Cinema: il destino di raccontare 8893445743, 9788893445740

Se si escludono le bellissime pagine su Charlie Chaplin, il suo attore-feticcio, nel Romanzo del Novecento, il grande af

178 17 11MB

Italian Pages 381 [246] Year 2018

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

Cinema: il destino di raccontare
 8893445743, 9788893445740

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Se si escludono le bellissime pagine su Charlie Chaplin, il suo attore-feticcio, nel Romanzo del Novecento, il grande affresco di Giacomo Debenedetti sulle forme narrative del secolo breve, manca un capitolo, quello sul cinema, un’esperienza ormai alle spalle. Cinema: il destino di raccontare ricompone il capitolo mancante, attingendo dalle riviste letterarie e cinematografiche, e dai quotidiani, un gran numero di interventi che delineano il ritratto inedito di uno dei pochissimi scrittori di cinema in cui il rapporto fra teoria e pratica è forte e incisivo, la concretezza dei riferimenti assolutamente estranea al compiaciuto estetismo dei letterati imprestati al cinema. Il suo territorio d’elezione è il cinema americano, dove la sceneggiatura è in grado di “mettere tutto in movimento”. Se grazie alle prodigiose risorse della macchina produttiva tutto funziona, o quasi, il merito va anche agli attori e alle attrici. Sono loro che evocano le intermittenze del cuore. Soprattutto Katharine Hepburn che “ci fa toccare alcuni segni del Destino con la maiuscola. È andata lei personalmente, è andata lei per noi, così fragile e femminile e lieve, a parlare con la Sfinge. È una di quelle che si sono voltate indietro, e tuttavia ritornano a noi. Oh. Euridice!”.

Giacomo Debenedetti è nato a Biella il 25 giugno 1901, e morto a Roma il 20 gennaio 1967. È stato uno dei maggiori critici letterari del Novecento, e ha insegnato all’Università di Messina e alla Sapienza di Roma. Già nella Torino della sua formazione intellettuale il cinema ha un posto di rilievo con il lavoro per Pittaluga e poi per la Cines, a cui farà seguito il notevole contributo alla nascita del doppiaggio. Nell’autunno 1936 si trasferisce a Roma su invito di Rudolf Arnheim e collabora alla rivista Cinema, dove tiene con grande autorevolezza la rubrica di critica. Costretto all’anonimato dalle leggi razziali, intensifica l’esperienza di sceneggiatore, scrivendo soprattutto con Sergio Amidei una ventina di film. Dal ’46 al ’56 è redattore dei testi parlati del cinegiornale “La Settimana Incom”, migliaia di pagine che raccontano le difficoltà e le speranze degli italiani del dopoguerra. Nel 1958 contribuisce alla nascita della casa editrice Il Saggiatore, della quale diventa direttore letterario. Studioso e traduttore di Proust e Joyce, si rivela narratore con 16 ottobre 1943, struggente memoria della deportazione degli ebrei romani. Il suo ultimo, grande saggio è Conversazione provvisoria del personaggiouomo, letto alla fine di agosto 1965 alla Mostra di Venezia. Sono apparsi postumi Il romanzo del Novecento (1971), Poesia italiana del Novecento (1974), Verga e il

naturalismo (1976), Pascoli: la rivoluzione inconsapevole (1979), Proust (2005).

le Isole. 1

Giacomo Debenedetti Cinema: il destino di raccontare a cura di Orio Caldiron

Centro Sperimentale di Cinematografia  

Consiglio d’amministrazione Felice Laudadio, presidente Giancarlo Giannini, Carlo Verdone  

Direttore Generale Marcello Foti  

Comitato scientifico Felice Laudadio, presidente Francesca Archibugi, Gianni Canova, Valerio Caprara, Severino Salvemini, Vito Zagarrio  

Collegio dei revisori dei conti Cosimo Giuseppe Tolone, presidente Roberto De Martino, Rossella Merola  

Ufficio stampa, comunicazione, sito web ed editoria Alberto Crespi  

Gestione amministrativa Mario Militello  

Redazione Caterina Cerra  

Impaginazione Romana Nuzzo     La nave di Teseo   Elisabetta Sgarbi Direttore editoriale e generale Mario Andreose Presidente Eugenio Lio Editor in chief Oliviero Toscani Editor   © 2018 La nave di Teseo editore, Milano © 2018 Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia   ISBN 978-88-9344-792-8     Prima edizione digitale novembre 2018     Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Sommario

Introduzione di Orio Caldiron Cronologia Nota ai testi Cinematografo Poesia di Charlot Diario del Cinema La conversione degli intellettuali al cinema Risorse del Cinema La vittoria di Topolino Attendiamo l’eroe… Il cinema e gli intellettuali Attore o regista? Passato e presente di Romeo e Giulietta Panoramica di Venezia Misteri e poesia dell’illuminazione Scrivere con la luce Dive: maschere e miti del Cinema Chaplin-Charlot Il senso dell’avventura L’ardua vita di Greta Garbo Miraggi di terre beate Controprove Gloria del mattino La Bertini prima diva Se non era per Doris… Cronache di film nuovi Fuori l’autore Pabst e il pubblico In sala o sullo schermo?

Stroheim a Parigi Lavorazioni dure Tradurre un film Il doppiaggio in Italia Primo punto: la sceneggiatura In questi giorni Addio Poggioli Cinema a Roma Cinema: il destino di raccontare Inviato speciale a Cinelandia Charlot clown e dandy Indice dei film Indice dei nomi

Introduzione di Orio Caldiron

Sembrerà un paradosso, ma ci voleva il cinema per costringere Giacomo Debenedetti a parlare esplicitamente dei problemi di metodo che nei suoi saggi fa di tutto per evitare. Nelle lezioni universitarie, se non riesce a liberarsene con una battuta o un aneddoto, avvia una lunghissima divagazione che, come certi ricorrenti rituali propri di ogni professore, sembra cercare la complicità degli allievi più maliziosi. Quando all’inizio degli anni cinquanta rievoca la lontana stagione delle polemiche sul cinema tra arte e non arte gli capita di sbilanciarsi sull’argomento come non è mai successo prima: Per trenta o quarant’anni, nel nostro paese, l’occupazione principale di chiunque manovrasse una penna, fu di riflettere sull’arte. E proprio perché eravamo così puntigliosi, così intransigenti nelle discriminazioni tra arte e no, quelle discriminazioni, una volta concesse, passavano in giudicato. Per il cinema la cosa avvenne quando nei nostri cenacoli e dintorni cominciò a spargersi la notizia: Benedetto Croce è andato al cinema. Cosa fatta, capo ha.

In realtà Croce impiega molto tempo prima di ammettere nel secondo dopoguerra, con le cerimoniose cautele di un esorcismo, che “il film, se si sente e si giudica bello, ha il suo pieno diritto, e non c’è altro da dire”. Debenedetti si era liberato del problema sin dal ’27, aderendo al partito del sì nell’inchiesta di Solaria, in cui si schiera con la nuova generazione di intellettuali disposti a battersi per la legittimazione estetica del cinema contro le resistenze della vecchia guardia: “Il cinematografo esprime, con i suoi mezzi e la sua tecnica, dei sentimenti e degli affetti. È dunque un’arte”. Riconosciuta al cinema la capacità di far sperimentare allo spettatore immerso nella sala buia i propri sentimenti, di stimolarne le facoltà emotive e le reazioni motrici, non esita a confessare la sua predilezione per le fiabe che gli fanno vedere l’inverosimile e le situazioni vertiginose dei comici “attaccati alla grondaia di un grattacielo”, come l’acrobatico Harold Lloyd. Sarebbe eccessivo vedere già nelle prime impressioni, maturate attraverso “una assai parca esperienza di frequentatore del cinematografo”, l’annuncio della passione per il cinema americano che contrassegna la sua attività di critico e affiora fin dalle occasioni offertegli dalle cronache culturali che tiene sulla Gazzetta del Popolo. Ma espressioni come sala buia, spettatore, emozioni, per quanto generiche, sembrano rimandare alla suggestiva ricchezza dello spettacolo popolare più che alla rarefatta idea del film d’arte distillata nei laboratori delle avanguardie e nei cinemini del Quartiere Latino. Crociano ortodosso di una sua personale, disinibita ortodossia, dato a Croce quel che è di Croce (in esplicita sintonia con la mobilitazione dell’estetica crociana invocata e attuata dai coetanei più intraprendenti), nell’accostarsi allo spettacolo cinematografico Debenedetti si concede la più ampia libertà di movimento, nella convinzione per niente snobistica che il cinema sia il luogo dell’incontro degli intellettuali con la massa: uno dei più tipici ed efficaci strumenti di cui la vita moderna si valga per stabilire una circolazione di idee e di stati d’animo tra il popolo e le élites. È una porta aperta in permanenza che sopprime la clausura degli intellettuali, che rende impossibile la torre d’avorio.

La svolta decisiva nei suoi rapporti con il cinema avviene nell’autunno 1936 quando su invito di Rudolf Arnheim si trasferisce a Roma per lavorare all’Enciclopedia del Cinema, promossa dall’Istituto Internazionale per la Cinematografia Educativa e coordinata dallo studioso tedesco.

Alla rivista Cinema, nata pochi mesi prima con lo stesso gruppo redazionale, collabora sin dal primo numero con suggestivi ritratti divistici e brillanti incursioni nella mitologia cinematografica, esibendo una strepitosa conoscenza del cinema del passato recente, inspiegabile senza la full immersion nelle edizioni italiane dei film muti stranieri che aveva alle spalle. Dopo l’avvento del sonoro, aveva contribuito con pochi altri alla nascita e al perfezionamento del doppiaggio fino a diventarne uno dei protagonisti più richiesti. Commissionatogli inizialmente da Stefano Pittaluga, il lavoro per la Cines, e poi per la Lux e per l’Enic, è stato tra il ’29 e il ’36 l’esperienza che, passando e ripassando i film in moviola, gli ha consentito di approfondire i segreti della tecnica cinematografica. Senza contare il rapporto diretto con i titoli importanti di molti registi dell’epoca tra muto e sonoro, come Pabst, Dupont, Fejös, Siodmak, Lang, Trenker, Cukor, Cruze, Wellman in cui ebbe modo di imbattersi. Debenedetti è uno dei pochissimi scrittori di cinema in cui il rapporto tra teoria e pratica sia così forte e incisivo, così evidente nella stessa attività recensoria, dove si avverte a più riprese una particolare concretezza di riferimenti alle pratiche realizzative, al di fuori della superficiale approssimazione e del compiaciuto estetismo dei letterati imprestati al cinema. Entrato dalla porta secondaria, non è escluso che a un certo punto aspirasse a fare sul serio passando per la porta principale. La sua attività di sceneggiatore, e in un’occasione di aiuto regista, forse poteva essere il primo approccio, l’apprendistato di un aspirante autore cinematografico in sospetto di dandismo, almeno a giudicare dalla fotografia conservata nell’archivio di famiglia di Giacomo trentasettenne – capelli lucidi di brillantina, giacca doppiopetto bianca come le scarpe, pantaloni neri – sul set di Partire mentre spiega una scena a un attore. Come dimenticare che nello stesso periodo Samuel Beckett in uno slancio di entusiasmo per il nuovo mezzo espressivo scrive una lettera rimasta senza risposta a Ejzenštejn chiedendogli di diventare suo assistente? Qualcuno è passato alla storia per aver inventato le “stellette” con cui ancor oggi si esprimono sinteticamente i giudizi sui film, ma Giacomo Debenedetti nelle ventisei recensioni apparse nella rubrica “In questi giorni” di Cinema – tra il dicembre ’37 e il marzo ’38, prima che le leggi razziali rimuovessero il suo nome dalla rivista e subito dopo anche dalle sceneggiature a cui aveva cominciato a partecipare – potrebbe rivendicare l’invenzione dell’autore plurale dal momento che non attribuisce sempre il film al regista, ma di volta in volta all’attore, allo sceneggiatore, al produttore o addirittura all’operatore, il cui apporto risulti fondamentale: Non da oggi siamo convinti che, essendo il film creazione collettiva, autore ne è chi manifesti la personalità preponderante, chi abbia convogliato – sto per dire, magnetizzato – il lavoro dei molti verso l’unità spirituale dell’opera. A questa stregua, si capisce che talvolta possano sorgere dei conflitti di potere: supponiamo, per fare un’ipotesi delle più improbabili, un film della Hepburn diretto da Vidor. Chi sarebbe allora la personalità decisiva? Chi il vero autore? Ogni attribuzione conterrebbe una critica implicita; stabilirebbe dove cada l’accento del film, su quale valore poggino i suoi valori.

Nella singolare ricerca di paternità il caso paradigmatico, l’unica agnizione indiscutibile gli sembra rappresentata da Greta Garbo: Sia presente sul set, o se ne stia in camerino, ovvero nel suo bungalow ad attendere il proprio turno, Greta convoglia le energie e le aspirazioni di tutti i suoi collaboratori, dal regista al macchinista, verso il film di Greta. Lei è l’autrice del film, la vivente figura di quella spiritualità che riesce a calamitare il lavoro di tutti verso il segno dell’arte. Il regista non sarà che un tramite di quel comando: un “buon conduttore”. In generale: autore del film è chi ha il potere di provocare il senso religioso d’una migrazione verso un determinato mondo di figure, di fatti, di sentimenti.

Se l’uso delle “stellette” è tutt’al più un fortunato accorgimento giornalistico, l’idea adottata da Debenedetti nella sua pratica recensoria implica un gioco più complesso, fino a configurare atteggiamenti e procedure di una strategia critica estremamente articolata e problematica. La questione dell’autore plurale non si rinchiude negli steccati dell’estetica privilegiati dalle teorie di allora, ma si apre al territorio ricco e magmatico dello spettacolo cinematografico, tra griglia dei

generi e prodotto industriale, altrettante categorie indispensabili per decifrare storie e segnali che vengono dal pianeta Hollywood. Sfuggono l’importanza del cinema hollywoodiano, e insieme l’impatto esercitato sul pubblico anche nelle più lontane province dell’impero, se non si tiene conto del ruolo svolto dal mito nella sua formazione: L’America ha potuto creare una grande cinematografia, in quanto ha trovato nel cinema la forma originale di un contenuto originale: i grandi miti pionieri e puritani (western e film d’avventura), gli ingenui stupori di un mondo giovane di fronte agli automatismi della vita (two-reels e vari cicli comici), trasposizione delle favole borghesi della vecchia Europa rivedute con gli occhi d’oltreoceano (riduzioni per lo schermo dei drammi e romanzi europei). La tensione e l’intima necessità del contenuto creavano, come sempre in arte, la solidità e l’organicità di quella che si chiama la forma: dai grandi sceneggiatori ai grandi registi, dai grandi divi alle grandi strutture industriali tutto è stato funzione e conseguenza dell’aver qualche cosa da dire. Ma, esplorati ampiamente quei mondi che si erano assunti in proprio, l’urgenza del contenuto si è venuta via via distendendo. All’epoca della grande fantasia pare che stia ormai subentrando quella del grande mestiere. Il cinema, ritirandosi, ha lasciato l’involucro. […] Il cinema ha bisogno ormai di nuovi miti.

Certo, fin dagli anni trenta il cinema americano si è conquistato il primato grazie alle prodigiose risorse di una macchina produttiva che sa mettere d’accordo la scelta del soggetto, e del genere o filone in cui s’inscrive, con le sceneggiature in grado di “mettere tutto in movimento”, l’affidabilità narrativa dei registi, da Lubitsch a Capra, da Fleming a Hathaway, con i miracoli della fotografia “tutta effetti, tutta virgole” nei suoi sapienti giochi di luci e ombre. Ma se i vari ingredienti vanno al loro posto, se tutto funziona, il merito principale, o almeno il più appariscente, spetta agli attori e alle attrici, a Gary Cooper, Clark Gable, Paul Muni, Jean Harlow, Louise Rainer, Marlene Dietrich, su cui si sofferma a più riprese la partecipe attenzione del critico. Il caso più clamoroso è forse quello di Katharine Hepburn che s’impadronisce di Dolce inganno di Stevens fino a farne un dramma adeguato alla propria statura di interprete: Nell’incarnare un personaggio, ella non ci presenta soltanto una maschera umana o una sorte individuale da decifrare con la nostra partecipazione di spettatori. Ci fa toccare alcuni termini solenni e precisi, alcuni segni definitivi del Destino con la maiuscola. È andata lei personalmente, è andata lei per noi, così fragile e femminile e lieve, a parlare con la Sfinge. V’è andata con quel suo passo che pare ancorarla alla terra contro la tentazione e la possibilità continua del volo. E del dialogo ansioso ed oscuro, del dialogo ch’ella ha affrontato con la sola scorta del suo coraggio, facendosi una forza della propria vulnerabilità, ci riporta gli enigmi divenuti trasparenti attraverso la trasparenza profonda e inesauribile del suo volto; attraverso gli scatti repentini eppur melodiosi del suo gestire; attraverso le sospensioni del suo parlare, obbedienti ad un ritmo interno e segreto, che trascende il disegno immediato della frase; attraverso le armoniche impulsive e i guizzi e le oscillazioni della voce. La Hepburn è una di quelle che vanno al di là. Dove? Bisognerebbe aver chiarito il mistero della poesia. È una di quelle che si sono voltate indietro, e tuttavia ritornano a noi, non si sono lasciate risucchiare dal gorgo. Oh, Euridice!

Non sorprende che fra i titoli italiani il solo apprezzato senza riserve sia Il signor Max di Camerini, garbata riproduzione degli intercalari e del birignao del bel mondo ormai entrata nella storia del cinema. Ma strappa l’applauso la raffinata eleganza con cui si muove nella strepitosa epopea del doppio, nella messinscena della finzione che è al centro del film, sempre in bilico tra verità e menzogna, apparenza e realtà, illusionismo e svelamento, senza riuscire a trattenersi dall’auspicare che il maestro romano “faccia il salto” (guardando a Proust?) fino a scoprire “le leve che comandano i vizi e le abitudini” del più ampio affresco sociale che sta dietro lo scintillio della superficie, il “lasciatemi divertire” della commedia. Quanto al resto, prevale l’ammirazione per i rappresentanti del cinema all’antica italiana, i Guazzoni, i Bonnard, i Righelli, i Bragaglia, i Malasomma. Sensibili ai diktat dell’industria, s’impongono grazie al senso dello spettacolo, che è il contrassegno dei metteurs en scène eclettici e fecondi, sintonizzati sugli umori del pubblico. Non

manca l’apertura di credito alle più estrose new entries, ma siamo sempre nell’ambito del mestiere, che avrebbe ancora molto da imparare dal cinema americano nonostante i suoi scricchiolii. Non si tratta tanto di imitarne situazioni e personaggi, e neppure di farne la parodia, sia pure nei modi acrobatici e fumisti, “alla seconda potenza”, di Stasera alle 11, il curioso pastiche giallorosa di Biancoli, ma piuttosto di seguirne l’esempio sulla strada del “film medio”, luogo d’incontro e di equilibrio tra le esigenze pratiche della committenza e quelle creative dello scenario. Senza insistere sulle insufficienze dei modelli produttivi nazionali, all’improvvisazione occorrerebbe sostituire la preparazione più rigorosa. La sceneggiatura, in questa prospettiva, è lo snodo più importante, quello che da noi viene più frequentemente sottovalutato, con il rischio, soprattutto nelle commedie, di far prevalere la logica deduttiva della immaginazione più meccanica che mette il piombo alle ali di tanti film italiani di ieri (e forse in parte anche di oggi). Nel dopoguerra – inaugurato da 16 ottobre 1943, commossa rievocazione della retata nazista nel Ghetto di Roma che si conclude con la deportazione di più di mille ebrei, il suo capolavoro narrativo – l’interesse per il cinema sembra passare in secondo piano. Riscoperte solo negli anni novanta ma finora mai ripubblicate, le recensioni per Milano Sera di un gruppo di film presentati al Festival del Quirino nell’autunno del ’45, sono ricordate soprattutto per la clamorosa stroncatura di Roma città aperta di Rossellini, “catacombale” rievocazione della resistenza a cui mancherebbe il senso dell’epos. Quanto al cinema francese, di cui qualche anno prima aveva ammirato come tutti l’intelligenza, ora non lo convince più. La “tattica combinatoria” di Les enfants du paradis di Carné è abilissima, ma il risultato gli sembra ambiguamente populista. Lo coinvolgono piuttosto i film sovietici che vede per la prima volta – soprattutto Lenin nel 1918 di Romm e Berlino, il documentario di Rajzman – drammatiche testimonianze della storia recente e meno recente a cui gli autori hanno saputo imprimere “il passo cadenzato dell’epopea”. Mentre riprende il sopravvento l’attività letteraria, il suo maggiore impegno è quello di redattore unico dei testi parlati per “La Settimana Incom”, il cinegiornale diretto da Sandro Pallavicini, che mantiene dal ’46 al ’56. Se si esclude la lezione in un liceo della capitale, in cui presentando alcune sequenze di Griffith, Chaplin, Max Linder racconta un capitolo del cinema delle origini, e la nota sulla Storia delle teoriche del film di Guido Aristarco apparsa in Epoca, nel lungo decennio non c’è più posto per il cinema tra gli interessi di Debenedetti che il cinema, anzi il cinegiornale, lo fa, anzi lo scrive. Probabilmente con divertimento, ma anche con disagio per l’incombente scadenza settimanale e i rari, ma inevitabili, attriti con la proprietà. A ripagarlo del “duro lavoro”, la convinzione di aver raccontato soprattutto all’inizio, con la spigliata immediatezza delle news, “speranze, aspirazioni e difficoltà di un popolo in via di risorgere dalla guerra”. Neppure quando indossa “la palandrana del professore” che attribuisce a De Sanctis – semmai lui resta fedele al doppiopetto – Debenedetti ama parlare di cinema, se non per utilizzare di tanto in tanto un termine tecnico dall’immediata efficacia descrittiva o per qualche aneddoto in grado di far da pausa nell’argomentazione. Solo Chaplin viene nominato in più di un’occasione. Nelle lezioni romane, riproposte in Il romanzo del Novecento, la rievocazione della maschera del grande attoreautore anima alcune pagine di straordinaria, congeniale vivacità. È curioso che per rappresentare in modo ancora più persuasivo la circostanza della tarda fortuna critica e editoriale dell’opera di Svevo, inventi di sana pianta Charlot perde l’autobus, una divertente comica che non esiste nella filmografia chapliniana ma conferma lo spessore mitico del personaggio. Non sorprende che il suo ultimo, grande saggio-testamento Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo sia letto alla fine di agosto 1965 alla Mostra di Venezia, dal momento che lo spazio dedicato al cinema è tutt’altro che marginale. “Frequentatore, purtroppo intermittente, del cinema”, non esita a inserirlo tra i protagonisti della letteratura e dell’arte contemporanee. Se ha buon gioco nel prendere le distanze dalle contraddizioni di Alain Robbe-Grillet e del Nouveau Roman, in un contesto in cui la narrativa rimanda alle acquisizioni della nuova fisica, è

garbatamente ironico nel confutare Antonioni “maestro dell’antipersonaggio” nelle bellissime pagine dedicate all’Eclisse e a Deserto rosso: Nell’accettare le leggi di probabilità, Antonioni si rivela un narratore moderno. Più difficile sembra riconoscerlo senz’altro come autore di antiromanzi. […] Il cinema favorisce le resistenze del personaggio-uomo, che mettono quasi sempre in scacco l’antipersonaggio. La tanto celebrata “presenza in scena” (il personaggio è là) comporta la presenza di un attore. L’interprete [Monica Vitti] dei due film che stiamo discutendo ha certamente raggiunto la massima coincidenza coi propri personaggi; ma il suo viso, il suo modo personale e inalienabile di essere al mondo, che riescono a rendere così comunicativa l’incomunicabilità dell’eroina, testimoniano un destino privato che le appartiene in proprio, al di là di quello che sta vivendo in scena.

Se sta nascendo, o è già nata, “un’arcadia dell’antipersonaggio” – è la nota conclusione del saggio – “a chi votarsi se non al vecchio, ma ancora vegeto, solerte, servizievole personaggiouomo?”. Che all’inizio veniva definito come quell’alter-ego, nemico e vicario, che in decine di migliaia di esemplari tutti diversi tra loro, ci viene incontro dai romanzi e adesso anche dai film. Si dice che la sua professione sia quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli. Se gli chiediamo di farsi conoscere, come capita coi poliziotti in borghese, gira il risvolto della giubba, esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche di te.

Nessuno meglio di Pasolini ha detto dell’uomo Giacomo Debenedetti in un memorabile intervento in cui riesce a sintonizzarsi con lo strepitoso incipit della Commemorazione che non era stata ancora scritta: Debenedetti è uno fra gli uomini più agguerriti che operino nella cultura italiana. Ma per me, continua a essere come la prima volta che l’ho conosciuto, com’è in realtà: un uomo tutto ansia e passione. Era nel primo dopoguerra, a Firenze: io ero un giovane facitore di versi friulani perduto nella platea, e Debenedetti parlava a questa platea: cosa dicesse non ricordo, a chi dicesse, e per quale occasione, nemmeno; certo, una di quelle grandi giornate della speranza. Ricordo solo lui che dice. […] C’era tutto lui, insomma, com’è nella storia. Forse che l’amore non sa che farsene della storia? Il mio amore è nato per un uomo che palpitava, cercava, tremava: il nostro amore, è per un uomo che palpita, cerca, trema.

Cronologia

1901-1926 Giacomo Anselmo Renzo Debenedetti nasce a Biella il 25 giugno 1901, in via San Filippo 13, da Tobia e Elisa Norzi. La famiglia appartiene alla borghesia ebraica cittadina. Il padre è commerciante. La madre, di origine vercellese, incide profondamente nella formazione del figlio, a cui trasmette tra l’altro l’attitudine per la matematica. Il 5 luglio 1902 nasce il fratello Corrado. Nell’ottobre 1913 si trasferisce con la famiglia a Torino, in via Duchessa Jolanda 17. Frequenta il Liceo Classico Cavour, manifestando sin da allora i suoi precoci interessi per la matematica e la letteratura. Si diploma a sedici anni, sostenendo privatamente l’esame di maturità. Si iscrive al Politecnico di Torino, al corso di Ingegneria Industriale Meccanica, di cui supera brillantemente il biennio. “Ero un giovane malinconico ed entusiasta”, ricorderà. “Ero completamente rapito da quei teoremi, da quei calcoli, da quegli algoritmi, dalla bellezza propriamente lirica di quei ragionamenti, di quelle associazioni, di quei passaggi, dal trionfo ogni volta inebriante con cui si giungeva alle splendide cadenze dei risultati verificabili, dopo il lungo palpitare nell’inseguimento delle formule successive, a volte ansioso, implacabile nell’accelerare il cuore, come quando si respirano i cromatismi della musica di Tristano” (dal discorso di ringraziamento per l’assegnazione nel 1961 del premio Tor Margana, riportato nella Cronologia, a cura di Marco Edoardo Debenedetti, in Giacomo Debenedetti, Saggi, Milano, Mondadori, 1999, p. LV). Nel 1917 muore di tumore il padre e l’anno successivo, durante un’epidemia di febbre spagnola, la madre. Gli zii Alessandro Debenedetti e Natalia Tedeschi accolgono Giacomo e Corrado nella loro casa di corso San Maurizio 36, in riva al Po. Nel gennaio 1918 tiene una conferenza per la Lega latina della gioventù, a cui risale il primo incontro con Sergio Solmi: “Ho conosciuto Giacomo Debenedetti, […], a Torino, durante una licenza militare, a una conferenza, che egli, giovinetto, teneva alla Lega latina […]. Non rammento quale fosse l’argomento della conferenza (cos’è rimasto in noi, fuor di uno sbiaditissimo ricordo, dell’ingenuo interventismo liceale di quegli anni?), ma mi durarono nella memoria la precisione, la forbitezza del dire, che rivelarono a noi press’a poco coetanei, nel futuro autore dei Saggi critici, oltre allo scolaro modello, una sorta di enfant prodige” (Sergio Solmi, “Curioso ma fedele”, La Fiera Letteraria, XXIII, 5, 1º febbraio 1968; poi in Giacomo Debenedetti 1901-1967, a cura di Cesare Garboli, Milano, il Saggiatore 1968, p. 107). Entusiasta wagneriano, frequenta il Teatro Regio e segue assiduamente la vita musicale della città. Al Regio avviene l’incontro con Renata Orengo che, nelle prime file del loggione, assiste con la madre Valentina e la sorella Olga ai Maestri cantori di Norimberga di Richard Wagner: “Un giovane seduto accanto a noi, resosi subito conto che dopo le prime battute ci eravamo perse in quel ginepraio di note e di temi, incominciò a voltarci le pagine e a segnare con il dito il punto in cui eravamo arrivati. Giacomino aveva allora diciotto anni, io ne avevo dodici. L’incontro dovrà ripetersi per diverse sere, galeotti sempre i Maestri cantori” (Rosita Tordi, “Intervista a Renata Debenedetti”, L’Informatore librario, XII, 4, aprile-maggio 1982, p. 19). Nel frattempo i suoi interessi letterari stanno diventando prevalenti, come conferma lo scritto inedito Il sermone della montagna del 20-25 dicembre 1919, dove s’interroga sulla funzione del critico visto come “risuonatore dell’artista”, “fratello minore dell’artefice”. Abbandonati gli studi di matematica, si iscrive nel gennaio 1920 alla Facoltà di Giurisprudenza, ottenendo l’ammissione al terzo anno. Nel 1921 si laurea in Giurisprudenza con una tesi sulla filosofia civile di Gian Domenico Romagnosi. Nel gennaio 1922 si iscrive nuovamente all’università, questa volta al corso di Filologia classica

della Facoltà di Lettere e Filosofia per passare poi a Filologia moderna. Sono gli anni della “Torino di Gramsci e di Gobetti ch’era una delle metropoli culturali d’Italia”, partecipe del più vasto scenario della cultura internazionale, come delle lotte operaie d’avanguardia. Se non ha avuto rapporti diretti con Antonio Gramsci, “all’università e fuori, conobbe Piero Gobetti, che gli concesse fino all’ultimo un’amicizia polemica e fraterna” (Nota autobiografica di Giacomo Debenedetti [1957], in Il Novecento di Debenedetti. Atti del Convegno, Roma, 12-3 dicembre 1988, a cura di Rosita Tordi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1991, p. 339). Il clima degli anni universitari, quasi l’“autobiografia di una generazione”, verrà rievocato più tardi: “Mattini dell’università di Torino, dei quali posso testimoniare di persona: sotto i portici del cortile […], chi ora con la macchina del tempo potesse tornare a quei mattini, sentirebbe di cosa si discorreva. Croce e Gentile, Gentile e Croce, il grande duello: e il criterio per molti di noi preponderante consisteva nel vedere quali di quei concetti in lizza sapesse meglio illuminare l’idea dell’arte. […] In una fase di maggiore maturità, questa situazione si vede rispecchiata nei Quaderni del carcere di un più anziano di noi, Antonio Gramsci. Lui aveva già distaccato, dal fondo comune dove ancora le nostre adolescenze si arrovellavano, una sua autobiografia, e con che segno incisa. Eppure, quando si trovò in prigione, solo col proprio cervello, sul punto ormai di formulare la sua autonoma filosofia della prassi, anche lui constatò la necessità di pagare un pedaggio al Croce. […] S’è detto Gramsci: cioè un uomo che intimamente aveva già attuata la “rottura”. […] Noi, con tecnica, linguaggio e metodologia crociane ci provavamo a forzare le uscite, che la metodologia crociana aveva sperimentate impraticabili. Ci provammo coi motivi logici: senso vietato. Coi motivi religiosi: senso vietato. Ci provammo col tornare alla distinzione tra le varie arti, se mai qualcuna, signoreggiando sulle altre, più suggestivamente alludesse al segreto delle sorgenti: senso vietato anche da quella parte. […] Quei nostri stessi interrogativi se li poneva anche Piero Gobetti, che era ancora tra noi, esempio di tutti i ‘noviziati eroici’. Non posso dire che già si svolgesse, entro di lui, il dialogo con la morte imminente; piuttosto, il suo dialogo con la vita si svolgeva a battute acceleratissime. E se egli condivideva i nostri interrogativi, la sua impazienza vitale, il suo fosforo esuberante gli moltiplicavano i modi di sentirsi alacre. […] Come tutte le nuove leve, anche noi entrammo nel mondo con la sorniona, entusiastica ambizioni di reinventarlo. E anche noi sentimmo quelle che più tardi dovevano comunemente chiamarsi le voci telluriche, gli assalti e le rivelazioni dell’angoscia, i ricordi irriconoscibili della mneme, anche noi incontrammo gli emblemi sfingetici e lancinanti; ma tutto questo non aveva diritto di cittadinanza nella coltura del tempo, ancora benestante” (Giacomo Debenedetti, Probabile autobiografia di una generazione (Prefazione 1949), in Saggi critici. Prima serie, Milano, Mondadori, 1952; ora in Id., Saggi, cit., pp. 107-111). Nel maggio fonda con Sergio Solmi, Mario Gromo, Emanuele F. Sacerdote la rivista Primo Tempo, che presenta per la prima volta alcune poesie inedite di Eugenio Montale e rilancia con un numero monografico Umberto Saba, avviando la trentennale amicizia con il poeta triestino: “Era l’estate [dell’anno dopo]; al principio d’autunno Saba venne a Torino, si presentò a casa mia, dov’era la redazione della rivista. Mezz’ora dopo, l’incontro letterario era già divenuto un’amicizia. Scoprimmo alcune somiglianze di tipi, di vicende, di gusti, di abitudini, di manie, di nobiltà e di ridicoli tra le nostre due famiglie ebraiche. Mi proponevo allora di scrivere uno studio sulla sua poesia. Rileggemmo insieme quasi tutto il Canzoniere del ’22. Prima della fine dell’anno, quello studio uscì” (Giacomo Debenedetti,“Lettere di Umberto Saba”, Nuovi Argomenti, X, 41, novembre 1959; ora in Saggi, cit., p. 1099). È Saba a fargli conoscere negli anni seguenti Bobi Bazlen, destinato a diventare uno dei grandi irregolari della società letteraria. Nel 1923 su Il Convegno, la rivista diretta da Enzo Ferrieri a Milano, pubblica Amedeo, il suo primo racconto. All’inizio del 1924 scrive le conferenze sui profeti di Israele, dedicate a Amos, Osea, Isaia e Geremia, che tra marzo e aprile tiene a Torino nell’ambito della comunità ebraica della città, confermando l’appassionato interesse del giovane oratore per il grande messaggio

biblico. Saranno pubblicate postume soltanto nel ’98 con l’introduzione di Cesare Segre, che ricorda come “il Debenedetti delle cinque conferenze ha compiuto già importanti esperienze intellettuali, forse le più decisive; però non ha ancora attraversato i climi e i sentimenti che un secolo breve ma terribile stava allora maturando, e che, oltre a lasciare in lui tracce indelebili, avrebbero secondo i casi acuito, accentuato, selezionato, arricchito la sua visione delle cose” (Cesare Segre, Introduzione a Giacomo Debenedetti, Profeti. Cinque conferenze del 1924, a cura di Giuliana Citton, Milano, Mondadori, 1998, p. VIII). Nell’estate, tra i boschi di Champoluc, legge Du côté de chez Swann di Marcel Proust, prestatogli dall’amico Guglielmo Alberti: è l’incontro con uno dei grandi amori letterari della sua vita. Sul Baretti, la rivista diretta da Piero Gobetti, appare pochi mesi dopo il suo primo saggio proustiano. Nel 1926 sono le Edizioni del Baretti a pubblicare Amedeo ed altri racconti, la sua prima prova narrativa, destinata a non avere seguito. Oltre a Amedeo, il volume comprende Cinema Liberty, Suor Virginia e Riviera, amici. Nel racconto Cinema Liberty rievoca la suggestione delle vetrinette con foto e locandine cinematografiche che il proprietario della sala del quartiere aveva collocato vicino al suo vecchio ginnasio: “Le fotografie del Cinema Liberty rompono l’aria d’intorno a scuola. La festività dei raggi saettati tutto in giro dai cristalli della vetrina rievoca, agli scolari di adesso, nell’attimo in cui la scuola li inghiotte, quella lucentezza felice di cui erano ingioiellate per noi le sole ore dei giorni di vacanza, quando era lecito indulgere, senza colpa, alle offerte eretiche e vivaci della vita contemporanea. […] È chiaro che le istantanee dei cinedrammi, ponendosi di sentinella alle porte della scuola contribuiscono, nello stile del nostro tempo, a dissipare quell’equivoco tra umanesimo ed umanità che nutrì la nostra uggia finché fummo scolari […]. Era musicale e disumano, quell’umanesimo […], le parole dalle età remote giungevano misurate e gravi […]. Ma l’umanità è passionale ed eccessiva e volentieri indulge a quei verismi che gli autori antichi tralasciavano, per lo più, di notare. Dove tacciono tali autori, provvidamente le fotografie del Cinema Liberty prendono la parola. Gli effetti si prevedono facilmente e, tutto sommato, avranno forse un carattere di sana praticità e di realismo. Per un esempio: i discorsi libertini degli scolari potranno consultarsi su quelle fotografie e risulteranno più oggettivi e pertanto meno ditirambici […]. Spiando come l’obliquo sguardo di una compagna si posi sulla vetrina del Cinema Liberty, si potranno gettare le basi per una corrispondenza argutamente sapida di allusioni e di sottintesi: assai più efficace, agli effetti amorosi, che tutti i nostri sonetti, diligentemente ricalcati su Guido e su Cino” (Giacomo Debenedetti, Cinema Liberty, in Id., Amedeo e altri racconti, Torino, Edizioni del Baretti, 1926; poi, a cura di Enrico Ghidetti, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 19-25). 1927-1930 Nel marzo 1927 partecipa all’inchiesta di Solaria, la rivista diretta da Alberto Carocci a Firenze, con il suo primo scritto sull’argomento, dove riconosce al cinema la capacità di esprimere, “con i suoi mezzi e con la sua tecnica, dei sentimenti e degli affetti”, per concludere: “È dunque un’arte; alla quale si potrà applicare l’estetica crociana, siccome ci ha ricordato, dalle pagine del Convegno, l’amico Antonello Gerbi”. Il saggio di Gerbi, dopo aver preso le distanze dall’esagitato misticismo del panorama francese che, senza riuscirci, si affanna a cercare di definire cos’è la settima arte, mobilita l’estetica crociana per affrontare il problema della legittimazione artistica del cinema in termini più persuasivi e attendibili: “Che cosa è il cinema? Salvo un paio di eccezioni, a questa domanda, tutti, senza esitare, senza lasciar raffreddare l’entusiasmo, rispondono: il cinema è un’arte. Detto questo, son perduti. Sono perduti perché un’arte suppone altre arti, e allora bisogna cercare in che cosa il cine si distingua da queste altre arti, e quindi come e se si possa distinguere le arti fra loro […]. Bisogna riprendere la questione da capo e, restando sul preciso terreno dell’estetica, valersi di strumenti di precisione, di criterii più sottili e di canoni più rigorosi. (Officine Benedetto Croce, Napoli-Bari, mod. 1902)”. Quanto alla domanda cruciale se il cinema è arte la

risposta non può essere che negativa: “Non è il cinema che è arte. Arte sono le opere, non i mezzi tecnici con cui le opere sono prodotte; arte potrà essere una film, non la cinematografia. Ma allora, Dio di Los Angeles, che cos’è questo benedetto cinema? L’ho già quasi detto: è una nuova tecnica, un nuovo strumento di espressione” (Antonello Gerbi, “Teorie sul Cinema (A proposito di un ‘Cahier du Mois’)”, Il Convegno, VII, 10, 25 ottobre 1926; ora in Id., Preferisco Charlot. Scritti sul cinema (1926-1933), a cura di Gian Piero Brunetta e Sandro Gerbi, Torino, Aragno, 2011, pp. 2728). Nella prestigiosa sede del settecentesco Palazzo Gallarati Scotti in via Borgospesso, una traversa di via Montenapoleone, a Milano, si era intanto affiancata alla rivista Il Convegno l’attività del Circolo omonimo, che ben presto si apre al cinema, sull’esempio del successo dei parigini Studio des Ursulines e Vieux-Colombier. È proverbiale l’intraprendenza di Ferrieri: “Sempre in moto, effervescente di iniziative, attento, come un cacciatore in agguato, ad ogni stormir di foglia nelle letterarie giungle o radure, pronto a cogliere ogni vivo motivo del suo tempo […], Ferrieri badava al Circolo, alla rivista, alla biblioteca ed agli amici con una infaticabile inquietudine” (Piero Gadda Conti, “Con Enzo Ferrieri ai tempi del ‘Convegno’”, L’osservatore politico-letterario, XV, 3, marzo 1969; poi in Id., Concerto d’autunno, Milano, Pan, 1976, pp. 25-26). Gerbi si era prodigato – con Ferrieri, Gadda Conti, Ettore M. Margadonna – nell’organizzazione della serata del 14 dicembre 1926, in cui si proietta Entr’acte di René Clair, che inaugura l’avventura cinematografica del Circolo. L’entusiasmo del Convegno nei confronti del cinema – presenta tra l’altro film di Charlie Chaplin, Ewald A. Dupont, Carl Th. Dreyer, Georg W. Pabst, Eric von Stroheim, Pál Fejös, Alberto Cavalcanti, Jean Renoir, Jean Epstein, Marcel L’Herbier, Abel Gance, King Vidor, Fritz Lang, Friedrich W. Murnau, Walter Ruttmann – approderà di lì poco al supplemento mensile CineConvegno, dove appaiono importanti scritti teorici di Carlo Ludovico Ragghianti e Rudolf Arnheim, oltre a polemiche note sul cinema italiano di Ferrieri e Margadonna. Nel giugno 1927 Debenedetti si laurea in Lettere con una tesi su D’Annunzio poeta. Il 2 luglio 1928 a La Saliera di Torino, sostituisce Ferrieri indisposto nella presentazione del film Voyage au Congo di Marc Allégret e André Gide, parlando soprattutto del diario di viaggio dello scrittore. Il contagio dell’esperienza milanese segna la sua definitiva conversione al cinema, a cui dedica l’iniziativa del “Cinema di Eccezione”, una sorta di pionieristico cinema d’essai che si inaugura il 30 novembre con la proiezione di La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer al Cinematografo Borsa di Torino, nell’intento di “sviluppare nel pubblico l’intelligenza dello spettacolo cinematografico” e di contribuire a “creare in Italia una critica cinematografica, così come esiste una critica teatrale”. La presentazione non lascia dubbi sulle intenzioni tra l’aristocratico e il pedagogico del progetto: “Cinematografo: arte della Decima Musa. Cinematografo: smagliante e avventurosa adolescenza di un’arte tutta nuova. Ma bisogna aggiungere che il grande successo del cinematografo, l’enorme favore con cui è stato accolto e che ne ha fatto quasi un simbolo della civiltà contemporanea: questo successo e questo favore, se sono significanti, sono anche un poco sbadati. Per i tre quarti del grande pubblico, il cinematografo è ancora il modernissimo succedaneo di quei vecchi romanzi d’appendice, azzardosi, complicati e pittoreschi, che si seguivano col cuore in bocca. Oppure è una specie di teatro, a cui manca soltanto la parola: e che rimedia al suo mutismo con la dinamica intensità del movimento. La Decima Musa è stata aggiunta con istrepito, piuttosto che con devozione, al vecchio e classico coro delle nove sorelle. Il cinematografo è un adolescente, ma, per giudicarlo, si sono applicati gli annosi criteri, che valevano per il teatro e per il romanzo, arti già adulte. Il ‘Cinema di Eccezione’, che sorge ora a Torino, si assume il compito di sviluppare nel pubblico il gusto specifico della visione cinematografica. Vuol promuovere l’uso di criteri prettamente cinematografici nel giudicare il cinematografo. Vuole sottolineare, volta per volta, nello spettacolo cinematografico ciò che esso ha di originale, di suo, di inconfondibile. Vuole integrare, nel suo pubblico, la consapevolezza di quello che è stile proprio del cinematografo: cioè la bellezza figurativa delle visioni, il valore del ‘taglio’ di una scena, la ricchezza e la suggestione

emotiva di uno scorcio o di una prospettiva. Vedere, al cinematografo, non è cosa così spontanea come pare a prima giunta. E si tratta di arrivare a discernere, in una pellicola, gli elementi propriamente visivi, con animo diverso da quello con cui si palpita sulle avventure dei Tre moschettieri o del Giro del mondo in ottanta giorni”. L’iniziativa – che oltre alle proiezioni prevede un secondo momento intitolato Tra le quinte del Cinematografo, una specie di “spettacolo misto, nel quale l’autore del ‘copione’, il régisseur, l’operatore, gli attori concorreranno a spiegare il complesso procedimento creativo e le conseguenti ragioni estetiche di un film” – si conclude nel dicembre con il film Chicago di Frank Urson, presentato dal commediografo Luigi Chiarelli. Nei confronti del “Cinema di Eccezione” è molto polemico un giovane e poco conosciuto Cesare Pavese: “Molta gente – la stessa che quindici, e anche dieci, anni fa non andava al cine perché era roba da serve – adesso ha scoperto che il cinema è un’arte e si dà quindi d’attorno – con le parole almeno – per ridurre il medesimo il più arte possibile, per strapparlo alle serve, alla folla, per ammazzarlo, insomma, nei bei film d’eccezione. Ammazzarlo. Poiché, non si ripeterà mai abbastanza che il cinematografo è un’arte da folla e che la ragione della sua vitalità è appunto questa che esso ha creato un’arte nient’affatto d’eccezione, fine-ottocento o principio-novecento, ma interamente popolare, che parla cioè a tutti i pubblici. E si capisce, così, come i suoi primi frutti di qualche valore siano venuti dal Nordamerica, il paese che, per la sua giovinezza e per la sua formazione unica al mondo, ha meno divario di bisogni spirituali tra le classi e rinnova quindi per noi, in parte, lo spettacolo di una civiltà primitiva attraverso forme raffinate. Ora, il caldeggiatore dei film d’eccezione è proprio uno che parla male dei film americani in genere e di quelli di cowboys in particolare, anche perché di questi ne sa meno che degli altri. In compenso ama Greta Garbo come donna e non come artista – in questa distinzione è molto sottile. Ha una passione per Charlot, ‘il pellicano che si sbrana il cuore e ce lo offre sorridendo’, ma è tutta roba di dopo la Febbre dell’oro: avrei voluto vederlo il mio uomo a difendere Charlot in un salotto, quando di lui ci arrivavano soltanto comichette in due atti […]. Piacevan tanto, invece, al mio esteta, i film tedeschi della vecchia scuola, l’espressionismo, Metropolis, e ancor adesso egli gode smodatamente alle scene di sovrapposizioni e dissolvenze, oppure, a seconda dell’educazione che ha ricevuto, a quelle di ‘semplice umanità’ che nascono da una disciplinata e schietta recitazione” (Cesare Pavese, “Di un nuovo tipo d’esteta” [3 dicembre 1930], riesumato in Cinema Nuovo, VII, 134, luglio-agosto 1958; ora in Id., Il serpente e la colomba. Scritti e soggetti cinematografici, a cura di Maria Rosa Masoero, Torino, Einaudi, 2009, pp. 29-31). Negli stessi anni partecipa più di una volta agli “Entretiens d’été” dell’Abbazia di Pontigny in Borgogna, in cui incontra Roger Martin du Gard, Charles du Bos, André Malraux, André Gide. Nel frattempo aveva cominciato a collaborare alla Gazzetta del Popolo di Torino con cronache culturali dove, accanto alle recensioni letterarie, artistiche e musicali, non mancano note dedicate al teatro (Jean Cocteau, Jacques Copeau, Eleonora Duse, Isadora Duncan, Gordon Craig) e al cinema. La cinquantina di articoli, per lo più firmati con lo pseudonimo proustiano di Swann, pubblicati dal novembre ’26 al giugno ’29, rientra nelle rubriche Pretesti letterari e Cronache dei libri. L’8 marzo 1929, nella rubrica “All’insegna delle riviste”, appare Poesia di Charlot, il suo primo scritto dedicato a Charlie Chaplin, l’attore-autore a cui sarà fedele per tutta la vita. Nello stesso momento in cui i maggiori quotidiani avviano regolari rassegne di critica cinematografica – il primo è il Corriere della Sera con Filippo Sacchi l’11 maggio 1929, seguito più tardi da La Stampa con Mario Gromo – anche Debenedetti inaugura sulla Gazzetta del Popolo la nuova rubrica Diario del cinema, che però appare soltanto un paio di volte, il 19 e il 29 maggio 1929. Collabora a La Fiera Letteraria e poi a L’Italia Letteraria. Nello stesso periodo si interessa di arti figurative – il suo punto di riferimento è Lionello Venturi – presentando numerose mostre di Felice Casorati. Scrive anche di Francesco Menzio che – con Carlo Levi, Enrico Paulucci, Nicola Galante, Gigi Chessa e Jessie Boswell – fa parte del Gruppo dei Sei. L’imprenditore Riccardo Gualino lo coinvolge nelle sue

iniziative culturali. Nel giugno 1929 pubblica per le Edizioni di Solaria la sua prima, importante raccolta di Saggi critici, dedicati a Croce, Michelstaedter, Radiguet, Cocteau, Saba, Proust, Venturi, apparsi originariamente in Primo Tempo, Il Baretti, Il Convegno, La Rassegna Musicale e nella stessa Solaria. In ottobre avviene a Torino l’incontro con Stefano Pittaluga, il patron della Società Anonima Stefano Pittaluga, una delle figure più importanti e rappresentative dell’industria cinematografica italiana, che nell’ultimo decennio ha messo insieme un ampio circuito di sale dove presenta le pellicole di cui si è assicurato la distribuzione in esclusiva: oltre a quelle delle case tedesche, francesi e inglesi, la maggioranza sono della Universal, della First National, della Warner Bros. Negli anni venti aveva riattivato gli stabilimenti abbandonati della Fert e poi anche quelli dell’Itala, la gloriosa casa di Giovanni Pastrone. Si era lanciato con alterne fortune anche nella produzione per ritornare poi alla sua accorta strategia di dominatore del mercato, in grado di fornire l’ottanta per cento delle pellicole che circolano nelle sale italiane. Quando s’incontrano – a parte la differenza di età, il più vecchio ha quarantadue anni, il più giovane ventotto – Pittaluga si sta già preparando a affrontare la sfida tecnologica del sonoro esplosa negli Stati Uniti con The Jazz Singer (1927) di Alan Crosland, mentre Debenedetti è riuscito solo da pochi mesi a pubblicare la prima raccolta di Saggi critici, da cui si aspetta un riconoscimento pubblico che nonostante le autorevoli recensioni gli sembra tardi a venire, vive insomma un periodo di inquietudine e di crisi, destinato a durare per qualche tempo. Nel suo rapporto con il cinema la passione si accompagna alla diffidenza, fino a vedere nel concreto lavoro cinematografico, come dice in una lettera all’amico Sergio Solmi, l’occasione per imprimere alla propria vita “una brusca svolta verso la pratica” abbandonando i suoi interessi più profondi per seguire “il vecchio metodo dell’abétisser vous” (il carteggio è citato in Paola Frandini, Il Teatro della Memoria. Giacomo Debenedetti dalle opere e i documenti, Lecce, Manni, 2001, pp. 112-113). Quello che gli chiede Pittaluga è di collaborare alle edizioni italiane dei film muti stranieri: film importanti, meno importanti, o addirittura mediocri, in grado di far fronte alle richieste della Sasp che macina ogni anno una grande quantità di pellicole. Nei primi mesi si occupa tra l’altro di The Great Gabbo (Gran Gabbo) di James Cruze, su soggetto di Ben Hecht, con Erich von Stroheim, e di Broadway dell’ungherese Fejös da poco sbarcato a Hollywood, due tra i più brillanti e popolari film americani di fine anni venti; degli appena interessanti General Crack (Il generale Crack) di Crosland, con John Barrymore, e di The King of Jazz (Il re del Jazz) di John Murray Anderson; ma anche dei modesti The Leatherneck (Tutti per uno!) di Howard Higgins, di The Isle of Lost Ships (Il Mar dei Sargassi) di Irvin V. Willat, Sally di John F. Dillon, nonché del tedesco Spielerein einer Kaiserin (Caterina di Russia) di Vladimir Strichewsky, e di un paio di film inglesi, da The Feather (Tre rose rosse) di Leslie S. Hiscott a Two Worlds (Due mondi) di Dupont, girato anche nelle versioni tedesca e francese (come risulta dalla filmografia della distribuzione pubblicata in “L’anonimo Pittaluga. Tracce carte miti”, a cura di Tatti Sanguineti, numero speciale di Cinegrafie, VII, 11, 1998, pp. 166-204). Il lavoro di Debenedetti si svolge fra Torino e Roma – dove, completamente rimodernati e attrezzati per la nuova tecnologia del sonoro, il 30 maggio 1930 vengono inaugurati gli studi Cines-Pittaluga –, ma riguarda solo marginalmente il cinema italiano se non per un paio di film di Mario Almirante, in cui il suo nome non appare nei titoli di testa. Il primo caso è poco più di una corvé dal momento che gli tocca rivedere l’edizione di Napoli che canta, girato negli stabilimenti torinesi della Fert sin dal ’28, ma distribuito sonorizzato soltanto nel dicembre del ’30. Più interessante la partecipazione a La stella del cinema che, al di là dell’esile trama, nasce dall’orgoglio aziendale di mostrare agli spettatori i nuovi teatri di posa e i set dei vari film in lavorazione, esibendo il parco attori precettato al completo, mentre i registi Guido Brignone, Carlo Campogalliani, Gennaro Righelli e lo stesso Almirante conversano animatamente durante la pausa pranzo.

Il 4 dicembre 1930, dopo un lunghissimo fidanzamento, sposa Renata Orengo. Il 24 maggio 1933 nascerà la figlia Elisa e il 12 giugno 1937 il figlio Antonio. 1931-1944 Nell’aprile 1931 partecipa con Massimo Bontempelli e Enzo Ferrieri al Congresso internazionale del Pen Club dell’Aia, dove incontra tra gli altri Thomas Mann e Stefan Zweig. Nonostante le complicazioni sorte con la prematura scomparsa di Pittaluga, che muore a Roma il 5 aprile 1931, il lavoro per la Cines prosegue anche negli anni successivi con Voruntersuchung (Istruttoria) di Robert Siodmak, Salto mortale di Dupont, Resurrection (Katusha) di Edwin Carewe, Battling white Buffalo Bill (La prateria in fiamme) di Ray G. Taylor. Quando si avvia la pionieristica stagione del primo doppiaggio è la volta di tre capolavori tedeschi di grande successo come Mädchen in Uniform (Ragazze in uniforme) di Leontine Sagan, Kameradschaft (La tragedia della miniera) di Pabst, Das Testament des Dr. Mabuse (Il testamento del dottor Mabuse) di Lang; di un gruppo di film americani inaugurato dal mitico Little Women (Piccole donne) di George Cukor, la migliore versione del bestseller di Louisa May Alcott con Katharine Hepburn e Joan Bennett, che comprende anche Stingaree (Stingari, il bandito sentimentale) di William A. Wellman, The Life of Vergie Winters (La donna nell’ombra) di Alfred Santell, When a Man’s a Man (La valle della sete) di Eddie Cline, e The Devil’s Brother (Fra Diavolo) di Hal Roach e Charles Rogers, uno dei più famosi lungometraggi di Stan Laurel e Oliver Hardy; nonché di due film inglesi come Evergreen (Paradiso in fiore) di Victor Saville e Waltzes from Vienna (Vienna di Strauss), uno dei film meno riusciti del primo Alfred Hitchcock. Oltre che per la Cines, lavora a Torino per la Lux Film. Se ne trova conferma nella lettera di Cesare Pavese a Guido M. Gatti – il musicologo che è amministratore delegato della Lux – del 15 settembre 1934: “Sono qui con Debenedetti che lavora disperatamente a rivedere il mio dialogo e non giungerà stasera che alla metà del film. Succede che con la sua maggiore esperienza di sincronismo e dialogo teatrale, Debenedetti è costretto a rifare buona parte del lavoro” (Cesare Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Torino, Einaudi, 1966, pp. 218-219). L’attività proseguirà fino al 1936 quando con lo pseudonimo di Gustavo Briareo firma per l’Enic le edizioni italiane di Eskapade (Missione pericolosa) di Erich Waschneck e Schlussakkord (La nona sinfonia) di Detlef Sierck, il futuro Douglas Sirk, e i dialoghi di Der Kaiser von Kalifornien (L’imperatore della California), uno dei film più celebri di Luis Trenker, dell’altra pellicola tedesca Die Leuchter des Kaisers (Il segreto dei candelabri) dell’austriaco Karl Hartl, dell’inglese The Iron Duke (Il duca di ferro) di Saville, e del western The Border Patrolman (Pattuglia di frontiera) di David Howard.. Nel giro di qualche anno Debenedetti ha contribuito – con Luigi Savini, Franco Schirato, Mario Almirante, Augusto Galli, Fausto Nicola Neroni – a inventare e perfezionare la pratica del doppiaggio che, come ricorda in uno scritto dell’epoca, comincia con il passare e ripassare avanti e indietro il film in moviola per confrontarlo con la traduzione dei dialoghi originali e identificare “le pause e gli stacchi, le sospensioni ed i ‘filati’, insomma tutte le caratteristiche ritmiche con cui le battute sono state pronunciate”. Si tratta poi di cercare quelle parole che “nella loro scansione e inflessione, nelle loro fratture, equivalgono come ritmo, come intensità, come intonazione esterna ed interna, psicologica e acustica, a quelle dei dialoghi d’origine”. Solo allora arriva il momento di scegliere, nella ricca gamma degli attori di teatro, “quelli che per qualità di voce e di dizione aderiscono fisicamente al tipo dei personaggi originali, e soprattutto nel condurre questi prestavoce ad approfondire, a sensibilizzare la battuta”. L’avventura è quasi sempre a lieto fine, perché “esperienza, senso artistico e scrupoloso rispetto dell’opera originale hanno fatto del nostro doppiaggio uno dei migliori del mondo, forse addirittura il migliore: raffinato, preciso e rigoroso fino ad un beninteso virtuosismo”. Il rapporto con Il Convegno di Ferrieri, fondamentale nella fase di avvicinamento al nuovo

mezzo di espressione, si conclude con la storica conferenza Risorse del Cinema che Debenedetti tiene il 6 giugno 1931 nella sede del Circolo milanese, seguita dalla proiezione di alcune sequenze di La febbre dell’oro di Chaplin, La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, Varieté di Dupont, tre opere particolarmente significative che coincidono con altrettante conversioni degli intellettuali al cinema, suggerendo un primo, essenziale quadro teorico: nella riflessione sulla nuova arte: “La grande risorsa del cinematografo, è di scaturire dall’occhio visionario e creativo di un poeta, combinato con l’occhio meccanico e senz’anima della camera di ripresa. L’autore può aver immaginato i più alacri ed impensati disegni narrativi o lirici […], ma […] al momento di dar corpo alla sua espressione, deve assoggettarsi alla veduta disinteressata ed indifferente dell’obiettivo. […] Una volta messa in moto, la camera di presa fa da sé: […] registra tutto ciò che ha dinnanzi con una specie d’indifferenza mostruosa, assorbendo, senza alcuna influenzabilità psicologica od estetica, così i dettagli come i rilievi principali dello spettacolo, così le ombre come le luci […]. Noi parleremo di una ineccepibile tara veristica del cinematografo: o, per meglio dire, di una soggezione alla realtà esterna ed oggettiva, nella quale il poeta deve trovare appoggio per raggiungere la posizione di canto”. Rudolf Arnheim – il giovane studioso tedesco che dal ’33 lavora all’Istituto Internazionale per la Cinematografica Educativa creato da Luciano De Feo a Roma – sin dal 1935 lo invita a collaborare all’Enciclopedia del Cinema, promossa dall’Istituto affiliato alla Società delle Nazioni, la cui sede è nell’edificio medievaleggiante di Villa Torlonia, a qualche centinaio di metri dall’abitazione di Benito Mussolini, ma con ingresso in via Lazzaro Spallanzani 1/a. Si incontrano tra il 28 e il 30 maggio, in occasione del Congresso Internazionale di Musica del Maggio Musicale Fiorentino, nelle giornate su “La musica nel film” presiedute da Luigi Freddi, a cui partecipano anche Paolo Milano, Roland Manuel, Sebastiano Arturo Luciani, Ettore M. Margadonna, Émile Vuillermoz. Ma probabilmente Debenedetti conosce da tempo Film als Kunst (1932), il suo importante testo teorico, almeno nella traduzione parziale preparata da Umberto Barbaro su suggerimento di Emilio Cecchi, quand’era direttore artistico della Cines, che all’epoca “circolava tra gli iniziati come il manifesto segreto di una carboneria” (Rudolf Arnheim, “Il film come opera d’arte”, Bianco e Nero, II, 4, aprile 1938; ora in Id., I baffi di Charlot. Scritti italiani sul cinema 19321938, a cura di Adriano D’Aloia, Torino, Kaplan, 2009, p. 298). Nello stesso anno Arnheim contribuisce – con De Feo direttore, Corrado Pavolini redattore capo e i giovanissimi redattori Francesco Pasinetti, Domenico Meccoli e Gianni Puccini – a trasformare la Rivista internazionale del cinema educatore, organo ufficiale dell’Istituto edito in cinque lingue, “roba arida e priva di scintille creative”, in Intercine, “una rivista assai attraente ricca di saggi su aspetti estetici e sociali del cinema” (Rudolf Arnheim, “Come un tifoso d’oggi amai il cinema in Italia”, Cinema Nuovo, XXXV, 301, maggio-giugno, 1986, p. 35). Al numero speciale di Intercine uscito in occasione della III Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia – un ambizioso panorama del cinema mondiale, ricchissimo di prestigiose firme straniere – collabora anche Debenedetti con il saggio Il cinema e gli intellettuali. Quando nel luglio 1936, costretto a chiudere Intercine in seguito alle ripercussioni internazionali dell’impresa etiopica, De Feo dà vita con lo stesso gruppo redazionale alla rivista Cinema, pubblicata dall’editore Ulrico Hoepli sul modello di Sapere, il fortunato periodico di divulgazione scientifica nato un paio d’anni prima, Debenedetti è tra i collaboratori più assidui e apprezzati. Sin dai primi fascicoli del quindicinale scrive in collaborazione con Alberto Consiglio – critico e teorico di formazione crociana, autore di Introduzione a un’estetica del Cinema, Napoli, Guida, 1932 e di Cinema. Arte e linguaggio, Hoepli, Milano, 1936 [ma scritto nel ’34] – gli inventivi fotoarticoli Attore o regista? (sul rapporto tra Marlene Dietrich e Josef von Sternberg), Passato e presente di Romeo e Giulietta (sulle fonti iconografiche di Giulietta e Romeo di George Cukor), Misteri e poesia dell’illuminazione (sul ruolo creativo della luce nella fotografia cinematografica), Controprove (sulla fortuna cinematografica di La dame aux camélias di Alexandre Dumas fils), a cui fanno seguito i

suggestivi paginoni dedicati alle protodive italiane del muto, a Chaplin-Charlot, Greta Garbo, Katharine Hepburn, Gary Cooper. Negli stessi numeri della rivista in cui i ritratti divistici lasciano il posto a Il senso dell’avventura e Miraggi di terre beate, due brillanti incursioni nella mitologia cinematografica, si avvia la rubrica “Cronache dei film nuovi”, che durerà dal 10 ottobre 1936 al 10 gennaio 1937. La breve esperienza comprende una ventina di interventi in cui accanto agli autori europei, da Duvivier a Clair, da Feyder a L’Herbier, ha un posto di spicco il cinema americano (notevole l’ampia recensione di È arrivata la felicità, che coglie la novità del film nell’opera di Frank Capra, deciso a passare al cinema d’autore con “il nome sopra il titolo”). Soprattutto nella prima annata della rivista, probabilmente potrebbero essere di Debenedetti anche altri articoli “per affinità di stile, uso della metafora, riferimenti letterari, per concentrazione umana, respiro religioso, per quel complesso di motivi che inducono all’azzardo di un’attribuzione” (Paola Frandini, “Giacomo Debenedetti cinecritico, sceneggiatore e altro”, studi novecenteschi, XXXIII, 72, luglio-dicembre 2006, p. 273). Sin dall’autunno 1936 si era trasferito a Roma – ne attribuisce la decisione al “lavoro cinematografico e in particolare l’Enciclopedia del cinema (purtroppo, non mai uscita) e la rivista Cinema” ma soprattutto agli “inviti di Rudolf Arnheim” (Nota autobiografica, cit., p. 340) – abitando con la famiglia in via Pinciana e dall’autunno dell’anno successivo in via Sant’Anselmo 32, poi 46, sull’Aventino. Nel dicembre ’36 con Cornelio Di Marzio, Alberto Consiglio, Anton Giulio Bragaglia, Nello Quilici e la direzione di Pietro Maria Bardi – fonda il settimanale Il Meridiano di Roma, dove fino all’agosto ’37 tiene la rubrica “Cronache letterarie”. Il 15 maggio 1937 interviene al Congresso Internazionale di Musica svoltosi nell’ambito del Maggio Musicale Fiorentino con la presidenza di Ugo Ojetti e la partecipazione di Darius Milhaud, Alberto Cavalcanti, Ronald Manuel, Francesco Pasinetti. La sua relazione è pubblicata in Cinema del 25 maggio con il titolo “In sala o sullo schermo?”. Con l’articolo “Fuori l’autore” partecipa al numero speciale di Prospettive, la rivista diretta da Curzio Malaparte. Nello stesso periodo prosegue la collaborazione con Cinema. Il contributo più significativo è rappresentato dalla rubrica “In questi giorni”, che tiene dal 10 dicembre 1937 al 25 marzo 1938. Si tratta di recensioni che – per acutezza di analisi, ricchezza di riferimenti non solo letterari e raffinata eleganza di scrittura – costituiscono un modello insuperato nel panorama della critica cinematografica italiana. Quando le leggi razziali costringono Debenedetti, che si definisce “di famiglia ebraica […] al cento per cento”, a abbandonare tutti gli incarichi e le collaborazioni giornalistiche, si era già avviata l’esperienza dello sceneggiatore cinematografico, dapprima regolarmente accreditata e poi anonima. Lo considera il suo “‘secondo mestiere’, che poi (con parecchie decine di soggetti e di sceneggiature) gli permise di vivere in anni, duranti i quali, gli era interdetta ogni altra attività” (Nota autobiografica, cit., p. 340). I film che gli vengono attribuiti con il nome nei titoli di testa sono anzitutto La mazurka di papà e Amicizia di Oreste Biancoli, entrambi realizzati nel ’37 ma usciti nel ’38. Sul primo un cronista, probabilmente Domenico Meccoli, testimonia dal set: “Chi entra a Cinecittà dall’ingresso principale trova i teatri di posa divisi in due ali, a destra e a sinistra. […] Nei teatri di sinistra trovammo Biancoli, impressionante per autorità dall’alto di una gru, intento a guidare le danze in un salotto del buon tempo antico. […] In mezzo ai ballerini scoprimmo qualche coppia di conoscenza: Vittorio De Sica ed Elsa De’ Giorgi, Umberto Melnati e Diana Lante. Vittorio De Sica in uniforme da ufficiale e Umberto Melnati in frac: il duo divertentissimo di una delle più fortunate riviste della ditta Falconi e Biancoli. Dino Falconi era lì anche lui: alto, grosso, faceva contrasto con Giacomo Debenedetti – il suo opposto, con tendenza fisica quasi ad annullarsi e a scomparire – che con Falconi ha sceneggiato la Mazurka di papà, il film che appunto si stava girando” (Il Cronista, “Lamenti e Mazurke”, Cinema, II, 36, 25 dicembre 1937, p. 429). Gli altri due titoli sicuri sono Partire e Le due madri di Amleto Palermi del 1938, entrambi con Vittorio De Sica e Maria Denis. Nel primo non solo firma la sceneggiatura con Gherardo Gherardi, dalla cui

commedia il film è tratto, e la canzone Malinconie della città scritta con Giovanni D’Anzi, ma è anche l’aiuto regista. Nel secondo collabora alla sceneggiatura con Ernesto Murolo e Palermi, autori del soggetto. Sull’attività cinematografica del critico è interessante la testimonianza di Gianni Puccini: “Alcuni mesi or sono, quando si lesse […] che Giacomo Debenedetti s’era accostato alla produzione, il mondo letterario romano rimase sorpreso e interdetto. Debenedetti è un uomo gentile, riservato e tendenzialmente solitario come la più parte degli intellettuali abituati da anni alla vita confortante e isolata della cultura; infine è un critico letterario dei più serii. Non potevamo non meravigliarci: avevamo visto accostarsi praticamente al cinema altri uomini di penna: ma si trattava quasi sempre di commediografi, di gente abituata cioè ai contatti ruvidi con altri ambienti, e comunque di persone più elastiche. Debenedetti s’era, sì, avvicinato al cinematografo: ma in un modo essenzialmente teorico, portando nella critica cinematografica la medesima serietà che nella letteraria. Egli non è mai stato un critico sentimentale e patetico, di quelli che per eccesso di partecipazione confondono le proprie e le altrui idee; bensì preciso e ragionatore, calcolato e sottile, e la cui partecipazione si è sempre risolta in un arricchimento lucido e preciso” (G. P. [Gianni Puccini], “Incontro con Giacomo Debenedetti”, Kinema, X, 6, giugno 1938, pp. 12-13). Il rapporto con Vittorio De Sica – che dopo La mazurka di papà rincontra sul set di Partire e di Le due madri – è testimoniato dalla lettera del 2 aprile 1939 quando l’attore è a Milano con la sua compagnia: “Parliamo con [Adolfo] Franci [critico cinematografico di L’Illustrazione Italiana, è stato anche sceneggiatore] spesse volte della sua attività e della sua valentia. […] Ho in mente di fare dei film intelligenti. Franci è qui consigliere di una casa cinematografica. Gli proporrò il tuo Dottore e vorrei fargli leggere anche L’uscita del vedovo [dal racconto di Luigi Pirandello]. Mi puoi procurare il soggetto […]. Vorrei interpretare il Dottore, L’uscita del vedovo, 4000 donne e un soggetto che Zavattini sta scrivendo per me”. Nel moltiplicarsi dei progetti si direbbe che De Sica – impaziente di trovare nuovi ruoli o addirittura di esordire nella regia cinematografica – cerchi la complicità di Debenedetti, come era già avvenuto l’anno prima quando il 17 giugno 1938 in un telegramma a doppia firma avevano chiesto a Aldo Palazzeschi l’autorizzazione a portare sullo schermo il racconto Lo zio e il nipote da Il palio dei buffi. Sembra confermata la sua partecipazione a tre film usciti nel ’40: San Giovanni decollato di Palermi, che avrebbe sceneggiato con Cesare Zavattini e Aldo Vergano; La fanciulla di Portici di Mario Bonnard, sceneggiato con Ferruccio Biancini e Alberto Consiglio; Capitan Fracassa di Duilio Coletti, scritto con Arrigo Benedetti, Mario Pannunzio e Piero Tellini. Ma la collaborazione più intensa è quella con Sergio Amidei che comprenderebbe oltre dieci film tra cui Cose dell’altro mondo (1939) e Gioco pericoloso (1942) di Nunzio Malasomma, Il prigioniero di Santa Cruz (1941) di Carlo Ludovico Bragaglia, Don Cesare di Bazan (1942) di Riccardo Freda, T’amerò sempre (1943) di Mario Camerini, La regina di Navarra (1942), Tristi amori (1943) e Harlem (1943) di Carmine Gallone. L’incontro con Debenedetti risale agli anni dell’Università a Torino, dei quali Amidei ricordava: “Mi sono avvicinato al cinema come comparsa. Nel 1924, trovandomi a Torino e, come tutti gli studenti allora, avendo pochissimi soldi, incontrai in una minuscola trattoria un certo Azzolin, un veneto che faceva il fotografo, il quale mi offrì di andare a fare la comparsa in Maciste all’inferno di Brignone. E così, una bella mattina, mi son trovato in mezzo a una folla di miserabili. Mi hanno fatto spogliare nudo, mi hanno messo una specie di sottanina di pelo di capra con una coda fatta a molla, mi hanno cacciato in testa una parrucca da diavolo, poi mi hanno dipinto con la terra d’ocra, con la terra d’ombra, e la birra, m’hanno dato una lancia, una forca e m’hanno sbattuto in mezzo agli altri. Un freddo a Torino, erano i primi di novembre. Per ripararci ci davano dei cappotti da militare, sporchi fetenti. E io quasi piangevo, giuravo mai più, mai più, mai più. Poi la sera ci hanno dato della vasellina per struccarci, dell’alcool, e quaranta lire, che allora erano molte. E dunque ci son tornato il giorno dopo, poi ancora un altro giorno, poi una altro giorno ancora, e poi una mattina m’è venuta un’idea. Ho preso

un secchio dove c’era la terra d’ombra e la birra e ho cominciato a dipingere gli altri, e mi piaceva molto quel signore con una cacciatora di velluto, una lobbia nera, un paio di pantaloni a quadretti, che era Guido Brignone. Così ho cominciato a fare l’aiuto regista. […] È stata lunga la mia carriera alla Fert di Torino” (Francesco Savio, Cinecittà anni trenta. Parlano 116 protagonisti del secondo cinema italiano (1930-1943), vol. I, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 56-57). Soltanto dopo avvia a Roma l’attività dello sceneggiatore e più tardi rincontra Debenedetti. “Era un grande critico letterario”, ricordava Amidei. “Io lo conoscevo da Torino, e quando si è trasferito a Roma si è messo a fare anche il cinema, […] assieme a Dino Falconi, cosa abbastanza sorprendente per uno come lui. Quando ci sono state le leggi razziali è stato un po’ abbandonato, e allora per anni, per almeno quattro o cinque anni, sono andato tutte le mattine a casa di Giacomino a San Saba e abbiamo fatto un mucchio di film assieme, scrivendoli insieme, anche perché lui aveva una situazione un po’pesante come famiglia e aveva bisogno di guadagnare. Meno bravo nell’inventare le cose, era però straordinario nel giudicarle e nello strutturarle. Di film con Giacomino ne ho scritti tanti, da perdere il conto. Eravamo amici fin dai tempi dell’Università, a Torino. E più tardi collaborammo su tante sceneggiature, di tutti i generi, riduzioni di opere teatrali, drammi storici, telefoni bianchi” (L’avventurosa storia del cinema italiano da “La canzone dell’amore” a “Senza pietà”, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Bologna, Cineteca di Bologna, 2009, p. 20). Sull’Ultimo ballo (1941) di Camillo Mastrocinque, Amidei ricordava: “Eravamo andati io e Giacomino Debenedetti, a Venezia, per parlare con la Merlini; e la Merlini, che abitava in una piccola, graziosa casa alla Salute, ci ha chiusi al piano di sopra dicendoci: ‘Ah, stasera devo ricevere degli amici, non dovete farvi vedere’, e infatti aveva invitato a cena Ribbentrop, Ciano e Matsuoka che si erano riuniti a Venezia. La mattina dopo siamo usciti, in piazza San Marco abbiamo comprato i giornali, e c’era l’annuncio che la Germania era entrata in Russia, no? Doveva essere l’estate del ’41” (Francesco Savio, Cinecittà anni trenta, cit., pp. 61-62). Sta a sé la collaborazione col regista Ferdinando M. Poggioli, iniziata con Addio, giovinezza! (1940), sceneggiato da Debenedetti e Salvator Gotta dalla notissima commedia torinese di Sandro Camasio e Nino Oxilia, e proseguita con La bisbetica domata (1942), libera riduzione da Shakespeare con Amidei. Sono prodotti da Sandro Ghenzi gli altri due film di Poggioli sceneggiati con Amidei: Gelosia (1942), da Il marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana, e Il cappello da prete (1944), dal romanzo di Emilio De Marchi. “Era un uomo estremamente sensibile”, diceva Amidei di Poggioli. “Di una simpatia direi quasi alla Fellini. Di quegli uomini pieni di calore. Era un bolognese, grande, grosso, pesante, con una manina leggermente deforme. […] Diede prova di essere un regista di qualità eccezionale. È morto proprio quando noi giravamo Roma città aperta, a via degli Avignonesi, asfissiato dal gas”. Sono attualmente consultabili la sceneggiatura di Gelosia, pubblicata in Bianco e Nero, VII, 2-3, febbraio-marzo 1943 (poi in Antologia di “Bianco e Nero” 1937-1943, vol. IV, a cura di Leonardo Autera, Roma, Edizioni di Bianco e Nero, 1964, pp. 531-691), e quella di Il prigioniero di Santa Cruz, conservata alla Biblioteca Luigi Chiarini del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Su Debenedetti sceneggiatore è significativo l’intervento di Goffredo Fofi: “Non si trattò solo di ‘commedie ungheresi’ o di film storici, ma anche e spesso di film tratti da opere letterarie, note e meno note del nostro Ottocento, e in tutti i casi film che, in anni bui della nostra storia, e secondo logiche che riguardano anche il regime sovietico e quello hitleriano, fuggivano dall’analisi del presente, privilegiando l’evasione nella commedia brillante o nel film in costume, che in Italia […] diventò anche, secondo la definizione del tempo, ‘calligrafismo’. Fuori dalla realtà, in un passato melodrammatico o romantico, in ambienti ed in epoche che non creassero problemi di accettazione da parte della censura del regime. Questo cinema ebbe in realtà una sua dignità […]. Certamente Debenedetti non aveva da vergognarsi della sua collaborazione ai film citati [si riferisce in particolare a Gelosia, La bisbetica domata, Il cappello da prete, Harlem], spesso tra i

migliori della cinematografia italiana del periodo. Letterato, vi aveva portato le sue conoscenze e le sue preziose abilità di ‘lettore’ delle strutture narrative del romanzo e del racconto dell’Ottocento. Non ebbe però modo di portarci quelle dell’appassionato interprete di Proust, di Freud, dei grandi del Novecento” (Goffredo Fofi, Il contributo di Debenedetti alla storia del cinema italiano in

