una descrizione effettuata da un individuo in una data situazione (qui quella del descriversi di fronte a interlocutori, anche grazie al ricordo del proprio coinvolgimento in azioni passate) e con un certo grado di riferimento a un supposto sentimento di sé. Tale descrizione non è completamente libera, ma può essere in parte influenzata da diversi fattori quali il corpo, la socializzazione, l’ambiente sociale, gli interessi, gli scopi, le precedenti esperienze, il contesto d’interazione e la sua strutturazione, la presenza di certi altri, le risorse di questi ultimi e dell’individuo, e così via. Già così – nel male o nel bene, pur sempre rimanendo “mondani” – ci si distacca in parte da descrizioni dell’identità come quelle effettuate quando – seguendo maggiormente una prospettiva in cui l’identità pre-esisterebbe all’azione – si individuano tre dimensioni portanti dell’identità (cfr. Sciolla 1983, 22-24), come la dimensione “locativa” (grazie all’identità l’individuo colloca se stesso in un certo campo, traccia cioè i confini, modificabili, che stabiliscono una differenza tra sé e l’altro e tra sé ed il mondo, in una specifica situazione da lui definita in un certo modo); la dimensione “selettiva” (grazie all’identità l’individuo riuscirebbe a ordinare le proprie preferenze e a scegliere, scartare o differire alcune alternative d’azione piuttosto che altre); la dimensione “integrativa” (l’identità offre un quadro interpretativo che collegherebbe in unità le esperienze passate, presenti e future e riuscirebbe a mantenere nel tempo il senso della differenza tra sé e gli altri). Infatti, si potrebbe preferire osservare che in realtà si tratta di una costruzione di unità biografica, che il senso di continuità del sé è un’illusione59 che può tendere a sostanzializzare e ad essenzializzare l’identità individuale, mentre la sensazione di identità emerge, ogni volta, in ciascuna situazione di interazione, viene richiamata e proposta come concreta e sembra poter influenzare l’a59 Un esempio di come l’identità sia pensata come il frutto di un’interazione e soggetta al mutare degli sguardi e dell’agire degli altri, degli interagenti, di come l’identità sia immaginata come qualcosa di sfuggente e mutevole, perché legata ai nostri differenti modi di rapportarci a persone diverse nel tempo, come un albero di possibilità che svaniscono è in Kundera (1997).
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zione, mentre in realtà non le preesiste mai in maniera strutturata ed indipendente. L’identità è al massimo qualcosa di connesso a una specifica situazione di interazione, e in aggiunta non è facile stabilire chi è l’agente di quale azione, dato che in un’interazione le azioni sono il frutto di una cooperazione tra gli interagenti. Ma se anche si volesse pensare all’identità come a un qualcosa che definisce il set di possibilità effettivamente a disposizione del singolo, la percezione del campo delle possibilità tra cui poi si effettueranno delle scelte di azione (ed anche qui ciò che si fa può non coincidere con l’idea che si ha di se stessi che avrebbe dovuto influenzare il fare), tuttavia sembra meglio ritenere che in ogni situazione tutto ricominci da capo: ogni volta si è parte di, e si percepisce, una situazione di interazione e si partecipa a generare, contrattare, scegliere una costellazione di riferimenti identificativi; ciò ci permette di evitare di dover presupporre un sé più permanente, la cui natura non conosciamo sociologicamente (e la psicoanalisi solo in parte), e di dover parlare di qualcosa che non osserviamo direttamente, ma ipotizziamo o ricostruiamo a posteriori. Vero, però, è anche che la nostra stessa capacità di immaginare determinate costellazioni di riferimenti identitari è in parte condizionata dal nostro essere già parte di un mondo sociale più ampio, un noi comune fatto di senso condiviso che influenza anche la nostra capacità di definire e collocarci in una situazione di interazione. Le identità non sono l’effetto meccanico, deterministico, dell’influenza esercitata sugli individui da parte della discendenza, dei legami di sangue, del suolo, come sostengono le teorie del primordialismo (Shils 1957). Prendendo le distanze da quest’ultimo approccio, si tratta di interpretare le appartenenze non più come un fatto acquisito e fondato metafisicamente, bensì come l’esito costante di processi di costruzione sociale, frutto interattivo di scelte in gran parte libere, autonome, che però a volte si appoggiano su nuove attribuzioni di significato, nuove ricostruzioni-reinvenzioni di elementi preesistenti, come può essere il colore della pelle per i neri o una certa versione interpretativa dell’islam per certi musulmani (cfr. Modood 1998/2003), «in diversi casi al fine di restituire dignità perdute, significato all’esistenza, appoggio per la sicurezza di sé in condizioni di discriminazione, o semplicemente in condi136 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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zioni di minoranza in un ambiente costituito da una pluralità di gruppi diversi, che hanno sguardi ed aspettative influenti, o in generale al fine di fornire elementi ai bisogni di distinzione o basi per il perseguimento di interessi» (Caniglia e Spreafico 2007, 18). Nella prospettiva che qui si vuole suggerire, «l’identità non sarebbe più da intendere come un presupposto “naturale” dell’individuo e del suo agire sociale, bensì una risorsa, tra le tante, utile da impiegare nella realizzazione di una serie di compiti sociali, e che funziona nella misura in cui viene resa visibile, viene argomentata e viene dimostrata come ragionevole, piuttosto che essere data per scontata, assunta come presupposto implicito o come fatto naturale» (ibidem). «Per questo motivo occorre provare a scavare nella famiglia dei concetti legata alle concezioni costruzioniste dell’identità – al fine di evitare ogni reificazione di fenomeni come» l’identità, «che li renda entità astratte, astoriche ed immutabili – e prestare attenzione alle pratiche linguistiche e organizzative con cui si costruiscono quotidianamente» tali fenomeni identitari60, «in modo da focalizzare la ricerca non sul che cosa è l’identità, ma sul come viene definita e usata da parte degli attori sociali. Tali attori costruiscono e rappresentano (a loro stessi e agli altri) l’identificazione» «attraverso attività di categorizzazione e mediante argomentazioni e riferimenti linguistici, che assumono significato in riferimento al gruppo» (ivi, 18-19) di individui in (potenziale) interazione che si decida di considerare. La teoria sociale produce concetti simili a quello di identità, che spesso si traducono «in un’inconsapevole reificazione dei fenomeni sotto indagine»: si «finisce cioè per contribuire a creare il fenomeno» che si sta studiando, «piuttosto che limitarsi a descriverlo e spiegarlo. Contro questo rischio», si può proporre di “assumere l’identità” «come un processo e non come un’entità data». L’identità consisterebbe, dunque, non tanto in un insieme di proprietà 60
Ad esempio, nella comunicazione «l’attribuzione d’identità opera come un codice di decodificazione […]. Esso sintetizza una grandissima quantità di informazioni […] riguardo alla possibile volontà del locutore, […] un progetto che connette la situazione in essere con le norme ed il più vasto contesto socio-culturale che lo hanno reso possibile, pensabile e attuabile come un agire soggettivo dotato di un senso socialmente riconoscibile sebbene perseguito dai singoli individui. […] così […] la soggettività si configura come qualcosa che tramite l’identità connette, proprio al livello degli individui, società e individualità» (Addario 1989, 45).
