Con ostinata passione. Il cinema documentario di Cecilia Mangini 8875531013, 9788875531010

Cecilia Mangini, regista pugliese orgogliosamente anticonformista, fin dai primi anni del dopoguerra, ha contribuito a c

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Italian Pages 126 [129] Year 2011

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Con ostinata passione. Il cinema documentario di Cecilia Mangini
 8875531013, 9788875531010

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Indice Lettera di Cecilia a Gianluca Introduzione di Gianluca Sciannameo Capitolo primo 1.1 Il Neorealismo e la sua eredità . Il Neorealismo si tinge di rosa, p. 28. - E il documentario?, p.37. "Questioni" di produzione: e il documentario diventa una truffe, p. 40. - Un documentario diverso è possibile, p. 43. - Lo sguardo sul Meridione, p. 52. 1.2 Conla macchina da presa nelle Indie di quaggiù. L'incontro con Ernesto De Martino Capitolo secondo 2.1 Rituale. Il documentario come ristrutturazione del tempo 2.2 Paesaggi. Il documentario come ristrutturazione dello spazio 2.3 Donne allo specchio. Il documentario come ristruttura» zione dell'umanità APPENDICE Contributo di Mirko Grasso Maria di Capriati (foto di Cecilia Mangini) Cecilia Mangini (foto) Biografia di Cecilia Mangini Filmografia di Cecilia Mangini Bibliografia essenziale

Caro Gianluca, del percorso che abbiamo intrapreso insieme non ti ho mai detto come io fossi arrivata all'inizio del millennio sconfortata e priva di speranze: se ripenso a quel capolinea del 31 dicembre 1999, tutti elettrizzati, tutti aî sette cieli, tutti testosteronici che neppure col Viagra, cheese cheese cheese un turbinare di sorrisi fotocopia, mi vitrovo sola e abbandonata come un'eroina di Cordelia. Î terribili Novanta si sono conclusi con i funerali del documentario, il killer è Walter Veltroni con la sua legge per il cinema. Per produrre un cortometraggio di fiction, che può rimpicciolirsi fino a durare solo 3 minuti, si possono ottenere anticipatamente sulla base della sceneggiatura sovvenzioni fino a 100 milioni di lire (oggi 51.645 euro); per il documentario, girato in pellicola e portato a termine interamente a spese proprie, i premi di qualità da 120 si sono ristretti a 20 l'anno e la cifra erogata sembra uno sghignazzo: 10.329 euro. Mi invitano al festival di Lussas in Francia: 8 sale cinematografiche, un'arena all'aperto, un teatro tenda, affollamento di bellissimi documentari da ogni angolo di Europa, non un documentario italiano, dicesi uno, in retrospettiva solo i miei con il commento di Pasolini, hanno chi 42, chi 40, chi 38 anni. Vivo di rabbia e di sorde imprecazioni. Poi a inizio 2000, doveva essere di primavera, arriva a casa mia un ragazzo che ba chiesto di incontrarmi per la sua tesi sui demartiniani: bo un balzo al cuore, ba l'accento molese di mio padre. Visione di VHS, approfondimenti, discussioni, parliamo anche di Lino che di documentari etnografici ne ha realizzati due,

parliamo a lungo, parliamo tanto, anche per e-mail. Mi propone un'intervista, che mi fa riflettere per la prima volta sul mio rappor to con la Puglia, sulle esperienze fondative dell'infanzia che sotto traccia vivono nei miei documentari. Sarà un segno del destino: non si dimentica di spedirmi la sua tesi. Apro quel pacco e sprofondo nel non tempo dei ricordi. Per via del titolo che detta Nelle Indie di quaggiù: gli incontri con Ernesto De Martino, i suoi libri divovati e discussi insieme a Lino, le nostre partenze per Stendalì, La passione del grano e L'inceppata, z0x riesco 4 rammentare in quale libro lui abbia fatto riferimento ai gesuiti del Seicento che si scrivevano l'un l'altro per segnalarsi a vicenda il nostro Sud, lo chiamavano las Indias de por acà per la poca differenza con las Indias de por allà, È wr #tolo, quello della tesi, che più demartiniano non si può. Scrive De Martino: «...anche l'etnografo moderno che, pur se con altro animo, ripercorre gli itinerari meridionali che già furono dei gesuiti non può e non deve sottrarsi alle domande che si rivolse Lèvy-Strauss durante la penosa sosta di Campos-Novos: "Qu'est-on venu faire ici? Dans quel espoir? A quelle fin?"», e così da quel titolo mi sono resa conto che Lino e io avevamo ripercorso gli stessi itinerari che De Martino aveva ripercorso a distanza di tre secoli dai primi itineranti gesuiti. Cosa eravamo andati a fare al Sud? Quel ragazzo lo spiega molto bene nella sua tesi e più tardi nel suo libro dallo stesso titolo così illuminante: a filmare «i depositi alluvionali lasciati in quelle terre dal millenario fluire delle civiltà [chel acquistavano ora particolare valore di testimonianze». Eravamo animati dalla stessa speranza, dallo stesso fine di De Martino: «l'utilizzazione dell'etnografia... come nuova dimensione conoscitiva della cosidetta "quistione meridionale». Utilizzazione dell'etnografia, non pratica devozionale. È arrivato il momento di svelare, ma forse tutti lo avranno già capito, che evi tu quel ragazzo molto deciso e a volte anche testardo nella sua ricerca. Mi arrampico sul tuo riferimento ai

nostri «dieci anni di frequentazioni, di incontri festivalieri, di serate passate fra racconti generosi e affascinanti proiezioni» per dire che quella tua tesi, benché sul momento né io né altri ce ne fossimo accorti, è stato il segnale di apertura a tante altre ricerche, il primo richiamo universitario a indagare sul documentario ita liano di metà anni Cinquanta e poi Sessanta e Settanta, via via accolto da una schiera di studenti e di studiosi. È vero che post hoc non vuol dire propter boc, lo so ma non mi condiziona, in questo caso post hoc è propter hoc. Infatti noi documentaristi non siamo più dei desaparecidos, a partire da quel mio lontano incontro del Duernila con un ragazzo, tale Gianluca Sciannameo, che ha fatto uscire noi lazzari dal sepolcro dell'oblio. Con affetto e riconoscenza, Cecilia

Introduzione Italia. Seconda metà degli anni Cinquanta. Non molti anni sono trascorsi dalla fine della Seconda guerra mondiale eppure le ferite e le distruzioni del conflitto sembra che inizino ad essere un ricordo. Il cambiamento è alle porte, si respira nell'aria, Il benessere sembra alla portata di tutti e gli spensierati anni del boom economico imminenti. Un fermento che investe tutta la penisola. Anche il Sud è in pieno movimento, si smantellano vecchie consuetudini, si occupano le terre, i contadini si ribellano alle antiche servitù, mentre preparano di nuovo le loro valigie di cartone per andare a fare gli operai al Nord. Qualcosa nel Mezzogiorno è cambiato, no? Sono pochi quelli che non si sono accontentati delle verità ufficiali, ma ci sono intellettuali

e artisti che non vogliono contribuire al racconto di una nuova società del benessere per tutti. E spesso scelgono il cinema per andare più a fondo sulle questioni, e per indagare quello che c'è dietro il miracolo economico. Di quella stagione così ricca di avvenimenti, tensioni, drammi, cambiamenti, ci rimane una preziosa testimonianza visiva grazie alla testardaggine di pochi cineasti. Tra questi una donna, Cecilia Mangini, a cui è dedicato questo lavoro, accanto alla quale vanno citati suo marito Lino Del Fra, Luigi Di Gianni, Giuseppe Ferrara, Gianfranco Mingozzi, Ermanno Olmi, Francesco Rosi e Vittorio De Seta. È grazie a loro che il documentario è in un certo senso sopravvissuto in Italia. Quella determinazione che consentì loro di essere, ciascuno a modo suo, testimoni di un mondo che scompariva velocemente sotto i colpi del progresso, inadeguato all'avanzata delle merci, all'industrializzazione del Paese, al mutare repentino di consolidati rapporti sociali (della cui scomparsa, per carità, non si ha, in molti casi, alcun rimpianto). Con convinzione e passione, questi registi diedero il loro contributo cinematografico all'esplorazione e alla conoscenza dell'Italia, ed oggi questo impegno inizia finalmente ad essere valutato con la giusta importanza, permettendo l'uscita da quella zona d'ombra in cui questi film erano stati relegati. Emerge perciò quello che un certo tipo di approccio al documentario ha realmente rappresentato per l'Italia: una riuscita combinazione fra desiderio di indagine, volontà di narrare con il cinema un Paese in trasformazione, partecipando, con autentica passione civile, ad un più generale processo di rinnovamento politico-culturale. Due sono le cifre che caratterizzano tutta l'opera di Cecilia Mangini: una sostanziale invisibilità, non cercata ma subita, e l'ostinazione della propria passione civile. Cecilia Mangini ha sempre considerato il cinema, al di là delle diverse forme che poi hanno caratterizzato le sue opere,

come possibilità concreta per favorire un risveglio delle coscienze, una presa di posizione nei confronti del mondo. Sempre ostinatamente libera, la regista pugliese ha vissuto il suo lavoro come una sfida costante non solo alla società, al conformismo, ma anche a quell'idea, ancora così forte in Italia, che il cinema fosse un territorio, soprattutto nella sua parte realizzativa, quasi esclusivamente "maschile". Indisponibile ad accettare quei compromessi che determinarono, nel giro di poco tempo, ia scomparsa del documentario dagli schermi italiani, e quindi relegata per molti anni in una colpevole dimenticanza. Oggetto di una sorta di oblio che ha coinvolto insieme a lei una generazione intera di documentaristi, il percorso creativo di Cecilia Mangini conserva intatto, a distanza di ormai trent'anni dal suo ultimo lavoro, il fascino discreto che con rinnovata intensità esercita su cineasti più giovani, su studiosi e appassionati e finalmente, attraverso numerose occasioni di proiezione, su un pubblico più ampio.

2 TI racconto del cinema di Cecilia è perciò il racconto di una battaglia politica e culturale affrontata con coraggio in anni che, soprattutto al cinema, furono tra i più vitali della nostra storia. Il ritratto di una sfida aperta e costante alla società nella convinzione chel cinema dovesse diventare il campo della propria lotta al conformismo delle idee e alla rassegnazione della politica. Ma quello del cinema della Mangini è anche il racconto della sconfitta di un'intera generazione di cineasti che vissero il documentario come possibilità concreta di essere parte attiva di un più gerierale processo di rinnovamento culturale e politico, condannando se stessi ad una condizione di marginalità nel panorama del mercato cinematografico. Una generazione che condivise, in una qualche maniera, gli stessi esiti del Neorealismo, non riuscendo ad opporsi a quella restaurazione

dello sguardo, funzionale al racconto di una realtà edulcorata, alla narrazione tutta italiana di un "progresso senza sviluppo". Un tentativo, in moltissimi casi riuscito, di ricondurre il cinema documentario nei più tranquilli territori della retorica, ma che di fatto comportò la scomparsa dagli schermi cinematografici (e televisivi) del documentario, nella generale disaffezione da parte del pubblico nei confronti del genere. La stessa Cecilia Mangini, durante una proiezione organizzata a Mola di Bari nel 2004, sottolineava con estrema amarezza come, al di là delle difficoltà produttive, dei sacrifici, della scarsità di mezzi, quello che pesava di più ai documentaristi in quegli anni fosse proprio l'impossibilità di incontrare, attraverso il proprio lavoto, un pubblico qualunque. Quell'occasione di visibilità, a distanza di anni dalla produzione dei documentari, suonava perciò anche come un tardivo risarcimento al suo lavoro di regista, innanzitutto . perché le permetteva di incontrare il suo pubblico. E a quella occasione fortunatamente ne sono seguite molte altre in questi ultimi anni. Quella sconfitta, infatti, si sta rivelando solo temporanea; si sono perse alcune battaglie certo, alcune scelte subite fanno ancora male, ma la sfida è ancora aperta. Il documentario ha ' 153

resistito, nei decenni scorsi, muovendosi nel sottosuolo del cinema italiano, nascosto ma vitale, rimanendo di fatto un territorio abitato da registi fieramente cocciuti. E così lo smacco subìto è, in un certo senso, lenito dal notevole interesse e dalla passione con cui oggi, studiosi, nuovi

autori e un pubblico crescente approcciano quelle opere, scoprendone intatta tutta la forza di una grande lezione non solo da un punto di vista artistico ed espressivo, ma anche nel continuare quella battaglia per difendere diritti acquisiti e conquistarne di nuovi, Un insegnamento sulla capacità di esprimere interesse e vicinanza alle vicende degli umili, degli emarginati, di quegli ignoti alla città rimasti indietro nella corsa al benessere. Oltre ad una grande consapevolezza e attenzione al discorso per immagini. Un'attenzione che non si configura come un tardivo risarcimento per l'oblio, ma che piuttosto sta a testimoniare l'attualità di un approccio al documentario, come è quello incarnato dalla Mangini. Il suo lavoro documentatistico, infatti, sa unire alla prossimità politica intesa come auspicata comunanza di intenti di un processo di liberazione, un rigore formale, una grandissima consapevolezza delle potenzialità e una estrema cura per l'inquadratura. Nel cinema di Cecilia Mangini coesistona, senza apparenti conflitti, quelle che lo storico francese Guy Gauthier individua come due vocazioni del cinema documentatio: da un lato la volontà di raccontare il mondo attraverso il cinema esplorandone le potenzialità espressive (il regista russo Dziga Vertov è il riferimento essenziale in questo senso), nell'impazienza di superare i limiti della macchina da presa, ripensando la stessa integrità del reale; dall'altro quella posizione, secondo alcuni opposta alla prima, che in qualche modo sembra più fedele allo scorrere degli avvenimenti, al suo ritmo (e qui il riferimento va ad un altro padre del genere documentario, Robert Flaherty). Proprio in quella che appare come un'esperienza cinematograficamente poetica, vissuta con intensità per tutta la propria vita, si spiega la capacità dei documen-

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tari di Cecilia Mangini di mantenere, a distanza di alcuni de- cenni; una propria forza. Le: pagine che seguono prendono perciò spunto dal fatto che, a distanza di trent'anni dai suoi ultimi film, l'opera di Cecilia Mangini vive un periodo di ampia e rinnovata attenzione. Se nei capitoli successivi ci occuperemo di collocare quest'opera nel contesto storico in cui venne realizzata, in questa introduzione possiamo mettere a fuoco almeno quattro motivazioni per spiegare l'interesse attuale per il cinema della Mangini. 1. Il documentario appare ancora oggi come il tettitorio in cui, svincolati dai budget milionari e dalla rigidità delle produzioni del cosiddetto cinema di finzione o romazzesco, è possibile ancora attuare una sperimentazione tematica e linguistica, quella possibilità di ritrovare annidati nel documentario, come scrive Marco Bertozzi nella sua storia del documentario italiano, gli anticorpi alle idee standard di cinema, «meno debitore alle esigenze dei grandi numeri e capace, piuttosto, di riflettere sul proprio destino nell'atto stesso di farsi»!. Un cinema in molti casi, e in questo Cecilia Mangini rappresenta un valido esempio, in grado di non adeguarsi passivamente agli stereotipi del genere, capace di interrogare la realtà e la sua rappresentazione cinematografica. La diffusione oggi capillare di tecnologie di ripresa molto economiche e di alta resa della qualità fotografica, ha per certi versi ri-attualizzato l'utopia di Cesare Zavattini che immaginava migliaia di talenti cimentarsi, in tutta la Penisola, nei cinegiornali liberi. Da un punto di vista tecnico, nella realizzazione si è di fatto azzerato il divario fra l'establishment televisivo e cinematografico e chiunque voglia utilizzare il video per comunicare. Il possesso di costose apparecchiature non è più necessario alla produzione di immagini in alta risoluzione. Se

a questo si aggiunge che il web rappresenta la possibilità con1 Bertozzi M., Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell'al- tro cinema, Marsilio, Venezia 2008. 15

creta di intercettare un pubblico planetario a costo zero, ecco che appare alla portata di tutti il sogno di comunicare il proprio punto di vista documentato sul reale. Se internet rappresenta, come molti studiosi ritengono, una rivoluzione paragonabile all'invenzione di Gutenberg e alla possibilità per tutti di stampare libri, il nocciolo della questione sta proprio nell'aver sottratto gli strumenti di produzione culturale ad un'élite e averli distribuiti a tutti. La spinta potentissima che il digitale ha rappresentato pet il documentario negli ultimi anni credo sia una valida testimonianza in questo senso. Ma non si tratta sola di uno svincolamento tecnologico o economico: il documentario è il territorio dell'incertezza, della rappresentazione della realtà non costruita sulle certezze granitiche del potere, ma sulla fra- gilità di chi esplora territori ancora sconosciuti, con la consapevolezza di non riuscire mai a controllarli del tutto. «I! noncontrollo del documentario appare come il requisito dell'invenzione, È la potenza reale del mondo che esplode attraverso di essavi. 2. Il documentario è ancora lo strumento attraverso cui è possibile tentare un intervento creativo sulla quotidianità e sui temi della convivenza civile. È possibile denunciare i problemi e proporre storie che contengono alcune possibili soluzioni, affrontandoli in "prima persona", senza però le granitiche certezze che invece caratterizzano il reportage. Nel documentario, infatti, le sicurezze dei grandi produttori di informazione globale si frantumano in un salutare e democratico accumulo di milioni di potenziali storie e sguardi sulla realtà. «A diffe- renza

delle logiche dell'informazione, che sono attuali, affermative e accumulative, le logiche del cinema sono piuttosto dubitative e sospensive, dalla parte dell'ambiguità, della dissimuè Comolli J.L., Vedere e Potere. Il cinema, il documentario e l'innocenza perduta, Donzelli, Roma 2006, p. 96. 16 lazione degli indizi, della messa in dubbio di dati e certezze: lavorano in differita, per sottrazione, per ritenzione di "informazioni", trascinano il loro spettatore in costruzioni nartative che obbediscono più a una drammaturgia dell'implicazione che a un compito di esplicazione»). E forse sta proprio in questo fronteggiare a viso aperto il rischio che contiene in sé il reale, in una dimensione più sospesa, meno protetta rispetto alla fiction o all'inchiesta giornalistica, che credo risieda il fascino discreto esercitato dal documentario. «Dubitare di tutto, forse, ma con convinzione», I documentari della Mangini, ne è testimonianza il grande interesse che oggi suscitano, conservano intatta una grande lezione per chi ha a cuore non solo il racconto del reale, ma la necessità stessa di essere partecipe della vita sociale, politica e culturale del proprio Paese. Il suo impegno, la sua appassionata volontà di essere non soltanto testimone degli eventi, ma parte attiva di un processo di cambiamento, ne fanno a tutt'oggi un riuscito esempio, pet ditla alla Ives, di documentarista militante. Anche se oggi probabilmente quel legame mai interrotto di Cecilia Mangini con il proprio Sud rischierebbe di non essere più sufficiente a "filmare" quello che fu, in un certo senso, il suo ritorno alle origini, data la necessità di elaborare strumenti più raffinati per affrontare la complessità di una rinnovata questione meridionale, l'opera della Mangini è senza dubbio una lezione di libertà del pensiero, che in un momento storico come quello che oggi viviamo, ricorda a tutti la responsabilità degli intellettuali rispetto ai problemi del proprio tempo. I film di Cecilia Mangini richiedono poi un costante

coinvolgimento emotivo ed intellettuale allo spettatore, chiamato ad un intervento critico di interpretazione degli eventi rac- contati da una posizione che, a sua volta, non è mai neutrale. I contenuti non si impongono in maniera univoca, il documentario non si esaurisce nella descrizione ma, e in questo c'è, a Ivi, p. 4. 4 Ivi, p. 86. 17 mio avviso, tutta la grandissima distanza che 'separa il documentario cinematografico dal reportage giornalistico, lascia spazio alle possibilità di coinvolgimento emotivo dello spettatore, al quale è richiesta una condivisione profonda, direi sentimentale, non solo delle informazioni trasmesse, ma del clima culturale e politico in cui sono state realizzate. Il documentario non si rivolge alla nostra sensibilità estetica, ma richiede a chi guarda lo sforzo di attivare la propria coscienza sociale, la propria sensibilità e i propri desideri. _ A quella moltiplicazione degli sguardi sul mondo, che gli attuali strumenti di comunicazione offrono a costi ridottissimi, il documentario aggiunge, per chi lo pratica, la possibilità di relazionarsi con il mondo in prima persona, non solo da spet- tatore. Le parole di uno dei protagonisti del documentario di oggi credo rendano molto bene questa possibilità. Scrive infatii Egk Gandini che «la frammentazione delle informazioni, il bombardamento dei telegiornali ci allontana dalla realtà quanto più ci fornisce lillusione di conoscerla. Google ti informa, ma certo non ti offre l'esperienza del mondo. Questa professione ri ha permesso la riconquista della realtà: se non facessi questo lavoro mi sembrerebbe di vivere la vita secondo le immagini di altri, esperienze surrogate. Pare i documentari è ancora più bello che guardarli». 3. Il documentario è il luogo in cui è possibile vivere cinematograficamente quell'affascinante contatto con l'altro da 56, quella

relazione che determina fortemente la stessa possibilità che il dato documentario esista, che infiamma di passione il documentatista, il quale accetta di mettere in crisi innanzitutto se stesso nella relazione che avviene per il tramite della macchina da presa e che interessa al pubblico che ne segue lo svolgimento. È il cinema che diventa tramzite per fa costruzione 4 Erik Gandini in un articolo apparso su da Repubblica» del 28 agosto 2010. 18

di una relazione, un incontro che si fa nella vita prima ancora che sullo schermo, mettendo in gioco e rischiando direttamente anche ia propria identità, le proprie convinzioni. Penso a Pier Paolo Pasolini in giro per l'Italia a costruire i suoi Corzizi d'amore. Penso ai protagonisti di Chronigue d'un été, sconosciuti gli uni agli altri prima di diventare "attori" della propria vita. 4. 1 documentari di Cecilia Mangini continuano a parlare di noi, a noi stessi, In essi è possibile riconoscere il luogo, non solo geografico, da cui proveniamo. E questa è un'affermazione che faccio da meridionale. Un vero e proprio luogo dell'anima, un'Italia fatta di persone e luoghi che il tempo non è riuscito a cancellare, della speranza e della testarda passione di chi voleva un futuro migliore, partendo dalla possibilità di cambiare il presente. Non ci sono, in queste pellicole dai colori saturi, solo preziose informazioni o tesi intelligenti a cui le immagini offrono un supporto conoscitivo e di cui rappresentano la testimonianza oggettiva (e perciò affidabile). I film di Cecilia non limitano la loro portata ad essere un canale di buone informazioni, non illustrano dati o analisi ben ponderate su una

società cronologicamente ormai lontana, ma riescono a creare un affresco, un quadro di insieme che è il ritratto non di un solo problema scottante, ma di un'intera società. Lo schermo racconta quella frattura che, dal cosiddetto boom economico in poi, si è venuta a creare fra due Italie: quella arcaica, contadina, popolare, erede suo malgrado di un mondo destinato a scomparire rapidamente, e quella scintillante della società dei consumi, dell'industrializzazione, della cementificazione selvaggia del territorio, delle grandi e desolate periferie urbane. Due mondi che rapidissimamente si stavano distanziando e che sono destinati a reincontrarsi ormai solo sullo schermo, nelle immagini di una generazione di documentaristi-testimoni-protagonisti di una stagione decisiva per il nostro cinema. La regista pugliese è riuscita nella non scontata impresa di scavalcare lo schermo, portando alla nce l'essenza di un'epoca, al di là dei 19

numeri e della statistiche. È così che nasce lo stupore di chi assiste alla vitalità di un mondo ormai scomparso e si accende l'emozione di ritrovarlo tanto vicino a noi. Come già accennato, questo lavoro di indagine dell'opera di Cecilia Mangini ha il suo avvio nell'individuazione di alcune "eredità culturali? di cui la regista è portatrice e del clima culturale in cui la sua carriera prende avvio e si sviluppa. Nel documentario di Davide Barletti credo emerga tutta la personalità di Cecilia Mangini, attraverso il racconto diretto di una

vita spesa al cinema e per il cinema (e proprio perché questo saggio viene pubblicato insieme al documentario, abbiamo volutamente evitato di dare un taglio strettamente autobiografico al nostro lavoro); l'utilità di queste pagine potrebbe risiedere nel collocare l'opera della regista all'interno di alcune delle principali esperienze culturali che l'hanno influenzata assieme alle personalità di spicco con cui ha collaborato. L'opera di Cecilia Mangini si colloca in un periodo particolarmente fecondo per il cinema documentario, pur se caratterizzato da una serie di difficoltà di cui ci occuperemo in seguito, anche in stretta relazione con altri cineasti italiani a lei contemporanei (per esempio, quelli appartenenti al cosiddetto gruppo dei "demartiniani"). Pur non formando una "scuola" del documentario, nella singolarità di approcci e poetiche, questo gruppo di registi testardi consentì di salvare il genere documentario in Tralia dalla mediocrità e dalla sciatteria a cui lo costringevano logiche di profitto e di potere politico. n Nella prima parte di questo saggio proveremo quindi ad investigare due particolari temi: innanzitutto influenza del Neorealismo su quella generazione a cui appartiene Ja Mangini, che scelse il documentario non solo come palestra per preparare il proprio ingresso nel cinema di finzione. Un ristretto numero di documentaristi raccolse infatti quella "sfida" neorealista, così significativa ma di così breve durata, riattualizzandone, alcuni anni dopo, le istanze di rinnovamento soprattutto nella relazio-