Giacomo Debenedetti. L’arte del leggere. Atti del ConvegnoBiella, Palazzo La Marmora, febbraio 1996, a cura di Emilio Jona e Vanni Scheiwiller, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro-Edizioni Vanni Scheiwiller, 2001, pp. 121-122). Nell’ambiente cinematografico l’attività segreta di Debenedetti era nota, almeno a dar retta alla richiesta di Luigi Freddi, presidente della Cines, più volte ricordata da Amidei: “Noi non riusciamo a fare un film di propaganda antiamericana, fatelo voi che siete antifascisti”. Anche se, secondo lo sceneggiatore triestino, Harlem sarebbe poi risultato invece “polemico nei confronti del razzismo bianco”, in barba alle aspettative della committenza. Nel clima inquietante dell’antisemitismo più aggressivo, non mancò neppure chi sul Tevere del 9-10 marzo 1943 volle denunciare pubblicamente con nome e cognome il critico-sceneggiatore assieme agli altri cineasti ebrei costretti all’anonimato e ai loro presunti protettori. Il 13 settembre – all’indomani dell’occupazione tedesca di Roma – con la famiglia raggiunge Cortona, ospite dapprima di Pietro Pancrazi. Affitta poi Villa Baldelli nella frazione di Cegliolo, dove comincia a scrivere Vocazione di Vittorio Alfieri, che appare oggi un “documento drammatico e fondamentale, dove c’è tutto lo sforzo, c’è l’intera lotta, ci sono i dubbi, i timori del critico e dell’uomo di fronte al futuro” (Paola Frandini, “Giacomo Debenedetti e la ‘Settimana Incom’”, Strumenti critici, XXII, 2, maggio 2007, p. 240). Il libro sarà pubblicato integralmente solo nel ’77 e poi nel ’95. Nel giugno è ricercato, ma fa in tempo a unirsi alle “formazioni partigiane, che operavano nell’Appennino toscano”. Nell’ottobre 1944 ritorna a Roma con la famiglia e si iscrive al Partito Comunista Italiano. Sul quotidiano Il Tempo, l’11, il 13 e il 19 ottobre pubblica in tre puntate Otto ebrei, dedicato ai correligionari depennati, perché ebrei, dalla lista delle Fosse Ardeatine. Ripreso in volume nello stesso anno e più volte ristampato, è una vibrante riflessione sugli imprevedibili meccanismi della diversità che si insinua nella stessa “persecuzione dell’amore”, in cui intravede “il pericolo di distinguere, sia pure con un privilegio, la ‘razza’ ebraica dalla razza umana”. Su Mercurio, il mensile diretto da Alba de Céspedes, in dicembre pubblica 16 ottobre 1943, scritto il mese precedente sulla base delle testimonianze di alcuni sopravvissuti alla retata nazista nel Ghetto di Roma “che in una sola mattina si concluse con la deportazione di più di mille ebrei nei campi della morte”. Ristampato in volume sin dall’anno seguente, è stato più volte ripubblicato in Italia e all’estero. Nonostante l’intensa qualità dello stile, Debenedetti ne declina la paternità preferendo attribuirla a “una collettività popolare, un coro sgomento e terribile, su cui si staccano le voci dei protagonisti di un attimo, subito risommerse, per sempre perdute, nel tragico destino comune”. Ha scritto Natalia Ginzburg: “L’importanza di questi due ‘opuscoli’, oggi, alla luce dei fatti mi sembra enorme. Essi affrontano entrambi alcuni temi nei quali oggi viviamo immersi. La violenza; lo sterminio d’una collettività per motivi razziali; e infine la diversità degli ebrei, di una qualità strettamente segreta, privata e intima […]. Non è forse questa diversità, assai simile a quella di ogni altro diverso, ciò che gli ebrei, o meglio in generale gli uomini (poiché in ogni uomo può nascondersi un ebreo o un diverso) devono soprattutto coltivare e difendere, non certo con la violenza, né con le armi, ma con ogni facoltà del proprio essere e del proprio pensiero?” (Natalia Ginzburg, “16 ottobre 1943”, La Stampa, 14 febbraio 1978, ora in Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino, Einaudi, 2014, pp. X-XI). Nel dicembre inizia la collaborazione a La Nuova Europa di Luigi Salvatorelli, che prosegue fino all’anno successivo con interventi su Gide, Vercors, Valéry. 1945-1967

Invitato da Leonida Repaci, con cui ha brevemente collaborato a Il Tempo, dal febbraio al dicembre 1945 è redattore capo di L’Epoca, il nuovo quotidiano romano fondato e diretto dallo scrittore calabrese. Si dedica al lavoro giornalistico con grande determinazione, scrivendo decine e decine di articoli sui più vari argomenti, spesso legati all’attualità, che rivelano “un Debenedetti più sensibile e attento alle dinamiche politiche e sociali del suo tempo, più disponibile al dialogo e pronto a confrontarsi con un pubblico nuovo” (Marcello Ciocchetti, Prima di piantare datteri. Giacomo Debenedetti a Roma (1944-1945), Pesaro, Metauro, 2006). Nel luglio 1945, per la piccola casa editrice romana O.E.T., pubblica finalmente Saggi critici. Nuova serie, già pronti fin dal ’38, ma rimasti in bozze a causa delle leggi antisemite. Oltre ai saggi su De Sanctis, Svevo, Pirandello, D’Annunzio, il volume comprende Verticale del ’37, in cui confluiscono le “cronache letterarie” apparse sul Meridiano di Roma. Nella polemica Prefazione del ’45 prende le distanze dalla “eccitata e come drogata euforia” della narrativa italiana degli anni trenta che considera “una letteratura di corte”, decisa a non ammettere di “aver avuto il morto in casa”. Sul quotidiano Milano Sera, oltre a alcune note di argomento musicale, pubblica un gruppo di recensioni di film presentati al Primo Festival Internazione d’Arte Cinematografica, Drammatica e Musicale tenutosi al Teatro Quirino nel settembreottobre 1945, riprendendo per qualche settimana l’esperienza critica avviata sulle pagine di Cinema e bruscamente interrotta nel ’38. Conosce lo junghiano Ernst Bernhard e inizia con lui una cura psicoanalitica. Qualche anno dopo, alle domande di Michel David che lo considera una delle figure più rappresentative della critica di ispirazione psicoanalitica, risponde: “Credo di essere stato in Italia un abbastanza precoce lettore di Freud, almeno tra gli scrittori. Lei parla di una certa mia timidezza (occultamento? resistenza?) nei riguardi della metodologia psicoanalitica. Se potessimo spiegarci abbastanza…vorrei chiarirle ancora che io sono un critico, tenuto a riconoscere il fatto poetico come rivelazione (credo) del senso della vita e del ‘destino’. Debbo perciò cercare una costante collimazione tra diagnosi del fondo e risultati di lettura (anche estetici), non posso quindi denudare astrattamente degli schemi che, necessariamente apparirebbero generici. E poi, credo che un critico sia anche uno scrittore, tenuto quindi a uno ‘stile’. Una pura radiografia psicologica, oltre che tradire il dato, cioè la fisionomia e il valore di apparizione dell’opera d’arte, verrebbe meno ai valori stilistici, comunicativi e suggestivi, di uno scritto critico-letterario. E poi, esiste un certo pudore delle proprie ‘scoperte’ se così posso chiamarle, che vieta l’ostentazione troppo trionfante del metodo che ce le ha consentite… Mettiamo che il mio freudismo e il mio junghismo ‘masqués’ siano dissimulazioni ‘par bon ton’. Aggiunga che mi dispiacerebbe farmi passare per più colto e profondo di quanto io sia: insomma, temo sempre che le mie conoscenze psicologiche non mi diano il diritto di atteggiarmi a grande clinico, anzi mi consentano tutt’al più le bonarie approssimazioni del medico di campagna” (la lettera del 18 aprile 1963 è riportata in Michel David, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 324-325). Potrebbe risalire a questo periodo il progetto di un film rimasto irrealizzato, alla cui sceneggiatura avrebbe collaborato con Repaci e Zavattini: “Abbiamo lavorato insieme, Repaci, Debenedetti e io, intorno a una storia di palombari viareggini. Ci sarebbero voluti diecimila metri per il film di Repaci, a metterci dentro tutto quello che gli stava a cuore, il gergo e i proverbi dei marinai, i canti, le spese e i guadagni, le loro reali paure e pene, e le forme elle nuvole. Si occupava dei loro interessi paternamente, e siccome Giacomo e io mortificavamo talvolta la sua generosa fantasia, come dei produttori, egli si raccoglieva in sé, come su un’isola, con dei lunghi silenzi, incerto se offendersi o no, e infine esclamava: racconterò tutto questo a modo mio in un libro, e credo già ne vedeva le numerose pagine mosse dallo stesso vento col quale voleva spingere i nostri personaggi al largo, verso sempre più grandiose avventure” (Cesare Zavattini, Repaci tutti i giorni, in Id., Gli altri, a cura di Pier Luigi Raffaelli, Milano, Bompiani, 1986, p. 27). Nel febbraio 1946 diventa redattore unico dei testi parlati di “La Settimana Incom” – il cinegiornale

diretto da Sandro Pallavicini e realizzato dal regista Domenico Paolella con un ristretto gruppo di collaboratori – e lo rimarrà fino al 1956. “Furono dieci anni di aspro lavoro, che […] non ritiene del tutto perduti: giacché gli permisero, soprattutto nei primi quattrocento numeri di quel cinegiornale (ne compilò più di milleduecento), di tenere desta una viva conversazione col pubblico; nella quale, speranze, aspirazioni e difficoltà di un popolo in via di risorgere dalla guerra venivano espresse e precisate, sulla notizia ‘visiva’, con spigliata e il più possibile amena, ma non frivola, concretezza. Le stazioni televisive americane trasmisero per anni le notizie della vita italiana col commento di Debenedetti” (Nota autobiografica, cit., p. 341). Si tratta di un’attività sterminata che nell’archivio dell’Istituto Luce corrisponde a quaranta volumi per un totale di oltre dodicimila pagine dattiloscritte, in cui non mancano interventi e correzioni autografe, oltre ai tagli della direzione e le censure della proprietà. Non se ne è occupato nessuno, tranne Paola Frandini che gli dedica un capitolo della sua biografia debenedettiana: “Perfino adesso, alla Incom è riservata al massimo una citazione, come fosse un ramo estraneo cresciuto ai danni del tronco principale. Non è stravagante collocare la Incom all’interno di Debenedetti. Il precedente del cinema, la curiosità per la comunicazione sviluppata in giovinezza anche per influenza della cerchia del Convegno e di Ferrieri in particolare. Debenedetti infatti ci teneva, molto. Nei giorni di malattia esortò la famiglia a riprendersi quei testi. ‘Sono tutti miei!’, diceva. […] Come identificare Debenedetti? Anche senza il soccorso del suo nome fatto qua e là […], Debenedetti si riconosce da tante cose, direi da tutto. Nella Incom ci sono i suoi amori letterari, le sue civetterie, quello che lo diverte, e un po’ di autobiografia – sempre letteraria s’intende” (Paola Frandini, Il Teatro della Memoria, cit., pp. 225226). Scanditi dalla voce inconfondibile di Guido Notari, i testi riguardano avvenimenti importanti e meno importanti di quegli anni, dall’omaggio ai pionieri dell’aria del 5 novembre 1947 (“Piove sulla Giornata Azzurra. […] Fuochi d’artificio del nostro tempo. E, come un tempo, dal razzo finale sciamava una pioggia di stelle, i paracadutisti sbocciano da un F 82. […] Oggi si vola, avvolgendo il pianeta con le invisibili stelle filanti delle nostre rotte celesti”) alla mostra di Ensor del 29 marzo 1950 presto l’Istituto Calcografico di Roma (“Perché Ensor nell’autoritratto si è circondato di demoni? Non a caso il massimo romanziere d’oggi denuncia l’arte moderna come un lucido e ossessionato romanzo col diavolo. […] Surrealismi allucinati e allucinazioni ironiche nelle allegorie. Rasenta, in questi libertini che puntano il binocolo sulle bagnanti, la satira di costume. Nei Pattinatori mostra un realismo volitivo che rasenta i fiamminghi. Il grande Ensor ha percorso tutto l’arco della pittura moderna, compreso l’Impressionismo, che è scoperta della natura e della luce”), dalla celebrazione wagneriana del 24 maggio 1953 a Ravello (“A Villa Ruffolo sono tornate anche le fanciulle fiori, come le vide forse nella fantasia il Maestro quando ravvisò in quei luoghi lo scenario per il secondo atto del Parsifal, dov’è narrata la tentazione del puro folle nel castello del mago Klingsor. […] In un’ultima ebbrezza creativa, il Maestro lottava contro se stesso. Era lui, il mago Klingsor. Aveva affascinato l’arte, stregato il mondo. Ora suscitava l’eroe della confessione. Crollano gli spalti del mago, quando Parsifal traccia con la lancia il segno della croce”) ai commenti di varia attualità, non esclusi la moda e lo sport, nei quali una scrittura parlata di singolare vivacità inventiva si misura con le immagini del cinegiornale. “Forse, proprio il lavoro alla Incom, nella brutalità della vita di redazione, nella febbrile necessità di accendere la mente sulla notizia, nelle notti in bianco di un lavoro massacrante che assieme alla quantità sterminata di sigarette (c’è un appunto scherzoso dove si legge ‘noi sterminatori di sigarette’) procurò i primi guasti circolatori, Debenedetti trovò paradossalmente sollievo alla estraneità del mondo e la trovò perché quello era un lavoro di Pubblica Utilità. Sensibile ai simboli, gli attribuì anche una valenza simbolica. Certo, se ne sentì l’Autore” (Paola Frandini, Giacomo Debenedetti e la “Settimana Incom”, cit., pp. 242-243). Nel luglio inizia la collaborazione a l’Unità che prosegue fino al ’48, con numerosi interventi sui protagonisti della letteratura italiana contemporanea, mai raccolti in volume. Il disaccordo con la politica culturale del quotidiano, diretto da Mario Alicata, è all’origine delle sue dimissioni. Scrive

Rileggere Proust che, inedito in vita, sarà pubblicato soltanto postumo: “Oggi, passati quasi venticinque anni, rileggere Proust significa non solo mettere a confronto la sua gloria – quale si è consolidata – con la sua fama, quale brillò repentina, con una dolce, ineluttabile e perfino calamitosa prepotenza […]. Significa anche mettere a confronto noi con noi stessi; i noi di allora con ciò che il logorio e l’edificazione, i disastri e i risultati di molti mutamenti hanno fatto oggi di noi” (Giacomo Debenedetti, Rileggere Proust, in Id., Proust, a cura di Vanessa Pietrantonio e con introduzione di Mario Lavagetto, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 137). Partecipa con Repaci alla ripresa del premio Viareggio, di cui sarà una delle personalità più rappresentative, contribuendo tra l’altro alla vittoria del Canzoniere di Saba nel ’46, delle Lettere dal carcere di Gramsci nel ’47, di Menzogna e sortilegio di Elsa Morante nel ’48. Significativa anche la partecipazione alla giuria del premio Strega e del premio Crotone per la narrativa, assegnato nel ’56 a Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini. Il 24 settembre 1947 inaugura la Settimana dello scrittore di Perugia con la lettura di Personaggi e destino, uno dei suoi scritti più intensi e emblematici, che andrà a far parte della terza serie di Saggi critici. Il 4 novembre firma a Firenze, in Palazzo Vecchio, il Manifesto degli scrittori italiani contro l’uso della bomba atomica. Il 13 marzo 1948 tiene al Liceo Classico Tasso di via Sicilia a Roma la conferenza Cinema: il destino di raccontare, in occasione di un’iniziativa didattica del Circolo Romano del Cinema. Il 2 aprile partecipa al Congresso della cultura italiana organizzato a Firenze dall’Alleanza per la difesa della cultura. Probabilmente in questa occasione avviene l’incontro che Pier Paolo Pasolini rievocherà nel ’61 (Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, t. II, Milano, Mondadori, 1999, pp. 2432-2433; è il testo dell’intervento letto all’“Incontro con l’autore” del 20 dicembre 1961). Il 21 settembre 1949, al Congresso internazionale del Pen Club di Venezia, legge Probabile autobiografia di una generazione che suscita accese polemiche soprattutto in ambito marxista; rielaborata, sarà nel 1952 la prefazione alla ristampa della prima serie di Saggi critici. Da Bompiani esce Un amore di Swann di Proust, che aveva cominciato a tradurre durante la guerra. Nel 1950 è chiamato a ricoprire l’incarico di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea alla Facoltà di Lettere dell’Università di Messina, per il quale tiene corsi su Svevo, Verga, Pascoli fino al ’54-’55. La figura dell’insolito professore rivive nei ricordi di Walter Pedullà, uno dei suoi primi allievi: “Debenedetti era un oratore di immediata e intensa suggestione […] che serviva a ragionamenti audaci e sottili, da prima impervi ma poi […], luminosi, o meglio, tangibili: che è l’aggettivo con cui egli di solito registra che è stata toccata la sostanza della questione. […] Se non si stava insieme a pranzo e nel dopo pranzo, tornavamo a prenderlo all’albergo per la lezione pomeridiana. […] Si andava poi in albergo e il nostro professore di Letteratura contemporanea colloquiava con noi in un supplemento di lezioni e arricchiva il discorso con ricordi personali, che sollecitavamo: aneddoti, rapide analisi e motivati giudizi, puntualizzazioni ‘dalla parte dell’uomo’ e dello scrittore, o pittore che fosse, su Svevo, Croce, Gobetti, Gramsci, De Chirico, Casorati, Levi, Savinio, Palazzeschi, Noventa, Ungaretti, Bontempelli, Moravia, Zavattini, Pirandello, Bacchelli, Cecchi, Barilli, Baldini, Pancrazi, Montale, Bazlen, Saba e su altri narratori, poeti e saggisti, su registi e attori cinematografici, su pittori e musicisti, che aveva conosciuto o frequentato nella giovinezza torinese o a Roma” (Walter Pedullà, Un dialogo lungo sedici anni (1951-1967), in Id., Giacomo Debenedetti, interprete dell’invisibile, Venezia, Marsilio, 2015, pp. 3337). Nel ’55-’56 insegna Lingua e Letteratura francese alla Facoltà di Magistero di Messina, dedicando un corso agli Essais di Montaigne. Nel 1958 ottiene l’incarico di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea alla Facoltà di Lettere dell’Università di Roma, dove fino al ’65’66 tiene corsi su Tommaseo, Verga, Pascoli, sulla poesia e sul romanzo del Novecento. Curato amorevolmente da Renata Orengo dopo la morte di Giacomo, è proprio Il romanzo del Novecento che nel ’71 inaugurerà la pubblicazione degli inediti a partire dai quaderni autografi. Nella

Presentazione, Eugenio Montale scrive: “Giacomo, il Giacomino dei suoi amici più cari, fu a modo suo un’artista compiuto, un incomparabile virtuoso di testi. Proprio così, come si dà nelle esecuzioni musicali. Mi si dice ch’egli non leggesse affatto le lezioni che aveva scritto con tanta cura. Le teneva certo sotto gli occhi ma senza dubbio le arricchiva di infinite variazioni. Questo spiega il carattere orale di una prosa che in altri tempi era stata più concisa, chiusa in se stessa, lavorata per pochi intenditori. E non parlerei nemmeno di un’arte di interprete, ma di una bravura che è anche ricreazione. Neppure l’adesione al marxismo ha potuto scalfire questa sua libertà d’invenzione e di fantasia. Se fu un clerc, e lo fu largamente, nessuno poté mai attribuirgli un carattere settario. Immergersi nel vasto mare della Letteratura restò sempre per lui un fatto vitale. Egli leggeva il mondo come una pagina da rivivere” (Eugenio Montale, Presentazione a Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti, Milano, Garzanti, 1971, p. XVII). Sempre curati da Renata Orengo, negli anni successivi Niccolò Tommaseo (1973), Poesia italiana del Novecento (1974), Verga e il naturalismo (1976), Pascoli: la rivoluzione in consapevole (1979), Quaderni di Montaigne (1986) – più volte ristampati con prefazioni di Pier Paolo Pasolini, Alfonso Berardinelli, Nino Borsellino, Luigi Baldacci – confermano lo “straordinario mutamento operato in lui dal contatto con gli studenti”: “L’insegnamento interviene nell’opera di Debenedetti come un’astuzia della provvidenza. Fino al momento di venir chiamato a Messina […] e di scoprirsi docente (alla soglia dei cinquant’anni), Debenedetti era stato prigioniero della sua scrittura di ispirato metaforista come dei vezzi di una maga esigente e ingegnosa. […] Il rapporto con gli allievi, però, riesce a rompere il sortilegio. Dà inizio a una liberazione dai risultati imprevedibilmente positivi. Insomma, a dispetto dalle pagine stupende perché dettate dalla pietà e dal dolore, del 16 ottobre 1943 prima di Messina e dell’incarico di Letteratura contemporanea, Debenedetti non è cresciuto dentro, non è cresciuto umanamente rispetto al clerc che vuol stupire della propria bravura la sua stessa intelligenza. Sarà la cattedra a operare il miracolo, anzi la ‘piccola guarigione’ (come aveva previsto Saba) del male di ‘scrivere troppo bene’” (Antonio Debenedetti, Giacomino, Milano, Rizzoli, 1994, pp. 198-199). La pubblicazione dei quaderni segna la svolta fondamentale nella straordinaria fortuna postuma di Debenedetti: “Come è noto, Debenedetti non aveva intenzione di dare alle stampe i suoi quaderni; c’è da pensare che li avrebbe distillati in nuovi, splendidi saggi. Per altro è altrettanto noto che a Debenedetti accadeva spesso, nel corso delle sue lezioni, di abbandonare la traccia preparatoria, per aprire nuovi squarci, percorrere nuovi sentieri, sollecitato da nuove associazioni, da continue folgorazioni. […] Le lezioni, insomma, ci consegnano quel ‘lavorìo dell’officina’ che Debenedetti è stato sempre restio a rivelare […]. Si deve alla generosità di Renata Orengo Debenedetti se quei quaderni sono oggi tra i testi di critica più letti da studenti e studiosi. Con la loro pubblicazione è iniziata la riappropriazione dell’opera di Debenedetti da parte del pubblico e il definitivo riconoscimento del suo magistero – certo il più innovativo nel panorama della critica italiana del Novecento – da parte di un’accademia che con il suo ostracismo non aveva voluto affermarne la straordinarietà” (Angela Borghesi, Notizie sui testi, in Giacomo Debenedetti, Saggi, cit., pp. 1615-1616). Su Debenedetti a lezione è suggestiva la testimonianza di Alfonso Berardinelli: “Lo stile delle sue lezioni era uno stile da conversazione: nessuna nozione veniva offerta come un accumulo stabilmente disponibile e memorizzabile. Monologando ad alta voce, ma con tutto il rispetto delle forme che sentiva […] di dover avere per chi lo ascoltava, Debenedetti ci faceva assistere alla sua ricerca, alla sua riflessione in atto […]. Nel bilancio retrospettivo della cultura letteraria di un secolo […] sentivamo il conforto della sua pacatezza e lo stimolo della sua ansia. […] La moderazione di Debenedetti, le sue formule attenuanti, ironiche, i suoi garbati cerimoniali propiziatori, non soffocavano affatto l’audacia delle sue ipotesi critiche. Esprimevano anzi le cautele di chi sa di avventurarsi in terreni minati, in geografie ancora poco note. […]. Non sottovalutando affatto i doni e

i rischi dell’arte (individuati da una lunga tradizione di pensiero che va da Platone a Nietzsche), sentiva di dover agire come un accorto e abile mago, che non deve scatenare forze misteriose superiori alle sue capacità di controllo” (Alfonso Berardinelli, Ricerca, conversazione, insegnamento, in Il Novecento di Debenedetti, cit., pp. 132-134). Nelle lezioni romane degli anni sessanta è particolarmente significativa l’analisi dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Luigi Pirandello, in cui mette a frutto la sua lunga frequentazione del cinema: “Il complesso rapporto che il protagonista gestisce con l’occhio inerte di quello strumento, le domande che si pone sulla autonomia e dipendenza da quella macchina mostrano come l’antica esperienza al vivo, la conoscenza pratica di Giacomo Debenedetti, rifluiscano a formare un tutt’uno, inscindibile con l’interpretazione letteraria” (Paola Frandini, Giacomo Debenedetti cinecritico, sceneggiatore e altro, cit., p. 281). Gli altri riferimenti al cinema riguardano quasi esclusivamente Charlie Chaplin, che cita un paio di volte a proposito di Tozzi e di Svevo e in occasione della pubblicazione nel ’64 dell’autobiografia. Nel settimanale Epoca del 17 novembre 1951 pubblica la nota Inviato speciale a Cinelandia sulla prima edizione della Storia delle teoriche del film di Guido Aristarco, appena uscita da Einaudi. Qualche anno dopo, Aristarco sarà il primo studioso italiano a occuparsi degli scritti cinematografici di Debenedetti in alcuni articoli apparsi nel ’57 su Cinema Nuovo, poi in parte confluiti nella nuova edizione della Storia delle teoriche del film, Torino, Einaudi, 1960, pp. 267279. Prepara per il terzo programma radiofonico della Rai la Radiorecita su Marcel Proust, che va in onda il 1 ottobre 1952, singolare tentativo di raccontare attraverso il dialogo tra vari personaggi e allusive citazioni musicali la recente scoperta di Jean Santeuil, l’inedito romanzo giovanile di Proust. Nell’agosto 1953 si trasferisce con la famiglia in via del Governo Vecchio 78, dietro piazza Navona. Collabora tra l’altro a La Fiera Letteraria, Nuovi Argomenti, Il Punto della settimana, L’Europa Letteraria, Paragone, L’Approdo Letterario. Nel 1954 a Bressanone, durante i corsi estivi dell’Università di Padova, tiene una conferenza sulla poesia di Diego Valeri. Nel 1955 pubblica da Mondadori una nuova edizione accresciuta della seconda serie dei Saggi critici, mentre la rivista Galleria ripropone 16 ottobre 1943, richiestogli personalmente da Leonardo Sciascia. Nel marzo 1957 va a Mosca insieme a Elsa Morante in occasione della commemorazione del duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Carlo Goldoni. Nel marzo 1958 partecipa a Bologna al convegno promosso per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli. Nello stesso periodo collabora a La Sera di Roma con alcuni fotoarticoli firmati Fausto Arrighi, dove riprende l’esperienza dei paginoni di Cinema. Cura per Mondadori l’edizione italiana delle opere di James Joyce, di cui escono i primi due volumi. Sin dalla primavera si concretizza il progetto della casa editrice Il Saggiatore di Alberto Mondadori – i suoi primi, lontani rapporti con l’irrequieto figlio di Arnoldo risalgono all’ottobre ’46 – di cui diviene direttore letterario e entra a far parte del comitato dei consulenti, che comprende tra gli altri Enzo Paci, Remo Cantoni, Ernesto De Martino, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Giulio Carlo Argan, Bruno Maffi, Fedele d’Amico, Guido Aristarco. Il Saggiatore si rivela sin dall’inizio una delle proposte editoriali più significative e feconde degli anni sessanta, aperta ai “campi nuovi, o quasi, che il provincialismo della cultura italiana ha finora trascurato” (Mario Andreose, Alberto Mondadori, in Id., Uomini e libri, Milano, Bompiani, 2015, p. 24). Nel maggio 1959 Saggi critici. Terza serie – che oltre a Personaggi e destino comprende scritti su Vittorio Alfieri, André Gide, Vercors, Paul Valéry, Albert Camus, Marcel Proust, Giovanni Verga, Giovanni Pascoli – inaugura la collana “La Cultura”. Nelle varie sezioni appariranno libri di Rudolf Arnheim, Ludwig Binswanger, Simone De Beauvoir, William Faulkner, Werner Heisenberg, Edmund Husserl, Karl Jaspers, Carl Gustav Jung, Paul Klee, Claude Lévi-Strauss, Jay Leyda, Katherine Mansfield, Maurice Merleau-Ponty, Jean-Paul Sartre, Albert Thibaudet, Edmund Wilson, Charles Wright Mills, e fra gli italiani Cesare Brandi, Emilio Cecchi, Franco Fortini, Eugenio

Montale, Mario Praz, Sergio Solmi, Giorgio Vigolo. Cura personalmente la collana “Biblioteca delle Silerchie” da lui ideata – dove appaiono testi di Thomas Mann, Thomas Wolfe, Ezio Raimondi, Giacomo Noventa, Franz Kafka, Károly Kerényi, Niccolò Tommaseo, Alberto Savinio, James Joyce, Ernst Cassirer, J. Rodolfo Wilcock, Paul Valéry, Jorge Luis Borges, Vittorio Sereni, Luigi Pirandello, Edward M. Forster – e ne scrive le presentazioni, che saranno raccolte in volume nel 1991 e nel 2012. La strategia editoriale, messa a punto nei frequenti incontri con Alberto Mondadori nella sua villa a Camaiore, è illustrata nei cataloghi che hanno l’ampiezza di una rivista, a cui Debenedetti collabora con scritti programmatici, suggerimenti e indicazioni, come avviene per il Catalogo generale 1958-1965, che ospita la storica inchiesta sullo strutturalismo curata da Cesare Segre. La passione con cui s’impegna nel lavoro tra Roma e Milano anima uno dei periodi più attivi e esaltanti della sua vita che gli consente di intrecciare una serie vastissima di relazioni culturali. Nella primavera 1961 gli viene conferito a Roma il premio Tor Margana e nel settembre a Torino il premio Fila, insieme a Felice Casorati. Il 20 dicembre all’Hotel Excelsior di Roma è protagonista dell’“Incontro con l’autore”, presentato da Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini, Gianna Manzini. L’11 febbraio 1962 partecipa a Roma al Convegno Nazionale sulla Televisione con un intervento su letteratura e tv. Chiamato da Győrgy Lukács, nel novembre tiene all’Università di Budapest alcune lezioni sull’ermetismo, Mallarmé e Montale. S’impegna nel lavoro di traduzione e riduzione di Le Diable et le bon Dieu, la pièce di Jean-Paul Sartre che l’8 dicembre viene rappresentata per la regia di Luigi Squarzina al Teatro Stabile di Genova e poi all’Eliseo di Roma. Nel gennaio 1963 commemora Federigo Tozzi nella Sala del Comune di Siena per l’ottantesimo anniversario della nascita dello scrittore. All’inizio di agosto legge la relazione Un punto d’intesa sul romanzo moderno? alla tavola rotonda sul romanzo organizzata a Leningrado dalla Comunità europea degli scrittori. Nel settembre al III Congresso dell’Accademia italiana di scienze biologiche e morali di New York legge Il personaggio-uomo nell’arte moderna. Nello stesso anno pubblica Intermezzo, la sua ultima raccolta di saggi critici edita in vita, che comprende scritti dedicati a Bruno Barilli, Umberto Saba, Elsa Morante, Elsa Manzini, Cesare Zavattini, Diego Valeri, Dino Buzzati, Bonaventura Tecchi, Tommaso Landolfi, Emilio Cecchi, Pier Antonio Quarantotti Gambini. Alla fine di agosto 1965 legge il suo ultimo, grande saggio Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo alla XXVI Mostra d’arte cinematografica di Venezia nella tavola rotonda “Forme della comunicazione cinematografica anche in rapporto alla narrativa e alle esperienze televisive”, riprodotto parzialmente in Cinema Nuovo, XIV, 177, settembre-ottobre 1965, pp. 326-334; poi apparso per intero in Paragone, XVI, 190, dicembre 1965, pp. 3-36; e ora riproposto con altri scritti in Giacomo Debenedetti, Il personaggio-uomo, prefazione di Raffaele Manica, Milano, il Saggiatore, 2017, nella collana “le Silerchie”. Considerato il testamento del grande critico, ripropone secondo Arbasino le “discussioni che facevamo con una certa passione durante gli anni sessanta; e lo stesso Debenedetti, benché molto più vecchio trovava allora gli ‘alienati’ di Antonioni e il trovarobato di Robbe-Grillet più moderni delle letture di Joyce e Proust da parte di Edmund Wilson” (Alberto Arbasino, Ritratti italiani, Milano, Adelphi, 2014, p. 288). Il 24 ottobre partecipa con Gianfranco Contini alle celebrazioni dantesche al Teatro Bol’šoj di Mosca. Nel maggio 1966 interviene alla discussione di una tesi di laurea all’Università di Cracovia con una relazione che, con il titolo “Vittorini a Cracovia”, sarà pubblicata su Paragone. Nello stesso mese è in Germania dove visita il campo di sterminio di Buchenwald e partecipa a Berlino a una tavola rotonda sulla letteratura moderna. Nel discorso che tiene a Weimar dice tra l’altro: “In questi giorni, abbiamo visitato Buchenwald, dove sono stati uccisi tanti nostri compagni e amici, e forse anche alcuni nostri parenti. […] La metamorfosi di Buchenwald, da voi fiduciosamente tentata, ne ha fatto un luogo di dolorosissima espiazione, da cui l’orrore e la tragedia non sono scomparsi. Buchenwald, con le sue rovine, continua ad artigliare il midollo del visitatore, ma pone più

inesorabili le premesse di un nuovo patto tra gli uomini. ‘Maledetto colui che lo infrange’ avrebbe esclamato il nostro Alessandro Manzoni, con un suo verso brutto ma sublime. Chi è arrivato a Buchenwald in età inoltrata, ringrazia la vita di avergli concesso un sufficiente numero di anni per poter vedere questo rovesciamento della storia. Ma per chiunque vi arrivi, in qualsiasi età, Buchenwald avverte che bisogna redimere così, o meglio ancora prevenire, tutte le possibili Buchenwald che ancora ci minacciano: si trovino nel Vietnam o a Santo Domingo o nei paesi ancora fascisti o negli altri, e purtroppo vasti, luoghi del terzo mondo, dove gli uomini sono ancora costretti a rivendicare i propri diritti”. L’8 settembre interviene alla commemorazione di Emilio Cecchi nella rubrica televisiva Zoom. Nella riorganizzazione del Saggiatore, viene sollevato dall’incarico di direttore letterario e resta soltanto curatore dei “Saggi di arte e di letteratura”. A gennaio avrebbe dovuto fare il suo primo viaggio a Gerusalemme, per il quale ha già acquistato il biglietto aereo. Ma il 31 dicembre viene colpito da infarto. Giacomo Debenedetti muore il 20 gennaio 1967 alle tre e mezza del pomeriggio nella sua casa di Roma. È sepolto nel cimitero ebraico di Torino. “Abbiamo perduto il primo critico letterario italiano di questo secolo, il solo forse che a servizio del genere critico abbia piegato le qualità di un vero scrittore”, scrive in quei giorni Contini. “Più che figlio, come fu detto, di D’Annunzio e Proust, o magari di Walter Pater, il meraviglioso metaforista che fu Debenedetti, sempre atteggiato in favola altamente drammatica e ironica, penso che nel culto della bellezza sia stato piuttosto allievo e pupillo di Händel o di Ravel. Comunque sia, possedere un tale esemplare nel nostro erbario, e non accorgersene col debito rilievo proporzionale, non dirlo forte, è cosa di cui noi tutti letterati contemporanei dobbiamo rendere ammenda” (Gianfranco Contini, “Una parola per Giacomo Debenedetti”, Rinascita, XXIV, 6, 10 febbraio 1967, p. 24; poi in Id., Postumi esercizi ed elzeviri, a cura di Giancarlo Breschi, Torino, Einaudi, 1998, p. 151). Non meno partecipe il ricordo di Alberto Moravia: “Giacomo Debenedetti aveva uno charme o fascino strano al tempo stesso raffinato e familiare, esitante e sicurissimo, cortese e autoritario, distaccato e patetico. In questo fascino si riconosceva anche il riflesso indiretto e filtrato di una cultura per niente libresca, vissuta a ben guardare con le stesse operazioni dell’animo, quasi direi, alla maniera del suo Proust, le stesse intermittenze del cuore con le quali si vive la vita. […] Quello che mi seduceva tanto in lui era la qualità molto moderna e attuale della sua civiltà. Essere civili non è poi tanto difficile, basta comportarsi secondo certe norme, ispirarsi a certi modelli. Ma essere civili con trepidazione, con inquietudine, con angoscia, questo è assai insolito. Era come se, nel momento stesso che mi faceva sentire la civiltà nel tono della sua voce, nell’espressione del suo volto, nel gesto delle sue mani, egli mi avesse anche avvertito della fragilità e incertezza della situazione in cui si trovava e si trova tuttora l’uomo civile ai tempi nostri. Era, insomma, un personaggio delicato, elegante, colto, sottile e intellettuale che il destino aveva fatto nascere in un’epoca poco adatta, brutale e mercantile. Egli era consapevole di questo contrasto ed era appunto questa consapevolezza a conferire alla sua civiltà un carattere un po’ straziante” (Alberto Moravia, L’uomo civile, in Giacomo Debenedetti 1901-1967, a cura di Cesare Garboli, Milano, il Saggiatore, 1968, pp. 105-106). L’Accademia dei Lincei gli attribuisce il premio Feltrinelli per la Saggistica 1967.

Nota ai testi

Questo volume comprende un’ampia scelta degli scritti cinematografici di Giacomo Debenedetti. Ai testi già raccolti in Al cinema, a cura di Lino Miccichè, Venezia, Marsilio, 1983, sono stati aggiunti cinque fotoarticoli (rispettivamente sul rapporto Sternberg-Marlene, su Giulietta e Romeo, sulla illuminazione, sulle grandi dive, sulla ricorrente fortuna cinematografica della Signora dalle camelie) e una nota sulla fotografia, pubblicati su Cinema dal luglio al novembre 1936, una ventina di “Cronache dei film nuovi” sempre su Cinema dall’ottobre 1936 al gennaio 1937, il ricordo di Ferdinando Maria Poggioli apparso su L’Epoca nel febbraio 1945, le recensioni di “Cinema a Roma” per Milano Sera del settembre-ottobre 1945 in occasione del Primo Festival Internazionale d’Arte Cinematografica, Drammatica e Musicale tenutosi al Teatro Quirino, con le quali si conclude la sua attività di critico cinematografico. Sono stati inclusi anche l’articolo “Inviato speciale a Cinelandia” su Epoca del ’51 e le pagine dedicate a Charlot nelle lezioni romane dei primi anni sessanta, pubblicate postume in Il romanzo del Novecento. Gli scritti sono stati riprodotti in modo integrale dai testi a stampa, limitandosi a eliminare gli evidenti refusi e uniformare l’uso di virgolette e corsivi, mantenendo il più possibile le grafie d’epoca e la personale punteggiatura dell’autore. Salvo diversa indicazione, i titoli degli scritti sono quelli con cui sono apparsi nelle varie sedi. Sono stati riscontrati con gli originali – conservati nell’Archivio Debenedetti presso l’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze – gli scritti inediti in vita: “La conversione degli intellettuali al cinema” (lunga premessa, preparata ma forse non letta per intero, alla conferenza tenuta il 6 giugno 1931 al Circolo “Il Convegno” di Milano e in parte pubblicata nel fascicolo di giugno dell’omonima rivista con il titolo “Risorse del Cinema”; la sua stesura risale senz’altro al maggio dello stesso anno, anche perché vi si citano “le recentissime Luci della città”, e cioè il chapliniano City Lights, distribuito in Italia nell’aprile di quell’anno); “La vittoria di Topolino” (ampia conferenza sul sonoro forse progettata per il Circolo del “Convegno”, ma di fatto mai tenuta – che è quasi certamente del 1935 perché vi si allude al “recente” Don Bosco di Goffredo Alessandrini, uscito a Torino il 15 aprile 1935, e al “saggio del Pudovkin testé apparso in traduzione italiana”, e cioè il libro di Vsevolod Pudovkin, Film e fonofilm, a cura di Umberto Barbaro, Roma, Le Edizioni d’Italia, 1935); “Cinema: il destino di raccontare” (è il testo della conferenza tenuta al Liceo Classico Tasso di via Sicilia a Roma il 13 marzo 1948 in occasione di un’iniziativa didattica promossa dal Circolo Romano del Cinema, dove il film sullo starnuto è The Sneeze o più esattamente Edison Kinetoscopic Record of a Sneeze, girato nel 1894 da Willliam K. Laurie Dickson, collaboratore di Thomas Alva Edison. Il film sulla Passione è La Vie et la Passion de Jésus Christ, realizzato dai Lumière nel 1897, mentre Life of an American Fireman è notamente di Edwin S. Porter e non di Griffith a cui per una svista viene attribuito nel manoscritto). Le fonti degli altri scritti sono le seguenti: “Cinematografo”, Solaria, II, 3, marzo 1927, pp. 18-23; “All’insegna delle riviste: Poesia di Charlot [firmato Swan]”, Gazzetta del Popolo, 8 marzo 1929; “Diario del cinema: ‘La montagna dell’amore’, ‘L’uomo tra le fiamme’” [anonimo], Gazzetta del Popolo, 19 maggio 1929; “Diario del cinema: ‘La signorina Chicchirichì’, ‘Il mostro del mare’” [anonimo], Gazzetta del Popolo, 29 maggio 1929; “Risorse del Cinema (Frammenti di una conferenza)”, Il Convegno, XII, 6, 25 giugno 1931, pp. 321-337; Attendiamo l’eroe…, in AA.VV., Teatro, Milano, Alleanza Nazionale del Libro, 1935; “Il cinema e gli intellettuali”, Intercine, VII, 8-9, agostosettembre 1935, pp. 160-164; “Attore o regista?” [in collaborazione con Alberto Consiglio],

Cinema, I, 1, 10 luglio 1936, pp. 22-24 (il testo di questo articolo – come dei successivi “Passato e presente di Romeo e Giulietta”, “Misteri e poesia dell’illuminazione”, “Dive: maschere e miti del Cinema”, “Controprove” – è strettamente legato alle immagini, per cui si è ritenuto opportuno riprodurlo con le fotografie, assieme agli altri quattro, nell’inserto pubblicato a parte); “Passato e presente di Romeo e Giulietta” [in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 2, 25 luglio 1936, pp. 63-66 (singolare ricerca delle possibili fonti iconografiche di Romeo and Juliet di George Cukor – con Norma Shearer, Leslie Howard, John Barrymore – che, dopo la presentazione alla Mostra di Venezia del ’36, viene distribuito in Italia con il titolo Giulietta e Romeo); “Panoramica di Venezia” [in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 3, 10 agosto 1936, pp. 104-109; “Misteri e poesia dell’illuminazione” [in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 4, 25 agosto 1936, pp. 143-146; “Scrivere con la luce” [firmato Gustavo Briareo], Cinema, I, 4, 25 agosto 1936, p. 155; “Dive: maschere e miti del Cinema” [in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 5, 10 settembre 1936, pp. 182-187; “ChaplinCharlot” [in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 6, 25 settembre 1936, pp. 224-227; “Il senso dell’avventura” [in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 7, 10 ottobre 1936, pp. 263-266; “L’ardua vita di Greta Garbo” [in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 8, 25 ottobre 1936, pp. 307-309; “Miraggi di terre beate” [in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 9, 10 novembre 1936, pp. 344-347; “Controprove” [in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 10, 25 novembre 1936, pp. 383-386; “Gloria del mattino” [in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 12, 25 dicembre 1936, pp. 477-479; “La Bertini prima diva” [in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, II, 13, 10 gennaio 1937, pp. 14-15; “Se non era per Doris…” [in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, II, 14, 25 gennaio 1937, pp. 60-61; “Cronache dei film nuovi: ‘La bandera’, ‘Il fantasma galante’, ‘Finalmente una donna!’” [anonimo ma in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 7, 10 ottobre 1936, pp. 281-282; “Cronache dei film nuovi: ‘La damigella di Bard’, ‘Squadrone bianco’, ‘Cavalleria’” [anonimo ma in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 8, 25 ottobre 1936, p. 322; “Cronache dei film nuovi: ‘La vita del dottor Pasteur’” [firmato Co. De], Cinema, I, 9, 10 novembre 1936, p. 361; “Cronache dei film nuovi: ‘Desiderio di re’” [firmato CO. DE], Cinema, I, 10, 25 novembre 1936, pp. 401402; “Cronache dei film nuovi: ‘È arrivata la felicità’, ‘Nozze vagabonde’, ‘Il Corsaro Nero’” [anonimo ma in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 11, 10 dicembre 1936, pp. 431-436; “Cronache dei film nuovi: ‘Kermesse eroica’, ‘L’imperatore della California’, ‘I quattro moschettieri’” [anonimo ma in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, I, 12, 25 dicembre 1936, pp. 482-486; “Cronache dei film nuovi: ‘Vigilia d’armi’, ‘La pattuglia sperduta’, ‘Allegria’, ‘Sotto due bandiere’, ‘L’equipaggio’, ‘L’uomo che sorride’” [anonimo ma in collaborazione con Alberto Consiglio], Cinema, II, 13, 10 gennaio 1937, pp. 31-32; “Pabst e il pubblico” [firmato Gustavo Briareo], Cinema, II, 21, 10 maggio 1937, pp. 368-369; “In sala o sullo schermo?”, Cinema, II, 22, 25 maggio 1937, pp. 405-406, poi in AA.VV, Atti del secondo Congresso internazionale di musica. FirenzeCremona, 11-20 maggio 1937, Firenze, Le Monnier, 1940, pp. 245-251; “Stroheim a Parigi” [anonimo ma di Giacomo Debenedetti], Cinema, II, 23, 10 giugno 1937, p. 458; “Lavorazioni dure” [firmato Gustavo Briareo], Cinema, II, 28, 25 agosto 1937, p. 117; “Fuori l’autore”, Prospettive, I, 2, agosto 1937, pp. 35-37; “Tradurre un film” [firmato Corrado Pavolini, ma conservato tra le carte debenedettiane del Vieusseux con la firma di Gustavo Briareo come il successivo “Il doppiaggio in Italia” di cui è una sorta di lunga premessa], Cinema, I, 5, 10 settembre 1936, pp. 180-181; “Il doppiaggio in Italia” [firmato Gustavo Briareo], Cinema, II, 29, 10 settembre 1937, pp. 154-156; “Primo punto: la sceneggiatura”, Cinema, II, 34, 25 novembre 1937, pp. 335-337; “Visto in questi giorni: ‘Il signor Max’ di Mario Camerini, ‘Saratoga’ di Jean Harlow, ‘La fossa degli angeli’ di Carlo L. Bragaglia”, Cinema, II, 35, 10 dicembre 1937, pp. 384-386; “In questi giorni: ‘Anime sul mare’ di Adolf Zukor, ‘Il dottor Antonio’ di Enrico Guazzoni, ‘Il feroce Saladino’ di Bonnard e Margadonna, ‘Sentinelle di bronzo’ di Romolo

Marcellini, ‘Stasera alle 11’ di Oreste Biancoli”, Cinema, II, 36, 25 dicembre 1937; “In questi giorni: ‘Parnell’ di Karl Freund, ‘Angelo’ di Ernst Lubitsch, ‘Le perle della corona’ di Sacha Guitry”, Cinema, III, 37, 10 gennaio 1938, pp. 24-26; “In questi giorni: ‘Il principe e il povero’ di William Keighley, ‘La buona terra’ di Luise Rainer”, Cinema, III, 38, 25 gennaio 1938, pp. 59-60; “In questi giorni: ‘Il demone del giuoco’ di Fiodor Ozep, ‘Labbra sognanti’ di Elisabeth Bergner, ‘La rivincita di Clem’ di Wallace Beery, ‘Eravamo 7 sorelle’ di A. De Benedetti e N. Malasomma”, Cinema, III, 39, 10 febbraio 1938, pp. 98-100; “In questi giorni: ‘Dolce inganno’ di Katharine Hepburn, ‘Voglio vivere con Letizia’ di Camillo Mastrocinque, ‘Carnet di ballo’ di Julien Duvivier”, Cinema, III, 40, 25 febbraio 1938, pp. 131-132; “In questi giorni: ‘Sotto i ponti di New York’ di Alfred Santell, ‘Alì Babà va in città’ di Eddie Cantor, ‘La contessa Alessandra’ di Korda & Feyder”, Cinema, III, 41, 10 marzo 1938, pp. 169-170; “In questi giorni: ‘Mademoiselle Docteur’ di Georg W. Pabst, ‘Pel di carota’ di Julien Duvivier, ‘Un giorno alle corse’ dei fratelli Marx”, Cinema, III, 42, 25 marzo 1938, pp. 206207; “Addio Poggioli” [firmato g. d.], L’Epoca, 5 febbraio 1945; “Cinema a Roma: ‘Il ladro di Bagdad’, ‘Roma città aperta’, ‘Lenin nel 1918’, ‘I ragazzi del Paradiso’” [firmato Giacomo De Benedetti come i cinque articoli successivi], Milano Sera, 26 settembre 1945; “Cinema a Roma: ‘This Happy Breed’”, Milano Sera, 28 settembre 1945; “Cinema a Roma: ‘Goupi dalle mani rosse’”, Milano Sera, 29 settembre 1945; “Cinema a Roma: ‘N. 217’, ‘Lady Hamilton’, ‘Ascei immortale’”, Milano Sera, I ottobre 1945; “Cinema a Roma: ‘Amitié noire’, ‘L’éternel retour’”, Milano Sera, 4 ottobre 1945; “Cinema a Roma: ‘Blithe Spirit’, ‘Les visiteurs du soir’, ‘Berlino’”, Milano Sera, 9 ottobre 1945; “Inviato speciale a Cinelandia”, Epoca, II, 58, 17 novembre 1951, p. 65; Charlot clown e dandy, da Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti, Milano, Garzanti, 1971, pp. 95-97, 517-522, 567-568 [il titolo è redazionale]. Nell’indice generale accanto ai titoli dei film recensiti nelle rubriche “Diario del Cinema”, “Cronache dei film nuovi”, “Cinema a Roma” sono stati aggiunti per maggior chiarezza i nomi dei registi non sempre presenti negli originali, mentre accanto ai titoli di “In questi giorni” è stato riportato il nome indicato dallo stesso Debenedetti come la “personalità preponderante” da considerare “il vero autore del film”. Sono stati uniformati i titoli di distribuzione italiana dei film stranieri, richiamando nell’Indice dei film il titolo originale, il regista e l’anno. Sono stati indicati direttamente con il titolo originale i film del Festival del Quirino recensiti da Debenedetti su Milano Sera, riportando fra parentesi quadre i titoli italiani dei film che hanno circolato in Italia o la traduzione letterale di quelli non distribuiti.

Cinema: il destino di raccontare

Cinematografo

Non posso far altro che dire, alla buona, le due o tre impressioni suggeritemi da una assai parca esperienza di frequentatore del cinematografo. Mi trovo proprio in quel momento delicato in cui le impressioni cominciano ad uscire dal limbo dell’inarticolato, cominciano a cristallizzare, ma non sono ancora divenute materia così limpida da potere criticare e ragionarci su. Qui bisogna coglierle: non un minuto prima e non un minuto dopo: ingenue si serbano ancora, da quelle impressioni che sono, senza pretese – e non di meno si sono ormai spogliate di quel candore soverchio e di quella verginità pudibonda che ne fa talvolta delle “signorine di famiglia” con le quali riesce impossibile discorrere. Ieri ancora ero assai distaccato e lontano dal cinematografo: ci fosse o non ci fosse, m’era tutt’uno: e nemmeno mi aiutava a sopportare le mie sere più desolate. Andare a cercarvi dell’arte? Non è a dire che non abbia anch’io degli amici fanatici e propagandisti: essi si sforzavano di aprirmi gli occhi; ma tant’è: non mi riusciva mai di seguirli in certe lor minuziose evocazioni d’intrecci, di decorazioni, di scenari, di trovate, di riuscite. E quanto ai loro entusiasmi per le espressioni mimiche di Charlot, di un Douglas o di quale altro fosse eroe dello schermo, io li accettavo passivamente come si accetta, in natura, la forma di un albero se non si è botanici di professione. Adesso lasciamo stare le conversioni. Ma, tanto e quanto, il cinema è cominciato ad entrare nelle mie abitudini. Ieri, a volerne discorrere, mi sarei ridotto a dover giustificare un disinteresse quasi aprioristico. Con tutta probabilità, sarei andato ad annegarmi nei luoghi comuni della diffidenza. Domani forse cadrei in quelli dell’entusiasmo. E, per di più, mi troverei aver già lette troppe polemiche, discussioni, inchieste e teorie sul cinematografo: dovrei misurare la validità delle eventuali mie opinioni su quella delle altrui. La questione si farebbe grossa. Meglio subito districarsene con un buon principiis obsta. Riconosco anzitutto al cinematografo la capacità di farci sperimentare i nostri sentimenti allo stato puro. Dico cioè che – nei casi, a mio parere, più simpatici – noi reagiamo davanti un film come i bambini o i selvaggi o le platee dei teatri domenicali: con quei quattro o cinque sentimenti fondamentali (gioia, amore, odio, terrore e simili) che non siamo soliti riscontrare nella vita se non combinati in una chimica molto complessa. Si può benissimo non appartenere al triste genus dei decadenti, si può benissimo sentirsi pieni di salute, si può opporre il più giocondo riso alla smorfia di coloro che esclamano: “Fate che io provi sul serio una passione elementare, e tutta la mia vita si sentirà ribenedetta”; non di meno ci accadrà raramente di sentirci espressi tutti interi, senza residui, su quella corta e troppo tonale tastiera di affetti, della quale si è fatto cenno. La sala del cinema, buia com’è, ci restituisce il senso di una sconfinata libertà e l’agio di denudarci moralmente. Inabissandosi nell’ombra le facce dei nostri vicini, scompaiono tutte le convenzioni. Sullo schermo si svolge una vicenda umana, tradotta in figure umane, in gesti volti attitudini d’uomini; ma quegli uomini che agiscono non ci odono: dunque siamo soli, pur partecipando, con tutte le nostre possibilità di compassione, alle loro avventure. Si aggiunga poi che una tradizione critica ed intelligente intorno al cinematografo, un gusto vero e proprio sull’arte cinematografica si vengono costituendo da poco, né fanno ancora parte dei nostri abiti colturali. Ne viene che, tra le facoltà, quella che maggiormente entra in gioco davanti uno spettacolo cinematografico, è forse la facoltà emotiva: non guidata né trattenuta, né deviata da schemi di nessuna maniera. Buona e sempre cara quella lacrima che furtivamente mi asciugo col dito, mentre – ultima difesa dei miei pudori sociali – mi volgo alla compagna che mi sta seduta accanto,

facendo scivolare sulla situazione poetica, un commento di calcolata freddezza: una battuta da “spirito forte”. Il cinematografo esprime, con i suoi mezzi e con la sua tecnica, dei sentimenti e degli affetti. È dunque un’arte; alla quale si potrà applicare l’estetica crociana, siccome ci ha ricordato, dalle pagine del Convegno, l’amico Antonello Gerbi. E non sarà lecito parlare di verismo o di illusione del vero. Sta di fatto peraltro che, di tutte le impressioni artistiche, quella fornitaci dal cinematografo è la più feconda di reazioni motrici (volontà di correre, di impegnarci nell’azione, di difenderci da un pericolo). Le reazioni motrici suscitate dalla musica sono differenti; non tendono ad esteriorizzarsi in un’azione, ma quasi soltanto ad orientare le nostre fibre secondo la “corrente” della melodia, od a metterle in posizione di equilibrio indifferente tra il dondolio del ritmo. Ora, se il cinematografo ha questa specifica virtù, mi par naturale chiedergli di provocare in noi movimenti od accenni di movimento, che i fatti e le occorrenze della nostra cotidiana esistenza non saprebbero suscitare. Questa è, credo, la ragione ragionata per cui mi sento portato a prediligere le fiabe che mi fanno vedere, realizzato sullo schermo, l’inverosimile; oppure le situazioni vertiginose: come, ad esempio, quelle lunghe sospensioni ad impossibili appigli, quegli uomini attaccati alla grondaia di un grattacielo. Ci sarebbe poi la gran questione: cinema e letteratura, ovverossia: qui ti voglio. Filosoficamente il problema non esiste; ogni opera d’arte fa per sé; i rapporti che si possono segnalare tra i vari generi e le varie specie hanno, al più, una funzione didattica ed illustrativa: un fatto artistico più noto applicato a gettar luce sul meno noto. – Sapevamcelo. Però un letterato adeguatamente superbo, che facesse dell’arte sua la domina e di tutte le altre le sommesse ancillae, potrebbe anche domandarsi se il cinematografo non si presti, nel caso, a rendere qualche servigio alle lettere. Si dice che l’esperienza sia madre della poesia; ed è anche vero. Orbene: il cinematografo, abbassato a strumento del poeta – anziché riconosciuto come fine a se stesso – sta all’esperienza nel rapporto che corre, per il fisico, tra l’esperimento di gabinetto ed i fenomeni naturali. L’esperimento è un fenomeno provocato; il cinematografo può diventare, sotto gli occhi del poeta, una maniera provocata per documentarsi sul vero. Una maniera di “sollecitare dolcemente” il gran testo della vita vissuta. Poniamo che sullo schermo compaia la didascalia: “…e Gastone le disse il suo amore”; allora lo spettatore letterato può immaginarsi di avere costretto l’attore Tizio (che, per ipotesi, è intelligente) a fornirgli, per uno scopo sperimentale, le modalità di un duetto d’amore. In tal caso, la scena cinematografica funzionerà quasi come una scena di vita, agli effetti dell’osservazione. È un “pezzo” di vero già isolato per comodità di osservazione. E non si opponga che a fini siffatti può servire altrettanto bene – purché lo si assuma in qualità di materia – un capitolo di romanzo che tratti dello stesso argomento. Il romanzo ti dà un vero, per dirla all’ingrosso, già interpretato letterariamente: inscindibile ormai dalle forme in cui è stato calato. Ma dal cinema – posto che tu l’abbia sfruttato come si diceva dianzi – ti porti a casa un materiale ancor tutto nuovo che tu, da solo e libero da tutte le influenze e suggestioni libresche, dovrai atteggiare a far rinascere sulla tua pagina. Si voleva dire, alla fine, che il cinematografo può istruire il poeta nella psicologia allo stesso titolo e negli stessi modi come alla sartina insegna a pianger d’amore.

Poesia di Charlot

Poche biografie di artisti riescono altrettanto impenetrabili quanto quella di Charlot. Strano a dirsi: perché l’arte sua ha invece portato al massimo dell’evidenza le più sottili sfumature del sentimento contemporaneo, ed ha raggiunto la più alta conquista dello stile: dire in maniera semplice delle cose complicate. Non c’è un gesto, nemmeno il più rapido e passeggero, di Charlot attore che non arrivi subito, con una precisione infallibile e pregno di tutti i suoi significati e sottintesi, al cuore del pubblico. Si ricordi, per citarne uno solo, quel brevissimo passaggio del Pellegrino, dove Charlot, affacciandosi allo sportello di una biglietteria ferroviaria, si aggrappa istintivamente alle sbarre che la circondano: e riesce, con questo accenno minimo, a rievocarci tutte le sue tetre abitudini di evaso dal carcere, avvezzo ad attaccarsi alle inferriate di una finestra per vedere il sole. Ma, dietro Charlot, c’è Charlie Chaplin: “Charlie”, come lo chiamano tutti familiarmente a Hollywood nelle giornate buone, il “signor Chaplin”, come gli dicono anche gli intimi quando è di malumore. E questo signor Chaplin è molto più difficile da abbordarsi di quel che sia Charlot. Lo si arguisce anche da una recente intervista, pubblicata da un amico suo, Conrad Bercovici, prima sull’Harper’s Magazine e poi sulla Revue Hebdomadaire. Durante l’intera giornata trascorsa con lui l’intervistatore scorge ben di rado, e solo a tratti fugacissimi, la faccia dell’uomo sotto la maschera del commediante. Chaplin si presta all’intervista, giocandola ed agendola, come si presterebbe all’obiettivo di una macchina da presa. I connotati umani e sentimentali di Charlot, quali si leggono tra le righe di questo reportage, sono ancora quelli che avevamo imparato a conoscere dalle invenzioni e dai soggetti dei suoi film: l’inguaribile e patetica melanconia, la prontezza dolorosa con cui l’uomo si adatta ai casi che gli succedono e quasi ne prende la forma, l’irrimediabile senso di solitudine. Questo attore glorioso, che ogni giorno ripassa davanti agli occhi di tutto il mondo, con i suoi lazzi attoniti e dolenti, con le smorfie e le caricature del suo sconforto da diseredato; che affratella intorno a sé gli altri uomini in una straordinaria solidarietà di riso e di commozione, si sente solo come un orfano. Migliaia di ammiratori fanno ressa davanti al suo “studio” a Hollywood per vederlo un attimo, per stringergli la mano. Ma poi viene la sera: egli rimane a quattr’occhi col suo amico e intervistatore: “Passate la serata con me”, disse Charlie. “Avevo molto da fare – commenta il Bercovici – ma il suo tono era così supplichevole… quelle poche parole bastavano a rivelare come egli sia solo. Una luce di gratitudine passò nei suoi occhi quando gli dissi che questa era appunto la mia intenzione”. Da alcuni giorni Charlot non riusciva più a lavorare. Era ossessionato da un vecchio che lo seguiva, che voleva sempre vederlo e poi, giunto alla sua presenza, si metteva ad urlare: “Non è lui!”. Finalmente il mistero si chiarì e l’artista fu liberato dall’incubo. Quel vecchio da cinque anni andava in cerca di un figliuolo fuggitogli di casa. Gli avevano detto che il ragazzo si era dato al cinematografo, che lavorava ad Hollywood col nome di Charlot. Ma l’autentico Charlot “non era lui”: di almeno un palmo più piccolo che suo figlio. “Che cos’è l’amor paterno? Io non ho mai avuto un padre che mi cercasse con tanta ostinazione”, conchiude melanconicamente l’artista. Verso la fine del pomeriggio va a visitare Doug: Douglas Fairbanks. Grande apparato di decorazioni sceniche in stile orientale nello studio di Douglas: uomini e donne vestiti in fogge d’Oriente vi si aggirano. In maglia da esercizio, l’attore-acrobata si allena, saltando con grandi balzi elastici del suo corpo bruno e muscoloso su delle reti distese. In questo gioco supera tutti i compagni che lo attorniano. Senonché basta guardare un po’ meglio: gli altri si trattengono a bella posta per non far soffrire il vanitoso Doug. Charlot si slancia sulle reti: la sua persona agile e

scattante ha subito ragione di quella poderosa del competitore. “Questa sera io sono stato per Doug quello che è stato per me il “vecchio”. Anche lui perderà due giorni”. E racconta che già una volta la settimana precedente, Douglas aveva smesso di lavorare per due giorni, ferito da una piccola critica circa un ponte levatoio che aveva montato nel suo teatro. “Questo ponte – aveva insinuato Charlot – va bene da sollevare al mattino, per tirare su la bottiglia del latte alla porta di casa”. Sopraggiunta la notte, gli prende l’estro di andare a vedere che cosa succede a Los Angeles. Per le vie di Hollywood, questa strana città che ha l’aspetto di “una mostruosa esposizione di architettura spagnola”, per il famoso viale del Sole Cadente, l’animazione diurna si è appena illanguidita; da poco è cessato il passaggio delle stelle di prima grandezza su automobili di gran lusso, di quelle di seconda su automobili di un lusso un po’ minore, di quelle di nessuna grandezza che vanno a piedi, più sfortunate di certi cani celebri, cani-stelle, che viaggiano per la città del cinema su formidabili limousines addette al loro servizio particolare. Charlot vuole serbare l’incognito, pare impossibile, proprio nel suo regno. Ma gli basta calcarsi sul capo un berretto da ciclista, estrarsi un polsino dalla manica, trasportare la cravatta un po’ fuori centro, lasciarsi pendere la sigaretta dall’angolo della bocca, infossare le spalle: si è reso irriconoscibile. Ora recita alla perfezione, con una collera autentica, la parte dell’operaio che si lagna sulla miseria dei salari: “È una vergogna! Perché pagano migliaia di dollari alla settimana i buoni attori cinematografici, e non ne darebbero altrettanti ad un buon ebanista?”. “ Tuttavia – incalza l’amico, secondando il gioco – ce ne sono di quelli che lo meritano. Charlie Chaplin…”. “Che storia! – risponde Charlot – non li vale! E poi si diverte tanto ai suoi trucchi! E io invece che piacere prendo ai miei? Se ci avessi gusto come lui, che mi importerebbe della paga!”. In aforismi cosiffatti, pare a noi che consistano proprio la morale ed il successo della grandissima e toccante poesia di Charlot.

Diario del Cinema

La montagna dell’amore [di Arnold Fanck] È famosa la risposta di Hector Berlioz a chi lo rimproverava di avere trasportato in Ungheria il primo atto della Dannazione di Faust; che, secondo il poema, dovrebbe invece succedere in Germania: “Mi sono permesso questo arbitrio – egli confessava sinceramente – perché avevo desiderio di farvi ascoltare una marcia ungherese”. Il dottor Arnold Fanck, autore di questa Montagna dell’amore, ha certo meno scrupoli che Berlioz e si concede con più spensierata disinvoltura degli arbitrî molto più straordinari. La montagna dell’amore? Diremmo piuttosto che il vero tema del film è – ci si perdoni il bisticcio – l’amore della montagna: la scintillante e infida ed ardua bellezza della montagna. Per farci vedere delle rupi librate su cieli vertiginosamente vuoti, degli abbaglianti pendii di neve, delle abetine frastagliate da un capriccioso e stellante ricamo di ghiaccioli, il dottor Fanck ha immaginato nientemeno che il dramma e “poema” seguente. Una danzatrice, manco a dirlo, bellissima ed applauditissima (l’attrice Leni Riefenstahl che la impersona possiede però una figura davvero graziosa e piccante) balla “La danza del mare” in un grande albergo di alta montagna. Hans e Vigo, due compagni di alpinismo, se ne innamorano: e Hans arriva fino alle soglie del fidanzamento. Vigo, quantunque viva a due passi dall’amico, non sa nulla dei successi di lui: e seguita a coltivare la sua passione, a lanciare e a ricevere i più patetici e promettenti sorrisi. Alla vigilia del fidanzamento, Hans va ancora una volta a fare un po’ di poesia solitaria tra le nevi e i ghiacci. Proprio in quelle ore, Vigo trova il tempo di vincere due gare sciistiche: una di salto e una di fondo, ed ottiene il premio di posare il capo sulle ginocchia della danzatrice entusiasta. Hans si arresta con un perfetto telemark davanti al flagrante quadro dei due colpevoli: propone subito all’infido e ignaro amico una pazzesca ascensione invernale. Detto fatto: partono. La tormenta li sorprende su un aereo ballatoio di ghiaccio: Vigo precipita. Per tutta una notte Hans, che non nutriva propositi omicidi, lo trattiene sull’abisso: poi al mattino sopraffatto e reso folle dalla vigilia e dalla tormenta, si lascia precipitare dietro il corpo assiderato del compagno. La danzatrice inconsolabile va a piangere sulla riva del mare. Lasciamo stare le incongruenze; colpa anche del montaggio sconnesso e delle didascalie perfettamente vuote. E lasciamo le ingenuità: una montagna, per esempio, che crolla come un castelletto di sabbia, per simboleggiare il crollo che è avvenuto dentro il cuore di Hans. E lasciamo l’inverosimiglianza geografica di far nascere per incanto il più traforato dei massicci dolomitici nei paraggi del più classico Cervino di Zermatt. Malgrado tutte le sue disuguaglianze, la Montagna dell’amore si fa guardare con acuto piacere visivo. Fortunatamente, per tre quarti del tempo, le fragili vicende del dramma sono dimenticate in favore di una fervida documentazione della vita degli sport alpinistici. E mentre in certi film di grandi scalate, girati proprio a scopo documentario, era difficile ritrovare la vertigine ed il rischio dell’alpinismo acrobatico, qui con più parsimonia e minor pericolo, l’obiettivo è riuscito a registrare ed a trasmetterci il brivido di un passaggio difficile ed esposto, l’emozione di un corpo umano aggrappato ad un esile appiglio. E le gare di sci si inseguono come da una tribuna ardita e spostabile, pronta ad affacciarsi sulle voragini scivolose, ed a buttarsi già sulle tracce dei corridori, secondo i ritmi della nostra ansietà. Forse, davanti ad una materia così prestigiosa, l’operatore ha talvolta civettato con la propria bravura fotografica: un campo di narcisi, o la prospettiva di un pic-nic o una donna estatica tra i

venti degli alti pascoli, gli si son rinchiusi con troppa compiacenza dentro la cornice fissa di un quadro, anziché passare istantanei sullo schermo. Egli si è divertito, poniamo, a condurci per un bosco e miniarne tutti gli aspetti. Ed ecco che una pianticella, prigioniera tra i cristalli di ghiaccio, si incide così stereoscopica, da farci pensare ad un prezioso vetro uscito appena dalle fornaci di un maestro muranese e deposto, con tutta delicatezza, su un bianco tappeto di lana. E allora il cinematografo rinunzia alla sua esaltante dinamica e si trasforma, non sappiamo con quanto profitto, in una mostra di fotografie artistiche, fin troppo artistiche.

L’uomo tra le fiamme [di Erich Waschneck] Fin dalle prime scene, anzi fin dai primi quadri, ci si accorge che non v’è niente da fare: che questa è parodia del grande cinematografo e che non sono salvate neppure le apparenze. Ma è almeno edificante: insegna chiaro e netto dove portino gli espedienti, i trucchi, i “modi di dire” cinematografici, quando siano usati senza una precisa necessità. Appunto perciò dedicheremo due parole a quest’Uomo tra le fiamme. La trama è banale; ma non vuol dire. Si son veduti capolavori nascere da pretesti ancor più tapini. Qui immaginatevi la storia di un pompiere che durante un episodio della “frenetica vita moderna” (è la didascalia che parla questo peregrino linguaggio) si riduce in stato di inservibilità e deve lasciare il suo posto. Dopo un chilometro e mezzo di pellicola, scoppia un incendio. Tra le fiamme si trova l’adorata figlia dell’ex pompiere: costui, per amor paterno, compie prodigi di valore ed è reintegrato nel posto perduto. Naturalmente, tra simili frangenti, anche il pasticcio amoroso, che aveva il compito di far fremere le corde del patetico, ha trovato il modo di aggiustarsi per il meglio. Questa storia ci è esposta in maniera assai infantile. Si direbbe che la sola aspirazione dell’inscenatore sia stata quella di impressionare quelle tante braccia di pellicola necessarie a fornire un dramma a lungo metraggio. Tra episodio ed episodio, egli non ci ha fatto grazia di alcun anello di congiunzione: neppur di quelli più ovvii ad indovinarsi. Dissolvenze, sovrapposizioni: tutti i trucchi sono messi a contributo: ma sono cartucce male esplose e l’effetto non scoppia mai. E come la tecnica è pretenziosa, come l’affabulazione è prolissa, così la fotografia è appesantita dal più tetro realismo. L’obiettivo vede tutto; sta al direttore di scena di lasciargli fissare soltanto l’essenziale. Ma il direttore qui ha sempre l’aria di pensare ad altro: così non ne ricercheremo il nome: e neppure quello degli attori, piuttosto sbiaditi e privi di carattere.

La signorina Chicchirichì [di Eugenio Perego] Non c’è annata cinematografica (o teatrale, anche) che non abbia il proprio Scampolo: come non c’è sabato senza sole, non c’è donna senza amore. E sì che Scampolo era già stata, ai suoi tempi, una commediola di divulgazione: portava sui nostri palcoscenici, con qualche variante di situazioni e di intrecci, il tipo della monella scapigliata e birichina; che, forte delle sue indomabili graziette, e delle sue seducenti impertinenze, trionfava a poco a poco sui torti fattile dalla vita e – aiutati che Dio ti aiuta – arrivava all’amore, alla fortuna, alla felicità, tra la confusione dei suoi antipatici nemici e persecutori. Quante volte prima di chiamarsi Scampolo, questo tipo aveva già attraversati i romanzi tutti tenerezza, lagrimucce e sorrisi delle “Biblioteche per le Fanciulle”! Nella produzione cinematografica 1928, creata per gli schermi del 1929, Scampolo si chiama La signorina Chicchirichì. Per mandarla a passo con i tempi, è parso che bastasse farla partecipare, in costume da galletto, ad una gara internazionale di danze, e ritrarla, con la cuffia della radio tra i riccioli bruni, mentre inganna le sue ore di malinconia intrecciando i piedini nel trapestio di un black-bottom, sui ritmi lanciati da un Eiar-jazz. Chicchirichì è Leda Gys: e Leda Gys è una briosa e indiavolata attrice, svelta ed effervescente, maestra di alcuni sberleffi assai carini, idolo di tutte le signorine che sognano sull’irresistibile onnipotenza della loro categoria. Questa non è dunque una commedia per i misogini. Orfana, oppressa dalle comiche ed inesorabili piccinerie di un antiquato

ambiente piccolo-borghese, Chicchirichì dimostra ancora una volta che la bellezza, tanto più se condita con una punta di onesta civetteria, finisce sempre coll’avere ragione. Tutto questo ci è detto in una maniera corrente: senza infamia e senza lode. Ma ci chiediamo: perché invecchiare precocemente il cinematografo, aduggiandolo con la rancida letteratura del “sentimentale” e del “carino”?