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elencabili che la caratterizzerebbero, «bensì nell’esito di continue pratiche di interazione sociale con cui gli individui portano avanti le loro attività “per tutti gli scopi pratici”. In altre parole, le identità non sono da intendersi come proprietà costitutive degli individui sociali, bensì come forme di categorizzazione e classificazione degli uomini, che derivano», ad esempio, «dal loro bisogno di distinguersi una volta calati in una situazione (il bisogno di distinzione risulta funzionale» a quello «di costruzione e di sicurezza della propria identità individuale, grazie al riferirsi di quest’ultima anche – tra altre cose – ad entità più ampie)» (ibidem) (cfr. Rosset 1999/2004 e Corradetti e Spreafico 2005). L’identità in questo modo «può essere concepita come un processo di identificazione messo in moto per svolgere l’interazione pratica che ci si trova a vivere in un determinato punto spazio-temporale» del sistema globale. Analizzare il processo di identificazione allora permette, al contempo, di studiare dal punto di vista teorico come si formano oggi le identità supposte e, come caso particolare, come coloro che si avvalgono di una certa identificazione «scelgono i riferimenti con cui la compongono e quali riferimenti considerano più frequentemente, in quali tipi, situazioni e fasi di interazione, oltre che mediante quali processi di categorizzazione» (Caniglia e Spreafico 2007, 22) concettuale e di enunciazione simbolico-linguistica. Lo scopo potrebbe essere, ad esempio, quello di provare a chiarire questioni come le seguenti: quale composizione hanno le costellazioni di riferimenti identitari all’interno delle quali ogni individuo, in una specifica fase di una certa interazione, sceglie gli elementi con cui costruire in contesti determinati le proprie presentazioni di sé? Cioè, semplificando senza però dimenticare la formulazione precedente, nel momento in cui, ad esempio, si affermi di sentirsi innanzitutto francese o algerino, abitante della cité des QuatreMille à La Courneuve o parigino, o tifoso del Paris Saint-Germain, o musulmano, o giovane, o studente, o disoccupato e così via, quali sono gli elementi più importanti ai quali si fa riferimento nel momento in cui ci si descrive in un certo modo? Provare a rispondere a questa domanda permette poi, ad esempio, di poter dire quale senso si prova ad attribuire al proprio eventuale definirsi francese (aspetto mancante in ricerche che giungono fino ad affermare che gli immigrati da loro intervistati dichiarano di sentirsi in primo luogo francesi e poi anche algerini, sen138 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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za capire più approfonditamente cosa ciò possa voler dire e in quali situazioni). Nel momento in cui un abitante delle banlieues parigine affermi di ritenersi francese, quali sono gli elementi a cui fa riferimento per definirsi tale? Ad esempio, la sua costruzione identitaria è prevalentemente inquadrata in schemi nazionali o assume già una prospettiva postnazionale? Allo stesso tempo bisogna ricordare che all’interno di un’interazione conversazionale la costruzione identitaria avviene in forma cooperativa e connessa anche con l’ordine emergente dell’interazione e le regole della conversazione; dunque è necessario impegnarsi nel descrivere come emerge l’identità in specifiche situazioni (la proposizione identitaria può variare anche da momento a momento di una medesima interazione). A quel punto si può provare ad approfondire la questione dell’utilità che viene attribuita alle diverse, ed in parte mutevoli, scelte di identificazione compiute al momento di interagire con determinati altri in determinati contesti. L’identità è «in via di costante formazione e ridefinizione» (ivi, 26), e a seconda del tipo di interazioni che si devono affrontare e del contesto più ampio dell’agire viene costruita in maniere differenti dallo stesso soggetto in cooperazione con gli interagenti del momento. Studiando gli elementi di riferimento identificativo che entrano in gioco nel corso dell’agire dell’individuo in campo sociale, economico, politico e culturale – elementi che dovrebbero essere ricondotti anche «al processo di previa riformulazione dei messaggi veicolati» dalle precedenti interazioni cui il soggetto si è sottoposto nel tempo «e che hanno influenzato il suo personale processo di costruzione» dell’identità, «rendendolo presumibilmente» solo «in parte simile per tutti» – si vedrà «se, e in che termini, sia possibile affermare che l’identità sia immaginabile come» un insieme di capi di abbigliamento, «dallo stile61 riconoscibile al di là del cambiamento di alcune sue componenti, che viene indossato»62 dagli individui (ad esempio l’essere abitanti di un certo quartiere insieme all’auto-definirsi liberali in politica o favorevoli all’ambientalismo o 61 Si veda White (2008/2011, 165-227) per una discussione del concetto di stile e per le condizioni della possibilità di concepire una persona come uno stile, uno stile leggibile come specificazione del modo con cui un individuo vive la sua vita, combinando interpretazioni di situazioni ed insiemi di pratiche. 62 Ibidem.
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appassionati di rap, insieme al sentirsi musulmano in un senso specifico e di una corrente sunnita in un altro e così via) in situazioni d’interazione in cui risulti offrire vantaggi relazionalmente adeguati. Vi è forse per alcuni un nucleo ristretto (lo stile) che muta molto lentamente, ad esempio l’aspetto dell’identità individuale legato alla corporeità, ma i capi di abbigliamento scelti per essere indossati cambiano, sebbene in maniera limitata – il tipo di capi indossabili, infatti, non è illimitato (le identità sociali) –, mentre i colori ed il materiale di capi identici nella forma, a seconda delle situazioni, delle previsioni di interazione, hanno ancora maggiori possibilità di mutamento e composizione (cambia l’uso ed il significato attribuito alle appartenenze presentate in specifiche interazioni e scelte all’interno della costellazione di riferimenti identificativi che ciascuno, con elementi in parte diversi, porta con sé. I singoli riferimenti della costellazione sono in parte ereditati, in parte frutto della nascita in una specifica comunità, in parte frutto di socializzazioni alternative alla precedente, in parte frutto di scelte maggiormente autonome, creative ed innovative; vi sono dunque riferimenti simili e differenti, composti in maniera simile o differente con significati simili o differenti). Vi sono certamente riferimenti identitari più frequentemente impiegati nella costruzione delle identificazioni a partire dalla loro presenza nella costellazione propria del soggetto, ma essi vengono poi adattati alle esigenze e regole delle singole situazioni ed interazioni e delle differenti fasi di queste ultime. Un individuo decide di adottare al momento di un’interazione una serie di riferimenti identificativi più o meno temporanei e relazionali scelti anche «in base alla rappresentazione personale che si è fatto» di un certo riferimento identitario, «rappresentazione che a sua volta può essere il frutto del confronto operato dal singolo tra quanto proposto dai media, quanto proposto da altri» che si avvalgono del medesimo riferimento e quanto proposto da coloro che se ne sentono distanti o che sono comunque terzi. Alcune condizioni economiche, politiche e sociali contribuiscono a favorire lo sviluppo di determinate e frequenti forme di identificazione e probabilmente alla nascita di certi profili identitari63. Inoltre, le identificazioni, di cui l’identità sarebbe 63
Una volta venute a mancare le certezze dello Stato-nazione, del lavoro e della famiglia, e sotto la spinta al disimpegno proveniente dai media, oggi la maggioranza
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solo il referente di approssimazione immaginario, possono essere viste come l’effetto sempre in formazione di pratiche di riconoscimento reciproco (cfr. Sparti 1996); i soggetti e le loro affermazioni inerenti l’identificazione esistono in base al grado di riconoscimento che possono avere. Tutto questo presuppone comunque ancora l’assunto, discutibile e discusso, che al centro della scena vi sia un agente umano individuale e che esso interpreti situazioni ed azioni con una propria attività mentale cui riferirsi. Per giunta, coerenza, unitarietà e stabilità non sembrano essere realmente alla portata degli uomini. Diversa è la posizione di Crespi (2004, 40) quando ribadisce che: sottolineando il carattere storico delle definizioni di soggetto e di individuo come risultato di costruzioni socio-culturali, sembra si debba riconoscere che le dimensioni legate alla riflessività, alla memoria64, alla capacità di mantenere una continuità narrativa delle proprie esperienze, rielaborando attivamente queste ultime, prendendo le distanze e contestando le definizioni stesse della soggettività […] [,] costituiscano delle costanti del fenomeno del soggetto, che, lungi degli individui tende a stabilire legami e ad avere appartenenze sempre più temporanei e fragili, identità fluide, spesso imposte – come quella generica di “straniero” – o mascherate da qualcos’altro: «i gruppi che gli individui privati dei quadri di riferimento tradizionali cercano di trovare o fondare sono tendenzialmente, al giorno d’oggi, gruppi mediati elettronicamente, fragili, totalità virtuali in cui è facile entrare e che è facile abbandonare. Un surrogato assai mediocre delle forme di socialità solide» (Bauman 2003, 25). Dunque siamo in presenza di identificazioni che valicano i confini, ma rischiano di essere meno intense e durature di quelle “tradizionali”. 64 La memoria (inevitabilmente fallace), e dunque la nostra mente, ha un aspetto creativo particolare, tende cioè a completare le parti mancanti di un ricordo costruendole da sé, arriva a ricordare cose che non sono mai accadute se indotta a farlo, come se agisse per razionalizzare a posteriori gli accadimenti del passato; allo stesso tempo rimuove ricordi ed eventi sgraditi e seleziona solo alcuni aspetti delle percezioni che giungono al cervello. Anche attraverso il ricordo del nostro itinerario biografico siamo dunque impegnati a costruire una nostra identità. Si aggiunga, infine, che – come aveva messo in luce Halbwachs (1925/1997) – la memoria individuale è legata strettamente a quella collettiva, è sorretta e perpetuata da elementi sociali come il linguaggio, la scrittura, i riti, le commemorazioni, i monumenti, che fanno sì che la memoria del singolo sia inserita in coordinate sociali che la fissano e la rendono disponibile, e dunque ne permettono un certo tipo di costruzione. Tuttavia, si ricordi che, come ci mostrano sia la psicoanalisi, sia la neurologia, un uomo non consisterebbe solo di memoria, ma anche di sentimenti, emozioni, volontà, sensibilità, coscienza morale.
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dal rinchiuderlo in una rappresentazione di tipo essenzialistico, lo mostrano come irriducibile a ogni determinazione e come apertura verso sempre nuove possibilità65.