20 ne cinematografica con il reale. Una continuità ideologica ed espressiva che verrà rivitalizzata soprattutto în alcuni sotto generi del documentario, primo fra tutti quelli di ispirazione antropologica. È per questo che, successivamente, prenderemo in esame fa relazione intellettuale di Cecilia Mangini con le opere e la personalità dell'antropologo Ernesto De Martino (ma

anche di Carlo Levi, Antonio Gramsci, Pier Paolo Pasolini). La Mangini appartiene infatti ad un gruppo di registi che, anche sulla spinta degli studi meridionali di De Martino, esordì al cinema realizzando quelli che da molti studiosi vengono considerati come i primi esempi di relazione proficua, in Italia, fra cinema e antropologia. Anche se successivamente l'opera di Cecilia Mangini si discosterà dai temi strettamente etnografici (oltre al suo Stendalì, di cui ci occuperemo dettagliatamente, la Mangini ha realizzato insieme al marito Lino Del Fra altri due documentari demartiniani: La Passione del grano e L'inceppata), la persistenza di questa proficua relazione si manifesterà nell'interesse mai venuto meno di Cecilia Mangini per il cosiddetto cinema dell'uomo, cioè quella modalità di racconto della realtà che ha nella relazione con le donne e gli uomini del proprio tempo il terreno principale di produzione. Nella seconda parte di questo saggio, infine, analizzeremo criticamente alcuni dei film documentari realizzati dalla Mangini nel corso della sua carriera, scelti fra quelli realizzati nel Meridione d'Italia o che con il Meridione ebbero in qualche modo un legame produttivo. L'idea di fondo di questa seconda parte, è quella per cui il documentario è considerato come luogo dell'emersione, anche traumatica, di quella frammentarietà e di quei limiti nella relazione con il mondo. Per dirla con JeanLouis Comolli, superata l'ingenua percezione che della realtà il cinema sia lo specchio fedele, si accetta la condizione per cui non si può vedere 24/70 e non si può vedere #itto insieme. Sguardo parziale, per produrre emozioni e racconto, questa dispersione di elementi necessita perciò di una vera e propria riorganizzazione, di una ricostruzione cinematografica che sap21

pia congiungere corpi, parole, luoghi, movimenti e tempi, E questo al documentario sembra riuscire meglio che ad altre forme espressive. E prima di procedere, vorrei fare alcune precisazioni. Innanzitutto, al di là della scelta operata in questa occasione, privilegiando nella nostra analisi i documentari meridionali della Mangini, tutta la carriera della regista dimostra un suo legame indissolubile, per temi e modalità stesse di approccio al cinema, con fl Sud. In una relazione costante mediata non solo dalla sua personale esperienza di vita, ma anche da alcuni incontri significativi come quello con l'etnologo Ernesto De Martino, € al l'interno di un più generale contesto storico in cui il Meridione occupava un posto di primo piano nel dibattito politico e culturale. Di fatto parlare dei documentari " pugliesi" di Cecilia Mangini significa parlare del cinema meridionale, e del cinema tout court della regista. La seconda precisazione è che tutta l'opera della Mangini si accompagna a quella del marito Lino Del Fra con il quale ha condiviso sul campo il proprio lavoro di cineasta elo sguardo stesso sulla realtà. Questa relazione, pur non sempre esplicitata nel testo, rappresenta una costante che non può essere dimen- ticata nell'indagine del lavoro di Cecilia Mangini. La terza e ultima è che, nel testo, mi capiterà spesso di riferirmi alla Mangini chiamandola semplicemente Cecilia: è la "conseguenza" di dieci anni di frequentazioni, di incontri festivalieri, di serate passate fra racconti generosi e affascinanti proiezioni. Nonché di sincera ammirazione e affetto da parte inia. Questo libro vale come ringraziamento innanzitutto a lei. AI tempo stesso, vorrei aggiungerne uno doveroso al direttore di Teca del Mediterraneo, Waldemaro Morgese, e Maria Abenante, bibliotecaria di Teca, che hanno voluto e lavorato

affinché questo libro e il documentario di Davide Barletti fossero realizzati.

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Vorrei dedicare infine questo lavoro, ai miei genitori, che hanno rappresentato per me il porto sicuro da cui poter partire; a Donatella e Antonio, compagni di un nuovo e appassionante percorso; e alla mia Manuela, ragione e desiderio per i viaggi di oggi e di domani. 23

Capitolo primo 1.1 Il Neorealismo e la sua eredità Queste immagini parlano di un mondo ormai Scomparso, E non è solo il mondo del levoro artigianale, quello dell'arte di arrangiarsi e della miseria quotidiana, ma è anche il mondo in cui, nonostante le censure e l'oppressione, si lottava per un futuro migliore!

Con la tragedia della Seconda guerra mondiale anche il cinema italiano si risvegliava traumaticamente da un torpore durato vent'anni. Due decenni oscuri, in cui lo schermo cinematogra- fico era diventato il riflesso di un Paese imprigionato nelle strette stanze del conformismo di regime, senza alcuno spazio per il racconto della vita reale di ampie fasce della popolazione. Il cinema eta stata l'arma più raffinata di una complessa macchina propagandistica e si capisce bene come non ci fosse nessuna possibilità di sfuggire all'asfissiante controllo degli apparati di censura. In questo senso la realtà era percepita come una pericolosa zona dove si annidava insofferenza, disagio e drammi sociali che dovevano essere rimossi e sostituiti dal trionfalistico racconto delle meraviglie di regime. Lo scrittore . Vincenzo Consolo raccontà questo significativo episodio, che rende molto bene quanto stretto fosse l'ambito di azione per registi e scrittori: 1 Grasso M. - Vannini A., Firenze di Pratolini, Kurumuny, Calimera 2007, p. 27. 25 «In Sicilia, nel '39, volendo il regime risolvere l'antica questione agraria, attuò quel battagliero programma che andò sotto il nome di Assalto al latifondo (subito sfociato in un clamoroso fallimento), Commissionò a fini propagandistici, un film sulla riforma i cui autori avrebbero dovuto essere lo scrittore Nino Savarese e il regista Giacomo Pozzo Bellini [autore, tra l'altro, di quello che viene considerato il primo film "antropologico " italiano, Il pianto delle zitelle, del 1935, NdA.]. Compiuti sopralluoghi, scattate fotografie, i due spedirono a Roma una sceneggiatura e una documentazione sulle reali condizioni dei contadini, Gli autori vennero naturalmente esonerati dall'inca- rico e il film non fu mai realizzato».

È con la guerra che questo controllo totalitario inizia a sfaldarsi, consentendo la produzione di film in cui Pumanità ricomincia a riprendersi quello spazio negato, anche se è con il movimento di Liberazione e l'Antifascismo che si creano finalmente spazi inediti e ampi in cui poter proporre, anche al grande pubblico, una nuova capacità dell'arte cinematografica di raccontare la vita. «Con Rossellini e poi De Sica-Zavattini si riparte da zero: ciò significa recuperare la verginità dello sguardo e una capacità di riscoprire il mondo come se lo si guardasse per la prima volta, come se fosse la realtà a guidare lo sguardo della macchina da presa e a imporre la sua verità». . Si delinea un movimento culturale e politico che investe rutti i campi dell'espressione artistica e che, pur in una certa frammentarietà di stili, evidenzia nel ritorno alla realtà la sua istanza principale. Un movimento che si nutre di un nuovo modo di guardare il mondo, consapevole da un lato del falli mento della vecchia classe governante e quindi della necessità

2 Vincenzo Consolo in Rais A. (a cura di), I/ cinema di Vittorio De Seta, Maimone, Catania 1995, p. 27. D , > Brunetta GP, I/ cinema neorealista italiano. "Da Roma città aperta" a "I soliti ignoti", Laterza, Bari-Roma 2009, p. 104, p. VI 26

di un suo profondo rinnovamento e, dall'altro, dell'inedita presenza sulla scena delle masse popolati, portatrici di rinnovate necessità espressive. Se si voleva ricostruire il Paese dando concretezza ad un movimento che molti auspicavano potesse essere autenticamente rivoluzionario e non solo culturale, si doveva in qualche modo ripartire dalla narrazione di quello che c'era, dalla scoperta di un'Italia reale, con le sue miserie e le sue arretratezze, le rovine materiali e i traumi collettivi'. Il cinema si riappropria della sua materia primordiale, l'immagine del quotidiano circostante, rimosso o mascherato per due decenni dalla dittatura e umiliato dalle distruzioni della guerra, sulla scorta di una rinnovata necessità di un racconto oggettivo e degno di fiducia da parte degli spettatori, In una rappresentazione anti-retorica, si mette in scena il momento di crisi e al tempo stesso di grande speranza che l'Italia stava attraversando. 1 registi, forti di questa consapevolezza, si approcciano perciò nuovamente all'Italia e agli Traliani come di fronte ad un ter ritorio inesplorato, che da tempo aspettava di essere raccontato, un patrimonio culturale e sociale che la guerra aveva tragica- mente liberato dinanzi allo sguardo della macchina da presa. «Futurismo, Metafisica, Surrealismo, dimestichezza con i movimenti letterari e musicali d'avanguardia avevano preparato il terreno, e il Neorealismo era dunque il frutto d'una ibridazione esplosiva, di cui anche i giovanissimi subivano il fascino». Il Neorealismo cinematografico rappresenta poi un radicale ripensamento, una generosa proposta di rinnovamento, non solo dei contenuti artistici, ma delle stesse modalità realizzative e soprattutto del rapporto fra lo schermo e quella materia affascinante e controversa che è la realtà. Il cinema italiano visse un concreto svecchiamento dello sguardo, una ritrovata capa4 Cfr. Salinari C., Profilo storico della letteratura italiana, Vol, II, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 315-6. 3 Lizzani C., Il aei0 lungo viaggio nel secolo breve, Einaudi, Torino

2007, p. 94. 27 mancano proprio di verità e di spontaneità e appaiono alla lunga per quello che sono; semplici acrobazie celebrali»". In questo clima, gli esiti realizzativi del Neorealismo, anche in termini banalmente numerici, non riescono ad essere alPaltezza delle aspettative teoriche e del dibattito critico che si sviluppa intorno alla questione del realismo cinematografico. In particolare proprio le idee di Zavattini, che auspicava un cinema spontaneo, improvvisato, "rubato alla realtà" come condizione di assoluta aderenza a quest'ultima, in cui il quotidiano si sostituiva all'evento eccezionale, non troveranno mai piena realizzazione. Miracolo a Milano (1951), Umberto D (1952) di De Sica, Bellissima (1951) di Visconti e Due soldi di speranza (1952) di Castellani, possono perciò essere considerati come le ultime opere di quel movimento di rinnovamento, tanto ampio quanto di breve durata? E ciò non solo per tutta una serie di necessari compromessi narrativi, ma anche per gli impedimenti produttivi messi in atto da un'industria cinematografica ancora troppo fragile e condizionabile. Negli anni successivi, infatti, agli attacchi in difesa della morale pubblica, si affiancano una serie di attacchi che investono la sfera produttiva. La prima pagina del «Messaggero» del 20 marzo 1954 credo renda bene il clima in cui si trovava immersa la cinematografia italiana, riportando non solo la denuncia governativa di un cinema colpevolmente dominato dalla sinistra, ma preannunciando anche quell'azione di "normalizzazione" del cinema che stava per essere attuata in ambienti governativi: «I quadri del cinema italiano sono costituiti in buona parte da comunisti. Su quattordici principali registi cinematografici,

quattro sono dichiaratamente comunisti, e cioè Visconti,

? Brunetta G.P,, Storia del cinema italiano. Dal Neorealismo al miracolo economico, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 106. # Cfr, Miccichè L., Cimena italiano: gli anni 60 e oltre, Marsilio, Venezia 1995, pp. 31-2. 30

Monicelli, De Santis e Lizzani, mentre altri quattro, ossia De Sica, Germi, Lattuada e Antonioni, sono simpatizzanti per i partiti di estrema sinistra». _ Il governo minaccia perciò misure concrete, indagini, per individuare le fonti di finanziamento che sostengono le casse del PCI, anche in ambito cinematografico, al fine di contrastarne la presunta capacità di influenzare la vita culturale italiana?. Anche perché, nel frattempo, era stata avviata una generale ristrutturazione del sistema industriale cinematografico, vista pure la crescita progressiva del consumo cinematografico, che presupponeva nuovi strumenti di controllo da parte dei produttori e dello Stato che, distribuendo con generosità sostegno economico ad un settore ancora fragile, e presidiando i ruoli chiave nell'apparato statale, si assicurava il controllo dei meccanismi di produzione intellettuale, «emarginando in maniera inesorabile tutti quei film nei confronti dei quali esistono a priori veti o riserve ideologiche»!°, Le elezioni del 1948, in cui alla collaborazione fra le forze politiche si sostituisce un fortissimo scontro ideologico e un clima da guerra fredda, possono

essere considerate un vero punto di svolta, con conseguenze significative anche nel settore cinematografico. Il meccanismo di assegnazione dei premi di qualità, quello per la concessione agevolata di mutui e prestiti ai produttori, l'esclusione dai posti dirigenziali di personaggi politicamente scomodi, sono gli strumenti con cui il governo della Democrazia Cristiana punta non tanto a mettere a tacere il cinema italiano, ma a indirizzarlo verso un registro ideologico che possiamo definire non problematico. Proprio a proposito di Uberto D, è utile rileggere quello che Giulio Andreotti, già dal 1947 sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al cinema!!, scriveva su «Libertas», il 28 febbraio 1952 «Se è vero che il male si può ? Lizzani C., op. cît., pp. 99-100. 1° Brunetta G.P, op. cit., p. 37. 1! Nel 1949 viene emanata a suo nome la legge sul cinema. 3I

combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che nel mondo si sarà indotti — erroneamente — a ritenere che quella di Umberto D è l'Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria»!2, Certo, con un Decreto Legislativo, già nel 1945 era stata abolita la censura preventiva fascista, ma di fatto continuano ad esistere almeno due tipologie utili a ridurre, all'occasione, i registi al silenzio: «il visto di censura vero e proprio, e, 2 seconda della legge in vigore, l'esclusione dalla programmazione obbligatoria o dal premio di qualità. L'esclusione va letta come una punizione economica esemplare per dissuadere una volta per tutte il produttore a realizzare documentari tematicamente invisi»",

Forse il limite più grande degli autori neorealisti fu proprio il ritenere che i loro prodotti, frutto di pratiche per certi versi artigianali, potessero realmente essere indipendenti dalle logiche della produzione industriale e della domanda-offerta che contemporaneamente stavano ristrutturandosi. Proprio su quelle si esercitarono invece tutte le potenzialità censorie di un apparato statale deciso a riprendere strategicamente il controllo della produzione e della distribuzione cinematografica, attraverso forme di censura morbida, che era lo stesso mercato a mettere in atto. Ed è così che «il lavoro culturale diventa una sorta di apostolato volontaristico senza mai alcun tipo di contatto con il "palazzo" e le "stanze dei bottoni". La libertà culturale, la difesa di una propria identità viene pagata a caro prezzo dagli 12 La citazione di Andreotti è tratta da Noto P. - Pitassio E, op. dh. p. 21. Impossibile resistere a fare un iriste paragone con le recenti dichiarazioni, in cui un altro presidente del Consiglio indica nel libro di Roberto Saviano, Gomorra, un caso di danneggiamento dell'immagine dell'Italia all'estero. Evidentemente a qualcuno i panni sporchi fanno ancora paura e sarebbe più semplice nasconderli, senza neanche prendersi la briga di "lavarli in famiglia". 3 Intervista a Cecilia Mangini, Sciannameo G., Nelle Indie di quaggiù. Ernesto De Martino e il cinema etnografico italiano, Palomar, Bari 2006, p. 147. 32 uomini del cinema. Registi, critici e intellettuali godranno di un notevole prestigio, ma anche di un forte isolamento e saranno oggetto di attacchi concentrici per diminuirne, con ogni mezzo il potere».

Se infatti è costantemente discusso sulle riviste e promosso negli ambienti culturali un progetto di cinerza r40v0, altrettanto impegno non viene profuso nell'elaborazione e nell'attuazione di prassi produttive realmente innovative, facendo sì che opere innovative dal punto di vista estetico-narrativo non lo fossero poi nei modelli produttivi adottati, in una sorta di rimozione degli aspetti di tipo economico connessi al lavoto autotiale. Tanto che «il comunista De Santis è il regista che può girare il successo planetario di Riso 7470, ma ha bisogno del capitalista Gualino [fondatore della LUX Film, la casa di produzione più attiva negli anni del Neorealismo e che, più di tutte, aveva adottato un modello di produzione hollywoodiano, N.4.A.] per finanziarlo e distribuirlo»!). Un'esigenza di rinnovamento che invece era stata espressa già da Cesare Zavattini, teologo del Neorealismo, il quale riteneva necessaria l'assunzione da parte dei registi di una responsabilità anche imprenditoriale, al fine di promuovere, senza l'intermediazione di produttori provenienti dal mondo della speculazione finanziaria, quell'esigenza di rinnovamento di contenuti e linguaggio!" Scorrendo le classifiche degli incassi del decennio 1945-55 si ha il quadro impietoso dell'incapacità del cinema neorealista di realizzare quell'ambizione di diventare un cinema "maggioritario", capace di rivolgersi alle masse con proposte autenticamente popolari e non condannandosi al ruolo di ar: stocrazia culturale. Tranne che in rari casi, come con Roma città aperta, primo film negli incassi della stagione 1945-46, negli

* Brunetta G.P., op. at. p. 48. Noto P. - Pitassio E, op, cif., p. 51. ' Ck Zavattini C., IZ Cinema (1947), ora in Opere. Cinema (a cura di Argentieri M., e Fortichiari V.), Bompiani, Milano 2002.

33 anni successivi, a rappresentare un'attrattiva altissima nel pubblico sono piuttosto film come Agile nera di Riccardo Freda, Catene, Figli di nessuno e Tormento di Raffaello Matarazzo, I pompieri di Viggiù di Mario Mattoli, fino al boom di Pare amore e fantasia di Luigi Comencini!", Questa ambiziosa saldatura fra un rapporto inedito con il reale e il rinnovamento delle modalità produttive rimase dun- que una posizione tutto sommato minoritatia, mentre il cinema italiano ritornava, nel giro di pochissimo tempo, a tessere, con le dovute eccezioni naturalmente, la rappresentazione di una realtà rassicurante, priva di quelle tensioni sociali che per certi versi avevano rappresentato la linfa vitale di un reale cambiamento. «Il cinema della speranza fonda il cinema della rassegnazione e non dissimilmente che altrove, la politica della ricostruzione diventa, anche nel cinema, pratica della restaurazione»!8. È il momento in cui si assiste, con rammarico ma anche con un certo senso di impotenza da parte di molti, al trionfo del cosiddetto Neorealiszo rosa (0 anche neorealismo d'appendice, o commedia neorealista). Con il cinema si torna ad addomesticare quella materia pericolosa e difficile da gestire che è la realtà, sull'onda del fatto che la «smarrita fiducia nella possibilità immediata di mutare il mondo non fu sostituita da nuove prospettive, da un diverso impegno, da analisi correttamente adeguate alla situazione. [.. J Per questo accadde che il toxo neorealistico, quando non si cristallizzà in meaziera, si piegò riduttivamente in bozzetto, mentre i pochi che ancora lo adottavano non inquinandolo (cioè non

1 Questi i dati di quelli principali: Peisà, nono classificato nella stagione °46/47; In nome della legge, texzo, Ladri di biciclette, undicesimo, in quella *48/49; Riso amaro, quinto in quella '49/50, Cfr. Miccichè L., Per una veri- fica... cit, p. 166. 18 Micciché L., «Dal Neorealismo al cinema del centrismo», in Cimena italiano degli anni cinquanta, a cura di G. T'inazzi, Marsilio, Venezia 1979, p.31. 34

adattandolo si tempi) riuscivano soltanto a denunciare, nelle carenze estetiche dei prodotti, lo scarso convincimento di una "poetica" che non aveva più una salda e credibile "etica"»!9. Aver definito la serie di Pane amore e..., diretta da Luigi Comencini, e poi da Dino Risi, come la "tomba del neorealismo", considerato da molti critici come il triste emblema di un ritorno a forme comico-sentimentali semplicistiche e accomodanti, rischia però di rivelarsi oggi un giudizio troppo severo, trasformando quei film in una sorta cli capro espiatorio. Una severità che non tiene fondamentalmente conto del fatto che il movimento neorealista aveva già mostrato tutti i segni del proprio sfaldamento, perdendo su vari fronti le sue numerose battaglie culturali, con la conseguente diaspora dei suoi autori, e soprattutto subendo, come abbiamo visto, durissimi ed economicamente concreti, veti governativi. Paradossalmente poi, con la serie di Pare amore e... o quella di Poveri ma belli l'immaginario neorealista arrivava finalmente alle masse, anche se depurato dalle sue istanze di rinnovamento e di denuncia, riducendo l'ispirazione popolare a puro bozzetto.