Il mostro del mare [di Millard Webb] È una “ripresa”: ma conta più che dieci bolse novità. Uno dei più grandi meriti del cinematografo è ancora quello di farci evadere dalle stanche abitudini della vita quotidiana e del nostro abito borghese: di trasportarci tra paesi che non abbiamo mai visitati e tra uomini diversi, tra usi e costumi ignoti. Questo Mostro del mare ci sbalza di colpo tra l’esistenza dei cacciatori di balene, tragicamente pittoresca. Buttato a tradimento tra le fauci di una balena da un suo disgraziato rivale d’amore, il fiocinatore Tom perde una gamba. Jago in diciottesimo, l’infido compagno gli insinua che, così mutilato, egli non potrà più destare amore ma solo pietà; e difatti riesce subdolamente a separarlo dalla sua innamorata. Tom si dà a battere i mari, ghignante capitano di una sorta di vascello fantasma, temuto dalle ciurme, attanagliato da una tetra e beffarda disperazione. Viene a conoscere il tradimento di cui fu vittima. Ed in quello i suoi marinai gli ripescano, tra i naufraghi di un tifone, il traditore. I due uomini sono di fronte, spietatamente consapevoli l’uno dell’altro. Confitto sulla tolda con la sua gamba di legno, Tom resiste all’avversario che lo avvinghia e fa la sua vendetta. Poi torna a terra e finalmente la felicità gli sorride. Dramma veloce e veramente cinematografico, sospeso da cima a fondo sull’orrore di una catastrofe imminente. Ma la stringata rapidità del racconto non esclude i dettagli persuasivi e commossi: come quando l’amico, dopo aver distrutto in Tom tutte le speranze, salta nella propria cuccetta con la felina elasticità delle sue gambe sane, così crudele agli occhi del mutilato. Forse l’unico vizio di stile nasce dall’avere troppo insistito sull’aspetto chirurgico, flebotomico, atroce di quella gamba mozza, con i suoi brandelli di carne viva, che un rozzo cerusico di mare cauterizza col fuoco. Questo quanto all’intreccio. Quanto alla poesia del film, essa è poesia di visione e poesia di ambienti. Addolcita dalle delicate nebulosità del flou, accortamente intonata sulla tinta verdognola o seppia del fondo, la fotografia raggiunge superbi effetti luministici: luci seriche, come splendori di un raso bianco e lustro, si modellano su corpose e dense ombre di velluto. Tra le maglie del dramma, che avvicenda in primo piano la solita maschera di John Barrymore e il visuccio interrogativo di Dolores Costello, sbucano e formicolano le più torve figure vomitate dalle sentine: gente di colore, cinesi dalle smorfie misteriose, negri dai tatuaggi difformi ed orrendi, anime vendute al diavolo. E su questo mondo di classificati, di schiavi, di avventurieri alita il tonico vento dell’alto mare che pare giunga a soffi corroboranti, pur dallo schermo, varcando le laboriose insinuazioni dell’orchestrina.

La conversione degli intellettuali al cinema

Le conversioni, come voi mi insegnate, sono – o sono state fino a poco tempo fa – il motivo insistente su tutte le bocche come un ritornello appiccicoso di canzonetta. Ma tra le varie conversioni, più o meno celebri, più o meno autentiche, più o meno reclamistiche, una ce n’è verificatasi in perfetto orario nell’atmosfera climaterica degli ultimi dieci anni, la quale non ha sollevato il competente rumore. Non nego che fosse alquanto profana, e, come conversione, troppo modicamente edificante; tuttavia mi pare che meriti di assorbire la nostra attenzione. Si tratta della conversione dell’intellettuale al cinema. Il cinematografo fu inizialmente una macchina inventata dagli ingegneri, divenne subito una curiosità favolosamente sfruttabile in mano degli impresari, che la trascinarono sulle fiere e sulle kermesse tra le meraviglie a prezzi popolari; poi ben presto con la sua facoltà di materializzare in indicazioni vivaci, rapide e vistose le più forti passioni tragiche o comiche, divenne un idolo del pubblico. Idolo sostanzialmente domenicale; voglio dire una di quelle fatiche senza fatica che permettono di “fare altro” – altro da ciò che è la vita normale e quotidiana pur senza far nulla; di essere dei disoccupati occupatissimi, di sentirsi tutti presi, mente e cuore, occhi ed affetti, pur rimanendo passivi. La psicologia dell’uomo che va ad uno spettacolo è sostanzialmente quella di uno che vuole sottrarsi al ritmo dei propri grattacapi, sostituendoli e surrogandoli provvisoriamente con i grattacapi altrui. Il cinematografo soddisfaceva al cento per cento un simile bisogno. Il teatro comporta ancora la soggezione di un veicolo intellettuale, la parola o la musica; a teatro fa mestieri infrangere un simbolo astratto e sonoro di sillabe o di note per giungere al contenuto sentimentale e all’emozione della vicenda. Ma al cinematografo basta veramente, nella maniera più letterale ed ingenua, sedersi e guardare. Il racconto, la storia da ridere o da piangere, si forma da sé, sotto gli occhi. Segno di questa adozione appassionata e istintiva, di questa gratitudine del pubblico verso il suo cinematografo fu la rapida deformazione che ne subiva lo stesso nome, diventando subito un affettuoso nomignolo familiare sullo stampo di quelli che si inventano per le più care e consuete persone di casa. Cinematografo, parola lunga e piena di sussiego tecnico e scientifico, parve sproporzionata a quel divertimento abituale, economico e a portata di mano; si volle che anche il nome ne specchiasse la prontezza economica e facile. Si disse cinema e non bastò: ché ancora non parve abbastanza breve e vezzeggiativo. E si disse il cine. In tutta questa vicenda l’intellettuale era rimasto assente. Tanto quanto la bicicletta, prima di diventare la bici di tutti i giorni, era passata per lo stadio poetico del velocipede, così come l’aeroplano aveva conosciuto i giorni lirici del velivolo. Ma, intorno alla culla del cinematografo non calarono le fate della poesia. Era stato troppo scientifico quando Edison realizzò col kinetoscopio un metodo per riprodurre le immagini semoventi, e poi divenne troppo popolare. Ora soltanto nell’ultimo decennio, i francesi hanno inventata la parola cineasta. Difendiamola questa parola e difendiamo anche il tipo di uomo che essa definisce. E anzitutto cerchiamo di liberarla dagli equivoci e dalle confusioni. Una rivista italiana di cinematografia, presentando via via alcuni dei massimi direttori di scena e creatori di film volle intitolare questa sua rubrica “Galleria dei cineasti celebri”. No, costoro, Murnau e Pabst, Dreyer e Cecil DeMille, Vidor e Dupont, non sono i cineasti come non sono cineasti Rodolfo Valentino e Greta Garbo. Cineasta per noi è, è stato e rimane l’intellettuale convertito al cinematografo. Cineasta è piuttosto André Gide quando con la superiore eleganza del grande artista letterario, che solo i faciloni potranno scambiare per dilettantismo, compone un reportage cinematografico nel suo Voyage au Congo: oppure quando

commenta nella sua critica lucida, spaziosa e intelligentissima gli effetti sonori di Alleluja!. Ma poi questi effetti ha voluto anche capirli – ed ha posti o abbozzati o confusi (anche la confusione, in questo campo, ha i suoi meriti come premessa di una futura chiarezza, dato che l’intelligenza aborre dal confuso come la natura dal vuoto) alcuni tipici problemi del cinematografo. Per abbracciare il cinematografo, l’intellettuale ha dovuto compiere su se stesso uno sforzo; degno, come atto, della più viva riconoscenza. La capacità di annettere anche il cinematografo, che era stato uno spettacolo ed un festival popolare nella propria sfera dimostra ancora una volta come l’intellettuale – che i più considerano una tarda ed anacronistica sopravvivenza del filosofo risibile con la sua vecchia zimarra – sia invece molto più vivo di quelli che si credono vivi solo perché fanno del moto; dotato di una molto più autentica elasticità mentale nello svecchiarsi e nel tagliare via chirurgicamente i propri giudizi non appena essi minaccino di diventare pregiudizi. Che i grandi amori, e spesso i più fatali e decisivi, si sviluppino da una fase di sospetto o di dispetto, è cosa di cui conosciamo fin troppi esempi; ma c’è una tale specie di sospetto, che sembra insuperabile o destinata a non risolversi mai più in benevolenza. Supponiamo: un letterato o uno scrittore colto, i quali, come era giusto, avevano girato d’ufficio alla loro portinaia i romanzi di un Gaston Leroux, perché mai avrebbero poi dovuto lasciarsi propinare attraverso lo schermo queste medesime immaginazioni disgustose e triviali? Il cinematografo visitato di rado e con irregolarità per colmare le ore più pigre, quelle in cui il pensiero o la fantasia caparbiamente disertano il cervello lasciandolo tristo; frequentato insomma da un animo prevenuto e decadente come i teatrini di varietà della barriera dove si esibiscono le vecchie stelle nel loro abitino rosa stinto – il cinematografo rappresenta il quarto d’ora inconfessabile, o confessabile soltanto fra le riserve e i distacchi di un ironico pudore. Quando le riviste severe di letteratura, gli esponenti del vero gusto artistico, cominciarono ad aprire referendum sul cinematografo, alcuni che si erano sforzati di condurre un bilancio, il più possibile obiettivo, delle risorse di questo strumento finivano poi col conchiudere, per esempio, che esso era pur sempre una di quelle piccole rettoriche sentimentali e galeotte con cui si scrivono lettere d’amore alle sartine di tutti i paesi e che, per ironizzare un verso del Foscolo, “insegnano alfin pianger d’amore”. C’è ancora qualche cosa d’altro da osservare. Gli amori e le infiltrazioni che avvengono negli ambienti intellettuali – a parte lo snobismo che è il rovescio dell’intellettualità – sempre si accompagnano con la gelosa ed irritabile coscienza di un privilegio. L’intellettuale è per diritto il primo commentatore di un’arte nuova. Facciamo il caso più semplice e divulgato: il caso della musica di Wagner. Prima che le sartine, scendendo giù dalle scale della piccionaia, ebbre come in una notte di veglione, possano, col cuore in gola, e con la stessa enfasi abbandonata con cui scandirebbero l’aria “un bel dì vedremo”, cantare l’Inno alla notte del Tristano, ci vogliono almeno tre generazioni; una prima di intellettuali, una seconda di mezzo intellettuali, ed una terza di pubblico borghese e qualunque che abbiano adorate ed incensate quelle musiche, che se ne siano fatte una specie di rito esclusivo. L’adorazione dell’intellettuale era un privilegio a cui egli giunge a rinunciare per saturazione; quella del semintellettuale era soltanto più la presunzione di un privilegio; infine quella del pubblico qualunque è uno snobismo. È poi la sartina che rimette le cose in regola riportando quegli amori su un piano di assoluta sincerità. In questo caso l’intellettuale a distanza di due generazioni abbraccia la sartina. Ma ciò succede perché la sartina è andata a lui e ha cercato di capirlo. La reciproca è assai più difficile. Bene: l’intellettuale che si è messo ad amare il cinematografo è stato, in un certo senso, almeno in un primo tempo, un intellettuale che cercava di capire la sartina. Vero è che ben presto questo intellettuale si è preso una bella rivincita. Il giudizio del cinema è mutato, anzi se oggi esiste un giudizio sul cinema, al di fuori dei corti apprezzamenti pratici o sentimentali, questo è tutto merito

del cineasta. Ultimo giunto, egli si vede costretto a lottare contro i pregiudizi con la tenacia e l’ardimento del pioniere che batte la strada nella foresta vergine e converte l’umanità primitiva. Prima della sua venuta i punti di vista imperanti sul cinematografo erano principalmente due. Primo: un criterio che si potrebbe assimilare a quella forza anonima e soverchiante a cui gli economisti danno il nome di domanda. È in sostanza il criterio della platea, al quale la grossa media dei produttori si sforza di rispondere con le proprie offerte. C’è un ente molto tangibile e non dimeno quasi soprannaturale che si chiama pubblico il quale chiede alle ombre dello schermo null’altro che dei forti stimoli di piacere o di emozione atti a sollecitare la sua sedentaria turbolenza. E i produttori si fanno in quattro per contentarlo. È una questione di quattrini; e purtroppo c’è poco da obiettare. Un ottimo personaggio d’affari, vero prototipo della moderna incarnazione del guerriero, mi diceva un giorno: “Perché l’industria del cinematografo deve differire da una qualunque altra industria? Se io impianto una fabbrica di scarpe, cioè di un articolo che la gente deve comperare, non c’è nessuna ragione perché la mia azienda fallisca. Basta che io produca una qualità di scarpe seria e di una certa durata, e poi che io tenga d’occhio il bilancio delle entrate e delle uscite. Il problema della produzione dei film è identico a quello della produzione delle scarpe”. Industrialmente il mio uomo aveva ragione. E di conseguenza io non darò torto a quegli industriali (purché dotati di ingegno), i quali vivono in perpetua auscultazione del volubile pubblico con sempre lo stetoscopio sul cuore del pubblico. Più buffa semmai è la degenerazione di questo tipo di industriale quando si impanca a psicologo ed a conoscitore del pubblico. Già costui ha la mania delle regole e delle leggi. Provatevi ad osservare un film di qualità media e corrente. Ad un certo punto – poniamo si tratti di una vicenda drammatica – assisterete ad un cambiamento a vista; un personaggio laterale sarà balzato petulantemente in primo piano; dove, con la massima diligenza, si metterà a fare una smorfia o una buffoneria o una qualunque altra scemenza. Mettiamo a caso: il primo attore nei suoi amori con la prima attrice sta attraversando un difficile varco. Ed ecco che il racconto si sospende e per due o tre minuti, poi dovremmo assistere alle grottesche galanterie del servo del primo attore che sta corteggiando la cameriera della prima attrice e, per una qualche mossa o malcauta o troppo ardita, si riceve un solenne (e magari sonoro) manrovescio. L’aneddoto vi farà pochissimo ridere. Ma scommetto che vi divertirete molto di più, se vi metterete a pensare che, dietro a questo aneddoto, c’è un valentuomo, il quale per lunga esperienza, attenta osservazione, sagace intuito ecc. ecc. è diventato un esperto delle reazioni collettive; e che questo valentuomo, discutendo la trama e la sceneggiatura del sullodato film, a quel punto ha sentenziato: “Qui ci vuole la nota comico-sentimentale. Conosco il pubblico”. Del resto la pretesa di conoscere il pubblico prende forme ancora più spassose. Questi conoscitori, appunto perché lavorano su un’immaginazione astratta del pubblico, possono deformarsela a piacere. Tanto, quando essi si consultano, il pubblico non c’è; e quando il pubblico c’è, formidabile nella linearità e prepotenza dei suoi giudizi, essi non ci sono più, oppure hanno sempre la risorsa di esclamare come il medico di Oliver Twist: “L’avevamo pur detto”, per esempio; al momento di concertare un film se si incontra una difficoltà insormontabile, i signori esperti fanno gli ottimisti in senso opposto: “Sorvoliamo, sorvoliamo, non fermiamoci alle minuzie: tanto il pubblico non ci bada”. E viceversa, dove forse ci sarebbe bisogno di una grande idea sommaria e travolgente e invece non si possiede che dettagli e minuzie, essi fanno gli ottimisti in altro senso: “Ma come? se sono proprio le minuzie, quelle a cui il pubblico si attacca?”. Insomma molto più divertente e precisa che la psicologia del pubblico riuscirebbe la psicologia dei conoscitori della psicologia del pubblico. Ma se ci siamo soffermati su questi episodi è solo per concludere che la massa ha un suo giudizio – e dei più legittimi –: ma che questo giudizio si smuove e si ottiene favorevole, non già obbedendogli bensì domandolo con la forza di una invenzione impetuosa. Per creare

cinematografo come per creare qualunque forma di arte, la gran questione è sempre una: credere ed essere uomini di animo grande. Ma c’era, e naturalmente persiste, un secondo criterio che insidiava e molestava il giudizio sul cinematografo. Ed è il criterio dei mezzi saccenti, che sono qui dovunque, le cosiddette persone colte. In tutto il corso della storia dell’arte, ma più segnatamente nell’Ottocento, una certa specie di persone istruite dai manuali e vittime di una pretenziosità culturale di stampo piccolo borghese ch’esse chiamano buonsenso, hanno fatto più male all’arte di una calata di barbari. Guardate le fortune della letteratura e della pittura, e ne avrete le più agghiaccianti conferme. Queste persone istruite che imparano i canoni e gli argomenti critici sulle cronache teatrali delle gazzette, che guadagnano uno stipendio mensile bastevole a concedere loro il lusso di parlare d’arte, e di parlarne con sufficienza, che si tengono al corrente partecipando con assiduità a quei formidabili malintesi che sono le premières di teatro – quando vanno al cinematografo si credono autorizzati a discutere dei caratteri dei personaggi, della logica della trama, come se queste fossero delle cose di per sé stanti, separabili dal complesso di un film. Adesso poi hanno imparato anche a parlare di fotografia o, magari, di inquadratura. Fatto sta che non ne azzeccano una. Sfugge loro questo minimo e semplicissimo dettaglio che l’arte è magia, e che con la magia non si scherza, sotto pena di rimanere stecchiti come mosche sotto la pompa del Flit. Toccava appunto al cineasta scoprire, nella sua qualità pura, la magia del cinematografo: o, se volete una terminologia meno esoterica, di isolare il problema estetico del cinematografo e la sua impostazione peculiare. Siamo naturalmente tutti d’accordo che il problema del bello è uno per tutte le arti; si tratti di poesia, di pittura, di musica, di cinema. Ma ci sono poi delle specifiche suscettibilità che caratterizzano l’appercezione del bello nei singoli fatti artistici; come, a ragion di esempio, la suscettibilità alla melodia od agli strati o alle sequenze armoniche nell’appercezione del bello che si manifesta musicalmente; la suscettibilità alla linea od alla forma od al colore nell’appercezione del bello che si manifesta pittoricamente o plasticamente: la suscettibilità al movimento ed al peso della parola od al giro di invenzione sintattica nella appercezione del bello che si manifesta poeticamente. Di queste suscettibilità, quali e come siano, nella appercezione del bello che si manifesta cinematograficamente – cercheremo appunto di trattenerci sulle orme del nostro cineasta. Le principali conversioni dell’intellettuale al cinematografo portano delle date molto chiare e risalgono a certe opere eminenti che si chiamano Intolerance o La febbre dell’oro, Varieté o La corazzata Potëmkin o La folla: o, per i ritardatari, anche Ombre bianche; se vogliamo citare soltanto alcuni dei massimi film. Tappe o film-punto di arrivo, che nessuno ignora. Domandiamoci, per esempio, che cosa poté significare, agli occhi del cineasta La febbre dell’oro. Il Chaplin delle “comiche”, a corto metraggio, fosse detective o cameriere, pattinatore o qualunque altra provvisoria incarnazione dell’incurabile vagabondo, fu per molti anni un buffone; e, malgrado la luce furbesca e trasognata dei suoi occhi, malgrado i baffetti e la mezza tuba, malgrado la mazza e le scarpe scalcagnate, malgrado la suprema e misuratissima stilizzazione della brache da pagliaccio, malgrado l’andatura da pinguino – tutti segni singolari, unici ed infallibili – la sua maschera di buffone poteva ancora essere scambiata per una semplice truccatura, quantunque assai speciale e toccante; ma nessuno, per quanto ci risulta, si sognava ch’essa potesse diventare il simbolo concreto del più poetico uomo di pena che possa essere infantato dagli strati sognanti, morbidi e derelitti dell’anima moderna. Della sua buffoneria si notavano, per forza, gli accenti ridicoli – allo stesso titolo di quelli che potevano spremere la risata a proposito di una estasi idiota di Charles Prince, di una fuga di Ridolini, di una stilizzata disavventura pochadistica del dandy Max Linder. Ma il tono di questa buffoneria andava in gran parte svaporato e perso. Appelliamoci, per essere precisi e sinceri, alle

nostre sedute cinematografiche di circa venti anni fa; quando su schermi traballanti, che frapponevano tra i nostri occhi e la scena una pericolosa e fitta cortina di striature, come di un paesaggio solare veduto attraverso la pioggia, assistevamo alle umoresche di Charlot, senza sapere quanto la nostra risata tradisse questo povero eroe, né come sistematiche fossero le sue delusioni ed i suoi fallimenti. Col Monello, secondo me ne riferiscono, giacché personalmente ricordo assai male, da una lontanissima visione, questo film, la buffoneria chapliniana mostrava le sue corde patetiche, per quanto l’altezza del patetico potesse ancora essere fraintesa dalla facilità del sentimentale. Fu La febbre dell’oro a scoprire la linea profonda ed interiore di tutti questi sparsi accenti di comicità, a spiegare che le trovate chapliniane erano altrettante apparizioni di uno stile. Vorrei quasi trovare l’indice riassuntivo e sintetico di questo passaggio in un episodio del film. Le scarpe di Charlot ci avevano fatto ridere ed era tutto. Nella Febbre dell’oro Charlot si cava queste scarpe per cucinarle durante l’episodio della fame, allorché avvolge i lacci come squisiti spaghetti, e succia i chiodi come saporite ossa di pollo arrosto. Quelle scarpe avulse dal piede che dava loro una vita, prendono una vita propria, si isolano nella loro fisionomia miserabile, responsabili del proprio significato. Non credo sofistico l’aggiungere che qui si materializza anche, in un’allusione fuggevole e discreta, il rapporto tra queste scarpe che hanno fame, e la fame del loro portatore. Insomma per dirla molto in breve, La febbre dell’oro, rivelava, a proposito di una materia scottante e terribilmente attuale, un nuovo linguaggio, una nuova maniera di esprimersi, che, già perfetta e matura, non cessava tuttavia di lasciare intravedere uno sterminato campo di possibilità. La materia? Ma la materia, il contenuto, era senz’altro la biografia di quel miserabile, di quel cencioso, di quel parente povero che ciascuno di noi, enfants du siècle del nostro secolo, nasconde accuratamente tra le pieghe del proprio abito attillato e stirato. Charlot faceva di questo nostro umiliato compagno, la confessione pubblica. Diventava, di noi tutti, il confessore. Charlot era l’individuo che ancora si permetteva di sognare l’amore e la felicità – pur essendo travolto in una delle più dinamiche, concitate, spasmodiche avventure che si siano prodotte alle soglie dei nostri tempi: l’avventura dei cercatori d’oro, il precipitarsi verso un’età dell’oro tutta famelica, senza poesia e senza religione. Un giovane critico italiano, a proposito di un romanzo autobiografico ha proposto di battezzare i piccoli segreti infantili che infestano e poetizzano la vita dell’adulto, col nome di microbi dell’anima. Charlot rivelava, con un microscopio dotato della virtù di rendere suggestivi i contorni, alcuni tra i più attivi di questi microbi dell’anima. Con un sorriso triste osava di gettare ingenuamente alla vita quel fiore che noi sgualciamo nel cavo della mano, per paura del ridicolo. Si capisce benissimo come André Suarés, esteta scontroso e orgoglioso adoratore delle forme classiche e forbite, abbia potuto dire: “Le coeur ignoble de Charlot, je voudrais 1’écraiser comme une punaise”. Quanto all’espressione, più che isolare una funzione precisa del cinematografo nel concerto delle arti belle, Charlot indicava in esso un metodo di stampare, di fissare e pertanto di rendere più durabile il gesto del mimo. Salvava le apparenze estemporanee, le felicità improvvise del mimo ma nello stesso tempo dava loro un sostrato di meditazione. Quella bilancia di fornaio che egli portava a spalle su per i nevai, camminando verso il nord tra la lunga colonna dei cercatori d’oro, reca sull’animo di questi avventurieri una testimonianza molto più grave e definitiva che la grossolana rettorica romanzesca e pioniera di un Jack London, idolo dei sedentari senza gusto. Fermiamoci ora su un’altra data: su Varieté di Dupont. Questo film spalancava al cineasta degli orizzonti tutti diversi. Nella Febbre dell’oro i mezzi strettamente cinematografici, che possono ridursi a due, fotografia e montaggio, erano tutti assorbiti e fatti dimenticare nel loro compito: ch’era di fissare nell’astrazione di una grafia mobile e corposa le invenzioni di un mimo, concertate nel tempo e nello spazio della vicenda che le comporta. Notiamo tra parentesi che questa concezione del cinematografo come pura grafia del gesto mimico, si va sempre più sviluppando in Charlot, tanto che nelle recentissime Luci della città la freschezza di alcuni episodi è ottenuta per mezzo di

un grafico elementare, velocissimo e prepotente; e Jean Cocteau ha giustamente potuto parlare di un Charlot che, riprendendo i temi delle sue vecchie farse, in una parafrasi retrospettiva (Charlot spazzaturaio, il filo di lana che la cieca dipana senza sapere che sta dipanando le mutande del suo povero miliardario) si riduce a semplice contorno disegnativo, al puro diagramma secondo l’esempio dei cartoni animati. E certo, se si voglia parlare rigorosamente di stile, e se dello stile si ritenga la vecchia ma sempre suggestiva definizione del Buffon “lo stile è l’ordine e il movimento che si mette nei propri pensieri” (che potranno essere nel nostro caso, pensieri e immagini e figure mimiche), Chaplin ha raggiunto il massimo dello stile – e forse rimane l’unico che l’abbia conseguita con una così precisa, e intollerante felicità. Varieté, invece, per un occhio analitico ed allenato ai problemi di estetica, scindeva nettamente, anche se non per partito preso, la vicenda narrata dal segno destinato a narrarla. Non fu certo l’unica opera cinematografica che abbia segnato questo punto iniziale; ma per conto proprio lo toccò in modo tipico, flagrante e splendido: talché mi pare che per il suo tempo possa considerarsi esemplare. Come vicenda, credo superfluo rievocarlo, Varieté descriveva la storia d’amore di un acrobata ambulante per una ragazza raccolta tra i rifiuti e la melma innominata di un basso porto, poi divenuta – dopo la fuga di lui dal baraccone e carrozzone coniugale – sua compagna di trapezio. La rapida celebrità trasporta gli amanti in altro ambiente; dalla torbida ma semplice musica dei circhi randagi, essi raggiungono i fastigi del grande teatro di varietà; mutano il loro cielo di tela impermeabile nel più periglioso cielo dei lucernai di teatro; le loro mani infarinate di magnesia guizzano nel fascio prestigioso dei fari elettrici, anziché biancheggiare tra i fuochi folletti ed acri dell’acetilene. Incontrano nuovi compagni, formano un quartetto di uomini volanti, dove la ragazza rimane l’unica donna. In breve tra il vecchio acrobata ed uno dei suoi giovani associati deflagra un dramma della gelosia; gelosia al coltello, che si risolve nell’omicidio, nelle grosse righe della tenuta cellulare sulle spalle goffamente e dolorosamente michelangiolesche di Jannings (che è il protagonista). E alla fine tra la cadenza un po’ facile delle ultime scene si accende un lumignolo di speranza: la pace dopo l’espiazione del delitto. Questo è un soggetto che porta, fin dalla nascita, tutte le stimmate del romanzo di appendice; e romanzo di appendice rimane anche se lo si rovesci e molto benignamente si supponga che la consunta storia d’amore e il conseguente dramma di gelosia formino semplicemente da supporto all’espressione psicologica di una profonda tristezza carnale, di una forza bruta alla quale la pena amorosa dia un poco di luce e di palpito: corde psicologiche convenientissime alla maschera e alla struttura fisica di Emil Jannings che impersona il vecchio e massiccio acrobata. E tale psicologia si rafforza nel gioco della controparte, nelle reazioni dell’antagonista che è Lya De Putti, una bellezza imperfetta e pericolosa, uno stupito impasto di angelicità femminile e di pesantore sensuale. E, romanzo di appendice, Varieté serba ancora quando pure si voglia volatilizzarne il contenuto diretto e materiale, in una fantasia decorativa; e il dramma di passioni – come direbbe la geniale fraseologia dei cartelli pubblicitari – o la passione del dramma venga ridotta ad un pretesto per illustrare l’ambiente del circo o del varietà: ambiente che fu assai di moda nella più labile e tingente narrativa d’ora è alcuni anni; quando i circhi divennero i punti focali di certa rettorica dei cuori messi a nudo, e nella luce fantomatica dei riflettori parve di avere trovato la moderna traduzione del vecchio “ridi pagliaccio” e gli uomini volanti incrociarono le loro silhouettes nei cieli di una presunta poesia. Finché giunse (ed era tempo) la patetica parodia del circo chapliniano, che sta alla connivente poesia dei circhi, come il Don Chisciotte sta alla romanzeria cavalleresca. Romanzo di appendice, dunque, che non poteva valere se non per il suo stile. Ma la parola stile qui assume un sapore un po’corrotto: pericola verso le civetterie raffinate e decadenti del segno espressivo che si

compiace del proprio gusto anche a costo di rasentare la maniera o la cifra. Se in Varieté il sintetico equilibrio tra contenuto e forma ancora non è rotto c’è qualche cosa tuttavia che denunzia le possibilità di una rottura e di un divorzio interno. L’opera d’arte in senso assoluto riesce meno perfetta, ma tanto più istruttiva per chi voglia ragionare sulle specifiche realizzazioni, sul vocabolario e sul gusto introdotti da quel nuovo mezzo di espressione che è il cinematografo.

Risorse del Cinema

Dal vecchio Varieté di E.A. Dupont, con Emil Jannings e Lya De Putti, si possono far datare alcune memorabili conversioni di intellettuali al cinema, e di conseguenza alcuni punti fermi nella critica di quest’arte nuova. Osserviamone due scene. E anzitutto quella degli uomini volanti, dell’esibizione acrobatica sui trapezi librati per il cielo del teatro. Il Murnau nei suoi Quattro diavoli ha potuto ingigantire la grandiosità di una simile situazione, protrarne e moltiplicarne l’analisi e l’incubo: ma la riuscita del Dupont rimane incomparabile. Qual è il segreto di così fatta suggestione – artistica, si badi, e non granguignolesca – d’angoscia e di vertigine, segreto che solo il cinematografo era in grado di captare? Semplicemente questo: che la sospensione del volo, la trepidazione dell’acrobata che si stacca dal suo appoggio per affidarsi all’elemento innaturale e pauroso del vuoto, vengono isolati per mezzo della camera di presa, ed offerti all’occhio nella loro assolutezza, senza alcun punto di riferimento che ne attenui la spasmodica apparizione. Il volo dell’acrobata è sorpreso come volo: è l’attimo della follia d’Icaro, e non già la logica traiettoria che lega un trapezio all’altro. Ricostituiamo per un momento la veduta che un uomo normale potrebbe avere della medesima scena. Anche se portato vicinissimo all’acrobata, spenzolato con lui sull’aereo ballatoio di lancio, egli integrerà l’attimo terrificante del volo nell’insieme rassicurante di tutto il movimento. Il tempo della vertigine non sarà che una curva, un improvviso e rapidissimo contrarsi dei visceri tra due istanti fermi: quello della partenza e quello dell’arrivo. Direi che come le fasi della cadenza di un virtuoso violinista non sono musica, ma attesa di quel riposo musicale che è l’accordo risolutivo, così il volo dell’acrobata non ha un tempo proprio, bensì un tempo che cerca di assorbirsi, di annullarsi nell’attimo dell’arrivo. L’obbiettivo cinematografico dà un’autonomia a questo tempo, gli conferisce una durata caratteristica. Un romanziere, per quanto dotato di fortissima capacità visionaria, sarebbe tuttavia costretto (anche supposto che vi riuscisse) a surrogare questo tempo con un altro, che chiameremo la durata intellettuale della parola e del racconto, e che al massimo costituirebbe un equivalente di quella materiale e raccapricciante del volo. Il cinematografo, ha per così dire, realizzata fisicamente la durata della impossibilità fisica. Altro esempio: l’interminabile pendenza della scala, che il protagonista discende dopo l’omicidio. Non ne vediamo né il principio né la fine: è una scala eterna, un ostinato supplizio. Soltanto un vecchio e poetico antenato del cinema, il sogno, ci aveva messi a tu per tu con queste allucinazioni e terrori salenti dalla profondità dell’inconscio. Effetti consimili sono stati poi riprodotti a sazietà dal cinematografo, appunto perché sono il suo naturale appannaggio e rispondono alla sua specifica risorsa: rappresentare immediatamente una durata, che qualunque altra arte ci definirebbe solo in forza di liriche equivalenze. Pensate, putacaso, ai calcoli di meccanica costruttiva che Edgar Poe confessa d’aver dovuto compiere per raggiungere lo choc d’alcune sue novelle o il tempo d’incubo di certe sue poesie. I due esempi ci saranno sufficienti per una prima conclusione. Noi non avremmo mai veduto quel volo di acrobati, o quella scala di Varieté, se il cinematografo non fosse la risultante sui generis di un’invenzione poetica ed attiva e di una testimonianza documentaria e passiva. La grande risorsa del cinematografo è di scaturire dall’occhio visionario e creativo di un poeta, combinato con l’occhio meccanico e senz’anima della camera di ripresa. L’autore può avere immaginato i più alacri ed impensati disegni narrativi o lirici, può averli tradotti in una precisa costruzione scenica, ed in una serie di gesti della massima evidenza, può avere studiato con

perfetta ed ispirata maestria l’ottimo angolo di presa, ma giunto al fatidico “Si gira!”, al momento di dar corpo alla sua espressione, deve assoggettarsi alla veduta disinteressata ed indifferente dell’obbiettivo. Si dirà che l’obbiettivo è il “mezzo di estrinsecazione” della fantasia cinematografica, allo stesso titolo che la parola lo è della fantasia poetica. E che quindi non conta ai fini dell’arte, se non come veicolo dell’immaginazione in moto. Quei tanti fotogrammi usciti dalla camera di presa, allorquando il Dupont l’ebbe affacciata sul volo dei suoi acrobati, non debbono riguardarsi come la visione irresponsabile di una lente, bensì come l’incarnazione unica ed irripetibile di un trasalimento poetico. Ma rimane indiscutibile che l’obbiettivo ha visto, ed ha visto per conto proprio, senza scomporsi all’emozione ed al tocco di chi l’ha messo in moto. La sua visione può ripetersi all’infinito e, quel che più conta, in maniera meccanica. I mezzi di estrinsecazione delle altre arti, per quanto fisici, come il colore od il suono, sono estremamente suscettibili all’attimo in cui vengono adoperati, ed all’energia nervosa con cui l’artista li impiega. Una parola, una linea, una nota, non contano per la loro esistenza materiale ed individua, ma solo per quello che l’armonia del contesto poetico o pittorico o sinfonico li ha costretti a diventare. Invece la visione dell’obbiettivo è sempre identica a se stessa: e, comunque la si impieghi, rimane quella che è: documentazione veristica, che non accetta deformazioni interne. Una volta messa in moto, la camera di presa fa da sé: non può, e si direbbe persino che non vuole, saper più nulla delle intenzioni liriche di chi l’ha provocata: registra tutto ciò che ha dinnanzi con una specie d’indifferenza mostruosa, assorbendo, senza alcuna influenzabilità psicologica od estetica, così i dettagli come i rilievi principali dello spettacolo, così le ombre come le luci. È l’automa, il Golem scatenato da qualche cabbalistico orologiaio da novella stregonesca, che nella sua illogica autonomia non riconosce neppur più il proprio creatore. Si ha la sensazione di un libero arbitrio perfettamente irresponsabile, di una cecità che vede, di una sordità che sente. E pertanto si capisce benissimo come i giovani e grandi creatori del film russo, abbiano potuto, a proposito di questa indeformabilità essenziale della veduta ripresa dall’obbiettivo, parlare molto intelligentemente di un’inerzia o di un peso della scena cinematografica. A nostra volta, noi parleremo di una ineccepibile tara veristica del cinematografo: o, per meglio dire, di una soggezione alla realtà esterna ed oggettiva, nella quale il poeta deve trovare appoggio per raggiungere la posizione di canto. Ed ecco, per esempio, che un Dupont fa leva su questo peso inerte della registrazione fotografica, per darci, come nessuno dei nostri sensi avrebbe mai potuto, la vertigine di un triplo salto mortale, o l’angoscia di una soffocante scala d’albergo scandita dal passo di un omicida. Si assiste cioè ad una vera e propria azione di ritorno da parte del direttore di scena, o creatore del film, sulla serie di visioni fotografiche che l’obbiettivo è venuto procurandogli. In un primo tempo c’era stato passaggio dallo spirito alla materia, dalla fantasia alla meccanica. Ma, non appena l’obbiettivo, da tutte le condizioni fantastiche creategli dal poeta, ha materialmente restituito alcuni metri di immutabile pellicola, si produce il passaggio inverso: dalla materia allo spirito. Per dominare i documenti fotografici ch’egli si è costituito, l’artista ha due mezzi: anzitutto quello di combinare le sgranate vedute, i frammenti di reportage, e farne le successive vicende di quella trama che costituisce la linea esterna del film. E questa è composizione: composizione e ordinamento delle sequenze di scene, per formarne un episodio; composizione e ordinamento degli episodi per descrivere ed esaurire con equilibrio, chiarezza di successioni logiche e temporali, il tracciato di una novella: che potrà essere la fiaba del Ladro di Bagdad, la quasi hoffmanniana fantasia del Gran Gabbo, l’epica del Grande sentiero, la naturalistica tranche de vie della Orchidea selvaggia, l’egloga piacente e superficiale dell’Immortale vagabondo. Ma fin qui, con più o meno fantasia e con più o meno gretta servitù allo snodarsi estrinseco di un racconto, si può dire che tutti arrivano: anche i più prosaici e sprovveduti compilatori. Potranno essere varie le trovate dell’affabulazione, diversamente geniali i procedimenti escogitati a legare o a distinguere i

vari episodi: e, per segnare un passaggio di tempo, il direttore pedestre si contenterà di una dissolvenza o di un fondu, mentre uno Sternberg inventerà il toccante e simbolico calendario dell’Angelo azzurro. Di gran lunga più delicata, e direi: più prettamente artistica è l’altra operazione: quella che lavora direttamente sull’inerzia della scena: e la sfrutta ai fini espressivi, proprio nella sua qualità di inerzia: o viceversa si adopera a smentire siffatta inerzia, la trasforma in un lampo, in un cenno incisivo e perentorio: cioè, in una parola, inserisce la scena in un ritmo e ve la fa partecipare attivamente. È l’operazione del taglio delle scene e del loro montaggio. Nei Due mondi, per fare un caso qualunque e davvero semplicissimo, abbiamo una scena del seguente tipo. Il vecchio orologiaio Goldschneider, rincasando vede sur un tavolo il cappello caratteristicamente ebraico del suo figliuolo morto. Questo cappello non può trovarsi lì, se non perché è stato usato dal tenente Stani, l’ospite cristiano, che gli insidia la figlia. L’obbiettivo, dal volto del vecchio, compiendo simultaneamente la stessa traiettoria dello sguardo di lui, è stato condotto a posarsi su quel cappello. E fotografa stupidamente una greve natura morta: cappello sul tavolo. La scena in sé ha il massimo di inerzia, è nudo reportage veristico e materiale, anche se la luce vi è fatta giocare con un certo prestigio. Un momento di più che essa insistesse sullo schermo, e noi ne sentiremmo la statica gravezza come un insopportabile fastidio. Tagliandola e montandola, il direttore di scena – che è ancora Dupont – le ha dato un tempo d’apparizione ed un ritmo tale che corrispondano al tempo ed al ritmo dei pensieri di Goldschneider, mentre gli balenano i sospetti sui pericolosi rapporti dell’ospite con la figlia. Facciamo altri casi, più vistosi. Nella Grande parata, il lacrimogeno episodio di Renée Adorée, quando rincorre a piedi l’autocarro che le porta via John Gilbert, deve gran parte del suo valore patetico e struggente alla sua persistenza monotona, al suo iterato protrarsi, alla sua pesantezza ritmica, ottenuta utilizzando il massimo metraggio: un metraggio che ecceda la pura necessità narrativa. E viceversa, con un effetto diametralmente opposto, in altri film di guerra, come All Quiet on the Western Front, l’impressione della fulminea falcidia operata da una mitragliatrice è stata conseguita con ritmi sincopati e frenetici, alternando ed intercalando le vedute abbastanza lunghe del campo di battaglia, dove gli uomini correnti all’assalto sono via via mietuti con passaggi rapidissimi, quasi appena percettibili, della bocca della mitragliatrice sventagliante. In generale, sono stati i russi, e primo fra tutti l’Ejzenštejn del Potëmkin, a sfruttare questi effetti del ritmo schiantato, della riduzione delle scene ad un minimo di fotogrammi quasi paradossale. Ho voluto accennare partitamente a queste fasi della costruzione di un film, croce e delizia della gente che dice di saperla lunga, e scandire questa vicenda di rivincite della soggettività creatrice sull’implacabile oggettività dell’obbiettivo, perché appunto sulla diversa importanza che ciascuno attribuisce a tali fasi, si pronunciano i vari aspetti del gusto cinematografico. Da un lato, intanto, possiamo riconoscere un gusto per l’inerzia della scena, presa nei suoi più massicci valori di peso, accettata pienamente nella sua funzione documentaria. Di contro a questo, si profila il gusto di superare la curiosità inumana e sedentaria dell’obbiettivo, per assorbirla e farla dimenticare nel grafico palpitante di una fantasia in azione. Del primo gusto possediamo la suprema prova in un capolavoro dimostrativo, schiacciante ed unilaterale, che unisce in sé i difetti ed i pregi di una specie di tesi di laurea: voglio parlare della Passione di Giovanna d’Arco di Carl Dreyer. E dell’altro gusto potremo fingerci un modello insuperabile, qualora riuscissimo a prendere qualcuno dei più famosi inseguimenti cosiddetti all’americana, e, spogliatolo dei difetti insiti in una produzione troppo commercializzata, potessimo ridurlo all’espressione, tutta sentita e poetica, di una fuga o di una corsa, ricreata in un momento di esaltazione e visionarietà lirica. O, se volete un esempio più qualificato, pensate ad alcuna delle più belle e mirabolanti smargiassate ginnicoeroicheacrobatiche di un Douglas, messe in scena da Fred Niblo. In questi casi: inseguimenti all’americana, acrobazie di Douglas, non vorremmo che si facesse questione di contenuto, né si

supponesse vinta l’inerzia della scena fotografata, solo perché essa documenta un’azione molto ricca di movimenti. Si tratta invece di una vittoria sull’indifferenza dell’obbiettivo, ottenuta appunto perché l’artista la rinnega, nel momento stesso in cui se ne avvale. E, per converso, nel primo gusto, che seguiteremo a chiamare il gusto per l’inerzia, il peso realistico della fotografia non è dovuto al fatto che si tratti di situazioni materialmente realistiche. Il famoso film, che Fritz Lang tolse dalla saga dei Nibelunghi, lavorava senza dubbio su un contenuto dei più irreali e leggendari: ma da questo mondo di fiabe riportava, attimo per attimo, le vedute più rigorosamente realistiche e, nel corso della pellicola, le faceva valere in funzione nettamente documentaria. D’altronde una Passione di Giovanna d’Arco che cos’è in origine, considerata nel suo contenuto, se non una di quelle imprese assurde, e irrealistiche, che appartengono al genere della narrazione cosiddetta storica? E invece Carl Dreyer, il quale – a giudicare dal suo film – è senza dubbio un temperamento dei più ostinati e consequenziarî, ha voluto che anche il contenuto combinasse esattamente, teoricamente, col gusto formale e cinematografico ch’egli si proponeva di realizzare. Essendosi imposto di riferirci, in una specie di reportage fotografico, il processo della Pucelle, egli cercò di ricostruire, con una testarda e impossibile obbiettività cronachistica, il luogo e la storia di quel processo, al di fuori di ogni piacere narrativo e di ogni dinamismo drammaturgico. E così la sua opera è divenuta un partito preso, che dimostra sì, e luminosamente, quale efficacia espressiva possa avere l’inerzia fotografica della scena: ma non si regge, perché fondata sulla esteriore aspirazione di adeguare un certo modulo stilistico, anziché su una costante e articolata ispirazione fantastica. Il grande problema, sulla strada scelta dal Dreyer, consiste nel convertire la tara realistica della fotografia in un elemento di stile. È inutile ripetere che chi dice realismo puro e semplice dice antipoesia, dice controarte, dice insomma negazione dello stile. Stile, quando si parla d’un’arte sinteticamente rappresentativa (come appunto è il cinematografo) e non analiticamente descrittiva e liricamente simbolistica, stile è precisamente l’opposto del realismo, perché è la scelta del dettaglio suggestivo in mezzo alla congerie amorfa e schiacciante del reale. È rimasta celebre, in proposito, una conversazione che Turgenev avrebbe svolta un giorno in casa di Hippolyte Taine. Lodando la scrittura del Tolstoj, come ottimo stile di romanziere, il Turgenev citava con ammirazione un passaggio in cui quello scrittore era arrivato a rendere percettibile il silenzio di una bella notte sulle rive di un fiume, con una sola notazione selettiva ed essenziale: “Un pipistrello vola via. Si ode il rumore che fanno, toccandosi, le estremità delle sue ali”. Il cinematografo, che è narrazione, deve appunto andare a cercare il fruscio d’ali, che basta ad esaurire tutto il silenzio d’una notte d’estate. Ed invero l’artista che voglia adoperare ai propri fini la curiosità inerte dell’obbiettivo, se è un artista vero e non un materialone giratore di manovella, agisce sempre dopo di averla provocata a fissarsi su quel certo dettaglio essenziale. Il Dreyer, da parte sua, raggiunge con audacissimi angoli prospettici, e punti di vista affatto inediti, una continua deformazione psicologica e formale delle sue figure: e dimostra, con tremende vedute di sghembo, di sbieco, dal basso in alto, e dall’alto in basso di perseguire un certo ideale di bellezza interamente espressiva, che – per quanto statuaria e monumentale – non ha nulla di comune coi canoni della bellezza classica. O, più spesso ancora, consegue quella deformazione, che è stile, attraverso un immane alternarsi delle proporzioni. Nei momenti salienti di meditazione, o di dolore, o d’altre crisi, le teste dei suoi personaggi campeggiano sullo schermo, in primi piani incredibili, che li ingrandiscono trenta volte il vero: e fanno sì che la minima ruga, la minima verruca, realizzate con terribile fermezza e incisività dalla fotografia pancromatica, diventino altrettanti accenti di una passione, pietrificati in una plastica senza illusioni, rigorosa e crudele. Con queste premesse, egli può benissimo fare della fotografia realistica. Il suo realismo fotografa il contrario della realtà: che in arte, come diceva Goethe, serve a conseguire il massimo della verità. In altri casi, il calcolo artistico del direttore di scena, par proprio fondarsi su un ideale favoloso

che ha sempre tentato l’umanità: quello di vedere il mondo con occhio diverso dall’occhio umano. Ma, trovato nell’obbiettivo questo nuovo occhio, e accettatene le irrefragabili testimonianze, si tratta di farsene uno strumento esplorativo, che segua i nostri desideri di osservazione e di scoperta, che percorra le strade della nostra inquietudine, per riportarne tali documenti, che forse il palpito stesso dei nostri desideri o i soprassalti della nostra inquietudine ci avrebbero impedito di fissare. In queste congiunture, movendosi sotto la guida dell’artista, l’obbiettivo si determina d’improvviso ad una specie di decisione volontaria, tanto più sorprendente, in quanto contrasta con la sua passività inanimata: e ci dà repentina la sensazione di una macchina che si inventi il proprio lavoro: o, meglio, traduce in impressioni estetiche e sensorie questo cataclisma filosofico, che può essere a volta a volta piacevole ed agghiacciante: l’idea di finalità che si concilia con l’idea di meccanismo. Ricordiamoci ancora, nella Giovanna d’Arco, la linea sinuosa che la macchina percorre, quando va a cogliere la sfilata dei giudici recantisi alle loro cattedre: una linea che nello stesso tempo disegna e misura l’area bianca e nuda del tribunale. O quando, con strappi e violenze brusche, si sposta dall’uno all’altro volto dei giudici per istudiarne le diverse intenzioni. Ma di questo procedimento possiamo trovare riuscite più corsive e snelle. Ripensiamo a Broadway: che è la riduzione cinematografica di un celebre e truculento dramma americano, per opera del geniale Pál Fejös. C’è una scena nella quale un poliziotto, richiamato da un inequivocabile odore di sangue, si addentra nel tabarin, che serve di recapito ad una celebre banda di bootleggers: dove realmente è avvenuto un omicidio. Dalla porta, il poliziotto sale a prendere posto su un terrazzino aereo, appollaiato a mezza altezza d’uno dei grandi pilastri della sala. La macchina assume il passo del poliziotto e lo segue, mentre egli attraversa la sala, svolta il pilastro, s’arrampica su per la scaletta elicoidale che lo conduce al suo osservatorio. Ma, più che seguirlo, in realtà fruga la sala con lui. Il movimento dell’obbiettivo, spalancato rigorosamente su tutte le immagini successive, disegna davvero il tracciato psicologico della diffidenza inquirente, veloce ad un tempo e tortuosa, scaltra e cauta. La genialità del Fejös è arrivata a far coincidere la linea descrittiva col lineamento psicologico: per fotografare l’azione del poliziotto, ha disegnata, con la macchina, una curva che fosse anche il profilo della psicologia del poliziotto. Ma forse uno dei più formidabili risultati di questo genere si trova in un film tedesco, tramato su un raccapricciante episodio delle guerre napoleoniche. È intitolato L’ultima compagnia, e racconta l’agonia di un manipolo di superstiti che, per conquistare un punto strategico, finiscono annegati in una palude. L’azione si apre su una sterminata veduta del campo deserto, all’indomani della battaglia, sparso soltanto di morti e di morenti. E questo campo è descritto da una lunghissima esplorazione che l’obbiettivo compie per alcuni minuti – minuti estesi psicologicamente come ore – soffermandosi sui cadaveri, insinuandosi tra le disuguaglianze del suolo, tentennando, avanzando e retrocedendo, elevandosi ed abbassandosi, esitando a lungo sopra una figura nera che staglia sull’orizzonte – la sagoma del capitano – finché una risata roca e grassa non lo richiama verso una tenda, dove troveremo raccolti i residui dell’ultima compagnia. Il ritmo di questo percorso è affatto indipendente da quello che noi solleciteremmo: è come un avvenimento anonimo che si compia in natura. E noi si partecipa veramente alla bellezza grafica e sensuale della linea serpeggiante, tracciata dall’obbiettivo: come se si viaggiasse con un veicolo immateriale; che, con le sue altalene e bizzarre indecisioni, mentre ci fa conoscere ansiosamente un paesaggio strano, ci dia anche il senso di divagare a lungo le modulazioni di un arabesco. I vecchi maestri di estetica distinguevano le arti della quiete da quelle del moto, le arti dello spazio da quelle del tempo. Il cinematografo per costoro apparterrebbe piuttosto alle arti del movimento e del tempo, il che in un certo senso può anche essere vero. Ma allora come giudicheremmo il gusto per l’inerzia della scena? Esso immobilizza e spazializza la materia cinematografica: cercandovi uno splendore intrinseco ed immobile. E vada questo impianto per i film di documentazione scientifica, dove il valore di resoconto è essenziale: ed è poesia la

flagrante, oggettiva immanenza della verità. Certe vedute colte col microscopio su miscele chimiche di sali che cristallizzano, rese favolose dal rallentatore, acquistano d’improvviso, sotto i nostri sguardi, l’ascendente sacro ed immemoriale delle epoche geologiche, ci raccontano in pochi istanti, sminuzzati nei loro infinitesimi temporali, l’oscura storia dei millenni; e finiscono a comporre, tra le pareti di un bicchier d’acqua, un féerico paesaggio artico e glaciale. Ma allorché queste risorse di stile oppongono e sovrappongono la loro immobilità allo sviluppo della vicenda ch’esse erano chiamate a narrarci, allora rinasce per il cinematografo, che sotto questo aspetto può esattamente paragonarsi al romanzo – una controversia di gusto che infierì nel campo della poesia narrativa, ebbe alcune fasi pronunciatissime verso la seconda metà del secolo scorso, e non cessa tuttavia di occupare le menti. Si domanda, cioè, se lo stile – concepito come esaltazione della bellezza astratta e musicale della materia, come prestigio del mezzo espressivo in sé e per sé – abbia il diritto di intralciare il moto immaginoso ed inventivo dell’affabulazione. Per la narrativa, il dilemma è stato posto in termini elementari e semplicissimi da un lucido dottrinario del gusto del romanzo, che è anche un epigono della grande scuola naturalista: dico Paul Bourget. Il quale mette di fronte la Salammbô del Flaubert, e i Tre moschettieri del Dumas, per domandarsi quale dei due romanzi abbia ragione. Per carità, non rispondiamogli che hanno ragione tutti e due, ché altrimenti il problema del gusto andrebbe all’aria. Salammbô è il racconto che si trasforma a ciascun attimo in un pretesto alla frase, alla musica delle parole e dei periodi, alla grande ornamentalità lussureggiante, agli eccessivi mezzi fonici del gueuler flaubertiano. I Tre moschettieri sono invece il ritmo d’una vicenda tutta rappresentata, che deve afferrarci alla gola, che subordina la frase e la scrittura alla dinamica dei fatti, ne abolisce il peso nel movimento, ne fa dimenticare la materia, tanto che non si sa più se questa sia bella o brutta. Il Bourget tronca la questione, decidendo senz’altro di mettere in minoranza il nobile e bello stile di Salammbô, e di andarsene in compagnia dei Tre moschettieri. Per lui, l’esaltazione della materia operata dal Flaubert torna a danno di ciò ch’egli chiama la credibilità del romanzo, vale a dire di quella fiducia dell’autore nella propria favola – fiducia così immediata, da diventare una specie di identità – la quale mette gloriosamente in sacco il lettore e lo trasporta, credulo e contento, per i più arabescati e mossi e ventilati dominî della fantasia. Del resto alcuni tra i più moderni teorizzatori del gusto del romanzo hanno risolto il dissidio nello stesso senso: e un Henri Massis, a cagion d’esempio, come ha confinata la gloria del poeta in una superiore qualità del bello scrivere, così ha fatto al romanziere quasi un obbligo di scrivere male o, diciamo più rispettosamente, di scrivere corsivo. Nel cinematografo, la questione potrebbe essere risollevata con un parallelismo perfetto. Il gusto per l’inerzia della scena presenta imminente il pericolo di risolversi in uno statico carezzamento e idoleggiamento della materia: e prova ne siano ancora una volta tutte le passività anticinematografiche, che costituiscono il magnifico, superbo fallimento della Giovanna d’Arco di Dreyer. Un film mediocre, ma straordinariamente filmistico, pronto a tradurre in visioni semplici e andanti tutti gli incontri patetici e le situazioni emotive: un film come la Capanna dello zio Tom, riuscirà magari a vincere la Giovanna: allo stesso titolo, beninteso, ed a quello solo, per cui i Moschettieri vincono la Salammbô. È stato Jean Cocteau ad osservare che se, da un nastro di pellicola, asportiamo un singolo fotogramma, troveremo nell’istantanea isolata una composizione statuaria, altrettanto plastica e solenne quanto i più augusti monumenti della classicità. Ma è scopo appunto del cinematografo di convertire questi monumenti nei più trepidi e nervosi segni di una incessante dislocazione: di trasformare questa classicità in un impressionismo. Il cinema è nostro, polemicamente ed artisticamente nostro, perché è impressionismo – e tutti i tentativi per fame un neoclassicismo si condannano da soli. I contrasti di gusto che abbiamo via via commentati si risolvono, a pensarci bene, nel contrasto tra il fotogramma maliziosamente ritagliato da Jean Cocteau e le mobili fantasmagorie che si

succedono in una sala di proiezione. Ed è ancora il perenne contrasto tra la fissità plastica del Bello assoluto, incensato dall’ideale classico, e la bellezza senza regole, tutta palpitante d’anima, quale persegue il moderno impressionismo. Il cinema ha, come si diceva, una tara realistica: la fotografia. Ma è proprio questa tara apparente che costituisce la sua forza, e lo innesta nelle più vive vicende del gusto contemporaneo. Una formula – approssimativa come tutte le formule, ma in fondo abbastanza felice – ha battezzato “realismo integrale” la direzione in cui si è mossa la più grande e novatrice arte narrativa degli ultimi anni. Non si tratta più del realismo scientifico, a base di statistiche e di schedine d’ospedale, che costituì la gigantesca e fallace ambizione di uno Zola: bensì di un potere di concretare e di documentare la materia narrata, travolgendola al tempo stesso in un tono fantastico, che intorno le ricrea l’atmosfera propria e favorevole e conveniente. La testimonianza oggettiva della camera di presa vale in quanto diventa la notazione realistica ed irrecusabile di un’atmosfera sentita poeticamente. Quel geniale impresario che, ai primordi del cinematografo, fece fortuna con l’idea di addobbare la sala di proiezione al modo di una vettura ferroviaria, mettendo alla porta esterna degli imbonitori vestiti come capotreni, – e di proiettare vedute di viaggi curando altresì che, dove sullo schermo si svolgeva una svolta del treno, anche tutta la sala di proiezione, montata su un sistema snodato, si inclinasse come un vagone durante una curva: l’impresario, insomma, degli “Hale’s Tours” aveva indovinata, seppure ancora con un’ingenuità da pioniere, la potenza d’evocazione atmosferica del cinema, ne aveva profetato l’avvenire forse ancor meglio di un Griffith, quando pensò di filmare una storia e di usare il movimento fotografico agli scopi di un nuovo tipo di novella. Il realismo integrale è proprio la tipica forma dell’immaginazione cinematografica. E che una tale immaginazione esista, con i suoi caratteri specifici, possiamo dedurlo dal fatto che, anche nell’arte del passato, ci accade a volte di sorprendere tonalità ed invenzioni, alle quali ormai non sapremmo più dare un nome se non chiamandole cinematografiche. Aprite la Recherche de l’absolu, il romanzo arduo e tormentato dove Balzac ha voluto tratteggiare l’analisi dell’uomo di genio. Come si svolge la scena iniziale: la presentazione di Balthasar Claes, il ricercatore dell’assoluto? Nella grande sala del vecchio palazzo fiammingo, una donna siede assorta in una chiusa e dolce meditazione: a un tratto noi la vediamo col suo corpo un po’ deforme, erigersi sulla seggiola: comporre il volto in una figura di bontà che celi l’interna apprensione. Ella ha udito un passo: questo dalle stanze superiori si viene avvicinando. Balzac ce lo descrive, questo passo, ce lo fa vedere e sentire: pesante, strascicato e solenne. Per esso, noi conosciamo già il protagonista: un uomo sopraffatto dai pensieri, dalla intensità della vita interna. Poco dopo, dal passo si risale all’intera figura del camminante: ed è, cinematograficamente, un vero spostamento della macchina di presa, che con la brusca decisione di una panoramica verticale dal basso in alto conquista al suo campo tutta la statura del personaggio. Siamo, se non erro, in pieno cinematografo avanti lettera: anzi in pieno film sonoro. Perché il film sonoro è senza dubbio – checché ne dicano le polemiche pro o contro – l’inevitabile coronamento e punto d’arrivo del più alerte gusto cinematografico. Come tutte le scoperte ed invenzioni tecniche, esso è maturato quando la sua presenza si rendeva necessaria. Lasciamo che i praticoni ed i dottoroni di varia natura seguitino a spiegarci come qualmente l’America abbia lanciato il film sonoro per dare alle folle blasées una nuova forma di spettacolo, e seguitare così a garantirsi con un sicuro esito di curiosità il controllo del mercato mondiale. In realtà, il suono associato alla visione risponde alle esigenze del realismo integrale, inteso come gusto artistico e non già come meccanica riproduzione del vero. Del resto, l’immortale partito di quelli che non capiscono si è subito affrettato a lanciare le sue petulanti candidature: e s’è impadronito del sonoro per farne il parlato al cento per cento, per dare la parola all’immagine muta, anziché per amalgamare il suono alla visione, e s’è messo a riprodurre drammi e commedie di teatro, opere e operette e riviste e vaudevilles; insomma ha cercato di fotografare la più pigra convenzione. Ci ha

dato la convenzione fotografica della convenzione teatrale: una convenzione alla seconda potenza. Oggi, come in tutte le arti si assiste finalmente alla piena vittoria del romanticismo, così si può dire tranquillamente che il cinematografo, ultimo venuto, ha subito sposato il romanticismo nella sua fase vittoriosa. Il film sonoro produce un fenomeno analogo a quello verificatosi nella pittura di decorazione, in seguito a quell’esasperata crisi romantica che fu il futurismo. Mi spiego. Il futurismo, proponendo forme e colori e arabeschi suoi, non riuscì ad influire il gusto della pittura e della plastica pure: ma arrivò a suggerire nuovi motivi per la decorazione murale e d’ambiente. Le sfere, i cubi e i vari solidi compenetrati, per fare il caso più semplice, che non hanno mai ispirato un capolavoro nei quadri di cavalletto, si son serbati un più lieto esito sulle pareti di certi caffè e tabarins moderni, dove veramente appagano l’occhio e intonano l’atmosfera. Del pari, quella lirica dei rumori, che Balilla Pratella e Russolo auspicavano nei loro manifesti della musica futurista, sta per diventare la più autentica e originale sostanza fonica del film sonoro. Quando Pratella scriveva: “Città, acque, foreste, fiumi, montagne, intrichi di navi e città brulicanti, attraverso l’anima del musicista si trasformano in voci meravigliose e possenti, che cantano umanamente le passioni e la volontà dell’uomo, per la sua gioia e per i suoi dolori, e gli svelano in virtù dell’arte il vincolo comune e indissolubile che lo avvince a tutto il resto della natura”, egli non sapeva certamente che questo nuovo tipo di poema sinfonico, celebrato con esuberante e non raccomandabile rettorica, non sarebbe nato né dai libretti d’opera in versi liberi, né dalle cantate su parole in libertà, e nemmeno dalle orchestre di intona rumori, bensì dal realistico cinematografo. E che le prime affermazioni davvero persuasive della modalità enarmonica si sarebbero verificate nei cantieri di Hollywood, o di Berlino o di Roma: allora non anche nati. L’intona rumori sarebbe stata l’onomatopea pura ed è fallito. La musica del film sonoro dovrebbe essere la trasfigurazione artistica dell’onomatopea, come ci ha insegnato Charlot, nelle Luci della città, quando con gli strepiti d’una trombetta, simili alle interiezioni e perorazioni di certi jazz eseguiti dall’orchestra di un Duke Ellington, ha disegnato il grafico caricaturale di una voce umana, nelle sue inflessioni e nei suoi accenti. Ché se – malgrado i nostri rimpianti di buongustai all’antica – il melodramma è morto: il melodramma dell’Ottocento passionale e generoso, spetta forse al cinematografo di darci il melodramma del nostro secolo: un melodramma naturalistico e, perché no?, fors’anche panteistico.

La vittoria di Topolino

Permettetemi di soddisfare un ingenuo bisogno di chiarezza e di punti fermi, schematizzando la breve, ma già ricca di storia del film sonoro, in due epoche. La prima, rapidissima, che si conchiude con quella che chiameremo la vittoria di Topolino; la seconda che da quella vittoria giunge fino ad oggi, protendendosi anche verso il domani. Ma interrompiamo subito la seriosa e cattedratica solennità delle classificazioni con un aneddoto. Una volta in treno succedevano le avventure di viaggio. Oggi, in treno, come dappertutto, si parla di cinematografo: massime quando si voglia celare l’aria con una bella ignota. L’ignota quella volta era una francesina, e il discorso si voltò rapidamente sui divi e sulle stars. Chi era l’attore prediletto? Chaplin o Fröhlich, Clark Gable o John Gilbert o Clive Brook? E dei francesi? Chi? Préjean? Chi? “Nôtre plus grand acteur c’est Miké!”. Miké? – guardavo con spavento l’ingenua provincialina di Digione che confondeva le mie fatue arie di competenza. Del più grande attore, francese s’intende, io ignoravo dunque, non pur la figura, ma perfino il nome. “Mais quel film a-t-o-n tourné avec cet acteur là?”. “Voyons, voyons… écoutez… mais, savez, Miké c’est une petite souris!”. Capito! Sì, Miké è veramente il più grande attore: e diciamo di più, il più grande attore di film sonoro. Anzi, fino ad oggi, il solo attore sonoro, se così posso dire: il solo la cui concretezza sia insieme visiva e uditiva. E, quel che importa, questo piccolo divo dalla vocazione così perentoria nasce quasi simultaneamente con l’invenzione del sonoro. Quale fu la prima caratteristica del sonoro allorché si aggiunse all’immagine cinematografata – del sonoro, per intenderci, 1928 – quale apparì anche sugli schermi italiani, come “novità” ai primi del ’29? Fu, per intenderci, l’aggiunta di una dimensione incongrua all’immagine cinematografica. Perché il proprio di questa immagine è di essere senza corpo, senza volume; mentre il proprio del suono, e tanto più della parola, è di essere la vibrazione di un corpo: è di essere, perdonatemi il gergo, spazio, e più precisamente volume che si fa tempo. E tempo corporeo, per giunta. L’incongruità di questa nuova dimensione che si aggiungeva a quelle dell’immagine cinematografica in movimento fu notata subito, e a titolo negativo, dai facili censori del sonoro: misoneisti, gente che inalberava il proprio buon senso, gente che faceva dello spirito. Costoro, ricorderete, si scagliarono contro l’assurdo, o contro il comico, di quelle figure piatte che si mettevano a parlare, e con una voce, per di più, imprestata, proveniente da una sorgente sonora, l’altoparlante che, oltre le sue native imperfezioni, cioè arrochimenti e distorsioni, ecc. ecc., aveva anche il vizio di non coincidere mai fisicamente con le immagini donde il suono doveva pur provenire, con le immagini a cui si era regalata l’illusione del suono e della parola. Il male si fu che la mentalità di questi cosiddetti critici coincideva, in fondo, ed era omogenea con la mentalità, con la volontà e gli scopi coscienti dei primi produttori che applicarono – dico applicarono e direi ancora meglio: appiccicarono – il sonoro ai film di lungo metraggio. È inevitabile, si capisce, che chi si trova, d’improvviso, padrone d’un nuovo perfezionamento tecnico sia tratto a giocarvi con la stessa meraviglia ingenua e orgogliosa del bambino a cui è dato un nuovo balocco. Lo stato d’animo di quei primi produttori di film sonori si potrebbe sintetizzare in qualche sciocca frase, come questa: “Vedete come siamo bravi? Alle immagini dello schermo non mancava che la parola” e noi, questa parola, gliel’abbiamo data. Realismo ingenuo ed elementare che, ripeto, coincideva esattamente col realismo ingenuo ed elementare dei critici sopra biasimati, con le loro pretese di criticare la verosomiglianza del sonoro. Peggio poi se si pensa che a nessuno, o solo a

qualcuno di ben balordo, poteva essere venuto in mente di rammaricare che, come al caro cane domestico, alle immagini cinematografiche non mancasse che la parola. Come il puerile ed infatuato esibizionismo dei detentori della nuova scoperta si sia allora dato da fare per mostrare tutte le risorse e meraviglie della scoperta medesima – è cosa che tutti ricordano. Su soggetti, su sceneggiature ancora sostanzialmente mute, che ancora non avevano imparato ad essere sonore, intercalavano la parlatina, la cantatina, il campionario del parlato. Fu l’epoca in cui i personaggi si sgelavano all’improvviso dal loro mimico mutismo e si mettevano a recitare, fu l’epoca in cui imperversarono i soggetti aventi per isfondo il teatro o il tabarino, ch’erano poi le più ovvie giustificazioni logiche, il pronto soccorso per fornire al personaggio il destro per snocciolare qualche couplet, o, in mancanza di meglio, il sonoro fece le sue prove come accompagnamento onomatopeico; e fu l’epoca dei passi spietati, di tonfi ciclonici di porte rinchiuse, delle serrature che si rinchiudevano come i tremendi chiavistelli che danno al conte Ugolino il presagio del dolore e del digiuno; facili, troppo facili spunti all’estro di ogni più sfaccendato caricaturista. Ma la Provvidenza, come insegnano i filosofi, ha le sue astuzie e, a traverso i miraggi e i falsi scopi, conduce quest’errante umanità a conseguire i suoi fini superiori. E, chi lo crederebbe?, c’è una Provvidenza anche in arte, anche in cinematografia: la Provvidenza che, nella fattispecie, aveva fornito la nuova risorsa del “sonoro”. I produttori si illudevano di appagare le loro brame di ingenuo realismo, e di accaparrarsi il pubblico dandogli un balocco più perfetto e più naturale, e invece che cosa succedeva? Succedeva che, frammezzo a tutti gli errori e i traviamenti, venisse fatto per esempio, di girare la scena di un pomeriggio sulla spiaggia: la ricorderete, faceva parte della patetica avventura sentimentale e piccoloborghese dei due protagonisti di uno tra i primi film sonori e parlati che vennero in Italia: film che, in italiano, si intitolava Primo amore. Fu questo uno dei primi pezzi di film sonoro che ci rivelarono l’incanto e la capacità estetica, pienamente realizzata in quel frammento, del sonoro. Vediamo, infatti. Che cos’era il sonoro di quella scena? Nient’altro che una onomatopea dell’aria aperta, di quella particolare aria aperta: pomeriggio di vacanza in una spiaggia gremita. Onomatopea, dico subito, idealizzata: e idealizzata in base a questa caratteristica, ch’essa non era la risultante, la somma aritmetica e naturalistica di tutti i suoni e le voci emesse dalle varie sorgenti di cui vedevamo passare le immagini sullo schermo; bensì un amalgama e una vicenda autonoma dei suoni caratteristici, quali si affacciano alla fantasia nell’atto ch’essa cerca un formicolar di vita allegra e spensierata sulle rive del mare. Dunque, non già le voci richiamate da quegli oggetti e persone di cui l’apparizione sullo schermo ci suggeriva la presenza reale; anzi qualche cosa che li trascendeva ed evocava tutte le possibili situazioni ed incontri sonori di un pomeriggio in riva al mare. Mentre qualunque riferimento realistico avrebbe limitate queste apparizioni sonore a quegli oggetti, pochi o tanti, che vedevamo coi nostri occhi, questa integrazione fantastica esauriva tutto il dominio del possibile. Non solo; ma, lavorati dalla brezza marina che li strappava, li infittiva, li accostava, li allontanava, quei suoni, quelle voci creavano una prospettiva spaziale autonoma, che era fisicamente la quintessenza dello spazio entro cui il nostro respiro si dilata per una gioiosa festività e liberazione marina e balneare. Allora mentre lo schermo ci dava l’avventura di quei due innamorati su quella determinata spiaggia, ci faceva vedere quello ch’essi vedevano, o quello che il regista credeva opportuno di presentarci per dipingere e caratterizzare quella determinata spiaggia, il sonoro – con una collaborazione prepotente – ci portava da uno spazio empirico a uno spazio assoluto – o, dirò meglio, da uno spazio narrativo ad uno spazio lirico e rendeva così universale l’avventura dei due innamorati, trasformando quella loro occasione ed episodio di vita in tutte le occasioni possibili e nostre. Mi direte che, con questo, non ho fatto che definire la musica in generale: come quintessenza lirica di uno stato di animo, e – applicandola al cinematografo – ne ho fatto una musica di

accompagnamento: accompagnamento al dramma, la sinfonia che fascia il dramma o il melodramma, trasfigurando la marionetta che agisce sul palcoscenico, nel portavoce, nel simbolo lirico della passione e del sentimento universale. Mi direte ancora che, questa musica, questo “sonoro” l’ho veduto cogli occhi di Pudovkin, accostandomi alla sua teoria dell’asincronismo. Allora vi prego di seguirmi, e vedrete che voglio dire qualche cosa d’altro. Un altro esempio frattanto: quella della risurrezione del bimbo asfittico in Ombre bianche e il memorabile grido, con cui il sonoro lo commenta, del padre. Nella continuità del film, la scena che cos’è? Un episodio domestico in una capanna di un’isola dei Mari del Sud. Un bambino, già creduto morto, viene richiamato alla vita dal dottor Brown, lo sclassificato che in quel lembo di ingenuo paradiso, tra i buoni e poetici Canachi, sta riconquistandosi quei diritti alla vita, all’esistenza, all’amore, da cui, per qualche trasgressione, la società civile l’aveva escluso. Coefficienti di trasfigurazione poetica sono in questo episodio: 1) la grande corrente postromantica e, tanto per battezzarla, stevensoniana che ritrova nei Mari del Sud quell’innocenza delle origini, quella Natura buona e quei “buoni selvaggi” che il primo romanticismo aveva idoleggiato nello “stato di natura”. Un elemento dunque di poesia utopistica e di vagheggiamento; 2) la storia del dottor Brown che riesce a redimersi. Un elemento dunque di poesia patetica; 3) il trasformarsi sotto i nostri occhi, e per l’ambiente in cui l’episodio si svolge, di una tecnica di pronto soccorso (la respirazione artificiale) in un gesto taumaturgico. Un elemento dunque di poesia magica o anche religiosa; 4) l’ansia dei parenti che vedono a poco a poco tornare la vita nel bimbo creduto morto. Un elemento dunque di poesia drammatica e familiare, sia pur presa la famiglia nella sua qualità primitiva e religiosa della più intima e carnale compagine di associazione umana. Ma tutti questi elementi sono ancora legati al particolare narrativo ed ambientale. Come interviene qui il “sonoro”? Orchestrando dentro una musica che ne prepara e ne fa attendere l’apparizione, un grido elementare, primitivo, inarticolato che non è più di quel padre canaco: ma è addirittura il grido della vita che saluta il ritorno della vita. Precisato quanto al suo sentimento profondo della scena che abbiamo sotto gli occhi, quel grido estrae il sentimento della scena, trascende la scena medesima: è, se volete, l’onomatopea semplificata ed universale di tutti i gridi possibili di saluto alla vita che si temeva perduta. La gioia elementare che trionfa dell’orrore e dello sgomento elementare. Del resto Chaplin nelle Luci della città, polemizzando contro il sonoro, non ha svolto una polemica puramente negativa. Ne ha carpito e sfruttato gli elementi essenziali rivelandone così la validità. E quando, con il recitativo grottesco di una trombetta, ha dato l’onomatopea dei vari discorsi che si svolgono sullo schermo per l’inaugurazione di un monumento, ci ha anche spiegato che la dimensione realistica del suono applicato all’irrealtà delle figure dello schermo, alla loro stereotipia e al loro volume puramente illusori, non poteva sussistere come copia naturalistica del vero, bensì come onomatopea semplificata, come suono che dà l’onomatopea della cosa, ma spogliandola anche qui di una dimensione: in questo caso la dimensione dell’articolato, della parola. Le figure del film, in una soluzione pura del problema sonoro, non parlano ma danno l’illusione del parlato. Possiamo ora captare il segreto del trionfo di Topolino: la ragione per cui dianzi lo definivano la prima figura perfettamente realizzata del film sonoro. Topolino è (ed era soprattutto ai suoi primordi) una figura bidimensionale, che come tale si offriva, senza neppure tentare l’illusione fotografica della terza dimensione. Abitatore scorporato e ridotto a pura linea di un mondo scorporato e di pure linee, esso colmava questo mondo della sua attività, del suo movimento. Il prestigio di Topolino non consiste soltanto nella sua fantasmagorica incolumità per cui superi fantasmagoricamente le leggi del mondo fisico, ma ancora, e forse soprattutto, nella sua astuzia, nella sua ingegnosità, nella bizzarra elasticità della sua psicologia: scaltro venditore di hot dogs, o avido divoratore di focaccine, innamorato della sua topolina, e paladino di lei contro le insidie dei

mostri più paurosi e bizzarri, Topolino è un essere che si impresta caricaturalmente, schiacciandole nelle sue due dimensioni, le apparenze di questo mondo, per imitarne assurdamente le concatenazioni causali e verificarne in maniera inaudita, evasiva e meravigliosa le leggi. Che cos’è la musica di Topolino? È il suo completamento, la sua integrazione dimensionale. Topolino ha due dimensioni spaziali: i miracoli ch’egli compie, invece che miracoli sarebbero trucchi. Se Topolino avesse un corpo vero, naturalistico, la sua non sarebbe più una fiaba, diventerebbe illusionismo da giocoliere. Ebbene, la musica, annettendogli una terza dimensione, gliela conferisce – anzi che nello spazio – nel tempo. La musica – lasciatemi dire ancora una volta – è l’onomatopea di questo tempo. Onomatopea di un fatto essenzialmente ideale e psicologico, quindi onomatopea idealizzata e lirica. Quando Topolino rotola per le terre e precipita per gli spazi, la sirena sovracuta che lo accompagna nel suo volo, è precisamente il tempo della caduta, la contrazione sensoria dell’essere fisico che cade, divenuta tuffo e brivido sonoro. Ma prendiamo un qualunque episodio sonoro di Topolino: supponiamo una sua corsa che diventa suono mediante una trascrizione per orchestra jazz del finale della sinfonia del Guglielmo Tell. Quella musica è divenuta tutta ritmo, ritmo deformato anche, a disegnare il tempo della corsa di Topolino. Onomatopea dunque. E la linea melodica, contratta e seminascosta, è riconoscibile solo per quel tanto che, associandosi ai nostri ricordi musicali – o meglio, se volete, culturali – precisa, non già direttamente, ma psicologicamente, per via di rievocazioni, un ambiente eroico e guerriero, che da un lato comunica col mondo di Topolino ed è a sua immagine e somiglianza – fiabesco, infantile e caricaturale; dall’altro lato comunica col nostro, e ci dà la trasfigurazione lirica, l’animo di Topolino in universale, mettendolo in grado di uscire dalla sua particolarità e divenire così sensibile e partecipe dell’animo nostro. E quando Topolino grida con la sua vocetta, poco importano le parole che dice: basta l’onomatopea, l’accento, l’inflessione che è quella tipica della situazione, e disegna, per così dire, l’accento di tutte le parole possibili. Come la trombetta delle Luci della città dove, sul registro di una lirica caricaturale e grottesca, l’onomatopea della voce umana – così qui, per converso, il timbro della voce umana è chiamato a dare l’onomatopea del suono emesso da quello strumento bizzarro e vagamente antropomorfico che è Topolino. Ma, badiamo, il valore dimostrativo di Topolino come attore sonoro consiste proprio in questo: ch’egli denuncia visibilmente le sue due dimensioni spaziali, senza neppure tentare di illuderci sulla presenza della terza e che la musica, uscendo da questo mondo scorporato, non ha più nulla di naturalistico, è tutta psicologica e lirica: è l’onomatopea di uno stato, di qualche cosa che fisicamente non può avvenire. Tanto è vero che quando Topolino tenta di annettersi la terza dimensione spaziale e il cartone diventa disegno di volumi e di masse, e non più soltanto di linee: o quando Topolino si annette altri attributi naturalistici, come il colore, la musica cessa di essere funzione del visivo: ma l’impressione è che il visivo diventi, esso, funzione della musica e che il cartone diventi una danza di forme e di colori. Questo nei casi migliori, perché negli altri, quando il disegnatore di cartoni tira allo spazio naturalistico e manca di fantasia coreografica, abbiamo un suono che vorrebbe nascere da forme concrete, ma non le adegua. Abbiamo frattura, incongruenza patente. Abbiamo detto che da Topolino in poi, si apre e si svolge la seconda fase del film sonoro: quella che si prolunga fino a noi e, nonostante particolari vittorie o, dirò meglio, parziali riuscite, lascia tuttavia il problema aperto. Problema aperto, in arte, vuol dire semplicemente arte viva, e non ancora mortificata in una soluzione standard, in un canone o modulo fisso. Ma qui per problema aperto intendiamo l’incapacità, finora, di cristallizzare un gusto preciso del film sonoro; quel gusto che Topolino, per conto suo, aveva riconosciuto ed inaugurato ed instaurato, semplicemente prendendo atto dei caratteri specifici della nuova scoperta tecnica ed esaltandoli in chiarezza e

coerenza palmari, quasi dimostrative. Da allora in poi le poche rondini comparse non hanno fatto più primavera. L’unico tentativo preciso ed autorevole di appurare un gusto del film sonoro mi pare che si trovi nel saggio del Pudovkin, testé apparso in traduzione italiana. L’idea dell’asincronismo, del contrappunto tra sonoro e visivo considerati veramente quali due linee svolgentesi simultaneamente per orizzontale, e non come un succedersi di amalgami verticali. Il saggio di Pudovkin deve essere considerato alla stregua di un trattato della Pittura o una di quelle Rettoriche fiorite nelle epoche di grande intensità artistica. Credo però che se qualche cosa si possa dire in linea astratta, come orientamento di un possibile gusto del film sonoro, bisogna ancora tenere conto del particolare e apparentemente incongruo rapporto della nuova dimensione sonora aggiunta alle due dimensioni del fotografico: e, se volete, del rapporto tra la prospettiva del fotografico e la densità del sonoro. O, infine, nel modo più empirico, considerare che, comunque siano disposti gli altoparlanti destinati a trasmetterci il sonoro od il parlato, anche nell’ipotesi di un impianto tecnicamente perfettissimo, cioè capace di darci col massimo di verosimiglianza l’illusione naturalistica, che il suono o le voci vengan proprio dallo schermo – comunque rimane il fatto che il visivo si svolge sullo schermo, cioè in un luogo, in uno spazio bidimensionale sui generis, mentre il sonoro ha, come mezzo proprio, il nostro spazio, quello entro cui noi viviamo e siamo tuffati. Noi siamo elementi dello spazio e della densità del sonoro, mentre non possiamo essere elementi dello spazio del fotografico e ci limitiamo a captarne i raggi visivi che ne derivano, cioè qualche cosa di diverso, di eterogeneo da quello spazio fisico su cui si svolge l’azione fotografata. C’è, a vero dire, una dimensione di passaggio, che può far da ponte tra il fotografico ed il sonoro: ed è il movimento. Il movimento, ulteriore attributo spaziale annesso alle due dimensioni di quelle macchie di luce e d’ombra che, come mette in rilievo acutamente il Pudovkin, costituiscono la fotografia. La musica può astrarre questo movimento, sposare questo movimento. Così tra la teoria dell’asincronismo e del contrappunto bandita dal Pudovkin e la pratica del sincronismo materiale e naturalistico invalso presso i soliti produttori di film, proporrei – in linea generale – una concezione del sonoro, come scatenamento immediato – dionisiaco, direbbe Nietzsche – del movimento che anima il fotografico. Concezione subito intuita ed attuata da Topolino. Ma, badiamo, movimento – non già delle singole figure nell’interno della singola inquadratura: movimento sono anche i ritmi del montaggio. Quando, con un fulmineo contrapposto di montaggio, il Pabst in Atlantide faceva scoppiare la scena del can-can, il meraviglioso effetto del sonoro non era già un effetto naturalistico, non dipendeva soltanto dal fatto che, come nello schermo, così nel sonoro all’evocazione indiretta che il personaggio faceva del proprio passato succedeva direttamente la visione di esso passato. Era proprio il movimento del sonoro che contava. Alla voce spenta che evocava: “Paris…Paris”, ecco di colpo, si sostituiva lo sfrenamento musicale del can-can. Con ciò vorrei essere giunto almeno ad escludere l’idea del sonoro come accompagnamento all’azione, che era il carattere delle musiche con cui, più o meno bene, le orchestrine accompagnavano, “commentavano” il vecchio film muto. Questa soluzione ha infatti due versanti: quello della rinunzia, e allora si prefigge unicamente lo scopo di colmare di suoni il vuoto di una sala di proiezione, e il suono va per conto proprio, cercando tutt’al più di arieggiare vagamente il generico tono sentimentale dell’episodio che si svolge sullo schermo, e allora ha, quando l’abbia, una sua propria logica. Ricordo le straordinarie idee di certi dirigenti o capiufficio di una nostra grande casa cinematografica, al tempo in cui sulla maggior parte dei film stranieri, previa una riduzione con titoli e soppressione del parlato, si praticava la cosiddetta sonorizzazione. Davanti a qualunque episodio dal tono sentimentale un po’ complesso, a commentare il quale non bastasse il solito “agitato” o il solito “vivace” o il non meno solito “patetico”, coloro sentenziavano: “E qui metteremo un intermezzo”. Intermezzo che voleva dire tutto, e soprattutto voleva dire il grande e

tipico minestrone pseudomusicale senza senso. Ma c’è, per converso, il tentativo di adeguare musicalmente il film: e questo è l’altro versante dei commenti “sonori”. Qui davvero si misura l’industria od anche il genio dei musicisti alle prese con un problema assurdo. Non si adeguano due qualità eterogenee: si può tutt’al più “captare l’aura”: e in ogni caso si otterrà un poema sinfonico che simboleggia, su altro registro, un poema visivo: si avrà la “musica per film”, e non la “musica del film”. Sebbene in maniera meno vistosa, perché al cinematografo il primato è ancor sempre del visivo e lo schermo conta più dell’altoparlante, si viene a rovesciare la situazione di quei poemi visivi, sempre un po’ vuoti, illustrativi ed estetizzanti con cui taluno ha, talvolta, tentato di interpretare un brano di musica pura. L’impianto sarà pur sempre intellettualistico, anche se l’ispirazione riuscirà a volte a farci dimenticare questa tara dell’impianto. Uno dei più begli esempi di “musica per film” è forse nelle musiche create da Giorgio Federico Ghedini per il recente Don Bosco di Goffredo Alessandrini. Qui però la non comune versatilità di esperienza del musicista, unitamente con le suggestioni di un contenuto congeniale all’estro di lui, gli hanno fatto in più punti toccare la giusta soluzione; e il sonoro da lui trovato per quel film diventava parecchie volte la trasposizione in movimento musicale del movimento cinematografico, come per esempio durante l’arrivo del piccolo Giovanni Bosco al Seminario di Chieri; o altrove l’ispirata sagacia del musicista riusciva coi trapassi ad ambientare così perfettamente le colonne riprese direttamente sul vero, da farne – non già l’assurda riproduzione naturalistica di ciò che avverrebbe sullo schermo, se lo schermo avesse la parola – bensì l’onomatopea idealizzata, allo stesso titolo delle voci della spiaggia in Primo amore: e valga come esempio, tra i molti che se ne potrebbero segnalare, la voce del sacerdote che ordina prete il giovane protagonista. Una parziale e, vorrei dire, provvisoria correzione dell’assurdo implicato nei cosiddetti “commenti” musicali e sonori, nella “musica per film” si trovava, per esempio, nelle Luci della città quando la canzonetta della Violetera, tornando come leitmotiv sulle scene relative all’amore di Charlot per la fioraia cieca sonava come qualche cosa di più profondo che un commento ed un simbolo. E analogamente dicasi della canzone di Ibert À Paris dans le méme faubourg per una situazione abbastanza analoga del film Per le vie di Parigi di René Clair, o infine del motivo principale della suite di Malipiero per Acciaio di Ruttmann. Si tratta qui di un fatto del quale propongo la seguente spiegazione, se mi si conceda una volta di mettermi sotto l’egida di una delle più attive e interessanti idee del Pudovkin. Pudovkin parla delle tesi di un film: e tesi è per lui la linea organica, funzionale, semplice ed univoca, che governa la coerenza del film medesimo. Ma per Pudovkin questa tesi è essenzialmente propagandistica, sociale. E perché non potrebbe essere anche sentimentale, o patetica? O impostata su quale altra si voglia idea o sentimento o sensazione intorno a cui si organizzi o cristallizzi un film? Ebbene quel leitmotiv delle Luci della città, o di Per le vie di Parigi, o di Acciaio non erano altro che la sottolineatura, l’energico e riconoscibile richiamo valido ad orientare la sensibilità dello spettatore alla netta ed insieme commossa percezione della tesi del film. Ma concludiamo. Noi non possiamo che schierare i desiderata emergenti da esperienze negative, alleandoli con le suggestioni di esperienze parzialmente positive, per indicare al musicista, in una maniera necessariamente ancora di puro orientamento, di puro gusto, quello che potrebbe essere il sonoro di un film. Ebbene, vogliamo far nostra una distinzione affacciata da Friederich Gundolf nel suo meraviglioso saggio su Goethe: distinzione che ci pare feconda. Ed è la distinzione fra materia e contenuto. Applicando questa distinzione al caso nostro, al cinematografo, materia sarebbe l’immagine data, immagine in movimento quale la coglie la passività dell’obbiettivo, e poi organizzata a documentare lo svolgersi di una narrazione. Contenuto sarebbe il sentimento che di questa materia ha avuto il regista e che egli quindi vuol creare, identico, nello spettatore. Il montaggio, i ritmi che ne nascono sarebbero quindi, e tipicamente, il contenuto.