Uno sguardo aperto alla complessità delle dimensioni attraverso cui leggere l’identità può allora passare, ad esempio, dal ricordarsi come non vi sia un’essenza predeterminata dell’uomo, ma anzi come egli scelga autonomamente ciò che vuole essere grazie a una previa possibile riflessione sui propri condizionamenti (cfr. Sartre 1946) e, per il sociologo italiano, anche dal rammentare le intuizioni di Taylor e di Ricoeur, alle quali si potrebbero aggiungere quelle di uno degli studiosi più aperti al confronto con la complessità, Morin, così come quelle “relazionali” di Donati. Secondo Taylor l’individuo, oggi maggiormente autonomo dai vincoli comunitari e dagli imperativi sociali, rimane, tuttavia, dipendente dal giudizio degli altri e agisce spesso in funzione del riconoscimento e dell’approvazione esterni, in cerca di una “gloria” ormai ridotta a “vanità”, che confermi il suo bisogno di un’alta immagine di sé. La dissoluzione delle gerarchie sociali comporta il passaggio dall’“onore” – per cui «nelle società del passato, quella che oggi chiameremmo l’identità di una persona […] era fissata in gran parte dalla sua posizione sociale. Ciò significa che lo sfondo che dava senso a quel che la persona riconosceva come importante era determinato in notevole misura dal suo posto nella società, e dal ruolo o dalle attività che gli si accompagnavano» (Taylor 1991/2002, 56) – alla “dignità” intrinseca, universalistica ed egualitaria, degli esseri umani in quanto tali. Tale dignità, tuttavia, comporta un bisogno di riconoscimento dialogico per l’identità del singolo da parte degli altri. Quest’ultima, ora derivata dall’interno (è cioè sempre più un’identità individualizzata, interiormente ispirata a un’ideale di autenticità come fedeltà al proprio originale essere se stessi), deve conquistarsi un riconoscimento non più fornito dalla posizione sociale e che può anche non verificarsi, mostrando così la debolezza dell’individuo moderno. Il tratto generale della vita e della mente umana è proprio il suo carattere fondamentalmente dialogico: ciascuno di 65
Contro la logica dell’identità assolutizzata ed armata, per andare oltre essa ed aprirsi all’alterità si veda anche Remotti (1996).
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noi definisce sempre la sua identità nel dialogo con, ed a volte contro, «le identità che i nostri altri significativi sono disposti a riconoscerci» (Taylor 1991/2002, 39-42; 1992/2001, 17-19). L’identità si costituisce all’interno di una dialettica di riconoscimento reciproco in conversazioni ed intese; la formazione ed il mantenimento delle nostre identità rimangono dialogici per tutta la vita. Una dialogicità che nelle parole di Morin (1987/1988, 24) diviene più articolata: «il principio dialogico implica che due o più “logiche” differenti siano legate in un’unità, in maniera complessa (complementare, concorrenziale ed antagonistica) senza che la dualità svanisca nell’unità». Questo processo provoca dei fenomeni di mutua contaminazione tra gli elementi antagonisti, e comporta, inoltre, «delle crisi per ognuno dei termini della dialettica, senza che mai uno di questi soccomba, e anzi si avvale della crisi per rifondarsi e rinnovarsi» (ivi, 98) in maniera feconda. Per Taylor l’individuo si situa nell’ambiente socio-culturale in cui si trova attraverso la sua identità, costituita da un generale riferimento a valori forti relativi al bene ed al giusto, orientamento che, al di là degli specifici contenuti, costituisce la sua umanità e dà continuità all’identità stessa. L’identità è la visione che una persona ha di quello che è, delle proprie caratteristiche fondamentali, che la definiscono come essere umano (Taylor 1992/2001). L’identità, cioè ciò che si è come sé, è sostanzialmente definita dal modo in cui le cose hanno un significato per sé; non è possibile parlare dell’identità di un sé facendo astrazione dalle sue interpretazioni, riflessive, di sé (l’uomo è un animale che auto-interpreta se stesso). Noi siamo dei sé solo in quanto ci stanno a cuore certe questioni. L’io è costituito da ciò che ha importanza fondamentale per l’individuo, l’identità è definita «dagli impegni e dalle identificazioni che forniscono l’orizzonte nel quale io posso determinare, caso per caso, ciò che è bene o che ha valore, o ciò che deve essere fatto, ciò cui aderisco o cui mi oppongo» (1989/1993, 27). Fin dall’inizio l’individuo si trova di fronte preoccupazioni e domande sul senso della vita, cui risponde riferendosi non solo a interessi ma soprattutto ad elevati valori morali, che da un lato danno significato alla nostra esistenza grazie alla relazione che così stabiliamo con il bene, e dall’altro permettono al singolo di auto-interpretarsi narrativamente e unitariamente in connessione con tali valori. A differenza di coloro che 143 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ritengono l’identità come esclusivo frutto di scelte situazionali individuali, il filosofo canadese ritiene dunque che il bisogno di senso che caratterizza l’esistenza umana comporti inevitabilmente un riferimento al valore – valori che in termini di contenuto possono avere una variabilità socio-culturale –, che poi orienta la nostra azione ed il nostro pensare. Taylor ci fornisce così una dimensione importante attraverso cui descrivere l’identità, che si costituisce in riferimento alla comunità in cui l’individuo si trova inserito (e qui egli si inserisce nella corrente “comunitarista”, critica di alcuni aspetti di determinate versioni del liberalismo che tenderebbero a presupporre un io decontestualizzato66) e ci riporta al dubbio sul grado di libertà che un individuo ha di scegliere una presentazione di sé, al di fuori di condizionamenti che non siano quelli propri della specifica interazione in cui si trova coinvolto, oltre che mutevole nel tempo. L’articolata – e quasi contemporanea alla precedente – posizione ermeneutica di Ricoeur (1990/1993) in un certo senso prova a rispondere all’interrogativo posto da Hume, prima ricordato, avvalendosi dell’idea di “identità narrativa”, in cui la narrazione è funzionale al pensare la permanenza dell’individuo nel tempo: quando ci chiediamo chi è l’autore di un’azione in fondo rispondiamo narrando la storia di questo “chi” (l’agente è la sua storia), che è il risultato di ciò che fa, attraverso atti linguistici e non. L’identità, sempre risultato di interpretazioni, consiste in un’attività di difficile costruzione e riconoscimento di sé che si sviluppa nel corso della vita, assomiglia più a una storia che a qualcosa che rimane invariabile nel tempo; l’identità non può essere colta direttamente, non si pone in maniera auto-evidente, ma si può giungere a comprenderla riflessivamente a partire dalle molteplici oggettivazioni dell’io nel sé attraverso cui parzialmente si manifesta. L’elemento narrativo per il filosofo francese fornisce un modello utile perché il processo di formazione del sé organizza in unità eventi separati, eterogenei e potenzialmente conflittuali. La comprensione della vita umana come un’unità narrativa consente di sintetizzare sia la permanenza sia il mutamento senza che nessuno dei due prenda il sopravvento sull’altro, così evitando tanto l’ipostatizzazione dell’identità quanto la sua elimi66
Per un approfondimento del dibattito si rimanda alla seconda parte di Spreafico (2005) ed alla bibliografia ivi ricordata.
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nazione. La narrazione sarebbe il modo in cui il sé si rivela e si costituisce67 – attraverso determinate strutture narrative e usi del linguaggio. L’identità narrativa per Ricoeur si forma nel rapporto dialettico tra medesimezza ed ipseità e, considerando il singolo come personaggio di un racconto, esso risulta costituito dalle sue esperienze. Mentre la medesimezza è riferibile a cose e anche persone nella misura in cui sono oggetti del mondo, l’ipseità risulta più propriamente la dimensione della persona, dato che implica rappresentazioni di sé che non sarebbero possibili senza capacità riflessiva individuale. Vi sono, dunque, due modelli di identità, due sensi dell’identità, chiamati identità idem e identità ipse. L’identità idem è un’identità sostanziale, che resta immutabile mentre le apparenze cambiano, ad esempio il nostro codice genetico resta lo stesso dalla nascita alla morte; è identità di struttura nel tempo, continuità del medesimo che rinvia alla definizione sociale dell’individuo; l’individuo è linguisticamente identificato come la cosa di cui si parla, invece che come soggetto parlante. L’identità ipse, invece, non implica l’immutabilità e anzi, al contrario, si pone nonostante il cambiamento, nonostante la variabilità dei sentimenti e dei desideri, ad esempio il mantenimento di un’intenzione nel tempo, o l’identità di quando si mantiene una promessa (vi è un fondo etico dell’ipse): la si mantiene nonostante i cambiamenti di umore, si tratta di un’identità di 67
Per Oliver Sacks (1985/2009, 153), «ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un “racconto”, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità. […] Ognuno di noi è un racconto peculiare, costruito di continuo, inconsciamente da noi, in noi e attraverso di noi – attraverso le nostre percezioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre azioni; e, non ultimo, il nostro discorso, i nostri racconti orali. Da un punto di vista biologico, fisiologico, noi non differiamo molto l’uno dall’altro; storicamente, come racconti, ognuno di noi è unico» [anche se, si potrebbe osservare, sia i racconti, sia il loro contenuto sembrano avere strutture e preoccupazioni, oltre che temi di fondo, simili]. Per essere noi stessi e conservare il nostro sé, secondo il neurologo americano, dobbiamo possedere la storia del nostro vissuto e rievocare il racconto interiore di noi stessi. Ma, si potrebbe aggiungere, siamo allora il frutto illusorio di un auto-racconto sempre un po’ diverso, modificato, incoerente, rievocato in modi diversi? Dunque cosa vuol dire riuscire ad essere noi stessi e conservare il proprio sé? Significa vivere nella supposizione che vi sia un sé di fondo (l’essere persona) che preceda le nostre esperienze ed interazioni, le quali magari influiscono sul modo di rievocare ed al contempo ricostruire tale sé proprio in attinenza con tali esperienze?