«Dove cioè il neorealismo fallisce, vince invece quella sua forma bastarda che pure è il sinonimo principale e più appariscente del suo fallimento. Naturalmente, ia sconfitta del vecchio cinema, più che una sostituzione (culturale) è una successione (industriale), in questo del tutto omologa a quanto andava verificandosi nella società civile. Come poteva d'altronde non corrispondere alla pratica politica dell'ottundimento una pratica cinematografica che non fosse anch'essa grigiamente, e magari financo allegramente, ottusa? [..:] Il cineina dell'illusione, cioè il neorealismo, aveva (de)generato il cinema della restaurazione»?, Un film come Pane, amore e fantasia di Comencini, come lo stesso autore dichiarerà in più occasioni, rappre19 Miccichè L., Cinema italiano: gli anni '60 e oltre, cit., p. 35. 2 Id., Per una verifica del neorealismo, «cit., p. 167. 35 senta non tanto una «pugnalata alla schiena del neorealismo»?!, quante piuttosto può essere considerato la cartina di tornasole di una tendenza del pubblico ad allontanarsi da opere che non riuscirono a tradurre in pieno quel rinnovamento auspicato. Il Neorealismo può perciò essere considerato come una proposta ambiziosa e genuinamente trasgressiva (nei suoi episodi migliori), che rimase però ristretta in un ambito produttivamente limitato da un punto di vista numerico, «anche se culturalmente vistoso. La restaurazione moderata non fece che accelerare il processo di emarginazione, giocando, non tanto, o non soltanto, sui meccanismi direttamente repressivi di cui disponeva, quanto sulla stessa reazione di rigetto di un "mercato", cioè di una "società" trasformata in "mercato", dove al di là dei parametri esterni, poco era cambiato e che continuava, quindi, ad amare gli stessi cantastorie — e le stesse storie — che l'avevano deliziata negli anni del fascismo prima del ciclone della guerra».

Certo è che i problemi della miseria e del sottosviluppo, le tensioni sociali, gli inediti rapporti economici, così centrali nelle opere precedenti, vengono irrimediabilmente addolciti adesso dai toni della commedia degli equivoci e le campagne si ripopolano di personaggi che non sono portatori di istanze di rinnovamento, ma che si rivolgono agli spettatori con i meccanismi più semplici della commedia, attraverso «centinaia di film dominati dal dialetto, dall'esterno, dal vero, dai bulli e dai fusti, dalle bellezze piccole e grandi. Film vocianti e ridanciani, carichi di straccetti neorealistici e di forme provocanti, di urla e doppi sensi». A prevalere successivamente, e a determinare le nuove tendenze per il cinema nostrano, in quella che Gian Piero 2 Cfr, Fofi G. - Faldini E (a cura di), L'avventurosa storia del cinema italiano. Raccontata dai suoi protagonisti (1935-1959), Feltrinelli, Milano 1979, pp. 343-4, 2 Miccichè L., Per una verifica del neorealismo, cit, p. 167. 2 Lizzani C., Il cinema italiano 1895-1979, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 152. 36

Brunetta ha definito come la «dissoluzione del corpo neorealista», sono gli interessi di botteghino o le singole personalità creative attorno a cui si registrano raggruppamenti eterogenei di autori, piuttosto che movimenti e correnti culturali di più ampia por tata. E così la cinematografia nazionale si frammenta in molteplici rivoli, riportando in piena luce quella pluralità di generi (già espressa dal cinema degli anni Trenta?) che lo stesso

neorealismo conteneva in sé. Così, pur continuando a rappresentare un patrimonio culturale vivo, utile strumento di comprensione del presente, quella italiana, a differenza di altre cinematografie, non sarà più capace di esprimere 'una "scuola" mazionale, riconoscibile e riconosciuta. E il documentario? Il documentario segue in quegli anni sostanzialmente lo stesso percorso del lungometraggio neorealista. Pur mantenendo con questi una certa contiguità da un punto di vista formale ed estetico, già dal dopoguerra e per circa un decennio, la maggior parte degli autori di documentari modificano rapidamente i propri temi d'indagine e le scelte stilistiche prevalenti, conformandosi sostanzialmente all'ideologia dominante. «In grande maggioranza i documentatisti sono i commessi viaggiatori più docili ed efficienti della volontà governativa, o comunque sanno mettersi al servizio dei diversi committenti»?. Paradossalmente anzi quell'istanza di verità è presente soprattutto nei primi lungometraggi neorealisti di finzione, piuttosto che nei documentari ancora troppo ancorati da un punto di vista estetico e di contenuti all'insegnamento della produzione LUCE. # Cir Aa.Vv., Prima della rivoluzione. Schermi italiani 1960-1969, Marsilio, Venezia 1989, in cui l'analisi della produzione cinematografica degli anni Cinquanta rende benissimo il proliferare di generi e sottogeneri. 2 Brunetta G.P., I/ cinema neorealista italiano, cit., p. 102. 37 La possibile realtà raccontata dal documentario sembra ancora potenzialmente pericolosa e probabilmente l'Italia dei primi anni '50 non può accettare il racconto del Paese reale, tanto che, secondo il regista Carlo Lizzani protagonista di quella stagione, uno dei fenomeni più clamorosi del dopoguerra è proprio la scarsa partecipazione del documentario al movimento di rina-

scita del cinema italiano, «alle lotte, alle battaglie, alle polemiche che i registi "a lungo metraggio" hanno saputo suscitare, promuovere in Italia e in campo internazionale». In questo panorama si inserisce un'ampia e rinnovata produzione di documentari, a partire da quelli diciamo governativi (dai numerosissimi film che illustravano in termini sempre elogiativi le azioni del Piano Marshall, nell'immediato dopo- guetra, fino a quelli realizzati dal Centro di documentazione della Presidenza del Consiglio, struttura creata da De Gasperi nel 1951 con l'obbiettivo di informare direttamente la popolazione sulla ripresa economica e sulle azioni del governo, anche riutilizzando le strutture e le maestranze dell'Istituto Luce) che naturalmente non hanno alcun desiderio di esprimere posizioni critiche nei confronti delle politiche di ticostruzione. Passando per quelli realizzati direttamente dai grandi gruppi industriali, che però «non parlano quasi mai degli uomini, quasi sempre delle macchine. I film prodotti dalla Edisonvolta e da Farmitalia, dalla Fiat e dalla Carlo Erba, dall'Ilva e dall'Eni promettono paradisi molto terreni, bonifiche di nature maligne a favore di incantate modernità tecnologiche. La promessa di un avvenire radioso campeggia sugli stendardi di un'Italia che vive il passato come colpa, il presente come redenzione e il futuro come salvezza: "industrializzazione" è la parola magica". Fino all'altrettanto ampia produzione de La Settimana Incom che, a partire dal 1949, distribuisce centinaia di brevi 2 Lizzani C., in Bertozzi M., Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell'altro cinema, Marsilio, Venezia 2008, p. 105. 9 Bertozzi M., op. cît., p. 130. 38

raccolte di cinegiornali, da proiettare prima dei lungometraggi di finzione, che restituiscono i «frammenti di un paesaggio multiforme, punteggiato di vistose simpatie e di altrettante vistose assenze: ci dicono per esempio di un'Italia nobile e di un'Italia dignitosamente povera, ma sorvolano sull'Italia stracciona che pure popola le periferie del dopoguerra. Sono racconti straordinariamente eloquenti per ciò che dicono e per ciò che tacciono», utili al racconto delle politiche di intervento nel Meridione, ambito in cui si alternano opere che esaltano il progresso e il cambiamento (senza dubbio auspicabile) ed altre invece che tentano un racconto diverso di un Sud che viveva in quegli anni un periodo di estrema mobilitazione sociale, in cui la tanto attesa riforma agraria, pur con estrema difficoltà e promesse mancate, segnava l'inizio inesorabile della fine del grande latifondo e l'affrancamento da una secolare sudditanza, mobilitando le plebi meridionali a un'inedita rivendicazione di diritti e sviluppo. Pur trattandosi perciò di una situazione che reclamava spazio nell'attenzione pubblica e nelle azioni di governo, «i documentari prodotti presentano spesso una realtà edulcorata, assai lontana dall'effettivo clima di scontro sociale inerente la riforma agraria, in cui pochi interventi di distribuzione delle terre vengono promossi illustrando un clima di pacificazione sociale ben lontano dalla realtà»". Il documentario nel suo insieme finisce così per riflettere, oltre ad una generale vocazione al conformismo da paste degli autori più istituzionalizzati, anche un colpevole ritardo da parte della classe dirigente nell'elaborazione dei processi di modernizzazione che il Paese reclamava.

2 Sainati A. (a cura di), Le Settimana Incom. Cinegiornali e informazione negli anni '50, Lindau, Torino 2001, p. 11. ® Bertozzi M., L'occhio e la macevia. Dieci anni di cinema documentario

italiano (1945-1953), in Aa.Vv,, «i nuovo spettatore», n. 6, 2002, Lindau, Torino, p. 20. 39 "Questioni" di produzione: e il documentario diventa una truffa. A questo generale atteggiamento rispetto alle scelte creative e tematiche, si aggiungono proprio in quegli anni una serie di modalità produttive e proposte legislative errate e miopi, che costringono i documentaristi, specie quelli che tentano una via diversa dall'omologazione affrontando temi scomodi, ad operare in una condizione di assoluta marginalità rispetto al complessivo mercato cinematografico italiano. Il documentario, prodotto collocato in una sorta di limbo di mercato, veniva infatti finanziato dallo Stato con il meccanismo dei premi di qualità 0 con l'abbinamento ai lungometraggi, meccanismo per certi versi perverso che finì nel giro di pochissimo tempo per favorire tutt'altro che il valore artistico dei film. Inserito nelle tabelle ministeriali nell'ampia categoria del cortometraggio, il documentario veniva vissuto dai produttori soprattutto come possibilità di speculare sui fondi piuttosto che come prodotto da sfruttare nelle sale. Questo significava da un lato un'estrema povertà di mezzi produttivi: se serviva per accedere alle sovvenzioni ministeriali, al regista poteva bastare una troupe composta da non più di tre/quattro persone, pochi metti di pellicola, e di sopralluoghi, così importanti in una pratica cinematografica in cui si raccontano storie e persone reali spesso geograficamente lontani, neanche a parlarne. Dall'altro lato comportava, da parte dei produttori, un lavoro orientato ad "oliare" gli ingranaggi giusti nelle commissioni ministeriali e un'attenzione costante ad evitare in tutti i modi il rifiuto del visto di censura, che significava l'impossibilità di qualsiasi speculazione. Questo il ricordo di uno dei protagonisti di allora, il regista Francesco Maselli: «Un documentario qualunque, abbinato ad un film tipo Duello al sole, incassava fior di milioni e milioni,

a centinaia. C'erano accordi tra grosse case distributrici e certe case di produzione di documentari, per esempio la Warner Bros aveva l'accordo con la Documento, prima con la Fortuna Cinematografica. [...] se avevi una casa legata a grosse distribu40 na trici, non avevi il problema che il documentario fosse bello o brutto, e questo favoriva la sciatteria, la volgarità dei documentati.di allora». Il 'tema, la poetica, il linguaggio cinematografico utilizzato, lo stile diventano aspetti secondari. ° «Nei cinema dilagò una marea di documentari cosiddetti d'arte che spesso non lo erano affatto ma si concretizzavano in un'ignobile speculazione da parte delle case produttrici di documentari che mettevano insieme due-trecento metri di immaginaccie qualsiasi spesso non riprendendole neppure dal vero, ossia da un quadro o un affresco o addirittura da cartofine», Questa volontà di risparmiare a tutti i livelli finì per imporre, in fase di montaggio, il limite della durata di dieci-undici minuti, caratteristica comune a gran parte di film realizzati in quel periodo. Questo per due ragioni, innanzitutto perché quella era la durata standard di un rullo di pellicola 35 mm (circa 300 metti) e, superando tale soglia, ovviamente i costi aumentavano. Secondo motivo, gli esercenti non volevano assolutamente sottrarre tempo alla gran quantità di film pubblicitari e cinegiornali che si impegnavano a proiettare prima del lungometraggio, fino a spingere gli esercenti a veri e propri rimontaggi del documentario: titoli iniziali, qualche sequenza, e poi la parola "FINE?.

«Trasformando il cinema corto in cinema lampo», si poteva così legalmente dichiarare l'avvenuta proiezione (obbligatoria per legge) e lucrare sullo spazio restante. Quindi, anche una % Le citazioni di Francesco Maselli e Florestano Vancini sono tratte da Fofi G. - Faldini E (a cura di), op. cit., pp. 212.5. La legge che istituiva l'abbinamento dei documentari ai lungometraggi è precedente a quella che ha istituito il premio di qualità, legge diventata indifferibile proprio per lo scandalo irffaldino dell'abbinamento. 3 Bernagozzi G., Il cinema corto. Il documentario nella vita degli italiani dagli anni Quaranta agli anni Ottanta, La casa Usher, Firenze 1979, p. 121. 4 volta ottenuto l'abbinamento al lungometraggio o successiva mente il premio di qualità, quello in sala restava per gli autori un passaggio non scontato, pregiudicando anche la formazione di un pubblico interessato e condannando ad una invisibilità decennale gli autori più impegnati. «Per la legge del minimo sforzo, i documentati degli "amici" {delle commissioni ministeriali targate Dc, N.d.A.] vertevano sulle fontane di Roma, sui pini di Roma, sui tramonti di Roma, sui sette colli di Roma, sui ponti di Roma, sulle piazze di Roma, sugli argini del Tevere di Roma e così via. Sfido io che gli spettatori fossero colti da rigetto contro quel condensato di noia senza rimedio, Ma il guasto sarebbe stato irrimediabile»". Se vi sarà capitato di chiedervi come mai non esiste tutt'oggi, în Tralia, una distribuzione di documentari nelle sale, cosa che per altro avviene con successo in molti Paesi, come mai di fatto non è quasi possibile vedere documentari italiani, la ragione sta

proprio nel disastro di una produzione di documentari e truffe, per usare le parole di Goffredo Fofi, che caratterizzò quel periodo, facendo sì che alla sola prospettiva di assistere ad un documentatio il pubblico iniziasse a rumoreggiare: «accadevano spesso cose selvagge, la gente rumoreggiava per la noia, schiodava le sedie. I produttori si difendevano dicendo che il pubblico non amava le cose culturali! Allora scoprirono che non era neppure necessario proîettare il documentario. [...] Truffe pazzesche»?. È anche vero però che questo disinteresse generale finiva per rivelarsi, paradossalmente, come garanzia di una certa libertà espressiva concessa all'autore, al quale sostanzialmente veniva solo richiesto di non sforare con i tempi di-produzione, di non presentare spese extra, ed evitare possibilmente soggetti considerati troppo "rischiosi", ma di certo questa produzione di 2 Intervista a Cecilia Mangini, in Sciannameo G., Nelle Indie di quaggiù..., cit, p. 148. 3. Florestano Vancini in Fofi G. - Faldini F. (a cura di), op. cit, pp. 2125. 42

documentari rappresenta una delle pagine meno edificanti della storia del nostro cinema. Per alcuni documentaristi quindi si veniva a creare dello spazio in una sorta di periferia dell'industria cinematografica, in cui fare dell'estrema povertà di mezzi Ia sua possibilità concreta di autonomia creativa. Questa estrema libertà è sicuramente uno degli aspetti che hanno spinto Cecilia Mangini a rimanere legata al genere documentario per tutta la sua carriera, tanto è vero che questa si interrompe sostanzialmente quando ormai, negli anni '70, non c'è più nessuno spazio creativo per il documentario nel cinema italiano.

«Per il Sud potevamo anche fare di più. Però l'inflazione annua al 15%, al 18% ha cominciato a depredare il valore del denaro, e i premi di qualità restavano ostinatamente sempre quelli, il Ministero non li ha indicizzati mai. È cominciato il valzer triste delle economie: prime a saltare sono state le trasferte. Addio documentari al Sud, al Nord e ovunque, fuorché a Roma, al massimo arrivando poco oltre il grande raccordo anulare. Raddoppiato i! costo della pellicola, abbiamo ripiegato sul negativo 16 mm che veniva gonfiato a 35 mm al momento della stampa. Alla fine cihanno tagliato i tempi di ripresa. Restava solo da dire un altro "grande no": addio documentari!»? Un documentario diverso è possibile. Proprio partendo da quelle premesse innovatrici e dalla loro veloce mortificazione, si dovrà attendere alcuni anni e una generazione successiva, a cui appartiene la stessa Cecilia Mangini, per poter individuare, certo con i dovuti distinguo e con la consapevolezza che si tratta comunque di un gruppo numeri camente ristretto, l'erede di quella necessità di riscoprire l'Italia che aveva infiammato la generazione di registi "allievi diretti" di Zavattini. Un'interessante analisi di Lino Miccichè credo % Ivi, p. 156. 43

metta bene in chiaro come il Neorealismo, pur nell'incompletezza della propria realizzazione cinematografica, abbia influen- zato

l'immaginario dei decenni successivi alla sua "morte". «Il neorealismo non riuscì (non fece in tempo) a fondare se stesso, trasformandosi da "atteggiamento morale" in "atteggiamento estetico", ma riusaì a fondare quella negazione (e quel prolungamento) di sé che è il cinema italiano postneorealistico, dove la norma (cioè una "regola" con "eccezioni") è stata l'abbandono di quell'atteggiamento morale e l'assunzione a model. lo estetico di alcune figure (stilistiche, tecniche, ambientali, ecc.) della produzione propriamente neorealistica»". In altri termini per Miccichè il Neorealismo, che si proponeva come rivoluzione cinematografica capace di mutare radicalmente i rapporti fra cinema e pubblico, si consolida ed esercita la sua influenza soprattutto nel periodo successivo alla sua fine. I Neorealismo «fu soprattutto il nome di una battaglia, di un fronte, di uno scontro: quello che i fautori di quell'etica del l'estetica condussero contro i fautori di un'estetica (apparentemente) senza etica, cioè di una pratica artistica che, fingendosi autonoma dalle cose del mondo, è funzionale alla loro conser vazione poiché è lo "spettacolo" che "distrae" dalla pena che esse generano», E questa battaglia trovò dei continuatori, anche purtroppo negli indesiderati esiti di invisibilità, nei documentaristi della generazione di Cecilia Mangini, Infatti «il Neorealismo, e questo probabilmente fu l'errore, non poteva essere visto come la fase finale di un processo, quanto piuttosto come l'inizio della ricerca di una strada, sempre perseguita ed ancora oggi non definitivamente raggiunta, che determinasse un giusto rapporto tra intellettuali e semplici, tra Cultura e popolo, in cui l'operazione culturale non poteva e non può, per essete tale, limitarsi

® Miccichè L., Per una verifica del neorealismo, cit., p. 164. % Ivi, p. 171.

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alla registrazione del livello di coscienza delle masse quale esso è, riproponendo, semplicemente fotografandola, l'immagine mirata e parziale del reale». Sù questa strada, che appariva appena tracciata da Zavattini e dagli.altri autori neorealisti, inizia a muoversi un certo numero di documentaristi, eredi di quel processo che aveva perso la propria forza appena all'inizio del suo percorso. «Tutte queste opere rientrano nella straordinaria sete conoscitiva della realtà del Paese che si viveva all'uscita dalla prigione della guerra fredda, una sete che è paragonabile all'altra che travolse cinema, leiteratura e giornalismo d'inchiesta nell'immediato dopoguerra tra il '45 e il '4898, Ulteriore elemento da tenere presente è che Cecilia Mangini appartiene ad una generazione di cineasti che aveva beneficiato, negli anni della propria formazione, dell'importanza che per il Fascismo aveva l'immagine, considerata come veicolo privilegiato della propaganda di regime. A quell'espetienza si aggiunse, alla fine della guerra, l'arrivo di tutti quei film che erano stati proibiti dal regime. L'irruzione sugli schermi delle opere d'avanguardia dei grandi maestri del cinema sovietico, di quelli americani e francesi, rappresentò la concreta possibilità di confrontarsi e assorbire inedite capacità linguistiche per lo strumento cinematografico, in una generazione capace perché formatasi nei CineGUF?" prima e nei Cineclub già nell'immediato dopoguer" Lucia P., Intellettuali italiani del secondo dopoguerra. Impegno, crisi, speranza, Guida, Napoli 2003, p. 108. * Fofi G., Introduzione in Grasso M., Stendali. Canti e immagini della

motte nella Grecìa salentina, Kurumuny, Calimera 2005, p.9. * Nata su iniziativa di Galeazzo Ciano, la sezione cinematografica della Gioventù Universitaria Fascista, aveva lo scopo di formare gli studenti allo studio e anche alla pratica del cinema, potente arma di comunicazione del regime. I CineGUE che contribuirono a formare una generazione di cineasti ostili al Fascismo e che nel dopoguerra costituiranno l'importante rete di Circoli del cinema, avevano fra le proprie attività non solo la proiezione di film ma anche la produzione di pellicole, grazie anche ai bassi costì del formato ridotto, di carattere scientifico o propagandistico.