Ora la musica deve rituffarsi dentro la materia, trovarne e riportarne il messaggio oscuro, e restituirlo in un nuovo contenuto, che non sarà quindi la replica, o il commento o l’illustrazione del contenuto rivelato dal regista, bensì una nuova rivelazione, simultanea a quella visiva, ma diversa, autonoma ad un tempo e cospirante. Necessariamente obbedirà ai ritmi creati dal regista, perché secondo quei ritmi le si presentano le immagini in movimento di cui essa sposa la materia; ma tali ritmi diventeranno le condizioni di una nuova organizzazione, di nuove antitesi e conseguenze, di nuovi ritmi; sto per dire di un nuovo montaggio, trasferendo metaforicamente al sonoro una qualità del visivo, così come al visivo si trasferisce metaforicamente una qualità del sonoro, allorché parla di ritmi. In questa idea del sonoro che sposa la materia, e non già il contenuto visivo, ritroviamo generalizzate, e riportate alla loro legge, le osservazioni parziali che avevamo fatto sul sonoro unito al fotografico a traverso la dimensione del movimento, e sul sonoro come onomatopea idealizzata e quindi lirico-universale del fotografico, e non già come disegno dell’interpretazione soggettiva, sia pur divulgata a tutti i possibili spettatori, del contenuto del film. Idee teoriche, senza dubbio; ma di cui parecchi esempi, insieme con quelli citati, per quanto puntuali e sparsi, c’incoraggiavano a sostener la validità; idee che comunque non avremmo neppure espresso, a proposito di un problema urgente come il cinematografo, se non le credessimo pronte ad essere tradotte in pratica da qualcuno, o da noi medesimi, nella creazione di futuri film.

Attendiamo l’eroe…

Un prolungato soggiorno tra i domini del cinema e la relativa assenza dalle più recenti polemiche sul teatro, mi permettono di riproporre, per conto mio, e col più ineffabile candore, una “scoperta” che senza dubbio farà sorridere i più navigati: e cioè che il teatro non deve aver nulla da temere dall’invadenza del cinematografo. E di soggiungere che un confronto tra queste due forme dello spettacolo può forse aiutarci a meglio formulare quanto chiediamo ed aspettiamo dal teatro. Il cinema è, senza dubbio, un’arte: ed appunto perché tale ha i suoi limiti rigorosissimi – anzi addirittura fisici – di materia, di contenuto, d’ambiente. Come non potremmo chiedere alla scultura di rappresentarci il movimento in divenire, o alla pittura di articolare suoni, così sarebbe assurdo pretendere dal cinema quegli statici e sublimi impietramenti del gesto esteriore, quelle monumentali semplificazioni della vicenda, su cui campeggiano i grandi dibattiti dell’anima e della volontà. Che costituiscono, invece, secondo le esperienze e tradizioni più illustri, secondo le poetiche più autorizzate, la definizione stessa della tragedia o, in genere, del maggior teatro. Cinematograficamente parlando, la tragedia è quasi tutta successione di primi piani; mentre un film quasi tutto di primi piani andrebbe incontro alla propria peggior nemica, che è la noia. Il cinema serba sempre l’impronta materiale della sua origine documentaria e di reportage. E se anche la supera liricamente dandoci, co’ suoi ritmi, la féerie, la fantasmagoria, la successione in un tempo fantastico dei documenti che l’obiettivo ha captati, esso rimane tuttavia indissolubilmente legato a ciò che si vede: per quanto postata con sagacia, la camera, nella sua irresponsabilità non può fare a meno di cogliere il personaggio come parte di un ambiente: facendo del personaggio e dell’ambiente due cose che hanno gli stessi diritti ad essere vedute; quindi, per lei, gli stessi diritti di esistere, lo stesso valore (si ricordi che, ad esempio, René Clair per sfatare ironicamente questa implacabile oggettività fotografica dell’ambiente, è ricorso alla trovata di mostrarci la rastrelliera delle biciclette rubate in un ufficio di polizia, come un disegno senza prospettiva, schiacciata su un fondale di tela). Così, quando al film s’è aggiunta la parola – l’elemento, cioè, ch’era specifico del teatro – la parola, per non riuscire stonata, s’è dovuta acconciare al tempo del cinema ed a perdere il tempo proprio, ha dovuto accettare i luoghi prodotti fotograficamente dall’obbiettivo, anziché creare un luogo proprio: in breve, è divenuta parola ambientale e documentaria, anzi che assoluta, lirica, e fantastica. I dialoghi del cinema non possono assumere valore autonomo di poesia, pena la morte del cinema. Direi, paradossalmente, che debbono tendere all’omogeneità con la materia della fotografia: materia che, anche ove sia dedotta a rappresentare la scena più irreale, testimonia sempre l’ambizione di costituire un documento realistico. Insomma la fotografia ha un’età tipicamente borghese, è il portato di quella società borghese dell’ultimo secolo che aspirò soprattutto alla precisione meccanica, positiva, impersonale delle proprie testimonianze. E la parola di quella fotografia, cioè del film parlato, dovrà avere la medesima età: borghese anch’essa, cotidiana, identica al secolo. Anche se, per dannata ipotesi, suoni in bocca ad antichi personaggi. Ricordiamo, a riprova, il “parlato” della produzione cinematografica che dimostra, per ora, maggior vivacità e continuità: il dialogo dei film americani è la fotografia sonora del più prosaico e corsivo dialetto degli americani di mezzo ceto. Che la parola, al cinema, debba avere diverso destino, è un’altra questione. Ma quando si dice, con vituperio, teatro filmato, si allude sempre a qualche cosa che, se non è cinema, non è poi nemmeno teatro, perché gli manca il valore intimamente creativo della parola e del dialogo. E se il cinema ha potuto esprimere dei miti seducenti o profondi (i film di Charlot, Alleluja! di Vidor, alcuni

aspetti di Greta Garbo ecc.) l’ha fatto sempre prescindendo dal dialogo: o negandolo a dirittura nella mimica di Charlot, o portandosi col “parlato” alla soglia di alcuni gesti silenziosi e stupefacenti della Garbo, di certe profondità e diafanità dal suo pallore, o allargandosi in scene corali e multanimi che varcano la parola dialogica e articolata. Tutto ciò si è detto per concludere, ripetiamo, che la parola del film è borghese e cotidiana. La rivalità fra teatro e cinematografo si è pronunciata proprio quando il teatro borghese e realistico e d’ambiente si sentiva diventar vano, s’accorgeva di entrare in crisi. Il film parlato, il teatro filmato, avranno servito alla definitiva liquidazione del teatro borghese, facendone un inutile, e più inerte, e più statico, e meno efficace, doppione del cinema. Effettivamente ciò che il pubblico ed una parte della critica hanno in questi anni chiamato “crisi del teatro”, non è altro forse che la storia di un progressivo abbandono del teatro borghese. Abbandono, anzitutto, dei personaggi deterministicamente legati al loro ambiente, dei personaggidocumenti. Quelli che, nella commedia fin verso il ’15, erano stati il signor Tale o la signora Tale, i quali venivano sul palcoscenico ad enunciare, in un linguaggio da salotto, più o meno brillante e paradossale, l’ennesima variazione o combinazione di un certo repertorio di casi ed incontri, han cominciato, in un primo tempo della “crisi”, a perdere i contatti coi registri dell’anagrafe, a sbattezzarsi dei loro nomi e connotati troppo connessi con un ceto od una situazione sociale. E son divenuti il Lui, la Lei, la Signora dai capelli verdi, ecc.; trasformandosi insomma, dal punto di vista borghese, in pure astrazioni simboliche, in marionette senza una dimora riconoscibile nella nostra geografia reale, senza un tempo fisso nella nostra cronaca quotidiana: marionette in cerca d’un autore, di un poeta che desse loro una passione. Il grottesco, preso come fenomeno generale, fu la critica per absurdum delle “posizioni” e situazioni tradizionali del teatro borghese. Con la loro cerebrale e ingegnosa industria combinatoria, gli autori di grotteschi, e loro affini, esplorarono negativamente le ultime propaggini e conseguenze del teatro borghese, denunciando al tempo stesso la ricetta generale di quel teatro. Che consisteva nell’escogitare, e nell’andare a verificare che cosa succedeva se in un mondo sociale, retto da una sua morale o meglio da una specie di suo galateo, si inventassero nuovi rapporti tra i personaggi tipici. In fondo, quella drammaturgia presupponeva una mentalità scettica, a suo modo spiritosa, vaga delle mediocri e magari un po’ volgari punte di una conversazione da boudoir, e soprattutto orgogliosa di una sua minuscola sagacia inventiva. Invenzione, s’intende, nel senso minore, astratto, malizioso e intellettualistico. A quel teatro (e a quell’età) di inventori, consumato dal grottesco – esaurito dalla concorrenza di un cinema spurio, magari, e malinteso e fabbricato in serie – noi aspiriamo di veder sottentrare un teatro di creatori. I segni ci sono: nei nuovi fondamenti morali che il mondo odierno si sta creando. E ci son già anche gli avviamenti: una delle glorie più grandi di Pirandello consiste appunto in una sorta di sofisticamento della invenzione astratta, esasperata fino alle sue conseguenze più pericolose, dove non gli rimane che negarsi in qualche cosa di diverso. Creazione è il contrario di invenzione. L’invenzione s’affanna a costituirsi dei dati complicati, la creazione semplifica il dato per inverarlo in tutta la sua profondità lirica ed umana. Da Eschilo a Giuseppe Verdi il vero teatro, che è creazione, non ha fatto altro. Così sono nati, sulla scena, i grandi miti. E noi, dal teatro d’oggi, reclamiamo i nostri miti; dove il teatro di ieri e dell’altrieri, il teatro borghese, non ci aveva dato che delle caratterizzazioni pittoresche e prive d’ogni risonanza, se non quella, ahi quanto breve, che si esauriva nel loro piccolo alone individuale (quando c’era). È tempo che compariscano i nostri Prometei, i nostri Agamennoni, i nostri Edipi: i nostri Eroi. Che farebbe, altrimenti, il teatro mentre le tavole dei valori morali e spirituali, e perfino i modi delle passioni stanno tutti rivolgendosi e tramutandosi? La concezione dell’amore, per non far che un esempio, è senza dubbio entrata in una fase sconosciuta ai nostri vecchi: basterebbe leggere certe testimonianze di studenti russi, che si meravigliano dell’esistenza della parola “gelosia”. Al

poeta scenico chiederemo dunque grandi figure elementari che condensino, nella chiarezza del dramma, le grandiose rivelazioni che l’anima d’oggi sta facendo a se stessa. Già il teatro di masse, più che preannunciato ormai dai grandi spettacoli all’aperto, viene scoprendoci la poesia energetica della folla; già potenzia, nella semplificazione e chiarezza artistica, quel tono vitale che, allo stato di materia esteticamente ancora increata, il nostro tempo aveva sentito nelle multanimi adunate del popolo esaltato in entusiasmi civili, religiosi, politici, agonistici e sportivi.

Il cinema e gli intellettuali

Per buona sorte, l’età dei cercatori d’oro può considerarsi, anche nell’ambiente del cinema – produttori e faccendieri del cinema – tramontata od in via di tramontare. Un romanzo come Francela-Doulce di Paul Morand, dove con parecchio veleno, motivato in parte ma in grandissima parte anche gratuito, sono narrate le rocambolesche e piratesche avventure della nascita di un film, è da ritenersi – e noi vogliamo ad ogni costo che sia – la satira in ritardo, il libello retrospettivo di un costume che, se ancora esiste, esiste al massimo come eccezione. Certo che tra le quinte del cinema, sino a non molto fa, è soffiata, o ristagnata, un’aria assai nefasta ed irrespirabile per chiunque avesse il senso dignitoso dell’arte e della cultura: diremo, in buon senso, per gli intellettuali. Si è mai riflettuto come l’idea romantica che il genio, che la creazione siano avventura ed imprevisto è stata improntamente trasformata in grimaldello dai genialoidi avidi e scostumati, e dai profittatori? Nessun dubbio che questo abusivo accaparramento ha avuto uno dei suoi più flagranti esempi nel vecchio cinematografo: quando, per la sperata o reale facilità dei guadagni, ognuno, e dai traffici più disparati, accorreva all’infantile ed obesa industria. È ancor di ieri, ma oggi sarebbe già molto meno vero, l’epigramma che qualificava il cinema di “legione straniera degli intellettuali”. Effettivamente, chi è vissuto in ambienti cinematografici negli anni di poco precedenti ai nostri, sa quanto vi sia stata sistematica e corrente l’umiliazione degli intellettuali, o dei cosiddetti “intellettuali”. Colpa anche di quei cosiddetti, riconosciamolo con franchezza. La gente nuova, improvvisatasi organizzatrice della nuova industria, era troppo avida e rozza, troppo dominata dalle proprie ambizioni e “complessi d’inferiorità”, per non confondere tutti e tutto, per non infierire su quegli intellettuali in cerca d’impiego e spinti dal bisogno ad adularli senza pudore. Quante se ne son sentite! Fu quella un’epoca di piccoli re negri, e come tali costitutivamente incapace di distinzioni, che su tutti volevano misurare l’arbitraria e ignorante potenza della loro signoria. Signoria enimmaticamente fondata su un doppio e anche triplo gioco, per cui a chi dicesse loro: “arte”, rispondevano: “commercio!” ed a chi poi cercasse di accordarsi su quel loro “commercio”, rispondevano: “il commercio è altra cosa!”, facendo sentire che detenevano, in virtù di chi sa mai quale misteriosa delega, il polso del pubblico. (Offro, tra parentesi, a Paul Morand ed al suo libro commemorativo, il seguente aneddoto, come indizio di una mentalità. Un giorno, uno di quei sedicenti capi fu udito gridare con quanto fiato aveva in corpo: “Facciamola finita coi vecchi padreterni della cinematografia!”. E voleva licenziare un operatore di cabina che aveva troppe pretese). Ma fortunatamente il cinema è un’arte molto vitale, che si fa la sua strada di per sé, e corregge i propri errori con l’ineluttabilità e la logica della propria predestinazione. L’organizzazione del cinema si è fatta, malgrado i re negri. Le recenti provvidenze governative, qui in Italia, per esempio, sono intervenute in tempo, quando le troppo grosse incastellature industriali, ingombranti e vane, s’erano logorate in se stesse: e si esigeva finalmente un controllo. Ora la disciplina è creata. E siccome gli intellettuali, per produrre, hanno bisogno di disciplina, che vuol dire gerarchia e rispetto dei valori, ora se Dio vuole potranno lavorare per il cinema. Capitolo, dunque, felicemente concluso – in Italia, almeno – questo degli intellettuali tra le quinte del cinema. Rimane ora ad esaminare l’altro: degli intellettuali di fronte al cinema. Quali le influenze del cinema sugli intellettuali? E quali, reciprocamente, le influenze degli intellettuali sul cinema?

Bisognerà intanto dichiarare che, per intellettuali, intendiamo il pubblico colto: la società degli spiriti, che all’opera d’arte offre adeguata accoglienza e consapevole giudizio. Né si limita ad applaudire o censurare il prodotto dell’artista, anzi ne propizia la nascita, nutrendo in sé quegli indirizzi del gusto, quelle disposizioni morali, quelle preferenze spirituali ed estetiche, quella civiltà insomma, entro cui l’ispirazione creatrice trova un ambiente propizio e un incentivo ed anche, ove occorra, un sano limite. All’un estremo di tal società, dove pigrizia o grettezza o melanconia hanno indotto l’abitudine o l’inaridimento, si incontra la caricatura del difetto: cioè il pedante; mentre all’altro estremo, dove il troppo di vivacità e di benessere e di contentezza di sé e di mobilità si è riversato tutto in superficie, si incontra la caricatura dell’eccesso: cioè l’adoratore dell’ultima moda, il risibile apostolo e l’infatuata vittima del dernier cri. Intellettuale vero è colui che possiede criteri morali così seri e ragionati, da saper distinguere la corrente profonda e legittima del gusto dagli incartapecoriti proverbi di una morta tradizione; da saper sceverare le tendenze in cui il proprio tempo può adeguatamente riconoscersi dal gergo posticcio dei passatempi momentanei con che gli spensierati scacciano (o sottolineano) la loro noia. Ebbene, nell’ultima sua fase, la storia di questi intellettuali – per quanto è possibile di vederne dalla nostra prospettiva di compartecipi – rivela tra l’altro un orientamento, di cui il cinema ha senza dubbio accelerato la definizione. In una parola: il fatto più tipico che si sia prodotto nel gusto degli ultimi cinquant’anni, e pertanto nella sensibilità del pubblico colto, è quello che in pittura, e poi per estensione anche in musica, ha ricevuto il nome di impressionismo. Movimento artistico che, attaccandosi ai più fugaci e trascorrenti valori di apparizione delle cose, ha trovato in ciò un nuovo e più intimo dono di evocazione lirica delle cose stesse: della loro interiorità e delle loro risonanze profonde. Propagatosi anche alle altre arti – e non è qui il luogo di esaminarne gli indizi – questo fatto ha costituito una delle più radicali rivoluzioni che mai si siano avverate nel dominio estetico: atteso che per molti secoli, e soprattutto a datare dal Rinascimento, le arti avevano cercato di rivelare l’interiorità delle cose, plasmandosi precisamente sulla struttura interna di esse. Liberato così il segno espressivo dall’obbligo naturalistico (e persin scientifico) di rappresentare il “di dentro”, ritrovatogli con assoluta purezza un potere alato di suggerimento, si è venuti anche riconoscendogli una più rapida magia allusiva: direi quasi, una più pronta e duttile capacità di stenografia delle sensazioni. Quando Francesco De Sanctis nello Studio sul Leopardi formulava il suo sentimento sulle prose del recanatese così: “La minuta esposizione genera impazienza negli intelletti moderni, usi a veder chiaro e presto al solo apparir delle cose. A quel modo che i dialetti si mangiano le sillabe, e con ellissi e stroncature e sottintesi riescono più vivi e rapidi che la lingua materna, oggi il medesimo lavoro si fa nelle lingue, e si cerca rapidità e brio, e si viene subito a conclusione, e si mangia le premesse” sbagliava forse nel giudizio specifico, ma precorreva un gusto che avrebbe finito col trionfare. Il gusto, ripeto, di un segno più veloce, più libero così dalle pigre evoluzioni di parata come da ogni specie di ron-ron. Quanto si dice non vuol essere, neppure per sommi capi, la storia del gusto negli ultimi anni: che è fenomeno certamente più complesso, in cui bisognerebbe tener conto di altri fattori e manifestazioni. Ci basta qui l’averne ricordato quel tanto che poteva servire per la nostra speciale indagine. Il cinema, nato come meraviglia scientifica, ebbe il carattere di tutte le invenzioni vere, che son sempre tempestive e cadono come il frutto dal ramo. E certo venne incontro a quella evoluzione o rivoluzione del gusto già pronunziatasi, e la sollecitò, e la rese di più universale ed abituale dominio. Intanto il cinema era fotografia: anzi l’esaltazione, il potenziamento della fotografia. E si sa quanto, nelle arti figurative, la fotografia – documento per eccellenza dei valori di apparizione – abbia collaborato all’avvento della sensibilità impressionistica. Ma, per mezzo del cinema, la fotografia veniva trasformata, da documento di un aspetto già esistente, a notazione di una fantasia in moto, visiva e narrativa. Quindi sempre più estendeva, col suo diffondersi, l’abitudine e il gusto di cogliere le presenze fantastiche sotto i loro modi di pura apparizione, sempre più

collaborava ad addomesticare la visione estetica col gusto impressionistico. Ancora: se da mera documentazione statica di un aspetto, la fotografia era assunta a notazione dei successivi momenti di un divenire di fantasia, essa si costituiva perciò un suo tempo. Il quale aveva precisamente il compito di surrogare alla durata vera dei fatti, che il racconto cinematografico narra (e ricordiamo che, pezzo per pezzo, un film è formato dai reportages della camera di presa, che son sempre documentari e riproducono un brano di tempo oggettivo e reale) una durata fantastica e verosimile. Ecco quindi associarsi ai valori impressionistici della fotografia quell’altra qualità che già abbiamo rammentata come complemento del gusto impressionistico: vale a dire lo scorcio, la stenografia lirica della durata e della sensazione. Mezzi tecnici dei più elementari, quali il fondu e la dissolvenza, hanno un valore capitale come segni di un gusto di sorvolare sul tempo, di stenografarne il passaggio. È stato notato d’altronde – e ricordo, per esempio, di averlo letto in un articolo del pittore e critico Jacques-Émile Blanche – come il cinema abbia sviluppato in tutti una maggior prontezza di percezione e lettura dei dati visivi. Diremo che esso ha realizzato, con mezzi di efficacia inattesa, l’augurata stenografia dell’impressione. Se poi il cinema come arte sia, del gusto impressionistico, un prodotto ovvero un fattore, è la solita questione dell’ovo e della gallina. Sta di fatto però che esso fu dapprima un’attrazione e divertimento popolare: e solo più tardi, in mano di gente a volte non più che genialoide, a volte veramente geniale, conquistò gli intellettuali: vero segno che favoriva il loro gusto, nel tempo stesso che ne era favorito. Ma su questo punto: influenza del cinema sugli intellettuali, vorrebbe anche il moralista – scusate – prendere per un attimo la parola. La conversione degli intellettuali al cinema è ormai, dopo molte riserve e contrasti, un fatto compiuto, e molto significativo. Questa nuova arte – come in altri tempi le lettere – è oggi l’argomento principe dei salotti intellettuali: dove, per salotto, s’intende ora anche il caffè e lo scompartimento ferroviario e la cronaca del giornale. Ma le pellicole sono prodotte da industriali che vogliono il successo finanziario: e debbono quindi accontentare i bisogni sentimentali delle grandi masse. Il cinema è dunque il luogo d’incontro degli intellettuali con la massa: uno dei più tipici ed efficaci strumenti di cui la vita moderna si valga per stabilire una circolazione di idee e di stati d’animo tra il popolo e le élites. È una porta aperta in permanenza, che sopprime la clausura degli intellettuali, che rende impossibile – a meno di una bizzarra ed anacronistica cocciutaggine – la torre d’avorio. Il pedante perde sempre più terreno. Rimane ancora l’altro pericolo: l’idolatria del dernier cri. Ma questa è solo questione di concretezza di cervello. Ed ora brevemente l’ultimo punto: influenza degli intellettuali sul cinema. Come spettacolo, fenomeno sociale, o diciamo addirittura: servizio pubblico, il cinema compie una funzione molto analoga a quella che ebbe nell’Ottocento, e segnatamente in Italia, il melodramma. Con ciò non intendo affatto ch’esso debba modellarsi, secondo propone taluno, sul vecchio melodramma o perfin diventare, qui in Italia almeno, la fotografia o riduzione in pellicola delle nostre grandi opere in musica. Tutt’altro. Né assumo la parola melodramma nell’accezione contenutistica datale dagli americani, a battezzare l’intrigo romantico-sentimentale dei loro film. Penso invece alla “domanda” ed attesa del pubblico, rinnovantesi di “stagione” in “stagione”; a cui nel secolo passato gli impresari dei teatri d’opera rispondevano, commettendo ai Maestri più in voga qualche melodramma, dove si vedessero tornare in nuove combinazioni od aspetti, quelle situazioni passionali o patetiche od avventurose, che gli spettatori prediligevano. Nello stesso modo l’impresario di “circuiti” cinematografici prepara da un anno all’altro, noleggiando, incettando, interessandosi alla produzione, quella data gamma di film, atta a soddisfare tutti i gusti del suo pubblico: alcune pellicole che ripresenteranno i divi più desiderati, da Greta Garbo a Marta Eggerth a Clark Gable, altre poliziesche e d’avventure, altre musicali, ecc. L’analogia tra la funzione del cinema e quella del melodramma, come spettacolo, consiste nell’offrire, rinnovato di anno in anno, un repertorio abbastanza fisso e canonico di emozioni, sentimenti, ecc.: di certi contenuti,

insomma. Contenuti eminentemente schematici, nel loro complesso, e popolari. Ora l’intellettuale viene attirato al cinema ingenuamente, come la massa. Il suo primo impulso è di andare a vedere un certo spettacolo vivo o sfarzoso o comico o commovente. Così, nel nostro Ottocento, la folla accorreva compatta, popolo ed élite, al melodramma: per ritrovarvi elevati ad un superior tono vitale gli affetti e i palpiti sgorganti da certe congiunture drammatiche, o dall’urtarsi ed affacciarsi di certe caratteristiche “posizioni” o personaggi (che, anche come ruoli, erano tipicamente affidati al tenore o alla prima donna, al baritono od al contralto). Ma, mentre la massa rimaneva sotto la seduzione dell’intrigo, o si “portava via” la melodia orecchiabile: cioè una vicenda schematica od una schematica linea di canto, ridotte al loro grezzo contenuto affettivo – il pubblico colto riconosceva i valori lirici e spirituali di creazione; per lui il “libretto” sublimava in una serie di soluzioni catartiche, in cui il Maestro, con tutte le possibilità formali ed espressive della musica (e non, dunque, pura melodia, ma inflessione del declamato, ma orchestrazione, ma armonia, ma contrappunto, magari) aveva divinato la formulazione e l’accento eterno di quelle correnti oscure di affetti e di aspirazioni che si agitavano in seno alla società del tempo. Con la loro intelligenza e la loro sensibilità, quegli “intellettuali” difendevano così il mondo del melodramma dal degenerare nella mera effettistica, nella meccanica convenzione, che sarebbero forse bastate alla massa dei contemporanei. Nel cinema, prodotto ancor più rapido ed ancora più labile, la funzione degli intellettuali è identica. Anche qui, al primo approccio di un film, essi possono sentirsi avvinti dal contenuto; ma la loro vera reazione avviene direttamente sulla forma; mentre la massa non reagisce sulla forma se non in modo inconscio e confuso, e senza potere di controllo. Non vuol dire che agli intellettuali sia commesso uno specifico ed esclusivo compito di critica. La critica, se vuole esser valida, ha sempre da essere individuale, almeno nella sua formulazione. Invece, sul cinema, gli intellettuali agiscono collettivamente, formando quell’anonimo pubblico colto che sa esigere, per esempio, nella trama di un soggetto, una ragione necessaria, e non solo una capricciosa fabbricazione di contrasti e di effetti; che sa rifiutarsi alle sollecitazioni dell’effimero: e quindi salva e salverà il cinematografo (si parla di quello rispettabile) dal sempre imminente pericolo della convenzione. E come una ottantina d’anni fa riusciva, poniamo, ad avvertire che nel Rigoletto il passaggio La donna è mobile era solo quella melodia regalata da Verdi al passante che se la sarebbe ricantata in istrada, bensì lo scoppio del tutti che l’introduce in orchestra – così questo stesso pubblico oggi difende Greta Garbo dall’adozione unanime ed interessata che la massa ne fa, coll’adorarla fisicamente come la propria “donna fatale”: anzi la riscatta ad apparizione esemplare, a “mito provvisorio” del femminino del tempo nostro; o legge il significato tragico ed eterno incluso nel lazzo, d’apparenze buffonesche e popolari, di un Chaplin. No, veramente: bisognerebbe dire a Paul Morand che il libro dell’intellettuale di fronte al cinema non è la caricatura delusa ed amareggiata di France-la-Doulce. Piuttosto sarà il nuovo Wilhelm Meister di qualche giovane che, con dignità e passione, viva la sua seria e superiore avventura in traccia di una cinematografia per la propria Nazione.

Attore o regista?

L’evoluzione di una grande attrice, non come pretesto all’aneddoto od al pettegolezzo, ma come tema per indagare i rapporti tra regia ed interpretazione. Fino a qual punto l’attore si riduca a materia plastica nelle mani del regista. E con quali risultati nel campo artistico, sociale e di costume. 1. Una piccola attrice di varietà. Ruolino di marcia: non particolarmente bella, non particolarmente promettente. Nessuno punterebbe su di lei. Perché un grande regista come Tourneur le affida una parte di protagonista senza importanza nella Nave degli uomini perduti? 2. Una congiunzione stellare: l’incontro con Sternberg in un CaffèConcerto. S’inventa una stella. Il divismo esclusivo e schiacciante di Jannings è finalmente equilibrato dalla presenza non meno autoritaria e realistica della nuova diva. L’angelo azzurro. Quale il segreto di Sternberg? Risolvere in poesia tragica e magia l’ambiente originario di Marlene e l’appello un po’ torbido della sua femminilità. 3. Il tema pareva inesauribile. Ma già l’invenzione minaccia di spezzare i polsi dell’inventore. Sternberg si tormenta per modulare in forme inedite quella roca e perversa seduzione. La riesplora in nuovi climi. Marocco. Ma tra il lusso dei colori e dei pimenti esotici, si intravvedono le prime stanchezze del poeta. 4. Termometro della stanchezza: il dilagare di una moda, anzi di una cifra. Naturalmente gli imitatori si attaccano al dettaglio vistoso e provocante. Non capiscono che la poesia dell’Angelo azzurro non era nelle gambe e nelle giarrettiere di Marlene, bensì nella densa atmosfera creata dall’arte di Sternberg. 5. Nello sforzo di rinnovarsi, Sternberg corre faticosamente verso l’insuccesso. L’angelo azzurro lo ossessiona. Evadere dal capolavoro, ecco il problema! Anche a costo di ispirazioni abusate (guerra, spionaggio: Crepuscolo di gloria). In realtà siamo in una fase di pure esperienze plastiche. Per strappare Marlene al suo ambiente inevitabile, il registaapproda ad una illusione: che basti cambiarle di veste e d’acconciatura. Disonorata. 6. A questo punto, come accade, non rimaneva che l’oriente [Shanghai Express]. Incantesimo di maniera. Seduzione di continenti dove l’avventura sembra legge. Paradisi artificiali. Fatale luogo di convegno per tutti i naufraghi. E l’ostinata Lola-Lola dei bassifondi amburghesi prende lo Shangai-Express per la Cina dei banditi, dei bolscevichi, dei missionari e degli umanitari. 7. Per il momento Sternberg rinuncia a nuove esplorazioni. Entra in campo l’autore di Vie della città, con le sue supposte risorse di osservazione dal vero. Ma l’astuto Mamoulian non fa che derivare, in un greve e raccogliticcio mosaico di stili, le scoperte di Sternberg: nelle sue mani la vagheggiata Marlene – l’etera, la contadina rifoderata di ingenuità, la sirena del prof. Unrath – diventa la statua, il calco di gesso. Falsa poesia di luoghi comuni. Il Cantico dei Cantici. 8. Su quel calco, il divismo si fabbrica un nuovo ideale, la bellezza femminile un nuovo modello. Il figurino di Marlene, ormai irrigidito nello stucco di Mamoulian, ossessiona la fantasia degli uomini, la volontà di seduzione delle donne, la scelta degli arruolatori di “stelle” per il cinema. I produttori vedono in quel tipo una sicura certezza di successo e di lucro. Il mondo della realtà, e non solo quello dello schermo, formicola di Marlene speciose e senza contenuto. 9. Sternberg ritorna. L’inventore spezza il calco. Ma non torna il poeta. Con fallace alchimia egli si prova a trasfigurare la venere degli angiporti nella casta ed “eroica” madre di famiglia. Ma se le dolci linee del volto di Marlene obbediscono alla virtuosità del fotografo, le leggi incoercibili di una

materia fissata per sempre in un capolavoro riprendono il loro dominio [Venere bionda]. 10. In una sorta di esasperazione Sterberg ricorre agli ultimi espedienti. Sottilizza la sua modella in una ingenua principessina. Tenta di riscattare la cortigiana nell’equivoco di una vita romanzata: e fa della selvaggia e sensuale Imperatrice Caterina la fragile vittima d’una corte di mostri e di fantasmi. Sontuoso trionfo d’uno sterile cerebralismo. Il film non raggiunge che una larva di coesione nella continuità della cifra fotografica e decorativa. Ridondante poema sinfonico, trova un filo soltanto nelle prolisse didascalie. E l’eroina affoga nell’irta decorazione barocca. 11. Ultima prova, perduta in anticipo. Sternberg non ha più animo per forzare una via nuova: ritenta con la Spagna l’esperimento fallitogli con la Russia. La Spagna delle gitane, delle galline che razzolano per le strade, dei pettini, dei patios, e del sole convenzionale. E mendica un tema di maniera dal decadente estetismo di Pierre Lou s (La femme et le pantin). Dal rococò moscovita al barocchismo dei merletti: affogare per affogare. Capriccio spagnolo! 12. Subentra Lubitsch che, influenzando maliziosamente la regìa di Borzage, svuota il mito [Desiderio]. Fa della Circe mondiale una donna come tutte le altre, che porta il suo romanzetto alla Jeanette MacDonald tra galanterie alla viennese, spiagge alla moda, romitaggi sentimentali, operetta europea, ragazzoni all’americana. Maniera di risolvere? o maniera di concludere? o semplicemente maniera?

Passato e presente di Romeo e Giulietta

Le interminabili variazioni sull’amore, tema obbligato del Cinema, non potevano ormai più esimersi da un Romeo e Giulietta. Specialmente in America, dove i due amanti veronesi sono assurti, per l’anima popolare, a mito e proverbio dell’amore: You are my Romeo. Si spiega quindi l’ambizione dei produttori di far toccare con mano questa leggenda drammatica come un “dal vero”: ambizione ampiamente testimoniata dai loro stessi documenti di lavoro. I personaggi. Giulietta: l’angelo innamorato. Basterà, dunque, esemplarla su un angelo, proprio, dell’Angelico. Anche se le chiome adorate dall’estatico pittore toscano si stilizzano in una permanente che, tra l’altro, è di moda. Angelo, ma senza dimenticare la “contessina” Capuleta: cosa molto sensibile allo spirito democratico degli americani. Si metterà dunque a contributo l’elegante, il mondano Botticelli. Ma il cinema è cinema: e la gemma dovrà essere una vera gemma, messa in posizione da rifulgere sotto gli spotlights, e l’asprì dovrà rialzarsi in un diadema di raggi. Mercutio: uomo di corte, gentiluomo e cavaliere al cospetto della vita e della morte. Eccone uno, per sempre raffigurato in una terracotta veronese del Quattrocento. Ma il pubblico preferisce talvolta le interpretazioni romanzate e ammorbidite: si veda quella di Hollywood. È lecito insinuare che dalla duttile maschera di John Barrymore si sarebbe potuto trarre perfino il Gattamelata di Donatello? La cinematografia europea ha talora fornito esempî di un diverso stile. Due volte ha preso a modello l’Enrico VIII dell’Holbein e due volte, Lubitsch con Jannings [Anna Bolena] e Korda con Laughton [Le sei mogli di Enrico VIII], hanno oggettivamente ricreato costume, spirito e persino somiglianza. Si delineano pertanto due scuole: quella realistica iniziatasi in Italia e proseguita in Germania; e quella libera, popolare, romanzata della giovane America, nonché di alcune correnti del vecchio mondo. Della difficoltà di trovare un Romeo s’è parlato per mesi. La foggia italiana del tempo, scoprendo le gambe, imponeva che la scelta fosse fatta in funzione di quelle. Ma il volto? Finché un divismo imperi, in America e fuori, non cesserà di far rispettare le proprie esigenze. E il diafano, biondo studente dalla testa nordica, risponderà piuttosto ai sospiri delle Giuliette ventesimo secolo che non al richiamo – di sul verone toccato dall’alba tra canti di usignoli – della Giulietta shakespeariana e di quella veronese. Il costume disegnato da un Mantegna si raggentilisce, attillandosi in un modello da sartoria e da living room. Ben più effeminata, nella realtà storica, la corte di Carlo VIII di Francia; ma come virile l’interpretazione del costume nella Giovanna d’Arco di Ucicky. Due pubblici, due esigenze: due risposte. S’intende però che il cinema americano ha ben altre risorse di dinamismo e di tecnica. Non è a dire che l’interpretazione del Rinascimento, fatta per un popolo che non vi ha preso parte, sia priva d’una certa poesia, perfino nell’eclettismo con cui mescola epoche e regioni e stili. Un figurino, per esempio, del Botticelli. Ma come si sarebbe comportata l’esile e non facile persona della Shearer sotto i sontuosi panneggiamenti del broccato italiano? Occorreva che quei broccati si volatilizzassero in una garza, puntata con gli spilli a realizzare un compromesso un po’ ingenuo, ma di sicuro effetto: tra la veste da sera e il velo di una fata da scena. E come i fiori del tessuto botticelliano rimangono un’allusione e la ghirlanda d’alloro si muta in una di gelsomini, così la divina rosa che Eleonora Duse faceva morire tra le dita di Giulietta si moltiplica in un mazzo, e va a rifiorire dentro un vaso. La prosperity della rosa. Tra le altre fonti iconografiche, si direbbe che sia stato compulsato anche un Ritratto di ignota

attribuito a Piero della Francesca, che fornisce un motivo ricorrente di nastri e gale bianconere da intrecciare con bottoni fotogenici sugli alamari di Mercutio, da tessere nel disegno delle stoffe, da incrociare sulle maniche e sul petto d’una “Contessina”, che aggiunge alle sue le grazie d’una incantevole zingarella. Gli esterni. Dove si vede come il paesaggio di fondo suggerito dalla grande pittura italiana (Mantegna), possa imprestare i suoi piani, le sue masse, le sue lontananti prospettive d’architetture e poggi e ville e castelli al modellino in gesso per la scena cinematografica. Ma anche il gesso ha le sue leggi e, in primo piano, volge archi ed alza pilastri di somiglianza novecentista e razionale. Così il cimitero di Giulietta si risolve in un presepe barocco, non traendo dal severo paesaggio veronese che una remota fuga di merli ghibellini e di torri. E per costruire il ritiro di frate Lorenzo la scenografia cinematografica ricorrerà magari ad una invenzione giottesca. Ma si sarebbe appagato il gran pubblico di un romitaggio italiano della Rinascenza? Più ovvio e più opportuno addomesticarlo con qualche comodità e piacevolezza da cottage. Gli interni. Una pietosa e innamorata leggenda indica alle visitatrici di Verona la presunta tomba di Giulietta. Ma il romanticismo europeo, più schietto e aderente alla natura, non può soddisfare un’immaginazione vaga di pittoresco e di corpulento mistero. Ipogei, quindi, e non giardini. E cripte medievali e arche dell’ottavo secolo, e pesanti porte di bronzo imbullettate. Che cosa prova tutto questo? Che gli americani non realizzano pienamente il senso dell’anacronismo, perché una tradizione si riceve nel sangue e non si improvvisa. Comunque, il nome del regista George Cukor dà affidamento che, a film terminato, anche il Romeo e Giulietta risulterà avvolto di quell’esatta ed evocativa atmosfera che ci è piaciuta nel David Copperfield e nelle Piccole donne. Badiamo però che in questi casi si trattava non di retrocedere di un secolo, cosa indubbiamente assai più facile. E per intanto osserviamo una cappella che dovrebbe essere rinascimentale. Il ricostruttore non ha potuto distinguere tra rinascimento che è classico, e neoclassico che rappresenta un ideale di ritorno. Accosta perciò nella porta rinascimento, barocco e impero. Illeggiadrisce i peducci dei costoloni e, affusolandoli, ne distrugge la funzionalità, perciò trasforma l’elegante conchiglia di una nicchia dell’epoca, quella per esempio del Sanmicheli, nel fondo di stelle dell’altare a baldacchino. Conclusione? Ricordiamoci che non si tratta qui di giudicare il film e che Norma Shearer è la persuasiva protagonista di Catene e della Famiglia Barrett. E tutte le deviazioni del gusto e le sviste critiche diventano in certo modo plausibili, quando vengano guardate sotto l’angolo cinematografico, per cui le grandi composizioni e i quadri d’insieme sono essenzialmente coreografia e balletto. Un “taglio”, mettiamo, del Gozzoli potrà benissimo apparirci quasi l’ispiratore di una inquadratura di questo film; ma quello che nel Gozzoli era specifico valore plastico e pittorico, nel film diventa pura angolazione, tattica sapiente ed evidente per spiegare una massa. Allo stesso titolo, e coi medesimi risultati, poteva il De Mille del Re dei re rievocare – ne avesse o no coscienza – lo scorcio, l’illuminazione e gli aggruppamenti d’una celebre Crocifissione del Tintoretto. Ma, per non citare che un dettaglio, la luce che nel Tintoretto fondeva la scena, si degrada nel De Mille ad un semplice accendersi ed ammiccare di riflessi sulle sgranate figure. Surrogato di pittura, cinema non era più, e pittura non poteva diventare: anche e soprattutto per difetto di unitaria tradizione religiosa, che gli desse fiato e vita d’arte. Perfino in tema di cristianesimo, l’America cristiana non arriva dunque a vivere nel filo di una tradizione. Che se l’esempio e la deduzione possano parere troppo generali, si consideri – sempre a proposito di senso storico – il Cesare efebico della Cleopatra americana, per il quale non mancavano certo nella statuaria dei modelli concreti. Modelli che si potevano tener presenti, non tanto per trarne una esteriore somiglianza, quanto per ricavarne una veridicità di spirito.

Panoramica di Venezia

A nuova arte, nuova mostra d’arte. Il Festival cinematografico di Venezia è nato per affrontare questo problema e, al suo quarto anno, insiste arditamente nella ricerca di una soluzione. Il cinema è arte, ma è anche spettacolo per grandi masse, e come tale smentisce l’ambizioso paradosso della cosiddetta arte pura. Le masse hanno bisogno di un veicolo che trasporti l’arte fino a loro. In termini più precisi, il piacevole con tutte le sue varietà (interessante, orrido, passionale, sentimentale, giallo, esotico, comico, e magari piccante) che fa da mallevadore al bello. Una volta di più si parlerebbe di “soave licor” sugli “orli del vaso”. Ma la medicina ardua ed amara è in questo caso la bellezza. Vien fatto di dire che il Novecento, secolo del collettivismo, stia per capovolgere i termini dell’estetica tradizionale. Al bello che serviva da tramite al morale ovvero all’utile, si vanno sostituendo il morale o l’utile che servono di tramite al bello. Se il Festival si ponesse come ideale l’arte pura, ne verrebbe fuori la solita “mostra madre di mostri”. Il cinema, che impegna vitalmente una industria pesante, riceve la controprova della sua validità anche dal successo commerciale. Di qui il doppio, e necessariamente doppio, aspetto del Festival veneziano. Da un lato la mostra d’arte con tutto quel che comporta di eccezionale, anzi di individuale; dall’altro la mostra delle varie tendenze industriali, sociali e nazionali con tutto quel che comporta di spettacolare ed anzi di collettivo. Contemperare queste due esigenze rappresenterebbe l’arduo punto di equilibrio di qualunque mostra internazionale d’arte cinematografica. Intervistato al ritorno dal suo viaggio in Europa, Lubitsch ha detto che lo sforzo internazionale della produzione americana deve essere quello di creare una percentuale di film (un quindici per cento circa) universalmente assimilabili, rispondenti cioè ad una formula di sicura presa sui pubblici di più svariate tradizioni e di più opposte tendenze. Ma non è questo per l’industria americana un sistema di ordinaria amministrazione, già in pratica da almeno una ventina d’anni? L’averlo ribadito tradisce forse una più assillante preoccupazione della concorrenza europea. In realtà l’America importa ogni anno tra noi una percentuale di film di quasi infallibile successo che rappresenta il massimo sforzo artistico ed economico di una grande industria, senza peraltro documentarne gli orientamenti più originali e spontanei. Vertice di una piramide, che non vale ad indicare quello che sta realmente alla base; così come non è la macchina da corsa, ma la vettura di serie che rivela la capacità di una industria automobilistica. Anche questo è un problema, e forse il più duro, per una mostra come la presente. Per esempio. Nel Festival del’35 gli americani puntavano su opere come Anna Karenina o Becky Sharp. Film la cui eccezionalità è in apparenza di natura artistica, ma in sostanza di natura prudentemente industriale. Appunto perciò Venezia non poté lasciar prevedere il grande colpo americano della stagione successiva, che fu La pattuglia dei senza paura. Non diciamo che la colpa sia della mostra, la quale non si è ancora riservata la facoltà di fare inviti e scelte dirette. La lezione, tuttavia, ha avuto la sua importanza, perché dimostra che i film di più sincero sentimento, riescono spesso più rappresentativi di quelli speculativamente architettati sui luoghi comuni del sentimento borghese. In secondo luogo, che il pubblico crede proprio ai fattori veri dell’arte, i quali nella specie erano una folgorante attualità di passione che si traduceva nell’impetuoso ritmo del montaggio. E quest’anno? Una Casa, poniamo, che in un elenco di sedici film da programmarsi qui in Italia nella stagione ’36-’37 annuncia fra l’altro La conquista del West di Cecil B. DeMille con Gary

Cooper e Cavalieri del Texas di King Vidor con Fred MacMurray, si limita ad esporre il solo Sentiero del pino solitario. Magari qui il criterio è evidente: concentrare l’attenzione sul valore sensazionale di un film a colori girato all’aria aperta, a differenza di quasi tutti i precedenti in cui il colore era ancora composizione di studio. Aggiungiamo subito che i parziali risultati convincenti sono ancora al di qua d’una conquista definitiva. Tanto è vero che la piena suggestione del colore non si realizza che là dove i piani prospettici risultino più ampiamente scaglionati e più semplicemente illuminati. Sentiero del pino solitario, con È arrivata la felicità, costituisce una eccezione anche in un diverso senso, perché gli altri nove film finora notificati alla Mostra sono in costume del Rinascimento (Maria di Scozia e Giulietta e Romeo) o dell’Ottocento. E a questo proposito Maria di Scozia rivela un’ardita e tuttavia penetrante comprensione dei costumi e dei tipi. Non escluderemmo anzi che la Maria Stuarda di Zweig abbia fornito al regista delle preziose suggestioni. Si raffrontino i ritratti della Regina Elisabetta con il personaggio creato da Florence Eldridge per il film; quelli di Knox con la figura ricostruitane dal versatile attore Moroni Olsen. Ma il colpo di genio sarà stato senza dubbio la scelta della Hepburn: la quale, proprio secondo le indicazioni di Zweig, sembra correggere l’apparenza meno ardente dei ritratti tradizionali con quel più di umida sensualità che la vita della tragica regina rivela. In confronto coi criteri di grande divulgazione spettacolare che hanno informato personaggi, costumi e scenografie di Giulietta e Romeo, che cosa ci insegneranno queste più studiose ricerche della Maria di Scozia? Non c’è dubbio frattanto che Giulietta e Romeo è nato per rispondere ad un vecchio tipo di aspettazione che l’industria americana è sempre diligente ad assecondare; così come Frank Capra coltiva anche quest’anno l’attesa creata da Signora per un giorno, accresciuta con Accadde una notte, tenuta abbastanza desta con Strettamente confidenziale. E “accade quest’agosto” che la sua Casa ci mandi È arrivata la felicità, nel quale si vede che, malgrado le vulcaniche risorse di un ingegno siciliano e malgrado le nuove aspirazioni sociali, Capra, specialmente nei primi trecento metri, che sono anche i migliori, non fa che del Capra di bravura. Che cosa c’è dietro questi esponenti? Possiamo davvero fidarcene? Da La vita del dottor Pasteur all’Angelo bianco, da Il paradiso delle fanciulle (il famoso spettacolo di tre ore) a Show Boat, da San Francisco a Lord Fauntleroy e a Desiderio di re, sette film americani si alleano con altri tredici europei per rivelarci un vagheggiamento sempre più diffuso dell’abito e dello spirito ottocentesco. Taluno sarà magari tentato di supporre che il dilagare di una simile tendenza, o vezzo, sia da attribuirsi a quel tanto di “melodramma” (è proprio la parola dei soggettisti americani) che sta alla base d’ogni intreccio che si rispetti. E i romanticismi e le gravures nostalgiche del secolo scorso, meglio che la realtà attuale, si prestano a fornire una materia capziosa e nostalgica. Altrettanto carica di incognite, ma per motivi del tutto diversi, si presenta la produzione inglese. Dove si possono anche ritrovare tutte le tendenze in voga, senza sentirsi mai autorizzati a parlare di un indirizzo unitario. Scrooge, poniamo, porta all’ultima finitezza l’illustrazione letterale di una famosa opera narrativa. È la vecchia strada, per la quale son passati ultimamente Piccole donne e David Copperfield (ma non certo l’Anna Karenina!). Con un quid, tuttavia, se non di maggiore arte, certo di più stretta aderenza. Industria tipicamente liberale, dove la base finanziaria prevale su quella organizzativa, la cinematografia inglese lascia adito alle eccezioni più impensate: ieri saltava fuori l’irlandese Flaherty con l’Uomo di Aran, oggi è la volta dell’austriaco Feher con la Sinfonia dei briganti. Film geniale e calamitoso, di un enorme lirismo farsesco, paradossale perfino nella sua origine. Il Feher aveva scritto un’opera che non riusciva a far rappresentare: allora, messosi davanti alla propria musica, ne ha tradotto, battuta per battuta, un soggetto cinematografico. La Germania, invece, calca sulle sue tendenze fino a diventar tendenziosa. Il mondo dell’anteguerra, l’elegia delle mamme e delle nonne, l’epica dell’Herr Professor del buon tedesco che porta lavoro e sogni per tutte le contrade, si spogliano d’ogni invito nostalgico, per diventare

testi di predica e spunti di apologie più o meno sottintese (Traumulus e Imperatore della California). Novità? Scoperte? Piuttosto una sostenuta nobiltà, una misurata sagacia nel dosare e incorporare la tesi politica nell’apparente libertà fantastica del dramma. Equidistante dai prodotti di pura propaganda interna (confinata semmai con discrezione nei corti metraggi) come da quelli puramente mercantili, questa produzione ha tutta l’aria di rappresentare un’industria di Stato in veste ufficiosa e diplomatica. L’Austria, s’intende, continuerà a segnare il suo livello medio – e d’altronde anche il successo di Mascherata è stato l’affermazione di una mediocrità felice – senza punte e senza crolli. Come tutti i paesi ad industria diligente e di non grandi risorse, non può lasciarsi sviare dal miraggio del “supercolosso”, e riesce quindi, in una mostra, più fedele a se stessa. Una Francia organizzata potrebbe ancora essere il paese dei tentativi d’avanguardia e dei grandi esperimenti. Fare in modo da mandarci un Clair o uno Chenal. Si contenta, invece, di un Marcel l’Herbier passato alla “destra” commerciale (Vigilia d’armi) o di un Ophuls molto probabilmente denicotinizzato. Vero è che un gruppo di scrittori ha protestato contro la scelta, proponendo nientemeno di affittare un cinema a Venezia, dove ai film ufficiali si contrappongano quelli di più combattiva sostanza estetica. Un nuovo Salon des Indépendents. Uno per secolo. E stavolta a specchio della laguna. A variazioni risapute, a cifre di esitante compromesso, a ricette dialettali e folcloristiche sembra ridursi l’apporto degli altri paesi. C’è persino l’India, omaggio al colore e agli esotismi indigeni. E non è detto che la rivelazione di Ekstase debba rinnovarsi ogni anno. Film che, d’altronde, ha segnato l’atto di nascita di un regista, non di una nuova cinematografia nazionale. Machatý, intanto, è venuto in Italia, dove ha aggiunto Ballerine a Squadrone bianco ed a Cavalleria: ponderata e progrediente produzione spronata dalla matura volontà di uno stile italiano.

Misteri e poesia dell’illuminazione

Ci scrive da Hollywood un operatore che ha lavorato sotto i più grandi registi: “Il problema dell’illuminazione non può risolversi con formule fisse”. L’enunciato acquista tanto più sapore, in quanto che l’illuminazione può apparire a primo aspetto una pratica di puro mestiere. Così l’America ci restituisce, rafforzato da una lunga esperienza ed applicato al cinema, uno dei principî fondamentali dell’arte. Ogni opera richiede la sua tecnica specifica, che è poi essa stessa scatto di fantasia, lampo creativo, vibrazione nervosa dell’artefice direttamente trasfusa nella materia. Uno scultore deve vincere coi pollici la resistenza della creta. Un creatore cinematografico dovrà superare le più varie resistenze di materia: tipica, fra tutte, la nativa espressione del volto umano. Illuminazione e truccaggio sono gli strumenti spirituali di quest’ardua plastica che elabora visi, fisionomie, corpi. Vedete la Garbo, in cui il pubblico cerca instancabilmente la stessa “Greta”. E tuttavia i registi veri devono assoggettare anche il naturale magnetismo di quel volto, a seconda che vogliano creare una Tentatrice o un’Anna Karenina. Caso caratteristico in cui l’illuminazione è complice di poesia. Come si è potuta la romantica eroina – “l’idolo dei fumatori di sigarette” – appesantire in un aspetto tanto carnale? Scomparsi gli zigomi, come impastati nel volto opaco, l’occhio si è ristretto e socchiuso, ed ha intorbidito la sua luce in un ammiccamento. Le labbra si sono ispessite e il mento più non si protende, anzi tondeggia assecondando le linee quasi paffute della guancia. Il segreto è in massima parte negli astuti “effetti” di luce circoscritta, che correggono l’illuminazione diffusa piovente dall’alto. Effetti, le cui sorgenti sono piazzate una all’altezza del capo per schiacciare la guancia destra, un’altra nell’angolo superiore destro per provocare il serico splendore della calotta, lo scintillamento degli strass, la virgola di luce sulla gota sinistra. Come la scelta dei tipi, come il truccaggio che rimodella i volti, l’illuminazione è uno degli essenziali fattori psicologici e drammatici del film. Deve stare pertanto in rapporto strettamente funzionale col soggetto. Si osservino, per esempio, due tipi della Crawford, sbozzati dal truccaggio con violenta evidenza: la rifinitura, il tocco conclusivo sono dati da due diverse illuminazioni. E dall’una risulta la fanciulla che sta per essere ghermita: Grand Hotel, dall’altro la donna che ghermisce: Pioggia. Ecco a che cosa si riduce, su per giù, l’armamentario tecnico di cui registi e operatori dispongono per le loro varie magie. La letizia di un banch etto, l’uggia di un giorno piovoso, le misteriose ed aeree ribalte che riversano luce su di una festa, la calda e voluttuosa illuminazione di una alcova, sono il lirico risultato di una elaborata postazione di quei pochi tipi di lampade che il magazzino allineava in metallica e schematica inerzia, così come la poesia è l’ispirato scompiglio dell’ordine alfabetico di un vocabolario. Una povera gamma di strumenti. Una infinita e duttile possibilità di creazione. Fino a realizzare la più impalpabile qualità dell’arte: l’atmosfera, i toni dell’anima. La nebbia che fascia, personaggio essa stessa, i miseri eroi del film Il traditore. Il chiaro e frivolo diffondersi della luce, armonizzato con l’essenza gaia della Danza di Venere. Una scena romantica di Piccole donne, incorniciata come un quadro sul muro. Un duetto d’amore un poco falso, in una luce falsamente dolce di sottobosco notturno, che si raduna con evidente artifizio sui protagonisti di Accadde una notte. Un senso angoscioso d’orrido e di mistero che proietta ombre lunghe sull’irreale apparizione di Nosferatu. I figuri di Servizio speciale. Il favoleggiato fascino dell’Imperatrice Caterina. L’emozione lirica di Charlot è volutamente “messa in prosa” da una illuminazione priva di ricerche, schematica, fatta apposta per semplificare i piani. Effetto? Una fotografia da cartellino

segnaletico. Risultato: Charlot. La scanzonata e commossa osservazione degli ambienti piccolo borghesi, che ha costituito uno dei temi prediletti da René Clair, è raggiunta tra l’altro per via di un’illuminazione povera ed uniforme, dove tutto appare chiaro e le ombre non incidono. Gusto crepuscolare e malizioso che sottilmente si pervade d’una parodistica rievocazione delle fotografie dell’“epoca” (Un cappello di paglia di Firenze). Invece un Murnau della prima maniera (Tartufo) lavora tutto sulla luce. Le sue fantasie, i suoi stessi personaggi appaiono e si muovono come generati da un contrasto d’ombre e di splendori fin troppo maturi e ricchi. Incantatore dell’irreale, egli lavora per masse in opposizione, manovrando i suoi riflettori, con lo stesso spirito con cui pittori od illustratori luministi inventavano le loro misteriose sorgenti di luce. Analogamente scavando entro la luce, picchiando con la luce su masse emergenti da grotte d’ombra, il Pabst di Tragedia della miniera consegue alcuni dei suoi momenti di più tragico realismo. Dalla illuminazione quasi anonima, con cui nella Folla aveva scandito le epopee quotidiane della gente qualunque, Vidor passa agli effetti concentrati e mistici di Alleluja! e di Nostro pane quotidiano. Epica religiosa e puritana, dove nessuno è protagonista e tutti sono eroi: e prorompono, pertanto, come accesi dalla luce interiore della loro fede spesso fanatica. Luce eguale e quasi metallica su una tastiera di bianconeri, quella di Ragazze in uniforme rivelava con una oggettività spietata l’ordine apparente di un mondo, nel cui sottosuolo era “vietato guardare”. E nondimeno una morbidezza vaga, enigmaticamente tenera, inafferrabile quasi, fasciava le figure come una connivente allusione alla torbida, segreta psicologia di quelle fanciulle.

Scrivere con la luce

Si è mai pensato quanto felice, quanto azzeccata sia la parola “fotografia”? Un vero colpo di genio, una vera divinazione. Gli etimologisti, i professori di greco non avranno bisogno di sfoggiare troppo peregrina sapienza, per spiegarvi che quella parola deriva appunto dal greco: photos, luce e gràphein, scrivere. Dal greco come tanti nomi di medicina, di fisica e, in genere, di scienza dall’emicrania alla parallasse, ai celenterati. Ma “fotografia”, ma scrittura con la luce – nonostante la sua origine grave e accademica – ha già in sé, come senso e come suono, qualcosa di più lieve, aereo, miracoloso. Lasciamo andare che una parola della stessa famiglia, quasi dello stesso conio, perché fondata sulla medesima associazione d’idee: la parola pyrogravure (“scrittura col fuoco”) è anch’essa gentilmente evocatoria: e ci richiama il tempo che le nostre nonne eran signorine e preparavano, con arte gentile e diligente, il dono per l’onomastico del babbo o per il compleanno del fidanzato. Fotografia, nome e cose, ha avuto ben altro destino. Soprattutto dal giorno in cui la camera oscura è divenuta la base di una tecnica e di un’arte nuova: la cinematografica. Che cosa fa il cinematografo, se non narrar poemi e romanzi di vita e d’amore e di morte, se non riportar testimonianze di eventi nuovi e paesi più o meno conosciuti, se non documentare aspetti di cose curiose? Appunto, il cinema scrive e descrive: scrive storie e novelle, descrive fatti e luoghi. Scrive e descrive con la luce. Il nome “fotografia” risale al 1839, e fu creato da Daguerre, perfezionatore del procedimento che così si battezza. Che proprio la luce fosse l’agente a cui si dovevano le alterazioni, gli annerimenti riscontrati sopra superfici di carta o di pelle o d’altro, spalmate con nitrato d’argento, non fu certo un fenomeno d’osservazione ovvia ed immediata: tanto è vero che solo nel 1772 se ne accorse Johann Heinrich Schulze, e fu il primo. Egli aggiunse del nitrato d’argento ad un impasto di cera e lo mise in una bottiglia bianca. Ritagliò poi delle lettere di carta opaca e le incollò sulla bottiglia. Dopo di aver lasciato la bottiglia per un po’ di tempo al sole, poté leggere le parole bianche su fondo nero. La scoperta che altri sali d’argento – come cloruro e ioduro – erano dotati della stessa proprietà, l’applicazione della camera oscura (già conosciuta da tempo) per ottenere immagini su carte sensibilizzate con quei sali, sono le prime tappe della nascente fotografia. E venne l’ora di celebrità del pittore parigino Daguerre, il quale, con un processo che ora si direbbe d’inversione, riuscì ad ottenere dei positivi su lastre di rame, e stabilì due fasi, destinate a diventar fondamentali nel processo fotografico: la formazione di un’immagine invisibile (“immagine latente”) rivelata poi dallo sviluppo, e il “fissaggio” di tale immagine. Tempo romantico delle prime fotografie, delle Carlotte e delle Speranze di gozzaniana memoria: “I dagherrotipi, figure sognanti in perplessità”. Un altro passo, sebbene in un primo tempo meno fortunato, fu compiuto dalla Talbottipia. L’inglese Talbot otteneva immagini negative sopra supporti di carta: immagini che si potevano copiare a piacere, pressandole sulla carta d’identica preparazione, e non ancora impressionata. Era l’origine dell’odierno processo positivo-negativo, e della stampa fotografica. Nuove tappe, a volo d’uccello: si abbandona la carta come supporto, e la si sostituisce col vetro prima, poi con la celluloide (1889). Era ormai l’età della pellicola. Non si trattava che di progredire e di migliorare: e questa è la storia a tutti nota della fotografia. E la luce captata a riprodurre immagini fisse, e perfino un poco statiche, veniva finalmente domata ad un uso più affine alla sua natura veloce e raggiante: a scriver fantasie volubili, a

registrare le cose semoventi. Era nato il cinema.

Dive: maschere e miti del cinema

Presentiamo: 1. La signora di tutti, croce e delizia del romanticismo carnale; 2. La donna dalla fatalità magnetica e impenetrabile; 3. La figlia della borghesia, fragile, difficile e severa; 4. La “mondana”; 5. La passionata, patetica e struggente. Questi tipi, che citiamo come esempi, senza la pretesa di esaurirne la gamma, comparivano nel cinema italiano (cioè, press’a poco mondiale) di anteguerra, sotto i nomi di Francesca Bertini, Lyda Borelli, Maria Jacobini, Hesperia, Leda Gys. Il fenomeno attrice è stato sempre una incarnazione del desiderio amoroso degli uomini e quindi, direttamente o di rimbalzo, dell’ideale autobiografico delle donne. Nel parallelogramma delle forze che creano il successo di una grande attrice, bisogna dunque calcolare una duplice corrente di frenesia: tanto più caratteristica, quando l’attrice si specifica in diva cinematografica. Il che spiega la sotterranea vena prossenetica di cui si alimenta il cinema; la quale, s’intende, non è da confondersi con la volgare taccia di erotismo che spesso cade su quest’arte. Vogliamo dire, in sostanza, che per noi la voga contagiosa del cinema è anche determinata da quell’amore che è una delle molle del mondo, senza tuttavia dover venire a patti con le complicità di bassa lega. In apparenza le nostre cinque dive sono superate, travolte dall’onda dei tempi nel ridicolo e nella sazietà. D’accordo, se ci mettiamo dal punto di vista dei frequentatori del cinema. Ben vive, invece, e tutt’altro che superate da un altro punto di vista. Che cos’è la Dietrich, se non la “signora di tutti” nel senso più epidemico: croce e delizia, negli anni ’30, del “romanticismo carnale”, come lo fu negli anni ’15 la Bertini? E che cosa la Garbo se non una Lyda Borelli del tempo nostro, stilizzata nelle linee della fanciulla nordica di neve e di gelo, sogno d’amore che l’esotismo americano si è incaricato di divulgare per conto di tutti gli altri? Allo stesso titolo la sua precorritrice si stilizzava nel gusto “Secessione” e nella mimica delle figure di Klimt. Quanto ad Hesperia basterà segnare pochissime, forse anzi due sole tappe, delle innumerevoli incarnazioni rigermogliate sul suo facile tipo: Lil Dagover, Billie Dove. Anche Maria Jacobini cambierà parecchi nomi, e potrà chiamarsi persino Dolores Costello e Constance Bennett, per arrivare a fissarsi nella qualità suprema di Norma Shearer, in cui si sublima, diremmo che si sottilizza, in una cifra ancora più signorile, un certo romanticismo per buone famiglie. Leda Gys, finalmente, rifrange il suo colore in un arcobaleno che può andare da una Nita Naldi ad una Dolores Del Rio, ad una Lupe Vélez o persino ad una Myrna Loy. In che, dunque, sono sopravvissute queste prime dive? Nel “tipo”, come si è detto: nello schema, nel modulo. In una parola, sono rimaste come maschere. Tutte le arti destinate ad agire su una massa che pesa e reagisce con la sua presenza fisica debbono presupporre ed elaborare una serie molto precisa di comuni denominatori sentimentali, d’una matematica, infallibile presa sul pubblico: sentimento religioso nell’antico dramma classico; passioni d’ogni genere e varietà nel dramma romantico e nel cinema. Ma mentre il dramma classico, a causa del suo ideale religioso, deve imporre alla figura degli attori una maschera che li strappi alla loro realtà di tutti i giorni, il dramma neo-classico e romantico presume d’infrangere questa maschera e s’illude di “esprimere” la diretta realtà: denudando i volti, chiamando finalmente le donne in scena a recitare le parti femminili. Un momento ancora e arriveremo al cinema. Per intanto: diremo anche noi che il teatro romantico ha ucciso la maschera? Sì, e no. Sì, dove si dia alla parola maschera un significato di strumento scenico. No, se per maschere s’intendono i tipi psicologici, simboli fissi di una mitologia.