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mantenimento, cioè si è, e ci si conserva, gli stessi, nonostante non si sia più identici, nonostante si sia cambiati nel tempo. In questo secondo caso vi è un’“identità narrativa”, come quella del personaggio di una storia che ci permette di renderne conto (il nostro senso di chi siamo è legato alla capacità di raccontare una storia coerente su noi stessi), un’identità che però, al contempo, si riferisce alla singolarità ed imprevedibilità dell’individuo, soggetto parlante e riflessivo. Come si è detto, vi è un intreccio dialettico delle due identità, idem e ipse: l’identità narrativa, presente nei grandi racconti o interpretata da noi nella vita, oscilla tra i due poli dell’identità sostanziale, immutabile (in corrispondenza con questo polo il personaggio assume un carattere-sostanza), e dell’identità che esiste solo grazie alla volontà di mantenerla, come quando si mantiene una promessa, un’identità costruita che può arrivare a perdere la sua permanenza (vi è perdita d’identità, erosione e dispersione di sé). Intreccio ben chiarito dalle parole di Crespi (2004, 48): l’identità si articola nel tempo come “identità narrativa”, la quale oscilla tra la dimensione propria dell’idem (che procede attraverso identificazioni successive con determinati valori, norme, modelli socio-culturali, fondando la permanenza sostanziale e il mantenimento del sé, all’interno di un processo nel quale idem e ipse tendono a confondersi) e la dimensione propria dell’ipse, nella quale il soggetto può riferirsi a se stesso in modo autonomo rispetto all’identità idem.
Il rischio è che la narrazione ipse continui in realtà comunque ad appoggiarsi alla sostanza idem, a presupporre la struttura permanente dell’identità. Ricoeur interpreta, tuttavia, la dimensione ipse dell’identità (ma non quella idem) anche come dialettica incessante del medesimo e dell’altro, del sé e dell’altro: il sé dell’uomo è alterità. L’ipseità del sé implica così intimamente l’alterità che l’una non si lascia pensare senza l’altra. Il “come” dell’espressione “sé come un altro” può significare: sé in quanto altro. L’alterità è implicata a un livello originario e profondo nel processo di costituzione del sé, dunque l’identità del soggetto implica in modo costitutivo il riconoscimento dell’alterità: “conoscere se stesso” per l’essere umano significa sempre riconoscersi attraverso la mediazione dell’alterità. Questa genesi intersoggettivo-sociale 146 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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dell’autocoscienza del soggetto ricoeuriano, esistente nella modalità dell’ipseità (l’identità sostanziale idem sembra però non mescolarsi con l’alterità, come invece avrebbe potuto essere descritta), ci permette di ricordare il rilievo che è necessario attribuire all’altro nella costituzione di chi si afferma di essere e quello del riconoscimento che ci si attende dall’altro per questa affermazione, riconoscimento e rispetto cui anche Taylor attribuisce grande importanza, nei suoi aspetti individuali e collettivi, e che costituisce una tematica che continua a dar luogo a dibattiti (cfr. ad esempio Caillé 2007), sui quali qui non ci si sofferma68, che, molto dopo Hegel, hanno coinvolto studiosi come Honneth, Habermas e gli stessi Crespi e Ricoeur. È proprio in seguito alle posizioni di Mead e di Ricoeur – in corrispondenza con il quale da un lato distingue identità “personale” (dall’ipse) ed identità “sociale” (dall’idem) e dall’altro sembra riprendere l’attenzione per la dimensione narrativa dell’identità – che Crespi (2004, 50) giunge a formulare la sua descrizione dell’identità individuale «come risultato di un processo nel quale giocano elementi diversi, interconnessi tra loro, di tipo biologico (l’esperienza del proprio corpo), coscienziale, pratico, socio-culturale, emotivo, cognitivo ed etico». In particolare: inizialmente l’essere umano non ha alcuna identità, salvo quella di avere un corpo particolare e un sentire che è soltanto suo […], anche se dobbiamo ipotizzare, nella sua struttura biologica, la predisposizione a comunicare con gli altri, la capacità di identificazione e di riflessività cosciente. Attraverso il suo rapporto pratico con il mondo naturale, con le cose e con gli altri, mediato simbolicamente dal linguaggio e dalle rappresentazioni e i modelli culturali, l’individuo acquisisce gradualmente un’identità “sociale”, fondata sulla similarità con gli altri, che costituisce la base a partire dalla quale, elaborando riflessivamente la sua esperienza, egli può costruire la sua identità “personale”, fondata sulla sua differenza. La sua iden68
Se non per rammentare che un soggetto si forma nell’interazione con l’altro, da cui è in una certa misura contestualmente riconosciuto: interazione e riconoscimento reciproco contribuiscono a fornire esistenza sociale ai partecipanti, a produrre temporaneamente l’impressione di un loro distinto esistere.
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tità sociale è strettamente dipendente dal riconoscimento degli altri, mentre la sua identità personale, pur non potendo prescindere del tutto dal riconoscimento altrui, gli consente una relativa autonomia rispetto a quest’ultimo, o meglio gli permette in certa misura di ottenere il riconoscimento alle sue condizioni anziché a quelle che gli pongono gli altri (ivi, 53-54).
Questa configurazione tende ad affermarsi nel passaggio dall’infanzia all’età adulta e presenta caratteristiche da dibattere sulle quali ci si è in parte già soffermati e che considerano anche quella dimensione corporeo-biologica a cui Morin (cfr. 1973/1994) ha dedicato ancor maggiore attenzione. Non è questa la sede per addentrarci in questo aspetto, ma in termini più generali lo studioso francese ci permette di approfondire questa sezione allargando l’orizzonte del nostro discorso. Per Morin (2001), che ci fornisce un esempio differente di come l’individuo possa essere visto come parte tra parti di un tutto che continuerà anche senza di esso, vi è infatti una comune identità umana, in cui l’unità e la diversità coesistono e si co-implicano in tutte le numerose dimensioni – biologiche, soggettive e sociali – in cui essa può essere scomposta. Egli, infatti, prova a mostrarci l’unità complessa di ogni essere umano, in cui un io continuo unisce l’eterogeneità molteplice e discontinua dei sé e porta al suo interno innumerevoli potenzialità, che vanno pensate nell’incessante circolo delle loro contraddizioni ed affinità. L’identità dell’uomo può essere compresa solo connettendo i contributi delle diverse discipline in cui è articolata la conoscenza dell’umano, si tratta di un’identità che considera al contempo egoismo e dono di sé, ragione ed emozione, determinismo e libertà, storia e mito, femminile69 e maschile, bisogno originario e quasi simultaneo di auto-affermazione e di riconoscimento da parte dell’altro. Pensiamo a queste indicazioni come a uno stimolo a trovare in primo luogo le compatibilità ed i punti di contatto – ovunque realisticamente possibile – tra quanto si è andato dicendo nel corso di tutte le pagine che hanno preceduto questa, piuttosto 69
Qui si tocca un tema rilevante, che non viene affrontato, relativo al rapporto tra il genere e la costituzione dell’identità, alle specificità di genere nella formazione dell’identità, ad esempio l’“identità” al femminile. In una letteratura in espansione, si veda ad esempio Crespi (2008).