45 ra, di rilanciare quella passione per un cinema finalmente rinnovato e coinvolgente sotto molti punti di vista, Il cinema consentiva infatti un'apertuta non solo visiva, rispetto alla realtà che îl regime aveva occultato sotto il velo del conformismo e della propaganda. La Liberazione passava dunque dallo sguardo. ) Dal 1946 al 1948 la frequentazione del Cineclub Prizzi piani a Firenze consente a Cecilia, quindi, innanzitutto la possibilità di un vero e proprio "aggiornamento" sulla storia del cinema mondiale: quei film che il fascismo aveva nascosto, finalmente acquistano visibilità, offrono spunti inediti soprattutto nella relazione con la realtà di un'Italia da ricostruire. La fotografia! e il cinema si costituiscono fin da subito per la Mangini non solo come veicoli privilegiati di informazioni inedite, ma anche come occasione di costruire una militanza culturale di fonda-

mentale importanza. L'arrivo a Roma per lavorare come organizzatrice, infatti, le permette di entrare in diretto contatto con un fermento culturale e politico elevato, che la porterà a realizzare nel 1959 i suoi primi film. Le nuove leggi sul cinema, oltre ai disastri produttivi che abbiamo avuto modo di analiz- zare, consentirono già dalla seconda metà degli anni Cioquanta ad un nutrito gruppo di giovani documentaristi di affacciarsi sulla scena. Il documentatio, per via dei bassi costi di realizzazione e la breve durata, era considerato una buona "palestra", in preparazione dell'esordio nel cinema di finzione, per cui da Antonioni a Elio Petri, da Dino Risi ai fratelli Taviani sono numerosissimi quei registi che realizzano da giovani i propri documentari. Di questi autori solo una parte continuerà ad occuparsi esclusivamente di documentari, andando a costituire una generazione che darà prova di eccezionale ostinazione e serietà, realizzando opere in cui è possibile scorgere quella ritrovata capacità del cinema di dare voce agli ultimi. Come

4 Per un approfondimento sul lavoro di Cecilia Mangini come fotografa si rimanda all'introduzione di Claudio Domini del catelogo L'impero dell'in magine. Cecilia Mangini fotografa, 1952-1963, Trieste, Ass. culi. Il Nodo, 2009. 46

iter im detto, sono gli anni in cui il Neorealismo perde quella forza

innovatrice che l'aveva caratterizzato, e il documentario sembra a molti, fra critici e studiosi, l'unico in grado di raccoglierne il testimone, tanto che Luigi Chiarini, in un articolo del 1953 dal significativo titolo Le amarezze del documentarista, scorge proprio nel documentario un possibile sviluppo consolante per l'avvenire del nostro cinema, con la produzione di opere che sappiano dimostrare quell'interesse umano e quella capacità di comprensione che faccia ritornare ad essere protagonisti del racconto gli umiliati e gli offesi*!. Certo questo ristretto gruppo occupava una posizione minoritaria, la sua produzione è inquadrata solo in alcuni precisi sotto-generi documentati (fra questi, uno è il filone del film etnografico meridionalista di cui ci occuperemo nella seconda parte del capitolo), ma i primi film iniziano a far ben sperare nella possibilità di realizzare ancora quel cinemza di tanti per tanti, che Zavattini auspicava. D'altra parte il documentario deve affrontare in quegli anni un nuovo nemico, non più la censura di regime fascista ma quello che Bernagozzi definisce come il «nuovo fascismo quotidiano» degli anni 1950 e 1960, segnati dalle violenze della politica imperialista e dal conformismo*?. Credo a tal proposito sia interessante riportare per intero un brano di una mia intervista a Cecilia Mangini, in cui la regista descrive con efficacia e passione gli anni del suo esordio cinematografico e soprattutto il clima in cui si determinò il suo approccio al cinema documentario: «Stendalì (1960) è stato il terzo documentario che ho firmato, dopo Igroti alla città (1958) e Firenze di Pratolini (1959). Per il loro appartenere alla fine degli anni Cinquanta che è il decennio dell'agonia, morte e seppellimento del neorealismo Senza fiori né opere di bene, penso che debbano essere letti 4 Chiarini L., Le amarezze del documentarista, in «Cinema Nuovo», 15 marzo 1953, pp. 178-9. 4 Bernagozzi G., op. cit., p. 63.

47 come il momento iniziale di un "grande no" (per dirla con Ernst Tollet) al fondamentalismo democristiano dilagante dopo il 18 aprile 1948. Perché i cosacchi non abbeverassero i loro cavalli nelle fontane di San Pietro, occorrevano paladini pronti a tutto - fuorché lasciare il potere — come il giovane Giulio Andreotti, per lungo tempo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e come tale plenipotenziario per cinema, teatro, varietà e balere, non esistendo, allora come ora, un Ministero ad hoc. Non pensate all'Andreotti attuale, riciclato come spiritoso e accomo- dante battutista: negli anni Cinquanta era un grintoso capoclan. Insomma, guardatevi dalla leggenda della Democrazia Cristiana campione buonista di democrazia: quelli erano i tempi in cui il telibano Oscar Luigi Scalfaro schiaffeggiava pubblicamente una signora a suo giudizio troppo scollata; in cui il talibaro vescovo di Prato scomunicava due giovani che si erano sposati in comune e non in chiesa, provocando la chiusura di ogni fido da parte delle banche a lui, piccolo industriale laniero, quindi rovinato economicamente e perciò stroncato a stretto giro da un infarto; in cui il talibaro Scelba, ministro degli Interni, coniava il neologismo "culturame" per riferirsi in blocco agli intellettuali. E per venire al cinema, quello era un fronte rovente: con Totò e Carolina di Matio Monicelli, massacrato in censura da 85 tagli; De Sica deprecato dal tlibano Giulio Andreotti perché "non lavava in famiglia i panni sporchi"; Pier Paolo Pasolini denunciato dal talibano Ferdinando Tambroni alla Procura della Repubblica per la "pubblicazione oscena" di Ragazzi di vita; Renzo Renzi per avere scritto L'armata s'agapò — un innocuo soggetto sugli amori dei nostri soldati in Grecia durante la seconda guerra mondiale — e il critico Guido Aristarco per averlo pubblicato su "Cinema Nuovo" gettati nel carcere militare di Peschiera, e perfino un niente come Ignoti alla città vietato per tutti dalla censura»*.

# Sciannameo G., op. cit., pp. 139-141. 48

È

È questo poi il clima in cui nasce un'opera come All'arzzi siam fascisti, film di montaggio firmato oltre che dalla Mangini, anche dal marito Lino Del Fra e da Lino Miccichè. All'Armi siam fascisti, costruito interamente con materiali d'archivio anche ineiiti, ricostruisce visivamente l'avvento e la parabola tragica del ventennio, diventa non solo un potente documentario di analisi storica, ma contiene in sé ia dichiarazione nettissima della necessità, da parte dei documentaristi prima e degli spettatori poi, di prendere posizione. Il film è una dichiarazione militante, che non nasconde nei toni la propria dura condanna, e che rende visibile la capacità del cinema di svelare i retroscena della storia, interesse primario per una regista come la Mangini, facendo emergere la continuità fra il fascismo storico e le sue nefaste propaggini, in una mancanza di reale discontinuità di quell'esperienza storica. L'Italia, uscita dalla guerra da quindici anni, per certi versi non era riuscita a chiudere i conti con il proprio recente passato, se proprio in quegli anni l'Msi può pensare di tenere il proprio congresso a Genova scatenando violente reazioni in tutto il Paese. Il commento scritto da Franco Fortini rivela inoltre la comunanza fra gli autori del documentario e il grande scrittore, soprattutto nell'espressione di un'autentica passione per la verità e la precisione dell'analisi storica. Gli autori sottolineano infatti il desiderio di capire cosa è stato il proprio passato, andando ad

indagare proprio la continuità di quel passato. Allarmi siam fascisti fa riferimento al "noi", significativamente perché da un lato dichiara la posizione non neutrale di chi realizza il documentario e dall'altro perché chiede direttamente a chi guarda una posizione attiva nell'analisi di un fenomeno storico che è in linea di continuità con l'oggi, e che quindi coinvolge anche gli spettatori. «Fortini ha avuto un'idea meravigliosa e commuovente [...] con quel "noi" gli spettatori si sentono direttamente coinvolti politicamente ed emotivamente nella Storia, il "noi" riassume tutto quello che sta nella platea, i suoi sentimenti, i ricordi, fe azioni: il "noi" è una scelta, uno schierarsi e un 49

prender parte». Visto oggi, a cinquant'anni dalla sua realizzazione, questo film conserva un spettatori, segno che continua ciò avviene con la capacità di verso un sapiente intreccio di parlato. deciso impatto emotivo sugli a toccare temi controversi e che coinvolgere lo spettatore, attraimmagini, suoni e commento Alla luce di quanto finora detto, possiamo dunque affermare che è proprio il documentario di quegli autori che esordirono alla fine degli anni Cinquanta, a raccogliere il testimone del Neorealismo e della lezione zavattiniana, contaminandolo con la propria poetica, con le lezioni dei grandi maestri del documentario, da Jotis Ivens a Robert Flaherty. Il documentario continuava a conservare quel rapporto dialettico con il reale

che, non piegato alle esigenze della narrazione di finzione, può rispettare il suo carattere di opacità che Bazin* ha riconosciuto ai film neorealisti italiani e che permette all'azione di essere costantemente legata al contesto sociale in cui si svolge. Un gruppo di "schegge impazzite" che, fedeli al genere documentario, tradivano il corto-mentario della famigerata formula dieci ed entravano in prima persona in contatto con temi che il cinema aveva rimosso dal suo otizzonte visivo, accedendo, per esempio, alle realtà industriali assai prima di quanto non farà il cinema di finzione, raccontando criticamente il divario NordSud e la massiccia emigrazione verso le città e l'estero, la nuova condizione della donna, i germogli della contestazione giovanile", Se è vero che, come afferma Joris Ivens, il documentario «è l'unico mezzo che rimane al cinema d'avanguardia per lottare

# Cecilia Mangini, intervista a cura di Federico Rossin, in «Catalogo NodoDocFest», cit., p. 86. 4 Cfr. Bazin A., Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986, p. 279. # Bertozzi M., op. cit., p. 12. 4 Brunetta G.P., I/ cinemza neorealista italiano. .., cit, p. 104. 50

il Ì

contro la grande industria... perché l'uno ci dà la realtà quale essa è, mentre l'altra è, in generale, l'espressione di una cattiva produzione che blandisce il cattivo gusto del pubblico... senza cercare di provocare in esso una reazione attiva», ecco allora che anche la scelta di rimanere fedeli al genere documentario, sganciato per certi versi da regole di mercato e strettamente commerciali, viene vissuto pure dalla Mangini come concreta possibilità di esercitare con maggiore libertà la propria analisi critica della società. Il suo cinema, erede delle stesse "preoccupazioni" dei documentaristi inglesi e amiericani degli anni Trenta, non solo si immerge nel racconto del reale, ma si fa carico di una posizione di continua analisi e ripensamento di modelli consolidati di analisi e narrazione del reale. Il documentario assume perciò una dimensione di critica sociale che non rinnega una dimensione che possiamo definire mzilitante'?. Il cinema di Cecilia è nel suo insieme, dunque, un cinema connotato da una forte responsabilità sociale, che si rivela innanzitutto come una modalità per partecipare allo sviluppo storico del proprio Paese, in continuità con quell'approccio neorealista che aveva considerato come prioritaria una presa di coscienza dei problemi che, non senza una sincera generosità, si credeva di poter risolvere. Di fronte al venire meno di quella promessa di rinnovamento, e alla sua sostanziale perdita di forza e capacità di intervento, il documentario della Mangini raccoglie parte della sua eredità. Nel racconto del cinema di Cecilia Mangini non si possono certo utilizzare i toni trionfalistici di una battaglia culturale e politica vinta, dietro i quali nascondersi il fatto che il documentario subì costantemente i contraccolpi dei meccanismi del mercato cinematografico e quelli, altrettanto pesanti, di un'opposizione politica e culturale alla volontà di denuncia sociale. I fautori della modernizzazione # Ivens J., in Bernagozzi G., op. cit, p. 48.

# Cfr. Gauthier G., Storia e pratiche del documentario, Lindau, Torino 2009, pp. 200-1. 51

tollerano malvolentieri le voci dissonanti e gli sguardi critici. la vittoria di quella restaurazione moderata già riconosciuta come una delle cause di sconfitta del Neorealismo, a costringere personalità come quelle della Mangini in una posizione scomo- da e marginale. Lo sguardo sul Meridione Ma, nonostante tutto, di fronte ai drammi sociali non tutti potevano restare indifferenti o rinunciare ad indagare, a raccon- tare. «I Danilo Dolci, i Rocco Scotellaro, i Tommaso Fiore era- vamo una minoranza a dargli retta, Antonio Gramsci troppo spesso veniva saccheggiato per citazioni a scopo sentenzioso: i metidionali che fuggivano dal bracciantato e dall'arretratezza erano una notizia quasi senza eco, quei treni che a branchi li depositavano a Milano Centrale — Torino Porta Nuova — Genova Brignole sferragliavano nell'indifferenza [...1 Di cosa li attendesse nelle grandi città del Settentrione non ci si preoccupava più di tanto. Cosa significassero lo sradicamento, la perdita del parentado, la barriera del dialetto, fatti loro. A chi importava che anche i santi sugli altari delle chiese, Bernardo, Carlo, Ambrogio fossero degli estranei: Vito, Rocco, Onofrio erano rimasti giù, non erano saliti in terza classe con gli ex-voto nelle valigie. È una trasmigrazione di popolo — diceva Lino — e non ce ne vogliamo rendere conto». Già la caduta del fascismo aveva fatto emergere con forza tutte le problematiche che il regime aveva semplicemente oc-

cultato, ma che erano rimaste fondamentalmente irrisolte dal Risorgimento: il divario fra Nord e Sud dell'Italia è uno di queste ed assume, in quegli anni, una stringente attualità. Per 2° Cecilia Mangini, în Grasso M., Scoprire l'Italia. Inchieste e documentari degli anni Cinquanta, Kurumuny, Calimera 2007, p. 118. 52

ÈÌìÌ Cecilia Mangini e il suo sguardo appassionato per il Meridione d'Italia, con cui conserva innanzitutto un legame sentimentale, il documentario diventa un ottimo strumento per raccontare quel ferimento che coinvolgeva un ampio territorio e per tentare di ribaltare gli stereotipi che pesavano sul Sud e che, con il neorealismo rosa, con le commedie musicali, con film turistico sentimentali il cinema aveva ripreso, con enorme successo di pubblico, ad appiccicare al Mezzogiorno", Ma il documentario può ufficiali sul Sud? Può della Mangini è cinema ne di uno strumento di

mettere davvero in crisi le Verità scalfire l'ottimismo del progresso? Quello politico perché inteso come elaborazioanalisi e intervento nella società. Cecilia

rivendica perciò costantemente una posizione non neutrale di

fronte allo spettacolo della realtà, legata alla volontà di indagine. Una non neutralità che è politica ma anche stilistica. Così il documentario scopre e racconta il Sud, contribuendo a costruire nuove identità: — scandalizza. Portare sullo schermo realtà come quelle di Brindisi, Taranto, era di per sé una denuncia. Il documentario ne scopre i drammi, offre un'immagine del Meridione lontana dagli stereotipi, dal folklore addomesticato. Racconta i dram- mi e le esistenze di uomini e donne che lottano per migliorare la propria vita, diventando finalmente protagonisti della Storia. Racconta la rassegnazione e la sconfitta di chi non ce la fa ed è costretto ad inseguire la propria realizzazione emigrando. Racconta la capacità di quei miserabili, eredi di culture millenarie, di fornire tisposte ai grandi quesiti esistenziali; quei contadini meridionali che con l'emigrazione abbandonavano la terra e i riti millenari di cui erano eredi inconsapevoli. — stimola la reazione ai problemi. Il documentario raccoglie dati, fornisce esempi, propone soluzioni, Smonta le tesi uf- ficiali. Frammenta immaginario del Sud in molteplici realtà,

5 Cfr. laccio P,, «Cinema e Mezzogiorno», in Storia del Mezzogiorno, vol. XIV, Edizioni del Sole, Napoli 1991. 53 ne sottolinea le contraddizioni, le diversità. «Mette in circolazione oggetti inquietanti» che criticano l'esistente e fanno inomaginare esiti diversi ai problemi di oggi. Da un Sud

ammirato si passa, attraverso la sua rappresentazione sullo schermo, ad un Sud impegnato. - rafforza i miti/gli umori di un Sud non più solo geografico, ma anche luogo simbolico. Il documentario racconta una cultura che scompare, ma che avrebbe potuto diventare un modello alternativo di sviluppo, propone un'inversione valoriale nell'approccio alla cultura popolare nen più considerata come esempio di decadenza; diviene espressione culturalmente valida che, come aveva già sostenuto Gramsci, andava presa molto sul serio in quanto elemento di una vera e propria «concezione del mondo e della vita»". L'approccio non neutrale di Cecilia Mangini, in continuità con l'approccio gramsciano, rappresenta una scelta in netta opposizione sia con la documentaristica "positivistica", tutta incentrata all'utilizzo del cinema come strumento meccanico di raccolta di dati oggettivi, sia con l'atteggiamento romantico dell'osservazione bonaria dei selvaggi di casa nostra, quello spirito contemplativo che cristallizzava il tempo nel rimpianto di tempi antichi. È questo doppio rifiuto che, insieme allo spessore dell'analisi politica e sociale, permette a questi film una nuova dimensione di intervento nella realtà meridionale e ai loro autori un ruolo di impegno nella società. Ed è questo che si vorrebbe salvare dall'oblio. «La diaspora ha risucchiato al Nord tre genetazioni di meridionali, famiglie intere, nonni, genitori, ragazzini: non è stata una transizione, è stato uno strappo violento, una mutilazione che ha contribuito, e non di poco, alla scomparsa del mondo contadino e all'abrasione della sua civiltà imbevuta di magia»". Solo a titolo esempli-

5° Gramsci A., Letteratura e vîta nazionale, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 261. > Cecilia Mangini in Grasso M., Scoprire l'Italia..., cit., p. 120.

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ficativo, e consci che fa questione è certamente complessa, secondo questa tesi, la rinascita del tarantismo oggi, diventato icona identitaria di una regione, può essere letta come una riappropriazione, in termini di coesione e di nuova natrrazione del territorio, di un elemento culturale che, ancora fino a pochi anni fa, rappresentava piuttosto un simbolo di arretratezza. Si può notare quanto peso abbia la rilettura di determinati fenomeni culturali popolati, avviata da Gramsci e proseguita con De Martino e il cinema documentario. Questo ragionamento sul Sud ci porta così ad analizzare il contributo dell'altro grande "maestro" di Cecilia, e cioè l'antropologo Ernesto De Martino, che al Sud ha dedicato tutta la sua opera di studioso e politico. 1.2. Conla macchina da presa nelle Indie di quaggiù. L'incontro con Ernesto De Martino Noi avevamo fame di raccontare PItalia sommersa, le sue culture altre, la sua arretratezza, le sue genti emarginate, e De Martino ci ha consegnato quella griglia conoscitiva di cui avevamo urgenza*. * Per Cecilia Mangini quello verso Sud è un viaggio verso una

casa che non ha mai abbandonato. Nata a Mola di Bari si trasferisce a Firenze perché, in seguito all'arrivo anche in Italia delPonda lunga della crisi del '29, la conceria di famiglia, nella quale lavora anche suo padre, fallisce. Lei stessa ricorda le sensazioni, anche fisiche, del tornare ogni estate nella casa della famiglia, nella campagna di Mola di Bari: «Ero in immersione piena nel "mondo pre-nazionale e pre-industriale" amato da Pier Paolo Pasolini, guardato con alterigia e commiserazione * Cecilia Mangini, in M. Grasso, Sterdali..., cit., p. 49. dai miei zii toscani, temuto da mia madre alle prese con i fantasmi di tracoma, tifo, pidocchi; io invece mi sentivo parte di quel mondo, vivevo in empatia con la sua gente capace di slanciarsi emotivamente in tutto quello che la coinvolgeva. [...] d'istinto, per resistere mi sono rannicchiata in un meridionalismo un po' vero un po' immaginato»", In questa doppia dimensione, fra Nord e Sud, fra il luogo d'origine e quello di vita quotidiana, fra un passato che ritorna fino a farsi presente, ctedo possa essere individuata una delle principali spinte per la Mangini al racconto della realtà. A differenza di Carlo Levi, ad esempio, pet cui sarà decisiva l'esperienza del confino in Lucania per avviare un contatto con il Meridione, per Cecilia il Sud dell'Italia rappresenta il luogo d'origine in cui tornare, il Iuogo di un legame mai interrotto. In questo viaggio di ritorno, una figura di fondamentale importanza è rappresentata da Ernesto De Martino. Cecilia Mangini può essere annoverata in un ristretto gruppo di giovani documentaristi che la critica ha definito come "demaitiniani", i quali hanno legato alle ricerche e alla figura del grande etnologo napoletano il proprio esordio cinematografico, e nelle opere successive dei quali è possibile riconoscere alcuni aspetti di quella eredità culturale. I suoi studi sul mondo magico meri-

dionale, la sua personalità di intellettuale capace di coniugare rigore scientifico e grandi capacità comunicative, si legarono virtuosamente al fascino che il Sud esercitava su alcuni registi alle prime esperienze cinematografiche. Un gruppo nel quale è possibile inserire, oltre a Cecilia e al marito Lino Del Fra, anche Luigi Di Gianni, Giuseppe Ferrara, Gianfranco Mingozzi e; in una posizione più marginale, Vittorio De Seta. Un gruppo responsabile della realizzazione di quelli che possono essere considerati come i primi esempi di cinema di ispirazione antropologica nel nostro Paese. % Ibidem. 36

La "scoperta" del Meridione d'Italia passa anche dal cinema per la voglia/necessità condivisa e mediata dalla figura di De Martirio, di scoprire un mondo così vicino geograficamente eppure così distante da sembrare irreale. I suoi tre principali libti, Morte e pianto rituale (1958), Sud e magia (1959) e La terra del vimorso (1961), in cui vengono raccolti i risultati delle sue ricerche sul campo, diventano negli stessi anni, il soggetto di numerosi film documentari. In una filmografia ristretta di quelle opere che videro un intervento diretto dell'etnologo come consulente o nella redazione del commento, è possibile, infatti, ritrovare esattamente gli stessi argomenti delle sue principali opere, oltre ad una più generale influenza nell'approccio alla cultura popolare. Fra questi, oltre a Stendef della Mangini, vanno citati Lamzento funebre (1953) di Michele Gandin, Magia lucana è Nascita e morte nel Meridione (1958-59) di Luigi Di

Gianni, La passione del grano e L'inceppata (1960) di Lino Del Fra, La taranta (1961) di Gianfranco Mingozzi e, infine, di Giuseppe Ferrara, I wzacizri e Il ballo delle vedove, rispettiva mente del 1962 e '63. De Martino aveva dimostrato già nel suo lavoro di ricerca sul campo, un'estrema consapevolezza delle enormi potenzialità che il mezzo cinematografico poteva avere nell'ambito della ricerca. Anche sela sua riflessione teorica sull'utilizzo di questi strumenti si interrompe per la sua prematura scomparsa, la sua collaborazione con quei cineasti, in qualità di consulente scientifico, rappresenta un importante, e probabilmente il primo in Italia, tentativo di adeguarsi a ciò che in altri Paesi era già una prassi diffusa. Anche se non può dirsi superata del tutto una concezione del documento visivo come prova immediata della realtà,

eredità di un atteggiamento positivistico, tuttavia con Ernesto De Martino ci si avvia verso un radicale ripensamento della natura stessa dei mezzi di riproduzione della realtà. Attenzione che continuerà a crescere già negli anni immediatamente succes- sivi all'uscita dei documentari demartiniani, promuovendo l'in- dagine del complesso rapporto fra cinema e antropologia. 57