In realtà, il teatro romantico non ha fatto che sostituire ad una mitologia religiosa ed eroica una mitologia borghese e passionale. E pertanto, nelle sue profonde zone ispiratrici, non ha potuto a meno di creare le maschere fondamentali delle passioni. Senonché, queste maschere si sono dissolte fino a far perdere di vista il loro primitivo carattere. E, per riferirci soltanto all’attore, il fenomeno è molto semplice. Recitando a volto nudo, egli tradisce tutti gli urti che riceve dall’interno e dall’esterno: primo fra tutti quello del pubblico che l’influenza, deformandolo e costringendolo attimo per attimo a modellarsi sulla suggestione che gli viene dalla platea. Per l’attore cinematografico, invece, la presenza del pubblico non determina più nulla. D’altronde, siamo tutti d’accordo che le sue reazioni individuali erano già quasi completamente abolite, dal momento in cui egli era divenuto materia nelle mani del regista, che l’aveva scelto proprio per le sue qualità fisiche, fisionomiche, o magari vocali. E il film, che lo blocca in un testo definitivo, ci autorizza in un certo senso a parlare di irrigidimento e quindi a constatare, sia pure sottilmente, la rinascita delle maschere. Concludendo: il poeta che nel dramma classico era padrone di un attore nascosto dietro la maschera, che nel dramma romantico doveva subire la collaborazione, quando non addirittura i dispotismi, dell’interprete, nel cinema ridiventa l’arbitro assoluto. E il suo attore riunisce pertanto in sé la mobilità del volto di carne e lo schematismo imperturbabile della maschera. In funzione appunto della loro mobilità, le maschere, e in particolare le dive, diventano figurini, documenti del gusto circostante. E il regista che le sceglie, segue anch’egli quel gusto; ma divenuto ispirazione originale, in lui che è uomo del suo tempo. Il criterio intuitivo che presiede alla scelta è precisamente quello di trovare la più attuale incarnazione di quei tali comuni denominatori, a cui si accennava. Naturalmente la fabbricazione della diva può essere perfettamente adeguata alle preferenze del tempo, senza che per questo divenga elemento di poesia. In tal caso non sussiste che il documento di costume. Ecco perché i due tipi permanenti, i miti passionali ai quali rispondono la Borelli e la Garbo, la Bertini e la Dietrich si evolvono plasticamente dall’una all’altra attrice. Constatiamo, per esempio. La Dietrich o la Garbo ci appaiono meno sommarie, anzi addirittura più belle che la Bertini o la Borelli. Effetto di ottica, per cui la moda di ieri suscita sempre in noi un sorriso, come qualcosa di ingenuo e di goffo? Effetto della maturazione tecnica ed estetica, per cui il cinema è arrivato a modulare tutte le sfumature con una gamma infinitamente più sensibile? Magari anche per questo. Ma c’è qualche cosa di più specifico che importa di notare. Il pubblico del primo cinema, anche se non proveniva materialmente dalla frequentazione del teatro, era ancora educato, per eredità, quasi per nascita, alla prospettiva teatrale. Anche se gonfiato di numero, rimaneva sostanzialmente pubblico di teatro: e però dominato dal gusto borghese. Del quale una delle caratteristiche era accettare da secoli quella che si può chiamare la convenzione della ribalta. Cioè rassegnarsi a prendere la parte per il tutto, e ad integrare per conto proprio l’illusione di cui gli accenti dell’attore e il quadro scenico non fornivano che lo spunto. Così Dina Galli, certamente non più ragazzina, poteva trionfare negli straccetti di Scampolo adolescente; Ermete Zacconi portava la sua epa ottocentesca sotto i panni del giovane Osvald di Spettri. Riconosciamo a quel pubblico una rispettabile facoltà di idealizzare, anche quando il pretesto non ne valeva del tutto la pena. Per la sua stessa prepotenza visiva, il cinema muto reagisce in parte a quella convenzione. Sceglie sì dal teatro le attrici, ma tiene solo le più belle e respinge le altre, si chiamino magari Eleonora Duse (Cenere). E tuttavia anche le elette rimangono attrici di teatro. Il pubblico è pronto ad accettarle, con occhi ancora presi dalla convenzione della ribalta. Perciò, quando il cinema comincia a sottolineare l’elemento bellezza, circondandola con un gusto oleografico e adescatore, esasperando il trucco teatrale con occhiaie di passione, gote scavate, pallori sensazionali, labbra straordinariamente accese, il pubblico grida già al miracolo. Storicamente e socialmente questo

spiega perché la Bertini e la Borelli poterono apparire come miti della passione fatta bella alle generazioni del ’14 e del ’15. Ma anche dove non era ancora arte, il cinema era già industria. Né alla mentalità industriale poteva mancare l’acume necessario per intendere che, in quanto spettacolo, il cinema muto si fondava prevalentemente sul valore della bellezza femminile; che in teatro, se anche deficiente, poteva essere compensato dalla suggestione del dialogo. Uno degli aspetti salienti della storia industriale del cinema è pertanto il progressivo ed intensivo perfezionamento della bellezza femminile. Tutte le conquiste tecniche, anche se nate per altri scopi, convergono al miglioramento della diva: truccaggio sempre più leggero e aderente, modellatura del corpo entro vesti via via più rivelatrici della persona, soppressione di quasi tutti gli indumenti intimi che alterino la linea, illuminazione magica e connivente, uso dei primi piani. E non ci si obbietti che alcune di queste sono conquiste della moda, e non del cinema: oggi la moda si inventa ad Hollywood. Parigi, come le altre capitali, non fa che lanciarne i prodotti. Così il film ha portato la donna bella a contatto diretto, immediato, quasi sensuale, col pubblico, eccitandolo ad esigerla sempre più bella. Dalla prospettiva del palcoscenico, che rendeva accettabile il “meno bello del vero”, si arriva pertanto al “più bello del vero”: passaggio dalla convenzione al realismo, dal realismo ad un super-realismo. Processo di portata immensa, addirittura rivoluzionario. In altri tempi, seguendo i moduli del ragionamento borghese, si sarebbe detto che raffinando il tipo della bella donna si contribuiva a renderla sempre più inaccessibile, lontana, suprema. Oggi le cose sono cambiate: la bella Otero poteva essere l’appannaggio di qualche squisita côterie di ricchi e di viveurs. Joan Crawford è di tutti, anche dell’operaio. Il biglietto da una lira, al buio anonimo, complice e livellatore, consentono al viveur come all’operaio lo stesso abbandono confidenziale e spregiudicato. Il cinema è proletario: ha abolito le classi di fronte alla donna. Ogni uomo è quindi tratto, più o meno consciamente, a identificare nei vari tipi della vita la perfezione del proprio ideale amoroso. A cui la donna risponde riplasmandosi volto, corpo, vesti – su quegli esemplari. Per tal modo il cinema ha agito sul pubblico. E in che misura il pubblico ha reagito sul cinema? Chiedendogli di rappresentare quella immediatezza di rapporti, quella cameratesca disinvoltura, sportiva e proletaria, che i tempi sono venuti maturando. I tipi fondamentali della diva erano quelli che erano, fin dai primordi. Ma i tentativi di offrirne delle variazioni e dei derivati erano ambigui e timidi: sottospecie della Borelli (Pina Menichelli), della Bertini (Italia Almirante Manzini). Piccoli esperimenti di tipi minori e più speciali (Diomira Jacobini). Oggi, maturata la trionfale affermazione della diva come fenomeno di bellezza, il pubblico si fa ardito a chiedere che gli vengano offerte in edizione suprema tutte le donne di tutti i suoi amori. E la qualità astrale della Garbo può giungere fino a specificarsi in un mito di bellezza isterica e perturbante (Katharine Hepburn); il coefficiente femminile d’una Marlene materializzarsi nella sana e popolaresca schiettezza fisica di Clara Bow e di Jean Harlow, o in quella più svergognata di Mae West. Il mito della fanciulla e della “ragazzina”, la Diomira Jacobini di altri tempi, si apre come un ventaglio: Lilian Gish, Janet Gaynor, Loretta Young, Margaret Sullavan, Maureen O’Sullivan, e via di seguito. La “mondana” ancora impacciata nel teatralismo di Hesperia, si scioglie, si semplifica e si precisa in tutta la tastiera, che da Lya De Putti e Pola Negri può arrivare sino ad Anna Sten. E finalmente Leda Gys divenuta “mezzo sangue”, come s’è detto, con Dolores Del Rio e Lupe Velez, sfrena tutta l’orgia degli esotismi: dal magnifico trucco di Raquel Torres (Ombre bianche) e di Reri (Tabù) ad Anna May Wong, all’autenticità di Mina McKinney (Allelujah!) e di Lotus Lang (Eskimo).

Chaplin-Charlot

Non è un caso che il cosiddetto “complesso di inferiorità” sia stato scoperto e descritto dal prof. Sigmund Freud, israelita di Vienna. Tutti i moti, tutte le reazioni dell’anima possono diventare materia di poesia: la volontà di potenza come il complesso di inferiorità. Di quest’ultimo Charlot è l’eroe, Chaplin il poeta. Le labbra fini e sottili di Charlot hanno quella dolcezza umana, che è come un raggio sul pianto. Gli occhi riscattano in una luce umida e amica il volto di “quello che prende gli schiaffi”. Egli cammina, sì, eretto; ma su piedi divaricati, strascicanti come portassero il peso rinunciatario d’un corpo stanco da secoli. Con quelle labbra si sorride al sogno, con quegli occhi si accarezza il sogno, con quell’andatura dolente e miserabile si cammina per le trite strade del mondo, quando il sogno s’è spento. È Charlot l’ultimo figlio dei sognatori del Ghetto? È, come dicono, un israelita? In ogni caso, egli porta nella battaglia di sassi una paura – atavica, infusa nel sangue – d’aver la testa di vetro. Da quali avi, per quali vie è giunto fino a lui questo senso d’incubo millenario, questa angoscia della persecuzione radicatasi come terrore degli uomini, del mondo, della natura medesima? Si direbbe che anche la fortuna, quando lo coglie, sia una manovra del caso e gli crolli addosso come una beffa. Non gli vale la trepida e tenace fede nella giustizia e nella bontà: a scorgerne in concreto i segni, barcolla quasi ricevesse un pugno in pieno petto. Finale del Pellegrino. L’evaso dal carcere che, attraverso tante peripezie, ha cercato la libertà e la redenzione, giunge al palo di confine, oltre il quale gli si schiuderebbero finalmente gli orizzonti sospirati. Ma il suo primo impulso, il più istintivo, è di tornare indietro, di rimettersi nelle mani della giustizia. E lo Sceriffo che l’ha portato fino a quella soglia, offrendogli tacitamente l’occasione dello scampo, deve buttarlo a forza di là dalla frontiera, dove il vento della prateria lo investe in fronte come la grande, vivifica aria della libertà. Perché questo tipo psicologico, più o meno frainteso nelle “comiche” dell’anteguerra, dove già le sue principali caratteristiche erano esposte e declinate, diventa poi personaggio popolare, fratello di tutti, proverbio e specchio dell’anima comune? Badiamo che a Chaplin è riuscita la parabola in cui aveva trionfato un Molière: l’attore popolare che matura e arricchisce la propria materia, farsesca e tradizionale, fino alla grande poesia comica. Ora questo è stato tentato da quasi tutti gli attori della stessa origine (un Petrolini, un Viviani, per fare degli esempi prossimi) ma senza giungere a creare, sotto le smorfie e le contorsioni della commedia, una nuova obbiezione tragica al mondo. Perché, invece, Chaplin vi è arrivato? Perché la sua ispirazione coincide con la stato d’animo diffuso nel dopoguerra. La tragedia aveva segnato la fine di un certo feudalismo dell’individuo borghese, sovrano nella propria casa, nella propria azienda, nella propria città, nella propria classe, nel proprio Stato. La strage aveva rimesso l’uomo di fronte alla sua precarietà. Tornato dalla trincea, egli si sentì smarrito ed esule tra le masse che assumevano una nuova coscienza e una funzione nuova. Quindi il senso d’un paradiso perduto, di una caduta irrimediabile dal mondo euforico e accomodante del secolo scorso. Ricerca di un rifugio, della casa tra la bufera. Fosse pure l’incredibile e minacciata capanna della Febbre dell’oro: quella librata sull’abisso, fra la tormenta. Vi si ritroveranno magari i compagni ostili, ma sarà ancor lecito di sognare il pollo. Quest’angoscia trovò, allora, innumerevoli poeti. È di quegli anni, per tutta l’Europa, il postumo e contagioso successo dei personaggi “inadeguati” di Čechov e, in Italia, il riconoscimento di un vecchio romanziere, Italo Svevo, i cui libri tramati intorno a un protagonista del genere, erano

rimasti fino allora senza eco. Di questo personaggio-incubo, di questo parente povero, Chaplin trova l’espressione definitiva: la più plastica e la più celebre. Adattabile, conciliante, candido, tutto gli par semplice fino al momento dell’immancabile insuccesso. La sua “inettitudine” è quella dell’angelo travestito che tocca terra per una piccola svista sovrannaturale. Buffo non è lui, se ci si pensa, ma soltanto il contrasto tra lui e il suo travestimento. L’automatismo del travestimento. L’involontaria sproporzione tra le attitudini dell’angelo e l’andazzo degli uomini. Eccolo. Parte con gli altri pionieri alla ricerca dell’oro, non perché ne sia convinto, ma per seguire il grande moto migratorio che travolge lui con i compagni di quell’ora. E sull’immenso nevaio veramente gli rispunta l’ala dell’angelo, grottesca e sublime come le penne di quelli sognati nel Monello: è la spropositata bilancia da fruttivendolo che gli batte sulle gambe. Anche l’oro, diamine, deve potersi pesare come tutte le altre cose. Si sa che Chaplin viene dal music-hall. Figlio di attori di varietà, conobbe i primi successi con la compagnia di Fred Karno, specializzata nella pantomima inglese. Dalla quale egli tolse i temi per le sue prime comiche, allorquando venne scritturato dalla casa di film Keystone. Il debutto fu uno scandalo per i produttori: si parlò perfino di rescindere il contratto. Chaplin mutava i farraginosi inseguimenti di moda in motivi impensati di fantasia, trasformava in artisti anche i buffoni. Ma è essenziale che, malgrado tutto, egli abbia salvato la forma esteriore della pantomima. Il che non significa soltanto fiducia nella eccellenza dei propri mezzi mimici. Anzi, sottolinea una volta di più la geniale espansività della grande arte, che può diventar popolare senza perdere nulla della propria altezza. Così, per esempio, i melodrammi di Verdi, a traverso l’apparente facilità della melodia, arrivano a identificare i più ardui e segreti accenti della passione. Il lazzo non è che l’intermediario tra Chaplin e il pubblico. La pantomima: il salvacondotto che permette alla sua tragedia di giungere alle profondità più pudiche e dolenti. Si capisce come un’espressione così ricca non abbia più bisogno della parola. D’altronde, un dialogo per i film di Chaplin dovrebbe essere scritto da uno Shakespeare o da un Molière. Se volessimo divertirci con le ipotesi, un Bernard Shaw sarebbe già troppo prosastico, polemico e ragionatore. Si arriva al prodigio di una comica che rimuove il senso universale della compassione. Rifiorisce nel più insospettato dei luoghi la comunione del dolore umano. Come ogni grande poeta comico, Chaplin salva il suo protagonista, redimendolo dalla comicità in un’attitudine di bellezza morale. Nel caso di Charlot questo riscatto si sviluppa su di un motivo di candore e di “bontà”. Punto delicato in cui la bellezza morale si identifica con la bellezza estetica. Lo stile in cui Chaplin realizza il suo personaggio avrà certamente ereditato dal music-hall e dalla pantomima la precisione cristallina e il tempismo puntuale, infallibile degli effetti. Sta di fatto però che esso ha creato – e ne è rimasto un esempio finora unico – il pretto stile cinematografico. E nessuno ci venga a dire che quel cinema si riduceva a pura pantomima. Certo, dalla vecchia farsa mimica, Chaplin ha appreso le ricette della risata irresistibile. Potrebbe addirittura fabbricarne dei cataloghi. È proprio lui che ha spiegato la teoria del gelato: se ne fate un proiettile contro un uomo qualunque, nessuno ride; ma se lo buttate contro un personaggio autorevole, fatalmente scatta il grande scroscio di ilarità collettiva. E tuttavia la forza di Chaplin consiste proprio nel rivelare con la poesia quello che poi la scienza ha dichiarato: il lazzo è un’astuzia dell’inconscio, una forma di difesa per eludere quegli atti, che la parte più cieca dell’essere vorrebbe compiere. Ricacciati dall’inibizione – specie di censura dell’anima – quegli atti si cercano un’altra uscita. Sono risapute, per esempio, le disavventure della vita amorosa e coniugale di Chaplin, conseguenze senza dubbio di qualche inconscia inibizione. Ma Chaplin ha una maschera in cui riplasma idealmente la propria autobiografia, e alla quale affida i suoi lazzi. Così, poniamo, nelle Luci della città Charlot, seduto accanto ad una ragazza, è deputato ad eludere gli impulsi d’amore del poeta nella gag del fischietto inghiottito.

Mondo di “inibito”, quello di Chaplin porta anche perciò la data del dopoguerra. Naturale, quindi, che lo stile coincida con le più tipiche forme assunte dall’arte di quegli anni, che predilesse lo scorcio. Si contrapponeva allora – e non solo nelle opere, ma anche nelle polemiche l’arte di scorcio, sintetica e fulminea, a quella di allusione, diffusiva e influitiva. Si ricordi Cocteau teorico di Stravinskij, di Picasso, di De Chirico, che partiva in guerra contro “la musica che si ascolta col capo tra le mani”. In quella musica, da Wagner in giù, era colpito tutto un gusto di magie fluttuanti e sognose. Si ricordi per converso il successo effimero, di paccottiglia, conseguito da quegli aforismi pseudo-penetranti che Ramón Gómez de la Serna battezzava greguerías. Tutta la mimica di Charlot è una formidabile “riuscita” nel genere di scorcio. Un esempio corsivo: quello di Shoulder Arms (che in Italia comparve contaminato con A Dog’s Life sotto il titolo complessivo di Vita da cani). Giunto in una casupola diroccata del fronte francese, Charlot deve spiegare alla sperduta padroncina la propria nazionalità americana. E allora si dà un pugno in un occhio (veder le stelle), traccia nell’aria delle striscie, e poi agita una immaginaria bandiera. Esempio supremo: il “pellegrino” che si attacca alle sbarre della biglietteria ferroviaria, simboleggiando insieme la metafora di Sing-Sing e l’angoscia dell’evaso. Qui concisione e precisione diventano la stessa cosa, e si chiamano classicità. Ci domandiamo ora: il clima attuale, di travolgenti energie e ideologie collettive, è ancora così propizio ad una poesia dell’individuo, remissiva ed anarchica, come quella di Charlot? Egli è un eroe romantico, sempre più sperduto in mezzo ad un mondo che non vuol più saperne di nostalgici ritorni dell’individuo. La solitudine e la malinconia, di cui le sue opere erano infuse, oggi possono anche parer presagi. Non conosciamo Tempi moderni, ma dalle anticipazioni è lecito perfin supporre che si tratti di un supremo tentativo di ripossedere, attraverso la satira patetica, un dominio che sfugge. Uno dei maestri della grande critica europea, Francesco De Sanctis, negava valore alla prosa di Giacomo Leopardi, argomentando che risultava inadeguato ai “tempi del telegrafo e del vapore”. Donde può anche sorgere un capzioso malinteso, che varrà a metterci sull’avviso. Non oseremmo, dunque, contestare a Chaplin il diritto di ricantarci, in tempi signoreggiati da masse e collettivismi, la poesia contrita e fallimentare dell’individuo e dell’“inettitudine”. E peraltro quella poesia, protratta di là dal suo clima, rischia di vivere sentimentalmente di soli ricordi, stilisticamente di sole trovate e virtuosismi. Il sospetto è lecito. E in ogni caso, Chaplin, con la sua grazia intelligente, può anche averne espresso la malinconica coscienza quando – a musicare le Luci della città – evocava con tanta e così efficace nostalgia le vecchie note della Violetera.

Il senso dell’avventura

Per estrinsecare in arte le proprie tendenze (sogni, aspirazioni, angosce), ogni epoca ha manifestato una affinità elettiva per certe determinate materie: quella greca per la pietra, il rinascimento per il colore come forma e come tono, il mondo moderno, sia alla vigilia che nel pieno sviluppo del romanticismo, per il suono. La nostra età, protagonista di grandi sommovimenti sociali, trova a portata di mano – tempestivo come tutte le grandi invenzioni – il cinematografo. Arte di movimento, esso è subito pronto a tradurre il movimento nella sua dinamica più vistosa. Ma, come contenuto sentimentale, come impulso dell’anima, il movimento è alla base di ogni senso dell’avventura, qualunque ne sia poi il colore patetico. Il cinema è dunque lo strumento immediato di quel tale senso dell’avventura, che caratterizza il mondo contemporaneo. Non è un caso che il primo film su trama narrativa e realistica abbia scelto come spunto una vicenda di inseguimenti e di assalti (L’assalto al treno): cioè l’avventura nel suo schematismo più semplice e vistoso. Né si creda che questa fosse solo una ingenua esibizione di movimento per meglio imporre le risorse e le meraviglie spettacolari del nuovo ritrovato meccanico. Era la via più ovvia, ma anche la via maestra. Per diventare vera arte il cinema non avrà che da spiritualizzare e approfondire sempre più quella primitiva ispirazione. Perché il cinema è poesia di massa, o non è affatto poesia, bensì sterile conato ed astratta velleità (tesi pseudo-filosofiche: Germaniaavanguardia: Francia). Ora la poesia del nostro tempo, quella sentita da tutti, è lievitata da un nuovo romanticismo dell’avventura. Le età di crisi sogliono presentare una doppia faccia: l’una rinunciataria e decadente, l’altra fiduciosa e carica di aneliti. Il medioevo eludeva l’angoscia della fine del mondo nelle epopee del cavaliere errante e nelle grandi migrazioni crociate. Il primo travaglio romantico (secolo XVIII) cercava evasione e scampo in continenti di idillio, popolati da “buoni selvaggi”, dove l’avventura era tutta dell’anima, fiduciosa di ricuperare la sua primitiva, quasi edenica, innocenza nello stato di natura. Il cavaliere riviveva nel pioniere. E il mondo contemporaneo, se non crede più nell’utopia, evade a suo modo nella natura, nei liberi orizzonti, che spalancano paesi ancora incontaminati. Per questa specie di evasione i paesi anglosassoni avevano pronto il mito: quello del pioniere. Il che spiegherà, tra parentesi, la forza prevalente del film americano. Il pioniere è l’uomo della prateria, degli orizzonti puri e sconfinati, dove il rischio, la generosità e l’amore hanno un respiro più pieno e sfogato: è, in una parola, l’ideale della vita all’aria aperta, virile, giovanile, in maniche di camicia. Si potrebbe addirittura stabilire una equazione tra avventura e cinema. Nel senso che tutti i “contenuti”, per diventare veramente cinematografici, debbono essere manipolati in modo da apparir condotti ed anzi travolti da una ventata di avventura. Persino la commedia sentimentale. Lasciamo stare l’esempio di Accadde una notte, che appare fin troppo comodo e caratteristico: la prateria diventa l’autostrada, i ranchos e le soste dei pionieri si trasformano nei piccoli alberghi di fortuna, e il cavallo di Tom Mix nell’autobus di Clark Gable, giornalista, cioè cavaliere errante del mondo meccanico. E lasciamo stare anche i gangsters che portano l’avventura per le “vie della città”. Ma Lubitsch? La sua grazia preziosa di borghese della vecchia Europa sembrerebbe porlo in antitesi col mondo del western e dei pionieri. E viceversa è proprio lui che ha insegnato a concertare le commedie più

frivole, sbarazzine e decadenti come altrettante fughe e rincorse: nel modo di sceneggiare, di inquadrare, di smozzicare episodi e dialoghi, intercalandoli l’uno dentro l’altro con una specie di fantasia avventurosa ed errabonda. Ma Lubitsch, uomo paradossale, è destinato anche in questo campo a rappresentare il paradosso. In lui il senso dell’avventura è ridotto ad una sorta di spiritello latente; mentre il carattere più autentico ne è invece la serietà poetica e morale. Si pensi alla purità nuova del paesaggio, al suo aroma fresco e amaro di prateria. Si pensi alla semplicità elementare delle passioni in quegli uomini che, tornati alla natura, vi hanno ritrovato una sorta di maturo candore, quasi la istintività estrema della fanciullezza trapiantata su un forza primigenia di centauri. Per loro il bianco è bianco, e il nero è nero: eroici nella bontà, micidiali nell’ira, perduti, quando son perduti, a segno che solo il miracolo può salvarli. Ma si pensi soprattutto all’idealizzazione della donna, che rappresenta addirittura il “tipo” della vergine dolce, fiera, incontaminabile, ardita, capace d’ogni abnegazione. Castellane risorte nella ginnica e giovanile epopea del Far-West, spiritata anch’essa dai suoi demoni e dai suoi mostri: l’oro, il whisky, il cattivo sceriffo e soprattutto la donna della perdizione. Tutta l’intima forza di questo mondo, che nelle sue posizioni esteriori può diventare fanciullesco (sintomatiche, nei film del 1904-1905, le divulgazioni puramente spettacolose di un Buffalo Bill che disintegrava gli eroismi del pioniere in audacie da circo equestre), non si rigenera che per un ripullulare della sua autentica vena poetica, che è religiosa e puritana. Ricordiamo l’episodio del battesimo con la sabbia nell’avventura degli Eroi del deserto di William Wyler. Ricordiamo lo spirito quasi da sermone con cui l’antitesi tra le due donne, quella della purezza e quella della perdizione, era scavata nel Nostro pane quotidiano di King Vidor, regista intimamente pervaso di severa religiosità puritana. Per il puritano la salvazione non si raggiunge se non attraverso le opere (il lavoro, la lotta morale per il successo): quindi un invasato avventuroso dinamismo del fare. Si spiega pertanto che Vidor nei suoi film abbia trasfuso con la maggior serietà ed assolutezza il senso dell’avventura.

L’ardua vita di Greta Garbo

Talleyrand, al termine di una delle più felici carriere che il mondo abbia mai visto, esclamò: “Peutêtre eût-il mieux valu souffrir”. Greta Garbo, all’apice del successo, avrebbe confessato ad un amico svedese: “Mi domando se non ho mancato la mia vita”. La frase risale a pochi mesi or sono. Fino a nuovo ordine, la maschera biografica di questa donna che, in tutti i suoi film ha impersonato l’arduo fallimento di un destino, dovrà coincidere col “ruolo” abituale dell’attrice ed essere quella dell’infelicità. Come, fino a qualche tempo fa, era stata quella del mistero, dell’esistenza segreta che elude ogni indiscrezione. Con una donna come la Garbo, c’è sempre il pericolo di cadere nella letteratura. Ma c’è almeno un’altra frase che vien voglia di assestarle: quella famosa che la sorella Ismene rivolge ad Antigone: “Tu porti nel gelo un’anima di fuoco”. Greta è un’Antigone moderna, che mescola il fuoco ed il gelo. La sua vita? Tre frasi: “Sono nata in una casa. Sono cresciuta come crescono tutti. Non mi piaceva andare a scuola”. Correva il 1906, mese di novembre. La casa era quella di Karl Alfred Gustafsson, piccolo uomo d’affari di Stoccolma. Nel quartiere a sud del Mälaren, considerato allora al di fuori della “vera” città, quell’edificio popolare a cinque piani, tra isole di prati, non era certo la reggia di Cristina, vergine vichinga. E tuttavia per il film della Regina Cristina, Rouben Mamoulian ha saputo ricostruire, sia pure con facile gusto scenografico, il paese ideale in cui nascono le Grete Garbo: le fanciulle rudi e dolci, che si lavano la faccia con la neve, e che sembrano spiritualizzare il più sottile sex-appeal in un richiamo del focolare. Il paese di Greta Garbo bambina è quello che ha convertito una tradizione militare in una civiltà tecnica; l’epopea del secolo di Carlo XII nell’avventura degli esploratori antartici: il paese dove la donna è compagna ed eguale dell’uomo nell’amore e nel lavoro. A quattordici anni Greta perde il padre e s’impiega come commessa nel reparto modisteria dei Magazzini Bergstrom. Veramente la leggenda vuole che la sua prima tappa sia stata in un negozio di barbiere, e che addirittura ella abbia spennelleggiato le guance degli avventori. Un giorno, ai primi tempi delle sue fortune americane, le fu contestato questo episodio: “Non mi concerne”, rispose, “e anche se fosse vero non me ne importerebbe”. Raffinata astuzia pubblicitaria? Certo che qui Greta smentisce, in qualche modo, la tendenza popolare che, nelle grandi favorite della fortuna, ama cercare le origini più umili. Non si ammette che una trionfatrice possa venire dalla classe media. O una plebea risalita o, per lo meno, una regina caduta. Oggi, ad un’altra stella: Elissa Landi, si attribuisce sangue imperiale. “Se la mia infanzia sia stata felice – spiega Greta – se da ragazza abbia fatto la serva, se sia innamorata, e tutte le cose che si vogliono sapere da me, quale differenza porterebbero nei personaggi che interpreto? Il pubblico mi conosce dal mio lavoro. Che può interessare la mia vita privata? Sono un essere umano come tutti gli altri, e voglio che qualche cosa mi venga lasciata. Non intendo di essere come un pesce in un acquario”. Vera o falsa la storia del barbiere, quella della modisteria è l’unica che conti, perché la sola che faccia parte del destino di Greta. Un giorno, 1921, un capo-reparto preparava il lancio di una collezione di cappelli per la primavera. “Ne provi uno” le chiese. Pochi minuti dopo, tutta la serie seguiva in uno studio fotografico quel capo-reparto con la sua improvvisata modella. E pochi giorni dopo, tutti i giornali portavano grandi fotografie di quei cappelli sul capo di Greta Gustafsson. O, più inaspettatamente, di Greta sotto quei cappelli. Da questo punto, tutto il resto non è che una conseguenza. “Quel volto” era stato intravisto. Ma non ancora “quel volto” che tutti hanno in mente. A riplasmarlo avranno concorso, per meglio

magnetizzare le folle di tutto il mondo, la tecnica americana e magari quel coefficiente di sofferenza – non solo morale, ma anche fisica – che pare uno dei difficili privilegi di Greta. Ci sono donne che non hanno giovinezza e che raggiungono tutta la forza del loro tipo, soltanto quando si smaterializzano e perdono i segni dell’età, per assumere un solo segno, astrale e quasi simbolico: quello del prestigio femminile. La Garbo è una di queste. Per intanto, dalle fotografie pubblicitarie ella passa al film pubblicitario: “star” reclamistica di una società diretta da un certo capitano Ring. Come assunto, uno sketch pubblicitario non può essere che l’anti-Greta: l’attrice ridotta a manichino e materia. Si aggiunga che il primo di questi fìlmetti fu anche comico. Ci si domanda se Greta fosse allora bella nel senso corrente e facile. Ci si domanda quale potesse essere il suo fascino. Qualcosa doveva esserci senza dubbio, se Eric Petschler, direttore di teatro, dovendo fare un film, pensò subito a quella modesta e ignota “diva” pubblicitaria, dichiarando: “Ha un’autentica personalità”. Nella storia del cinema, e più ancora delle “dive”, quindici anni bastano per riportarci alla notte dei tempi. Nella notte dei tempi avviene qui una serie di dissolvenze incrociate. La signorina Gustafsson lavora nel film Pietro il vagabondo di Petschler; la vede il grande regista Mauritz Stiller, la chiama a Rasinda (la piccola Hollywood svedese di allora, la sede della Svensk), le cambia nome, la fa diventare Greta Garbo. Amore di altri paesi per l’esotismo dei nomi italiani: Greta Garbo, Pola Negri, Elissa Landi. Ma Garbo è ben trovato: non s’abbandona alla presunta facilità di una melodia calda e mediterranea: è asciutto, magro, imperioso. Somiglia già al risentito profilo di dieci anni dopo. Stiller affida alla sua “scoperta” la parte della contessa Dolina nella Leggenda di Gösta Berling dal racconto di Selma Lagerlöf. L’attrice scandinava nella saga scandinava: si prepara di lunga mano l’alone del “fascino nordico”? Certo è che oggi la Garbo ci appare a volte come la più misteriosa creatura di una fiaba di Andersen. Ma l’invenzione di Stiller non era così presaga: anzi, le fotografie del suo film ci mostrano una Garbo ancora imbozzolata in una semplicità casalinga, bonaria, e persino un poco paffuta. L’Europa registra il successo e G.W. Pabst lo sancisce, affiancando la Garbo ad Asta Nielsen nella Via senza gioia, tragico episodio del disagio viennese susseguito alla guerra. Dopo la luminosa parabola della cinematografia italiana, la Germania era allora l’università intellettuale del cinema, dove registi ed attori ricevevano il diploma dottorale, per andare poi ad esercitare in America la professione. Dissolvenza incrociata. Su una banchina del porto di New York una povera ragazza svedese, in un modesto abito da viaggio di taglio provinciale, accanto ad un gigante dall’aspetto duro e un po’ ripulsivo, si fa prendere una di quelle istantanee di prammatica, che i giornali illustrati intitolano Sbarco in America. Sono venuti ad accoglierla il console del suo paese ed un funzionario della Metro Goldwyn. Una fanciulla svedese le ha messo tra le mani un mazzo di fiori. “La ragazza svedese portata qui da Stiller” – così la chiamano a Culver City. Non sa l’inglese, e la gente non s’interessa a lei. “Un tipo stravagante” si dice tutt’al più, un po’ interdetti dal riserbo con cui ella risponde alla generale indifferenza. Ritrosa, se ne va come un’antica eroina a consolarsi lungo i lidi del mare amico: quel mare, che lontano bagna le rive della sua patria. Per “lanciarla”, cominciano a farle qualche fotografia: in atto, per esempio, di stringere la mano ad un celebre pugilatore. “Se un giorno diventerò celebre – ella esclama – celebre come Lilian Gish, non vorrò pubblicità”. Il romanzo di Greta Garbo non è che la vita della donna che fa i film di Greta Garbo. Tutto il resto è silenzio, per quest’attrice dall’amletico pallore. Un giorno (vera o falsa anche questa) alcuni suoi servi licenziati vollero fare un’indiscrezione: tradirla, insomma. E raccontarono che un fabbricante svedese, per fare omaggio all’illustre connazionale, le aveva spedito una cassetta delle sue più rinomate conserve alimentari. Greta aveva nascosto il dono sotto la toletta della

propria camera, che adoperava come tavolino da lavoro. Tra una battuta e l’altra, tra una scena e l’altra dei copioni che stava studiando, si regalava una piccola ghiottoneria nazionale, estratta da quel ripostiglio. Vero o falso, il pettegolezzo dimostra appunto che il segreto di Greta è di non avere altri segreti, se non quelli promessi e rivelati dallo schermo. Quando si ricama sulla vita di Greta, non si fa che tradurre in termini quotidiani i fatti di quell’esistenza e di quella storia più vere, che sono l’esistenza e la storia dell’attrice. Mettiamo: il preteso suicidio di Stiller per amore di lei; che può magari essere credibile, ma come allegoria. Insieme avevano traversato l’oceano, per lavorare in comune; ma Greta col Torrente (il primo film americano con Ricardo Cortez, diretto da Monta Bell) aveva iniziato da sola la sua ascesa di stella. Stiller avrebbe dovuto raggiungerla nel secondo lavoro: La tentatrice, ma non era arrivato ancora ad impadronirsi della lavorazione americana. E il film tocca a Fred Niblo. Stiller muore: disfatta fisica, ovvero disperazione? Certo, per noi, la tragica conclusione di una pena d’amore perduta, morte di amore. Il destino gli aveva strappato la sua “donna”; creatura, o creazione. Quel “fascino nordico”, che primo egli aveva intuito, a cui la sua nostalgia d’uomo del settentrione espatriato in California avrebbe forse dato l’accento più struggente, diventava la preda di altri registi, distaccati e pronti a coglierne il puro richiamo ed incanto esotico. Tra le sue mani, Greta avrebbe realizzato, con ancora più purezza, una scandinava “donna delle nevi e del mare”, o non avrebbe finito col diventare un’ossessione come Marlene per Sternberg? Ad ogni modo, malgrado il razionale sfruttamento americano, Greta sembra salvare, e per virtù propria, quel fascino nordico, che è senza dubbio una delle chiavi del suo successo. La giostra dei “fascini” gode i favori del nostro tempo: da quello slavo e andaluso in poi, sono sfilati tutti: viennese o ungherese, creolo o mulatto o hawaiano. Ogni successo lancia un tipo in serie e la formula ne diviene commerciale e di comune dominio. Ma Greta ha la forza di rimanere esclusiva, di sventare i ricalchi. Il “fascino nordico” si identifica con lei, che lo eleva ad una severità come di costume, di modello spirituale. E forse questo spiega anche un certo strano isolamento di Greta; il suo successo non è fisico; quello stesso pubblico che la cerca e l’adora sullo schermo probabilmente non ha mai sognato di averla accanto a sé nella vita. La tentatrice è una data per Greta, perché durante la lavorazione di questo film le giunse da Stoccolma l’annunzio ch’era morta sua sorella. “Forse quella tragedia le diede un sentimento più profondo della parte che stava interpretando – notò Fred Niblo – anzi fu proprio l’elemento essenziale della sua profondità espressiva”. Comincia di qui la grande sequenza: interviene come regista Clarence Brown, che la vuole protagonista di un dramma tratto da Sudermann: La carne e il diavolo, e le dà come compagno John Gilbert. Ma in questa unione d’arte – che si prolunga nel film seguente: la prima Anna Karenina (intitolata in americano Love) – il pubblico, il mondo si ostinano a cercare il romanzo vissuto, l’amore vero, l’amore in carne ed ossa. Non valgono le smentite: non val nemmeno la nuova voce che Greta, tornata in patria per le vacanze, si sia fidanzata con un principe svedese. Si vuole anzi che l’impetuoso Gilbert, alla notizia, si sia precipitato dietro l’infedele per riportarla in America. Ma l’amore: che cos’è per Greta l’amore? “L’amore in sé non è realmente drammatico – ella commenta –. Le emozioni più vive ci vengono da ciò che si nasconde dietro l’amore e dietro le avventure romantiche. Io non so quale sia veramente l’emozione più grande. Me lo domando. L’odio no, perché è turpe. Non credo che un film potrebbe aver come tema soltanto l’odio. Forse il sacrificio è qualcosa di più profondo. Ma è un compagno dell’amore. Dopo tutto, credo che la nostra più intensa emozione sia proprio la vita: la vita che include in sé ogni altra emozione”. Il secondo tema fondamentale di Greta, quello dell’attrice, entra in questo punto. Quel tanto di biografia che si può estrarre da una vita così avara di sé, viene decisamente intuito dagli impresari americani, che ne fanno l’asse del nuovo film. Hollywood sa sempre riconoscere il momento in cui le più grandi e singolari rivelazioni dello schermo sono mature a tradire, sia pure in una maniera trasposta, qualcuna delle loro note più intime. Di recente a Katharine Hepburn hanno fatto

confessare in Gloria del mattino il suo tormento di essere e di affermarsi grande attrice. Nel 1928 a Greta affidano la Donna divina (un romanzo sulla vita di Sarah Bernhardt), in cui ella potrà esprimere la sua aspirazione quasi religiosa verso la figura della inimitabile interprete: dell’“Unique”. In questo coincidere dei motivi d’arte con quelli di vita, i due grandi temi di Greta, quello del Nord e quello dell’attrice, si attirano l’un l’altro e s’intrecciano come in una sapiente sinfonia. La bambina che alla porta del Reale Teatro Drammatico di Stoccolma aveva atteso ansiosa per vedere passare il celebre Lars Hanson, ora si ritrova proprio a fianco di lui, e a dirigerla è chiamato Sjöström, un altro scandinavo. Questa gente del nord risente nella collaborazione quel tremore quasi sacro, quella missione della scena che aveva permesso ai loro paesi di creare forse la più alta poesia di teatro nella seconda metà del secolo scorso, e di mandarne un Ibsen messaggero al mondo. Questa scuola aveva allenato l’attore a modi di recitazione resi più intimi, espressivi, immediati dal calore raccolto degli “interni” nordici. E fin quasi dai primordi della cinematografia internazionale la Svezia, con interpreti come Asta Nielsen, aveva dato l’esempio di un giuoco (coevo ed opposto a quello italiano più pantomimico), tutto interiore, sobrio, suggestivo nell’estremo riserbo. A questa famiglia Greta si è saputa mantener fedele, malgrado l’America. Con la Donna divina ella passa definitivamente nel novero delle “stelle”. Eppure “stella” non sarà mai. Il carattere tipico della diva americana è quello di divulgarsi attraverso una impulsiva e naturale vivacità di modi, mentre Greta difende prima di tutto il pudore dei propri sentimenti. La passione delle sue eroine, non per questo più fiacca, acquista una specie di sublimità dal severo controllo della maschera, che la tiene prigioniera e non ne lascia filtrare se non l’essenza più spirituale, quasi come un fluido magnetico. Sfumature, trasognamenti, un abbandonarsi senza concedersi, un contrarsi appena accennato nel riso e nel pianto. Nel frattempo pare che Greta lentamente si acclimati ad Hollywood: studia l’inglese per fare a meno degli interpreti in teatro, e un giorno riesce perfino a dire: “Fra poco sarò una vera americana: ho imparato a suonare l’ukulele”. Il che non le impedisce tuttavia di cadere in certi lapsus rimasti storici, come quello di esclamare: “Io sono importante” quando voleva semplicemente intendere: “Io sono importata”. Il bisticcio però non è privo di significato: importata Greta rimane sempre. Se pure compra una vetturetta come le colleghe, non si costruisce tuttavia il villino e continua ad abitare in appartamenti d’affitto. Per via séguita a indossare i suoi tailleurs da ragazza svedese, che la fanno confondere con una figliola come tutte le altre. Nella vita non porta trucco: non conosce che quello di scena. E sì che da bambina, durante le lunghe soste alle porte dei palcoscenici, una delle cose che più l’esaltavano era il lieve odore che ne proveniva di mastici, creme e belletti di truccaggio. Appunto perché importata non somiglia a nessun’altra, e questo è ciò che la fa parere “importante”. Dalla Donna divina cominciano le riprove della stella studiata in tutti i possibili attributi d’una femminilità eccezionale e magnetica: la Donna misteriosa, Il bacio, la Donna che ama, la Woman of Affairs (giunto in Italia col titolo Destino) e finalmente il trionfo che per un momento poté sembrare l’ultimo: Orchidea selvaggia. Il parlato nel frattempo aveva vinto. Come avrebbe potuto la straniera Greta superare la prova? Le si escogitò una parte di fanciulla svedese (Anna Christie) per giustificare quel tanto di accento nativo che ella pareva dovesse inevitabilmente portare nella parlata americana. “Son qui che imparo l’inglese, ed ecco che mi costringono a riprendere per tutto il film un dialetto svedese”, ella protestava con Mary Dressler. Si iniziano le prove, Clarence Brown è nervoso. Come riuscirà la voce di Greta, quella sua voce di contralto anche troppo profondo? Finalmente ella appare. La prima scena rappresenta una taverna sul porto di New York. “La signorina Garbo è di scena!”. Ella riesce a contenere il batticuore, ed a comporsi un viso imperturbabile, quello che gli americani chiamano una “faccia da poker”.“Gimme a drink of whiskey”. La prima battuta era detta. Il discorso continuava a filare.

Brown dà l’alt per sentire la registrazione. Una piccola folla perplessa attende davanti ad un autoparlante. “Gimme a drink of whiskey”. Greta replica: “Ma questa voce non somiglia alla mia”. Tutti gli attori dicono così, la prima volta che “si sentono”. Ma da quel momento nasce la nuova serie: dopo Anna Christie, Romanzo; poi La modella, Cortigiana, Mata Hari, Grand Hotel, Come tu mi vuoi, La regina Cristina, Il velo dipinto, Anna Karenina, ed ora Margherita Gauthier. La donna del Novecento per eccellenza non fa che riportare su moduli in apparenza moderni, accordati sulla sensibilità più nervosamente attuale, quel grande idolo della donna austera, misteriosa, inaccessibile che fu il sogno d’amore dei nostri vecchi dell’Ottocento. “Apparizione melodiosa del patimento creatore” come fu detto della sua sorella Eleonora Duse. E il suo romanzo, venti volte ritratto in venti diverse eroine, è sempre quello del sacrificio d’ogni altro bene al bene supremo dell’amore; la corsa di Sisifo dietro la mèta che cessa di esistere non appena toccata.

Miraggi di terre beate

L’isola di Circe non cessa di infestare la fantasia dei popoli d’occidente. Anche il cinema, da L’ultimo Eden in poi, coi suoi insistenti ritorni ai Mari del Sud, si è lasciato magnetizzare da questo tema inesauribile. Le civiltà che hanno avuto culla in Europa non sono, né furono mai, tipicamente sedentarie: istinto e destino le spingono a trasmigrare ed a navigare. La più illustre delle loro favole: quella mediterranea di Ulisse, compone il dissidio sempre rinascente tra il desiderio di viaggio e il bisogno di ritorno, l’impulso della curiosità e il richiamo della nostalgia, la necessità dell’azione e la dolcezza di appendere la spada al muro casalingo. Ma l’itinerario si arresta, sia pure provvisoriamente, davanti a Nausicaa ed a Circe: nel sogno dell’amore verginale e in quello dell’amore sensuale. L’isola, quest’oasi dell’avventura, questo miraggio del riposo dopo l’azione, è simboleggiata e vagheggiata sotto mille nomi in tutti i grandi movimenti migratorî ed imprese eroiche, che vi cercano l’Eden della felicità e dell’amore, l’incanto di contrade più dolci, fiorenti di idilli facili e meravigliosi. Promessa di paesi caldi ed esotici che si trasferisce a terre sempre più lontane, di mano in mano che i grandi popoli militari e commercianti, guerrieri e colonizzatori, allargano la loro conquista nel mondo: l’Italia per gli invasori del settentrione, le città e i paradisi dell’Oriente mediterraneo per i popoli medioevali, le Indie Orientali e quelle Occidentali più tardi e fino a tutto il romanticismo, i Mari del Sud dalla seconda metà del secolo scorso a venire fino a noi. Il cinema, che aveva localizzato nel West il senso pioniero dell’avventura, trova nei Mari del Sud il luogo ideale in cui cristallizzare la nostalgia dell’esotico. Ed è la prima volta, dall’Odissea in poi, che il miraggio di Nausicaa e di Circe si concreta in una realtà geografica a tutti accessibile; agli antipodi il navigatore bianco, travagliato e sognatore, trova le isole dell’eterna primavera, dove è abolita la condanna biblica del lavoro, dove le donne del suo stesso colore sono le più belle del mondo e giocano tra gli alberi e le acque senza coprirsi gli occhi all’apparire di Ulisse nudo. Alla cinematografia queste isole sono giunte attraverso grandi divulgazioni collettive, di marinai non meno che di turisti; ma quelle divulgazioni si erano anche specificate in arte attraverso due esempi massimi: quello letterario di Stevenson, quello pittorico di Gauguin. Stevenson nei Mari del Sud aveva cercato la piena salute, fisica e morale; Gauguin vi aveva chiesto una specie di salvazione estetica. In quelle prime rievocazioni, le delizie dell’isola di Circe si riscattavano, senza perdere nulla del loro incanto, nell’innocenza di Nausicaa. L’Eden riscoperto offriva anche l’illusione del paese al di qua del peccato. Non dimentichiamo come il fascino di Circe abbia sempre implicato, per la nostra antica morale, un senso di riprovazione, una condanna all’abbrutimento. Il riscopritore dell’esotico sullo schermo fu, nel 1921, Flaherty che con Nanuk l’eschimese esplorò l’algida bellezza della banchisa e la vita pura dei suoi abitatori, elevando il documentario a dignità d’arte vera, nonché ad una sorta di coerenza narrativa. Ma è sintomatico che, per il secondo di questi documentari, L’ultimo Eden, sia scoccato irresistibile l’appello dei Mari del Sud: proprio come tema fatale, predestinato, in una grande poesia dell’esotico. E precisamente dall’Ultimo Eden, anziché da Nanuk, data una moda dell’esotico, a base di Mari del Sud. Di fronte all’esempio dell’Ultimo Eden, il cinema riconosceva una felice coincidenza delle finalità artistiche con la necessità di presentare ambienti sempre nuovi. Come abbiamo già notato parlando del “senso dell’avventura”, le epoche di malessere spirituale sono avide di sconfinamenti. Negli anni agitati intorno al ’30 il pubblico del cinema era ormai abbastanza saturo di turbamento per poter

riconoscere anche lui nei Mari del Sud quell’Eden che gli intellettuali vi avevano scoperto qualche decina di anni prima. E allora comincia, da parte del cinema, l’affannosa industria di trovare il romanzo di questi paesi fatati. E intelligentemente ci si accorge che il vero romanzo è quello intrinseco ad ogni possibile Eden: è lo stesso mito edenico, la beatitudine che si incrina e si dissolve al contatto con la civiltà attivistica (Ombre bianche). Per l’uomo occidentale non c’è possibilità di redenzione se non in quella fatica, in quel “sudore della fronte”, che sono suo retaggio dal giorno in cui egli è stato scacciato dal Paradiso terrestre. Il riscatto, la felicità senza più dolore né peccato non possono essere che l’illusione di un attimo. Arrivato a portare l’Eden a contatto con tutti, il cinema par che subisca anch’esso la condanna biblica, e che debba giungere fatalmente a mostrarne la rovina (il tabarin di Ombre bianche). Ombre bianche rappresenta una corruzione della primitiva purezza dell’Ultimo Eden. Si sa che il film sarebbe dovuto toccare a Flaherty, e che poi lo girò Van Dyke. Ma Flaherty vi collaborò, pare, nel periodo preparatorio. La spiritualità di Ombre bianche fa pensare ancora a Flaherty, mentre quel tanto di formula commerciale ch’esso accetta è senza dubbio di Van Dyke, come dimostrano (salvo la parentesi di Eskimo) i film successivi di questo regista. E invece quel senso omerico (i giuochi di fanciulle sul fiume) che alita a tratti in Ombre bianche, rinasce, sia pure trasposto e su tutt’altro registro, nell’Uomo di Aran. Dopo l’equilibrio instabile di Tabù, che Murnau non realizzò senza la collaborazione dichiarata ed evidente di Flaherty, il romanzo comincia a deteriorarsi in romanzetto, porti pure la firma di Vidor (Luana, la vergine sacra). Mentre, d’altra parte, si moltiplicano le variazioni deteriori del vezzo esotico: India, Cina, Africa, Marocco, Insulindia, Siria, Arabia polite e addomesticate nei teatri di posa, formule eccitanti e pimentate, utili non solo pel film di commercio, ma persino propizie ai nomi fuori classe come quelli di Marlene e di Greta. Svilito il basso esotismo, bisognava giungere ad una nuova coscienza del tema principale, anch’esso abusato e consumato. E questa è proprio una delle conquiste dell’ultimo film che torna sull’argomento: La tragedia del Bounty. Appunto perché due dei personaggi (Clark Gable e Franchot Tone), sdraiati accanto alle loro bellezze canache, hanno un po’ l’aria di due ragazzi d’America che passino il week-end a Long Island, il film riesce ad esprimere una fase dell’“esotico” meno ingenua: il sentimento cioè, che quelle isole hanno perduto ogni potere di promettere l’assoluta purezza, la puerile felicità e sono divenute un paradiso puramente sensuale. Un certo candore, una certa innocenza sopravvivono ancora su quei lidi fioriti (nel vecchio capo, per esempio, che ricorda un po’ esteriormente quello di Ombre bianche), ma ai bianchi non servono più. Essi devono strapparsene: l’uno per cercare una anarchica libertà, l’altro per farsi esempio e promotore di una disciplina marinara più dignitosa ed umana. L’idea pessimistica dell’isola di Circe ha ripreso il sopravvento. E sono gli americani a restituire, con l’efficacia di una drammaturgia veramente complessa e superiore, il vecchio mito a noi europei. È ammirevole soprattutto come, pur nel fascino d’una colorita ed epica avventura marinara, questo film riesca a serbare in equilibrio l’umanità dei tre protagonisti. Per modo che ognuno riscatta le sue colpe in una forma di superiore virtù: il capitano che attenua la ripugnanza della sua mentalità antiquata e feroce in un eroismo spietato; il “secondo” che paga la libertà e l’amore di una purissima ninfa canaca con un crudele e volontario esilio; il giovane aspirante che riconquista il diritto alla vita con una sorta di fervore missionario. Raramente tre maschere di attori, Laughton, Gable e Tone, hanno meglio definito tre opposti e complessi caratteri. Ed è singolare in questo film, ma non inspiegabile, l’energia con cui gli americani traducono in immagini quello spirito imperiale che fu già dei britanni. Basti notare che il suo regista non è altri che il Frank Lloyd di Cavalcata.

Controprove

Il cinema, avrebbe detto il vecchio Paolo Ferrari, è un’arte ruminativa. Con l’aria di non badare a spese, di scialare il nuovo, amministra invece avaramente, e conserva e riutilizza, tutte le situazioni in cui abbia riscontrato qualche capacità di “funzionare”. La vecchia cinematografìa italiana non ha avuto paura di replicar due volte il Quovadis?, due volte lo stesso regista Diamant-Berger ha realizzato I tre moschettieri, Greta Garbo è stata due volte Anna Karenina, il sonoro ha già avuto due Show Boat, America e Germania di recente han gareggiato nel tradurre in film la vita di Johan August Suter, l’“imperatore della California”. E sono esempi a caso, tolti dal sacco che ne rigurgita. Mancanza di fantasia? No. Prima di tutto il cinema ha diritto di considerare a breve scadenza superati i film dei quali, esaurito in pochi anni il ciclo commerciale, non rimane che un titolo. Non che il pubblico dimentichi: provatevi a citargli Ma l’amor mio non muore! o Cabiria, e lo vedrete prontamente reagire, come al richiamo di una memoria ereditaria. Ma in realtà non ha serbato che immagini confuse e generiche, ricordi di ricordi: tanto è vero che, rimesso di fronte a quelle vecchie opere gloriose, non ha potuto esimersi da una certa compassione, tra divertita e vergognata, quale si proverebbe al rivedere le scene della propria infanzia. In secondo luogo, quanto la moda è volubile e la tecnica vertiginosamente progressiva, altrettanto il sentimento rimane attaccato a certe costanti. Con persuasione ostinata o, dove non possa, con fedeltà nostalgica. E la storia del cinema, quantunque svoltasi in un periodo di fulminee evoluzioni e rivoluzioni sociali, politiche, tecniche ed artistiche, incide su un periodo troppo breve, perché le costanti del sentimento abbiano avuto il tempo di alterarsi. Certe tipiche storie d’amore o d’altre passioni, hanno conservato oggi lo stesso prestigio che avevano ieri e l’altrieri. Logico pertanto che la massa sia ancora avida di ritrovarle in forme che non contraddicano ai propri bisogni attuali. 1. “Alfredo, Alfredo di questo cuore…”. La vecchia cronaca della mondana dal gran cuore, riferita da Dumas figlio, portata alle più nude altezze umane dalla musica di Verdi, aveva per la prima volta cercato la misura della propria “fotogenia” in una interpretazione di Sarah Bernhardt [1911], rimasta famosa come insuccesso. Nel 1915 riviveva i suoi ultimi aneliti ottocenteschi, incarnata da Hesperia (“forse un po’ troppo prosperosa e decorativa per dover morire di etisia”, giudicavano i cronisti) e poi da Francesca Bertini. Il lavoro che era stato pietra di paragone per le dominatrici della scena, lo ridiventava per quelle dello schermo. “Non fu per vedere la Signora delle camelie che il pubblico accorse al cinema, ma per gustare l’arte della Bertini, attraverso il personaggio di Margherita Gauthier”. Così le cronache. 2. “Libiamo, libiamo nei lieti calici…”. Ma quella cronaca è appunto una delle grandi costanti sentimentali sopravvissute nella nostalgia delle masse novecentiste, anche se non è più di moda morire di “mal sottile”. E se le tarde rappresentanti dello spirito ottocentesco (Hesperia, Bertini) avevano tentato di rammodernare il costume, il film francese di Yvonne Printemps (1934) cerca invece di rivivere illustrativamente quella nostalgia, con lo stesso gusto di “stampa dell’epoca”, che aveva presieduto ad una delle più recenti riesumazioni teatrali del dramma dumasiano, per opera di Georges Pitoëff. 3. “Di quell’amor, di quell’amor ch’è palpito…”. Anche la Nazimova c’era passata (1921). Erano gli anni in cui il Novecento cominciava a darsi orgogliosamente il proprio nome, ed a volersi riconoscere nelle proprie caratteristiche nuove d’arte, di pensiero, di gusto. II momento critico della lotta delle generazioni, della rivolta dei figli contro i padri. La modernità delle fogge e degli

ambienti, in questa Signora delle Camelie, non è desiderio di aderire ai tempi, ma proposito polemico. Si erano da poco, ricordiamolo, concluse le discussioni sull’opportunità di recitare Amleto in marsina. 4. “Ed or contenta in questi ameni luoghi…”. Controprova della diva, la Garbo vi era fatalmente predestinata. Attuale, sincera, esente da pregiudizi tradizionalistici, la versione americana [Margherita Gauthier] assume l’epoca di quella cronaca tragica ed amorosa come puro vincolo di moda e di costume, per realizzarne poi le situazioni in immediato contatto con le esigenze sentimentali del pubblico d’oggi. Ecco Armando e Margherita liberati da ogni poesia di maniera e ricondotti al persuasivo denominatore di due giovani innamorati, contagiosamente belli, che fanno colazione all’aria aperta. 5. “L’amore d’Alfredo pur esso mi manca…”. Ritroveremo la Garbo di Romanzo, diffusa in cerchie ancora più vaste dal prestigio di un personaggio più accreditato? Certo questa interpretazione risponderà ad una duplice richiesta: da un punto di vista patetico e narrativo, che cosa sarà una Signora delle camelie rifatta ad uso e secondo i canoni del 1936? Da un punto di vista umano, come riapparirà la Garbo, donna eminentemente nuova, nelle fogge e nella psicologia dell’eroina dell’altro ieri? 6. “Qui testimon vi chiamo ch’ora pagata io l’ho!…”. Il vecchio film di Norma Talmadge non esitava ad affrontare in pieno la situazione melodrammatica, senza tuttavia la velleità di riassaporare sottilmente quel mondo. La fotografia dichiara senza ritegno che l’importante è la Talmadge nella parte di Margherita Gauthier. Gli altri personaggi sono schierati come dei figuranti d’opera. 7. “Addio del passato bei sogni ridenti!…”. Meglio che mai, di fronte all’esempio che presentiamo, si misura la necessità, per il cinema, di tornare su temi già esplorati. La Talmadge fu certamente ai suoi tempi una diva, e ancora serba attraverso le fotografie un prestigio superiore. Ma il modo di visualizzare la situazione, quell’ingenuità immediata di una Signora delle camelie che spira tra le camelie, ci autorizzano a conchiudere che oggi le stesse cose si saprebbero dire cinematograficamente con più intimità e con simbologia meno banale. E non ci si accusi per questo di creder meno alla vitalità artistica del cinema. 8. “Violetta, deh pensateci…”. Appunto perché più capace di intimità, il cinema odierno può puntare su una vecchia carta il nome e l’arte d’una delle sue massime dive. E sentirsi più libero nel racconto, quanto più è sicuro di saperne rispettare e rievocare lo spirito. Non per niente la nuova Signora delle camelie è stata affidata ad un maestro del genere, George Cukor, il regista di Piccole donne e del Copperfield. Dove un sottile ma autentico aroma ottocentesco riusciva ad alitare, segreto e suggestivo, anche tra gli ingranaggi della grande macchina spettacolare. 9. Meno divulgato come favola che la Signora delle camelie, ma altrettanto, e senza dubbio più grossolanamente popolare è il tema del Giardino di Allah, che già nel 1928 aveva avuto una importante versione cinematografica per opera di Rex Ingram (il regista dei Quattro cavalieri dell’Apocalisse, del Prigioniero di Zenda, di Scaramouche, di Mare Nostrum). Interpreti Alice Terry e Ivan Petrovich. Mentre Margherita Gauthier è la peccatrice redenta dall’amore e da una malattia romanticamente sentita come qualcosa di etereo e di sublime, qui una donna, irresponsabilmente fatale, fa del saggio un peccatore. In un caso simile, la materia Marlene s’imponeva. Perfino ci si domanderà se sia stata la qualità dell’attrice a suggerire la ripresa del soggetto, o non viceversa il soggetto a rendere obbligatoria una tale protagonista. 10. Quella che oggi è Marlene al fianco di Charles Boyer, era più occasionalmente, nel 1928, Alice Terry al fianco di Ivan Petrovich. Sotto la guida di Ingram, ella aveva raggiunto alcune singolari riuscite in Mare Nostrum, interpretando una parte di spia. Ma dalla spia alla “donna fatale”, nei drammi cinematografici, il passo è molto breve. E la si assunse senz’altro nella figura della “fatalità” più vistosa: l’incarnazione del demonio che viene a tentar l’anacoreta.

11. Sotto la specie della donna che attraversa, inconscia, la strada dell’uomo per travolgerlo alla perdizione, Marlene – che forse, quanto a “fatalità”, non ha più nulla da rivelare – ci offre un’ultima variante della sua maschera. Un momento di “fatalità” senz’incubo né peso carnale di tristezza. L’aspetto di candore e di sorriso che ha l’apparizione femminile, allorché è mandata a sconvolgere le vite. E sarà forse l’unico angolo, sotto cui Boleslawski avrà tentato di parzialmente rinnovare Marlene. Non egli certo era l’artista abbastanza autonomo da saper riprendere per conto proprio il tentativo egoistico e personale con cui Lubitsch, in Desiderio, aveva giocato a spezzare il vecchio calco della diva. Se, a giudicare dal soggetto, la donna fatale torna in pieno, a giudicare dalle fotografie ritornano in pieno alcuni motivi di illuminazione e di decorazione cari a Sternberg. 12. La “costante” sentimentale che ha permesso di riprendere oggi Il giardino di Allah è quel terrore della donna come elemento di catastrofe che, nella società borghese e recente, si è identificato col dramma del padre di famiglia strappato ai suoi doveri e legami dal disordine di un amore illecito. Ricordiamo che i giornali di ieri dedicavano ampiamente le loro cronache ai cassieri che si rovinavano per l’amante. Spesso il cinema specula ancora, e con prontezza, su questi residui del sentimento borghese. E Il giardino di Allah esalta appunto quel tipo di dramma, sublimando la figura del padre di famiglia in quella più essenziale e simbolica del santo. Del monaco, del trappista che – per inganno, per la sua stessa ingenua pietà – raccoglie la donna che lo indurrà a calpestare i suoi voti. 13. Nell’antica agiografia, era quella la storia delle tentazioni che insidiavano gli eremiti e gli stiliti della Tebaide. Nella letteratura a noi vicina (a parte Flaubert e La tentazione di Sant’Antonio, a parte il giuoco di Anatole France in Thaïs), essa ha suggerito, per esempio, a Tolstoij la motivazione spirituale di Padre Sergio. A suo modo, Il giardino di Allah rielabora quella storia, chiedendo più o meno esplicitamente autorità e forza persuasiva al ricordo ascetico e religioso dei deserti della Tebaide. “Giardino di Allah” è per gli Arabi il deserto: il deserto a cui può accedere solo la gente di fede, perché Dio vi fa sentire le sue collere e vi esercita le sue punizioni. 14. Certo Il giardino di Allah, sfruttato come controprova di Marlene (o viceversa) fornisce dei curiosi elementi di giudizio circa il destino di questa diva. Intanto quella non rappresenta l’unica ragione del ritorno al vecchio soggetto: ricco degli spunti paesistici e cromatici più banalmente graditi (deserto, oasi, costumi esotici), esso si prestava altrettanto bene per una controprova del film a colori. In secondo luogo, si conclude che la Dietrich non viene mai messa, come la Garbo, a confronto con le più grandi ed illustri interpretazioni, né con le eroine più familiari alla massa, e quindi più facilmente giudicabili. Eccettuata l’Imperatrice Caterina, in cui poteva subire paragoni più o meno celebri (dalla Dagover [Caterina di Russia], per esempio, alla Bergner [La grande Caterina]), per lei sono sempre stati escogitati dei “casi” piuttosto speciosi. Forse perché il fenomeno “diva” è in lei tanto soverchiante, da far dimenticare, o tenere in sottordine, perfino le versatili possibilità dell’attrice.

Si riproducono in anastatica i cinque fotoarticoli – “Attore o regista?”, “Passato e presente di Romeo e Giulietta”, “Misteri e poesia dell’illuminazione”, “Dive: maschere e miti del Cinema”, “Controprove” – apparsi su Cinema tra il luglio e il novembre 1936, nei quali il testo è strettamente legato alle immagini.

Gloria del mattino

“Sì, Mister Easton, io adoro New York. È una città meravigliosa, e mi piace di passeggiare e passeggiare, e guardare e guardare. Invece, vedete, a Franklin, se uscite a passeggio, vi infilate per uno stradone dove non c’è altro che grandi alberi e campi di qua e di là. E tuttavia, io non so dire, qualcosa c’è anche lì, in quei campi, che vi dà un senso di esser grande e sola”. Se alla supposta Franklin si sostituisca la vera Hartford, piccola città del Connecticut, si ritroverà concentrata in una battuta di film, tutta l’adolescenza di Katharine Hepburn, piccola borghese, figlia di un medico di provincia, torturata dal “portentoso male” di darsi alle scene. Una ragazza che, ad incontrarla nella vita, avrebbe prodotto quel disagio, quell’imprecisabile repulsione che si diffonde intorno a certe signorine isteriche. Frigidità e nel contempo eccesso: prendere tutte le cose con esasperazione, eccetto quelle che sono comunemente le cose della vita. Un miraggio, uno scopo in lei c’era; ma nessuno poteva capirlo, perché non era certamente quello connaturale alla donna. Una ragazza americana senza flirt e senza avventure. Creatura scomoda e, a quei tempi, nemmeno bella. Immaginiamo il solito cataclisma ipotetico in cui vadano perduti tutti i documenti di un’arte o di una civiltà: le biblioteche e magari, nel caso nostro, le filmoteche. Che cosa vorremmo che sopravvivesse, per ricordare ai posteri la più vera Hepburn? Quel passaggio di Gloria del mattino, dove, naufragati tutti i tentativi di diventare una grande attrice, poi anche quelli di diventare una piccola attrice, la povera Miss Eva (al secolo Katharine Hepburn), balla in un caffè notturno, quasi nuda, sotto uno spropositato sombrero messicano. Donna certamente, anche troppo, ma con l’aspetto miserabile e pietoso di una bimba malcresciuta: quel visetto triangolare che dovrebbe sorridere per necessità di mestiere e non riesce ad esprimere che lo spaesamento o, peggio, lo sgomento di una catastrofe; quel corpicino ossuto che s’incava tra le spalle e lo sterno; quelle gambe, che la magrezza fa parere distorte, agitantisi in un trepestio inutile, senza trovare mai la disinvoltura e la grazia della danza. Rielaborato e realizzato in termini di spettacolo cinematografico, quest’episodio simboleggia il momento critico del destino della Hepburn: quello in cui la sua passione, e il coraggio stesso che ella mette nell’affrontare le conseguenze, possono d’improvviso precipitarla nel nulla od elevarla ai fastigi. Arrivata a New York dalla provincia, ella comincia a far la via crucis delle agenzie teatrali. Ironia di impresari di fronte al suo entusiasmo loquace e inesperto. Promesse per l’indomani alle quali si crede la prima volta, magari la seconda; ma la terza non vi si crede già più; e tuttavia ci si ostina, come per un ingrato dovere verso se stessi, a picchiare ancora a quelle porte. Qualcuno ha voluto aver fede in lei, e le ha fatto dare una piccola parte in una commedia. Poteva essere l’“occasione” agognata. Ma la smania della grande occasione, il mito della “sconosciuta”, che si afferma grande attrice con una sola battuta, la spingono a strafare. Ed è “protestata” alle prime prove. Scompare, allora: per orgoglio si dà alla latitanza. E ogni giorno è una rinuncia nuova, una nuova decadenza. Purché gli amici non sappiano nulla, e la credano occupatissima, carica di scritture e d’impegni, intenta a studiare, a perfezionarsi. E se per caso ne incontra uno per via, e non riesce a sfuggirlo, gli getta in faccia che a primavera deve iniziare una grande tournée shakespeariana. Quell’amico è un attore, un maestro di recitazione: lei, pronta, gli offre perfino un posto in compagnia. L’occasione è sempre un caso, mai un appuntamento. Quella sera Eva-Katharine non aveva mangiato: la tazza di caffè, che aveva fatto il gesto di pagarsi e che l’amico aveva voluto offrirle, non è certo bastata a lenire una fame diuturna. C’è una festa, un ricevimento in casa

dell’impresario col quale ella aveva tentato la prima prova al suo giungere a New York. L’amico ve la conduce quasi a violenza. Inutile ch’ella protesti pel povero tailleur consumato e liso, che disegna compassionevolmente la sua magrezza. Quell’aria di gioia, quel contorno di gente a successo, una coppa, una sola, di champagne, vincono in un attimo tutti i passati mesi di decadenza e di umiliazione: “Oh! Tutto m’interessa! È per questo che un giorno io sarò una grande attrice. È perché mi guardo intorno e assimilo e capisco. Di tutto bisogna saper fare tesoro, di tutto, non credete?”. Le serpeggi pure d’intorno ancora un poco d’ironia, o di pietà: ella non sente più nulla. Sente solo di credere in se stessa. Si butta addosso uno scialle, sale ad una immaginaria ribalta, e recita una scena di Romeo e Giulietta: Romeo, Romeo, chiunque sia tu, Romeo Rinnega tuo padre, ricusane il nome, Il tuo nome, solo il tuo nome m’è nemico E che cosa è un nome? Quella che chiamiamo rosa, Anche sotto altro nome olezzerebbe …

Molti sorridono ancora, altri rimangono perplessi, solo qualcuno capisce d’essere di fronte ad una rivelazione: ma tra questi non è l’impresario. Gli ospiti vanno via ed Eva-Katharine rimane in quella casa, sicura di addormentarsi nell’amore e sulla via della gloria. Ancora un inganno. La parte secondaria che l’impresario le fa dare all’indomani, è solo l’indennizzo di un uomo a cui rimorde di avere abusato della debolezza di una fallita. Ma qualche volta la vita finisce proprio col dar ragione al romanzo che si era cercato in lei: la puerile speranza di poter surrogare la prima attrice, prima ancora di aver dato convincente prova di sé, diventa d’un tratto realtà. Il sogno di tutti i principianti, modellato sulla classica leggenda di un Arturo Toscanini che una sera, d’improvviso, dalle file dei violoncelli sale al podio del direttore d’orchestra, si avvera anche questa volta. Ed è il successo: anche troppo clamoroso, anche troppo repentino. Il successo che fatalmente costa la rinuncia all’amore. Sarà il trionfo d’un’ora, la fuggevole “gloria del mattino”? Così Katharine Hepburn ha raccontato, in Gloria del mattino, la propria vita, lasciandola sospesa nel punto in cui lo sforzo tenace di volontà che l’aveva portata a vincere, inaugura il nuovo sforzo di volontà che dovrà conservarle la vittoria. Al secolo Katharine è una donna sulla trentina, moglie di un avvocato, alta cinque piedi e tre pollici, di occhi grigi e capelli bruni, brava nuotatrice, esperta giocatrice di tennis e di golf. Le sue esperienze di palcoscenico hanno culminato in commedie come Death Takes a Holiday, Art and Mrs. Bottle, The Warrior’s Husband. Il suo primo film, Febbre di vivere, è del 1932. Seguirono, nella breve serie che tutti conoscono, Falena d’argento, Gloria del mattino, Piccole donne; nel ’34 Argento vivo, Amore tzigano; nel ’35 Quando si ama, Primo amore e Il diavolo è femmina; nel ’36 Maria di Scozia e il recentissimo Una donna si ribella. Se non fosse una frase da ufficio pubblicitario, bisognerebbe ripetere e convenire che la Hepburn è veramente la grande ribelle dello schermo. In un certo senso, c’è del virtuosismo anche in lei; ma un virtuosismo superiore: quello di spezzare i moduli della tradizionale interpretazione cinematografica, allo stesso modo come il virtuosismo di un Franz Listz si manifestava fra l’altro con lo spaccare i pianoforti. Il suo primo coraggio è quello di non temere la bruttezza. Quando in Piccole donne scopre che la sorella Amy sta a colloquio tenero col precettore di Laurie, si butta al suolo come un sacco, sbarrando il volto più decisamente “antiestetico” che una prima attrice abbia mai osato di esibire. Quel famoso “brutto” che ha formato lo scandalo dei visitatori delle mostre di pittura dell’ultimo mezzo secolo, non era ancora giunto con tanta decisione nelle arti spettacolari: è stata la Hepburn a introdurvelo. Anche nelle arti riservate a pubblici più ristretti, c’è stato un momento di crisi nel quale si è

infranto lo schema di una bellezza formale ormai immobile e del tutto esteriore, per riconquistare l’immediata espressione dell’anima. È la grande ora romantica di tutte le arti. Con pochissimi e dissimili precedenti, che possono toccare il punto Garbo e il punto Crawford, la Hepburn è la romantica dello schermo: una romantica ventesimo secolo che prende di petto anche i propri sentimentalismi. La sua apparente bruttezza è anima. Il suo ultimo film, Una donna si ribella, rappresenta una fanciulla in rivolta contro la soggezione, in cui viene tenuta la donna nel tradizionale ambiente di famiglia. E una tale polemica, che sarebbe apparsa così plausibile nel femminismo di qualche anno fa, è fatta risalire nientemeno che all’epoca vittoriana. In questo sottile accavallamento tra femminilità e femminismo, donde scatta la ribelle, è tutta l’essenza, ed anche il fascino, della Hepburn. In Febbre di vivere la vediamo rinunciare al proprio destino d’amore, cedere la via alla seconda giovinezza di sua madre, per rimanere ad assistere – compagna, sorella, infermiera – il padre pazzo. In Piccole donne la vediamo respingere le offerte d’amore di Laurie per un sacrificio di cui ella stessa non sa discernere i termini, per una specie di confuso miraggio di indipendenza. Con prepotenza, appunto, femministica la Hepburn è la prima attrice che sia riuscita ad infondere negli stessi soggetti, oltreché nella linea della interpretazione, l’esperienza profonda, autobiografica della propria vita. Chi volesse analizzare i suoi film non troverebbe che degli episodi di quell’avventura sentimentale che, col gusto tipicamente romantico della confessione, ella ha narrato per intero in Gloria del mattino. Era ovvio, quasi inevitabile, che una simile attrice dovesse finir con l’interpretare anche la vita ambiziosa e perduta di Maria di Scozia. Sotto il segno dello spirito e della poesia, si compie appunto la trasfigurazione in superiore bellezza di tutte quelle deformazioni che la Hepburn imprime al proprio volto. È il medesimo miracolo, patetico e lirico, per cui si può parlare di un potere affascinante dell’antipatico, odioso Stroheim.