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che affinare la tendenza a recintare le prospettive teoriche come ambiti auto-escludenti. Parlare di identità, in fondo, è un modo di continuare a descrivere l’uomo in relazione, cercando di fornire categorie utili a capire come si rapportano gli interagenti tra loro e nel dialogo con se stessi. Quella di “soggetto ecologico” moriniano, inoltre, può essere vista come un’attribuzione non esclusivamente umana, ma riferibile a qualunque creatura vivente. Allo stesso tempo nello studioso francese è presente un aspetto prescrittivo, sotto forma di invito a integrare le identità collettive con l’approfondimento della consapevolezza della nostra comunità di destino, quella planetaria, che nella dialogica tra la forza del potere di manipolazione e la carenza del potere di comprensione rischia l’auto-dissoluzione, mentre al contrario necessita del riconoscimento della Terra-Patria come casa comune dell’uomo, in cui non vengano abolite le radici né le differenze – neanche quelle culturali – ma considerate e rese compatibili con l’identità umana terrestre. Nelle ultime teorizzazioni sin qui ricordate è presente la preoccupazione della permanenza di un io riconoscibilmente unitario e costante come tale nel tempo, trovata ad esempio nel riferimento ai valori, o nella funzione unificante della narrazione, o nel riferimento alla corporeità; si tratta di modi di cui forse anche lo studioso ha bisogno, dato che il mettere in discussione tutto, sottoponendo se stessi a una riflessività costante, ostacola fino ad arrestare la capacità di agire e complica la riflessione – più difficile è pensare una serie di sé possibili e proiettivi, in transizione anche perché capaci di apprendimento e di rielaborazione incessante di sempre nuove esperienze, continuamente differenti secondo i contesti; ambiti all’interno dei quali porre un sé specifico è un modo per ridurre la complessità della situazione. Per questo, data la nostra razionalità limitata e l’incertezza endemica ed il disordine del mondo bio-fisico e socio-culturale, l’identità, ancor più se fondata su un substrato tendenzialmente continuo, sembra ad alcuni utile a fermare la riflessività e, così, a costruire il senso di cui si suppone si abbia bisogno per agire (cfr. Kaufmann 2006 e 2011), oltre che a controllare e orientarsi nelle interazioni (cfr. White 2008/2011, 44). A volte l’identità sembra poter diventare uno strumento ordinario e concreto per orientare la propria azione e costruirsi come individuo (cfr. Kaufmann 2004); o meglio: l’idea di “identità individuale” appare come una finzione utile 149 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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all’interazione che viene costruita nell’interazione. L’identità può essere uno strumento per descrivere-costruire dei legami attraverso narrazioni linguistiche produttrici di senso in situazioni di conflitto o di discordanza (cfr. White 2008/2011, 48). L’identità relazionale dell’uomo è stata descritta da Donati (2008) in dialogo con l’atteggiamento riflessivo e realista di Archer (2003), che ricorda come le persone elaborino le rappresentazioni che poi utilizzano nell’agire, che rammenta la riflessività interna alla persona, la cui identità non è fissata dalle istituzioni ma matura innanzitutto a partire dalla propria esperienza di autonoma conversazione interiore, ed evolve nelle, ed attraverso le, interazioni sociali (la relazionalità è qui costitutiva della persona umana, la cui identità è, per l’appunto, relazionale). La conversazione interiore dell’io con se stesso – ad esempio, un dialogo sulle diverse identità e definizioni che percepisce nelle pratiche delle interazioni sociali – esercita una mediazione fra structure ed agency, fra influenza delle strutture socio-culturali ed autonomia della persona, nell’assunzione delle identità sociali con modalità specifiche. Per la sociologa inglese, infatti, le persone hanno la capacità generale di stabilire autonomamente che cosa gli sta più a cuore (ed il loro self lo persegue riflessivamente, vi si confronta) e quale atteggiamento meglio esprime i loro interessi. Mediante il dialogo interiore le persone riflettono sulla loro situazione sociale alla luce dei loro progetti e, praticando diversi stili di riflessività, riescono a gestire le proprie risposte ai condizionamenti sociali. Così la riflessività personale media tra struttura ed agire personale, e orienta i percorsi di vita. L’identità personale si forma attorno a premure fondamentali elaborate nella conversazione interiore tra ego presente e me passato e futuro; l’identità sociale, in connessione con la precedente, esprime tali premure in determinati modi di adozione di ruoli sociali. Su questa base, anche Donati ci riporta però su un percorso tutto sommato tradizionale e ci propone di pensare la persona come un essere bio-psichico-coscienziale che si sviluppa tra natura, pratica, interazione e trascendenza intesa come mondo delle realtà ultime; un singolo che, attraverso l’esperienza che fa del mondo e la sua capacità di riflessione interiore, riesce ad andare al di là della sua dotazione naturale. Vi è un processo circolare (su alcuni aspetti del cui ordine e presenza di successione si potrebbe forse discutere), ripetuto nel tempo, 150 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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che vede un self sperimentare e dialogare con se stesso: prima come “io”, cioè come soggetto “individuale-privato” in dialogo interiore con il proprio io profondo (identità personale); poi come “me”, cioè come agente primario “privato collettivo” che riceve delle attribuzioni (un nome, etichette, appellativi) dall’esterno, dalle istituzioni, e poi scopre la sua appartenenza (prima ascritta e poi acquisita) a certe entità collettive (una determinata famiglia, città, quartiere, lingua) diverse da quelle di coloro con cui interagisce; dunque come “noi”, cioè come agente che “appartiene [sente di appartenere]” a tali o altre entità collettivopubbliche, che sviluppa un senso del noi (si “sente” di quella regione, religione, Paese etc. – pur nella scarsa chiarezza di cosa ciò possa voler dire, come si è cominciato a vedere sin dall’Introduzione); poi come “tu”, cioè come attore “pubblico individuale” che assume diversi ruoli in quelle diverse entità collettive sociali (padre, lavoratore, credente in una fede) e che, nel farlo, nello svolgere parzialmente liberamente e responsabilmente quei ruoli, nello scegliere come interpretarli, delibera interiormente su ciò che gli sta più a cuore, si confronta con il mondo trascendente. Questo ultimo aspetto viene sottolineato: il self diventa attore, persona, matura, si relaziona responsabilmente con la società e decide come agire in rapporto alle istituzioni, quando confronta la realtà data con quella cui aspira, con una realtà come a suo avviso dovrebbe essere. Quando assume in un certo modo un ruolo sociale, il self per Donati si domanda se (e qui la presunzione di riflessività è molto elevata; si suppone uno sforzo cognitivo-mentalistico che si è criticato ad esempio parlando dell’interazionismo simbolico), così facendo, la sua attività e le sue scelte gli forniscano un “senso ultimo soddisfacente” in rapporto al proprio bisogno di “vita buona” – desiderio che è connaturato agli esseri umani, persone legate a fini incondizionati, che valgono di per sé, al di là della loro utilità. L’identità sociale si forma così attraverso il dialogo interiore tra quella personale dell’io e quelle derivanti da me, noi e tu. L’identità sociale con cui ci presentiamo nelle interazioni deriva da questo processo di riflessività interna inevitabilmente frutto di una relazione con l’altro; l’identità, infatti, implica un’interdipendenza reciproca tra ego ed alter (si potrebbe tuttavia aggiungere che questo legame è tale da non poter distinguere i due termini, l’identità personale è sociale, non si intreccia con quella sociale solo a un certo punto – ma 151 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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viene effettivamente ricordato Cooley quando rammenta che la nozione di un ego separato ed indipendente è illusoria); di nuovo, è un’identità relazionale, si forma nelle relazioni, tra comunione e differenziazione. Per il paradigma “emergenziale”-relazionale del sociologo italiano, la persona emerge «dalle interazioni con le istituzioni della società, mentre le precede e ne va oltre» (Donati 2008, 79). La relazione fra identità personale e sociale è un dialogo fra mondo vitale e «istituzione sociale (relazione formalizzata di ruolo), che non è simmetrica, perché è agita dalla parte del soggetto (agente o attore) che non deve solo “animare” il ruolo prefissato, ma deve personificare il ruolo in una maniera singolare» (ivi, 79 e 81). Si tratta di una posizione molto approfondita70, anticostruzionista e mondana, che sembra dare per acquisita l’esistenza di un self e come scontato il funzionamento dell’autocoscienza, che sistematizza con cura quanto sappiamo sul sé ma forse in alcuni punti accontentandosi, pur sottolineando gli aspetti di relazionalità e di capacità creativa, di riprendere tematiche tradizionali come quelle delle appartenenze. Remotti (2010) ci mette però in guardia dai diversi tentativi, or ora illustrati, di continuare ad usare il termine “identità” (uno dei più usati nelle scienze umane e sociali e nel linguaggio comune), i quali alla fine non riescono a non rinviare all’idea illusoria di una stabile sostanza. Una sostanza per di più ingenuamente ancor oggi spesso pensata come unitaria. Inoltre, egli ci ricorda come la stessa idea di un sé non sia scindibile dall’alterità, che ne fa parte, lo compenetra, fin dalla sua formazione. Per l’antropologo italiano, «i soggetti “fingono” la loro identità, non solo nel senso che la costruiscono, ma anche che […] tendono a farla passare come qualcosa che per definizione è sottratto […] alle negoziazioni» (ivi, 36). Alla fine «le identità sono soltanto mezzi […] mediante cui i soggetti sociali rivendicano diritti» (ivi, 38), mentre i soggetti non sono entità che esistono prima rispetto alle azioni, ma si costituiscono nel fare. Anche se esiste una dimensione biologica e mentale, l’io è un prodotto socio-culturale, modellato e concepito in modi diversi secondo le società e le relazioni che le formano, è costruito in un ambiente fatto di molteplici relazioni in trasformazione. Parlare di identità significa trascurare le possibilità di mutamento ed illuder70
Fondata su premesse come quelle ricordate nella nota dedicata a Donati nel capitolo sull’etnometodologia.