Anche se possiamo affermare che non fu quello strettamente scientifico a rappresentare l'aspetto più forte nel legame con De Martino, quella che emerge, come elemento prioritario in cineasti come la Mangini, è la volontà di non separare mai l'impegno politico-sociale da una grande umanità e un profondo rispetto per i propri soggetti d'interesse. La stessa Cecilia fa riferimento spesso, nei suoi interventi, all'intensa suggestione che l'etnologo napoletano suscitava con i suoi studi sulla cultura magico-religiosa del Meridione, una sorta di fascino che spinse questo gruppo di giovani esordienti a cercare la sua consulenza pér la realizzazione dei documentari. L'elemento decisivo della personalità di De Martino, che è possibile ritrovare nel cinema della Mangini, è proprio il considerare sempre la conoscenza come premessa indispensabile e come metodo di lavoro per avviare processi di zeutaziento culturale e politico. Quella premessa che, secondo Carlo Levi, permise a De Martino di essere «insieme scienziato ed anche uomo d'azione nel mondo del Mezzogiorno, e la ragione per cui egli ha portato un contributo effettivo a questa autocoscienza nel mondo contadino contemporaneo»", La stessa modalità di approccio alla vita del Sud era infatti avvenuta sempre all'interno di un più generale impegno politico". Ulteriore elemento da non trascurare perché più strettamente cinematografico, oltre all'interesse per la situazione economico-politica per il Sud e l'influenza di questo nuovo approccio ai temi della cultura popolare, era il desiderio di poter sperimentare nuovi stili nel racconto di situazioni inedite. L'intento di questi cineasti, infatti, rimase sempre quello espressivo piut-

tosto che quello scientifico, ma anche in questo restando fedeli % Levi C., «Ricordo di Ernesto De Martino», in Clemente P- Meoni MI. Squillacciorti M., 1} dibattito sul folklore in Ialia, Edizioni di cultura popolare, Milano 1976, p. 351. 5 De Martino impegnato nella Resistenza, fu segretario della federazione socialista di Bari dal 1945 al '47 e di Lecce nel "48. 38 alla lezione demartiniana di privilegiare sempre una grande capacità comunicativa', Chi ha letto i testi di De Martino avrà senz'altro colto l'attenzione all'utilizzo di un registro linguistico insieme accurato e appassionato, nella redazione di opere divulgative, ma non per questo banali o semplicistiche. Se il celebre libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli (1948), aveva avuto il merito di offrire un inedito ritratto della società contadina meridionale, De Martino, che riconosce questa capacità di svelamento di un'opera letteraria, in un certo senso si impegna ad offrire un supporto scientifico a quella narrazione del mondo popolare. La stessa esigenza di fornire alle opere letterarie o cinematografiche un taglio rigoroso, scientifico, senza però trascurare l'utilizzo efficace degli espedienti espressivi che il medium scelto offriva, sarà condivisa dai giovani cineasti che entrarono in vario modo in contatto con lui. Ed è su questa base comune che, anche nei documentari, si tralasciano le bellezze locali, il folklore rassicurante e bonatio, i toni strapaesani, avendo il coraggio di denunciare, nel periodo iniziale del boom economico, le miserie, le arretratezze, una dimensione selvaggia del Sud Italia. Contribuendo così a svelare un aspetto importantissimo del Sud: la creatività, la capacità "dell'elaborazione del mito", la ricchezza del rituale, insomma tutta la potenza di quell'immaginazione magica che sublima la iniseria materiale e la precarietà esistenziale permettendo la propria

sopravvivenza. Nei documentari, il rituale è dotato finalmente della giusta dignità di espressione culturale non più considerato sinonimo di degrado morale, viene mostrato come un importante strumento sociale, creato per controllare l'effetto negativo che le «situazioni di vita più difficili potrebbero avere. Questa valutazione del rito è direttamente connessa ad uno dei grandi temi # Di Gianni L., «Cinema documentario meridionale del dopoguerra», in laccio P., Napoli e il cinema 1896-2000, numero monografico di «Nord e Sud», a. XLVII, luglio-agosto 2000. 59

demartiniani, quello della "crisi della presenza" e della sua possibile risoluzione. La miseria economica del Meridione è il luogo in cui ampie fasce di popolazione lottano quotidianamente per la sopravvivenza, oppresse da antiche ingiustizie, che petò trovano nell'elaborazione di forme di linguaggio magico una possibile soluzione. La miseria ha come conseguenza l'impossibilità per l'individuo di superare le situazioni critiche che gli si presentano, determinando quella condizione, per De Martino, in cui l'individuo è "essere agito da" piuttosto che esercitare all'interno della società, ja propria capacità di decisione e di azione. Il simbolismo mitico-rituale messo in atto permette così di costruire una dimensione protetta, in cui affrontare e risolvere quei momenti in cui è fortissimo «il rischio che

la stessa presenza individuale si smarrisca come centro di de- cisione e di scelta, e naufraghi in una negazione che colpisce la stessa possibilità di un qualsiasi comportamento culturale». Una volta cioè che viene data usa figura al male, sia esso "taranta" o "jettatura", il rito permette di superarne la portata negativa, annullandone la carica negativa attraverso il proprio linguaggio simbolico. De Martino intuisce che questo pericolo di smarrimento e la sua possibile risoluzione attraverso il rito rappresenta una costante non solo delle civiltà arcaiche, ma finisce per pesare anche su strati delle società occidentali, più precisamente su quelle categorie poste in ruolo subalterno rispetto alle classi sociali dominanti, come ad esempio gli abitanti delle nuove grandi periferie urbane, o gli immigrati sradicati dal proprio contesto, Anche per loro il rito diventa, o può diventare, uno strumento di denuncia della condizione di forte dipendenza dalla minaccia non solo della natura, ma anche dell'oppressione di classe. Intuizione importantissima perché, a mio parere, rappresenta la principale eredità culturale di De Martino in registi come Cecilia Mangini, per la quale costituisce un vero ® De Martino E., Sud e Magia, Feltrinelli, Milano 2000, p. 91. 60

e proprio punto di riferimento culturale decisivo nell'approccio alla realtà. Intuizione che, soprattutto, consente loro di conservare la lezione demartiniana anche nei successivi lavori non più

legati a temi etnografici. Il rapporto con De Martino le permette quiridi di approfondire alcune questioni che, al di là della produziorie di un singolo documentario con un taglio etnografico, rappresentano una costante nell'opera della regista. Il suo cinema conserverà sempre, tratto dal documentario antropologico, l'interesse verso quelle cosiddette "sacche di sottosviluppo", ampie porzioni sociali in cui persistono disparità economiche e sociali fortissime, orientandosi però verso il documentario sociale (per esempio nella predominanza del discorso più strettamente cinematografico rispetto a quello scientifico). Quella della Mangini è una costante presa di posizione etico-politica nei confronti della realtà, sia di quella contadina meridionale, sia di quell'umanità che vive nelle periferie delle grandi città industriali del Nord Italia. Una presa di posizione dell'autrice che esige sempre una risposta da parte di chi osserva, Nel 1959 la Mangini legge in bozze quello che molti considerano il testo più significativo dell'etnologo napoletano, Morte e pianto rituale, nel quale De Martino compie una approfondita ricognizione dell'istituto culturale del piangere i propri morti ritualmente. È l'occasione per la Mangini, che aveva già iniziato la sua personale esplorazione della realtà, prima come fotografa a Firenze, poi con il primo dei documentari realizzati insieme a Pier Paolo Pasolini, Ignoti alla città del 1959, per narrare un'altra periferia, solo apparentemente più lontana. In un film come Sterdelà, al di là della tematica, è possibile rintracciare l'influenza demartiniana nello specifico rapporto del cinema di Cecilia con la dimensione "temporale". Cecilia non si limita ad un cinema della memoria, nel senso che non © De Martino E., Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Editore Boringhieri, Torino 1975. 61 Laica

condivide il desiderio di cristallizzare le tracce del passato per consegnarle alle future generazioni. Quello della Mangini è invece un cinezza del presente, totalmente immerso nella contemporaneità delle storie che sceglie di raccontare. È un cinema dallo sguardo lungo, che radicato al suo presente è in grado di offrire una visione in prospettiva, rivolgendosi ad un futuro ancora da costruire. È quella scelta per cui anche un documentario come All'armi siam fascisti, interamente composto di materiali d'archivio, conserva ed esalta la sua relazione con il presente. Gli avvenimenti narrati non lo sono nella loro cristallizzazione storica, ma servono a comprendere l'oggi. Nei suoi documentari realizzati in Puglia, Cecilia racconta perciò sempre un Sud in movimento, con la consapevolezza di essere lei stessa testimone e narratrice di una società nel pieno di trasformazioni epocali. Un Sud aggregatore di tensioni sociali, in gran parte ancora un territorio inesplorato che però, già con Carlo Levi, aveva iniziato a dimostrare la capacità di offrire anche un contributo culturale a quello sviluppo auspicato con proprie risposte alle grandi questioni, con l'energia e la generosità di chi per troppo tempo si è considerato suddito. Opere come Cristo si è fermato ad Eboli o quelle di Rocco Scotellaro, di Danilo Dolci, avevano rappresentato un vero e proprio shock culturale, contribuendo a rinnovare la necessità di indagare e raccontare quel Sud in fermento. A partire dagli anni Cinquanta e per tutto il decennio successivo, il folklore, con lo studio dei cosiddetti diskvelli culturali, intesi come cultura di contestazione, caratterizzano alcuni tratti del contesto culturale in cui lavora Cecilia Mangini. Come già nelle pagine di Levi o De Martino e Scotellaro, anche per Cecilia Mangini già il mostrare certe realtà sullo schermo significava compiere una coraggiosa opeta di denuncia sociale: attraverso il cinema, erano le stesse culture povere che contestavano, già a partire dalla loro esistenza, la narrazione ufficiale della società. L'esigenza appare perciò quella di favorire la scoperta di tali realtà sociali non solo pet salvaguardare, ad esempio, un patrimonio culturale che

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stava per scomparire, ma per contribuire, attraverso il racconto della marginalità, alla costruzione di quel progresso che dal dopoguerra aveva animato intellettuali e politici. Un progresso costruito non sulla rimozione del proprio passato, quanto piuttosto sull'emersione dall'oblio della propria identità culturale e la denuncia di quelle lacerazioni e disparità sociali drammaticamente presenti nell'Italia neocapitalista, avviata verso il boom economico. Il documentario esplora quel livello riz0sso, facendone, in particolare per il mondo popolare, una precisa rivendicazione di valore, contrapposto al zon-valore che fino ad allora aveva giustificato l'esclusione di intere popolazioni o parti di esse dalla Storia, Ciò in netto contrasto con quello che l'antropologo Alberto Maria Cirese ha definito come «storicismo ristretto della borghesia», intesa come la volontà di escludere dalla Storia, semplicemente ignorandoli, quegli elementi che rischiano di turbare l'ordine stabilito delle cose. Così il mondo magico studiato da De Martino e raccontato dalla Mangini, la poesia popolare, ma anche il racconto delle vite dei muovi emigranti, delle miserabili esistenze nelle borgate romane, sono documenti preziosi perché con la loro stessa esistenza possono mettere in crisi la quiete degli schemi assoluti della cultura borghese, consentendo quel dialogo culturale con essa. In questo senso, un documentario come Sterdalì non traccia l'affresco di un mondo contadino cristallizzato in forme arcaiche, non narra la sopravvivenza di antiche superstizioni, ma diventa il racconto della capacità di dare risposte culturalmente elaborate al grande interrogativo della morte. Un mondo che appare «serrato nel

dolore, lontano dallo Stato e dalle mitologie dello sviluppo, nell'impossibilità storica di rivalutare le antiche pratiche dei suoi popoli in termini altri da quelli della vergogna nazionale»8!. La civiltà contadina meridionale, dotata quindi della capacità di fornire risposte culturali adeguate alla complessità di alcuni

$! Bertozzi M., Storia del documentario italiano..., cit., p. 113. 6 fenomeni come la morte, può rappresentare una critica radicale al mondo che si è fermato ad Eboli, dal quale sviluppo è stata esclusa, e soprattutto può porre se stessa come modello alternativo, E così quel mondo così prossimo geograficamente, non più luogo esclusivo della superstizione e dell'arcaico, della miseria psicologica e della disperazione materiale, può diventare un vero e proprio banco di prova della stessa democraticità dell'intera società, una sfida per l'azione politica e culturale di chi, quella società vuole rifondare sui valori dell'inclusione. Successivamente a queste opere non si potrà più adottare quell'atteggiamento per cui «il mondo popolate subalterno costituisce, per la società borghese, un mondo di cose più che di persone, un mondo naturale che si confonde con la natura dominabile e sfruttabile»®. Ulteriore elemento nella nostra riflessione alla ricerca delle tracce demartiniane, credo si possa ritrovare nell'istintiva vicinanza di Cecilia ai soggetti dei propri film. Una prossimità che si traduce nella volontà di contribuire, così come era stato per De Martino, alla liberazione di quegli uomini e di quelle donne che ancora stentavano ad essere protagonisti di un più generale cambiamento. Una condivisione, attuata attraverso ja macchina da presa, della lotta di emancipazione di quei soggetti, all'interno di una stagione di grande movimento sociale e politico che al Sud era iniziata con l'occupazione delle terre e l'avvio

di processi di industrializzazione forzata. Quell'attenzione verso il mondo degli umili, dimenticati, e che in quegli anni vivono con feconde difficoltà la loro "irruzione" nella storia è già, per De Martino, occasione per una profonda messa in discussione delle proprie categorie, degli schemi attraverso cui si descrive il mondo. Non si tratta, e di

® De Martino E., Intorno ad una storia del mondo popolare subalterno, in Clemente P. - Meoni M.L. - Squillacciotti M., op. ait., p. 64. 6

questo Stendalì è un esempio validissimo, di registrare con distacco, catalogare e imbalsamare, a futura memoria, i resti di un mondo che scompare; piuttosto sono le radici stesse della nostra razionalità a venire allo scoperto, sullo schermo scorrono le immagini di un mondo altro, che subisce sì i colpi della modetnizzazione a tutti i costi, ma che ancora resiste. Itdocumentario in questo senso si rivela capace di reettere in circolazione oggetti inquietanti? in cui l'atto delle riprese non è più semplice nascondersi dietro un apparato meccanico di ripresa della Verità, ma implica il mettere in gioco Fatto stesso del conoscere e del raccontare la propria esperienza conosci-

tiva. «La conoscenza etno-stotica diviene così un poderoso strumento di liberazione e di slargamento dell'esperienza, una straordinaria apertura verso un ideale di umanità più comprensivo, caratterizzato dalla capacità di raccordare il più possibile esperienze umane diverse, e in grado di accrescere attraverso la comprensione degli altri la propria visione del mondo e anche la propria azione nel mondo [...]»**. Se è vero che l'antrapologo studia l'altro per comprendere se stesso, egli va costantemente alla ricerca di quei legami con il proprio passato culturale incarnato da soggetti che vivono ancora una condizione di marginalità. La Mangini va sul campo sempre come regista, per cui è possibile rilevare la predominanza di un discorso cinematografico rispetto a quello scientifico, piuttosto che ricercare, attraverso una sorta di azzeramento della scrittura cinematografica, la ricerca di un rigore e un'oggettività impossibili da realizzare. Questo implica, e già De Martino ne era ben conscio, un'estrema consapevolezza dello strumento comunicativo scelto e dei 8 Rovch ]., «Mettere in circolazione oggetti inquietanti», in Rouch 1, I! cinema del contatto, a cura di Grisolia R., Bulzoni, Roma 1988, pp. 417. & Cantillo in «Materiali per lo studio della cultura folclorica», n. 1, Kurumuny, Calimera 2007, p. 24. 6

suoi canoni espressivi. Come avremo modo di affrontare più dettagliatamente nel capitolo successivo, un documentario come Stendalì restituisce un ulteriore elemento che potremmo definire come demartiniano, e cioè la capacità di far convivere esigenze di correttezza conoscitiva, passione civile e politica, e abilità comunicative. Quella ricerca formale incentrata, pet esempio, sui movimenti delle lamentatrici, il favoro sul ritmo del testo funebre e quello sulla colonna sonora, vanno sempre in direzione di un'amplificazione della comprensione di un fenomeno arcaico, evidenziando la possibilità di comunicare anche agli spettatori moderni. Cecilia sceglie uno stile registico caratterizzato da un intervento preciso, incisivo nella ricostruzione del reale, piuttosto che limitarsi ad una riproduzione fedele quanto improbabile. Credo che queste parole di Jean- Louis Comolli rendano molto bene la necessità per il cinema documentario di farsi interprete cosciente piuttosto che specchio fedele del reale. «Una testimonianza, una parola, un documento, anche un racconto possono rinviare a dei fatti, far loro riferimento, farne il resoconto: tuttavia se ne separano per l'elaborazione che, anche se relativa al fatto, lo rielabora in forme che non sono le sue. Nulla del mondo ci è accessibile senza i racconti che ce ne trasmettano una versione locale, datata, storica, ideologica. La critica che dobbiamo indirizzare ai media, agenti dell'informazione riguarda la denegazione chiamata "obiettività", attraverso la quale mascherano assai spesso il carattere eminentemente precario, frammentario e perfino soggettivo di ciò che non è altro che il loro lavoto»®. Quanto detto finora, non farà certo apparire come casuale il fatto che i primi tre documentari della Mangini nascano dalla collaborazione con un'altra figura importantissima per il panorama culturale italiano, Pier Paolo Pasolini. Cecilia realizza

5 Comolli J.L., op. cit, p. 93. 66

infatti tra il 1958 e il '62, Ignoti alla città, La canta delle marane e Stendalì per i quali Pasolini scriverà il commento. Naturalmente, Cecilia condivide con Pasolini non solo il suo esordio cinematografico, ma anche la profonda passione per la realtà e la passione civile per l'uguaglianza, sempre congiunta alla necessità di investigare forme espressive e capaci di narrare l'ingiustizia. Il loro incontro si colloca, infatti, alla fine degli anni Cinquanta, anni che segnano perlo scrittore friulano quella che viene individuata come la sua scoperta, appassionata e appassionante, del cinema, nel film d'esordio, Accattone del 1960. Dopo aver vissuto in prima persona il contatto con la durezza della vita nelle borgate romane, Pasolini inizia un percorso di sperimentazione e confronto con la realtà. Emerge un desiderio di indagine, una sete di conoscenza nell'intuizione che il nascente boom economico sta per operare una profonda trasformazione della società italiana, le cui conseguenze saranno ben diverse dal progresso che la maggioranza si aspetta. «Questa sete fu in Pasolini furia, una furia che egli seppe comunicare ad altri, il sentimento di un tempo unico, di una necessità di narrazione, di "fermare su carta" o "su pellicola" quel che del passato continuava a vivere, e che era vissuto, a ben considerare, per secoli e secoli, e quello che cambiava, il nuovo che arrivava. A partire da quei margini squalificati dalla cultura dominante, e talvolta rimossi o negati dalla stessa cultura di sinistra»®. La società dei consumi, con le sue lusinghe, porterà ad un nefasto livellamento culturale e alla trasformazione di quei valori tradizionali in valori piccolo-borghesi. Una società ingiusta che

produce ingiustizie che le immagini possono denunciare con

'una forza inedita e, per certi versi, maggiore di quella della scrittura". Un nuovo fascismo si sta delineando nella disgrega4 Fofi G., Introduzione in Grasso M., Stendalî..., cit., p.9. 9 Cfr. Aa.Vv., «Quaderni di Cinemasud», n. 2, Edizioni Laceno, Avellino 2005, pp. 137-8.

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zione della società civile che arretra sotto le Insinghe delle merci, l'omologazione nel segno del consumismo e la scomparsa delle culture popolari. Un'epoca caratterizzata da tumultuose e rapide trasformazioni, come mai era avvenuto con tale intensità nella storia dello Stato unitario. Nel passaggio dalla scrittura al cinema si può ritrovare per Pasolini la necessità, quindi, di riuscire a rappresentare uomini e donne che vivono quella condizione di marginalità e di disparità sociale che sono il prodotto della società classista. «Pasolini vive nel documentario un momento di reale epifania creativa. La sua è una specifica modalità di attraversare poetiche del frammento e della testimonianza. Una forma trascurata da ricognizioni critiche attente al filmico in termini letterari, eppure intrisa nei suoi demoni poetici, amplificata dalla presenza del suo corpo e della sua voce in scena, nella costante riflessione sugli aspetti processuali del comporre cinema». Una posizione di vicinanza per gli umili accomuna la Mangini

e Pasolini, insieme alla «insofferenza per l'imbarbarimento culturale, antropologico ed esistenziale d'Italia, l'interesse per il mito e la società preindustriale»®, condensata nell'idea pasoliniana della necessaria distinzione fra sviluppo e progresso che diverrà una costante anche dell'opera della regista.

6 Bertozzi M., Storia del documentatio..., cit., p. 196. © Rossin F., Cecilia Mangini: essere documentarista, in «Catalogo NodoDocFest», Trieste 2009, p. 59. 68

Capitolo secondo

2.1 Rituale. Il documentario come ristrutturazione del tempo Essi urlavano e saltavano, e giravano, e facevano delle smorfie orribili; ma ciò che dava il brivido eva proprio il pensiero della loro umanità — uguale alla vostra — il pensiero della vostra remota parentela con quel tumulto selvaggio e appassionato.

Sgradevale. L'approccio più comune al cinema documentario è quello di considerarlo come un contenitore di memorie, strumento per conservare testimonianze, tracce del passato da consegnare al futuro. Senz'altro questo è l'atteggiamento non solo di chi si approccia al documentario come spettatore ma anche di chi lo fa come autore. Se il cinema di Cecilia Mangini ha conservato la memoria del Sud, ciò è avvenuto, a mio avviso malgrado le intenzioni dell'autrice, È pur vero, come sottolineato da Pasquale Iaccio, che «per la stessa natura delle immagini in movimento questi documentari acquistano valore col passare del tempo. Valore di documento, spesso primario, valore evocativo, e cioè fissaggio nella memoria delle generazioni che si susseguono, di quel che fu il nostro Mezzogiorno, valore divulgativo»?. Ma questa non può essere considerata come l'esigenza primaria del lavoro * Conrad J., Cuore di tenebre, Mursia, Milano 1987. ? Taccio P, in «Materiali per lo studio...», cit, p. 105. 69

di Cecilia Mangini: si farebbe un torto a ridurre il suo cinema, considerandolo solo uno «scrigno prezioso di memorie, di storia e arte cinematografica». I suoi documentari, infatti, testimoniano piuttosto la volontà di essere un cinema della contemporaneità piuttosto che un cinema della memoria, un lavoro caratterizzato da una costante attenzione all'indagine dei cambiamenti indotti, e soprattutto delle conseguenze, del cosiddetto boom economico. Lo sguardo di Cecilia è sguardo

contemporaneo, rivolto alla realtà nel suo farsi e lo è anche quando la regista si confronta con fenomeni culturali antichissimi, nel caso di Stendalî, sia quando analizza, a qualche anno dalla sua fine, il fascismo in All'armi siam fascisti. Il tempo del cinema di Cecilia Mangini è un tempo vivo, mai cristallizzato nel racconto di una società immobile. Anche di fronte al mondo arcaico delle lamentatrici salentine, Cecilia concentra la sua attenzione sullo scricchiolio fragoroso di un mutamento che è irreversibile e che vale la pena raccontare proprio mentre quel mondo sta cambiando definitivamente. Il lamento regolato dal rituale, ne era ben conscio lo stesso De Martino, eta ridotto alla condizione di relitto folklorico, prezioso residuo di una civiltà antica incapace di resistere ai cambiamenti in atto che andava salvato non immobilizzandolo prima del tempo della propria scomparsa, ma interrogandolo come documento culturale. Espressione di una capacità ancora attuale di fornire risposte autonome a grandi quesiti esistenziali. Sapienza antica, narrata in un tempo incerto, movimentato, ripetuto, astratto e insieme concreto, fatto di volti, di dettagli del presente. Nello sguardo su di un fenomeno arcaico, di una sopravvivenza culturale di tempi lontanissimi, come quello della lamentazione funebre, non c'è da parte della regista alcuna volontà puramente estetica. Lo sguardo della Mangini non ha nulla di estatico, si discosta da una posizione puramente contemplativa anche per la con» Ibidem. 70

sapevolezza che la realtà non parla da sola*. Cecilia si relaziona dialetticamente con un fenomeno certo complesso, scavalcando i due estremi di una possibile analisi di questo tipo di fenomeni: abbandonarsi alla contemplazione affascinata dell'incompren- sibile oppure liquidando il rito come superstizione e quindi retaggio di antiche barbarie.