La Bertini prima diva

C’era un tempo in cui gli uffici postali di Los Angeles avevano meno lavoro di oggi. Molte delle lettere che attualmente vi arrivano, erano indirizzate, vent’anni or sono, alla signorina Francesca Bertini, Roma. Venivano da tutto il mondo, persino dall’Estremo Oriente, e Francesca Bertini non si degnava nemmeno di aprirle. Nel cinema da poco nato, le stelle si sentivano in obbligo di conservare il sussiego delle grandi attrici di prosa, del tempo in cui i fedeli staccavano i cavalli dal coupé. La piccola Francesca ignorava i segreti degli uffici stampa sistematici e taylorizzati: il tributo d’amore del pubblico non si convertiva ancora per lei in una tirannide. E tuttavia ella riuscì a disegnare, con sensazionale anticipo sui tempi, il destino di una stella, di tutte le stelle. Vogliamo raccontare la sua storia ai giovani che non sono arrivati in tempo a vederla; e rievocarla a coloro che, in Nelly la gigolette, hanno per primi sperimentato la corrente di amore collettivo che unisce le platee alle grandi apparizioni dello schermo. Non c’è vero successo senza fondamento di intelligenza. Proprio negli anni in cui il cinema era tipicamente la parata esibizionistica dei senzacervello, Francesca Bertini dimostrava in quell’arte, che non era stata ancora attribuita ad una decima musa, la costruzione di un “successo” a base di verità e d’intelligenza; dimostrava una vocazione infallibile e precisa; dimostrava che sempre, il quid comunemente chiamato fortuna, nasce dall’incontro di un talento con un destino. Nata per caso a Firenze, questa napoletanissima ragazza trascorse a Napoli l’infanzia, figlia adottiva di un certo Vitiello. Si chiamava Elena, prima che una inspiegabile fantasia le suggerisse di ribattezzarsi Francesca. Si chiamava ancora Elena quando la madre, donna di teatro, la introdusse in una compagnia dialettale napoletana. Che aveva potuto vedere la piccola Elena coi suoi grandi, sgranati occhi di bimba? Certamente una vita pittoresca e gaia, familiare e tragica, ch’era stata insieme fonte d’ispirazione di una già illustre letteratura dialettale (poesia e teatro), ed uno dei principali spunti, anche polemici, del movimento verista. Quello che c’era in lei di istinto assorbiva aspetti, atteggiamenti, gesti da trasmettere all’attrice futura. Ad esplorare la crisalide in questa sua prima stagione, si intravede una specie di dramma. Una oscura vocazione teatrale, una decisione d’arrivare covata a denti stretti, una insofferenza della vita grama contraddetta dalla impossibilità di diventare mai attrice: Elena Vitiello aveva una sgradevole voce di gola. Se non fosse stata destinata a diventare Francesca Bertini, forse avrebbe incontrato il cinema o troppo presto o troppo tardi; in ogni caso, non a quel momento giusto, fatale, che le permise di convertire le proprie insufficienze di commediante, nelle virtù di un tipo ancora inedito di attrice. Quando a Roma, per un normale desiderio di agi, per una specie di volontà di potenza che mascherava (forse anche a lei medesima) la volontà del successo, ella cercò delle particine di prima attrice giovane alla Pathé di Falena, che cosa si nascondeva sotto il suo gesto forse timido, forse eccessivo di debuttante? Senza dubbio la prepotenza della diva cui erano commessi la missione di portare il cinema italiano ai sommi fastigi, e il triste incarico di iniziarne la crisi. Una aura c’era già, senza dubbio, intorno a lei, quella specie di vento di scandalo che pare inseparabile da tutti i grandi trionfi scenici: scritturata da un produttore che stava fondando una nuova casa editrice, venne provvisoriamente chiesta in prestito dal proprietario della Caesar (oh! gran bontà dei produttori antichi!) il quale, naturalmente, si guardò bene dal restituirla. Di qui un processo lungo e clamoroso. Fu a questo punto che, fiancheggiata da un produttore, ella sentì la ineluttabilità della propria ascesa, la possibilità di tutte le ambizioni. I successi si seguivano l’uno

all’altro: accanto a Collo, a Serena e a Ghione, ella passava da Don Pietro Caruso a Sangue bleu e ad Assunta Spina, e nell’interpretare quest’ultima era assistita nientemeno che da Salvatore Di Giacomo. Quel personaggio di donna sfregiata e appassionata, il modo di mettere lo scialle, l’ambiente e il panorama napoletano; poi lo strano, quasi indecifrabile prestigio d’una figura gracile, dal capo leggermente sproporzionato, dai capelli proverbialmente corvini e dagli occhi pieni di lampi, le fecero presto varcare i confini come tipo d’una bellezza meridionale e popolaresca. Chi fermava più questa attrice? Nelly la gigolette, Malìa, Processo Clemenceau: tutto il mondo reclamava i film della Bertini e il produttore ideò di associare il nome magnetico della stella a quello dei più divulgati autori scenici. La “grande produzione teatrale”, come dicevano i manifesti di allora: Signora dalle camelie, Tosca, Odette, Fedora. La piccola borghese non poteva certo sentire una precisa differenza tra la diva e la donna padrona della vita. Non lavorava, né esercitava un’arte: regnava. Così nel suo teatro, come nella vita. Era lei che imponeva la scelta dei soggetti e degli attori; che faceva e sovvertiva gli ordini del giorno; che andava in sala di proiezione a sforbiciare e mutilare i pezzi girati il giorno innanzi, quando non le paressero abbastanza lusinghieri. Il vestito nuovo, portatole dalla sarta, doveva ineluttabilmente essere girato nella scena del giorno successivo, e tanto peggio per la scena se non l’avesse comportato: si modificava il soggetto. Ma a metà del pomeriggio veniva il five o’ clock delle cinque, e “donna” Francesca Bertini, che era una signora, anzi una regina, doveva andare nei grandi alberghi a prendere il tè con le dame e tra le dame. La regola non pativa eccezione: non c’era programma di lavorazione che tenesse. Inflessibile anche con se stessa, aveva intuito quanto costino la gloria e il successo, e rinunciava all’amore di corteggiatori anche illustri, per conservarsi, chi sa, magari ad un vero blasone. I film della Bertini si vendevano “a scatola chiusa”. E funzionavano da capi gruppo: cioè, nel noleggio, trascinavano con sé, come taglia obbligatoria, anche la produzione minore e di scarto. Il fenomeno di infatuazione industriale, spettacolistica e mondana stava diventando, nel suo campo, gigantesco. Perfino l’arbitra Parigi di quegli anni si era commossa: lanciava cappelli alla Bertini, mantelli alla Bertini, pettinature alla Bertini. Causa od effetto, la Bertini era amata nella donna passionale, assoluta, straziante allora di moda. Pure, questa donna dai mille trionfi nutriva ancora, inesaudito, un piccolo sogno borghese: avere un villino suo, di sua proprietà, in uno di quei quartieri eleganti della capitale per cui erano passati i cavalli di Andrea Sperelli e le carrozze di Elena Muti. Per soddisfarla, il produttore lanciò un titolo: I sette peccati capitali. Si trattava di mostrare la Bertini in una corona di sette film, attraverso la gamma di tutte le passioni. Sul puro annuncio le vendite fecero ressa. Si doveva produrre a tempo di record e la Bertini non venne meno. Ebbe, finalmente, il villino: nell’anticamera due solenni leggii del Rinascimento accoglievano il visitatore con un Dante ed un Ariosto solennemente squadernati. Ma venne anche il primo fiasco: molti degli acquirenti si astennero perfino dal proiettare alcuni degli episodi, pur comprati e pagati. La fuga nella malattia si conosceva anche prima della psicanalisi. Davanti alla clamorosa smentita, che la coglieva a tradimento, alla Bertini non rimaneva che la nevrastenia. Qui veramente la curva della sua vita s’inflette, si fa più morbida. In una stazione di cura, la grande passionale dello schermo, diventò finalmente la protagonista della propria vita. L’amore: la dominatrice diventa dominata. Per una fatale coincidenza, questa conversione si produrrà anche nel suo modo di essere attrice. Un giorno, durante quel periodo di riposo, le accadde di passare accanto ad un teatro della Caesar, dove un regista venuto da Torino, il Roberti, stava girando i primi film di Vera Vergani, con metodi ancora ignoti alla Bertini. Torino in quegli anni voleva dire, cinematograficamente, soprattutto la Itala Film, dove il Pastrone aveva introdotto, fin dal ’14 e da Cabiria, i carrelli, la luce artificiale per realizzare effetti atmosferici, un logico e funzionale uso dei primi piani. Voleva dire altresì un più serrato ed organico sistema di lavorazione. Trasportate di punto in bianco a Roma,

quelle novità presentavano anche certi aspetti pittoreschi di improvvisazione. Per esempio, i “padelloni” per ottenere gli “effetti”, venivano rimediati con degli imbuti da vino, in fondo ai quali si sistemavano alla meglio due carboni a incandescenza. La Bertini si interessò a questa lavorazione e chiese di sperimentare il nuovo regista. Si girò Anima allegra dei fratelli Quintero. Per la prima posa della signorina Bertini il regista aveva messo all’ordine del giorno: vestito da viaggio per lungo percorso in auto scoperta. Di primo mattino il Roberti stava lavorando con altri attori, quando ad un tratto si sentì una tromba di automobile. Come per incanto, tutto il personale scomparve dal teatro. In massa era accorso al cancello: dove, schierato su due ali, inchinava l’entrata della signorina Bertini. La quale giungeva sotto l’ombra di un larghissimo cappello, straordinariamente inopportuno per quella lunga corsa in auto scoperta, prevista dalla lavorazione. Il regista si rifiutò di girare e la scena fu rinviata all’indomani. Era la prima volta che si osava tanto con Francesca Bertini. La disciplina nuova ottenne una ripresa di successo. Disciplina, s’intende, fino ad un certo punto: le esigenze della Bertini, per esempio, in fatto di vesti, non erano mutate; per ogni scena ella pretendeva di indossare un abito nuovo; e, una volta che si trovò ad avere esaurito il guardaroba, rapidamente, con gioia fanciullesca, prese un pezzo di seta ed alcuni lembi di pelliccia e se ne fece una specie di veste puntata con gli spilli; ma così posticcia, così difficile a portarsi, che l’operatore fu costretto alle più incredibili acrobazie, affinché la vanità della diva non si convertisse in un buffo disastro. Ormai la sua esperienza scenica aveva raggiunto il massimo di maturità e di scaltrezza: abilissima ed esclusiva, nonostante ogni sorveglianza del regista, sapeva sempre campeggiare, prendersi tutta la luce del quadro a scapito dei compagni. Malgrado le pose statuarie in cui aveva cristallizzato il suo gioco, rendendolo pesante e convenzionale nelle scene più statiche, quando venivano i momenti di rapida azione, sapeva scattare con quella esuberanza meridionale, che la grande scuola scenica di Adelina Magnetti le aveva insegnato a far valere. Tutto riprendeva vita. Per questo, ella era unica, pur tra la corona d’altre stelle che venivano via via accendendosele d’intorno: Lyda Borelli, Diana Karenne, Soava Gallone. La Bertini ignorava rivali e compagne. Pensava e dichiarava che nessuno avrebbe potuto spodestarla. Fu l’amore, invece, che le costò il trono. La popolana dal gran cuore (o la donna che vedeva finalmente coronato il suo snobismo) vinse anche l’ambizione esclusiva dell’artista. Col 1919 venne il grande contratto, forse il primo del mondo di questa entità: due milioni per otto film da girarsi in un anno. Ma il criterio di produzione era ormai mutato. La Bertini si serviva, ormai, delle sue vecchie qualità dispotiche, solo per seguire il suo amore. Se doveva passare un mese al mare col suo fidanzato, le s’improvvisava un qualunque soggettino di spiaggia, tanto per fare un film di più, per avere ancora una Bertini. Mai l’attrice di qualche anno prima avrebbe risposto, come ella faceva in quei giorni: “Per me la cinematografia è morta! Io entro di là, (e indicava una delle porte del teatro), esco da quell’altra parte, ed il film è fatto. E quando il film è fatto, non cerco altro”. Viva e caustica come sempre, guardava ormai dall’alto il mondo della sua arte. Un giorno Febo Mari, che girava un suo film, doveva ottenere da lei una scena di pianto. Non riuscendovi con alcun altro mezzo, tentò con l’esempio personale: appartatosi in un angolo, si concentrò per un minuto, dopo di che grossi lagrimoni gocciavano sul pavimento. Poi, rivoltosi all’insensibile attrice: “Vede come si fa? E lei che prende due milioni non sa nemmeno piangere?”. E la Bertini ai compagni: “Poveretto! Piange perché i due milioni, lui, non li guadagnerà mai!”. Nell’agosto del 1921 si dette l’ultimo giro di manovella alla Fanciulla d’Amalfi. Nel settembre ella sposò. Aveva quattro milioni liquidi e diventava contessa. Nella magnifica villa presso Firenze, comprata per la nuova vita, finì il romanzo della grande Bertini.

Se non era per Doris…

Gary Cooper, il grande astro, modello e tipo della gioventù del nuovo mondo, è, naturalmente, un inglese. Comunque, egli aggiorna il fascino, se non la voga, di un altro europeo, italiano quella volta: Rodolfo Valentino. Il fatto può assumere un certo valore quando si metta Cooper a confronto col suo emulo in popolarità, Clark Gable. Dietro il fascino di Cooper c’è intelligenza, raffinatezza, coltura, quasi una sorta di idealismo; dietro quello di Gable c’è solo l’ascendente virile, la volontaria e robusta praticità che sfonda l’ostacolo con un colpo quasi taurino della fronte bassa. Gable è il tipo che deve avere sempre ragione, anche quando ha torto. Cooper ha, invece, il senso delle distinzioni, e se deve aver ragione vuole averla con la ragione. La grazia di seduttore, a volte perfin morbida, in Marocco e il pugno con cui rovescia la tavola in Desiderio sono due poli che segnano nelle oscillazioni della figura di Cooper una specie di media originale tra il gusto Valentino e il nuovo gusto della massa. A soddisfare il quale, nelle sue impulsive esigenze, viene appunto Clark Gable: la ragazza del popolo e della piccola borghesia imponevano un ideale di uomo al cento per cento, prepotente e immediato; i ragazzi del popolo un campione dalla sagoma sportiva che sapesse trattare la vita come una preda. (Del resto è proprio di quel tempo la voga di Jean Harlow). Quando sulla strada di Spagna Gary Cooper fa a Marlene lo scherzo del claxon non dà tanto segno di ostinazione, come un Gable nelle impuntature di Accadde una notte, quanto di un goliardico spirito da burla. Studente era, all’Università di Grinnell (Iowa), quando un amore, il classico amore di gioventù, lo indusse a cercar lavoro, per arrivare al matrimonio. Lei si chiamava Doris, ed era studentessa. Dicono che ancora adesso, a vedere gli enormi cartelloni pubblicitari con una cubitale faccia del suo Gary, esclami: “Se non era per me, non sarebbe arrivato dov’è ora”. Come non pensare al celebre rimpianto di Mathilde Wesendonk quando, vecchia, all’udire il Tristano di Wagner, fieramente sospirava: “Però Isotta sono io!”. Figlio di genitori inglesi, Gary è nato a Helena (Montana). Fino agli undici anni è vissuto nel ranch paterno presso la città. Grandi cavalcate, naturalmente, interminabili nuotate. Vert paradis des amours enfantines. A dodici anni fu mandato a scuola in Inghilterra. Anche il cinema deve i suoi astri alla fortuna: appena tornato ad Helena, Gary fu vittima di un incidente d’auto che per poco non gli costò la vita. Per rimettersi, dovette passare due anni all’aria aperta, facendo una vita da cow-boy. Venne, dunque, il tempo di Grinnell. E di Doris. Gary Cooper controlla clamorosamente un’eccezione: per lui fu più facile riuscire nel cinema che nella vita. Chiunque, con un po’ di buona volontà, può riuscire negli affari, nelle speculazioni e, per dannata ipotesi, anche in giornalismo. Ma non chi vuole riesce divo. Per Gary avvenne esattamente il contrario. Comunque, quando lasciò Grinnell, non aveva la minima idea di farsi una “posizione” col cinema. Farsi una posizione! C’era tutto il borghese Gary Cooper. Immaginiamoci gli addii di quei due studenti al loro primo disancoraggio. I sogni di una modesta ed assennata fortuna: quel tanto che basta per metter su casa. E, come in tutti gli amori avventurati, magari qualche bisticcio. Doris voleva che il suo piccolo Gary (metri 1,95) andasse a cercar fortuna in California, paese in cui ella desiderava di stabilirsi. Ma lui no: lui voleva tentar la sorte nella propria città natale. Finalmente vinse lui, come alla fine di uno dei suoi film (Rivalità eroica): grandi abbracci in primo piano. Addio Doris. Tutti sanno che Gary è un disegnatore; anche all’università aveva studiato arte decorativa. Oggi ancora il disegno è il suo massimo orgoglio, il suo “violino di Ingres”. Naturalmente, ai primi passi egli pensò subito di sfruttare questo suo talento. Ed infatti trovò un posto di disegnatore in

uno dei giornali della sua città. Tuttavia le donne hanno sempre ragione: non passarono molti mesi che Gary finì in California. Il giornalismo è più infettivo del cinema, dove pure un provino mancato basta per creare un aspirante a vita. Gary continuava a cercare la sua strada nel giornalismo. Ma i direttori dei fogli locali non facevano evidentemente grande stima di questo autocandidato alla vita rumorosa delle redazioni. Il quale si vide costretto a cercare altrove il suo bene da pochissimi dollari al giorno. Commesso di fotografo, disegnatore pubblicitario: aveva preso in concessione qualche decina di pollici quadri di un sipario di teatro. Ecco dove andavano a morire i suoi sogni di artista. Non gli mancavano che una moglie ed una tragedia familiare per essere il protagonista della Folla. Evidentemente a quei giorni Doris non esclamava ancora: “Se non era per me…”. Quando fu al di sotto di quel minimo di cents indispensabile ad un uomo per battere le vie della città, gli venne in mente che c’era il cinema. Gary Cooper attore cinematografico per disperazione! La sua statura di colosso impressionò il segretario di produzione che lo arruolò come comparsa “straordinaria” per un western. La celebrità di Cooper non è una figlia del miracolo. Gary viene veramente dalla gavetta e ha dato prova di tutta la pazienza necessaria per passare dalla gavetta al bastone di maresciallo. Un anno intero di figurante avventizio, avanti che qualcuno lo notasse. Finalmente fu promosso protagonista, ma di uno di quei cortometraggi che erano destinati a tappare i buchi dei programmi. Era il 1926: gli astrologi ci saprebbero dire se quel cortometraggio fu iniziato o finito sotto una congiunzione stellare propizia a Gary Cooper. Fatto sta che in quel tempo Samuel Goldwin si accingeva a realizzare La rivincita di Barbara Worth. Protagonisti Ronald Colman e Vilma Banky. E trovò in Gary Cooper, tra centinaia di ex cow-boys, il bel gigante che gli era necessario. I risultati furono tali, che il candido e stupito ragazzone si trovò letteralmente aggredito dalle offerte piccole e grandi, fra le quali una della Paramount. Segnaliamo ai superstiziosi che il primo appuntamento fissato a Gary dalla casa produttrice che doveva fare la sua fortuna, era stato fissato per un venerdì. Gary suona al cancello, attraversa un corridoio, raggiunge una porta dietro la quale una voce gli intima di entrare. Il giovanottone di Montana si trova, sprovveduto, impreparato, davanti a una delle più solenni riunioni settimanali del comitato direttivo. Che cosa può esser stato il primo, importante colloquio d’affari di Gary Cooper? Forse in quel momento egli si raccolse nelle spalle per dissimulare gentilmente la sua statura, come fa nei film ai passaggi di più contenuta drammaticità. E Doris? Il sentimentale, l’amoroso Gary ha un po’ il destino di ringhiottire le proprie passioni. Di dover fingere di rasentarle con la sua andatura curva e sbadata. Dall’inferno della miseria non aveva più scritto alla piccola fidanzata dei banchi universitari. Venuti i tempi migliori, quando tentò di riallacciare, trovò che ella aveva sposato il figlio di un droghiere di provincia. Ali. Volo o fuga? Il titolo del nuovo film è simbolico in tutti i sensi. Da quel momento Gary Cooper non si è più fermato. Fino all’Oro della Cina, che è di ieri, fino alla Conquista del West, che è di domani. Gary Cooper è il vero attore cinematografico, senz’altre esperienze espressive che quelle del teatro di posa. Non ha imparato a calcolare i suoi atteggiamenti sul palcoscenico. Commisura i suoi gesti alla fedeltà meticolosa e a rigore dell’obiettivo, con una precisione ed una sobrietà veramente millimetrica; dosa le sue inflessioni in un rapporto esatto con la sensibilità implacabile del microfono. Forse il suo tratto dominante, quello che egli ritrova in fondo al carattere e alla plastica mutevole di tutti i suoi personaggi, è l’intelligenza che attraversa luminosa un’attitudine di stupore e di candore. Lo stesso garbo, apparentemente remissivo, con cui si è prestato allo stile dei suoi registi, da Sternberg a Mamoulian, da Vidor a Capra, da Lubitsch ad Hathaway, da Milestone a De Mille, è indice della sua precisa, infallibile vocazione.

Cronache dei film nuovi

La bandera di Julien Duvivier Siamo d’accordo che, a questa sua stagione, il cinema ha trovato il centro della propria vitalità nella produzione americana; che del resto è stata quasi la sola ad apparire sui nostri schermi. Tuttavia, a parte i più o meno ammissibili “continentalismi”, dobbiamo pur riconoscere che i registi d’Europa, quando riescono a vincere, toccano in noi qualche cosa di autentico e di inoppugnabile: come le radici del nostro sentimento e della nostra coltura. C’è di più: l’esser passati attraverso gli esperimenti d’avanguardia rappresenta, per chi sia arrivato a liberarsene, una forza superiore. Ecco per esempio un film francese di Duvivier. La cinematografia francese ha avuto degli innegabili meriti sperimentali, in quanto è stata per parecchio tempo un vivaio di avanguardie. In questo senso anche Hollywood deve qualcosa a Parigi. I metodi e le risorse tecniche del cinema d’avanguardia sono ampiamente applicati e messi a partito dal Duvivier per questa sua violenta e realistica Bandera. Alcune volte in modo perfin gratuito, come nella “sorpresa” iniziale del film, dove un carrello dall’alto su Parigi notturna ricorda fin troppo la poesia parigina di René Clair. Altrove il virtuosismo tecnico prende invece una speciosa ragion d’essere: certe angolazioni, per esempio (di quelle che in altri tempi si sarebbero chiamate “rare”) fanno intendere bene il loro perché. Così, durante la rissa nella taverna, il gioco obliquo ed altalenante della macchina da presa riproduce con realistica efficacia la sensazione del lottatore ora piegato ed ora incombente sull’avversario. D’altronde, sia nello stile piuttosto eclettico che nella struttura narrativa e nel gusto errabondo per l’episodio coloristico e quasi dialettale, il film dimostra di essere stato costruito a ritroso. Si sente che a Duvivier importava soprattutto la grande sequenza finale, dove non solo l’ispirazione poetica e morale esce dal torbido e si chiarisce, ma anche cinematograficamente l’espressione conquista una irresistibile linearità e coerenza. La vicenda, tolta dal romanzo di Pierre MacOrlan, è quella di un assassino che da Parigi, dopo il delitto, fugge in Spagna e qui, spinto dall’angoscia, dalla malavita e dalla fame, finisce per arruolarsi in una bandera (battaglione) della Legione Straniera spagnola, destinata ad alimentare i presidi interni del Riff. Nel narrare questa odissea, il Duvivier rivela le nette tendenze di sinistra, diffuse tra i giovani intellettuali francesi. È ancora quella pseudo-poesia della teppa e della malavita che, dal verismo in poi, si è rinnovata in Francia sotto formule sempre più elaborate, sempre più cerebrali e perciò più lontane dalla vita. Il Duvivier tratta il suo protagonista come un umile giustiziere che non chiede la redenzione, bensì scampo ed elementare possibilità di vita, sia pure a costo d’una esistenza di rischio. Ma la società lo perseguita fin nelle montagne del Riff: dove tra le file della Bandera s’è insinuata una spia, attratta dai cinquantamila franchi di taglia. La redenzione, non cercata e forse perciò più alta, è raggiunta attraverso la liberazione graduale e tragica dal mondo e dalla vita, in un fortino infernale, volontariamente presidiato da ventiquattro uomini che sanno di dover morire.

Il fantasma galante di René Clair Il cinema, spettacolo per masse, non può trionfare se non è impostato su metodi e criteri largamente industriali: i soli che permettono di andare incontro alle richieste della massa e insieme di raffinarle con l’offerta di un prodotto sempre migliore. In questo senso Il fantasma galante è una

netta vittoria. Vittoria, anzitutto, del produttore Alexander Korda, il quale ha avuto l’iniziativa di richiamare alla grande industria un artista raffinato, come Clair, e di farlo rispondere alle esigenze spettacolari di un film a successo. Il che non attiene soltanto ad un calcolo economico e ad una chimica astuta della riuscita commerciale; ma si risolve in un progresso artistico del cinema che, per questa via, viene annettendosi più nobili ispirazioni e più squisiti procedimenti tecnici. Vittoria, anche, di Clair che ha mostrato di saper andare verso il pubblico, senza abdicare a se medesimo. Naturalmente, il gioco e l’influenza reciproca di due personalità come quella di Clair e quella di Korda costituisce, per il critico, il punto centrale d’interesse nell’esame del film. In qual misura Alexander Korda, produttore, è riuscito ad impadronirsi di René Clair, regista? Bisogna frenarsi per non rispondere a bruciapelo. Fin dalle prime scene del Fantasma galante ci si avvede di stare aspettando qualcosa che non si verifica o, almeno, non si verifica come si vorrebbe. Non vogliamo dire che manchino le trovate, quelle che chiameremmo i nostri “appuntamenti con Clair”. Il barile di polvere che esplode per un miracolo di puntualità, cagionando la morte del giovane Lord M. C. Gloury, rifugiatosi dietro di esso, può star vicino all’organetto di Per le vie di Parigi, che scattava a suonare per un consimile miracolo di puntualità. Ma nel Fantasma galante, e soprattutto nella sua prima parte, queste ed altre di tali invenzioni rimangono puri gags, modi di conquistare e rinfrescare l’attenzione dello spettatore. Ripetiamo però che, come produzione, Il fantasma galante funziona a meraviglia; che il suo livello è senza dubbio fuori del comune. E che il successo ne sarà, come dev’essere, largo e pieno: uno di quei successi che finora il Clair, appunto per il suo spirito appartato, lontano dalle folle, non era mai riuscito a meritarsi. Si può determinare con quasi assoluta sicurezza almeno da un punto di vista artistico, quale sia stata questa volta la parte di Clair. Limitata all’impianto centrale del soggetto: al soggetto come trovata. Semplificato, il paradosso su cui si imposta quest’ultima opera del Clair è il seguente: un fantasma è attaccato da una condanna soprannaturale alle mura ed alle pietre di un castello scozzese, per cui dovrà aggirarsi ogni notte a mezzanotte, finché non sarà riuscito a vendicarsi del tradizionale nemico di famiglia. E vendicarsi vorrà dire mettere in fuga un lontano discendente dell’avversario, così come egli, da vivo, troppo galante per poter esser soldato, era stato messo in fuga da lui. Ora il Clair si propone di andare a riscontrare tutte le conseguenze a cui si sarà sottoposto il fantasma, allorché il castello, secoli dopo, verrà acquistato da un miliardario americano, che lo smonterà pietra per pietra, lo imbarcherà su di un transatlantico e se lo porterà nel nuovo mondo. Paradosso abbastanza semplice, e di sviluppi ancora più semplici. René Clair aveva sempre avuto il gusto di sfiorare la pochade, ma la sfiorava con le ali. Questa volta vi cade un po’ a capofitto. S’intende che non è uomo da darsi per vinto alle prime avvisaglie del banale ed ai primi slittamenti; tenta anzi di salvarsi, scherzando con le più divertenti ed agili fumisterie. Il fantasma che, di fronte alla ricca ereditiera americana, sente rinascere in sé la vecchia intraprendenza e dà dei punti al suo impacciato discendente in carne ed ossa, è del Clair migliore. Il sottile fallimento del poeta è controllato dalla satira contro l’America, presa a prestito senza ardimenti dalla mentalità della Vecchia Inghilterra. Non occorreva scomodare un Clair per mostrarci che il castello scozzese, trasportato in California, diventa gesso pettegolo ed abbacinante e perde, tra i palmizi, la sua intimità romantica e boschiva. L’ironia di Clair contro la società borghese capitalistica aveva creato, non dimentichiamo, la mordente e patetica poesia di A me la libertà. Ora è per lo meno strano che, voltasi a polemizzare sull’America, quella stessa ispirazione si sia contentata di andare a battere contro la facile testa di turco di un miliardario trasformato nel più proverbiale dei pescicani. Non pare invece più probabile che lasciato libero a

se stesso, il Clair avrebbe rivolto la satira contro chi gliene armava la mano: contro quella società inglese, per intenderci, di cui Korda è ormai un intelligente e fedele emissario? Il fantasma galante: è il biglietto acquistato da un poeta alla lotteria dei milioni.

Finalmente una donna! di George Fitzmaurice Quella grazia disinvolta à l’emporte pièce che era stata per più di mezzo secolo l’appannaggio e addirittura la specialità del teatro francese, è diventata oggi il privilegio quasi esclusivo del cinema americano. Interessante a vedere come il marivaudage del salotto parigino sia diventato il flirt cameratesco dei ragazzi d’America, e come dalla ribalta si sia trasferito allo schermo. Il segreto è tutto nell’invenzione di una formula di dialogo che, ancor più fitto (se è possibile) di quello teatrale, riesce ad essere tutt’altra cosa che teatro. Dialogo che è continua avventura. La battuta crea il movimento e il movimento la battuta. La replica che rilancia la trama, che inflette l’episodio, che capovolge la situazione ha la medesima funzione, cinematograficamente parlando, di uno spostamento di macchina, di un cambiamento di inquadratura. Di fronte ai molti esempi del genere, si comincia oggi a capire il vero, l’intimo perché della nascita del parlato. Questo tipo oramai fisso di film galante, mondano e spregiudicato (galanterie e mondanità americane, beninteso) deriva certamente le sue prime origini dalla commedia muta, di cui la chapliniana Donna di Parigi rimarrà l’esempio classico. Le sceneggiature di Lubitsch ed alla Lubitsch, quel suo modo scanzonato di svolgere una vicenda e di cambiar le carte in tavola, hanno fatto il resto, divulgando e perfezionando sempre più il metodo della situazione a scatto, rimbalzante di sorpresa su precedenti che non basterebbero mai a giustificarla, ove non intervenisse la complicità di un felice demone dell’arbitrio spiritoso. Farandola ottimistica di un mondo che riesce a tenere insieme ed a ritrovare un’armonia e perfino una logica, pur avendo perduto il centro di gravità. Finalmente una donna! riesplora e cerca di rinnovare nell’ambiente antartico di una stazione radio sperduta nei ghiacciati e bianchi inverni del Labrador, il solito triangolo dell’uomo fra due donne. In questo mondo, dove le ragioni morali sono ridotte ad espedienti di sviluppo scenico, l’altalena del diritto e del torto che nelle vecchie posizioni di teatro oscillava in base ad una legge o quanto meno ad un’opinione, si decide come una corsa all’ostacolo in cui vince sempre il favorito. I protagonisti sono infallibilmente predestinati alla felicità per il solo fatto che sono i protagonisti, cioè i personaggi più simpatici e più belli. In questo senso il bellissimo e raffinato Robert Montgomery trionfa elegantemente della propria difficile posizione; in questo senso il regista gli permette di eludere il dramma facendolo diventare grottesco ed un po’ meno bello del solito allorché la sua crisi sta facendosi pericolosa; in questo senso finalmente Myrna Loy tradisce un tantino la propria parte perché, meno piacente di quanto il produttore o il regista sperassero, non pare in certi momenti così degna di diventare la sposa di un sosia di Eddy, l’ultimo principe di Galles.

La damigella di Bard di Mario Mattoli Ad un film di Emma Gramatica si sa sempre cosa chiedere: l’arte di Emma Gramatica. Ed a tali richieste La damigella di Bard risponde con abbondanza generosa. Quella intensa, commovente dedizione che la nostra massima attrice di prosa mette in tutte le sue fatiche, è divenuta l’anima stessa di questo suo ultimo film: la parte buona della sua ispirazione, il pregio quasi unico, ma già bastevole. Emma Gramatica parla, recita, vive: e ritrovare ad ogni scena, ad ogni minuto, la sua grazia spirituale, il suo prestigio intelligente, la sua toccante forza espressiva, può – non si dimentichi che a volte la Gramatica viene qui usata dal suo regista come un prezioso strumento che rincresca di far tacere – perfino dare la sensazione di certi pezzi di bel canto che si ascoltano smemoratamente, per la sola gioia di udire il timbro suggestivo d’una voce. Un lungo, virtuosistico “a solo” della Gramatica: ecco tutto. E reso patetico da una lontana, quasi impercettibile, sfumatura

autobiografica, che permette all’attrice di sposare con una sorta di affinità commovente la parte della vecchia signorina di sangue illustre e gentile. Tema segreto del film, tema quasi inespresso, dovuto unicamente alla virtù ed alla singolarità dell’interprete; e tale nondimeno che vi aggiunge una corda forse più profonda e struggente di quanto fosse nelle intenzioni medesime dei suoi realizzatori. Gli americani chiamano “melodramma”, la situazione romanzesca di un film: qui però “melodramma” avrebbe anche il senso italiano: proprio nel suo valore più patetico, lacrimoso e popolare. Come cinematografia a successo, la Damigella di Bard ha una quasi deamicisiana capacità di provocare le lacrime del pubblico. Vena deamicisiana anche più scoperta, dove la trama, derivata da una commedia di Salvator Gotta, cerca di lavorare su una certa poesia sentimentale della vecchia Torino. La quale però, a nostro avviso, rimane ancora, per lo schermo, un tema intatto.

Squadrone bianco di Augusto Genina Il carattere di Squadrone bianco è determinato da una ricerca di austerità e di eleganza. Austerità morale e austerità narrativa. Si tratta di un dramma ottenuto per semplificazione da un tema di grande fecondità cinematografica: quello della natura vergine che fa da contravveleno alla passione. Per raggiungere prestigio epico, il contrasto è riportato ai suoi termini più elementari, quasi ad una ingenua allegoria. La natura africana, il deserto tragicamente severo e rieducatore, sono personificati in un fiero capitano coloniale, temprato dalla diuturna lotta contro i ribelli; la passione corrotta in una decadente vita cittadina, spinta fino alla disgregazione fisica non meno che spirituale, è rappresentata da un tenente che ha fatto domanda di esser mandato in uno squadrone di meharisti libici per dimenticare la solita signorina borghese. La forza redentrice del deserto è moltiplicata dallo slancio civile che porta quegli uomini a ristabilire la piena autorità della Patria sulle colonie mediterranee. Tutto questo però, che ha il suo valore ai fini della evidenza narrativa, non può a meno di lasciare nel racconto una tal quale schematicità, connaturata con le impostazioni del genere. Dal punto di vista artistico, lo sforzo di Genina è stato precisamente di rendere espressiva la scabra materia propostasi, attraverso uno studio di correttezza sobria e di suggestive eleganze fotografiche. Far vedere per un terzo del film una marcia attraverso il deserto, rivelandone insieme la tragica difficoltà e la sfibrante fatica, senza che la monotonia del paesaggio diventi monotonia della visione, è certo opera di regista maturo. Tanto più quando la sceneggiatura schivi deliberatamente di variare l’uniformità del tema con una fertile quanto facile varietà di episodi e di aneddoti. La poetica di Genina, in questo caso, sembra essersi ricordata, forse a sua stessa insaputa, del vecchio precetto classico: fare qualche cosa con nulla. Dove “nulla” non significa, intendiamoci, vuotezza; bensì maschia rinunzia agli effetti speciosi, alle divagazioni colorite, alle suggestioni pettegole. Sforzo meritorio, quando si pensi ai precedenti di Genina, regista abile e sicuro, ma continuamente esposto a cadere nelle compiacenze di un sentimentalismo delicato e non immune a volte da una vena di leziosaggine. Segnaliamo, come episodi, la raccolta e drammatica spiegazione tra il capitano e il tenente, che riesce ad avere l’efficacia di una scena madre, pur facendo dimenticare di esserlo; la bufera di simun; la morte dei meharisti al pozzo prima che s’inizi la battaglia. Segnaliamo, come avveduto partito di sceneggiatura, l’angosciosa situazione che si stabilisce nel fortino alla notizia che uno dei due ufficiali, e non si sa ancora quale, è morto. Ma al di sopra degli stessi valori romanzeschi della vicenda, Squadrone bianco è e rimarrà una splendida e poetica documentazione del valore guerriero, della efficacia visiva e della bellezza dei nostri cavalieri nel deserto.

Cavalleria di Goffredo Alessandrini Cavalleria è uno di quei film di tono, di ambiente, di atmosfera, in cui una cifra sentimentale diviene

poesia della fedeltà ad un’epoca, ad un modo di vita. Poesia intima e confidente di ricordi. Smuoverla, entro il suo ricco alone di tenerezza, è il privilegio dell’altrieri. Del tempo che le nostre mamme erano fanciulle: e la loro gentilezza, le loro vesti bianche di trina alitavano leggere su una vita che oggi, a ripensarla, ci pare così gentile. Come ispirazione, Cavalleria si riallaccia a quel gusto della rievocazione abbastanza prossima, che ha suggerito agli americani la serie, poniamo, di Piccole donne, David Copperfield, La famiglia Barrett, ecc. E anche come tecnica vi si riallaccia: nel senso che costruisce il racconto attraverso un seguito di bozzetti, di pastelli, di brevi sequenze chiuse, dove il pericolo della pura illustrazione e della “stampa di genere” è sempre sventato dalla verità della commozione, dall’amore per le cose narrate o descritte. Intendiamoci: Cavalleria non somiglia ad alcuno dei film che abbiamo citati. Ma anche come “produzione” può benissimo stare a pari con gli ottimi esempi americani. La collaborazione letteraria del poeta che ha dettato la vicenda e insieme ne ha suggerito il colore ed il timbro patetico – con il regista che tutto questo ha realizzato in visione – appare così organica, che le due personalità non si distinguono più: si identificano in un solo slancio creativo. Se qualcosa fa difetto in questa ideale presenza ed unanime partecipazione di tutti gli elementi necessari a creare il film – è solo, a tratti, la materia “attore”. Ma Nazzari, ma Ferrari, ma la Padoa sono ottimi: e aiutano Cavalleria a raggiungere una naturalezza, una signorilità, una semplicità, una commozione profonda (e non mai lacrimosa) che raramente s’era ritrovata nei film italiani. Cavalleria è un’affermazione netta: bisogna segnarla. Si potrà più o meno andar d’accordo con queste “ricerche del tempo perduto”, che appartengono tipicamente ad un gusto crepuscolare ancor vivo ai nostri giorni, e di cui Cavalleria è un felice episodio. Per nostro conto, nel caso particolare, non possiamo che trovarci consenzienti. La chiara, precisa, signorile regia di Alessandrini, la malinconia (non ci si stupisca) nostalgica di Biancoli hanno trovato un singolare punto di coincidenza ed hanno fatto un delizioso miracolo.

La vita del dottor Pasteur di William Dieterle Se ci fosse ancora bisogno di un documento di nobiltà e di forza operante per dimostrare la importanza spirituale del cinema nella civiltà contemporanea, ecco questa Vita del dottor Pasteur di William Dieterle. Ma prima di specificare la lode che va tributata al regista e all’autore dello scenario, è necessario segnalare il merito dei fratelli Warner. Per realizzare un film come il Pasteur sono indispensabili, specialmente in un mondo come quello americano, non solo un grande coraggio e una intelligenza superiore, ma una elevata comprensione dei valori spirituali ai quali tutte le attività umane, nessuna esclusa, devono conformarsi. Raccontava Luciano De Feo di aver domandato un giorno ad Irving Thalberg, in occasione di Alleluja!, quali criteri lo avessero indotto a destinare così grandi capitali per la produzione di un film assolutamente incapace di rendimento pratico. “Bisogna pur concedere qualcosa alla parte più elevata del pubblico!” rispose l’americano. “La nostra Casa è sempre lieta di produrre di tanto in tanto qualche opera di pura spiritualità”. E non si creda che questi criteri siano privi di un profondo senso speculativo. Gli americani sanno che una notevole quota del prestigio conquistato dai film di pura poesia e di puri valori spirituali, ricade sempre sulla produzione commerciale. Un Alleluja!, un Uomo di Aran, un Pasteur conquistano alla nuova arte sempre altri strati intellettuali. Ognuno di loro vince qualche resistenza e qualche diffidenza. Si consideri ora che il Pasteur è un mirabile esempio, soprattutto per la oculatezza estrema con la quale è stata dosata e distribuita la materia biografica del grande scienziato. Gli autori non hanno affatto perduto di vista la necessità di interessare masse di spettatori alieni naturalmente dalla lenta e sorda lotta attraverso la quale Pasteur riuscì a far trionfare le sue tesi. Mani abilissime hanno saputo concentrare quella vita veramente suprema in un dramma popolare. In una avventura insieme patetica ed eroica che, attingendo maggiore prestigio alla verità storica, si

dimostra capace di commuovere e di esaltare come il più bel dramma d’amore, come il più bel film di ardimento. Con sorprendente maestria, Dieterle e l’autore dello scenario sono riusciti ad evitare la pericolosa retorica che poteva nascere dalla traduzione visiva di un tale argomento. Specialmente degli anglosassoni, e – nell’attuale congiuntura – avevano ragione di sorvegliarsi per non cadere nella propaganda umanitaria e nella implicita e tendenziosa polemica pacifista. Il contrasto drammatico è rigorosamente mantenuto nei suoi limiti proprî e suscettibili di eternità. Urto tra la scienza e l’ignoranza, tra il genio e la mediocrità. Conflitto che non è tanto di rivalità personale, quanto nella natura istessa della società umana: travaglio assiduo, doglie necessarie attraverso le quali la vita conquista una forza sempre nuova e il pensiero assume l’impeto e la vigoria dell’azione. Il personaggio del grande scienziato, realizzato con verità di fisionomia e di spirito da Paul Muni, che si classifica in un rango assolutamente superiore, appare nella visione cinematografica come un vero combattente. In certe fasi della sua lotta, il rischio che egli affronta, l’eroismo della sua missione sono tali da determinare un fremito anche nel soldato che conosce la combattuta trincea. Impeccabile appare la coerenza psicologica dell’eroe, specialmente nella fede superiore che anima il suo misero corpo, consunto come quello d’un asceta, e in una certa ingenuità quasi infantile che umanizza la forza del suo genio in una specie di tenerezza. Il mondo nel quale combatte e trionfa è proprio quello della seconda metà del secolo scorso, sacro agli ideali umanitari. Ma eran nuovi e vivi, quegli ideali, e fortemente virili. Non ancora dissolti in formule astratte. Tutti quegli entusiasmi appaiono composti in una persuasiva armonia: la ostilità dei mediocri si trasforma in entusiasmo innanzi alla luce del genio; non v’è nemico dell’eroe che non sappia fare onorevole ammenda della sua ignoranza; lo istesso calore degli affetti familiari, l’abnegazione degli amici e dei discepoli, risultano come aspetti integratori di una sola forza, di un solo anelito verso le cose supreme. Gli inizi della Terza Repubblica, quel mondo di banchetti ufficiali e di discorsi retorici, di borghesi trionfanti e di barbe e giamberghe è dipinto non senza una moderata e bonaria ironia. Le prime notizie sulle accoglienze del pubblico nelle grandi città europee, assicurano che, a differenza di Alleluja! e di Uomo di Aran, il Pasteur conseguirà anche un notevole successo commerciale. Notizia, questa, che è di grande conforto: essa dimostra che il pubblico spontaneamente si eleva a visioni di significato spirituale sempre più alto. Superata, in molti strati, la curiosità per gli effetti meramente meccanici e spettacolari del cinema, si fa sempre più strada l’esigenza di una maggiore densità e profondità della vena narrativa.

Desiderio di re di Josef von Sternberg Strana riscossa di Sternberg: Desiderio di re segna con Ho ucciso! la prima tappa di una fuga. Il caso del creatore prigioniero della sua creatura è simile a quello del poeta che non sa strapparsi al proprio capolavoro. Il capolavoro aveva nome, come si sa, Angelo azzurro e la creatura Marlene. Dopo di aver studiata la “fatalità” di Marlene e di averla messa alla prova fin quasi ad esautorarla, si direbbe che Sternberg, abbia voluto dimostrare, a se stesso ed al mondo, di saper bravamente sopravvivere a quella lunga e fortunosa avventura. Marlene, in Desiderio, era quasi riuscita ad illudere (grazie a Lubitsch) d’aver ritrovato una seconda giovinezza. E Sternberg in Desiderio di re fa quasi supporre di voler entrare in gara con lei. Di qui appunto nascono le manchevolezze e gli errori del nuovo film. Che non è un’opera liberamente creata, bensì una specie di ritorsione. Come in Ho ucciso! Sternberg s’era impancato a “pensatore” quasi per far vedere d’aver superato quell’ossessione di sex-appeal e di decorativismo esuberante sotto cui erano nati i suoi precedenti lavori – ed era riuscito soltanto a far della polemica, magari contro se stesso, ma non della vera ed organica poesia – così questa volta, per intonare uno sfogato canto di liberazione da Marlene, egli denuncia più che mai la soggezione

a Marlene. E cerca di andarla a vincere proprio nella nuova forma ch’ella ha assunto, quella datale da Lubitsch: cerca insomma di far del Lubitsch. Ma da uno Sternberg che tira un colpo simile, così poco “nelle sue corde”, si capisce facilmente cosa possa saltar fuori. La sua fiaba tra operettistica e storica sulle fughe e sugli amori del giovane Francesco Giuseppe è troppo operettistica per essere storica, troppo storica per essere operettistica. La Vienna in cui la trama si svolge non è più Vienna: ma non è ancora quel paese irreale in cui i fatti possano perder peso e coerenza, per modularsi come sul disegno di una linea musicale. E del film non si salva che la grazia birichina di Grace Moore; la quale tuttavia non riesce a preannunziare (come d’altronde non vi riuscivano la Marian Marsch e la Tala Byrell dell’Ho ucciso!) una nuova creazione femminile del romanticismo di Sternberg. Non rimane, in chi guarda, se non quel senso di rispetto, quasi imprecisabile, che un vero artista non manca mai di suggerire quando si smarrisce in un errore.

È arrivata la felicità di Frank Capra Dicono che alla prima visione di questo film, Charles Laughton abbia manifestato, fin dove le regole della cortesia e della buona colleganza glielo permettevano, la violenta scossa ricevuta al vedere come Gary Cooper riuscisse a produrre il massimo degli effetti drammatici col minimo dei mezzi. La regola di Laughton è infatti tutta opposta: il massimo dell’effetto col massimo dei mezzi, da quelli della mimica a quelli del costume, chiamando magari a rapporto l’intera gamma, antica e moderna, delle espressioni teatrali. Non staremo qui a fare dei paragoni di gusto che si risolverebbero troppo elementarmente, quando ci si contentasse di mettere a confronto due artisti: l’uno che dal teatro non sa mai staccarsi interamente: Laughton; l’altro, Gary Cooper, che invece è l’attore nel senso attuale, nato tale con il cinema e per il cinema. Quest’anno a Cooper sono capitate due fortune: Desiderio ed È arrivata la felicità che gli hanno permesso, ciascuna a suo modo, di rivelare le sue caratteristiche più qualificate. Ma, ancor meglio che Lubitsch, Cooper ha saputo isolare l’aspetto di ragazzone stralunato e bonario che costituisce il senso riposto ed affettuoso del “bel ragazzo” Gary Cooper. Per afferrare e rendere l’essenza espressiva di Gary Cooper, Capra l’ha tradotta nella figura di un ragazzo di campagna che una improvvisa fortuna costringe a trasmigrare in città. In un certo senso, la tecnica narrativa di questo regista può essere assimilata a quella di Aldous Huxley, il quale ama spesso di caratterizzare i suoi personaggi, affibbiando loro un tic paradossale; qualcosa che rasenta la monomania e li rende perciò facilmente (e anche un po’ esteriormente) indimenticabili. II tic di Gary Cooper, giovanotto di provincia, è quello di sonare il trombone. Questo motivo, secondo un altro dei sistemi tipici di Capra, diventa ricorrente per buona parte del film, e seguita a scattar fuori come da una scatola a sorpresa nei momenti più impensati, con una funzione analoga a quella che aveva in Accadde una notte la metafora delle “mura di Gerico”. Ciò che succede a Mr. Deeds chiamato in città a raccogliere i milioni di uno zio impresario, morto in un incidente automobilistico, costituisce una specie di variazione tra satirica e profonda su quelle che rimangono invece le posizioni fondamentali di partenza e di arrivo della maniera di Capra dopo Accadde una notte. In Accadde una notte era un giornalista che sposava la milionaria; qui è il milionario che finisce con lo sposare la giornalista dopo una lunga sequela di malintesi e di equivoci sentimentali. La forza del primo film consisteva nel concretare attraverso un dialogo estremamente disinvolto ed umano, ed attraverso l’irrefutabilità di quel che accade sotto gli occhi, una serie di assurdi che crollano nella realtà. In È arrivata la felicità pare che Capra, preso coraggio da quei precedenti risultati, se ne valga per rendere il suo giuoco meno disinteressato ed innocente. Al posto dell’avventura giovanile appena accentuata qua e là da qualche spunto di satira sociale, qui è essenzialmente la satira sociale che tenta di ravvivarsi col tono giovanile, esuberante e simpatico del protagonista. La vera commedia, che costituiva la carica iniziale del

film, pare esaurirsi nei primi tre o quattrocento metri con la prima scena del sarto che riveste delle fogge più squisitamente cittadine il malcapitato Mr. Deeds. Quando ci si aspetterebbe tutta una serie di deduzioni inesauribilmente ingegnose, ecco che Capra cambia registro e impegna la sua commedia in una specie di strano esperimento: l’iniezione della metropoli borghese e capitalista su un temperamento primitivo di provinciale. E invece di vedere quello che succede al povero Cooper-Deeds, noi finiamo con l’assistere ad una sorta di critica sistematica d’una società, abilmente propinataci sotto l’aspetto delle avventure di Deeds. Quindi una specie di commedia filosofica, che deve la sua efficacia spettacolare solo al brio di un regista scaltrissimo. Amministratori di società anonime, scrittori che tengon cenacolo in caffè più o meno letterari, giornalisti e redazioni di giornali, milionari che non fanno un passo senza una scorta di detectives privati: ce n’è per tutti. A salvare, al disopra della satira, la poesia, non rimangono che le fughe notturne e vagabonde di Mr. Deeds in abito da sera, il suo eterno trombone e la sua adorabile credulità sentimentale. Sempre qualcosa in ogni modo. Anche in questo “romanzo di un giovane ricco”, Capra mostra di sapere rispettare in un modo supremo gli squilibri dello spettacolo: il che non è vero virtuosismo, ma arte, in quanto esige si sappia trovare al momento buono il tasto umano. Dalle acrobazie e fumisterie della satira più scanzonata, questo film riesce a salvarsi di colpo in nome di una fede quasi ingenua, e certamente sincera, nei valori eterni del sentimento e dell’amore. Se Mr. Deeds risolvesse improvvisamente di far fagotto e di tornarsene al paese, perché respinto da quella società, di cui egli, con la sua inettitudine a vivervi, ha fatto inconsapevolmente una critica più o meno efficace, il film avrebbe ancora una sua logica; ma certo Capra non sarebbe un artista. D’altronde, il tema dell’uomo che rinuncia alle proprie ricchezze per una congenita impossibilità di goderne, è un tema profondamente impopolare e quindi anticinematografico. La bravura di Capra è stata di imprimere alla sua commedia la stessa svolta, ma motivandola umanamente, in una maniera accettabile dal pubblico. Quella che colma la misura per il povero Deeds è una delusione d’amore: delusione abilmente preparata in modo che il suo sviluppo servisse nello stesso tempo ad uno dei tanti obbiettivi satirici della commedia. La donna che ha tradito Deeds è una giornalista che, secondo i sistemi classici dei reporters americani, aveva saputo camuffarsi da amichetta povera e devota per entrate nella confidenza del neo-milionario, di cui tutta la città vorrebbe saper notizie. Rassicurata così la sua commedia ad un solido appiglio umano, Frank Capra la può rilanciare verso nuovi funambolismi satirici e utopistici. Può far sì che il suo deluso protagonista, invece di tornarsene in provincia, risolva di distribuire fra i poveri le proprie ricchezze; e che i parenti, dopo di essersi visto portar via la sospirata eredità dal privilegiato Deeds, trovino finalmente il cavillo per intentargli un processo di interdizione per infermità mentale. Nella scena del processo, Capra si ritrova sciolto, senza più vincoli, sul suo terreno, che è quello del puro dialogo cinematografico, della gag, di battute e controbattute. Anche se non si voglia vedere in questa lunga e irresistibile sequenza la parodia dei gigioneschi processi da film americano, nei quali il protagonista deve sempre finire con l’aver ragione, è comunque inevitabile avvertire la più garbata e affabile versione di un paradosso che oramai bisogna chiamare pirandelliano: l’uomo non è quel che è ma quel che gli altri vedono in lui: è pazzo chi è pazzo, o chi lo giudica tale? Il momento in cui Deeds riesce a perorare e vincere la propria causa facendo serpeggiare nell’intero tribunale e negli astanti il sospetto d’essere tutti tocchi da qualche mania, traduce il più acre umore moderno in una scena da grande commedia di tutti i tempi, che raggiunge anche quel patetico che è la nota distintiva della grande commedia. In America si va proclamando che È arrivata la felicità è il più bel film di un’annata eccezionalmente ricca di bellissimi film. Che anzi da qualche anno è sempre Capra a creare il più bel film dell’annata. Se ne dà anche il motivo: il successo di Accadde una notte non gli ha fatto

perder la testa, né gli ha offuscato la visione; egli è ancora in grado di prender la storia più trita e, con la magia della macchina da presa, trasformarla in un miracolo di arguzia e di invenzione. Si parla giù del suo film appena ultimato: Orizzonte perduto, che, con la storia di cinque uomini segregati lontano dalla civiltà, prigionieri di un paradiso dove non si invecchia, completerebbe la trilogia iniziata con Accadde una notte. (Il film dell’anno scorso, Strettamente confidenziale, è giustamente tenuto un po’ in disparte). Ad ogni modo, bisogna riconoscere a Capra la perfetta, impeccabile giustezza della visione. Egli può permettersi di realizzare l’assurdo perché i suoi tipi hanno sempre una irrefutabile e suprema consistenza umana. Abbiamo già notato che il suo Gary Cooper è un Cooper al cento per cento, come nessuno prima di lui aveva saputo intuire. Soggiungiamo che l’avergli posto accanto Jean Arthur è una trovata di altrettanto valore: nessuna apparizione femminile era adatta ad incantare il provinciale sbalordito ma sano, meglio che questa donna non bella, e tuttavia dotata di un fascino concreto, chiaro e lento ad imporsi. D’altronde come dimenticare che, con Accadde una notte, era stato proprio Capra a scoprire il “vero” Gable: quello che da allora in poi non si è più potuto mutare, ed è anzi diventato quasi un proverbio del cinema americano?

Nozze vagabonde di Guido Brignone Dal punto di vista “soggetto” non si può negare che la commediola italiana di ordinaria produzione abbia fatto dei progressi. Se si eccettua forse Rubacuori, è tutt’altro che lontano il tempo in cui si doveva tradurre dal tedesco una Segreteria privata per ottenere un film piacevole e di sicuro esito. Oggi gli autori cinematografici stanno nascendo e perfezionandosi. C’è gusto dell’ambiente, sapore di trovate. In Nozze vagabonde l’ambiente è quello non nuovo, ma ancora spassoso, dei guitti e dei filodrammatici dalla vocazione contraddetta. Tutto l’intrigo nasce da un biglietto da mille vero, confuso tra quelli falsi di un prestigiatore, e andato poi bruciato durante la cenetta d’addio alla vita di scapolo, che una compagnia di attori offre ad un ex-compagno. Nello sviluppo siamo certamente lontani dall’arido meccanismo e dalla astratta simulazione di fantasia che dava particolarmente noia nelle commediole nostrane di qualche anno fa (Paradiso, Signorina dell’autobus, ecc.). Quella che ancora occorre discutere è una certa eccessività che non riesce, chi sa perché, a diventare persuasiva vivacità. Eccessività nella recitazione. Per esempio, Ceseri, nella sua parte di capocomico d’una compagnia di varietà, risulta senza dubbio il personaggio meglio caratterizzato. Ma una tal quale compiacenza e smania di strafare convertono alla fine la sua simpatica cordialità nei modi deteriori di una macchietta. In lui rimane sempre qualcosa del “recitare a braccio” e dell’“andare a soggetto”, che poteva piacere sui vecchi palcoscenici; ma non può più sussistere nel cinema, dove manca il contatto immediato e la reazione moderatrice del pubblico. Altro caso: Maurizio D’Ancora. Camerini ne aveva indovinato il tipo nel Figaro e la sua gran giornata, stilizzandone la figura nel ruolo classico dell’amoroso timido. Qui l’errore è stato di volergli far fare l’attor giovane di americana esuberanza: canzonettista (anche se si vuol chiamarlo “fine dicitore”), ballerino, col diavolo del palcoscenico in corpo e con l’ineluttabile predestinazione a far trionfare questo diavolo. Un ballerino di quello stile non si lascia succedere le avventure, tra crepuscolari e provinciali, che accadono al protagonista di Nozze vagabonde. Il male è che D’Ancora deve prender sul serio una tale parte ed è costretto anche lui ad eccedere. Quanto a Leda Gloria, si direbbe che questa volta le è mancato il regista. Eccessività anche nelle trovate. C’è ovviamente tanto sperpero d’ingegno perché le varie situazioni si accendono e si spengono senza riuscire ad ingranarsi nella trama del film, né a scattare con la dovuta naturalezza. Per esempio, tutta la sequenza della fiera con la rievocazione del cinematografo dei baracconi (l’annunciatore avvinazzato che fa la spiegazione dei quadri): poteva essere bellissima, se tutto il contorno delle trovate analoghe (quella, poniamo, del fotografo

ambulante) non finisse col livellarla ed ingrigirla. Naturalmente soggetto e sceneggiatura sono questa volta un poco a rime obbligate. Si trattava di servire ad un grande esperimento di cinematografia stereoscopica. I risultati, che ancora non abbiamo veduti, potrebbero spiegare tutto. Compresa la scena finale, in cui una sala da caffè concerto occupa un metraggio evidentemente sproporzionato all’esiguità delle invenzioni coreografiche. Vorrà dire che, per una volta tanto, gli artisti avranno rinunciato alla loro boria proverbiale per mettere in buona luce i tecnici…

Il Corsaro Nero di Amleto Palermi “Il Corsaro Nero! Il filibustiere più audace della Tortue era raffinato, bello, galante e la sua lama invincibile non perdonava”. Il vecchio Salgari sapeva, dopo tutto, “mettere in piedi” le sue figure: renderle sommariamente, ma irresistibilmente, vive; pronte a colpire l’immaginazione come, nei loro fantasmagorici duelli, avrebbero infilzato con lama invincibile l’avversario. Salgari, detestato dai maestri di scuola, che ce lo strappavano di mano quand’eravamo ragazzi, per darci in cambio altri autori molto più forbiti e grammaticali e noiosi, Salgari aveva del ritmo. E fa meraviglia che così di rado si sia pensato di portar nel cinema i suoi libri, perché quel ritmo, per quanto ce ne ricordiamo, era cinematografico. Viceversa non fa meraviglia che proprio la nostra generazione, ai tempi della prima adolescenza, abbia dato segretamente la palma a Salgari: la nostra generazione, che era destinata a consacrare il cinema come la grande arte spettacolare del secolo. Il Corsaro Nero: chi non lo ricorda? La storia del bello e inflessibile vendicatore che raggiunge a Maracaraibo il famigerato Van Gould e finalmente riesce a precipitarlo – dopo un duello da romanzo di cavalleria – dall’alto di una scogliera, facendogli pagare il fio dei due suoi fratelli uccisi. E Amy, la donna dell’ombra, la sacrificata; e Honorata, la gentile, la bellissima… Furono tra le prime “donne ideali” che infestarono la nostra fantasia di ragazzi; ora, a ripensarle, ci paion quasi assurte in un mondo che vorremmo poter chiamare di poesia. E accidenti, per una volta tanto, alla critica “estetica” che fa la schizzinosa! In questi anni il cinema d’avventura, tra noi, era rimasto un po’ in sott’ordine: roba per “seconde e terze visioni”, al rango di certe commediole troppo facili. Tornare oggi, come s’è fatto, in grande stile a quel genere trascurato è segno di un più maturo senso del cinematografo. Segno di aver superato le pigre abitudini, e le arrugginite posizioni drammatiche e comiche d’esito certo (o presunto tale); di aver compreso che il cinema sa e deve intonarsi allo spirito giovanile d’oggi, sitibondo di moto, di rischio, d’aria aperta e di coraggio. Non per niente due degli interpreti principali sono stati scelti tra i migliori rappresentanti della nostra giovinezza sportiva e cresciuta nel nuovo spirito agonistico: Ciro Verratti, il campione di scherma, e Ada Biagini, detentrice anch’ella di cospicui primati nella scherma e nel nuoto. “Corsaro Nero” non significa tanto una figura, un popolarissimo eroe di romanzo – quanto un ritmo, una volontà di movimento e di fantasia. E, cinematograficamente, l’impegno di dar forme concrete ed accurate ad una materia che la letteratura s’era contentata di sbozzare e divulgare in uno stato più rozzo.

Kermesse eroica di Jacques Feyder Un film, che se non fosse d’una grassoccia malizia fiamminga lo si direbbe, noi italiani, d’un pingue buonumore boccaccesco. Dio benedica Feyder, che fra tanta musoneria e puritanesimo di dubbia lega (la schietta e virile eticità è un’altra cosa, si prega di non confondere) ha avuto il coraggio e il buon senso – un coraggio e un buon senso addirittura “all’antica” – di mettersi a raccontare una storia senza tesi, senza doppio fondo, senza “ricerche” né “intenzioni”, ma tutta viva, allegra e scoperta, proprio fatta per la gioia di chi narra e per la gioia di chi ascolta. Il migliore elogio del film pensiamo possa essere questo: assistendovi sembra di stare accanto al fuoco. Un bel ciocco

scoppietta nel caminetto, dentro l’ampio e patriarcale camino; nella penombra della cucina tutta odorosa di arrosti e di spezie, dove occhieggiano i riflessi ramati delle casseruole, si sta come giovanotti e ragazze “a veglia” – nel buio della sala di proiezione. Che festevolezza di vicende e di forme, che arguzia di aneddoti, che tenero sapore di gioventù in questa magistrale appendice moderna del classico Uelenspiegel! Viene in mente lo spirito bizzarro dei Bruegel: quelle loro collezioni stupefacenti dei “grassi” e dei “magri”, quelle fantasie grottesche, quelle calde caricature d’un mondo tutto difetti e tic, vizi e ambizioni e debolezze – ma anche cosi ingenuo e fresco che lo si assolve subito, come un dolce peccato veniale del quale ci dispiaccia magari un poco, in fondo al cuore, di non esserci resi colpevoli anche noi… Cinematograficamente, l’opera è magistrale in ogni parte. Recitazione, inquadrature, messinscena, costumi, montaggio, equilibrio tra parlato e commento musicale, tutto da ammirare a bocca aperta. Feyder è giunto a una scioltezza e ricchezza di “mestiere” invidiabili da chiunque. Si vedano certe sequenze esemplari: come quella d’apertura con la descrizione delle vecchie strade e del mercato; quella “sognata” del sacco della città per opera degli spagnoli; o quell’altra del matrimonio, così arguta, nobile, ammiccante. Pezzi di prim’ordine. E le gags: basterebbe la trovata del rullo di tamburo agonizzante dietro la porta chiusa, una delle più forti che si conoscano dall’invenzione del sonoro in poi. Saporiti dettagli d’ogni specie, un dialogo sempre essenziale e vivo (con battute, qua e là, degne di passare in proverbio), una fotografia stupenda nei suoi vellutati giuochi di chiaro e di scuro: non si finirebbe più di lodare. La produzione francese “media” ci dà tanto spesso delle delusioni, che è giusto segnalare senza riserve quei tre o quattro film di primo piano ch’essa riesce pure a darci ogni stagione: l’ultimo Chenal per esempio, l’ultimo Duvivier di quella eccellente opera tragica che è La bandera, il Feyder di questa ultima squisita opera comica.

L’imperatore della California di Luis Trenker La storia di Johan August Suter che, esule dalla Svizzera, approdò ai lidi del Nuovo Mondo nell’epoca in cui questi rappresentavano il segno di tutte le aspirazioni romantiche (Nuovo Mondo = mondo nuovo); che, dopo varie vicissitudini, raggiunta finalmente la California, vi fondò una colonia di pionieri, trovandovi effimera fortuna e poi la morte, offre a Luis Trenker il pretesto per un nuovo film, che continua spiritualmente il ciclo del Figliol prodigo. Specie di autobiografia lirica, che il Trenker viene via via calando in episodi di vario significato; ma di atmosfera e di piglio sempre omogenei e coerenti. In un certo senso, anche i film di montagna con cui questo attore-regista aveva cominciato a rivelarsi, appartenevano già a questo tipo di ispirazione. Ma negli ultimi lavori egli si è impegnato in un mondo più ricco di responsabilità e di significati. Autobiografismo, identificazione del narratore con l’eroe della narrazione sono sintomi prettamente romantici. E romantico è Trenker con una persuasione così intima e completa, quale di rado si ritrova ai giorni nostri. Se gli dovessimo cercare un ispiratore, saremmo costretti a pensare al Wagner più integralmente romantico: a quello della Tetralogia. Anche nel Trenker una concezione umana e sociale, e magari sociologica, è tradotta in grandi affreschi, a cui momento per momento la forza ed il prestigio dell’espressione artistica dovrebbero conferire una presa immediata, quasi sensuale. C’è di più: uno dei motivi fondamentali dell’Imperatore della California è proprio quella “maledizione dell’oro” che, nella Tetralogia, determinava il crepuscolo degli Dei, e il crollo della loro rocca, il Walhalla. Qui si tratta di un Walhalla molto più frugale e domestico: la grande fattoria fondata da Suter presso la nascente San Francisco. Ma nel momento in cui un compagno, quasi un fratello del protagonista, gli porta l’annunzio di aver scoperto l’oro sulle rive del fiume, succede davvero qualche cosa di sinistro, di oscuro: e se non si ode il pianto delle figlie del Reno coi suoi cosmici significati, certo sono nel Trenker, e risultano anche represse, delle intenzioni ampiamente

moralistiche. D’altronde, l’uccisione dei bambini di Suter da parte degli agricoltori ribelli e divenuti cercatori d’oro, potrebbe apparire un episodio arbitrario ed inutilmente crudele, se non fosse lì ad esprimere quelle intenzioni: a tradurre, appunto, in una vistosa allegoria il tema della “maledizione dell’oro”. Insistiamo sul wagnerismo del Trenker perché esso spiega l’impostazione dei suoi film, sia dal punto di vista dell’arte, quanto da quello della tecnica. La bellezza, a volte perfin virtuosistica, della inquadratura, e della fotografia funziona appunto come uno di quegli elementi di “prestigio” e di magia, che dovrebbero incatenare lo spettatore ai significati superiori contenuti nella favola. Perfin l’alpinismo di Trenker (le guglie cadorine che diventano i grattacieli di New York nel Figliol prodigo; e qui l’ascensione sulla cattedrale fa pensare alla più bella delle scalate dolomitiche) porta la data di un certo “gusto” dei dômi, degli alti gioghi, delle “solitudini beate del cielo”, che storicamente fu contemporaneo al periodo di maggiore divulgazione della musica wagneriana. E lo stesso accompagnamento musicale di quest’Imperatore si rifà ai “filtri”, al sinfonismo, del Maestro di Bayreuth. D’altronde, il modo medesimo come il Trenker manifesta la propria personalità: soggettista e sceneggiatore e regista ed interprete dei suoi film, presume una concezione del cinema come arte che assomma in sé tutte le arti: concezione di cui è ormai superfluo ripetere le ascendenze. Naturalmente quando un’ambizione così ardua e vasta riesce a ritrovarsi in motivi consentanei al più schietto temperamento dell’artista, la nobiltà immancabile dei film del Trenker diventa vera e propria eccellenza poetica. Una certa predilezione per il rude, il monumentale, lo squadrato (quella che, in pittura, è stata l’ispirazione di un Hodler o di un Egger-Linz) ha fruttato per esempio, la sequenza dei taglialegna del Figliol prodigo o quella iniziale dei Cavalieri della montagna. E come la poesia del vagabondo dimesso, dell’eroe vinto, ispirava la New York del film precedente; così la poesia del vagabondaggio eroico, l’epica dell’avventura fa nascere qui le mirabili scene della traversata dei deserti americani. Al qual proposito, vien fatto di pensare che un artista europeo, operante in Europa, possa dar dei punti agli stessi americani nel modo di rappresentare i grandi orizzonti del loro paese.

I quattro moschettieri di Carlo Campogalliani Ecco che la vecchia tradizione marionettistica italiana, dapprima squisitamente regionale e poi, ultimamente, col teatro di Vittorio Podrecca, portata ad assoluta autonomia e tale da permettere col più grande successo e con vera arte la recitazione di opere buffe, di commedie e tragedie classiche, viene assunta e ringiovanita dal cinematografo. È fatale che il cinema, quale spettacolo per sua stessa natura moderno, assorba, rielabori e impronti di sé ogni manifestazione della vita e dell’arte, senza limiti di tempo e di spazio, di soggetti e di interpretazioni, così che le cose più vecchie vengono per questo mezzo portate sul piano della più viva attualità. L’invenzione favolistica dei cartoni animati ci dà un’idea di quanta forza di novità e di fantasia sia capace il cinematografo. L’antichissimo linguaggio del disegno lineare o campito con semplici colori, ha trovato in Disney il suo mago e poeta moderno. Egli non solo ha saputo dargli anima e movimento vivaci, ma anche creargli un mondo allegorico che il nostro tempo è ben felice di accogliere. Favole deliziose e per alcuni aspetti più affascinanti dei film realistici. Ora le marionette dei Quattro moschettieri possono rappresentare benissimo l’equivalente italiano dei cartoni animati d’America; ma potrebbero anche, se usate con molto gusto e molta intelligenza, superarli: in quanto che il loro naturale umorismo, la loro sagoma e costituzione fantoccesca tendente a parodiare la persona umana, si prestano ad una satira dei sentimenti e dei costumi ben più efficace, ad una favolistica assai più fantastica, con in più ancora l’inevitabile senso metafisico che sprigionano i loro corpi di legno, le loro barbe di crine, le loro acconciature funambolesche. Noi ci auguriamo senz’altro di vedere presto un film di marionette a colori, coi colori più irreali e

immaginosi che ad esse si possano intonare. Intanto questo film di avventure anacronistiche ci è piaciuto e ci ha divertiti come se fossimo diventati fanciulli. Fric e Froc, rifatti sui modelli di Stan Laurel e Oliver Hardy, erano esilaranti; le scene, specie quelle della nave e dell’osteria, molto ben fatte. Ottima la regia di Carlo Campogalliani, vecchio ed espertissimo burattinaio il cui nome riempì magicamente la nostra infanzia; la quale regìa ha il merito di aver soddisfatto con mirabile abilità alle esigenze cinematografiche rispetto ad una forma rappresentativa ch’era nata per il teatro.

Vigilia d’armi di Marcel L’Herbier Marcel L’Herbier, il regista di Futurismo, sdegnoso esponente del cinema francese d’avanguardia, è riuscito a realizzare un film che ha riscosso, specialmente nella Mostra veneziana, unanimi lodi per la sua alta efficacia drammatica e spettacolistica. Qualche critico accreditato ha addirittura scritto di un “ottimo film di cassetta”. Toccava nientemeno che a L’Herbier risolvere, almeno in un documento, due dei più gravi problemi della cinematografia francese: quella superiore cifra commerciale, che forma la indispensabile base pratica del cinema-grande industria, e la più aderente e cinematografica recitazione dei grandi astri del teatro di prosa francese. Perché la produzione della consorella latina mostra di voler rimanere fermamente legata a due presupposti che sono di fronte a quella americana i suoi caratteri distintivi: la forte e indipendente individualità di un gruppo di registi (Clair, Feyder, Chenal, Duvivier, L’Herbier); e l’autorità cartellonistica dei massimi attori di prosa. L’Herbier non ha temuto che la popolarità del notissimo dramma di Farrère e la notorietà di Signoret, protagonista non felice fin dagli anni primi del cinema di molti film, nuocesse al suo lavoro. Annabella, come sempre, era una carta sicura nel gioco del regista: elemento di forte fascino femminile e di sottile profondità di interpretazione. Ma il gran peso del dialogo e tutta l’atmosfera teatrale che permeava il soggetto potevano rappresentare dei fattori negativi. L’Herbier, di colpo, si è collocato con questo film tra gli autori più realistici della nuova cinematografia francese; si è ripetuto per lui il fenomeno che avevamo già osservato in pittori e scrittori reduci dalle più spinte esperienze d’avanguardia. Le avventure cinematografiche di quindici anni or sono hanno contribuito a dotarlo di una non comune padronanza sulla ribelle ed eterogenea materia della nuova arte. Egli, per esempio, non solo è riuscito ad accompagnare la persuasiva spiritualità di Annabella, ma a vincere pienamente la resistenza teatrale dì attori come Signoret e Francen. Dopo tanto parlare di film di eccezione, probabilmente bisognerà concludere che la vera eccezionalità si presenta il più delle volte sotto la maschera di opere d’una produzione normale in cui tutti i mezzi di una industria potente e organizzata sono posti al servizio di una intelligenza nuova, creativa, originale, e perciò stesso di eccezione. È il caso di Pattuglia sperduta. John Ford vi realizza in pieno quell’ideale di coerenza stilistica che Il traditore, malgrado l’alto suo assunto e la suggestiva poesia, non ha saputo ripetere con altrettanta integrità. Perché nel Traditore, pathos ed atmosfera, potevano talora tralignare in una sorta di esasperazione monocorde e in una compiaciuta insistenza, essere traditi dal campeggiare, a volte fin troppo enorme, del protagonista. In Pattuglia l’equilibrio è assoluto: non bastano certi smaniosi e deliranti arrovellamenti di Boris Karloff, nella figura di un invasato dalla mania religiosa, a fargli perdere la sua linea tutta alta, indomabilmente alta. Perfino il pericolo di questo personaggio è riscattato nella figurazione del finale per cui non si esiterebbe a spendere, una volta tanto, l’aggettivo “sublime”. Quando, pellegrino del deserto, legati in croce due bastoni, s’avvia verso il nemico invisibile, che ad uno ad uno gli ha ucciso quasi tutti i suoi compagni, come verso una mistica terra promessa. Finita la guerra, una pattuglia di cavalleggeri inglesi in perlustrazione nel deserto mesopotamico, perde improvvisamente, colpito da una misteriosa pallottola, il proprio

comandante: solo l’ufficiale conosceva la rotta che doveva compiere il piccolo gruppo per ritornare alla sua base. Rimasta al comando di un vecchio sergente (Victor McLaglen) la pattuglia si aggira invano, in cerca di tracce, finché raggiunge un’oasi inspiegabilmente abbandonata malgrado l’attraente pullulare dell’acqua, malgrado la piccola moschea che vi sorge. Ebbrezza fisica degli uomini, ebbrezza religiosa dell’invasato che sa di essere nei paesi in cui la Bibbia pone i giardini dell’Eden. Il sergente non vorrebbe concedere che una sola notte di tregua, ma nella notte un ululo di vento sinistro: i cavalli sono scomparsi; la giovane recluta rimasta di guardia è caduta. Fuori, sullo sterminato inseguirsi delle dune, nessun segno di presenza umana. Cadono, ad uno ad uno, gli uomini appiattati in quel piccolo Eden attraente e traditore. E il nemico non si vede mai. A fianco del suo apparecchio cade anche il tenentino sportivo e azzimato finalmente giunto per tentare il salvataggio. Non si salva che il sergente, quando gli arabi, credendo di aver compiuto l’eccidio, emergono dalle dune abbaccinanti coi loro barracani neri: una risata selvaggia e il sergente, acquattato nella sabbia, li fulmina con la pistola mitragliatrice che è riuscito a togliere dall’aeroplano. Giunge in quel punto la colonna di salvataggio e, all’appello del capitano, il sergente si ricompone e presenta la sua pattuglia: sette tumuli su cui rilucono le spade. Questo riflesso, “l’unico effetto” che Ford si conceda (a parte due o tre mal giustificati passaggi a trucco), rompendo nell’attimo finale la formidabile unità fotografica del film, ne denuncia anche più vivamente la coerenza. Il sapore di implacabile aridità del deserto s’è tutto tradotto in una visione calcinata, tutta tesa nella linearità di un racconto scabro, che quasi non conosce riposo o conforto di episodi, ostinata come il più terribile degli incubi: l’incubo solare. Abbiamo ripetutamente parlato di coerenza: dovremmo meglio dire intransigenza. Intransigenza anche nella drammaturgia, aliena da tutti gli espedienti cinematografici, perfin da quello più elementare che è la presenza avvivatrice della donna. Intransigenza che costituisce, appunto, la forza esemplare, lo stile medesimo di John Ford.