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si di consistere di una certa essenza particolare e distinta dall’alterità che invece ci pervade. L’adozione diffusa della categoria dell’identità andrebbe invece spiegata (ad esempio in riferimento all’intensa insicurezza percepita, connessa alle aride logiche di una globalizzazione capitalistica), al fine di comprendere i supposti vantaggi dell’uso di un qualcosa, di una rappresentazione, che finge l’esistenza di una sostanza che caratterizzerebbe, tanto ideologicamente quanto illusoriamente, un ente socialmente costruito (della cui stessa esistenza, per di più, si può discutere, anche al di là della sua relazione con le dimensioni dell’interrelazione e del riconoscimento). In una direzione simile, il mito dell’identità era stato precedentemente ben criticato anche da Parfit (1984/1989), per il quale non vi è continuità psicologica del nostro essere nel tempo (su cui invece si basava il pensiero deprimente ed angosciante della morte), le esperienze sono sganciate da tale senso di continuità, non vi è un’entità di fondo separata a fondamento dell’identità individuale, vi è un succedersi impersonale di pensieri e di azioni interrelati, prodotti continuativamente dalla pluralità di cui è composto l’io, un io che non dovrebbe essere visto come individuale, ma – anche se è estremamente difficile farlo, seppur non impossibile – come molto meno distante e distinto dagli altri, così come potrebbe insegnarci il buddhismo. Disponiamo ora di elementi critici delle concezioni tradizionali dell’identità del sé utili, in generale, per compiere l’ultimo passo, relativo all’atteggiamento che può assumere una sociologia che non si lasci dominare dagli assunti – in genere indiscussi (o a volte discussi, ma poi accettati per comodità) – su cui a volte si adagia, contribuendo indirettamente alla costruzione di distinzioni e conflitti pericolosi.
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Conclusione. Un soggetto davvero sociologico: l’interazione sociale cooperativa
Alcune delle semplificazioni descritte nel precedente paragrafo sono state efficacemente contestate da Coulter (1989/1991), sociologo americano di impostazione non-cartesiana, ma wittgensteiniana ed etnometodologica, a cui faremo ora riferimento per chiudere il nostro percorso sulla relazione soggetto-identità intrapreso in queste pagine con uno stimolo a pensare (davvero) sociologicamente il soggetto umano e la sua dotazione mentale. Egli, infatti, critica la tendenza, propria anche di parte della sociologia, ad analizzare gli attributi e le disposizioni mentali delle persone in termini psicologistici, alla ricerca di ipotetiche motivazioni soggettive delle azioni, come se tali persone possedessero dentro di sé proprietà sganciate dalle circostanze socio-storico-culturali ed interazionali-comunicative. Alla metafisica mentalistica rivolta a individuare ragioni delle azioni viene, invece, contrapposta un’attenzione alle azioni, interazioni ed attività pratiche, al trattare gli attributi mentali personali come proprietà derivate da condotte, le pratiche di attribuzione di ragioni come anch’esse tipi di azione sociale analizzabile, i motivi come pratiche socialmente convenzionalizzate ed interazionalmente occasionate. Produrre ragioni è una condotta pratica legata a convenzioni contestuali storico-sociali, è dunque preferibile studiare le ragioni stesse, ed il come vengono prodotte, la logica che accompagna il loro uso effettivo, come parte integrante del fenomeno da investigare, invece di tentare di estrapolare da esse ipotetici principi causali-esplicativi dell’agire e delle affermazioni. Come ogni fenomeno, anche i fenomeni soggettivi, mentali ed esperienziali sono conoscibili attraverso concetti 155 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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linguisticamente espressi e grammaticalmente regolati71, all’interno di contesti comunicativi, mentre non vi è per essi alcun linguaggio mentale privato e diverso da persona a persona. Le regole grammaticali qui sono ciò che specifica «la cornice linguistica entro cui parole, frasi o tipi di parole o di frasi possano essere usati, ma anche quel che vale come applicazione di tali espressioni» (ivi, 64). La sociologia epistemica di Coulter suggerisce che sia necessario sottoporre ad analisi logicogrammaticale, all’interno di concreti contesti d’azione e pratiche sociali ed istituzionali, l’uso e la cognizione che si ha di termini come soggetto conoscente o agente umano, i quali non possono essere trattati come postulati acquisiti. Un’analisi che è preposta ad individuare le connessioni tra uso di espressioni linguistiche volte ad articolare il concetto e le circostanze in cui esse sono impiegate, ad individuare le proprietà di tale soggetto, che non è trascendente rispetto all’indagine sociologica. Come, ad esempio, nella sociologia di Homans (1961-1974/1975), o nei tentativi di fornire spiegazioni sociologiche attraverso modelli astratti di attore dotato di motivi, desideri, bisogni, pulsioni, o nella sociologia simbolico-interazionista blumeriana, in gran parte del pensiero sociologico moderno si richiede ai ricercatori di fare degli assunti sia espliciti che impliciti sulle “proprietà psicologiche” degli agenti umani. È però abbastanza sorprendente che queste concezioni […] non siano di per sé sociologiche […] [, determinando] un “soggettivismo delle scienze sociali” (ivi, 71).
È difficile ottenere un accesso attendibile a processi interni di interpretazione, conoscere in maniera chiara quali significati le persone stanno attribuendo soggettivamente ad azioni e cose (su cui poi ipoteticamente fonderanno la loro condotta), così come è difficile immergersi nel mondo sociale abitato da altri attori, diventare interpreti dei 71 Cfr. anche Wittgenstein (1953/2009, 160): «Dico: “In questo momento ho questa rappresentazione così e così”; ma le parole “io ho” sono semplicemente un segno per gli altri: il mondo delle rappresentazioni è tutto esposto nella descrizione della rappresentazione. […] l’“Io ho” […] avrebbe dovuto essere espresso in modo diverso. Forse semplicemente facendo un segno con la mano e poi dando una descrizione». Infatti, «il concetto di “immagine interna” è ingannevole» (ivi, 259), «l’interno ci è nascosto» (ivi, 292).
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medesimi ruoli da questi svolti, tanto più se non ci si vuole limitare ad osservare come fanno ad interagire ma si ha l’obiettivo di capire cosa succede nelle loro menti per rivelare le interpretazioni che si suppone esse abbiano compiute. Per Coulter l’attività interpretativa e di attribuzione riflessiva di significati è rara, le azioni e comunicazioni reciproche non sono affatto inizialmente e vicendevolmente incomprensibili. Allo stesso tempo, non è necessario fare eccessivi appelli alle abitudini, alle routine automatiche o agli sgravi per vedere che in vasti settori del comportamento umano non vi sono coscienti interpretazioni ed attribuzioni di significato che costituiscano poi motivi o intenzioni interni agli agenti; questi ultimi sono inaccessibili, sebbene siano routinariamente riconosciuti e presupposti nella vita sociale pratica72. Anche quando le persone detengano interpretazioni o valutazioni private delle azioni altrui, nascondano le loro intenzioni, «i sociologi non devono cercare di trascendere i loro limiti (in quanto anch’essi sono membri di una società) e diventare arbitri assoluti» (ivi, 75) di elementi alla fine insondabili e oggetto di controversia pratica. «Non è funzione dei sociologi, in quanto sociologi, andare in giro proclamando quali sarebbero i “veri” motivi della gente, […] i “pensieri nascosti” […], né di stabilire come qualcuno possa aver privatamente interpretato una qualche situazione ambigua. Si tratta di questioni pratiche dei membri, per le quali esistono determinati criteri refutabili, ma pubblici» (ibidem). È un errore tentare di spiegare mentalmente, in termini psicologistici, il comportamento umano, supporre che avvenga un’etichettatura interna di azioni, oggetti e situazioni e che le ragioni che le persone enunciano per le loro azioni siano difettose come spiegazioni di ciò che si fa. Se è perfettamente vero che i membri forniscono a volte solo delle “razionalizzazioni” e a volte celano le ragioni “reali” della loro condotta, è ugualmente vero che […] i sociologi non hanno nessun particolare diritto o privilegio, né necessità metodologica, di mettere 72
Può sembrare che le sociologie (ad esempio quella fenomenologica) che insistono sulla natura automatica, irriflessa, dei comportamenti umani regolati dal senso comune possano essere accusate di determinismo. In realtà, è proprio lo sforzo cognitivo di queste, centrato sul ruolo del senso comune, che permette ai sociologi di fare emergere quest’ultimo e, in questo modo, agli altri di divenire coscienti di esso e dunque di modificarlo.
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in discussione in generale le ragioni dei membri di una società. […] [Finendo così con] l’imputazione teorica dell’origine della ragione “reale” alla mente dell’agente […]. Ma se non si dà credito agli agenti per quanto riguarda le ragioni esplicitamente ammesse delle loro azioni passate o presenti, perché […] ne dovrebbe essere dato uno maggiore al presunto contenuto delle loro menti? (ivi, 76-77).