Stendalì è la ricostruzione cinematografica di un lamento funebre realizzato a Martano, paese della cosiddetta Grecìa Salentina, un gruppo di piccoli comuni a Sud di Lecce in cui è tuttora viva, a partire dalla lingua parlata, l'origine greca dei propri abitanti. Cecilia e Lino Del Fra hanno l'occasione di leggere, ancora in bozze, Morte e pianto rituale nel Mezzogiorno, il libro che raccoglie gli esiti delle ricerche di Ernesto De Martino sulle forme rituali del "piangere" i propri morti. Questo incontro è l'occasione che Cecilia ha per scendere al Sud, il suo Sud, con la macchina da presa. «Dal punto di vista formale il mio debito con il cinema sovietico è grande e certamente per il taglio delle immagini e per il ritmo di Sterdalì ad esso mi sono ispirata: invece la lettura di Morte e pianto rituale nel Mezzogiorno di Ernesto De Martino è stata Ja molla culturale che ha portato me e Lino în Salento, decisi a filmare un rito che aveva tremila anni di vita, sopravvissuto alla mutazione antropologica che stava cambiando il volto del Paese». In un viaggio che è di conoscenza e insieme di riscoperta, Cecilia sceglie di relazionarsi con la sua terra d'origine rivendicando costantemente il proprio ruolo di cineasta, non rinunciando, nel confronto con un istituto culturale complesso e ricco di fascino, alla sua personale visione del fenomeno. È possibile perciò cogliere in quello che è da molti ritenuto come uno dei suoi lavori più intensi, una costante tensione ad esaltare 4 E in questo c'è una decisa distanza dalla fiducia zavattiniana nell'auto nomia significante del reale. 3 Cecilia Mangini intervista a cura di Rossin E, op. at, p. 82. 71 la realtà attraverso la selezione meticolosa degli elementi visivi

e sonori, combinati nell'alternarsi di dettagli e campi più larghi, nella reiterazione delle inquadrature. Non si tratta di uno sterile gusto calligrafico per il lavoro di inquadratura, una ricerca esclusivamente formale; piuttosto a prevalere è la volontà di selezione accurata di quegli elementi che possono ricomporre il reale in una visione emotiva oltre che istruttiva. Piuttosto è una scelta che esalta la capacità descrittiva del fotogramma, il suo essere diretto dell'oggetto/soggetto ripreso, senza però trascurare la possibilità di spingere lo sguardo oltre la rappresentazione oggettiva, valorizzando l'immagine in se stessa e la sua composizione nell'inquadratura. L'emozione profonda nello spettatore è prodotta dalla forza della rappresentazione che, non imbrigliata dalla esclusiva volontà di descrivere e di illustrare, si concentra nel tentativo di cogliere aspetti sorprendenti di una realtà che già di per sé rappresentava un'immagine inedita del nostro Paese. Così il lamento funebre, sullo schermo cinematografico, può rivelarsi un grande e suggestivo spettacolo e non più solo un'espressione straziata di dolore controllata dal rito. Lo spettatore assiste ad un grande rituale corale, sapientemente regolato, in cui nessun gesto è lasciato al caso; attraverso la macchina da presa penetra nei volti, nei gesti, nella disposizione dei corpi nello spazio, cercandone la specifica funzione all'interno di una complessità di gesti e movimenti. è, in un film come Stendalì, tutta la consapevolezza del "fare spettacolo", della narrazione e non della semplice descrizione, arrivando a restituire l'essenza di un evento così toccante attraverso il filtro della propria sensibilità. Cecilia Mangini racconta, descrive, rielabora utilizzando un'espressività cinematografica che riguarda non solo la scelta dell'inquadratura, ma anche gli aspetti sonori. In questa modalità di utilizzo del linguaggio cinematografico riecheggiano le parole di Christian Metz a proposito del grande cineasta russo Dziga Vertov, regista la cui influenza è riconosciuta dalla stessa Cecilia Mangini: «La macchina da presa vede ciò che noi non vediamo, le riprese e il

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montaggio sono operazioni parallele (si pensa al montaggio durante le riprese e viceversa) che liberano il Cine-occhio dalla schiavitù dell'occhio dello spettatore». AI momento delle riprese segue poi quello che, in questo documentario, è senz'altro il momento 'creativo principale e cioè il montaggio realizzato secorido quella volontà/necessità, postulata da André Bazin, di effettuare una selezione degli elementi del reale, ai fini della costruzione di un discorso testuale, in un'operazione che è certamente di tipo estetico, ma che non tradisce l'automatica - referenzialità dell'immagine cinematografica con il reale. Attraverso la creazione di una rete di nuove connessioni fra le parti si realizza l'espressione di tutte le potenzialità del singolo gesto umano, in quanto portatore di significato. «Frammento di realtà bruta, in se stesso multiplo ed equivoco, il cui "senso" viene fuori solo a posteriori grazie ad altri "fatti" tra i quali lo spirito stabilisce dei rapporti. Senza dubbio il regista ha ben scelto questi "fatti", ma rispettandone Ja loro integrità di "fatto"»", Il documentario offre l'occasione, proprio confrontandosi con Îl rito, realtà già in un certo senso strutturata come grande "spettacolo", di poter sperimentare nuovi stili, indagando le possibilità della macchina da presa ad esempio nell'intreccio con il suono, cercando i limiti del visibile. Nelle immagini di Cecilia c'è una altissima attenzione alla composizione cinematografica dell'inquadratura, nella scelta di punti di vista inediti e non banali (uno su tutti la soggettiva del "morto") in cui ogni scelta appare come quella necessaria. Il cinema è rielaborazione

di quegli elementi che compongono il mondo ed è tutt'uno con il processo di ricostruzione di una delle possibili verità, È l'espressione di una soggettività che consente un personale accesso al reale, sulla quale costruire la possibilità che la visione dell'esterno ci penetri in profondità. 5 Gauthier G., op. cit., p. 220, ? Cfr. Bazin A, Il realismo cinematografico e la scuola italiana della libe- razione (1948), in Che cos'è il cinema?, cit. 73

Stendalì, proprio per il soggetto scelto, è un'occasione, come abbiamo visto nel capitolo precedente, di riflettere sulle relazioni del cinema con gli studi sull'uomo, da una posizione indubbiamente interessante, ma per certi versi anche "scomoda", sospesa frale esigenze della cineasta e quelle dell'etnografo. Questo documentario quindi ci permette di ragionare, per

esempio, sul fatto che'a lungo, nell'ambito del film etnografico in particolare ma nel documentario in generale, si è ritenuto che il cineasta dovesse utilizzare nella sua relazione con gli elementi della realtà una sorta di sguardo imperturbabile, meccanico, esterno all'evento, lasciando che fosse la realtà stessa a parlare, in una sorta di automatismo che limitasse l'intervento alla registrazione obbiettiva, Il documentario "degno" di fiducia da parte dello spettatore era quello in cui l'autore mantenesse la neutralità, imperturbabilità di fronte agli avvenimenti. Se questa considerazione appare oggi superata non più solo dalla pratica ma anche dall'analisi critica, negli anni in cui venne realizzato Stendalì, anche a causa di un certo ritardo tutto nostrano nella riflessione critica sul cinema del reale, la questione era ancora oggetto di accesi dibattiti, Solo a distanza di qualche decennio è ormai chiaro che la vera peculiarità del documentario si è dimostrata non tanto nella mera riproduzione del reale, ma proprio nella varietà dei momenti interpretativi della realtà e nel tentativo di tradurla in una organizzazione linguistica. Se è vero, infatti, che tale atteggiamento comporta un intervento nella realtà, è altrettanto vero che al di fuori di tale opzione, il cinema si condanna alla dipendenza da un linguaggio altro, come quello verbale, che ne organizzi il messaggio. Prassi diffusa infatti era quella di accompagnare costantemente alle immagini un commento verbale, declamato con voce autorevole, a cui veniva di fatto affidata la trasmissione di una chiave interpretativa della realtà. Una lettura rigida, perentoria, che non lasciava spazio alcuno alla possibilità di interpretare in maniera difforme dall'opinione dell'autore, gli avvenimenti, Il risultato per chi percorre questa strada, e gli esempi 74 sono numerosissimi, è spesso quello di produrre un cinema visivamente povero che nel tentativo di essere obbiettivo finisce paradossalmente per apparire modesto anche sul piano dei contenuti. Spesso preoccupati di trasmettere opinioni e concetti

elaborati a monte delle riprese, i documentaristi corrono il rischio di relegare le immagini ad un ruolo secondario, di mero supporto alle informazioni trasmesse verbalmente. «Il cinema è tanto più cinematografico quanto più ci fa conoscere le origini fisiche, le ramificazioni e le particolarità di tutti i fatti emotivi e intellettuali da cui è formato l'intreccio; e non ci può spiegare in modo adeguato questi intimi sviluppi se non ci guida attraverso la vita materiale da cui essi emergono e in cui hanno le radici». È così che il cinema riesce a celebrare la complessità del reale e, per dirla con Ejzenstejn, dimostra che la sua funzione principale «non è tanto di mostrare o di presentare quanto di significare, di dar senso, di determinare»8, in un atto che non può che essere interpretativo. Tanto che anche realizzando una testimonianza che sia nelle intenzioni la più fredda e imparziale, già le scelte tecniche riveleranno innanzitutto proprio la personalità del regista, la sua sensibilità. Banalmente perciò, nella consapevolezza di tale impossibile imparzialità, è di gran lunga preferibile l'opera di chi sceglie di esplicitare ia propria posizione rispetto all'evento, il proprio processo creativo. Con Stendalì, piuttosto che fare affidamento su una scrittura filmica obbiettiva, la Mangini sceglie una scrittura cinematograficamente consapevole, adatta a raccontare un avvenimento, utilizzando tutta la gamma di codici espressivi, senza censure preventive e chiusure ideologiche. Il tutto in un atteggiamento . il più possibile rispettoso dell'umanità che incontra. Non sarebbe solo l'efficacia del messaggio, infatti, ad essere compromessa: attuando questa presunta oggettività, il regista rimarrebbe inevitabilmente al di qua della barriera che si crea fra osservato e ® Kracaurer S., Teoria del film, Il Saggiatore, Milano 1995, pp. 111112.

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osservatore, impedendo di fatto quell'incontro fra culture che dovrebbe essere il principio costitutivo, nonché lo strumento principale, di un documentario che soddisfa il desiderio di conoscenza e la volontà di espressione di nuovi saperi. Stendalì può essere considerato emblematico anche perché rappresenta un salutare tentativo di svecchiamento dello sguardo del cinema sull'uomo. Il documentario appartiene ad un gruppo di opere che rappresentano i primi tentativi in Italia di antropologia visuale, e proprio per l'argomento che affronta, potrebbe indurre alla necessità di un ruolo di osservatore neutrale e distaccato, impegnato a salvaguardare il ricordo di un rito che ormai non veniva quasi più praticato. Ma non basta la bellezza dei volti delle lamentatrici, il fascino del loro canto, per allontanare il rifiuto di una posizione neutrale da parte della regista, e in questo, ancora una volta, si conferma la cifra stilistica di Cecilia nella relazione documentaria con il reale. Un evento folclorico, come ad esempio quello documentato a Martano, mette sempre in moto una situazione espressiva complessa, creando nuove connessioni fra vari livelli di ordine gestuale, musicale, scenografico, verbale, che sono condivisi dai partecipanti al rito e dall'intera

comunità che li esprime. Quanta forza condensata in un singolo gesto, all'interno di situazioni fortemente ritualizzate, in cui nulla o quasi è lasciato al caso! Non solo non si tratta mai di fenomeni completamente statici, ma in continua, se pur lenta, trasformazione. Si tratta invece, per utilizzare la definizione che ne dà Ambrogio Artoni, di un «metalinguaggio della realtà»? con cui il cineasta è in grado di confrontarsi e costruire il proprio discorso su eventi e situazioni che sono già di per sé portatori di messaggi altamente codificati. Lo sguardo di Cecilia è uno sguardo mobile, interessato ad intervenire sulla realtà per trasformarla in un "oggetto" politico,

? Artoni A., Documentario e film etnografico, Bulzoni, Roma 1992, p. 74. 76

cogliendo nei particolari (uno fra tutti il dettaglio sulle calze di nailon e i tacchi a spillo di una delle lamentattici) l'invadenza della contemporaneità. Quella stessa invadenza rappresentata dall'arrivo del prete e del conseguente "andare in frantumi" di quella dimensione protetta costruita dal rito. L'occhio pur meccanico della cinepresa non può essere neutrale, c'è sempre un pinto di-vista preciso, uno scarto: quella differenza che c'è fra il vano tentativo di mascherarlo e la scelta di dichiarare, con lealtà, la propria presenza sul campo. «Filmare l'esterno per capire l'interno, filmare l'involucro sensibile degli esseri e delle cose, ma per indovinarne, smascherarne o svelare la parte segreta, nascosta, maledetta. Comporre il visibile come palinsesto che racchiude e, al contempo, vi dà accesso. Per mezzo di questa danza dei corpi con la macchina il (cinema) diretto svilup-

pa un'intimità ritmica inaccessibile fino ad ora, tranne che per l'immaginazione, la poesia o il romanzo»!°, Rappresentare è ricreare quella distanza, quella dimensione protetta che il rituale ricercava. È ri-mettere una distanza fra noi e gli eventi, fra noi e gli uomini e le donne. È ricreare un tempo zu0vo. Nei primi piani delle donne di Martano c'è però tutta la vicinanza demartiniana di Cecilia Mangini alle protagoniste del suo racconto, c'è la condivisione di qualcosa che, pur in una inevitabile lontananza geografica, rappresenta un terreno comune, sentimentale. La conoscenza nasce dall'intensità della relazione umana che la regista riesce a costruire con quelle donne. Cecilia è parte di quel mondo, ne fa parte da sempre e nella rappresentazione di quel mondo rivive il suo passato. Stendalì ci permette l'accesso ad un mondo per il quale ci sentiamo impreparati, lontani nel tempo, incapaci di comprendere. Ma la sensazione di spiazzamento non dura che pochissimo, svanisce nel breve volgere delle prime inquadrature. E ad 1° Comolli J.L., op. at, p. 141. n

essa si sostituisce il riconoscere quei luoghi, quei volti come parte di un paesaggio dell'anima a cui apparteniamo da sempre. Credo sia stata questa la sensazione che ha provato Cecilia di fronte allo spettacolo della lamentazione funebre messa in atto da quelle contadine di un piccolo paese del Salento. E deve essere stato anche questo ciò che ha riconosciuto Ernesto De Martino, commosso dalla generosità delle donne lucane che piangevano per lui.

Le donne di Senda appaiono consapevoli del proprio ruolo nel territorio del sacro. Si muovono a loro agio nella dimensione protetta in cui si agisce il dolore per una perdita che altrimenti sarebbe troppo tragica per essere accettata, anche nella consapevolezza di essere le ultime testimoni di una cultura. Ed è interessante notare come a tale consapevolezza del proprio ruolo nel rituale non corrisponde una consapevolezza del meccanismo cinematografico: cinquant'anni fa il cinema doveva certo apparire come un tettitorio poco familiare, ancora distante, mentre oggi sarebbe davvero difficile trovare qualcuno estraneo all'esperienza di essere ripreso, In Stendalì si ricrea con il cinema il tempo dell'interiorità del rituale che fa da contrappunto al tempo del rituale, scandito dai battiti della lamentazione. Questa attenzione contrappuntistica al montaggio e alla banda sonora colloca un documentario come Stezdalì in linea di continuità con il cinema muto. Credo infatti che sia ulteriore elemento di interesse il fatto che le donne di Martano si doppiarono successivamente al montaggio delle immagini. La Mangini affittò il cinema più vicino, a Maglie, e superato-lo shock di vedere se stesse sullo schermo, le protagoniste rimisero în scena, questa volta per la registrazione sonora, il proprio lamento funebre. Il montaggio visivo e sonoro riflette il dinamismo del rito in un crescendo di tensione, e la necessità di contenere lo svolgersi del rito nei canonici dieci minuti (che in quegli anni rappresentavano lo standard dei documentati) finisce per trasformarsi da 78 limite in risorsa. È interessante anche in questo senso trovate delle tracce, direttamente nel documentario di Cecilia, di quella sostanziale distanza fra la volontà da parte dell'antropologo di riportare il tempo reale dell'evento e la rivendicazione, da parte

dei cineasti, della volontà di ricreare un tempo au0v0 cinematografico, che non appare rigidamente ancorato ad uno schema di inizio, sviluppo e fine. Il montaggio interagisce con la ripetitività del gesto, la circolarità, la ritualità del mondo contadino nella ricostruzione della visione del cincasta. È il montaggio, con la sua compressione temporale degli elementi che costituiscono l'avvenimento narrato, è il «momento in cui vengono a trovarsi a confronto le intenzioni che preesistevano alla ricerca e le realizzazioni di quelle intenzioni, cioè i filmati i quali per un verso esprimono, forse non esattamente, quello che si prevedeva, ma, d'altra parte, contengono anche molto di più, qualche cosa che va individuato e indagato»! Il montaggio ricostraisce cinematograficamente il rito, nel movimento alternato di tempi, spazi e suoti, nell'essenzialità di un linguaggio cinematografico attento e curato. Le inquadrature assumono contestualmente una densità straordinaria, condensano lo sguardo, rendono possibile non solo la trasmissione di contenuti e informazioni, ma rendono tangibile la compartecipazione ad una dimensione 4/tr4 rispetto alla quotidianità, Proprio all'interno di una struttura rigida, i confini dell'inquadratura appaiono come una precisa e ragionata definizione dello spazio reale, attraversato da uno sguardo mai casuale, distratto, ma piuttosto partecipe e attento. Il montaggio è un vero e proprio prolungamento di quell'esperienza visiva che ad essa si intreccia, in un'articolazione spazio-temporale, capace di rispettare l'autenticità del momento delle riprese. ® Perpignani R, I/ montaggio nei documenti di antropologia visiva, in Aa.Vv., Materiali di antropologia visiva - 1, numero monografico del «Bollettino dell'Associazione italiana di cinematografia scientifica», Roma, giugno 1986, p. 30. 79 Il documentario si rivela comme necessaria ristrutturazione

temporale. Questi elementi strettamente cinematografici, credo, rendano evidente come il cinema sia, in StexdaB, lo strumento più adeguato a raccontare il rito. Rito e cinema condividono, infatti, una dimensione temporale fuori dall'ordinarietà, ambito protetto in cui agire nel primo caso quelle forme di protezione che tutelano l'individuo dalla "crisi della presenza", mentre nel secondo è la rappresentazione stessa a porre una distanza fra noi spettatori.e ciò che viene messo in scena. Sospensione di un tempo ordinatio e ricreazione di un tempo altro. Il cinema costruisce un tempo nuovo, concretizzando la percezione di un tempo arcaico, lontano. Quando la messinscena del rituale si conclude con il silenzio delle donne, ritornate sedute, esauste: iltempo della narrazione ritorna ad essere sospeso, tempo mitico che consegna definitivamente alla storia le donne di Martano. «Il qui e ora della proiezione cinematografica è per prima cosa un altrove e un prima. Il film è stato girato, montato, stampato prima di essere proiettato in quella sala, davanti a me. L'esperienza della proiezione che posso vivere soltanto al presente, mi viene data solo come traccia attuale di una serie perduta di avvenimenti passati. E quello che vedo qui proviene sempre da un altrove. È questa, dunque, la combinazione dei contrari che definisce il cinema». Fino alla successiva proiezione di Stendalî, le donne di Martano conserveranno il loro pianto e ii loro dolore arcaico, sempre pronte a riproporlo sullo schermo, oggi, per noi che non c'eravamo. Un pianto cristallizzato eppure vitale, rituale fissato per sempre ma ogni volta mutabile, nella percezione di chi l'osserva. Consentiranno anche a noi, se glielo chiederemo, di entrare in quel sordo magico attraverso la porta del cinema.

© Comolli J.L., op. at, p. 15.

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2.2 Paesaggi. H documentario come ristrutturazione dello spazio Più avanti le casupole diventano palazzi: i soliti casermoni che esibiscono l'ordinario squallore delle periferie meridionali, tivati su nella persuasione che gli uomini possano vivere nella bruttezza senza diventare peggiori! . Vero Cinema della contemporaneità, quella di Cecilia Mangini è la visione di un intero Paese in movimento. Trasformazioni sociali, rapporti che cambiano, tempi che si dilatano, spazi urbani, territori, campagne che mutano volto. Soprattutto nel racconto del suo Sud, anche lo spazio fisico in cui agiscono uomini e donne subisce una metamorfosi dagli effetti spesso non controllati e controllabili. Il cinema di Cecilia è cinema dei luoghi e della compresenza di antico e moderno, sviluppo e arretratezza, paesaggi i cui abitanti ri-vivono ogni giorno il proprio passato e sperimentano la modernità e i suoi effetti. Anche in questo è possibile rilevare una certa continuità nei documentari della Mangini con il cinema neorealista che aveva fra le sue peculiarità quella di una riconquista alla visibilità, del paesaggio, nella convinzione che «l'individuo si muove alla riscoperta di una vita, în cui luoghi aperti e luoghi chiusi hanno la stessa pregnanza rappresentativa»!4, Alla realtà finta, ricostruita negli studi della Cinecittà fascista, si sostituisce con tutto l'impatto emotivo che si può comprendere, la rappresentazione

- di nuovi territori, in cui si annullano differenze fra pubblico e 9 Stancanelli B., A testa alta, Finaudi, Torino 2003, p. 11. # Melanco M., Paesaggi, passaggi e passioni. Come il cinema italiano ha raccontato le trasformazioni del paesaggio dal sonoro ad oggi, Liguori, Napoli 2005, p. 43. 81

privato, «nella casa popolare, nei nuovi quartieri alle periferie delle città, nei villaggi dei pescatori, nelle strade, nelle piazze, nei luoghi di incontro, ogni oggetto d'uso, ogni elemento diventa segno, sintomo, indicatore di una condizione più generale»! Sulla spinta delle distruzioni prima, e delle profonde modificazioni della ricostruzione dopo, il cinema di ispirazione neorealista abbandona i teatri di posa o gli ambienti artefatti dalla propaganda e reinterpreta con la chiave del realismo non solo le vicende umane, ma anche i luoghi, attraverso la ricostruzione inedita dei legami fra personaggi e ambiente e facendo dell'Italia, nella sua interezza geografica, nuovo spazio di una vera e propria esplorazione cinematografica. Non che nel cinema del ventennio fossero mancati film con scene girate in ester no, piuttosto la novità maggiore riguarda la modificazione dell'atteggiamento cinematografico rispetto all'ambiente reale.