Allegria di Willy Forst Tema anzianotto. Come ridurre alla ragione matrimoniale lo scapolo ripugnante dal dolce vincolo? Il film dà l’ennesima risposta all’interrogativo. La fanciulla si fingerà frutto proibito; ovverosia sposa al miglior amico del giovanotto. Il risultato s’indovina; come pure gli equivoci venerandi connessi ad una situazione così divulgata. Il Forst di Mascherata e Mazurka tragica s’è provato qui nel genere leggero, stirpe Segretaria privata. A giudicar dal saggio, non la si direbbe materia per lui. Queste posciadine esigono una certa dose di cinismo stilistico, una tal quale spregiudicatezza di ritmo, una sottile sfacciataggine da parte del regista. Guai a chi si mantenga umbratile; a chi serbi qualche segreto delicato o doloroso nelle pieghe del racconto. Forst non ha nulla del Lavedan; in piccolo, ricorda piuttosto un Maupassant: con la sua grave tenerezza d’uomo maturo, col suo denso ed attento sentimento del dramma. È un osservatore accorato della borghesia dorata, dei conflitti intimi nella buona società. Un gusto del “costume” è in lui vivo come l’intuizione delle psicologie convenzionali: una signora stretta nel busto, un professionista con la barba non possono nasconder niente alla sua finezza crudele, alla sua implacabile malinconia. È un fine giudice, è un poeta minore, dei salotti fin di secolo. Con gli spensierati, i fannulloni, i ricchi e gli sportivi d’oggi gli manca ogni contatto. Non li capisce e non sa farli muovere. La leggerezza abituale del suo tocco si appesantisce; più s’arrampica sugli specchi per farci divertire, più il dono del brio gli si nega; il montaggio narrativo si smaglia in gelidi e lenti episodi di qui-pro-quo senza frizzo. Al suo confronto, lo Sternberg di Desiderio di re è un Lubitsch addirittura. Due brani molto intelligenti, che portano la miglior marca dell’artista, emergono all’improvviso da questa regia opaca e dinervata. L’uno, l’aneddoto della moscacieca tra i due fidanzati: d’una semplicità così incisiva e cesellata, d’un “tempo” cinematografico così armonioso ed arguto, da

ricordate talune riuscite del primo René Clair. L’altro, l’episodio della baruffa sognata tra i due rivali e la loro comune amante: frammento di tono surrealistico assai bene incorniciato nella “scialbatura” ai margini del fotogramma. È un ironico pezzo di bravura, che, nel suo giovarsi di trucchi ormai in disuso quali il rallentato o la marcia indietro, nel suo insistere su angolazioni e deformazioni eccentriche, su illuminazioni espressionistiche, potrebbe a buon diritto intitolarsi: “Omaggio postumo al film d’avanguardia”. In questi due tratti il Forst è riuscito a scarabocchiar rapidamente la sua firma.

Sotto due bandiere di Frank Lloyd È un altro film che sfrutta, quest’anno, il tema della Legione Straniera. Dovrà la sua salvezza, certamente, al gioco di due magnifici attori, il Colman e il McLaglen che avranno avuto, col Traditore, con La pattuglia sperduta e con le Due città una stagione veramente fortunata. Ma non potrà certo dirsi che questo poema della retorica del deserto e dell’avventura rimarrà come una bella pagina nell’opera di Frank Lloyd, regista, non dimentichiamolo, della Tragedia del Bounty. Chi volesse studiare a quali volute superficialità, a quale deliberato gusto di oleografia possa giungere lo spirito commerciale dei produttori americani, veda, appunto, questo film. E per esso il tamburo è stato battuto, su per giù, con l’istesso ritmo che per le Due città: migliaia e migliaia di comparse, decine e decine di attori di primo piano, una lunghezza di proiezione almeno il cinquanta per cento maggiore del consueto. Si direbbe che la produzione americana voglia tentare un nuovo genere: una sorta di grossa e popolarissima appendice, ricca di una straordinaria varietà di scene, di una puerile e sensazionale concatenazione di avventure, del prestigio di alcuni massimi attori. Non è detto che, consentendolo i risultati commerciali, anche questo genere non deva pervenire a risultati di vera arte. Per ora, innanzi a questo film di legione straniera, non si può non ricordare la dura efficacia di un Bandera. Più ancora che il celebre romanzo donde è tratto, questo film allea due qualità di solito tanto difficili da metter d’accordo: un’estrema, popolare evidenza del dramma ed un severo, aristocratico controllo dello stile. Si sa che il successo che ebbe, ed ha tuttavia, il racconto di Kessel, uscito qualche anno dopo la grande guerra. Nella più nuova delle guerre, quella del cielo, il Kessel ritrovava gli aspetti, sempre affascinanti e patetici, dell’antica cavalleria; donde traeva le conseguenze estreme: cioè il tragico urto dei “fratelli d’armi” (rammodernati in compagni di equipaggio: pilota ed osservatore) che rivalità d’amore mette l’uno contro l’altro. Tema eminentemente melodrammatico. La regia di Litvak ha il merito, incredibilmente raro, d’essere sempre presente e vigile, senza mai farsi pesare: anzi, senza neppur farsi avvertire. Un artista che sa il suo mestiere, tutto il suo mestiere, e conosce anche a menadito l’intera gamma degli effetti che se ne possono cavare: ma questa sapienza non si converte mai in arroganza, né la sicurezza diventa mai astratta bravura. Quanto agli interpreti: Annabella, Aumont, il sempre simpatico Murat, tutto bene. Ma il centro è Vanel: onnipresente nel film, eppure esente da ogni gigionismo, in un “carattere” depresso, doloroso, contraddetto, che tocca qua e là una disperazione veramente tragica. La musica di Honegger, soprattutto nei due squarci sinfonici di volo e di battaglia, è certo la più bella di quante egli abbia finora composte per il cinema.

Fuori l’autore

È curioso che si discuta ancora se il cinema sia un’arte; più curioso che la discussione si svolga come un processo di “ricerca della paternità”. Vogliamo sapere chi è il responsabile. Vogliamo sapere se ci sia, e chi sia il poeta, l’artista creatore, e vi diremo se il cinema è arte o non lo è. Il gran giorno per gli esteti, i codificatori e i dottori del cinema sarebbe quello in cui, senza più dubbi, potesse prodursi la suprema agnizione, l’agnizione del vero autore; ma un’agnizione proprio di quelle che, nelle commedie classiche, finalmente mandavano a casa il pubblico contento e soddisfatto. Si ha quasi pudore di tirare in ballo la solita cattedrale gotica. Gli antichi ed anonimi suoi costruttori non si sognavano certo di dover finire a costruir pilastri critici od a gonfiar vesciche estetiche. Bisognerebbe decidersi ad usarli con discrezione. Ma tra le grandi prerogative del cinema c’è anche quella di sfidar la discrezione. E se una forma di attività può ancora legittimamente escutere la testimonianza dei medioevali maestri ed artieri, quella è proprio il cinema. Perché opera collettiva, come la cattedrale. Perché alimentato e sostenuto, quand’è cinema sul serio, da un afflato religioso. Qui molti si scandalizzeranno di questa religiosità regalata anche alle varie Follie di Broadway. Ma l’America insegna. I suoi pionieri hanno fatto carriera cinematografica in tutto il mondo – anche nei paesi dove meno si potevano intendere ed apprezzare le loro vicende – proprio perché la religiosità che ne aveva animata l’opera e le imprese s’è trasfusa in una nuova religiosità di chi ha rievocato quelle imprese per lo schermo. Grazie a questo spirito, un lavoro localissimo, strettamente americano come Cimarron – per citare un caso solo, ma dei più sintomatici – ha potuto conquistare tutte le platee, comprese quelle d’Italia, dove pure la proverbiale arroganza di certi importatori s’era affrettata a mutilarlo in un approssimativo, e quanto peregrino, Pionieri del West. Tra parentesi. Si è discusso, ancor di recente, sugli obblighi di fedeltà storica a cui il film storico sarebbe tenuto. E – le panzane aiutando pseudo-erudite dei cosiddetti “uffici ricerche”, specie americani – si è dimenticato che quegli obblighi non erano tanto di verità oggettiva, scientifica e documentata, quanto di attualità sentimentale. Tutto sta, insomma, a trovare la ragione per cui certi fatti, o figure sono vivi, religiosamente vivi, nelle masse alle quali il film si rivolge: e, prima ancora, in chi per quelle masse crea il film. La Cleopatra di Cecil B. DeMille non è riuscita a salvarsi; ma guardiamoci dall’imputarne l’insuccesso al fatto che uomini americani di origine e di coltura non fossero in grado di rivivere le storie del Vecchio Mondo. Responsabile è piuttosto l’incoerenza di chi, avendo cercato di centrare l’episodio sul fasto quasi truculento dell’ambiente, non ha poi saputo sentire che uno dei motivi per cui le odierne masse possono migrare verso le millenarie rive d’Egitto, in cerca della fatale regina, è appunto un sogno di fasti e di magnificenze favolose. Quel fasto e quella magnificenza sono rimasti pretesti illustrativi e virtuosistici; non sono divenuti il tema religioso, sissignori, e unanime e collettivo del film. Così posto il problema, la ricerca della paternità nell’opera cinematografica diventa un’altra cosa. Oseremo dire: più pertinente e meno soggetta ad errori di attribuzione. I quali erano dovuti, in troppi casi alla smania sistematica, che è anch’essa a suo modo una “pazza di casa”. L’autore doveva essere lo stesso: poniamo, il regista. Bisognava poi sbrigarsela col polipaio delle eccezioni, più numerose forse che la regola. Tacitare, a furia di arguzie e di sofismi, la folla degli aventi causa. Se Greta Garbo è materia passiva ed obbediente nelle mani del regista, dimostrare come mai nei suoi film sia sempre lei a venir fuori dominatrice, e identica sempre a se stessa in ciò che la fa essere Greta Garbo: materia dunque che, per un paradosso veduto solo al cinema, darebbe

forma allo spirito formatore. In realtà, sia presente sul set, o se ne stia in camerino, ovvero nel suo bungalow ad attendere il proprio turno, Greta convoglia le energie e le aspirazioni di tutti i suoi collaboratori, dal regista al macchinista, verso il film di Greta. Lei è l’autrice del film, la vivente figura di quella spiritualità che riesce a calamitare il lavoro di tutti verso il segno dell’arte. Il regista non sarà che un tramite di quel comando: un “buon conduttore”. In generale: autore del film è chi ha il potere di provocare il senso religioso d’una migrazione verso un determinato mondo di figure, di fatti, di sentimenti. Anche quando, per dannata ipotesi, un tal mondo sia cavato dalla più minuta e spicciola cronaca. Pochi, credo, si sentirebbero di sostenere, per esempio, che autore di Piccole donne sia stato l’onesto ma corto mestierante George Cukor, quand’era invece la Hepburn a tener tutto il lavoro sotto il suo ascendente. Meno ovvia, ma altrettanto indubitabile, apparirà nella Imperatrice Caterina la paternità di un barocco ed esaltatissimo scenografo, se anche quello scenografo non sia stato che un messaggero e un portavoce del regista Sternberg. E per un Impareggiabile Godfrey, tra La Cava e i suoi sceneggiatori, l’onore della firma si lascerebbe volentieri a questi ultimi. Viceversa, di fronte a Lubitsch non si dubita un momento: è talmente autore, che riesce a serbarsi tale, anche quando da regista passa a capo di produzione come in Desiderio. E non si parla di Vidor, in cui la equazione religiosa si riduce addirittura ad una identità per quanto la riuscita fuori classe di Alleluja! possa far pensare che lo “spirito” risalisse agli attori negri, protagonisti e masse. Un Clair, invece, ed un Pabst restituiscono al regista, intera, la qualità di autore: anzi, la leggera inferiorità del Fantasma galante è forse da ascriversi ad un Clair spodestato, che rinunzi a favore degli sceneggiatori e del supervisore. Quanto a Pabst, vedete l’ultimo suo film: Mademoiselle Docteur. Tutto l’interesse e la coerenza sono nel modo come l’azione è stata diretta, nei gesti creati a cogliere il sostrato psicologico del dramma: quella psicologia, appunto, in cui Pabst crede, verso la quale orienta tutta la disponibilità di fervore dei suoi collaboratori. Ne abbiamo la controprova negativa: alcuni film di Pabst sonavano falsi, proprio perché egli non riusciva a diventare l’autore: perché il suo psicologismo intellettualistico non giungeva a diventar fede in chi gli stava a fianco. Non si venga a dirci che la soluzione da noi proposta è troppo comoda, troppo ossequente al vecchio sistema che tra i due litiganti dà ragione a tutti e tre. Semmai, queste note vorrebbero proprio dare torto al solito terzo incomodo: nella fattispecie, ad un mestierante di idee, il quale protesta di voler vederci chiaro e si dimentica che, in fatto di cinema, la luce deve venire dallo schermo prima ancora che dai commentatori.

Pabst e il pubblico

Su G.W. Pabst sono state dette molte sciocchezze, tra cui la più insigne rimarrà probabilmente quella di averlo chiamato l’André Gide del cinematografo. Basta aver letto i libri dello scrittore francese ed aver osservato i film del regista viennese per convincersi che tra i due corre esattamente il famoso rapporto di Nabucodonosor col violino. Non interviene neppure, ad accostarli, il fatto che entrambi lavorino in un medesimo clima di preoccupazioni spirituali: i problemi di psicologia morbosa affrontati da Gide non hanno nulla che vedere coi problemi di morbosa psicologia indagati da Pabst. Ma gli intellettuali del cinema avevano creduto di vedere in Pabst un intellettuale del cinema: occasione magnifica per vuotare il sacco. Intendiamoci: che Pabst fosse uno di quei registi che sollevano dei problemi, è cosa indiscutibile. E tra quei problemi uno rimaneva fondamentale: grande artista in una forma spettacolare qual è il cinema, Pabst pareva non comprendere una delle essenziali esigenze della forma spettacolare: la perspicuità. Era appunto questa contraddizione che faceva di lui un regista “difficile”, uno di quelli verso cui il pubblico si mostra diffidente. S’aggiunga che il gioco di Pabst, fino ad un certo momento della sua carriera, è stato di prendere un soggetto popolare e di renderlo, sia pure involontariamente, arduo. E ciò perché egli scavava quel soggetto, lo approfondiva per poi visualizzarlo con mezzi strettamente, rigorosamente cinematografici. Ora tutte le arti, in generale, si impongono allo spettatore in virtù o per colpa di qualcosa che esula dalla purezza del loro linguaggio: un quadro perché contiene della letteratura, una musica perché contiene della descrizione o del dramma, una poesia perché contiene della narrazione o dell’oratoria. E quello di Pabst era del cinema che non conteneva che del cinema. Inoltre, le preoccupazioni e le curiosità di Pabst lo portavano a lavorar sul torbido dell’animo umano; così i suoi film in molti casi arrivavano al pubblico, quando arrivavano, svisati da spiegabili esigenze di censura e di costume. Senonché giunge un momento, in cui anche Pabst sente il bisogno di raccontare una vicenda in modi popolari, d’immediata comprensività ed interesse. Diremo, approssimativamente, che questo momento coincide col sopravvenire del parlato. La parola aiutava questo regista a chiarirsi, rendeva esplicite molte allusioni che prima si affidavano al più difficile linguaggio della pantomima, o dei giochi d’inquadratura e d’obbiettivo e di illuminazione. La svolta era già nettamente indicata da Atlantide (L’opera da tre soldi e Tragedia della miniera non sono né facili né difficili: sono due capolavori), il cui unico torto, agli effetti della popolarità e di una benintesa “facilità”, era di considerare il soggetto, cioè il divulgatissimo romanzo di Benoît, come cosa a tutti nota e che pertanto chiunque potesse ricostruire su semplici accenni, per gustare poi i più particolari sviluppi sui quali si fermava l’attenzione del film. Ma la nuova direzione, più decisamente orientata verso l’immediatezza e l’accessibilità, par che si stabilisca in maniera definitiva con l’ultima opera: Mademoiselle Docteur. E qui occorre ancora di stabilire un fatto: a divulgarsi, Pabst ci rimette o ci guadagna? Con lui hanno ragione le pretese del pubblico, o quelle dei cineasti emunctae naris? Intanto è difficile che un artista preciso e rigoroso come Pabst possa cader vittima di pericolosi rilassamenti, perdere di tensione per il solo fatto che cerca di riuscire esplicito. È quindi da escludersi, anche in tesi generale, che i cineasti abbiano a lamentare un tradimento. (Qual è, per esempio, l’intellettuale che in coscienza possa sentirsi tradito dal Clair più “commerciale” del Fantasma galante?). D’altra parte, la commerciabilità è il veicolo che permette di portare al pubblico le esigenze ed i risultati di un’arte più alta. Se ne

avvantaggia il gusto generale: se ne avvantaggia quello che si chiama il livello della produzione. Né si obietti, contro le possibilità “commerciali” di Pabst, l’insuccesso toccatogli ad Hollywood col film A Modern Hero, che d’altronde il regista medesimo si rifiutò di veder finito. Al suo ritorno in Europa, Pabst ha dichiarato soltanto che ci sono delle esigenze americane di cui egli capisce la necessità, ma che non può accettare per sé. Ma nello stesso tempo ha soggiunto che il suo progetto, appena terminata Mademoiselle Docteur (egli stava allora per iniziarla) era di partire per New York a cercar di combinarvi un Faust con musica ed a colori. E dispostissimo a far del suo meglio per servire anche il mercato. Dalle vicende di Mademoiselle Docteur, la famosa spia tedesca, che ha riempito di sé un’intera letteratura, Pabst ha estratto l’episodio, in certo modo, conclusivo. Il film ci trasporta in uno dei momenti più caotici e confusi della Grande guerra. Tutto il servizio segreto tedesco è sgominato dal tradimento d’un agente vendutosi per aver salva la vita. E per gli Imperi Centrali corrono giorni particolarmente gravi, giacché uno degli alleati balcanici sta trattando la pace separata con l’Intesa. Unica risorsa è Mademoiselle Docteur, che viene pertanto mandata a Salonicco, punto nevralgico della situazione. Occorre ristabilire i collegamenti d’informazione tra Salonicco e le linee tedesche del fronte macedone; occorre impedire le comunicazioni intese a trattare quella pace. Giunta nella città sotto mentito nome e mentita professione di giornalista americana, si trova a dover difendersi, per istinto più che per certa consapevolezza, contro l’agente traditore che, tra francesi e tedeschi, continua a far doppio gioco. L’insidia è acuita dal fatto che costui s’è anche innamorato di lei. Ed ella medesima, l’implacabile, l’incorruttibile eroina dello spionaggio vissuto come una milizia, è turbata da un suo nascente amore per un capitano francese, incontrato durante le peripezie del viaggio alla volta di Salonicco. La classica tragedia tra l’amore e il dovere deflagra nell’animo di questa donna fragile e formidabile, che dovrebbe rubare al capitano francese alcuni documenti decisivi per il trattato di pace. Fortunatamente per lei, quei documenti sono già stati sottratti. Ed il furto era anche stato inutile, perché il Comando francese, prevedendo il pericolo, aveva avuto cura di consegnare al capitano dei documenti incompleti. L’amore è come il granello di sabbia che fa saltare l’ingranaggio. Passioni e sospetti ed inquietudini d’amore, denunzie per gelosia rimettono nelle mani dei francesi il bandolo della segreta organizzazione tedesca. Malgrado la protezione del console americano, che la crede sua connazionale, Mademoiselle Docteur sta per essere catturata. Ma un’incursione aerea piomba la città nel buio: riesce a fuggire, a sottrarsi quasi per un miracolo all’inseguimento del capitano francese che ormai cerca su di lei vendetta, credendola la rapitrice dei documenti. Anni dopo, in un sanatorio, una donna ormai vecchia, smemorata, non riconosce l’ex-capo del servizio segreto tedesco venuto a visitarla. È Mademoiselle Docteur che, travolta anche lei dall’implacabile destino di Mata Hari e di tutte le sue compagne, ha lasciato nel rischioso mestiere qualche cosa di più che la vita: la sua gioventù di donna bella, la forza della mente, la salute. Pabst è un poeta: un severo poeta, diremmo, nonostante la materia torbida ch’egli predilige. E come i poeti veri, quando si mette a narrare, il modo del suo racconto importa quasi più che la cosa raccontata. La regola classica della poesia era: far qualche cosa con nulla. La vicenda su cui Pabst ha lavorato è certo tutt’altro che quel classico “nulla”. Ma egli ha saputo sprigionarne una qualità, concreta insieme ed impalpabile, che supera la materialità, per quanto ricca e fervida, della vicenda. L’equilibrio dei “caratteri”, per cui tutte le figure si plasmano e nessuna sfora, lasciando posto ed evidenza anche ai personaggi minori (l’indimenticabile tipo che va a comperare il melone nella bottega delle spie tedesche!); i rapporti di suggestione che creano l’attesa e la “sospensione” del racconto; e soprattutto l’atmosfera ch’ebbe la guerra nelle retrovie e nelle città del fronte macedone – sono gli elementi che superano il romanzo di spionaggio e, pur attraverso qualche lentezza, lo elevano in un clima in ogni modo interessante, anche se la critica sia così divisa nel

giudizio, se l’accoglienza sia stata così disparata. Poeta e, come i veri poeti, infestato, quasi ossessionato, dal ricorrere delle proprie metafore familiari. Le vecchie tendine mosse dalla brezza finale di Crisi, diventano le tende di velo, sconvolte dal vento, nell’ora della crisi di Mademoiselle Docteur.

In sala o sullo schermo?

Non ho veduto La sinfonia dei briganti, che a quanto riferiscono, è un racconto od una fiaba cinematografica nata da una partitura musicale. Nel qual caso costituirebbe, da un pezzo in qua, l’unico, o quasi, tentativo rivoluzionario nel campo della cinemusica. Oggi il film sonoro sembra preoccupato piuttosto di evolversi come film che come sonoro. E in fatto di musica si contenta di quella, generica per lo più, che gli vien data. Raro, e solo per punti singolari, le chiede uno specifico intervento. Siamo sempre ancora a quella che altra volta chiamavamo musica per film, contrapponendola ad una ideale musica del film. Dunque la musica come un’ars addita arti. Della quale combinazione possedevamo fin qui due esempi principali: il melodramma e la danza. E, come sempre in simili connubî, di convenienza e di ragione, occorreva che uno dei due mostrasse giudizio e cedesse all’altro. Nel melodramma era la poesia a spodestarsi: il libretto prendeva un puro valore d’indicazione psicologica, d’informazione sentimentale o narrativa, di schema ritmico. Nella danza invece questi rapporti sono capovolti: la parte di indicatrice psicologica e di supporto ritmico è affidata alla musica, mentre il corpo umano si assume quella di mediatore lirico. Ora il dilemma per il cinema d’oggi – nei suoi brani più tipicamente sonori – potrebbe ancora esser questo: melodramma o danza? Il caso recente di Margherita Gauthier di Greta Garbo può chiarirci parecchi punti. La situazione “Signora delle camelie” era già nata, si può dire, libretto. La Traviata ha fatto il resto: l’ha resa addirittura il libretto proverbiale. E, sia detto tra parentesi, ci accorgiamo oggi quali sceneggiatori, quali “dialoghisti” fossero Francesco Maria Piave e Giuseppe Verdi: vedi la scena del padre che viene dalla donna a riscattare il proprio figlio: non potrebbe essere più rapida, eppure i momenti psicologici, le svolte dell’azione ci sono tutti, segnati con una chiarezza da cui non si ritorna. Anche gli sceneggiatori ed il regista del film americano si sono rigorosamente astenuti dal trasformare quel libretto in un dramma poeticamente ed umanamente più approfondito. Perfino la più ardita delle loro innovazioni – lo schiaffo, che il barone butta sul viso di Margherita insieme coi denari – funziona soprattutto perché quello schiaffo va a finire sul viso della Garbo. Margherita Gauthier è tutta libretto: libretto di cui la musica è Greta Garbo. Quando, all’annunzio del ritorno di Armando pare che il volto di lei risalga dal fondo della morte, la struggente qualità dell’espressione è di tal natura che non sapremmo tradurla a noi stessi, se non assimilandola, meglio ancora: identificandola con certi incantesimi realizzati dalla musica nella sua specifica e – direbbe Proust – “inestesa” essenza. Ma in questo film, c’è anche della musica propriamente detta. E allora: o è musica magari nota (poniamo, un ballabile dell’epoca oppure L’invitation à la valse), ma che in quel momento ridiventa generica, e noi la sentiamo e non la sentiamo, e tutto va bene. Oppure è musica che generica non può ridiventare, perché ormai è irreparabilmente associata a quelle situazioni, perché insomma è la musica della Traviata, e allora sentiamo che succede qualche cosa di scoraggiante. Sia pure evocato in forma pallida, baluginante appena dal sussurro di un commento in sordina, il prestigio della Traviata è tale che qualcuno butterebbe via anche Greta Garbo, pur di riavere la vera Traviata. Insomma le due rivelazioni liriche dello stesso momento non possono stare insieme, sono incompatibili. Benedetto Croce ama citare scherzosamente un avvertimento scritto nelle sale di musica tedesche, e che qui fa al caso nostro: Mitsingen ist verboten. Vorrebbe dire che in generale la soluzione melodramma è possibile solo a patto che soggetto e sceneggiatura di un film accettino la convenzionalità del libretto d’opera, e questo libretto non trovi poi nelle immagini dello schermo la sua musica adeguata.

Per meglio capacitarci, riflettiamo per un istante sul fenomeno dell’attenzione al cinema. Sarà forza di un’abitudine inveterata: dal tempo dei pianoforti che saltellavano dietro la comica o correvano sulle tracce dell’inseguimento o si svisceravano sui gesti patetici dei primi divi, noi non sapremmo più vedere un film se, almeno nelle parti non parlate, non lo accompagni una musica (gli eventuali silenzi, se giustificati, sono ancora musica). E tuttavia, se si perdona la metafora barocca, quella è una musica che si sente con la coda dell’orecchio, come certe cose si vedono con la coda dell’occhio. Non deve captare l’attenzione, ma soltanto sostenerla: bloccare, in una maniera tra simbolica e fisica, quel mondo circostante in cui essa l’attenzione correrebbe il rischio di disperdersi. Riempirlo, per spopolarlo di altre immagini. Una musica infine che rinunzî alla diretta capacità di evocare immagini in proprio. Ed effettivamente, nella maggior parte dei casi, la cinemusica non pare che per ora manifesti altre aspirazioni. Il cinema stesso, secondo viene oggi orientandosi, non tollera musiche di carattere più esclusivo ed invadente. Col suo potere di autodecisione, esso va bravamente sfidando tutte le “poetiche” più o meno teoriche ed ideali che s’era tentato di escogitargli alla nascita del sonoro. E sempre meglio va perfezionando una formula sui generis, nettamente cinematografica, di teatro filmato, che dal teatro assume le situazioni ed al cinema il movimento, per concretare un irresistibile indiavolato movimento di situazioni. Ci saranno, beninteso, i casi in cui, proprio per questo suo compito, la musica riprende, ed è giusto, il comando. E si verificano soprattutto allorché lo schermo abdica lui ad una troppo perentoria concretezza dell’immagine, anzi fluidifica la trascorrente successione delle proprie figure, cercando che ciascuna di queste imprigioni il minimo di durata, opponga il minimo di resistenza. Pensiamo a certe sequenze che hanno unicamente per iscopo di trasportarci da un punto X ad un punto Y. Non dico che siano sequenze vuote, semplici archi o ponti gettati tra due momenti più impegnativi del film: tutt’altro. Ma ciò che in esse importa è la tensione che le rapisce via. Per fare un caso: le sequenze dei voli di guerra nel film L’equipaggio tratto dal romanzo di Kessel. Gli episodi singoli di questi voli possono anche avere un valore in se medesimi, ma noi non sentiamo bisogno di moltiplicare il tempo che essi occupano sotto i nostri occhi, per un tempo speciale, elettivo, creato dalla nostra attenzione. Ebbene: la musica con cui Honegger ha sincronizzato quelle sequenze riesce esemplare, nel senso che decide lei il ritmo della nostra attenzione, la mantiene incalzante, tesa verso l’avanti, le fa da pungolo, le proibisce ogni indugio. E se a volte essa paia concedersi figurazioni più plastiche, ascoltatela meglio: vedrete che è proprio negli attimi in cui le occorre di assorbire quel di più della nostra attenzione che rimarrebbe in disponibilità, in pericolosa disponibilità. Intervengono allora piccoli disegni rivelati e rapiti dal turbine dell’insieme: brevi frasi o accenni di frasi sicuramente associati ad immagini guerriere, a cavalcate di eroi, a galoppi volanti di Valkyrie. Il medesimo punto di vista che ci ha permesso di escludere l’apoteosi del melodramma ci permetterà pure di scartare quella della danza. Davanti alla danza la nostra attenzione è paragonabile ad una lastra fotografica la quale, nel registrare le immagini, insieme protenda la sua sensibilità anche lungo il fascio di raggi luminosi che, dipartendosi da quelle immagini, vengono ad impressionarla. Insomma: se lo strato principale dell’attenzione afferra e sposa i movimenti del ballerino, dal rovescio, dalla faccia posteriore di quello strato sembra emanare una vaga, sospesa ricettività, e diffondersi nella zona invisibile che la musica attraversa per diventare danza, nella zona dove la musica è ancora una forza potenziale di moto, un fascio di radiazioni che il ballerino cattura e rende visibili. Al cinema invece la nostra attenzione esige di essere assorbita dallo schermo, di non essere succhiata dalle eventuali influenze che la musica possa esercitare sullo schermo. Perché in tal caso verrebbe meno la principale ragione d’interesse del cinema: quel senso d’una forza autonoma che muove il racconto, quella persuasività di una vicenda che basta a

se stessa. Le cosiddette “riviste”, composte appunto di danza e coreografia, costituiscono una smentita solo apparente. Meglio ancora, avvalorano la nostra tesi. Perché tutto lo sforzo del film come narrazione è precisamente di ricordarci che danza e coreografia non sono fine a se stesse, anzi intervengono come episodi funzionali, costruttivi di una vicenda. Se la danza e la coreografia in carne ed ossa debbono cercare di farci dimenticare la convenzione della pedana e del palcoscenico, danza e coreografia portate nel film debbono invece accusare il palcoscenico: mostrarcelo esplicitamente come uno dei luoghi per cui i personaggi passano, travolti dalla loro vicenda; così come, qualche inquadratura dopo, quegli stessi personaggi passeranno per l’ufficio dell’impresario, per un covo di gangsters, per una strada tra le Montagne Rocciose, e via dicendo. Tirando le somme, la cinemusica è oggi principalmente una complice della nostra attenzione, ed il suo luogo ideale è piuttosto in sala tra gli spettatori che sullo schermo coi personaggi. Ricordiamoci dei dialoghi svolgentisi su sfondo sonoro: ben lontana dalla funzione che avrebbe in un melologo, la musica segna invece, e genericamente, lo stato d’animo del pubblico. Tanto più tipiche allora, e definibili, le congiunture in cui essa lascerà la sala per riascendere sullo schermo. E si danno quando l’attenzione visiva non basta più a chiarire completamente il film, quando la vicenda acquista una nuova dimensione, che l’occhio non potrebbe percepire: una dimensione, poniamo, nel tempo o nella coscienza. Molti ricorderanno, nella Maria di Scozia della Hepburn, la suggestione prettamente cinematografica di quelle cornamuse scozzesi annunzianti l’arrivare e il dipartirsi di Lord Bothwell. Il senso epico ed avventuroso di una vita feudale e cavalleresca, tutto l’alone del personaggio di Bothwell che la sola presenza di Bothwell sullo schermo non basterebbe a significarci, entrano nell’azione attraverso la figura sintetica e leggendaria di quel tema che oserei chiamare timbrico, sono rievocati dalla voce discorde ed acuta, gioiosa e marziale di quelle cornamuse. Come il compare che, a metà dello spettacolo, s’alza ad offrire i suoi servizi all’illusionista, la musica è salita sullo schermo. Ed è divenuta il cicerone lirico d’un mondo di inafferrabili rapporti spirituali che lo schermo non era più capace di illustrarci. Ha insomma, per una via dissueta, recuperato il suo privilegio d’essere la musica: cioè quell’arte che in apparenza arriva dove le altre arti in apparenza non sanno arrivare.

Stroheim a Parigi

L’ultima tappa di Erich von Stroheim, quella che l’ha portato a Parigi, dall’America che non vuol saperne di lui, ha lo stesso senso patetico dei più belli e dolorosi film concepiti e realizzati da Stroheim. Vien da pensare, quasi ineluttabilmente, al finale di Il gran Gabbo. Forse con lo stesso animo, il grande artista del cinema s’è imbarcato, mesi fa, per Parigi. L’America l’aveva ridotto alla fame. Si potrebbe dire che Stroheim esprime, attraverso il cinema, un mito superstite e maligno del superuomo così come Charlot esprime quello del vinto remissivo e dolce. Ma Chaplin, nella vita pratica, non sconta il mito di Charlot: anzi passa come un poeta vittorioso e quasi sempre adorato. Stroheim invece è soggetto a tutte le conseguenze morali del suo genio tagliente, ostinato ed in perpetua attitudine di provocazione. Si capisce che sia superstizioso: il suo istinto profondo è proprio di portarsi male, di rovinarsi la carriera, di darsi torto pur avendo ragione. I suoi film americani hanno avuto più che dei successi, gli hanno dato la gloria; pure di nessuno si può dire che abbia realmente ottenuto un successo di pubblico. La relativa impopolarità, lo scarso rendimento di cassetta si moltiplicavano per il costo favoloso di quelle opere. Lavorazioni che duravano anni, montagne di pellicole vergini girate, dollari buttati come manciate di sabbia. E alla fine usciva, dall’ultimo montaggio, un film di diecimila metri, che non poteva servire a nulla e a nessuno. The Wedding March (Paramount 1928) sarebbe durato, nella sua integrità, otto ore di proiezione. Se ne cavarono infatti due film normali: Sinfonia nuziale e Luna di miele, e chissà quanto materiale eccellente fu dovuto buttar via. Chi rilegga la lista delle produzioni di Stroheim, constaterà che questo regista-attore non seppe mai conservarsi un contratto. Negli ultimi anni, i produttori, prima ancora di stancarsi di lui, ne avevano paura: gli chiudevano le porte a priori. Ed eccolo ridotto ad accettare delle parti in film francesi. “Ridotto” per modo di dire: vedremo come, dal suo posto subordinato, riuscirà a reagire su quei film, ad influenzarli, forse a dominarli. Nell’ultimo, Marthe Richard au service de la France, egli impersona la figura di un ufficiale tedesco, addetto durante la guerra al servizio segreto. E c’è qualche cosa di autobiografico, di inconfondibilmente suo nel riprendere quella divisa di ufficiale, per cui serba una sorta di pungente e cinica nostalgia dal giorno in cui, autentico ufficiale austriaco, non appartenne più all’esercito. Ma la scena della morte quando, al crollare di una speranza d’amore ch’egli aveva celato sotto il volto duro, al fallire di tutto un suo lavoro inteso a fermare coi sommergibili i trasporti americani, egli si avvelena ed attende la fine, sonando al pianoforte la Morte d’Isotta – par che debba suggellare uno stile. Quel romanticismo esasperato e decadente, in cui si esprime la scabra e riottosa volontà di sogno e di bellezza dello Stroheim. La rivincita della poesia sul destino.

Lavorazioni dure

Un film ha tante più probabilità di risultare poetico e ricco di suggestioni, quanto più accuratamente gli elementi di un’ovvia riuscita siano stati messi in disparte: e la creazione sia stata creazione sul serio, cioè non abbia puntato su cose che, di per sé sole, allo stato grezzo, basterebbero a commuovere o, comunque, a toccare gli spettatori. Allora, ecco un problema per un artista coscienzioso e nobilmente ambizioso: dato che il successo comune dei film è procurato in troppi casi dalla bellezza e seduzione delle dive, oppure dal fasto della messa in scena, tentar di creare un film senza dive e senza fasto. (Tra parentesi, e in un orecchio al produttore: non è detto che un simile film costi meno e si possa far coi soliti “quattro soldi”; anzi). È appunto il problema che s’era posto John Ford nella Pattuglia sperduta e che, dal punto di vista strettamente artistico, produsse risultati eccezionali. Il solo torto fu di aver un po’ dimenticato quel coefficiente spettacolo, che nel cinema è imprescindibile: e infatti, malgrado la profonda e drammatica umanità di cui era permeata, La pattuglia sperduta apparve al pubblico un po’ un partito preso, un po’ tesi di laurea d’un grandissimo regista. Victor Fleming ed i suoi produttori si son posti un problema analogo in Capitani coraggiosi; ma, senza cedere d’un palmo nell’altezza dei propositi, han però saputo fare i conti col pubblico. Diciamo intanto, ch’ebbero il tatto di partire da un soggetto che, quanto a persuasioni patetiche e ad immediata efficacia, non scherzava. Capitani coraggiosi è forse, con Kim, il romanzo di Kipling che (a parte le novelle del Libro della jungla) ha più clamorosamente guadagnato il suffragio popolare ed universale. Da un punto di vista tecnico, interesserà di notare con quali elementi Fleming sia arrivato a trasformare il suo difficile problema in una irrefutabile riuscita. Anzitutto, egli ha inverato un arduo ed ostico aforisma che, paradossalmente, si potrebbe enunciare così: anche gli attori sono dive. Cioè: anche gli attori, trattati e condotti con inflessibile volontà d’arte, hanno quella immediata facoltà di incatenar la generale attenzione, che le dive realizzano gratuitamente, col solo mostrarsi, per virtù della loro bellezza. S’intende che la questione è parecchio semplificata, quando si lavora con attori-artisti come, per esempio, Freddie Bartholomew, Spencer Tracy e Lionel Barrymore. Ma rimane il fatto che quegli attori, a parità di condizioni, debbono “arrivare” allo spirito, dove alla diva può anche bastar di “arrivare” agli occhi. In sostanza: la loro è una vittoria della spiritualità e della forza espressiva sulla pura e immediata sensualità dello spettacolo. (Tra parentesi. Bisogna tener presente quale sforzo, anche materiale, anche tecnico, di regia si richieda per ottenere un simile risultato. Fleming doveva essere davvero onnipresente: non lasciarsi sfuggire nemmeno un dettaglio dell’interpretazione e della recitazione. Un giorno stava girando negli stabilimenti di Culver City un interno che gli era impossibile di abbandonare. D’improvviso, gli vengono a dire che sul mare si era finalmente scatenata la tempesta da tanti giorni attesa. O lasciar perdere la scena, o lasciar perdere la tempesta: e viceversa non si doveva lasciar perdere né l’una, né l’altra. Il bastimento noleggiato per il film fu subito spedito al largo, col personale occorrente; mentre un collegamento telefonico veniva stabilito fra i teatri e la stazione radio di Santa Monica, la quale a sua volta si collegava con la radio di bordo del bastimento. Così Fleming, pur continuando a dirigere il suo interno, poteva, a venti miglia di distanza, controllare fino all’ultima sfumatura, gli altri suoi attori che lavoravano in mezzo al mare. Maestria, prontezza di nervi, larghezza di mezzi crescono in proporzione inversa agli atouts di partenza del film. E, volendo scherzare, si direbbe che le donne costan care, tanto più quando si decida di fare a meno

di loro). Un discorso analogo dev’esser fatto per ciò che riguarda la rinuncia al fasto, la riduzione degli sfondi a puri e prevalenti motivi naturali. Protagonista, diremo così, scenografico di Capitani coraggiosi è, come si sa, il mare. Ora: mentre una scenografia costruita prevede gli effetti cinematografici, i vari partiti dell’illuminazione, la postazione e i movimenti di macchina – il mare, per quanto si sa, non fu creato in vista degli effetti d’obbiettivo. Bisognava “strumentare” il mare, moltiplicarne la naturale varietà per la varietà delle risorse cinematografiche. Anche qui la questione non è soltanto d’occhio e d’abilità nella ripresa. Anche qui il problema è spirituale. E quello spirito generoso e giovanile di avventura, ch’è una delle doti principali del cinema americano, ha aiutato nell’impresa Fleming ed i suoi collaboratori. La storia del piccolo Harvey, del generoso Manuel e del vecchio capitano Disko – un fanciullo, e due uomini nel cui sentimento si trasfonde qualcosa della primitiva grandezza dell’oceano, coi suoi sensi epici e patetici, con le scene di vita dei pescatori, con la famosa corsa tra i velieri, con gli esempî di mortale coraggio di fronte alle collere dell’elemento – aiutava a spiritualizzare in un poema d’uomini il poema del mare. (Tra parentesi un’altra volta. Un film con prevalenza di esterni, crea tra gli altri problemi anche questo: rispettare il piano di lavorazione proprio mentre si subiscono i capricci della natura. Si doveva girare la scena del salvataggio di Harvey da parte di Manuel: scena che si svolge tra la nebbia. Fleming voleva nebbia vera, e non nebbia fatta coi fumi. Viene finalmente la giornata, se così si può dire, buona. Tracy [Manuel] e Bartholomew [Harvey] si calano nella loro barchetta e si cacciano tra gli infidi vapori. Come se non fossero bastati i numerosi secchi d’acqua che gli erano stati gettati addosso, Freddie casca ancora in acqua. Spencer Tracy lo salva, come vogliono l’umana carità ed il soggetto del film; senonché, a dialogo appena iniziato, la nebbia retrocede. Bisogna sospender tutto e correr dietro la nebbia per ricominciar daccapo. Non c’è come gli esterni naturali e gratuiti per costare abilità, tempo, fatica e denaro).

Tradurre un film

La nascita e la vittoria del “parlato” parvero costituire un’offesa mortale alla internazionalità del cinema: al cinema come esperanto mimico e linguaggio universale. Se infatti i pubblici di tutto il mondo accorsero con la curiosità del nuovo ai primi esperimenti di film parlato (si ricordi il successo riportato in Italia dalle prime visioni del Cantante di jazz) era inevitabile che, smussata la curiosità, insorgesse un senso di fastidio per quei dialoghi che, quantunque rapidi, si dilatavano a non intenderne il linguaggio – nel tempo smodato e senza argini della noia. Ben lontano però quel pubblico dalla idea di rinunziare ai suoi divi e stelle internazionali, ai rapidi contatti coi costumi d’altre genti, di cui il cinema era facile e piacevole tramite. E ben lontani i produttori dall’idea di abdicare ai mercati di esportazione. Una duplice esigenza impose dunque di correre quanto più rapidamente ai ripari e di far rientrare, almeno per la finestra, quella internazionalità che la tecnica aveva scacciata per la porta. I sistemi escogitati per tradurre i film parlati furono essenzialmente quattro: 1. A brani di scena parlata sostituire titoli, o didascalie, di egual durata e sincronici, che condensassero in forma di battute i momenti funzionali del dialogo. L’altoparlante continuava ad emettere le voci; ma sullo schermo, al posto delle figure, compariva stampato il segno ideografico, astratto, verbale del loro animato discorso. Obiezioni: il parlato, almeno nelle intenzioni dei suoi creatori, era nato come un più formidabile coefficiente realistico a completare la vantata illusione realistica del cinema. Lasciamo stare se esso non rappresenti all’incontrario, nella sua vera consistenza artistica, una nuova sintesi mimicomusicale: non dunque un più perfetto realismo, bensì più completa suggestione e spirituale magia di sogni e simbolo lirico, come sempre l’arte quando è arte. Certo è che la didascalia parlante, sostituita alle ombre parlanti, smentiva ogni ambizione realistica, e sfatava l’illusione di una voce che nascesse dalle figure a far corpo con quelle, spezzandola invece nell’ingenuo trucco di un altoparlante affiancato ad uno schermo. Si tentò magari di creare una nuova convenzione, ammonendo il pubblico che si trattava soltanto di un surrogato; e nel fondino di quelle didascalie, si disegnavano due profili affacciati con le bocche aperte, in atto di dialogare. Ma il pubblico dei grandi spettacoli per masse obbedisce ad una legge primordiale e categorica, che si riassume soprattutto nel classico imperativo di “non farsi gabbare”. E vuole che, a lui ingenuo, lo spettacolo si offra ingenuo ed intero, senza compromessi né surrogati, né diminuzioni. Guai, per esempio, a lasciargli sospettare che un film ha subìto qualche lieve, e fors’anche necessaria, sforbiciatura: dirà che è “tutto tagliato”, e non ci crederà più. Esso poteva dunque accettare in via provvisoria le didascalie parlanti: tanto per capire, senza troppo sforzo in che consistesse quel famoso “parlato”; ma se un tal sistema si prolungava, addio cinema. Senza dire che, di fronte ad un probabile dilagare di “parlati” stranieri, interveniva da parte dei governi, la provvida difesa dell’idioma nazionale. Il cinema in lingua forestiera, senza poter mai diventare strumento utile di cultura linguistica, funzionava invece come veicolo pernicioso per propagare ed acclimatare certi vezzi artefatti di gergo e di pronunzia, certe pose affettate che snaturavano la sincerità nativa, la maturazione spontanea e lo sviluppo sia della parlata patria, che del modo di esprimersi e di porgere: infine, del costume nazionale. 2. Sovrimprimere sul fotogramma le battute più flagranti del “parlato”, ridotte ad un massimo di concisione e ad un minimo di numero. Una specie di succinto commento perpetuo all’azione e al dialogo, ricorrente in lettere luminose, di un fuoco bianco e rappreso, alla base dello schermo, ai

piedi delle scene e delle figure. Supponiamo, nel film Piccole donne, la scena in cui la protagonista Jo (Katharine Hepburn) scopre alla mamma, alle sorelle, al suo stesso innamorato Laurie – in un misto di pudore e di segreta, confusa contentezza – il suo povero piccolo capo di uccellino implume, da cui le trecce sono state recise. Torna di casa dell’avara zia March, a cui ha chiesto un po’ di denaro per la mamma che deve partire per Washington, dove il babbo, ferito durante la guerra di Secessione, è stato ricoverato in un ospedale. Ma la zia ha dato troppo poco e Jo allora ha venduto i suoi capelli. Ebbene: da tutto il racconto frantumato e reticente della fanciulla che cosa caverebbe, come titoli sovraimpressi, il riduttore anche più coscienzioso? Tre o quattro frasucce di questo genere: “Zia March, sudando sangue, non ha sborsato che i quattrini del treno… Rincasando, ho veduto delle trecce esposte in una vetrina… E allora ho pensato che anch’io potevo… ecco…”; battutine donde, malgrado i puntini di sospensione, veramente il meglio si invola. Si dirà, beninteso, che il gioco istintivo, e quasi contagioso di una grande mimica e di una grande recitazione si rivela e giustifica da sé, quando si è chiarito coi titoli quel poco sostrato concettuale che gli dà l’impulso. E che anche nella tirannica brevità di quei titoletti si può abilmente imprigionare un massimo di suggestione: come per esempio nella edizione francese delle Ragazze in uniforme, dove il testo dei “sovrimpressi” era stato affidato alla penna, nientemeno, che di Colette. Obiezioni: il commento con “sovrimpressi” non fornisce che una trama a maglie larghissime. L’azione, la parte visiva del film dovrebbe teoricamente riempire quelle maglie; ma tutte le sfumature e sinuosità del dialogo, le sue interiori modulazioni, l’accento e il sapore con cui una data parola viene proferita, il tono, insomma, che fa la musica: tutto questo volatizza; a meno che lo spettatore non possegga quel minimo della lingua originale del film che gli permetta, sul filo del senso generico, di risalire alla compiuta identificazione delle battute. Ma è caso eccezionale. In genere, la più alta ambizione dei titoli sovrimpressi, oltre quella di indicare la vicenda, sarà di interpretare approssimativamente la musica verbale, l’arabesco sonoro disegnati dalla recitazione, di motivare in qualche modo le pause, gli stacchi, le alterazioni ritmiche e tonali: suppergiù come le didascalie in certi poemi sinfonici hanno il còmpito di spiegarne la struttura. Che è già qualcosa, ma sempre poco; tanto più che l’incubo di “non farsi gabbare” preme anche in questo caso sul pubblico, sconcertato di capire soltanto per metà. Sicché un tal sistema potrà valere al più per i raffinati e gli snob delle “edizioni originali”: cioè le rondini che non fanno primavera, gli spettatori che non fanno pubblico. Si aggiungano le difficoltà fisiche e tecniche. In primo luogo: l’attenzione richiesta dalla lettura di un titolo è di qualità strettamente intellettuale; mentre quella che si pone nel guardare il film è materiata da una corrente di partecipazione organica, impulsiva, vitale, quasi corporea. Fra le due c’è, se non addirittura esclusione, difficoltà di connubio. La corrente fisica che ci attacca alle immagini in azione si sospende o quanto meno si attenua pericolosamente nello sforzo della lettura: e ne scapita l’efficacia spettacolare del film, ne scapita la sua forza di persuasione. In secondo luogo: è molto raro che lo stile del carattere tipografico si armonizzi con quello della fotografia su cui va sovrimpresso. In terzo luogo: la tecnica della sovrimpressione dei titoli, per quanto perfezionata, è ben lontana dal produrre quelle ideali lettere di fuoco, che in astratto si desidererebbero. Fino a qualche tempo fa la sovrimpressione si otteneva facendo correre simultaneamente nella macchina da stampa il negativo dei titoli e quello delle scene; ma la tenuta degli ingranaggi non era mai perfetta, ed i titoli smaniavano sulla scena in un moto di continua danza. Coi nuovi procedimenti questo difetto è superato, ma non un altro: il supporto di celluloide del titolo altera nella stampa la trasparenza della fotografia, talché in proiezione la scena pare svolgersi come sottovetro. In quarto luogo: non sempre la scena su cui logicamente il titolo deve incidere è di tono abbastanza cupo, affinché quello prenda per contrasto una sufficiente brillantezza. E a volte poi, mentre il titolo si prolunga per quel tanto che ne permetta la lettura,

cambiano le inquadratura sottostanti e con esse i rapporti di luce, cosi ché l’occhio viene costretto ad un nuovo sforzo di adattamento. Parranno minuzie: ma sommatele, e l’effetto del film andrà per tre quarti perduto. Inutile poi ricordare che quelle stesse ragioni di difesa della lingua che contrastavano col precedente sistema n. 1, si oppongono anche al sistema n. 2. 3. Uccidere il film “parlato” come parlato, e ridurlo ad un film muto con titoli intercalati (le didascalie vecchio stile) e sincronizzazione musicale. È il sistema di tagliare le difficoltà con la scure, anche se qui la scure si riduca borghesemente ad un paio di forbici. Ed è anche il più ottuso scempio che mai editori abbiano immaginato di perpetrare sulle pellicole di importazione. Ne parliamo perché, quanto a sistema, è un sistema anche questo: e poi furoreggiò, o infierì, su vasta scala, in Italia durante gli anni 1930 e 1931. Tanto per spiegarci con un caso esemplare e congruamente mostruoso, prendiamo la sequenza che precede il volo dei biglietti da mille nell’À nous a liberté di Clair. Tutti l’abbiamo in mente: inaugurazione, in una officina di nuovi impianti che rappresentano il non plus ultra dell’organizzazione scientifica del lavoro; un vecchio omarino politico – barbetta e tuba – campione rimbambito del “nobile vegliardo” che le democrazie pseudo-liberali non mancavano mai di sbandierare nelle loro cerimonie, sale sul podio a recitare il florilegio dei suoi luoghi comuni umanitari e celebratorî; si scatena una bufera che travolge una valigia abbandonata sul tetto dell’officina, e ne fa piovere sulla folla il contenuto di banconote. Sequenza, teoricamente, delle più adatte per una riduzione con titoli, poiché la parola vi lavora già quasi come puro suono inarticolato, pura interiezione che, nei suoi ricorsi stravolti e lacerati e scancellati, scandisce e misura lo sfrenarsi del vento. Non rimarrebbe al riduttore che cercare di cogliere un paio di frasi sintomatiche nell’“orazione” dell’omarino, e in queste spremere il succo ed il carattere del discorso, poi tornirle in guisa da ottenere la “cifra” di certa retorica e finalmente intercalare i titoli così ottenuti nella scena, da cui il parlato è stato soppresso. Naturalmente sarà impossibile mantenere tutta la ginnastica e mimica labiale dell’omarino, ora che il suono della parola è scomparso: appena lo spettatore abbia avvertito il movimento della bocca ed il particolare gesto oratorio del personaggio (30-40 fotogrammi) occorrerà che scatti fuori il titolo a dichiarare ciò che colui dice. Risultati: il “tempo” della sequenza è distrutto, quel “tempo” che nell’originale aveva così ineluttabilmente preparato e svolto il crescendo del vento malandrino. Vero è che il titolo scritto interrompe il “tempo” di una scena, come una scala cromatica interrompe la tonalità di un pezzo di musica: pugni nell’occhio, dunque, non se ne ricevono, e nemmeno si avverte il disagio di troppi sfacciati errori ed incongruenze di montaggio. Ma l’ironica poesia di quelle scene si è dileguata: la forma è morta e ne è rimasta una semplice indicazione attraverso la materialità del grezzo contenuto. Anche acusticamente, del resto, lo scatenarsi della bufera era realizzato con assai più concretezza da quello stracciarsi e perdersi delle parole fra il turbine e lo schianto ed il volo di tutte le cose circostanti – che non da un qualunque, e sia pur dosato, ululo della macchina da vento tra gli strumenti di orchestra del nuovo “sonoro” sostituitosi al vecchio “parlato”. Obiezioni: qui non ce n’è che una, ed è il quinto comandamento: non ammazzare. 4. Doppiare il film. Parve questo, a prima giunta, il più balzano e cervellotico dei metodi: far parlare, come si diceva, un personaggio per procura, adattare su una bocca americana o tedesca che pronunziavano, oramai indeformabilmente, frasi americane o tedesche, altrettante frasi di altra lingua. Eppure è il metodo che ha vinto: come il più pratico, il più adeguato e forse anche il più artistico. Esamineremo, dunque, un’altra volta partitamente sia l’estetica che la tecnica del doppiaggio.

Il doppiaggio in Italia

Il romanzo, e talvolta l’odissea, che un film straniero attraversa dal momento in cui varca le frontiere del nostro paese a quello in cui appare sui nostri schermi, fresco di stampa e di edizione, vestito a nuovo nella lingua nostra, è ben noto al pubblico, il quale la sa ormai abbastanza lunga sui misteri e riti del doppiaggio e spesso ne parla competentemente. Romanzo, in Italia, quasi sempre a lieto fine; giacché esperienza, senso artistico e scrupoloso rispetto dell’opera originale hanno fatto del nostro doppiaggio uno dei migliori del mondo, forse addirittura il migliore: raffinato, preciso e rigoroso fino ad un beninteso virtuosismo. E la critica dei giornali apprezza le sfumature, discrimina meriti e demeriti dei dialoghi, della loro recitazione, del concertato delle voci. Ed è già accaduto che un film, approvato in censura, venisse poi fermato per insufficienza del doppiato: segno della giusta importanza che vien data a quest’essenziale operazione di adattamento. Nei primi capitoli del romanzo, il protagonista è un signore che si prende in consegna il testo dei dialoghi originali – il cosiddetto copione – e comincia a studiarselo, a confronto col film, ch’egli si fa passare avanti e indietro, fermando e riprendendo, provando e riprovando, su una piccola proiezione da tavolo, chiamata moviola. Identifica così su quel testo le pause e gli stacchi, le sospensioni ed i “filati”, insomma tutte le caratteristiche ritmiche con cui le battute sono state pronunziate. Di più stabilisce quali battute o frammenti di battuta siano stati proferiti più o meno visibilmente, in primo piano od in campo lungo o magari fuori campo: quali insomma nella nuova lingua debbano ricevere un adattamento più aderente alla mimica labiale dell’originale, e quali invece concedano maggior “gioco” ed elasticità, sicché per il loro tramite si possano far rientrare, magari di contrabbando, quei chiarimenti che le strettoie del sincronismo non avevano permesso altrove. In base a questa scansione ed analisi, il “riduttore” (per usar la parola del vecchio cinema) o “dialoghista” (per usar quella del cinema nuovo) si mette a tavolino a stendere il copione per il doppiaggio. Primo dilemma: in un caso un po’ difficile, supposto per esempio che l’attore originale parli in primo piano con evidentissima articolazione, che cosa si dovrà preferire: la naturalezza della battuta, ovvero la sua aderenza a ciò che gli attori specializzati sogliono chiamare (non inorridite!) “boccheggiamento”? L’ideale sarebbe di poter dare ragione a tutte e due le esigenze, il che rispetterebbe una massima di saggezza, aurea non solamente nel doppiaggio. Il male si è che nella maggior parte dei casi bisogna decidersi: e la decisione oramai, con la tecnica più evoluta e con la maggior abitudine degli attori a “mettersi in sincronismo”, è quasi sempre per la battuta naturale, sia pure un po’ crescente o scempiata anziché per quella giusta ma innaturale. Si potrebbe insomma ripetere per il doppiaggio quello che è stato detto in genere per le traduzioni: meglio la bella infedele che la brutta fedele. Pratica, buon senso e buon gusto del riduttore consistono in gran parte nel non abusare di queste licenze, e, usandone, di salvare quanto più possibile le apparenze, cioè l’illusione della fedeltà. Naturalmente, anche per questa ricerca di approssimazione non manca qualche regola: ad esempio, il risultato sarà ottimo quando ad una a si possa far corrispondere una a o alla peggio una e; ad una labiale una labiale. Ma sono regolette minute, e valgono quanto dire che, nel preparare i dialoghi per il doppiaggio, bisogna cercar di ricalcare, fin dove è possibile, i suoni dell’originale. La regola più esauriente pare ancora raccogliersi nell’esclamazione d’uno dei nostri migliori direttori, o concertatori di doppiaggio, Luigi Savini: “Datemi delle parole da riempir quelle facce!”. Il che si otterrà cercando battute che nella loro scansione ed inflessione, nelle loro fratture,

equivalgono come ritmo, come intensità, come intonazione esterna ed interna, psicologica e acustica, a quelle del dialogo d’origine. E allora parrà che l’immediato predecessore, il prossimo parente del riduttore per doppiaggio sia il vecchio, ottocentesco traduttore ritmico dei libretti d’opera. Ma se nel libretto d’opera il rispetto alla qualità, alla metrica e alla prosodia poteva bastare, non altrettanto può dirsi per il dialogo da doppiaggio. Qui un minimo di riguardo ai suoni dell’originale è pur sempre indispensabile. E poi se i libretti d’opera costituivano dei monumentali esempi di letteratura da ridere, c’era qualcosa che faceva ridere ancora di più; ed erano le traduzioni dei libretti d’opera. Non occorre citare i casi cospicui di un Parsifal o d’un Boris o d’una Carmen: ancor oggi direttori d’orchestra e cantanti debbono esercitare la loro vena di grammatici o di poeti a correggere quelle storture. Ma nell’opera la musica si mangia le parole e la melodia può passarsi il lusso di tradire il buon senso; mentre nel parlato di un film il senso deve correre, e col massimo di scioltezza, di disinvoltura, di agilità. Diamo per compilato, e compilato a regola d’arte, quel nuovo copione. Bisognerà allora passare ad un controllo dei più minuziosi. Riscontro, ancora una volta, del ritmo, e poi della plasticità fonica e insieme della scorrevolezza delle battute (riflettere che, recitate in condizioni piuttosto malagevoli, esse non dovranno presentare soverchi intoppi, né incontri sillabici che ne facciano degli scioglilingua) e finalmente degli eventuali “doppi sensi” involontari, o pretesti a “beccate”, di cui il pubblico è insieme ghiotto ed intollerante. Ci sono nomi propri, stranieri che per il loro suono, richiamano sostantivi concreti, capaci di scatenare una risata nel momento più poetico del film. Quante volte il riduttore deve far cambiare di città all’azione, di nome ai protagonisti, per non incorrere in simili disguidi! Solo dopo che tutte queste cautele siano state osservate, il copione potrà passare in teatro. Attenti però alla dattilografa! Anche lei interviene nel romanzo del film che cambia di paese: e si sa quante volte nella dattilografa si annidi la donna fatale. È capitato, per esempio, che nel ricopiare i dialoghi di un film di ambiente clinico, la dattilografa introducesse per conto suo una diagnosi di scifofrenia, dove i medici si limitavano a quella, grave ma non ignota, di schizofrenia. E la spaventosa scifofrenia, presa alla lettera dagli attori spaventati, avrebbe fatto il giro degli schermi, sarebbe diventata endemica ed epidemica, se non fosse intervenuta, con grande gusto della pellicola che si stava girando, una provvidenziale interruzione di controllo. Finalmente il romanzo si stringe verso l’epilogo. E i personaggi diventano frotta. Entra in scena il “direttore di scena” (quello che abbiamo chiamato e vorremmo seguitare a chiamare il concertatore), entrano in scena gli attori (quelli che meglio chiameremmo i prestavoce). Il loro lavoro, al giudicar dal di fuori, parrebbe facilissimo, quando si pensi, che a ricostruire il ritmo originale con una battuta già meticolosamente calcolata, essi sono guidati da una cuffia che, sottovoce, con persuasiva discrezione, funziona da suggeritore ritmico. Ma tant’è: quanti novellini ch’erano entrati nello studio, spavaldi di fronte a così facile compito, se ne sono usciti mogi, dopo parecchie inutili prove? Un arguto scrittore, che firma Il pedante, ha notato, or non è molto, come la pratica del doppiaggio stia sviluppando, nel senso della naturalezza e dell’essenzialità ritmica, la recitazione teatrale. Stia debellando, insomma, il vecchio birignao e sostituendo al vezzo di “recitare” la più precisa e concreta abitudine di “parlare”. L’influenza è tanto più sensibile in quanto lo scambio di personale tra palcoscenico e studio di sincronizzazione è oggi continuo, giacché i prestavoce sono reclutati per lo più tra attori di teatro. I quali presentano il vantaggio di saper colmare di valori espressivi, intimi, una recitazione in cui le iniziative sono rigidamente soffocate dal tempo, dalla ritmica, dal sincronismo. L’abilità del concertatore consiste appunto nel saper scegliere, nell’ormai ricca gamma degli specialisti, quelli che per qualità di voce e di dizione aderiscono fisicamente al tipo dei personaggi originali, e soprattutto nel condurre questi prestavoce ad approfondire, a sensibilizzare la battuta, rispettandone le leggi. Ormai i tipi più frequenti, insomma i maggiori divi, hanno trovato i loro

corrispondenti fissi. Chi è fra noi Greta Garbo? Tina Lattanzi, con la sua bella voce intensa di femminili insinuazioni, matura, centrata e centrale, capace di scendere ai registri più bassi, senza perdere di chiarezza. La medesima Lattanzi può, d’altronde, con una non comune versatilità, adeguare con la sua voce quell’incomparabile “donna di trent’anni” che è Myrna Loy, nonché parecchie altre “prime donne” (dove si vorrebbe mettere un accento particolarmente sensibile sulla parola donna). Creatrice italiana della voce di Katharine Hepburn è stata invece Rina Ciapini che, con sensibilità intelligente ed anzi addirittura arguta, ha saputo veramente emulare gli armoniosi sbalzi, le salite e cadute di tono, così piene di malizia e di pathos della ribelle Katharine. Solo di recente ci è avvenuto di sentire un’altra Hepburn italiana, per opera della signora Lydia Simoneschi. La quale, fino a pochi mesi fa, è stata il prodigio dell’attrice giovine per doppiaggio. Non proveniente dal teatro, la Simoneschi si era creata proprio nello studio di sincronizzazione la sua personalità di dicitrice, aiutata da un senso del tono e del tempo, che le permetteva di riplasmare con rapidità fulminea la sua nuova battuta sul modulo dell’originale. Pronta invece a dividersi fra i successi della ribalta e quelli, più segreti, ma non meno certi e controllabili, del doppiaggio, è una delle maggiori e più affascinanti “prime attrici” del teatro d’oggi: Andreina Pagnani. Prodiga della sua intelligenza pieghevole, del suo talento generoso e del suo ricco istinto, la Pagnani sa dar voce alle dive più diverse, trovando per ognuna impostazione e linea adeguata. Si pensi che una delle sue prime prove fu la difficilissima Hertha Thiele delle Ragazze in uniforme. La sua voce educatissima e capace dei più pieni impasti come delle più fluide sfumature, dai toni asciutti dello sdegno a quelli affannosi e soffocati dell’angoscia, raggiunge le più sensibili riuscite dove debba impregnarsi d’emozione o inumidirsi di pianto. Il catalogo di queste resuscitatrici, che alle ombre rifatte mute restituiscono la parola, si protrarrebbero a lungo, per quanto fatalmente destinato a deplorevoli omissioni. La povera Jean Harlow aveva trovato in Margherita Bagni il suo sosia vocale, così come Joan Crawford l’ha trovato in Rosina Galli. La Braccini, la Scotto, la Orlandini fanno parte di una schiera preziosa, intelligente, allenatissima e non facilmente sostituibile. Anzi, se un appunto – sia pur lieve, e tale che sarebbe facile volgerlo in lode – si può fare, oggi come oggi, al doppiaggio italiano, è quello di riposare anche troppo su prestavoce d’acquisita maestria, senza curare di annettersi forze nuove, reclutate nei Conservatori e nelle scuole di recitazione: pronte a plasmarsi alla tecnica ed all’arte specifica della sincronizzazione, immuni da abitudini e pregiudizi di un precedente mestiere teatrale. Il “reparto signori”, non meno numeroso ed agguerrito che la falange femminile, si fregia di nomi altrettanto noti al pubblico. La timbrata nobile e vigorosa dizione di Sandro Ruffini conviene altrettanto bene alla figura di Blanchar quanto a quella di MacMurray, per non citare che due estremi della gamma; Giulio Panicali – che, oltre ad essere prestavoce, fa anche il concertatore – è l’uomo che parla al microfono soprattutto quando dallo schermo vedete rispondere Fredric March e Robert Montgomery. La sua specialità è di ridurre in sincronia, di “far entrare” con autorevole naturalezza le battute più renitenti: prezioso aiuto, in questo, ai dialoghisti meno forniti di senso ritmico, egli sa far contenere in una battuta, senza precipitare i tempi, il maggior numero di suoni e di parole. Quando vi trovate di fronte a “ruoli” di forza, in novanta casi su cento, potete scommettere che è la voce di Gero Zambuto, il quale fa il Wallace Beery con la stessa regolarità con cui Romolo Costa fa il Clark Gable. Ma a dividere con Zambuto il faticoso primato dei ruoli di forza è intervenuto a volte (per esempio, per il McLaglen del Traditore) Camillo Pilotto: e con tali risultati, da far desiderare che il valorosissimo attore trovi più spesso tempo, tra i molti suoi lavori e scritture, da dedicare al doppiaggio. Anche Augusto Marcacci e Amilcare Pettinelli fanno parte di questo “gruppo di testa”. Altri attori teatrali di gran nome hanno dato eccezionalmente la loro voce al doppiaggio: così Sergio Tofano al protagonista di La donna di platino; e Renzo Ricci a Nils Asther dell’Amaro tè del generale Yen e a Herbert Marshall di Quando una donna ama. I concertatori sono meglio identificati dal pubblico: perché i loro nomi appaiono, o apparivano

fino a poco fa, nei titoli “di testa” (Adattamento in lingua italiana diretto da…). E però il pubblico sa quanto di acuta ed espressiva naturalezza, quanto di umana verità debba a Luigi Savini, quanto di precisione impeccabile e profonda, quanto di elegante sensibilità ad uno Schirato, quanto di amorevole e cauta diligenza ad un Almirante, quanto di intelligente prontezza ad un Neroni. Oggi nel doppiaggio si va costituendo veramente uno stile, riconoscibile agli orecchi un po’ esercitati. E, in fondo, il passaporto d’entrata ai film finiscono col darlo, o perfezionarlo, i creatori di questi stili.

Primo punto: la sceneggiatura

L’arte di farsi guardare equivale, per un film, a quella di farsi leggere, per un libro. Un segreto l’una e l’altra: e tanto più inafferrabile, in quanto, nel più dei casi è fatto di uno di centomila nonnulla. Quale millimetrico scarto di proporzioni decide della bruttezza o della bellezza di una donna? Un leggero deviare nell’inflessione di una curva, in una modulazione del profilo, saranno bastati a trasformare in una ciabattona quella che, per tanti requisiti, poteva riuscire una donna fatale. Non per niente i secoli discutono ancora sulla lunghezza del naso di Cleopatra, e ne fanno dipendere i destini della storia. La qualità che separa un film divertente da un film noioso, un film scorrevole da uno irrimediabilmente statico sono di quest’ordine. Abbiamo visto di recente due autori di teatro, meritatamente acclamati come spiritosissimi, accumulare a gragnuola, in un film, mezzo il repertorio delle loro facezie e trovate, e trasformarle in altrettanti gags. Un film ucciso con lo “spirito”, come la famosa donna uccisa con la dolcezza. Si constata di continuo che, nell’arte di farsi guardare, i film americani passano, o passavano, come modelli a tutt’oggi insuperati. Soggetti più belli? Attori più bravi? Registi più abili, dinamici, suggestivi? Fino a un certo punto. Molti soggetti partiti dall’Europa, dove avrebbero subito la sorte comune, tornano dal viaggio di Hollywood aerati da quell’animazione volubile, ritmati da quella scorrevolezza concisa, che sono l’anima e la forza dei film americani. Viceversa, chi avesse letto su Cosmopolitan, dove apparvero, le novelle di Damon Runyon o di Samuel Hopkins Adams che dettero origine, rispettivamente, a Signora per un giorno e Accadde una notte, avrebbe benissimo potuto immaginare due delle più anodine e claudicanti pellicole europee. C’è chi tira in ballo, a spiegazione del fenomeno americano, argomenti di natura sociologica. Ma il fondo della nostra vita collettiva, come slancio, come ricchezza di impulsi religiosi e mistici, non ha nulla da invidiare a quello della vita americana. Non che manchi al nostro mondo il sostrato germinativo per le situazioni di film. Né è vero d’altronde che la nostra lingua, pregiudicata da grandi e fatali monumenti letterari, meno si presti alle articolazioni, snodature, prontezze e ripieghi allusivi del “parlato” cinematografico. Si può, su un registro tutto nostro, e senza imprestarci il blend del “gusto americano”, ottenere un dialogo altrettanto vivo. Abbiamo a nostra disposizione tutti i movimenti che i dialetti immettono di continuo nella lingua; abbiamo la controprova che questa lingua, in tutti i campi, serve perfettamente agli usi vivi di un popolo vivo. In Italia si lavora, si ama, si soffre, si gioisce, si spera parlando sempre in italiano; e in un italiano per nulla irrigidito o impacciato da insaldature accademiche. Ultimo e massimo argomento: in America ci sono più mezzi. In effetti l’argomento sarebbe formidabile, qualora fosse usato a dovere: cioè non a nostro scarico, ma a nostra confusione. L’America ha più mezzi, non solo perché quantitativamente ne possiede in maggior copia, ma anche e soprattutto perché sa farli rendere. Salvo le eccezioni, che tutti abbiamo in mente, il produttore europeo in generale, e quello italiano in particolare, fa del suo meglio perché i proprî film piangano miseria. Quasi che, in rapporto all’entità della nostra industria, i mezzi a sua disposizione non fossero più che adeguati. Nei casi di maggior generosità, quel produttore profonde tutto quello che possiede nel “girare” il film: giacché “fare un film” consisterebbe, secondo lui, unicamente nel “girarlo”. Perciò la preparazione teorica deve costare poco o nulla, sotto pena di impoverire il film come scenografia, come possibilità di accaparrare gli interpreti migliori, come disponibilità di personale tecnico e di materiale. Le cose, in generale, si svolgono su per giù così. Creato finanziariamente l’affare, perché c’è lo

spunto, perché c’è l’interprete, più di rado perché c’è il regista, il nostro produttore si mette a “realizzarlo”. E la realizzazione si inizia per lui, nel campo strettamente produttivo, solo al momento del cosiddetto “primo giro di manovella”. La gestazione finanziaria e le conversazioni preliminari sono state di solito così prolungate e macchinose, la realizzazione – una volta divenuta possibile – è attesa con urgenza così scottante, che non si mette più tempo in mezzo. Si affida lo spunto ad un paio di persone, di solito il regista e lo sceneggiatore, i quali in due o tre settimane debbono sceneggiare il film; cioè compierne la vera realizzazione teorica: quella che, fatta bene, semplificherebbe di gran lunga la realizzazione effettiva, ne diminuirebbe il costo; quella che dà la certezza, e insieme la fede, che il film correrà. La sceneggiatura è il momento in cui sarebbero possibili, in via di ipotesi e di tentativo, tutti gli assaggi e magari gli sbagli. Ma per i tentativi non c’è tempo: bisogna giungere subito a qualcosa di definitivo. Quel definitivo provvisorio, s’intende, che solo può conciliarsi con la furia e l’acqua alla gola. Qui naturalmente vien fuori un problema d’uomini giacché, avendo scarso il tempo e deliberatissima la volontà di tenere stretti i cordoni della borsa, i produttori, come dice il loro stesso nome, non s’imbarcheranno certo in spese improduttive; per esempio, quella di mettere alla prova forze nuove; le quali potrebbero dare, sì, delle cattive sorprese, ma potrebbero anche rinnovare l’aria e sorprendere il pubblico con trovate inedite genuine. Conseguenza: l’improvvisazione, per far presto, moltiplicata per le pigre abitudini di un mestiere. Dato lo spunto di partenza, non essendoci tempo per inventare, ci si contenta di dedurre. Ha origine forse di qui il vizio di quasi tutte le nostre sceneggiature; qui si forma quel peso morto che dalle sceneggiature passa nei film a renderli di piombo e a devitalizzarli. È l’esigenza astratta di una logica. Ad enunciare così l’obiezione essa può anche sembrare un’eresia. D’accordo: un film deve essere organico e coerente, dev’essere intimamente logico; ma di una logica interna propagantesi da un capo all’altro dell’opera come impulso vitale, e non già trascinantesi sugli ingranaggi di una sorda e anonima operazione deduttiva. Coerenza fantastica, insomma, e non logica da “paglietta”. Invece la logica dei nostri soggettisti e sceneggiatori si esplica per lo più nell’escogitar cavilli, per tappare i buchi che si spalancano nel corso della deduzione, oppure nel trovare dei perché agli episodi che le persone interessate al film, dal finanziatore all’operatore, pensino bene di suggerire. I quali, per voler tutto spiegare e render plausibile, finiscono coll’andare a picchiare contro gli assurdi più grossolani. La grande e brutta parola che presiede a queste operazioni è il verbo rimediare. Venire a patti con tutto. Un acrobatico e pesante gioco a scaricabarile tra logica e fantasia: quando la logica, tirata pei capelli, recalcitra, allora par che si dica: prendetevela con la divina, libera fantasia, e coi suoi estri, che sono stati più forti di noi; quando invece il racconto e i gags cascano come sacchi, par che si sospiri: questa benedetta logica, con le sue feroci esigenze! Quello che, in sostanza, poche sceneggiature nostre dimostrano di aver capito è che un film non consiste semplicemente in un racconto esposto con una tecnica diversa da quella letteraria. Non basta tradurre in inquadrature, più o meno varie, e più o meno mosse, una certa vicenda che va dall’A alla Z per ottenerne la sceneggiatura di un film. Con questi principi, s’arriverebbe tutt’al più ad ottenere qualcosa come quel famoso racconto dell’Anonimo, che il Manzoni qualificava di “rozzo a un tempo e artificioso”. “Rozzo”, perché non verifica che assai grossolanamente la specifica formula: cinematografo; “artificioso”, perché tenta di superare questo sensibile scarto con mille rimedi cerebrali e indiretti. Parlando per metafora, e senza voler mancare di rispetto ad un capolavoro, diremo che la divaricazione tra la sceneggiatura media nostrana e la fisionomia di un vero film è la stessa che bisogna colmare per giungere dalla prosa dell’Anonimo ai Promessi sposi. Se il cinema è, anche spiritualmente, come lo è cronologicamente, l’arte del Novecento – allora diciamo che anch’esso deve a suo modo obbedire a quello ch’è uno dei canoni della poetica novecentista. Che è stato

brillantemente espresso con le parole: “saltare dei gradini”. Cioè evitare tutti gli appesantimenti documentarî ed esplicativi; fare che i nuclei veramente vivi scattino l’uno dall’altro, con una sorta di spontaneità geniale. Bruciar le tappe, per lasciar tempo alle immagini di distendersi nel loro “tempo” più giusto ed equo. Basterebbe analizzare le sceneggiature di alcuni film davvero riusciti per convincersi che la regola – almeno per il gusto d’oggi – è questa. Naturalmente è più facile enunciarla o riscontrarla già verificata, che non verificarla.