Capire l’azione di qualcuno non vuol dire necessariamente essere continuamente all’erta e pronto a interpretarla per coglierne il significato, immaginato come posto nella mente di colui che capisce. Come ci insegna Wittgenstein73, capire non è un processo mentale/psichico: si può capire senza tentare di afferrare un senso di ciò che viene detto/ fatto. Ciò che mostra l’avvenuta comprensione è un comportamento adeguato, la capacità di soddisfare appropriatamente i criteri contestualmente rilevanti dell’avere effettivamente capito ciò che si dice di capire. Affermare di capire annuncia che si ritiene di possedere o avere acquisito un’abilità. Alle critiche al cognitivismo ed alla psicolinguistica si aggiunge l’idea che il linguaggio possa essere capito perché siamo socializzati ad afferrarne le regole. Ogni regola può essere seguita solo sullo sfondo generale di istituzioni, pratiche e tecniche di condotta socialmente condivise, che forniscono criteri per distinguere i casi in cui le regole sono effettivamente seguite da altri casi in cui gli agenti possono affermare di stare seguendo qualche regola, ma non ci risulta che lo facciano; […] non esiste (logicamente) qualcosa come un “seguire solitario, privato, le regole ab initio”, né nell’uso del linguaggio, né in nessuna altra attività umana (ivi, 84-85).
Ogni processo interno necessita di criteri esterni, intersoggettivi, di un consenso di fondo, che permettano la soddisfazione di parametri pubblici attraverso cui giustificare le affermazioni mentali o esperienziali. Lo stesso riuscire a concettualizzare ed esprimere linguisticamente in un certo modo un evento mentale o esperienziale è legato alla 73 Cfr. ad esempio Wittgenstein (1953/2009, 294): «Non chiedere: “Che cosa accade in noi quando siamo sicuri che …?” ma: Come si manifesta, nell’agire dell’uomo, “la sicurezza che è così”?».
158 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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relazione con gli altri; in generale la mente e la condotta individuale sono costruite socialmente. Per esempio, raccogliere informazioni, di solito in forme proposizionalmente/discorsivamente disponibili, presuppone una serie di concettualizzazioni di fondo comprensibili a un livello sociologico e non di sistema nervoso centrale. Siamo «costituiti e ricostituiti dalle risorse socio-culturali e socio-interazionali della specie in generale, e dei co-abitanti del nostro specifico ambiente sociale in particolare» (ivi, 96-97). L’idea di una socializzazione alla padronanza delle risorse pubbliche linguistiche mentali ed esperienziali74 permette di arrivare a una concezione sociale del mentale. In Wittgenstein (1953/2009, 13) l’apprendimento del gioco linguistico (gioco che è «tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto») è preliminare alla comprensione di parole e proposizioni, che assumono significati diversi secondo il gioco in cui si trovano: «per una grande classe di casi […] il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio» (ivi, 33) (e in genere non è nell’ipotetico oggetto che indicato può corrispondere alla parola); «considera la proposizione come uno strumento, ed il suo senso come il suo impiego!» (ivi, 166), il suo uso. Nel linguaggio – che può essere visto come un insieme di giochi linguistici in relazione a scopi in un contesto di attività, di forme di vita – sono depositati gli schemi con cui costruiamo le nostre conoscenze. Impariamo in più modi concetti, criteri, termini e regole contestuali del loro uso; vi sono contesti appropriati in cui determinati concetti e termini possono essere impiegati intelligibilmente, anche per realizzare un comportamento personale (non interiore). Abbiamo a disposizione una grammatica di concettualizzazioni, una rete di regole di base comuni agli uomini, su cui si innestano i diversi giochi linguistici giocabili in culture diverse. Assumendo tutto questo, Coulter (1989/1991, 127) può allora aggiungere che è solo entro la coproduzione mondana dell’organizzazione dei modi di dire e di fare che si possono trovare le attività di descrizione ed assegnazione degli attributi personali. Inoltre, «nessuna caratterizzazione di “chi” qualcuno è […] può essere posta come 74 «È un apparato concettuale grammaticalmente circoscritto – che viene intersoggettivamente acquisito e impiegato […] – quello che rende intelligibili […] i fenomeni» (Coulter 1989/1991, 184).
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indipendente da scopi pratici o contingenze specifiche locali o occasionali. Ciò riguarda anche la “validità” astratta, ma particolarizzabile, di “teorizzazioni” psicologiche, socio-psicologiche, psichiatriche, psicoanalitiche, psichiatriche-legali». Attribuire una certa personalità o carattere a qualcuno non può essere fatto con imparzialità, né può in alcun modo spiegare causalmente l’attività di costui – mentre si può cercare una ragione della condotta indipendentemente dalla valutazione della personalità. Le valutazioni sulla personalità, infatti, non riescono a comprendere tutta la condotta dell’agente, inoltre ogni valutazione del genere può essere smentita invocando situazioni o contesti occasionanti, circostanze o aspettative precedenti, regole e giustificazioni indipendenti. Dato che, oltre alle spiegazioni caratterologiche, vi sono altre risorse che consentono di dare spiegazioni di azioni, come la sopra ricordata considerazione del contesto e dei fini, la spiegazione dell’azione in riferimento (anche parziale, come in Parsons) a supposte caratteristiche di personalità75 consiste in una rinuncia semplificatrice a un’analisi accurata dell’interazione (rinuncia che può così al contempo erroneamente entificare qualche ipotetico tratto interno come se fosse intrinseco di un agente). Per il sociologo americano, le nostre determinazioni circa la natura della mente sono socio-storicamente costituite e ciò che riguarda il mentale non è privato, non è scoperto internamente dagli individui come se fosse indipendente dal resto. Non vi sono entità che esistono nella mente che corrispondano ai termini inerenti un certo stato della persona (provare dolore, ad esempio), vi è una errata e persistente tendenza a concepire il funzionamento dei predicati mentali come se fossero nomi di “fenomeni” interni, distaccabili sempre e completamente dalla condotta e – cosa che Searle trascura completamente – dai con75
È interessante rilevare che anche la neurologia di Oliver Sacks (1985/2009, 12), per il quale la condizione umana per eccellenza è la malattia, ritiene che «l’intima natura del paziente [sia] del tutto pertinente all’ambito d’indagine più elevato della neurologia e alla psicologia, poiché esse hanno intimamente a che fare con la personalità del paziente, e lo studio della malattia non [possa] essere disgiunto da quello dell’identità»; risulterebbe così necessaria una «“neurologia dell’identità”, poiché si occupa dei fondamenti neurofisiologici dell’io», una disciplina che si occupi, cioè, sia della mente, sia del cervello, in modo da avvicinarli ed arrivare alla loro intersezione.
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testi della condotta rilevanti per l’ascrizione. […] è […] il tentativo male indirizzato di imitare le scienze fisiche ad impedire una chiara concezione della natura del mentale nell’uomo (ivi, 150).
Date le difficoltà che si incontrano nello stabilire le intenzioni di colui che compie un atto linguistico, al fine di capire quale tipo di azione venga effettivamente compiuta, Searle si è progressivamente rivolto allo studio della mente: l’intenzionalità si configura così come una proprietà basilare della mente umana con una natura biologica situata nel cervello (cfr. Caniglia e Spreafico 2008). In questo modo egli (Searle 1983/1985) arriva a ridurre determinate esperienze a condizioni neuronali localizzate nel cervello, mentre Coulter ritiene che percepire, capire, ricordare, credere non siano semplicemente riducibili a fenomeni neuronali ma costituiscano qualcosa di comprensibile alla luce dell’agire manifesto in un contesto di processi di interazione sociale. È dunque difficile offrire spiegazioni causali76 (il che è già di per sé una forma indagabile di prassi sociale convenzionalizzata) convincenti della maggior parte della condotta razionale umana, sia che ci si rifaccia a stati psicologici, sia a capacità cognitive di elaborazione di informazioni, sia a condizioni neuronali. Fornire la ragione di un’azione è però un tipo di azione sociale pratica quotidiana che può essere descritta nelle sue modalità contestuali, ad esempio quando in un’interazione conversazionale viene invocata, in una determinata posizione sequenziale, un’auto-identificazione categoriale di tipo identitario per spiegare un certo agire in una data situazione (“Perché lo insegui?” – “Sono un poliziotto”). Dati i limiti e le difficoltà degli approcci che affrontano le problematiche dell’agente umano considerandolo «come essere “cognitivo”, dotato di una “mente” e di una “personalità”, che naviga in un mondo sociale impiegando questa dotazione “soggettiva” in vari modi» (Coulter 1989/1991, 187), invece di cercare spiegazioni generali della condotta umana, la sociologia potrebbe allora più ragionevolmente analizzare le proprietà logico-grammaticali, le possibilità di produzione 76 Oltre al dibattito che Coulter sviluppa contro Davidson sulla relazione che esiste tra le azioni dell’agente e le sue ragioni per esse, sul pensiero causale si veda Riedl (1981/2006). Cfr. anche Spreafico (2007).