«Nel cinema neorealista predominano le grandi periferie urbane, e în genere una linearità orizzontale che è il contrario della verticalità virile e maestosa, della monumentalità che domina, non solo nel cinema, ma in tutta l'iconografia degli anni Venti e Trenta. Strade, corsi d'acqua si perdono adesso verso un orizzonte non più rassicurante, circoscritto, come quello del decennio precedente. E la luce è piatta, grigia, non per mancanza di mezzi, o perché non ci sia il tempo di aspettare il sole, ma per il piacere, tutto nuovo, di trasgredire i clichés cartolineschi di quel cinema rosa che fa del paesaggio la semplice cornice di tanti personaggi inconsistenti. Insomma, con il Neorealismo, l'inquadratura esplode, deflagra con altrettanta violenza dei contenuti che vi irrompono»!!. È il desiderio già espresso da Zavattini di conoscere, attraverso il cinema, il proprio paese. È l'importanza che per De Santis ha l'ambiente in cui si muovono i personaggi, non più isolati dal proprio contesto quotidiano. «L'esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso 5 Ivi, p. 46. 4 Lizzani C., Il neio lungo viaggio... cit, p. 93. 82 lell'essere umano, la sua presenza, è la sola cosa che veramente colmi il fotogramma, che l'ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che dalle passioni che lo agitano questa acquista verità e rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurtà ogni cosa a un aspetto di non animata natura»!. Per il documentario, raccogliere questa indispensabile modificazione nel rapporto con l'ambiente reale è quasi inevitabile avendo già nello spazio esterno il suo luogo di elezione. All'occhio della macchina da presa non bastano più paesaggi e bellezze da cartolina, il cinema ci restituisce un paesaggio abitato, in cui è costante la presenza umana, con le sue conquiste e i

suoi squilibri, con i segni del progresso e i suoi drammi. «Il paesaggio non avrà alcuna importanza se non ci sarà l'uomo, e viceversa»! Il Meridione stesso non appare più esclusivamente come luogo dominato dalla Natura, ma anche i suoi paesaggi si avviano, in alcuni casi molto velocemente, verso l'adeguamento a nuovi modelli economico-sociali, così somiglianti a quelli del Nord Italia. Anche nelle città del Sud iniziano infatti a sorgere nuovi quartieri, le città si espandono quasi sempre senza regole e prospettive cette, all'inseguimento di un benessere che sem- bra alla portata se non di tutti, almeno di molti fortunati. L'immagine stessa del Meridione quindi inizia un processo di trasformazione rappresentativa in cui i palazzi nuovi sorgono sullo scenario di una campagna che cede il passo al cemento, alle strade polverose, alla solitudine. Il cemento delle periferie modifica per sempre la fisionomia del paesaggio. I nuovi quartieri raccolgono gli abitanti dei vecchi centri storici. Cecilia si muove in continuità con il suo esordio di Ignoti alla città e La canta delle marane, in cui insieme a Pier Paolo Pasolini ha già

1 Visconti L., Cinenze antropomorfico, «Cinema», VIII, 173/174, 25 set- tembre-25 ottobre 1943, ora anche in Melanco M., op. cit., p. 52. 18 De Santis G., Per uns paesaggio fialiano, «Cinema», VI, 25 aprile 1941, p. 293 ora anche in Noto P. -Pitassio E, op. at., p. 75. 83

raccontato la vita delle borgate romane, con l'acutezza dell'indagine sociale e con la nostalgia del racconto di un intero paesaggio che scompare sotto i colpi inarrestabili della moder- nità. AI Sud la modernità impatta con tutta la forza dei processi di una forzata e anomala industrializzazione che, oltre a deter minare prese di coscienze di classe, modificano profondamente il paesaggio urbano ed extra-urbano. Ciminiere e nuove torri sostituiscono i carrubi e gli ulivi secolari all'orizzonte di ampi territori dall'antichissima vocazione agricola e marittimi. Luoghi che si trovano, con enormi traumi ambientali e sociali, ad ospitare le avanguardie di quello che veniva considerato l'unico sviluppo possibile. La strada maestra che avrebbe assicurato benessere e ricchezze per tutti. La fabbrica appare, anche al Sud, come uno degli elementi dominanti di questa costruzione/ modificazione del paesaggio. Il documentario può raccontare questo processo, Cecilia anche in questo caso sceglie una posizione scomoda in netto contrasto con la narrazione ufficiale di una trasformazione senza traumi. All'inizio degli anni '50 erano nate le sezioni cinematografiche di diverse grandi aziende italiane, con l'obbiettivo di promuovere la comunicazione di nuovi processi produttivi sia rivolti ad un pubblico specializzato di addetti ai lavori che ad un più generico pubblico esterno. Î grandi gruppi industriali realizzano in proprio una narrazione dello sviluppo industriale, sinceramente (per molti) e trionfalisticamente appassionata alle magnifiche sorti e progressive del nascente capitalismo italiano che presenta, in comune con tutto il genere documentario di quegli anni, una serie di zone d'ombra, prima fra tutte «l'evidente sotto-rappresentazione di vaste parti del Paese reale, in una spensierata opera di descrizione-occultamento che l'Italia aveva già conosciuto grazie ai cine-insegnamenti dell'Istituto Luce»! Per chi come

9 Cfr, Bertozzi M., in «Nuovo Spettatore», n. 6, 2002, p. 27. 84

Cecilia non si accontenta di questo racconto, la fabbrica rimane sostanzialmente uno "spazio negato" alla rappresentazione cinematografica, difficilissimo da raccontare criticamente, La stessa Cecilia Mangini ha descritto, in numerose occasioni, le difficoltà incontrate, ancora a metà degli anni Sessanta, per girare nello stabilimento Monteshell di Brindisi. La grande fabbiica ficeva paura non solo agli operai, ma anche ai produt- tori, preoccupati da possibili ritorsioni e denunce nel caso in cui l'indagine si fosse spinta troppo. Per questo motivo, e perché si racconta dell'incidente mortale di un operaio, Torzzaso uscirà alla fine senza indicazione della casa produttrice, proprio per i timori del produttore di richieste di risarcimenti per aver danneggiato l'immagine dell'azienda. Questo è il racconto che Cecilia fa delle vicende legate ai documentari brindisini: «Per quanto riguarda Torzzzaso ma anche Brindisi, le vicende produttive sono state piuttosto complicate e fino a oggi inedite. Patara, che ha prodotto i documentari con una delle sue due case di produzione, non mi ricordo se con la Vettefil mitalia 0 con la Nexus (con quest'ultima ritengo), produceva anche i corti pubblicitari per l'ENI, il nostro ente petrolifero ovviamente in concorrenza con la Shell. Circostanza che ignoravamo. La direzione della fabbrica aveva dato il suo consenso alle riprese, avvenute sotto stretta sorveglianza dei suoi vigilantes, in quanto eravamo sospettati di spionaggio industriale a favore dell'ENI - non eta ancora trapelato che gli impianti erano sbagliati e la Monteshell temeva fossimo Îì per uno scoop. Di certo successivamente, grazie ai suoi infiltrati e al suo apparato di spionaggio, la Monteshell doveva essere stata infor mata di come e di cosa era stato ripreso al di fuori della fabbrica,

e con tutto il peso del suo ufficio legale aveva minacciato Patara di procedimenti giudiziari se i documentari avessero rappresentato un danno d'immagine. Subito Patara provvede a oscurare in truka il nome Monteshell da qualsiasi scritta, ma non gli basta a scongiurare la paura, troppa, tanto da non decidersi a presentare Tomaso e Brindisi '65 ai premi di qualità. Il tempo

85 passa, i documentari sono fermi, caduti in un letargo al quale sono io a strapparli con la proposta di presentarli al Ministero come mia produzione personale, per poi cederglieli di nuovo una volta ottenuto il premio di qualità. Sono stata io, microscopico individuo, a sfidare il gigante Monteshell. Resta il mistero dell'assenza dei cartelli di produzione: prima di presentarli al Ministero, Patara estirpa i suoi, e non provvede a inserire i miei come produttrice per il miserrimo risparmio di dover missare nuovamente i titoli di testa unicamente per la commissione dei premi di qualità»? I manifesti funebri che ricordano l'operaio Vito La Cava, morto sul lavoro, auto-censurano il nome dell'azienda, gli operai all'interno della fabbrica mostrano il loro volto, ma nascondono alla macchina da presa le proprie critiche alla direzione. Fuori, nasconidono il volto per denunciare. Ma a denunciare sono in pochi, quasi rassegnati al fatto che tanto è tutto inutile. C'è nel documentario l'espressione quasi fisica, la sensazione tangibile di una rimozione collettiva di quegli aspetti della modernità che non possono essere mostrati. Di certi argomenti è meglio non parlare, non si sa mai a quali rischi si va incontro. D'altra parte, se lo chiedono gli stessi lavoratori: a che serve denunciare? A

passare da ingrato, da scansafatiche, il solito meridionale che, anziché ringraziare il generoso dono di un posto fisso, si lamenta perché per conservarlo quel posto, all'azienda «deve dargli anche l'anima», Chi ci entra in fabbrica, però. Gli altri, i tanti Tommaso che rimangono fuori, si accontentano di guardarla all'orizzonte la modernità. Studiano da radiotecnici, e preparano le valigie per andarsene al Nord. La fabbrica è sì il luogo della costruzione di desideri, ma sono i sogni di pochi a realizzarsi. Ma se è vero che «si stanno avvicinando i tempi in cui la classe operaia reagirà a una situazione divenuta intollerabile, sotto il completo dominio di una classe arrogante e aggressiva 2 Cecilia Mangini da me intervistata il 26 Settembre 2010. 86 interessata esclusivamente ai bisogni dell'impresa; il cinema allora conquisterà lo spazio della fabbrica e dell'impresa industriale nel suo complesso»?, in quegli anni non sono tanti i documentaristi che si fanno carico di um racconto critico dell'industrializzazione del Meridione. Anche perché non va tra- scurato che proprio quel processo eta sostenuto convintamente anche dal Partito Comunista Italiano che lo considerava occasione propizia alla costituzione di un'avanguardia operaia nel Mezzogiorno agricolo, e quindi utile alla creazione di una classe sociale genuinamente rivoluzionaria. Ma la rivoluzione iniziava ad apparire molto lontana. Il sogno di Torzzzaso di entrare finalmente nella nuova fabbrica come operaio diventa rappresentazione visiva, si concretizza nei palazzi dei nuovi quartieri in cui abitano gli operai. Nei loro appartamenti grandi, con molte stanze, con tutti i comfort, così diversi e così lontani da quelli a cui è abituato nel suo miserabile quartiere. Tommaso «con la sua spontaneità e ingenuità, per me è stato molto più importante per capire quello che volevo fare, di tante persone adulte che avevo già incontrato. Mi interessava la sua ossessione per un oggetto di consumo, una motocicletta,

per il quale era disposto a rinunciare alla sua libertà entrando al petrolchimico come apprendista»? Sullo schermo si confrontano due città, lo schermo frammenta e ricostruisce lo spazio. Ricrea prossimità dove nello spazio fisico c'è frattura, distanza. Due città sperimentano nuove forme di convivenza: accanto ai nuovi palazzi in cui i fortunati operai dell'industria possono vivere negli agi del capitalismo nostrano, si stringono, solo vagamente minacciose, le misere case incalcinate del quartiere Pellino. Quelle strade polverose da cui Tommaso osserva il mondo, e sogna. «Bisogna penetrare nell'ambiente urbano, che non è un sistema chiuso, per capire che un ambiente apparentemente chiuso è attraversato da tutte le contraddizioni sociali 2 Melanco M., op. c:t., pp. 101-105. ® Cecilia Mangini, intervista a cura di Rossin E, cp. cf. p. 86. 87

e rivela problemi fondamentali»". Filmare diventa un percorso di penetrazione nello spazio urbano, dal centro alle periferie, frammentando i luoghi e ricomponendoli nelle storie delle persone che li abitano. L'impatto della grande fabbrica è per certi versi devastante e, proprio a partire dai luoghi, determina una complessiva mutazione, anche fisica, dell'intera esistenza di un territorio geografico e umano. La Mangini torna in Puglia con Brindisi '65 e Tommaso per raccontare come i braccianti entravano nella modernità forzata del lavoro in fabbrica, con quali desideri, quali aspettative generate da questo cambiamento epocale, le cui conseguenze si rivelano di grande attualità, Il suo documentario riesce a rendere politica anche la narrazione degli ingenui desideri di un ragazzo pugliese incantato dall'arrivo della gran-

de industria. Fa diventare oggetto politico il racconto di una trasformazione epocale, e per molti versi irreversibile, di un territorio e dei suoi abitanti. Un mondo scompare, trasformandosi artificiosamente in un altro mondo, e Tommaso diventa il simbolo di quel processo. Luoghi concretissimi che si disfano di fronte alla macchina da presa, luoghi incerti nella trasformazione che Îi coinvolge. La fabbrica produce rifiuti, quelli che si accumulano sulle spiagge, in luoghi sospesi, rarefatti in cui le torri del Petrolchimico, immerse nella foschia, fanno da sfondo alla vita miserabile di un ragazzo costretto a raccogliere bottigliette di vetro "per non andare a rubare". Il cinema riavvicina quel ragazzo ad un mondo vicinissimo ma chiuso, gli consente una pur breve relazione con la fabbrica che lo ha respinto. Riunisce sulfo schermo il moderno e Postinatamente arcaico, fra la cisterna dove è morto l'operaio Vito La Cava e la disperazione antica della madre. Ricostruisce relazione fra i luoghi, li ricondensa dopo che quel processo di cambiamento li ha frammentati, gli dà nuova capacità di essere narrazione. Il documentario è il luogo della ristrutturazione dello spazio.

5 Gauthier G., op. cit, p. 299. 88

2.3. Donne allo specchio. Il documentario come ristrutturazione dell'umanità

Non esistono soltanto problemi politici e sociali, ma anche individuali e questi ultimi, sommati tra loro, diventano a loro volta problemi collestiv?*.

La modernità produce scarti. E non sono solo i rifiuti che si accumulano nelle periferie urbane o nelle campagne. Sono scarti umani, fra chi non ce la fa a sostenere i ritmi impostati dalla produzione, di chi non accetta quello sfruttamento secolare che ha solo cambiato forma ma che si ripete ugualmente. AI Sud, il tanto desiderato riscatto si rivela, di nuovo, l'antico ricatto del lavoro che non c'è, o c'è per pochi. Non solo il tempo e lo spazio esigono dal documentario un ripensamento una nuova rappresentazione, sono gli stessi uomini e donne meridionali investiti appieno dalle trasformazioni in atto nella società meridionale, con conseguenze non omogenee a seconda della zona in cui si vive ma soprattutto dalla propria condizione sociale e lavorativa, a offrirsi ad una nuova narrazione del progresso. Con generosità mai ingenuità, uomini e donne costruiscono con Cecilia il ritratto di un Paese che cambia, rivelando una sorprendente capacità di lucida analisi della propria condizione. Quella lucidità che deriva dal vivere in prima persona le conseguenze di quei processi e che sono gli stessi operai brindisini, di fronte allo strapotere dell'azienda, a mettere a fuoco l'incapacità del sindacato, legato ancora al mondo del bracciantato, nell'affrontare temi e questioni nuove. Che cosa non va nella Monteshell di Brindisi? Cosa non funziona nella Bassetti di Milano? La fabbrica non rappresenta più il luogo in cui si costruisce una nuova classe rivoluzionaria * Miccichè L., Cinema italiano..., cit, p, 221.

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in grado di cambiare la società ma, come la Mangini intuisce e racconta, è il luogo in cui si producono soprattutto scarti. La grande fabbrica calata dall'alto rappresenta il tradimento delle aspettative di riscatto, finendo per diventare il luogo in cui si replicano tristi rapporti di predominio, di sottomissione e di ricatto, Sono sempre i notabili di paese, il prete, il politico quelli a cui bisogna rivolgersi per ottenere un posto. Che, una volta

ottenuta, va difeso con il silenzio e l'accettazione rassegnata delle regole imposte dai nuovi padroni. «Vogliono anche l'ani- ma in fabbrica. O gliela dai oppure fai finta di non averla»". La fabbrica non è una conquista dei lavoratori, ma il "regalo" del governo nazionale, utile soprattutto a creare nuove clientele e a consolidare vecchi rapporti di subordinazione. I ritagli di giornale annunciavano solo poco tempo prima il futuro radioso per il Sud, che però viene smentito dal racconto clandestino di chi la fabbrica la vive ogni giorno. Cecilia ci restituisce un mondo in bilico fra l'antico (il caporalato, le campagne miserabili, i notabili) e il moderno (la fabbrica, i tempi di produzione, i desideri di nuovi consumi). Se il boom economico iniziava a mostrare sempre più chiaramente i suoi retroscena, sono ancora pochi, e Cecilia è fra questi, ad aver intuito che non sarà l'industrializzazione a risvegliare le plebi meridionali dalloro torpore. Per Tommaso è il momento di confrontarsi con la delusione delle speranze tradite, sensazione che il ragazzo vive senza neanche esserci entrato in fabbrica, con lo sguardo di chi non ha la capacità di immaginare un futuro diverso. Gli operai dormono sui bus che li riportano, stanchi, nei loro paesi contadini. La speranza di un riscatto del proletariato si allon- tana sulle provinciali assolate. Cecilia Mangini ricerca costantemente, nei suoi film, un rapporto dialettico con la realtà, tra il soggetto rappresentato e il soggetto rappresentante, rifuggendo così da una posizione pura® Tratto dal commento di Brindisi '65. 90

mente contemplativa degli eventi. Per quanto possa essere programmato, scritto, definito, il lavoro del documentarista rimane sempre permeato dall'incertezza propria della realtà. Il suo filmare è un'esperienza viva che si concretizza nella relazione con

chi sta di fronte alla macchina da presa. Un evento inatteso e il racconto che si aveva in mente prende una piega totalmente diversa seguendo il flusso della vita delle persone che si è incontrato. Questo non implica improvvisazione o superficialità, per la sua stessa formazione il linguaggio cinematografico di Cecilia è sempre consapevole: le sue inquadrature riflettono un'estrema cura nélla composizione, tutti gli elementi appaiono calibrati sapientemente. Non per questo però la macchina da presa risulta statica e incapace di confrontarsi con quell'incertezza della realtà di cui è permeato il documentario. Come era ben consapevole Jean Rouch, il lavoro del documentarista si concretizza soprattutto nella capacità di relazionarsi con il reale nel suo fluire, nel dinamismo delle azioni e nella mobilità di un più generale fluire della vita di cui il cineasta è solo un elemento. È questa relazione con il proprio presente, unito alla capacità di mettere in crisi anche le proprie certezze, che rende affascinante l'atto stesso del filmare. Il documentario per la Mangini è ricerca, inchiesta, consapevolezza che non si è in possesso dell'unica Verità ma che sista attuando un processo di costruzione della propria, parziale, verità sul mondo, Veri e propri limiti, si concretizzano nel rapporto con i protagonisti, nell'apertura di uno scambio, di un passaggio che consente all'altro di emergere. Filmare è soprattutto incontrare. E nell'incontro mettere a rischio innanzitutto Ta propria convinzione su come vanno le cose, cercando l'occasione, determinante, per la riuscita del proprio lavoro di scomposizione e ricomposizione del mondo. Credo inoltre che un'ulteriore traccia di riflessione in questi lavori sia il persistere di quell'idea tutta gramsciana, e che de Martino riprenderà in pieno, di stellettuale organico alla vita delle masse popolari. La definizione cioè di un intellettuale in grado di legare prassi scientifica e prassi politica, a cui Gramsci 91 aveva dedicato un posto centrale nelle riflessioni raccolte in Letteratura e vita nazionale, convinto com'era del mancato contributo proprio degli intellettuali nel processo di creazione di

una cultura unitaria nel nostro Paese. Mancava già allora, in un'epoca di cambiamenti determinati dalla modernizzazione e dalla trasformazione radicale della vita e delle istituzioni, la capacità di riflettere ed elaborare dal basso le concezioni e i bisogni delle classi popolari, in un rapporto organico fra arte evita, in tutte le sue forme. È questo quindi il punto di partenza per finalmente favorire, attraverso la connessione fra problemi economico-sociali e problemi della creazione artistica, la partecipazione delle classi subalterne alla vita del Paese. A determinare questo processo che è al tempo stesso di conoscenza e di lotta politica c'è la figura di un intellettuale capace di dare voce, condividendoli, ai bisogni, ai sentimenti delle masse popolari, con una visione globale di tutti i problemi di una comunità, sia spirituali sia materiali. Anche in questo caso, c'è l'eredità demartinana a determinare la volontà di essere compartecipe delle stesse lotte per l'emancipazione che coinvolgevano le classi operaia e contadina, nel tentativo di elaborare strumenti per la pratica politica. Una tensione comune verso la trasformazione del presente. Otmai in documentari come Tomaso, Brindisi '65 manca qualsiasi residuo di trionfalismo rispetto alla produzione industriale, La fabbrica è un tema centralissimo nel dibattito politico e culturale di inizio anni Sessanta, la critica anche durissima dell'alienazione, occupa un posto di primo piano. Ma è soprattutto con il successivo Essere donne, realizzato nel 1965 attra versando l'Italia per raccontare la condizione lavorativa delle donne, con la sua declinazione al femminile che Cecilia Mangini rende ancora più significativo il suo approccio al complesso tema del lavoro. «Scopro che le donne sono inquiete, spesso apertamente insoddisfatte del peso esistenziale che le limita, e sottotraccia oscuramente motivate a capire che cosa non funziona, e come rifiutarsi di pagare le penali introiettate nell'in-

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fanzia, tutte a scadenza illimitata»? Il documentario è strumento politico perché può de-costruire la rappresentazione che i sistemi dominanti fanno di sé, ne fa emergere le anomalie, gli scatti, gli errori, «Il desiderio di rappresentare romanticamente 0 poeticamente l'operaio, all'interno di un'etica di problemi sociali ed empatia caritatevole, negava di fatto al lavoratore la possibilità' di: porsi allo stesso livello del regista. Quest'ultimo manteneva il controllo dell'atto di rappresentazione: non c'era senso di collaborazione». Ad emergere, nel film di Cecilia è invece tutta incertezza, la capacità di dubitare, in una posizione di equilibrio precario nel lavoro di definizione del mondo, Ed è intensa, soprattutto perché a tracciare questa de-costruzione del mito della fabbrica sono quelle donne lavoratrici con la disarmante semplicità della propria vita. Essere donne è racconto autentico, forte dell'incertezza della voce delle sue protagoniste. Abbiamo già accennato alle difficoltà per i cineasti di entrare nel mondo della fabbrica; per la Mangini la commissione di questo documentario da parte del PCI rappresenta quello che lei stessa definisce una «vittoria alla lotteria di Capodanno», E la vittoria sta nella concreta possibilità di entrate in fabbrica, «un feudo privatissimo e anche un luogo incontaminato dove non sono entrati né cinema né televisione, l'accesso è per i cinegiornali che si fermano davanti ai nastri inaugurali tagliati da sua eccellenza o da sua eminenza, Il monosillabo che mi spalancherà i cancelli è RAI: lo uso senza esitazioni, a viva voce, in mancanza di una carta, intestata e firmata, di richiesta. Funziona perché con qualche ragione la dirigenza delle fabbriche si aspetta che la tv di Stato voglià raccontare agli italiani dove nasce il miracolo economico»? La

® Cecilia Mangini, Essere donne, AAMOD, «Immagini é conoscenza» n. 1,2002; ora anche in Bertozzi M., Storia del documentario italiano, cit., p. 172. ? Nichols Bi, Introduzione al documentario, Il Castoro, Milano 2006, p. 145. ® Cecilia Mangini, intervista a cura di Rossin F, op. a, p. 85. 93 grande industria vuole promuovere se stessa e il documentario, come abbiamo già visto si è rivelato quasi sempre un docile veicolo alla trasmissione di una vera e propria ideologia del miracolo. Cecilia ha la massima libertà nell'affrontare quei temi che le stanno più a cuore: lo sfruttamento e il lavoro nero, il caporalato nel Sud e l'arretratezza presente anche nel Nord industrializzato, le difficoltà con i figli e la casa. Il lavoro e la fabbrica sono i temi caldi attorno a cui si concentrano, nell'ope- ra di Cecilia, le contraddizioni del progresso. Ed è racconto attuale perché il suo film: — richiama alla necessità di una presa di coscienza della propria condizione, preludio indispensabile alla costruzione di un possibile riscatto. Precari, a tempo, a progetto, i lavoratori di oggi appaiono smartiti e spesso inconsapevoli;

- rende necessario ripensare ad una centralità del lavoro nella società e sottolinea l'inadeguatezza e il ritardo, da parte ad esempio dei sindacati, nell'elaborazione di strumenti di rivendicazione, di lotta e di difesa dei diritti acquisiti; -— confermail persistere dell'alternativa suicida fra diritti e lavoro/ fra salute e lavoro; - può narrare l'esodo forzato, le nuove emigrazioni che, di nascosto, sono in atto. Non si emigra più con le valigie di cartone, ma di nuovo si parte. E chi non va via, si rifugia in quelta condizione di non-lavoro/non-esistenza di chi non studia, non lavora. Vorrei quindi soffermarmi, in questa ultima parte, proprio sugli aspetti legati al cinema documentario inteso come occasione di icortro, concentrando la riflessione proprio su Essere donne, esemplare di quella che è una cifra che accompagna tutta Topera della regista. In questo documentario si esplicita infatti come la natrazione documentaristica sia costruita dalla regista nella connessione fisica, nella vicinanza fra i protagonisti e la regista. Cecilia Mangini condivide l'esigenza di quella che Ivens 94

definiva come una «doppia responsabilità»? da parte del documentarista: nei confronti delle persone che vedranno il film, gli spettatori, e verso coloro che appaiono nel film, con i quali è necessario stabilire una reale condivisione non solo degli accadimenti quotidiani a delle espressioni quotidiane, ma anche una condivisione dei sentimenti individuali e collettivi. Nelle interviste, nei primi piani, nei racconti di queste donne è pos-

sibile cogliere la capacità di restare in equilibrio sulla frattura che separa sempre i protagonisti dall'osservatore/regista. CeciHa non limita la sua presenza a quella di un osservatore esterno, imperturbabile, ma nemmeno annulla la propria posizione, Interroga, chiede, registra, costruisce il proprio ragionamento con, e non a partire da, gli stimoli e i dati che gli fornisce il reale. E lo fa con quella prossimità che è possibile ritrovare nei film di un altro grandissimo documentarista, Jean Rouch. È tutta questione di vicinanza. Per il regista francese infatti «quando si è alla normale distanza di comunicazione, tutti i problemi di voyeurismo scompaiono, perché l'altro, a cinquanta centimetri da chi filma, non è obbligato a farsi filmare. Può mandarlo al diavolo con un solo gesto. Ha questo diritto. Chi filma lo sa. E lo sa anche chi è filmato. Molto stranamente, chi sarebbe infastidito a dieci metri, quando è molto vicino all'operatore, se accetta, accetta completamente. Si produce allora una sorta di capovolgimento della situazione. Sono gli altri che fanno il film e non chi filma»". Bisogna essere vicini dunque perché ai protagonisti, che esistono al di là dell'intenzione di filmarli e conservano la loro pre-esistenza alla macchina da presa, sia * consentito di rivelarsi. È solo con la prossimità della ripresa, entrando in una zona di incerta condivisione, che le loro azioni e le loro parole svelano quella personale rappresentazione della ® Per approfondimenti su Joris Ivens, cft. la sua autobiografia, Io/cinenza, Longanesi, Milano 1979; Cavatorta 8. - Maggioni D., Ivens, Il Castoro, Fi. renze 1979. 4 Rouch J., op. cit., p. 47. 95

vita, mai neutrale, Una visione che il lavoro del documentarista non potrà mai addomesticare del tutto. «Le riprese sono dunque un momento decisivo per il documentario. Di fatto, il momento decisivo. Non garantiscono la qualità di un film, ma almeno la sua autenticità del suo rapporto con il reale. Non assicurano l'accesso al reale, ma rendono conto della volontà di accedervi. Non sono la fuga dell'immaginazione che si insinua in ogni momento nella scelta di una ripresa o dell'inquadratura di un piano, sono il controllo di un immaginario che il cinema romanzesco ha finito per imporre come sostituto della

realtà»?!, Nei suoi documentari Cecilia evita accuratamente sia l'ingenua posizione di un osservatore neutrale, che sorpreso osserva il mondo senza intervenire, sia quella rigidità di chi ha già precostruito il suo ragionamento e chiama il reale a "dimo- strare" la sua tesi preconfezionata. Essere donne lascia spazio alla possibilità che sia il reale stesso ad parlare: attraverso le inflessioni nelle voci delle protagoniste ne ascoltiamo il racconto; attraverso il loro sguardi osserviamo il loro mondo, che poi è anche il nostro. Il rischio di quell'arroganza conoscitiva, di quella fretta di dire tutto subito e bene, viene limitato dallo spazio e dal tempo che il documentario di Cecilia riesce sempre a lasciare all'espressione dei protagonisti. Il documentario non è semplificazione, non si esaurisce nella descrizione dettagliata dell'esistente, piuttosto si muove in una direzione che privilegia Fesplorazione del profondo, azzarda l'ingresso in quei territori accidentati di ciò che si intuisce ma che ancora non si conosce. E consente l'emersione, nell'imprevedibilità degli eventi, delle contraddizioni del reale che le donne e gli uomini incarnano nella loro vita, diventando essi stessi rappresentazione della complessità. Essere donne sottolinea, a mio parete, un impor tante momento di passaggio nella prassi documentaria della Mangini, innanzitutto perché esprime una capacità di speri # Gauthier G., op. cit., p. 170. 96

mentazione formale rispetto all'utilizzo della m.d.p., distaccandosi dai canoni cinematografici del decennio precedente, imposti dalla formzala produttiva dei dieci minuti. Cecilia privilegia la mobilità dell'inchiesta, la ricerca di una verità possibile che

mantiene aperta la lettura del reale senza imbrigliarla in affer mazioni perentorie, nelle strettoie di un ragionamento ingessato che vuble*a tutti i costi dimostrare di essere nel giusto, ma piuttosto si mantiene in grado di offrire uno squarcio sulla vita dei protagonisti. Il documentario si definisce come strumento idoneo a raccontare quell'imprevedibilità della vita che emerge nell'incontro con quelli che saranno i protagonisti del film. Dopo Stendalì, finalmente i protagonisti acquistano non solo la possibilità tecnica della parola ma, come già in Torzmzaso, possono essere direttamente loro a contribuire alla costruzione di quell'analisi della società che premeva alla Mangini. La parola nen è più solo suono come nella lamentatrici di Martano, è significato, è tensione, veicolo di rappresentazione della conoscenza. Alla voce fuori campo, non più esclusivo luogo di produzione di senso, si affianca quella dei protagonisti, responsabili adesso in misura maggiore e insieme al regista della costruzione del proprio ritratto. Il documentario si apre alla pluralità di accenti che rende tangibile l'esistenza di tante Italie, alla differenza di desideri e speranze. Unisce, esaltando le dif. ferenze, chi filma e coloro che vengono in filmati. Tanto più che allora già iniziava a diventare territorio comune quella condizione di "essere ripresi", nella consapevolezza che quella poteva diventare un momento anche di auto-costruzione del proprio ritratto. Con la sua fragilità il documentario diventa cinema di conoscenza sentimentale, che necessità una ristrutturazione delle relazioni umane. Che emozione deve essere stato vedere apparire, un giorno a Brindisi, Tommaso e la sua personale visione della vita, capace di scombinate certezze e aprire ad uno sguardo nuovo sulla vita di un'intera città; che intensità nello sguardo delle donne 97

inginocchiate a raccogliere le olive mentre il progresso sta nella torre della fabbrica appena poco più in là; quanta sofferenza nella voce di chi confessa di aver dovuto abortire tre volte, costretta dalla miseria, negando un'anima al Signore, La regista cede spazio alle sue protagoniste, e queste lo ricambiano con quella materia umana che rende indimenticabili i documentari.



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APPENDICE

Come qualche volta vecchie cartoline di antichi borghi o di piazze cittadine ci fanno riflettere su come ha agito la violenza speculativa su luoghi ora irriconoscibili o quasi, queste foto ci fanno capire quanto siamo ora diversi, noi uomini post moderni, e quanto sia cambiato in poco tempo e maniera irreversibile, sotto la ruspa del capitale, il mondo nel quale viviamo. Quando si incontra una persona dopo molti anni l'effetto è sempre sorprendente: si stenta a ritrovare quelle espressioni, quel taglio degli occhi, quei modi di muovere le mani un tempo così familiari e ora non più. Poi, dopo il primo impatto, i ricordi si riaccendono e ritroviamo, in immagini diverse, quelle espressioni e quegli occhi e quelle mani. Le immagini di Maria di Capriati rivelano molteplici valenze, sguardi prospettici, nuclei di riflessione. Apparentemente potrebbero essere solo belle fotografie in uno stupendo bianco e nero raffiguranti tratti e momenti di vita di una donna vissuta in un tempo ormai andato: una vecchia contadina per la nostra fotografa e regista importante per motivi affettivi e biografici che risalgono agli anni della sua infanzia pugliese. Non è solo questo. Questi bellissimi scatti hanno per noi valore di testimonianza di un mondo che aveva saputo trovare nellegame fra l'uomo e la terra consapevolezza della propria esistenza. Come quelle vecchie cartoline, a ben guardarle, le immagini di Maria ci raccontano di noi e riconosciamo in quelle antichi legami,

vecchi richiami, eterni vincoli affettivi. Qui Maria di Capriati ha questa funzione. Noi uomini tecnologici, a prima vista, non riconostiamo più quel mondo, non capiamo più il senso di quegli animali, di quelle pietre, di quel modo di pregare. Nelle immagini di Maria, invece, tutto ha un senso, ogni elemento ha una sua collocazione naturale, razionale, essenziale. Scavare lungo il canale della memoria, che se è consapevole è anche duratura, ci permette di capire pur non avendo vissuto le scene ritratte dai fotogrammi. Se andiamo indietro

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rccsezionena con la memoria a come eravamo riusciamo a immaginare il consiglio che Maria ai piedi di un albero sussurra al potatore in equilibrio sui rami, capiamo quell'affetto verso le umili e belle piante da vaso, riusciamo a immaginare le preghiere e le richieste rivolte a quel sistema di fede e rassegnazione che era la religiosità contadina. Tutti quei pensieri di Maria avranno agito secondo antiche regole e consuetudini, modi di dire derivanti dall'esperienza e dal peso della storia. Le preghiere poi, testimoniate da quello sforzo al cospetto delle immagini sacre, avranno agito coniugando inconsapevolmente la rasseguazione verso la ciclicità della storia, l'eterno conflitto tra nascita e morte, e la speranza di pace sulla terra 0 in un altro mondo. Quel mondo da dove siamo definitivamente usciti è tutto questo. Cecilia Mangini ha voluto fissare in queste immagini ciò che all'epoca il suo occhio di giovane e impegnata donna ha ritenuto essere L'essenza di quel sistema di valori che perlei si personificavano nell'esile figura di quella contadina pugliese. Si potrebbe riflettere su quanto il mondo contadino abbia influito sulla passione civile di Cecilia, sulle sue scelte politiche e professionali, sulla sua vita. A scavare in ciò che ha realizzato in mezzo secolo di attività si trovano numerose tracce di

quella sua breve ma intensa stagione pugliese che in Maria viene sintetizzata da queste immagini. Il legame con le radici, la comprensione del loro mutare, il disgregarsi del mondo contadino e il repentino trasformarsi di questo in periferie cittadine da conoscere, disagi da interpretare, vicende di ultimi in cerca di testimonianza: sono le tematiche principali del rapporto tra Cecilia e l'immagine, fissa o în movimento. Allora anche in storie diverse, anche in luoghi differenti e realtà distanti è possibile sentire la voce di quella contadina pugliese che a Cecilia ha detto tanto e che a noi oggi trasmette tanto ancora.

Mirko Grasso 102

Maria di Capriati

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106 ini a Mangi Cecili.

Cecilia e Lino 109

Cecilia, Lino è Miccichè 111

Cecilia fuma

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Cecilia 113

Cecilia riprende 112

Biografia di Cecilia Mangini

Cecilia Mangini nasce a Mola di Bari il 31 luglio 1927, da padre meridionale e madre toscana. Nel 1993 la sua famiglia si trasferisce a Firenze. Qui la regista ha la possibilità di compiere i primi passi nel cinema, già durante gli ultimi anni del regime, attraverso l'esperienza dei CineGUE È alla fine della guerra, però, che la caduta del regime consente un vero e proprio aggiornamento sugli sviluppi del cinema mondiale, e Cecilia Mangini inizia il suo apprendistato come fotografa, critica e saggista per importanti riviste di settore come «Cinema Nuovo», «Cinema '60», «L'Eco del cinema», e organizzatrice all'interno del Circolo del Cinema «Controcampo». Trasferitasi a Roma, la Mangini condivide, fin dal suo esordio, lo spirito che animava gran parte degli intellettuali italiani che, ormai ad 'un decennio dalla fine della dittatura, contribuirono a dare in un certo senso continuità a quella grande esplorazione e ripensamento del rapporto fra cinema e realtà che, per la Mangini, determina un interesse per le problematiche sociali unito ad un sentimento di partecipazione politica e umana alle vicende degli ultimi, riuscendo a tracciare, negli anni del nascente boom economico, un ritratto inedito del nostro Paese. Nasce così la collaborazione con Pier Paolo Pasolini, con cui realizza due documentari che raccontano le grandi periferie della capitale, Ignoti alla città (1958) e La canta delle marane (1962) e Stendalì - Suonano ancora (1960). In particolare Stexdalî è il risultato di un altro incontro determinante per la regista pugliese, quello con Fantropologo Ernesto De Martino e i suoi studi sulla cultura popolare delle classi contadine meridionali (con il marito Lino Del Fra, Cecilia realizzerà altri due documentari ispirati alle ricerche di De Martino, L'inceppata e La passione del grano). Il documentario girato in un piccolo paese di lingua grika del Salento, Martano, ricostruisce uno degli ultimi esempi di lamentazione funebre. 115

Quella demartinana rimane una sorta di "impronta", fatta di grande capacità narrativa, vicinanza con i propri soggetti in un'ottica di compartecipazione delle stesse lotte di liberazione e di interesse per il Meridione, che è possibile riconoscere anche in tutti i successivi lavori della regista. Negli anni successivi l'interesse della regista si allarga alla fabbrica, la condizione femminile e giovanile, nel tentativo di svelare i meccanismi dell'allora nascente capitalismo italiano e quei drammi sociali che si nascondevano dietro il boom economico. Cecilia Mangini ha descritto così la condizione delle lavoratrici di Essere donne, mediometraggio del 1965: tabacchine, braccianti, emigranti che vedevano nella fabbrica un salto di qualità per la propria esistenza; con Brindisi '65 (1965), l'impatto del grande petrolchimico Monteshell sulla città di Brindisi e la nascita di una classe operaia, accompagnando nelle sue lunghe fughe in motorino, Torzzeso (1965), giovane brindisino con il sogno di entrare nella grande fabbrica appena impiantata; il mito della boxe, occasione per uscire da una condizione di marginalità, in Domani vincerà (1969) fino a Comizi d'amore '80 lunga inchiesta in cui riprendendo lo spunto pasoliniano, si traccia uno straordinario affresco dei cambiamenti di mentalità in materie come l'amore e la sessualità. Nella sua lunga carriera Cecilia Mangini ha diretto oltre 40 documentari, realizzato reportage fotografici, firmato alcune sceneggiature fra cui quella de La villeggiatura (1972) di Marco Leto e Antonio Gramsci - I giorni del carcere (1977) di Lino Del Fra. 116

Filmografia di Cecilia Mangini Ignoti alla città 1958, 11 min., 35 mm, col., v.0, italiano regia e sceneggiatura: Cecilia Mangini fotografia: Mario Volpi musica: Massimo Pradella montaggio: Renato May produzione: A. Carella testo: Pier Paolo Pasolini Un racconto dell'esistenza, dell'ambiente, dei sogni dei ragazzi di vita delle borgate romane, in un racconto a metà fra il reportage e lo sguardo poetico su un mondo nascosto. Maria e i giorni 1959, 10 min., 35 mm, col., v.o. italiano regia e sceneggiatura: Cecilia Mangini fotografia: Giuseppe De Mitri musica: Egisto Macchi montaggio: Renato May aluto operatore e organizzatore: Giosuè Bilardi

Il ritratto affettuoso di Maria, una delle ultime fiere rappresentanti di quella millenaria civiltà contadina che il progresso economico hanno cancellato per sempre. ° Firenze di Pratolini 1959, 17 min., 35 mm, b/n e col, vo, italiano regia e sceneggiatura: Cecilia Mangini fotografia: Giuseppe De Mitri musica: Egisto Macchi montaggio: Renato May 117

produzione: G.L.M. testo: Vasco Pratolini La Firenze nascosta, ormai scomparsa, vissuta dai suoi abitanti tra

dignitosa povertà e marginalità. Stendalì (Suonano ancora) 1960, 11 min., 35 mm, col., vio, italiano regia e sceneggiatura; Cecilia Mangini fotografia: Giuseppe De Mitri musica: Egisto Macchi montaggio: Renato May produzione: Vette Film Italia testo: Pier Paolo Pasolini voce recitante; Lilla Brignone L'ultima testimonianza di un lamento funebre in lingua grika, realizzato a Martano, comune della Grecìa salentina, sulla spinta delle lezioni del cinema sovietico e dell'etnologo Ernesto De Martino. Allarmi siam fascisti 1962, 107 min., 35 mm, b/n, v.o. Italiano regia: Cecilia Mangini, Lino Del Fra, Lino Miccichè fotografia: Giuseppe De Mitri musica: Egisto Macchi montaggio: Renato May (firmato con lo pseudonimo di Georgy Urschitz)

produzione: Universale Film testo: Franco Fortini voci: Nando Gazzolo, Giancarlo Sbragia, Emilio Cigoli Composto esclusivamente di materiale di repertorio che va dall'inizio del Novecento fino ai fatti di Genova nel 1960, il film indaga il fascismo dalle sue origini, dall'appoggio del capitalismo agrario e industriale, fino alle sue successive ramificazioni nei vari Paesi europei. La canta delle marane 1962, 10 min., 35 mm, col., v.o. Italiano regia: Cecilia Mangini fotografia: Giuseppe De Mitri 118 musica: Egisto Macchi montaggio: Renato May testo: Pier Paolo Pasolini Il nostalgico addio al mondo incantato delle marane, luoghi magici per î giovani abitanti delle sterminate periferie romane. Brindisi '65 1965, 28 min., 35 mm, b/n e col. vo. italiano regia: Cecilia Mangini

fotografia: Giuseppe Pinori musica: Egisto Macchi montaggio: Silvano Agosti (firmato con lo pseudonimo di Rosa Sala) Inchiesta cinematografica che racconta, attraverso i volti e le voci dei suoi abitanti, l'arrivo della grande industria nella cittadina pugliese, il suo impatto con un mondo ancora legato alla terra e la formazione travagliata di una nuova classe operaia, Essere donne 1965, 28 min., 35 mm, b/ne col., vio. italiano regia e sceneggiatura: Cecilia Mangini fotografia: Luciano Graffigna musica: Egisto Macchi montaggio: Silvano Agosti (firmato con lo pseudonimo di Marco Menenti) produzione: Unitelefilm testo: Felice Chilanti Mediomettaggio che analizza, nel Nord e nel Sud del Paese, la difficile condizione femminile nel mondo del lavoro. Felice Natale 1965, 13 min., 35 mm, b/n e col, vo. italiano regia e sceneggiatura: Cecilia Mangini

fotografia: Luigi Sgambati musica: Egisto Macchi (firmato con lo pseudonimo di Aldo De Blanc) montaggio: Silvano Agosti (firmato con lo pseudonimo di Maria Rosada) produzione: Giorgio Patara Con ironia la Mangini denuncia, coraggiosamente e con un certo anticipo sui tempi, i falsi miti del consumismo e della moda. 119

TE Tommaso 1965, 11 min., 35 mm, b/n, vo. italiano regia: Cecilia Mangini fotografia: Giuseppe Pinori musica; Egisto Macchi montaggio: Silvano Agosti (firmato con lo pseudonimo di Rosa Sala) L'arrivo della grande industria in una cittadina del Sud visto con gli occhi, ingenui e abbagliati dalle promesse del benessere, di un ragazzo. La briglia sul collo

1972, 15 min,, 35 mm, col. v.0. italiano regia: Cecilia Mangini fotografia: Eugenio Bentivoglio produzione: Nuovi Schermi Commuovente ritratto di Fabio Spada, ragazzino difficile, irrequieto, indisciplinato, che il mondo degli adulti ha già relegato nella categoria dei "disadattati". Altri documentari di Cecilia Mangini: Vecchio regno (co-regia Lino Del Fra) (1959) Divino amore (1960) Stalin (co-regia di Lino Del Fra, censurato e non firmato dagli autori) (1963) O Trieste del mio cuore (1964) La scelta (1967) Domani vincerò (1969) L'altra faccia del pallone (1972) Mi chiamo Claudio Rossi (1972) Dalla ciliegia al lambrusco (1973) Una doppia assenza. Immagini sul lavoro femminile nell'industria (in coli. con altri) (1987) Uomini e voci del congresso socialista di Livorna (2004).

120 Sceneggiature e soggetti: La villeggiatura (1972, Marco Leto) La torta in cielo (1974, Lino Del Fra) Antonio Gramsci - I giorni del carcere (1977, Lino Del Fra) Comizi d'amore '80 (1982, Lino Del Fra) Klon (1994, Lino Del Fra) Regina Coeli (2000, Nino D'Alessandria).

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