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delle spiegazioni prodotte dagli agenti stessi. «Gli schemi teorici che pongono l’agente umano individuale al centro della scena, basandosi acriticamente su assunti di tipo atomistico, psicologistico e cognitivistico» (ibidem), non riescono a mostrare chiaramente le modalità con cui si manifesta la vita sociale – una vita sociale in cui, si potrebbe aggiungere, il protagonista non è il soggetto tradizionale, sulle cui caratteristiche e possibilità di emancipazione molti si sono concentrati con difficoltà (con il rischio di dover presupporre qualcosa nell’uomo: per esempio un’attitudine più o meno riflessiva alla libertà, piuttosto che una tendenza al desiderio mimetico girardiano (cfr. Girard 1972/1980; Spreafico 2010 e 2011), ma sono le interazioni, spesso verbali, produttrici di situazioni sociali descrivibili (e nelle quali l’“identità” emerge come costrutto artificiale, temporaneo e utile all’efficace descrizione della conduzione di uno specifico tratto dell’interagire, come un circoscritto atto di categorizzazione). Se mettiamo da parte l’ipotesi, cui siamo finalmente giunti alla fine di questo libro, per cui non vi è niente di concreto, fuori dal linguaggio, da un gioco linguistico, che corrisponda al termine “identità”, possiamo comunque fare qui un’ultima considerazione. Probabilmente «poter dire “Io” diventa la più importante forza di limitazione nei confronti del controllo che la società esercita sull’attore» (Touraine in Touraine e Khosrokhavar 2000/2003, 101), sarebbe cioè un bene ricordarsi dei rischi del ricorso alla trascendenza degli universali religiosi, o della storia, della ragione, dello spirito, o dell’aspirazione a principi superiori; il sé non dovrebbe dunque essere assorbito in modo esclusivo in supposte identificazioni collettive totalizzanti, perché vi sia integrazione dovrebbe esserci, invece, convivenza e reciproco riconoscimento e rispetto per le identificazioni di ognuno, senza tentativi di imposizione di una sola identità sociale unificante, comunque accompagnata dalla tutela per tutte quelle altre che rientrino nel più ampio possibile ventaglio di appartenenze non in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento di una comunità. In passato il tema della differenza aveva poco spazio, «perché i principi trascendenti imponevano agli esseri umani un’unità al di là delle loro differenze. Scomparsa ogni forma di trascendenza, il problema diventa, al contrario, quello di riuscire a vivere insieme pur essendo diversi» (ivi, 103). Tuttavia, questo obiettivo sa162 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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rebbe forse maggiormente raggiungibile se non accentuassimo il peso delle differenze immaginate e se cominciassimo dunque a pensare l’identità individuale almeno come qualcosa di inventato e fin dall’inizio partecipato, frutto di collaborazione, non immutabile, anzi soggetto a continue modificazioni nella sua costruzione, come qualcosa che si usa per interagire ogni volta in maniera diversa e che non è proprietà di un singolo, imputabile a un soggetto come se ne costituisse l’essenza, ma che emerge solo quando vi è relazione e ne costituisce temporaneamente la comunicazione; ciò pensando contemporaneamente a un soggetto come parte del tutto che lo circonda, non distinto da esso, in modo che sia ostacolato il tentativo di dominio di un singolo sull’altro, tentativo frutto della suddetta distinzione. Del resto, uno degli insegnamenti che ci trasmettono approcci sociologici contrari alla sostanzializzazione della soggettività come l’etnometodologia è che le persone funzionano come un insieme e l’organizzazione locale del comportamento è una faccenda quotidiana realizzata da persone che agiscono in modo “concertato”, cooperativo, addestrandosi su come il lavoro locale debba essere svolto. «Solo il sociale è primordiale, mentre la nozione di “un individuo” si limita a emergere da ed essere sostenuta dalla pratica sociale» (Liberman 2011), «la dimensione intersoggettiva precede quella soggettiva. Anche il Sé, quella divinità minore venerata dalla metafisica illuministica, scaturisce da un sistema di pratiche sociali che sostenta e alimenta l’individualismo. Questa è la ragione per cui nei suoi studi sulla prassi quotidiana Garfinkel si è imposto di smettere di parlare delle persone come “individui” o anche come “attori”. Piuttosto […] Garfinkel definisce le persone “membri”. Questa scelta ha operato una de-enfatizzazione dell’aspetto individualistico ereditato dalla metafisica europea, e messo in luce il fatto che il pensiero è qualcosa che viene per lo più realizzato collettivamente» (ibidem). Per Liberman, infatti, il fondamento dell’esistenza umana è la vita di specie e l’individuazione è un prodotto della socialità. In un suo studio sugli aborigeni australiani (Liberman 1985), egli ha descritto il primato del “noi” nell’esperienza cognitiva aborigena: nella vita quotidiana di quella società la coscienza individuale non può essere considerata fondante e l’individualizzazione viene attivamente soppressa; la natura collettiva della cognizione aborigena fornisce straordinarie ed 163 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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attuali intuizioni sulle strutture elementari della vita quotidiana odierna, mostrandoci come la natura collettiva del pensiero sia un aspetto cruciale della nostra stessa vita. Lo studioso americano ribadisce, sulla scia di Garfinkel, come sia inutile guardare dentro le teste per capire la pratica sociale, che ha luogo al di fuori, nel mondo-della-vita che si vuole studiare. «Una volta che si è localizzato un complesso di azioni che avvengono naturalmente – vale a dire una scena localmente situata in cui le persone collaborano tra loro come parte di un naturale corso di eventi – si può […] analizzare prima di ogni cosa ciò che sta avvenendo lì nel mondo» (Liberman 2011), descrivere il fenomeno (ovvero il modo in cui le persone vedono il mondo), i dettagli mondani, osservare le effettive pratiche delle parti, dalla prospettiva di queste parti. Per evitare un’affinità metafisica con il sé individualizzato, idolatrato dall’Illuminismo ed incorporato nelle ricerche di gran parte dello psicologismo, è necessario riconoscere che non sono gli individui ma i membri che agiscono in modo concertato nella società. Anche per questo «l’etnometodologia persegue la “soggettività” reale, mondana, e la trova principalmente in collettività, cosicché il suo compito conoscitivo è descrivere le collettività scoperte nel modo in cui […] agiscono» (ibidem), mostrando l’“incastro” tra i membri di una scena locale. È questa la prospettiva, e la difficile sfida, che si apre per una sociologia che sia al contempo capace di non avvalersi di concetti precostituiti e pienamente sociologica, così più chiaramente distinta da altre discipline. Anche la sociologia delle reti di White (2008/2011, 184) – pur con un approccio (di medio raggio) per diversi aspetti molto differente da quello etnometodologico (e che meriterebbe una discussione critica a parte) – si muove in questa direzione allontanandosi, con una chiarezza che merita di essere ricordata, da nozioni come sé, coscienza, spirito, persona, intese come entità preesistenti: il concetto di “persona” non deve essere dato fin dall’inizio dell’analisi, ma deve essere il risultato dell’analisi. Le persone devono essere studiate dalla sociologia, il che implica lo specificare i contesti in cui esse potrebbero essere pertinenti, quelli in cui esse saranno pertinenti e quelli in cui esse non possono essere pertinenti. Tut164 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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tavia, nella maggior parte delle scienze sociali, le “persone” sono comprese come degli atomi incontestati ed incontestabili77.
Consapevoli dell’influenza che l’attenzione primaria posta sull’individuo nella più recente storia occidentale ha avuto sulla preferenza per quest’ultimo come oggetto di analisi, passiamo allora a una sociologia il cui principale interrogativo sia “come?”; una sociologia che non neghi necessariamente l’individuo, ma che – di nuovo: anche per chiarire il suo apporto – non debba dipendere nella sua attività di analisi da costrutti linguistico-cognitivi come quello di identità individuale in un senso di interiorità; una sociologia nelle cui descrizioni l’individuo non sia più un’entità esistente a priori e possa essere visto invece più come un prodotto che come un generatore di processi, interazioni e configurazioni sociali, un prodotto che vi è solo a certe condizioni, modellato e sostenuto da determinati legami e contesti sociali.
77 Traduzione di chi scrive. Ad esempio, per il sociologo americano – che considera in generale la sua teoria compatibile con quella dei sistemi di Luhmann – quando si è impotenti al di fuori dei confini dei ruoli assegnati, quando la propria azione è interamente prevedibile, non si è una persona. Un altro esempio è quello degli stranieri, così poco rafforzati dal loro inserimento in legami sociali da avere un’esistenza ridotta, creature tra parentesi, «attori astratti attivati nel mondo concreto solo attraverso incontri» (White 2008/2011, 97).
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