In questi giorni

Il signor Max di Mario Camerini Dalla Mostra veneziana in poi, il pubblico è avvertito che Il signor Max è un bel film; il più piacevole, senza dubbio, ed il più intelligentemente saporoso tra quanti sono usciti quest’anno in Italia. (E anche nei confronti con l’estero, potrebbe difendersi benissimo). Controprova: il pubblico accorre alle proiezioni di Max, vi assiste divertendosi e, ciò ch’è più raro, esce contento. Merito di Camerini è anche di aver saputo prevenir quell’amaro, che è il residuo dell’aver lungamente sorriso. Evitando tentazioni e vertigini, egli ci ha dato quel che voleva: un racconto tutto gioco e superficie, senza una falla. Effettivamente quella falla avrebbe permesso di guardar dentro, e allora buonanotte. Camerini, in sostanza, ha sventato la visita del “controllore dei pesi e misure”. Non è da dire che quel “controllore dei pesi e misure” non sia rimasto pericolosamente alle porte. Allora, per metter le mani avanti, per rabbonirlo e manovrarlo a proprio agio, Camerini l’ha senz’altro introdotto tra i personaggi della sua commedia. E controllore egli è rimasto, sia pure degli autobus. È lo zio del giornalaio Gianni, cioè del giovanotto che, sotto il falso nome di Max e sotto le mentite spoglie degli abiti di società, si mescola saltuariamente al gran mondo, ne prende i modi, se ne entusiasma, finché verifica l’impossibilità di quella vita di anfibio e sposa la cameriera della dama che aveva corteggiato in marsina, tra piroscafi di crociera, vettureristoranti e partite di bridge. Se da una simile situazione Camerini avesse lasciato nascere uno squilibrio vero, al controllore sarebbe toccato di riportare le misure della vita. Siccome invece il punto d’onore del film è che quello squilibrio si mantenga ameno, il controllore non ha niente da verificare, e si muta in predicatore. La sua inevitabile retorica punisce lo scintillante regista di aver avuto anche troppa paura della retorica. Nulla è più noioso che l’estetica dei moralisti, e Camerini col suo buon gusto, non solo la sfida, ma mette soggezione al critico che avesse la malaugurata fantasia di servirsene. Quella di rincorrere con zoccoli di legno chi fugge e si schiva col piede leggero è una figura poco tentatrice per chiunque. E vogliamo essere creduti sulla parola, se diciamo che noi pure, come ci siamo incondizionatamente divertiti, così saremmo capaci di incondizionatamente lodare Il signor Max: opera, nei suoi limiti, quasi perfetta. A ragion veduta, dunque, scegliamo un discorso meno brillante e gradevole. Se il dono della grande arte è quello di verificare tutti insieme, di primo acchito, gli assiomi e i programmi di tutte le estetiche, l’arte di Camerini ha quello, già rispettabile e sempre eccezionale, di verificare parecchie estetiche. Tra cui quella crepuscolare e fumistica del “lasciatemi divertire” e l’altra del “pretesto a …”. Della quale ultima possediamo un enunciato paradossalmente limpido in un celebre detto del Berlioz, che si giustifica di avere trasportato il suo Faust (quello della Dannazione) in Ungheria, per il gusto di farci sentire una marcia ungherese. La marcia ungherese e il “lasciatemi divertire” del Signor Max consistono in una riproduzione, quanto mai briosa e fedele, degli intercalari e delle parole d’ordine, del birignao e delle cadenze attualmente in uso presso quello che si chiama il “bel mondo”. Per farci sentire quel disco, per farci vedere quelle boccucce e quelle pose, Camerini ha preso la vecchia commedia del sosia, con i suoi buffi intrighi ed infallibili partiti comici, contentandosi di alternare il sosia in un sosia di se stesso in due diversi ambienti: quello mondano e quello piccolo-borghese. Rimaneva la possibilità, rimaneva il pericolo che i due ambienti entrassero in conflitto: Camerini se n’è immunizzato con un racconto che beve l’ostacolo e se ne fa perdonare scherzando, con una sceneggiatura, una regia,

un ritmo che creano la trovata più irresistibile proprio dove arrischiano il più pericoloso “rubato”. Il mondo piccolo-borghese diventa pretesto alla macchietta e all’aneddoto come il “bel mondo” era divenuto pretesto alla caricatura, stiamo per dire, in punto di obbiettivo. Lo zio controllore, quando non predica, è la macchietta del popolano che combina, esatti al secondo, gli orari per le crociere del nipote e poi, orologio alla mano, segue sulla carta geografica quelle crociere, in attesa che detto nipote arrivi alle Grotte di Postumia o sul Partenone. La tenerezza finemente pucciniana e sentimentale che Camerini nutre verso la gente di quel piccolo mondo (vedila, più dichiarata, ne Gli uomini, che mascalzoni…) si nasconde dietro il sorriso ed una sorta di bonaria affettazione umoristica, per dare il giro al “problema” e garantirsi dalle conseguenze. Insomma, nella sua sconfinata disinvoltura, Il signor Max è pieno di precauzioni: soprattutto contro ogni e qualunque tesi. E tesi ci sarebbe stata se Max il gagà, per convincersi a ritornare definitivamente Gianni il giornalaio, avesse dovuto scontare con un sacrificio vero i suoi malsani amori per la gente di bella vita; se in quel mondo ch’egli aveva agognato, che faceva le sue delizie, gli fosse toccato di constatare una falla che glielo rendesse inabitabile. Niente di tutto questo, o appena un surrogato nel duro e un po’ forzoso episodio della cameriera licenziata, che fa da perno alla favola. Al suo mondo, Max-Gianni è richiamato da positivi vantaggi, non già da una sconfitta. Le piccole smentite che aveva potuto ricevere nel corso delle sue avventure mondane non sarebbero certo bastate a divezzarlo dalla droga, per lui così dolce, degli ambienti di frivolità e di lusso e di vacanza. D’altronde, un simpatico attore come De Sica non può uscire dalla vicenda con le ossa rotte. No: Gianni cambia idea, per la buona e profittevole ragione che in Lauretta, la cameriera di una delle sue dame, ha scoperto una donna che val più di loro, che è capace di dargli più di loro. E non perché sia una piccola-borghese, anziché un’aristocratica, ma perché è l’unica donna del film, a paragone con le altre che sono volutamente dei manichini. Camerini ha accettato qui la drammaturgia del cinema americano: che alla star attribuisce un posto di favore, non solo nella distribuzione delle parti, ma anche nello sviluppo della vicenda. Oltre il predominio interpretativo, la star (diva o divo) deve esercitarne uno umano. Con la sua sapienza di regista e di maestro di scena, Camerini ha portato in luce le qualità interpretative davvero eminenti di Assia Noris e ne ha fatto la molla risolutiva della commedia: quella che fa scoccare il lieto fine, scongiurando ogni tesi moralistica o sociale. Lauretta vince e scioglie la favola perché Assia è una grande attrice, e perciò riesce ad imporre i suoi sentimenti. Non che gli altri personaggi – e specie Rubi Dalma nella parte di Donna Paola – non recitino magnificamente i loro personaggi. Ma la prestidigitazione di Camerini è stata di scaricar quei personaggi d’ogni responsabilità. Tutto è predisposto affinché, dette le loro parole (“un sogno!”… “che tesoro!”… “Shangai, che amore!”, ecc.), essi non trovino più tempo d’impegnarsi in un’azione che li riveli per quello che sono. Il grande attore, invece, l’attore di razza – ed è il caso di Assia – sa sempre, anche nella vicenda più veloce, crearsi il suo spazio e il suo tempo, trascendendo, in certo modo, la parte. Camerini ha sagacemente lavorato su tale possibilità, se ne è fatto un atout per non doversi pronunciare. Non è necessario aggiungere che questo è già far dell’ottimo cinematografo. Qualcuno però ricorderà che una delle più grandi esperienze artistiche del nostro tempo è affidata ad un romanzo, dove di quel “bel mondo” si registravano gesti e voci e frasi; ma insieme se ne cercava, quasi se ne denunziava la responsabilità. Si entrava nel merito. Nessuno pretende che Camerini rifaccia un’esperienza di quel tipo; ma come nella consapevole maturità dell’arte egli si rivela uomo concreto e solido, così qualche volta si sarebbe tentati di chiedersi anche ciò che pensa. Passato maestro nel rendere i buffi o commoventi automatismi di certi tipi, si vorrebbe che ormai “facesse il salto” e scoprisse le leve che comandano i vizi e le abitudini, le piccole grandezze e le piccole miserie da lui così bene ed amorosamente osservate.

Saratoga di Jean Harlow

Qualcuno si stupirà nel veder qui sopra il nome della bella e compianta Jean nel posto che competerebbe al regista Jack Conway. Ma non da oggi siamo convinti che, essendo il film creazione collettiva, autore ne è chi manifesti la personalità preponderante, chi abbia convogliato – sto per dire, magnetizzato – il lavoro dei molti verso l’unità spirituale dell’opera. A questa stregua, si capisce che talvolta possano sorgere dei conflitti di potere: supponiamo, per fare un’ipotesi delle più improbabili, un film della Hepburn diretto da Vidor. Chi sarebbe allora la personalità decisiva? Chi il vero autore? Ogni attribuzione conterrebbe una critica implicita; stabilirebbe dove cada l’accento del film, su quale valore poggino i suoi valori. In Saratoga però non ci sono dubbi. Se anche in partenza l’idea del film era tale che subordinava le forze equivalenti ed autentiche dei protagonisti (Harlow e Gable) alla quadrata e sana disciplina costruttiva di un ottimo regista medio quale Conway, la prematura scomparsa dell’attrice e la decisione di pubblicare ciononostante il lavoro, ha subordinato soggetto e regia al fatto umano dell’interprete. E ha fatto di Saratoga una singolare opera della Harlow, più che altri film dove pure la star era arrivata a definirsi meglio, con maggiore alacrità, persuasione e compiutezza. Presente o (purtroppo) assente, la Harlow diventa qui la vera personalità influitiva. Quand’è presente, perché – rimasta incompleta e non ancora del tutto organica la sua figura nella commedia – quella che si impone è la sua diretta vitalità di donna. Involontariamente forse, dalla certezza che più non vedremo contrarsi quelle labbra nel riso o nel dispetto, nel capriccio o nell’amore; né più vedremo splendere quegli occhi, e fremere la bella zazzera bionda, e sobbalzare sul passo decisivo e perfino appesantito quelle forme veementi e trionfali, siamo tratti a cercare lei, Jean, dietro la maschera d’una bizzosa e adorabile figlia d’un allevatore di cavalli, destinata ad abbandonare il suo stramiliardario fidanzato per diventare preda felice di un Gable questa volta divenuto intrepido e spericolatissimo bookmaker. (Dal tempo dei tempi, maghi e cultori di magia parlano dell’arcano potere degli specchi, per la suggestione che nell’immagine sia racchiusa l’anima e l’essenza della vita. Quali influenze emaneranno da questo schermo che ci rende, più viva che mai, ombra piena di corpo, operante nella scenica esaltazione, l’immagine di una defunta? Può ben essere in virtù di simili influenze che la Harlow domina il film). Ma quando ella è assente, quella sorta di patetica e gloriosa condanna per cui le tocca di vivere ancora, di terminare d’oltretomba il suo film, la fa ancora più dominatrice. Non solo perché la sua irrevocabile presenza è sostituita con una evocazione che ha dello spiritico (quel simbolico bicchiere di bicarbonato nella penultima sequenza); non solo perché la sua piccola controfigura, quella povera understudy non è potuta mai diventare star proprio per la sua somiglianza con Harlow – apparendo qui velata, in camice lungo, di spalle o al più di tre quarti, ha l’aria di congiurare contro la sorte. Jean scomparsa risceneggia il film e gli dà, oltre l’interesse affettivo e unico che s’è detto, uno speciale interesse tecnico. Saratoga diventa un film che si lascia vedere in controluce, inseguire nel segreto del laboratorio. La rapida elaborazione postuma non ha permesso di raggiungere quella compattezza di vernice, quella corsiva abilità di presentazione, per cui quasi sempre i film americani, anche i più fragili, riescono a imporsi. Gli strati attraverso cui si costruisce un film (soprattutto nella complessa, organizzata preparazione teorica degli americani) qui risultano a nudo. È in primo luogo il lavoro dei gagsmen che, data una vicenda e dei caratteri ancora sommari, inventano la più ferace varietà di situazioni per condurre narrativamente la vicenda; escogitano gli ambienti più diversi per darle fantasia e curiosità di colori; moltiplicano gli espedienti affinché le situazioni, spesso puramente dialogiche e psicologiche, si sviluppino tutte in un movimento, si appoggino ad aneddoti visivi. (Gag lirico e di colore, in Saratoga: il treno speciale delle corse; gag di movimento: quel raffreddore della protagonista che permette di trasformare un dialogo d’amore e di puntiglio nella piccante scenetta di Gable che unge il petto e le spalle della Harlow, per poi ridursi a bere l’olio di ricino a lei

destinato). Ma il controluce rivela, ancor più tipicamente, l’importanza dei cosiddetti “fabbricatori di ponti”. Appunto perché qui, per mancanza di materiale, si sono dovuti ridurre ad un lavoro provvisorio e rimediato, si intravede come in regime normale essi non solo forniscano i passaggi più plausibili da “blocco” a “blocco”, ma anche le aggiustature che modulano il corso di una vicenda, smussano gli angoli eccessivi o colmano i vuoti di una posizione troppo o troppo poco pronunziatasi nel corso delle singole scene. Lo schematismo di Saratoga fornisce la prova per assurdo del come la drammaturgia del cinema americano si fondi su impostazioni elementari, di una energia quasi rozza e primitiva. I colori si pongono, in un primo momento, come colori di tubetto semplicemente spremuti sulla tela. Le digradazioni, le velature, le sfumature vengono poi, quando si è ben certi di avere stabilito delle irrefutabili evidenze. Vedete, nel caso nostro, il personaggio di Gable, non ancora del tutto elaborato: vi è affermata intera, perfino brutale e sproporzionata, la forza che porterà quel personaggio alla vittoria. Mancano precisamente le correzioni e i passaggi che avrebbero dovuto renderci simpatica ed accettabile quella vittoria.

La fossa degli angeli di Carlo L. Bragaglia Prima ancora che discutere questo lavoro, bisogna constatarne la seria nobiltà. Non è un film come tutti gli altri: questo almeno è positivo. Per essere più espliciti, raccogliamo subito l’obiezione più ovvia: La fossa degli angeli è un’opera greve. Qualcuno dice addirittura: noiosa. Che, per uno spettacolo, non è poco dire. Ma, in questo senso, anche i grandi libri sono tutti noiosi: ci vuole stomaco e pazienza per affrontarli. Non che alla Fossa degli angeli si voglia così, alla leggera, regalare l’attributo della grandezza, ma certo essa lascia intravedere intenzionali e confusi e quasi sempre inesauditi i segni d’una volontà di grandezza: cioè l’impegno, la fede, la dedizione di un ideale. In una maniera difficoltosa, avara, la Fossa degli angeli è toccata dalla spiritualità. La prova migliore è che non riesce ad urtarci, pur toccando uno degli argomenti su cui tutti siamo più suscettibili: quello del lavoro umano. La religione del lavoro umano è senz’altro una cosa ben concreta: eppure, quando cerchi di esteriorizzarsi in una espressione artistica, cammina su un filo di coltello tra la retorica del lavoro e l’estetismo del lavoro, e di rado riesce a tenersi in bilico. Bragaglia, nel suo film, vi è arrivato. E sì che trattava di una manifestazione spettacolosa, monumentale: il lavoro dei lavoratori di marmo nelle Apuane, l’amore e la fedeltà che lega quegli operai all’immane teatro della loro fatica, nonché a quella medesima fatica. Tutto il dannunzianesimo dell’Alpe di Luni, della rupe che s’infutura, dell’inno senza favella, del masso che si farà statua guatava Bragaglia; e lo guatava tutto il vittorughismo umanitario dei travailleurs. Egli se ne è salvato con una purezza, nella quale volentieri riconosciamo, quali che ne siano i limiti, il suo segreto e la sua vocazione di artista. Bisogna subito soggiungere che il cinema ha dalla sua il privilegio di far parlare direttamente i documenti; ma questo regista, lasciandoli parlare, ha avuto la bravura di non ridursi alla nuda e cruda citazione. Inquadrature, carrelli, panoramiche, postazioni e movimenti di macchina sono calcolati per portare al diapason l’eloquenza di quelle montagne di marmo e del lavoro che ferve sulle loro balze; nello stesso tempo però sono sorvegliate ad impedire che quell’eloquenza degeneri in retorica. Supponiamo: a paragone con la “sinfonia delle macchine” nell’Acciaio di Ruttmann, questa “sinfonia delle cave” risulta forse meno sapiente e senza dubbio più frammentaria; tuttavia è più casta: e, diremmo, più umana. Il riferimento ad Acciaio non è casuale, giacché sulla Fossa degli angeli pesa la stessa tara: quella della favola che dovrebbe romanzare il documentario. Anzi, le due favole per avventura si somigliano anche troppo, ordite entrambe su una tragica rivalità d’amore tra due uomini affratellati dal comune lavoro. L’omicidio colposo, preterintenzionale, che provocava la crisi in Acciaio qui è sottilizzato in una situazione più misteriosamente fatale: il compagno muore per un sinistro, nello stesso momento in cui il compagno peccaminosamente lo tradisce. Pare impossibile che, per

mostrarci i sentimenti delle più nobili, fiere e rudi classi di lavoratori, non si sappia inventare altro. Artista colto, arrivato al cinema con interessanti e raffinate esperienze d’avanguardia (O la borsa o la vita), Bragaglia era certamente avvertito dei pericoli a cui l’esponeva il proposito di trascrivere con immediatezza quasi letterale la psicologia dei cosiddetti “semplici”. È il pericolo noto anche in letteratura attraverso tutti i tentativi di verismo provinciale e gli sforzi di tradurre in lingua delle situazioni intimamente dialettali. A superarlo c’è voluta per esempio la miracolosa forza di trasfigurazioni liriche e musicali di un Verga. Insomma: la prova dei fatti dimostra che non si può, né nel romanzo né sulla scena né sullo schermo, far parlare a quei semplici il loro semplice, elementare linguaggio: sotto pena che non dicano più nulla o che, quando si esprimono, escano in parole inefficaci e senza preciso rapporto con la situazione (vedi, in questo film, la riconciliazione finale tra Piè e Luisa). A siffatta difficoltà si direbbe abbia voluto rimediare la musica del Masetti; che infatti, presentata al Maggio Musicale Fiorentino, ricevette molte e molto autorevoli lodi. Con ricorsi tematici e richiami timbrici amalgamati in un sinfonismo di grosso calibro, questa musica finisce col restituire una folta complessità a quelle anime che l’azione e il dialogo avevano schematizzate. Ma, dal punto di vista del gusto, rimane a vedersi se quell’attardato wagnerismo abbia ancora ragione, e se la musica “che si ascolta col capo tra le mani” non sia eventualmente antitetica con un fatto visivo qual è il cinematografo.

Anime sul mare di Adolph Zukor Adolph Zukor, uno dei massimi, se non il massimo, attualmente, tra i produttori hollywoodiani, è un uomo ben reale; e molti anzi ricorderanno come, ricorrendo all’inizio di quest’anno le sue nozze o “giubileo” d’argento con la cinematografia, nessuno tralasciò l’occasione per celebrare la sua carriera ed i suoi meriti, davvero insigni. Ma qui, nel nostro discorso, la figura di Zukor avrà anche una portata simbolica. Un produttore americano lavora circondato da una tale schiera di assistenti, consulenti, esperti, “lunghe mani”, ecc. che riesce difficile dire quanto delle sue convinzioni ed iniziative personali – non parliamo del suo gusto – si sia trasfuso nei film “presentati” sotto il suo nome. Certo è stato lui a premere il tasto che ha messo in moto la macchina; l’organizzazione che ha reso possibile il film fa capo a lui; l’idea d’un film di determinato genere è nata dalle statistiche e dalle informazioni ch’egli ha raccolte circa le preferenze del pubblico internazionale. Senonché, a partire da quel momento, i casi sono due: o la macchina rimane la macchina impostata dal produttore; oppure, per l’intervento più o meno sottile di una personalità artisticamente creativa, si trasforma in un blocco poetico e spirituale. Anime sul mare rientra nel primo caso: è e si serba un film di produzione, sia pur di grande e poderosissima produzione. E autore per noi ne resta il produttore, Adolph Zukor. (Anche a voler tener conto ch’egli ha affidato l’incarico di producer vero e proprio allo stesso regista Hathaway). Zukor sembra avere indetto, con Anime sul mare, una formidabile fiera campionaria dei propri mezzi di realizzazione, nonché della qualità superiore con cui è in grado di fornire al suo pubblico il prodotto “che va”. La scelta del soggetto, intanto, è stata fatta col criterio che qualunque industriale intelligente seguirebbe nella scelta di uno stile, di un progetto architettonico per uno stand di esposizione. Barocco o Novecento Neoclassico o magari Liberty, bisogna che quel padiglione inviti il visitatore a fermarsi, dandogli il senso della “linea di moda”, senza peraltro intontirlo o indisporlo con le esasperazioni o gli avventurosi partiti presi della novità. Il cinema, si sa, procede per filoni: di volta in volta, di stagione in stagione, esplora ed esaurisce un filone, di cui quasi sempre la letteratura drammatica o romanzesca gli hanno indicato le tracce. Le mode letterarie si sono succedute però con una logica, con dei rapporti di causa ed effetto, che il cinema sovverte ed ignora, obbediente com’è al bisogno di tenersi legato il pubblico, di seguirne le tendenze, di secondarne gli umori e gli amori di novità. Oggi uno dei filoni in via di sfruttamento è quello dei romanzi del e sul mare: dalla Tragedia del

Bounty dell’anno scorso, a Capitani coraggiosi di quest’anno (due felici modelli), ai Filibustieri ch’è in via di essere ripreso. Pirati o bucanieri, pescatori o mercanti di schiavi, poco importa; Kipling o il buon Fenimore Cooper, fa lo stesso: le epoche o le tendenze letterarie che via via hanno presieduto al formarsi di quei drammi, di quei romanzi, di quelle epopee marinaresche si possono benissimo mescolare e confondere (questa nostra constatazione non è un’obiezione): per il cinema in caccia di soggetti, ciò che preme è la materia, è l’atmosfera del soggetto. E Zukor ha trovato stavolta quel che cercava in un episodio della lotta contro i negrieri, condotta dal governo britannico ai primi del secolo passato. Creatosi lo stand, Zukor ha messo in mostra uno dei campionari più brillanti della sua industria: in primo luogo, un repertorio di effetti spettacolari infallibilmente congegnati (dalla sentina di negri che esala le sue nenie malinconiche sul deserto degli oceani, al naufragio d’un grande veliero, transatlantico di lusso d’un secolo fa): in secondo luogo, un catalogo delle sue forze, riassunto principalmente in un attore come Gary Cooper e in un regista come Henry Hathaway. La luce è, si capisce, delle più favorevoli: rimane però luce artificiale, da esposizione. Cooper impersona un marinaio che, per certi suoi disegni a noi non altrimenti noti, prende regolarmente imbarco su battelli di negrieri, salvo sventare le loro imprese. Finché un giorno, forte di simili precedenti, viene assunto dal servizio segreto inglese. Perché Gary Cooper si fosse addossato personalmente e privatamente il benemerito ma non lieve incarico di ripulire i mari, non sapremo mai. Il film ci dice soltanto che egli si pasce di nobili malinconie, che in navigazione legge l’Amleto, ecc. Per la posizione di un carattere così complesso non c’è da scialarla. Ma è quel tanto che basta per mettere Cooper nelle sue corde: per fargli fare un personaggio, sto per dire, identico a lui, a quel caro ragazzo che arriva sempre in orario, pur perdendo in partenza tutti i treni. Per meglio orchestrare il suo ascendente e le sue possibilità di umana simpatia, la distribuzione gli ha messo accanto una specie di confidente, un Pilade travestito da marinaio, un Marchese di Posa camuffato da negriero convertito, nella persona di George Raft. Quanto ad Hathaway, la sua bravura narrativa doveva esplicarsi soprattutto in un succedersi di sequenze e di episodi quasi virtuosistici, condotti e disposti in modo da rendere il centouno per cento di ciò che il produttore vi aveva messo dentro. Se nel montare il naufragio Hathaway non è sfuggito a certa quale concitazione e sommarietà, con che perizia da consumato direttore d’orchestra ha invece graduato il crescendo che dall’idillio di una placida navigazione notturna sale al tragico parapiglia del veliero in fiamme. La sceneggiatura, manco a dirlo, ha servito la produzione con tutte le sue risorse. Ma appunto perché convinta di servire piuttosto i calcoli di una produzione che l’intima bontà di un soggetto, forse ha spinto la sua applicazione fino a mostrare la corda. Come l’écriture artiste di certi romanzieri si sforzava di mettere tutto in musica, così le sceneggiature americane si sforzano, non ci stancheremo di ripeterlo, di mettere tutto in movimento. C’era, supponiamo, da superare lo scoglio di un dialogo d’amore, difficile perché preveduto, a cui si intrecciava un incontro tra due nemici, neppur esso nuovo film. Che cosa hanno immaginato sceneggiatori e gagsmen? Che la donna soffra il mare, che il protagonista possegga una miracolosa polverina, la quale fa cessare per incanto la nausea, ma provoca il singhiozzo. Nello scontro fra i due nemici la polverina vola: i tre dialoganti finiscono a dirsi le loro non agevoli né peregrine battute tra un’irresistibile interpunzione di singhiozzi. Una scena che minacciava di singhiozzare, salvata proprio con i singhiozzi.

Il dottor Antonio di Enrico Guazzoni Rimane acquisito che Guazzoni è un orologiaio capace di fabbricare degli orologi che camminano. Che se a qualcuno paia poco, anzi il minimo indispensabile, replicheremo invece che la cosa è abbastanza straordinaria. In una percentuale di casi tutt’altro che trascurabile, la pretesa del

cinematografo è proprio di far segnare il nostro tempo – di spettatori e di partecipi ideali d’una vicenda – da orologi su cui bisogna far marciare la lancetta col dito. Quelli di Guazzoni saranno magari oriuoli di vecchio tipo, cipolle piuttosto che extra-plats; talvolta perfino macchinosi arnesi da torri campanarie che gemono per tutti gli ingranaggi avanti di batter l’ora; ma l’ora scocca e, se non giustissima, di una sufficiente approssimazione. Insomma, se questo Dottor Antonio non è già, fin dalle “prime visioni”, un grosso successo, destinato a vieppiù ingrossarsi nelle visioni successive, vorrà proprio dire che sul pubblico non si possono fare scommesse. E comunque quella che bara al giuoco sarebbe la psicologia dello spettatore, non già la solerte sagacia di chi ha organizzato lo spettacolo. Che se, per ovvi motivi di gusto e addirittura per ragioni di principio, non possiamo tributare a Guazzoni una solidarietà incondizionata, è fuor di dubbio ch’egli riesce ad accaparrarsi una simpatia facile e cordiale, a svogliarci dal guardar troppo per il sottile. È uno di quegli autori che si fanno voler bene. Che strappano l’indulgenza, offrendo in cambio parecchie tra le soddisfazioni dell’indulgenza. Giuseppe Verdi soleva chiamare “opera bell’è fatta” quella situazione (per esempio, La dame aux camélias) in cui i caratteri drammatici e il nodo melodrammatico fossero già pronunciati con la necessaria evidenza. In un senso analogo, si potrebbe dire che Il dottor Antonio di Giovanni Ruffini poteva sembrare un “film bell’e fatto”. Pochi romanzi parevano contenere, per un produttore, altrettante seduzioni e promesse. Senonché bastava guardarlo più da vicino, per accorgersi che la trasformazione non era così semplice. Composto nel ’55, in inglese, da un mazziniano genovese, rifugiatosi in Inghilterra dopo l’arresto del ’35, Il dottor Antonio implicava una tesi: persuadere gli stranieri, soprattutto quelli di classe altolocata, alla causa dell’unità italiana. Ispirazione civile, che s’incarna in due motivi ben distinti: primo, la progressiva, quasi involontaria conquista che un italiano, il dottor Antonio, compie della soave Miss Lucy, superando con la grandezza del suo carattere le differenze di idee e di temperamento; secondo, la denunzia al mondo intero della passione durata dai patrioti in Napoli dopo l’abiura della Costituzione: il carcere, l’oltraggioso e crudele processo davanti la Gran Corte Criminale. E si ricorderà che a questa seconda parte il traduttore italiano del romanzo, Bartolomeo Aquarone (Porto Maurizio, 1856) augurava la fortuna e l’efficacia propagandistica delle Mie prigioni del Pellico. Tra i due blocchi, però, c’era una frattura: materialmente segnata dal capitolo Buona notte all’idillio. E la critica letteraria sa benissimo come l’introduzione e la cornice sentimentale abbiano finito col prevalere, artisticamente almeno, sul dramma patriottico. Il dottor Antonio, a parte il suo valore documentario, sopravvive per un delicato e semplice idillio, nostalgicamente, indimenticabilmente ambientato in un paesaggio della riviera ligure, che a lui deve buona parte della propria fama letteraria. E quell’idillio non offre che un colpo di teatro: il capovolgimento della carrozza che paralizzerà Miss Lucy all’Osteria del Mattone. Doppia difficoltà, dunque, per un riduttore cinematografico: seguire un duetto sentimentale, di per sé alquanto statico, e cementare quel duetto al dramma nell’unità del film. Un produttore intelligentemente devoto ad alcuni canoni dello spettacolo popolare, ha avuto buon naso nell’alleare la sapienza effettistica di Enrico Guazzoni, alla sperimentata abilità teatrale di Gherardo Gherardi, il quale ha compiuto la parte letteraria (treatment, sceneggiatura e dialoghi) della riduzione. La ricetta è stata di rispettare le regole più tradizionali e sicure: il romanzo ne risulta impoverito, ma guadagna di coerenza e di palpito narrativo. Quello che può essere uno dei filtri poetici del libro – il ritrovarsi, oltre il tempo e le vicende, dei due protagonisti dopo lunga e fortunosa separazione – viene a cadere; il pathos medesimo del personaggio di Lucy, con la sua sconsolata predestinazione, cede alle esigenze del lieto fine. Le figure sono schematizzate: basti il caso di Aubrey, il fratello di Lucy, la cui negatività nel romanzo subiva infinite correzioni, mentre nel film è ridotta al nero chiuso. In compenso ingranano più vistosamente nel racconto e permettono di travolgere lo spettatore nell’attesa incessante del “come-andrà-a-finire”. E allora anche i tocchi successivi e frammentari dell’idillio – scelti quasi tutti con esperta previsione del loro rendimento

scenico – finiscono a coagulare in forza di quell’attesa che li appunta verso il desiderato scioglimento. La volontà di cavarci il film ha bevuto l’ostacolo e ha finito a suo modo coll’aver ragione. È chiaro, per esempio, che più d’una volta il montaggio s’è rimangiato la sceneggiatura, non ha badato ai passaggi incongrui, ai salti davvero mortali. Il ritmo visivo si è completamente arreso ad una facinorosa foga narrativa; la quale si prevale, diremmo, dei suoi torti; ma frattanto impugna la platea. Intendiamoci: anche come mestiere cinematografico, Guazzoni ne ha da poter aprire scuola per parecchi. Intanto, arriva quasi sempre a dire ciò che vuole. (L’obiezione è: che cosa gli capiterebbe, se volesse dire di più?). A ragione, è stata lodata la sua strategia nel manovrare le scene di massa. Nell’accavallarsi delle figurazioni, egli riesce sempre a distinguere e precisare le schiere, a specificare i movimenti con la disciplinata chiarezza di un coreografo, a seguire tra il tumulto l’azione individuale. Sia detto senza malizia, è un uomo che sa stare a meraviglia in taverna coi ghiottoni, e salvar la correttezza e la misura. Molti registi, che trasudano fior di estetica, cadrebbero in chi sa quali trivialità e facilonerie, se si attaccassero come lui a motivi squarciati e popolari. O si rifugerebbero nei sottintesi decadentistici, nelle strizzatine d’occhio di là dallo schermo. Francamente, viene la curiosità di sapere come Guazzoni starebbe in chiesa coi santi. Meglio, c’è da supporre, che tanti santoni qualificati.

Il feroce Saladino di Mario Bonnard e Ettore M. Margadonna Ecco un film che si espone non so quante volte al rischio di singolari riuscite, avanti di lasciarci definitivamente in una tonalità indecisa, che non soddisferà né gli amatori della farsa corpulenta, né quelli della farsa metafisica. Apposta ne abbiamo segnato come autori lo sceneggiatore ed il regista: la fisionomia residua del lavoro è quella di un curioso e sospeso conflitto tra le intenzioni (sceneggiatura) e la realizzazione (regia). La regia rispetta e fa trapelare le intenzioni della sceneggiatura, senza però lasciarsene imporre una condotta organica, uno stile; a sua volta, la sceneggiatura chiede teoricamente, intenzionalmente alla regia uno sforzo superiore, ma nello stesso tempo la mette in tentazione di abbandonarsi ai suoi soliti, abitudinari slittamenti. Non occorre soggiungere che, per conto nostro, la parte più rispettabile del film è da ricercarsi nelle intenzioni. Le quali rispondono ad una duplice esigenza: da un lato una sorta di impaziente avidità di creare del cinematografo, inteso come movimento; dall’altro il giusto desiderio di appurare quella vena di grande commediante che Angelo Musco certamente possedeva, offrendole il modo di controllarsi, e il destro di concentrarsi in una comicità più serrata, a doppio fondo lirico e patetico. L’avidità di fare del cinematografo si traduce nella ricerca infaticabile di un “tempo” senza quartiere. La trovata succede alla trovata, la rincorre e sostituisce, come chiodo scaccia chiodo. Ma quel “tempo” finisce col diventar furibondo, coll’abolire le cadenze che si richieggono per dare spazio e respiro anche al ritmo più concitato. Se non paresse una freddura, diremmo che nel Feroce Saladino il “tempo” non dà tempo al tempo. Il Margadonna conosce come pochi le risorse del cinematografo; la sua conoscenza è fervida e passionata, somiglia all’amore; questa sua sceneggiatura dimostra una fiducia forse soverchia nelle cose ch’egli ama, e quasi la furia di metterle in atto. È indiscutibile che certi gags sono di per sé cinematografo; ma non bastano a fare il film. Occorre una vicenda perfettamente scandita se si vuole che il gag dentro di lei possa giocare in tutta la propria portata. Una matura sapienza e una pronta feracità di sceneggiatore hanno dato il cambio alla saggezza e forse illuso il Margadonna che la sceneggiatura basti a risolvere il soggetto, a vincerne le tare e le incompiutezze. Sicché egli è passato, parrebbe, alla sceneggiatura senza abbastanza criticare il soggetto. Naturalmente se la regia avesse cercato, per conto suo, di stringere le sequenze, come lo sceneggiatore probabilmente richiedeva; se le allusioni fossero state più veloci, i passaggi più

bruciati, gli ingranaggi più serrati, è quasi certo che l’impressione d’un affastellamento di trovate, d’una gragnuola d’invenzioni che distruggono la coerenza del racconto nell’incoerenza della farsa, risulterebbe alquanto corretta. Rimangono, come tracce di ciò che si desiderava, il crescendo del “treno umano” deragliante nella zuffa con cui l’illusionista è scacciato dal teatro; e il brano della platea che si converte in una Borsa di figurine pubblicitarie. Con più rigore e felicità di espressione, si sarebbe giunti a un pelo dall’emulare alcuni fortunatissimi passaggi di Clair. L’indeterminatezza della vicenda ha anche compromesso la possibilità di approfondire i motivi umani e dolenti, che si erano fatti serpeggiare sotto il lazzo di Musco. La conclusione del film congeda il pubblico troncando il lazzo, piuttosto che portando ad una sorridente rassegnazione il fallimento del protagonista. Fallimento, soprattutto, sentimentale: amore d’uomo già maturo e abbondantemente sconfitto dalla vita, che dovrebbe placarsi in una sorta di amor paterno. E sì che a segnare la melanconia non meno che la nobiltà della rinunzia, avrebbero aiutato non poco l’incantevole figura e la fresca grazia della fanciulla, per cui quell’amore si era acceso: al secolo, la giovane attrice Alida Valli, che si rivela un’ingenua di non comune qualità.

Sentinelle di bronzo di Romolo Marcellini. Ci sono due modi di scampare alla retorica. Uno è quello famoso di prenderla e di torcerle il collo; l’altro quello di ignorarla. Del quale vorremmo appunto portare come esempio Sentinelle di bronzo. Ma qui, crepi la pedanteria, occorrerebbe ancora distinguere: tra retorica ed eloquenza. Il cinema arriva al pubblico, influisce le masse, affidando la sua emozione e il suo lirismo ad una sorta di eloquenza. Non dimentichiamoci che, a suo modo, deve parlare in piazza: e certe battaglie non si accettano, né si danno a patti. La poesia del cinema è poesia di spettacolo, poesia applicata, poesia al pantografo. Bisogna quindi che rompa, pena l’inanizione, i cordoni sanitarî e le cinture di castità della cosiddetta “poesia pura”. È quanto un Chaplin ha capito, e un Clair invece ha capito un po’ meno. Del resto il cinema è successione organizzata di fatti: e nulla è eloquente quanto il fatto. Tutto sta a saperlo lasciar parlare, a rispettarne la voce, senza confonderla né forzarla. Sentinelle di bronzo è un film che si è messo appunto in condizione di far questo. Ma lasciar parlare il fatto non vuol dire semplicemente citarlo o registrarlo, che sarebbe il compito del documentario. Sentinelle di bronzo non è un documentario. Se lo fosse, non ci trasmetterebbe immediatamente quei valori di testimonianza pensata, di interpretazione, di “stato d’animo”, che ne sono l’anima e gli danno immediatamente autorità. Si tratta di un film vissuto: ciò che lo distingue dal documentario è precisamente la differenza tra cosa vista e cosa vissuta. Qualunque opera narrativa, quindi anche il film, contiene in apparenza una parte di documento, di fatto nudo e crudo, tolto di peso dalla vita. In apparenza, insistiamo. Un grande poeta declinava la sua incapacità di accingersi al romanzo, perché questo obbliga a scrivere frasi come: “La carrozza della marchesa è alla porta”. Evidentemente quel poeta fingeva di non accorgersi che, in un romanzo vero, la “carrozza della marchesa” diventa poesia, perché il tono e le prospettive del racconto l’hanno portata in posizione di canto. Quanto più la materia narrativa è concreta, tanto più, presa in se stessa, ha l’aria di un documento, si presenta come puro materiale. Il problema consiste appunto nel portarla in posizione di canto. Ombre bianche portava in posizione di canto un magnifico materiale documentario sui Mari del Sud. (Tabù invece sentiva il bisogno di esornare il documento, perché non riusciva a scioglierlo in una corrente lirica). Sentinelle di bronzo portano in posizione di canto uno stupendo (il migliore che fin qui si sia veduto) materiale sulla Somalia italiana, sulla vita delle cabile, sulle gesta dei dubat e dei nostri ufficiali negli anni precedenti l’impresa abissina. (Il film, com’è noto, si svolge nel 1934 e culmina in un assalto, eroicamente respinto, ad un nostro fortino). La via più rapida e comune per conferire al documento un valore lirico e funzionale è quella di

impiantarlo su un supporto narrativo. Gli autori di Sentinelle di bronzo ne hanno scelto una più ardua. Hanno ridotto l’esigenza del racconto a quella, stiamo per dire, musicale di un tono narrativo. Più che nell’intrico di una vicenda, hanno voluto e ottenuto che i fatti si succedessero “come in una vicenda”. La trama di questo film è suppergiù quel tanto di trama che potrebbe esserci in un reportage giornalistico, dove la nota di taccuino, l’osservazione dal vero, l’incisiva e fedele trascrizione di un dato o di un fatto si organizzino in un discorso che, mettendo ordine e prospettiva e successione in quella materia, la faccia svolgere come sul filo di un racconto. In questo senso, Sentinelle di bronzo rivelano l’arte di Gian Gaspare Napolitano, che nel ridurre il romanzo coloniale Marrabò a scenario del film, ha saputo serbare la mentalità con cui si sarebbe creato una traccia per uno dei suoi servizi giornalistici. Che hanno una nota inattesa e originale, come animo e come stile, nel genere reportage. La bravura di Marcellini è stata di tradurre in cinematografo quell’animo e quello stile. Il nuovo tipo di “inviato speciale” è quello d’uno che spezza tutte le confortevoli barriere tra il visitatore e il paese visitato; che si tuffa nella vita del luogo come uomo e non come semplice osservatore, come parte in causa e non come turista. I risultati che ne riporta non hanno più bisogno di essere sofisticati o romanzati, perché già di per se stessi sono romanzo: d’un uomo vivo tra gente viva. Sprezzatura, coraggio, sincerità, amore di veder chiaro sono le doti morali di questo reporter, e si trasferiscono intatte nei caratteri stilistici della sua narrazione. Se si aggiunga che Sentinelle di bronzo toccano un tema dei più vivi per il sentimento degli italiani, si capirà come giustamente debbano annoverarsi tra i migliori esempî di una cinematografia nuova e nostra.

Stasera alle 11 di Oreste Biancoli Biancoli deve la sua rinomanza ad una abbondante e fortunata produzione di teatro umoristico e leggero. Il suo modello letterario (usiamo questa parola in un senso analogico) potrebbe essere un Guitry, il suo modulo inventivo il music-hall. Ora il music-hall, negli ultimi anni, è stato fatto segno di amori tutt’altro che ingenui: insieme col circo, ha pagato le spese di tutta una serie di nostalgie, di derivazioni patetiche ed ironiche, di fumisterie eleganti. Volevamo insomma dire, per questa via un po’ traversa, che i gusti di Biancoli denunziano umori crepuscolari e decadenti. D’altronde anche nel cinema – soggettista, sceneggiatore e assistente artistico di Cavalleria – egli non aveva nascosto questi amori e, su un registro di evocazioni, aveva dato il meglio di sé. Con Stasera alle 11 affronta, per la prima volta, un film in proprio, con piena responsabilità di regista. E per un fenomeno non insueto agli artisti decadenti, tenta la prova col pastiche, si misura in una sorta di acrobatica e fumistica parodia del cinema americano. La ragione può essere duplice: legata ad un impegno di mestiere non meno che ad un tipico stato d’animo. Giunto alla diretta creazione cinematografica, dopo di aver diuturnamente vissuto il cinematografo nella fase dell’ideazione ed averlo intimamente osservato in quella della realizzazione, Biancoli sembra essersi proposto di saggiare la propria maturità tecnica nel riprodurre qualcosa che ai cineasti europei pareva quasi irraggiungibile: cioè la vernice e lo smalto del cinema americano; quella condotta brillante di un racconto a ritmi strettissimi, “portato via” dalla sua stessa vivacità. In questo senso, egli si è comportato come quei pittori che soggiornano lungamente nelle gallerie e soltanto dopo di aver perfettamente riprodotto i maestri si ritengono degni di accingersi al lavoro originale. Il pregio qui consiste nell’avere reinventato il modello: che è ciò che distingue la composizione à la manière de dalla copia. S’intende però che l’originalità, nei suoi limiti, del film risale allo stato d’animo. Cioè a quel gusto della mistificazione, che più o meno circola sempre nei crepuscolari. E che ritrova la propria giustificazione e dignità col portare la maschera in mano. Biancoli ha riprodotto il film gangster, ironizzato nella sua sottospecie giallo rosa; ma non ha mancato di citare, proprio in una delle prime sequenze, alcuni pezzi d’uno dei più illustri film gangster: lo Scarface. Ha ricercato taluni segreti

dello stile di Lubitsch; ma non ha mancato di carrellare un valzer in modo che la firma Vedova allegra risultasse esplicita. Ha trasfuso la propria vena sentimentale in alcuni dialoghi polemicoamorosi, esemplati sul ritmo americano; ma ha curato che la sua protagonista fosse Francesca Braggiotti, cioè un’italiana proveniente da Hollywood, e il primo attore un americano autentico, cioè John Lodge, avvezzo a respirare la battuta sul tempo di un Cooper o di un Gable. Mistificazione; ma voluta e, in certo senso, alla seconda potenza; il che le conferisce un cosciente impegno, una precisa serietà. Biancoli ha rifatto un involucro; ma poi vi ha versato un contenuto che non lasciasse dubbi sulle intenzioni. Il suo film è una bomba in un mazzo di rose; grazioso inganno, ma pericoloso. Senonché, nell’esplodere, quella bomba libera un fuoco d’artificio. L’inganno, a sua volta, è ingannato. E Biancoli si apre un credito come regista.

Parnell di Karl Freund La figura di Parnell, “re senza corona” dell’Irlanda sul finire del secolo scorso, campione e assertore della autonomia irlandese, ha avuto abbastanza di recente il suo grande quarto d’ora letterario col successo del Dedalus di James Joyce. Quarto d’ora stabilizzatosi con lo stabilizzarsi di quel successo e coll’affermarsi, ormai inconfutabile, di Joyce tra i massimi scrittori del mondo contemporaneo. Il Dedalus è, come si sa, l’autobiografia romanzata dell’autore negli anni dell’infanzia e giovinezza a Dublino: i fatti, i personaggi che vi incidono, ne riemergono già filtrati attraverso il ricordo e la sensibilità personale del protagonista, già muniti di un coefficiente lirico. Parnell è, prima di tutto, per Joyce-Dedalus l’uomo di cui parlano i grandi, quello su cui si odono i discorsi misteriosi e vagheggiati donde il bimbo è escluso. Volevamo suggerire, per antitesi, che gli ideatori del film su Parnell hanno creduto invece di poter portare avanti la figura di quel personaggio così particolare e diremmo locale, senza farla passare attraverso alcun filtro che ne precisasse e specificasse l’interesse. Sono caduti nell’equivoco tra il romanzesco e il “romanzabile”, supponendo tra i due termini una specie di identità che è ben lontana dall’esistere. Il romanzesco diventa romanzabile, solo quando le circostanze ne possano essere accettate e in qualche modo condivise da tutti. Soggiungiamo subito che nel caso di Parnell l’equivoco diventava abbastanza facile e seducente. L’eroe di una lotta e di una causa di alto valore e contenuto civico, il quale cade vittima di uno scandalo privato, per una passione d’amore in cui pure aveva trasfuso quell’intera idealità e purezza, onde tutta, e sempre, la sua vita era stata governata: non par questa una situazione di poema degnissima e d’istoria? Il guaio si è che, per intendere il valore drammatico e la fatalità di un simile contrasto, occorreva sentire in tutta la sua forza quel blocco di idealità, quel superiore impeto d’azione civile e morale, a cui l’amore dovrebbe aggiungersi come nuova forza e cemento spirituale; mentre poi, travisato dalle circostanze avverse, perfidamente sfruttato dai nemici politici, diventa un coefficiente di erosione, si trasforma in una obiezione sciagurata. Ancora una volta poteva riprodursi la favola dell’amore che promette gioia e manda pianto. Ma in tal caso sarebbe stato necessario che gli autori del film ci facessero vedere chiaramente quello che Parnell era, la sua personalità e il fascino della sua personalità. Invece si sono contentati di postulare questi dati. Ma l’azione e la vita di Parnell si sono svolte in un raggio troppo particolare e limitato, perché al solo evocare il nome di quell’uomo nasca in noi un’idea di grandezza, sufficiente a drammatizzare il fatale contrappasso di miseria che la vita infligge. Con un Cromwell, magari, o con un Napoleone si sarebbe potuto lasciare implicito il momento della epopea; ma ancora…Un film che si proponesse di mostrare l’insidia dell’umano, troppo umano, contro l’eroico, dovrebbe farci vedere nella loro potenza e forza di attiva creazione anche quegli uomini, di cui conosciamo a memoria l’operato e la statura. A maggior ragione, per un Parnell. Qualche dimostrazione di popolo, qualche seduta alla Camera dei Comuni, sia pure ricostruite con la massima precisione e fedeltà, non bastano certo ad immetterci nella “durata”

eroica e creativa di una personalità, tutto sommato, abbastanza laterale ed episodica nella storia del mondo. Era per lo meno necessario, di quelle aspirazioni e realizzazioni politiche, di quei contrasti parlamentari, estrarre il succo umano, i comuni denominatori con cui tutti, nel loro sentimento civico e patrio, sono in grado di simpatizzare. Così come ci vengono presentati dal Parnell, bisogna essere irlandese, o almeno inglesi, per riuscire a sentirli. Condizione nella quale evidentemente noialtri, pubblico internazionale, non ci troviamo. L’ufficio ricerche della casa produttrice ha lavorato bene, fin troppo bene: al punto da illudere gli autori che non fosse più necessario rielaborare e chiarire, in chiave di piena umanità, il dato storico accertato dagli specialisti. Né è bastato, questa volta, fidarsi del fascino di Clark Gable per garantire il prestigio del protagonista. In fondo, dal momento in cui entra nel film, Parnell non crea più nulla, o quasi più nulla: si limita a sventare i complotti e le calunnie in cui i suoi avversari tentano irretirlo. Anzi, per essere più esatti, non è neppur lui a costruirsi la propria difesa; il suo risulta, tutto sommato, il contegno abbastanza passivo dell’uomo dignitosamente integro a cui la vita sta facendo dei torti. La vera iniziativa passa alla donna che lo ama – nel film, Myrna Loy – la quale prodiga tutte le risorse della sua femminile genialità e intuitiva prontezza, sviluppa la corda materna che è in ogni vero e profondo amor di donna, per salvare e proteggere il povero e deluso e vituperato eroe. Autentica protagonista del lavoro è Myrna Loy. Quel tanto di energia che un Clark Gable non può fare a meno di esprimere, anche a traverso la vicenda più sommessa, opera quasi unicamente come pretesto, e insieme, come limite, all’espansività protagonistica dell’attrice. Ad impedirle ch’ella condensi drammaticamente su di sé tutta l’azione. A tenere perplessi ed a rallentare negli andirivieni di una sinuosa e analitica psicologia, quelli che potrebbero essere i violenti ed immediati nuclei drammatici. Ogni epoca ha i proprî miti: e la figura di Parnell, come ci è stata offerta nel film, non appare un mito dei più adatti per l’epoca nostra. Ma romanzare una vita non si può se non in funzione di un mito: se non in virtù di un’idea che trasformi quella vita, nel bene o nel male, in qualcosa di attualmente esemplare. Altrimenti si resta nell’episodio, nel frammento, nella cronaca. Il Parnell è come uno di quei libri che si chiamano “ben scritti”. Non dice nulla che particolarmente ci prenda o ci incateni; e peraltro non ci basterebbe l’anima di buttarlo via. Salva, insomma, un’alta rispettabilità, una dignità di opera greve, ma nobile. E l’equivalente cinematografico di quello che, in letteratura, diremmo “ben scritto” non è stavolta la regia, ma la fotografia. La bellezza e coerenza fotografica riscattano l’opera e le conferiscono atmosfera e unità. Siamo nel caso, abbastanza raro, del film in cui l’autore è l’operatore. Freund ha creato per quasi tremila metri un eccezionale miracolo di fotografia contrastata, tutta effetti, tutta virgole e brillanti avvolgimenti di luce su grandi e monumentali masse d’ombra. Si controlli la magia con la quale, sui piani di raccordo, là dove digrada in ombra, quella luce si sfiocca, diventa morbidamente bambagiosa, arricchisce le più preziose, le più sostanziose qualità tattili della materia. Si controlli la intensità disciplinata con cui i particolari di un ambiente prendono il loro posto, e parlano senza alzar la voce, e si moltiplicano in una virtù descrittiva che non diventa mai pettegola. Se anche gli ideatori del Parnell, i soggettisti o il regista John M. Stahl, non hanno voluto o saputo trascendere la diligenza di un documentario storico-psicologico, l’operatore Freund ha saputo continuamente trasfondere in quel documento una folta poesia luministica e visiva. Tra quanti hanno lavorato al Parnell, Freund è stato l’anima religiosa: di quella religione, di quella fede e abbandono e intimo convincimento, senza cui non nasce l’opera d’arte.

Angelo di Ernst Lubitsch Angelo è il risultato di un equivoco non raro nelle arti giunte a squisita consapevolezza. Interessante che ora, a scontare quell’equivoco, sia il cinema: riprova, se occorresse, della sua

maturità per alcuni aspetti così colma, da rasentare quasi il corrompimento. Sintomo di una tal fase è la fiducia esagerata, morbida nel segno specifico dell’arte in questione: nella complicità di quel segno, divenuto sensibile come una nevralgia, volubile, pronto a tutti i sottintesi, arguto fino al pettegolezzo ed alla malizia elegante, docile a lasciarsi assaporare fino alla delizia, quasi, di un peccato. Gli amatori di pittura conoscono il fenomeno: basta che pensino, per esempio, ad un Matisse. Quelli di letteratura a certe “poesie” di Cocteau. Quelli di musica alle educatissime deduzioni che un Ravel può aver cavato dai modi dell’impressionismo. In cinematografia, una parola di questo genere non poteva dirla che Lubitsch, al suo primo momento di troppo compiaciuto virtuosismo. Angelo è appunto questa parola. Lubitsch è il mago riuscito a illuderci che col cinema tutto possa essere detto: meglio ancora, che tutto possa incorporarsi nel segno cinematografico. (Per segno cinematografico intendiamo la fisionomia e funzionalità di quelle risorse suggestive con che l’obbiettivo riscatta la propria stupefazione d’occhio di vetro: dalle accentuazioni a cui costringe la scenografia e dalla mimica a cui costringe i personaggi, fino alla sintassi e dialettica particolare in cui le sue testimonianze debbono organizzarsi per assumere più ricco significato che quello della materia fotograficamente documentata). Senonché l’illusione è arrivata a contagiare anche il suo smaliziato autore: ad illudere anche lui che col cinema per davvero si possa dire tutto, compreso perfino il nonnulla ed il quasi nulla. Che la virtù del segno basti di per se sola a tener desto l’interesse ed a reggere lo spettacolo, com’era bastata allorché lavorava sotto la spinta di una grazia che, quantunque disinvolta e tutta giuoco, era ancora spiritualità, ancora (a suo modo) impegno morale (Mancia competente, Partita a quattro, ecc.). Troppo confidente nella sua bravura, stavolta Lubitsch sembra essersi abbandonato ad una metafora sino a diventarne la vittima. E la metafora sarebbe quella, d’altronde abbastanza comune, che assimila il mistero, il filtrante incantesimo, il fascino sensuale di una donna, anzi di una “diva”, ad una musica. Lubitsch ha preso alla lettera il paragone e l’ha dedotto alle estreme conseguenze. Ha assunto la ex-Marlene di Sternberg e, purificandone il prestigio, assottigliandone le pesantezze e gli esagerati splendori carnali, riducendola in certo modo alla linea melodica, l’ha trattata come altra volta aveva trattato le musiche di Strauss o di Lehár, del Sogno d’un valzer o della Vedova allegra. Là una musica facilissima, quanto mai orecchiabile ed orecchiata, pareva prendere finalmente il suo senso più pieno e desiderato in una situazione che, sapientemente fatta attendere, sapientemente la faceva ritrovare; mentre a sua volta la situazione ricavava, dalle connivenza con quella musica, dalle insinuazioni quasi sempre un po’ canailles di quella musica, una suasività, un penetrante potere di lusinga, che forse la scrittura cinematografica, da sola, non avrebbe saputo e così immediatamente conseguire. Qui la medesima funzione è delegata a Marlene. Il suo appello cessa di essere quello proverbiale, per trasfondere la propria irresistibilità in una sorta di richiamo e nostalgia musicale. Negli effetti di luce a perpendicolo, che ne scavano il volto tra gli urtati chiaroscuri di una fotografia tutta contrasti, Marlene appare come la provvida melodia che interviene a salvare la situazione, a profumarla di fascino, a vellutarla di canto. I più insistenti e statici dialoghi psicologici dovrebbero rialzarsi per la sola magia dalla sua presenza come per un cupo e caldo unisono di violoncelli. Né ci si dica che questo modo di lavorare, di impostare il film su un’astratta metafora od associazione di idee, presupporrebbe un Lubitsch troppo cerebrale od intellettualistico. La forza di Lubitsch è proprio quella di saper sempre, o quasi, amalgamare un’ispirazione cerebrale e riflessa in un’arguta evidenza spettacolare. Gratta l’arguto e l’elegante, in arte, e troverai regolarmente l’intellettualistico. D’altronde qualcuno avrà notato, nella Vedova allegra, che il dongiovannismo del protagonista Gavrilo era definitivamente sottolineato dalla scena (proprio sull’inizio) che rimetteva Gavrilo nell’esatta posizione del Don Giovanni molieresco e mozartiano, facendogli cantare la serenata per il tramite vocale di un attendente-Leporello. E se quello non era intellettualismo…

Non importa molto di constatare che la musica Marlene, nella castigatissima e virtuosistica interpretazione che Lubitsch ha voluto offrircene, lavora un po’ meno bene di quanto avevano fatto le musiche degli operettisti viennesi. Mette invece conto di notare come l’aver principalmente puntato sulle musicali suggestioni della presenza di Marlene abbia indotto il Lubitsch a prescindere più che mai dall’entità della vicenda, a contentarsi di una commedia trita e comune: quella della moglie innamorata del marito e da lui trascurata, che si abbandona per un attimo al capriccio ed alla tentazione, salvo tornare la moglie saggia, non appena il marito (un diplomatico inglese, che la tradiva per i comitati e sottocomitati ginevrini) torni ad accorgersi di lei. C’è di più: Lubitsch non ha neppure tentato di scavare la commedia, di trovarle nuovi motivi, anzi l’ha schematizzata al massimo, riducendola ad una catena di dialoghi a due od a tre, in cui i protagonisti si accennano o si spiegano o si nascondono le loro ragioni. Mai o quasi mai che un passaggio si produca attraverso un’azione, un movimento, un’immagine visiva, anziché enunziarsi in battute parlate. Un vero partito preso: perfino l’interferire e l’accavallarsi delle circostanze per cui il marito è messo in sospetto della scappata della moglie, perfino i nodi risolutivi della vicenda, che a chiunque – ed a Lubitsch più e meglio che a chiunque – avrebbero fornito il destro per fare quel che si dice del cinematografo, sono risolti, piuttosto che con una invenzione, con una sorta di convenzionalismo cinematografico: l’espediente dell’aeroplano, per esempio, o quello del telefono. Insomma, in questo film le parti sono rovesciate: il cinema serve la commedia, nella maniera più spicciola, artificiale e sbrigativa, anziché la commedia il cinema. E la sceneggiatura obbedisce a questa concezione con un rigore, che addirittura tiene dell’astinenza. È il trionfo dei campi limitati e prossimi, dove i personaggi non hanno spazio per muoversi ed agire, ma unicamente per parlare. Piani americani, mezzi primi piani, primi piani: è molto raro che il quadro si allarghi e ci lasci vedere più in là, almeno nella parte sostanziale del film. Non è escluso che tra le regole del suo giuoco, affabili in apparenza quanto ferree nel fondo, Lubitsch si sia prefissa questa volta anche quella più maliziosa di adoperare Marlene senza mai mostrarne le gambe. Ma quell’isolare i personaggi, quel limitarli al mezzo busto o poco più, significa pure il tentativo, se non c’inganniamo, di compiere su una psicologia da operetta quel miracolo che altrove Lubitsch (solidale in ciò con un Reinhardt) aveva compiuto sullo spettacolo dell’operetta. Darle un contegno, cioè, ed una serietà attraverso la ricca e sfumata morbidezza dei passaggi, il garbo ironico o sentimentale delle trovate, la finezza delle allusioni e dei sottintesi, la fervida rapidità al far comprendere cose sottili in maniera non meno evidente che garbata: in una parola, la grazia. Ed è appunto limitandosi, fin dall’impianto e dalla sceneggiatura, l’impiego dei mezzi più prettamente cinematografici, che Lubitsch ha mostrato come si possa sensibilizzare all’estremo il segno cinematografico. Le più lievi inflessioni arrivano ad una resa espressiva pari o superiore a quella del più formidabile spiegamento di risorse e ritrovati. Quando la macchina, con carrelli brevissimi, appena accennati, avvicina un personaggio già prossimo, di mano in mano che la dinamica del dialogo si stringe o la situazione si fa più decisiva, tutta la forza delicata di questo vecchio ed abusato “mezzo tecnico” torna a rivelarsi come nuova, a ritrovare la sua precisa ragion d’essere. E si direbbe che apposta Lubitsch abbia qui ripetuto identico il travelling con cui scopriva l’appartamento parigino della protagonista, nella Vedova allegra: apposta per introdurci anche qui, con l’occhio curioso che lo esplora attraverso le finestre, nel mistero di un luogo, che dovremmo ignorare, così come Gavrilo ignorava il rifugio della sua bella e inafferrabile vedova. Questo appartamento della “Granduchessa”, raccontato solo attraverso un gioco di sapienti reticenze nonché di alcuni allusivi e discretissimi particolari dell’ambientazione, rimarrà – con la farsetta dei camerieri rispecchiante la commedia dei padroni – rimarrà per i fedeli del Lubitsch più celebre il vero “lato Lubitsch” di Angelo. Il maestro dei sottintesi maliziosi ed eleganti delle situazioni indicate e risolte col più felice e fulmineo degli epigrammi, ha certo lasciato in questi dettagli e in questa cornice del film la sua firma meglio autenticabile. Mentre nel resto dell’opera sembra essersi voluto

ritrovare, assottigliandosi in un’arte più scarna, quasi più dimessa. Certo Angelo presenta dei pericoli: non tanto per il suo autore, quanto per la curiosa famiglia dei cineasti. Fare del Lubitsch è sempre stata la grande aspirazione di quanti tentavano il genere leggero e disinvolto. Naturalmente i poveretti ricascavano subito sul set, ad ali mozze. Con questo nuovo Lubitsch in apparenza più semplice e meno ingegnoso, la tentazione si invelenisce per quegli autocandidati alla grazia. E, quel ch’è peggio, sarà più difficile dimostrar loro che ancora una volta avranno fatto fiasco.

Le perle della corona di Sacha Guitry Il vecchio andantino accomodante del “tutto è bene quel che finisce bene” può diventare abbastanza valevole nel caso dei gusti e dei generi più o meno artistici. Tutti i gusti e tutti i generi si dimostrano in qualche modo accettabili, quando siano portati ad una classe superiore: perfino il genere spiritoso, allorché arrivi al livello Guitry. L’impareggiabile Sacha ha infatti il dono di scancellare e sciogliere e far dimenticare in un piglio volubilmente fantasioso tutte o quasi tutte le tare d’un amore ed abito della facezia troppo esclusivo ed oltranzista. Sicuro di poter contare sulla connivenza di un pubblico borghese, che nel cogliere a volo una celia sottile o un’allusione rapida crede trovare un lusinghiero controllo della propria intelligenza, Guitry lavora in grande, con materiali quasi sempre nuovi e di prima scelta, si muove in questo lavoro con una vitalità incessante pur senza perdere la linea, sicché finisce col soddisfare anche ad esigenze un po’ più severe. Intrepido giocatore di parole, par quasi mettere anche la propria regola d’arte sotto il segno d’un tipico gioco di parole della sua lingua, dove il vocabolo spirituel val tanto “spiritoso” quanto “spirituale”. Ma sono anche stati i francesi ad inventare il proverbio: diseur de bons mots, mauvais caractère. Non si giurerebbe che Guitry vada del tutto immune dalla taccia: ha soltanto, la buona grazia di nascondere quasi sempre il mauvais caractère dietro l’abbondanza felice dei bons mots. Lungi da noi ogni sinistra intenzione di un elogio della musoneria. Ci venga soltanto riconosciuto che lo spiritoso professionale non bada a spese pur di arrivare a piazzare la propria battuta. Che è cinicamente disposto a passar sul cadavere della coerenza e del rigore formale – aspetti, tutto sommato, della integrità di carattere – se appena appena sia in gioco quella ch’egli chiama la “risata certa”. Nella categoria autori, lo spiritoso professionale è quello che lavora a più esosa tariffa: ti fa pagare il sorriso o l’attimo di ilarità con una inenarrabile catena di rinunzie alla logica, al buon senso e a quelle supreme leggi dell’arte che sono la convenienza e la proporzione. Guitry non rientra nel tipo dello spiritoso professionale, per il solo fatto che l’eccellenza e l’esemplarità di un tipo rientra sempre male nel tipo stesso. Tutti sanno però che quando si mise a fare i suoi primi film egli cominciò subito coll’ammazzare il cinematografo. Davanti alle Perle della corona, storia romanzata di “sette perle fine”, di cui quattro si sono fissate sulla sommità della corona britannica e le altre tre hanno subìto più varia ed avventurosa sorte, quasi tutti hanno conchiuso che il simpatico figliuol prodigo era tornato a casa. E che insomma aveva accettato anche lui le leggi del cinema, prevalentemente inteso come narrazione visiva. Anche qui è questione di intendersi: una narrazione visiva, come tutte le altre narrazioni di questo mondo, deve trovare le forze di propulsione ed i motivi di sviluppo nel proprio nucleo e non già fuori di sé. Invece Le perle della corona procedono come una serie di illustrazioni ad un amabile monologo di Sacha Guitry. Le scene cambiano, le immagini si susseguono solo quando ed in quanto a Guitry piaccia di spostarsi o gli venga la fantasia di mutar argomento. Cinema, dunque, senza autonomia. Ed è vecchia storia che quando ad una espressione si toglie l’autonomia, la capacità di generarsi da sola il proprio ritmo fantastico, si strozza in lei ogni possibilità di diventare arte. Qui, in questo film, il fenomeno si verifica in maniera vistosa, singolare ed interessante. Costretta a fare da ancella ad un monologo, l’immagine se ne vendica con una sorta di rassegnazione passiva, e veste ostentatamente i panni dell’ancella, si fa dimessa e rozza.

Il più saliente carattere, diciamo così, stilistico del film è proprio nello squilibrio, nel salto di tono e di qualità tra scena e colonna sonora, tra il visivo ed il parlato. Quanto più questo si raffina, fiorisce di fluide e garbate eleganze, crea e risolve ingegnosi e spiritosi rapporti, tanto più quello si appiattisce, accetta le determinazioni più ovvie ed elementari, rinuncia ad ogni potere di significare od aggiungere qualche cosa in proprio. La grandiosa “distribuzione” con cui Guitry ha immaginato di rialzare il prestigio dei suoi quadri involontariamente arieggianti alla imagerie popolare; quella specie di Congresso di Vienna di tutti i monarchi della scena europea, non fa che accentuare lo sbilancio. L’assenza di un’aura cinematografica, l’abolizione di ogni cadenza temporale e spaziale che riorganizzi la frammentarietà degli episodi, trasforma gli ambienti e gli sfondi su cui appaiono e sfilano quegli attori in altrettanti provini maliziosi, aneddotici e perfino un po’ pettegoli. Chi si compiace di portar vasi a Samo aggiunga pure che Le perle della corona recano un nuovo e prezioso contributo alla serie dei detti memorabili di Sacha Guitry.

Il principe e il povero di William Keigley Con la stessa obiettività che abbiamo messa in passato nell’ammirare, forse è venuto il momento di confessare che il più recente cinema americano sta dandoci qualche dispiacere, nel senso soprattutto che la sua bravura non sempre è compensata dal suo merito. Da un pezzo, sotto la superficie ricca, florida e piacente dei film di Hollywood si era intraveduto il modulo; ma da qualche tempo in qua esso modulo affiora, denunzia il meccanismo e lo schema. Se ne riceve un tal quale malessere, come ad indovinare lo scheletro sotto la carne viva. Volentieri si accettava una convenzione (ogni ciclo di ferace produttività artistica si appoggia ad una convenzione), meno volentieri si accetta d’essere messi di fronte ad una radioscopia. Alla fine del più celebre forse, del più importante certo, tra i suoi romanzi, Le avventure di Tom Sawyer, Mark Twain concludeva che il libro doveva terminare lì, affinché la storia di un ragazzo non diventasse la storia di un uomo. Anche a Il principe e il povero egli avrebbe potuto apporre la stessa conclusione: storia di ragazzi questa pure, che non può né deve diventare storia di uomini, nemmeno nelle forme indirette ed allusive dell’apologo, per quanto concerna un grande ed un piccolo re di corona (Enrico VIII e suo figlio) e sfiori gravi questioni dinastiche e scopra i retroscena di una Corte, così proverbialmente adatti a svelare il gioco delle umane passioni: interessi e disinteressi, nequizie e lealtà. Dal canto loro, i produttori cinematografici che dal romanzo hanno voluto ricavare un film, non che una storia di uomini, hanno anche impedito che diventasse una storia per uomini. Si ripete fino alla noia che la grande cinematografia nasce dalla grandezza e copiosità dei mezzi. Sarebbe difficile non sottoscrivere a quest’ovvia verità, per quanto il caso de Il principe e il povero paia fatto apposta per darle una parziale smentita. Appunto la ricchezza dei mezzi, la possibilità di tutto realizzare, si direbbe abbiano impedito questa volta di seguire con coerenza una direzione univoca, di raggiungere l’unità spirituale e narrativa: in una parola, ripetiamo, di comporre una storia per uomini. Ugualmente esperti ed attrezzati a raggiungere le facili ed abbondanti emozioni del melodramma, le meraviglie della fiaba e le grandiosità operettistiche di una spettacolosa parodia, i produttori hanno oscillato tra tutti questi indirizzi, seguendo l’uno o l’altro di mano in mano se ne offrisse il destro. Può inquietare precisamente il fatto che da tanta e sì palese incertezza spirituale sia venuto fuori un film così levigato, un film che sembra tanto più offrire le caratteristiche esteriori dell’unità, quanto più difetta di quelle interne. Il prodotto sofistica l’opera, la bontà della fabbricazione mette a tacere le esigenze della creazione. Anzi, in un senso puramente materiale ed esecutivo Il principe e il povero potrebbe addirittura considerarsi un capolavoro: capolavoro d’una regia intesa come officina di illusioni spettacolari, e divenuta “grande maniera” sui precedenti esempi di un grande stile. È l’arte di tener sospesa oltre il normale, come nella più acrobatica delle cadenze

concertistiche, l’aspettazione del lieto fine, generata fin dalle prime battute sulla fiducia di un personaggio simpatico, quale Errol Flynn od il piccolo Mauch che fa la parte del Principe. L’arte di farci palpitare fino all’ultimo sulla sorte dell’altro piccolo Mauch che fa la parte del Povero e che dovrebbe in qualche modo scontare l’involontario e non abbastanza chiarito errore d’essere stato scambiato per il Principe. L’arte di render subito propizia al più inerte e meno avventuroso degli spettatori odierni la figura di un disinteressato avventuriero, probabilmente assai lontana dai gusti e dagli ideali dei pubblici “democratici”. L’arte di ancorare il racconto a dettagli quotidiani, prosastici, subito condivisi: come quello del paladino che non può più tener per terra i piedi indoloriti dalla stanchezza, allorché il capriccio del piccolo principe gli impone di serbar la posizione eretta, secondo il cerimoniale comanda. Con simili arti tutta la letteratura narrativa e drammatica può diventar cinematografo, senza però suggerire al cinematografo nulla di nuovo. E allora ci si domanda il perché di queste traduzioni passive, e più o meno letterali.

La buona terra di Luise Rainer Sarebbe inutile essere vissuti tanti anni in mezzo alla letteratura per non avere imparato che i grandi successi letterari si esprimono in una frazione avente per numeratore la gente che parla del libro e per denominatore quella che lo ha letto. La frazione, cioè il successo, cresce col crescere del numeratore, secondo l’aritmetica insegna, ma ahimè anche col diminuire del denominatore. In tal senso il cinema d’oggi, più che mai onnivoro e famelicamente pronto a buttarsi su ogni e qualsiasi romanzo che abbia qualche fortuna, è il maggiore alleato del successo librario: poiché surroga la lettura, e accresce smisuratamente il numero delle persone in grado di parlare d’un libro. Numeratore ingigantito e magari, sia detto senz’ombra di pessimismo, denominatore dimagrito, o con tendenza a dimagrire. A nome dei confratelli letterari a grande tiratura siamo grati al cinema. Ma, cinematograficamente parlando, c’è da impensierirsi. Quanto più brava si fa la decima musa nel riferire i messaggi narrativi od epici delle sue più anziane sorelle, tanto più il cinema rischia di dimenticare se stesso e le sue proprie leggi, per ridursi ad una funzione puramente illustrativa. E sempre più difficilmente si difende dalla tentazione di diventar una serie di vignette in movimento, asservite all’obbligo di riprodurre colla maggior fedeltà la vicenda e i personaggi del tale o talaltro romanzo. Per il cinema muto – intendiamo quello che si rispettava e ricorreva con parsimonia al sistema delle didascalie – il pericolo era assai minore. Bene o male, gli toccava di inventare delle immagini visive che traducessero quelle letterarie. Tra il linguaggio del film e quello del libro non c’era nulla di comune. Ma il parlato, invece, ha, in comune col libro, proprio la parola. Sicché basterà in molti casi, o potrà parer che basti, assumere le descrizioni del libro come precise indicazioni di ambiente: e, una volta realizzato quell’ambiente, far recitare dai personaggi i dialoghi scritti dal romanziere. In sostanza, un romanzo accortamente diviso in quadri può essere quasi considerato come una sceneggiatura bell’e fatta. Di suo, di specifico, il cinema non avrà da aggiungere che gli accorgimenti tecnici per potenziare al massimo la resa delle singole scene: dall’angolazione ai movimenti di macchina, dalla scelta dei piani a quella delle luci e degli obbiettivi. Ma, così intesa, la tecnica è proprio quella cosa che, quanto più duttile e scaltra, più insidia ed uccide lo spirito, abolendo quello sforzo, quella ricerca di modi autonomi, quell’ostinato vigore, e quella meritoria felicità dell’ostacolo superato che costituiscono uno dei coefficienti spirituali dell’opera di un soggetto d’arte. Il problema, per il cinema che non nasca da un soggetto originale, è tutto lì: rendere originale, render come nuovo il soggetto già noto, già vivo d’una sua preesistente vita. Rituffare in una sorta di Regione delle Madri l’invenzione ed il movimento di un romanzo, per rievocare, ingenua e nativa, quell’invenzione divenuta movimento cinematografico.

Non ci pare sia questo il requisito principale del film che il regista Sidney Franklin, con l’aiuto di sceneggiatori indubbiamente espertissimi, ha cavato dalla Buona terra di Pearl S. Buck. Intendiamoci: finché la durata epica del romanzo, della cosiddetta “saga” di Wang Lung e di suo padre e della sua sposa e dei suoi figli, si scandisce su tali e così categorici ritmi, che al racconto cinematografico è sufficiente secondarli per trovare un proprio ritmo ed una propria durata, il problema di una maggiore o minore autonomia del cinema dall’illustrazione non sorge neppure. La fortuna ha messo in mano dei produttori un romanzo, che realmente era già una sceneggiatura: bastava sentire il tempo, sentirne l’ispirazione, accusare un po’ più od un po’ meno certe immagini, rendere un po’ più esplicite certe situazioni, traducendole nei più sicuri poncifs della cinematografia (vedi, per esempio, il primo colloquio notturno tra Wang Lung e la sua sposa), e tutto era risolto. Né si può, ai realizzatori del film, fare il torto di crederli privi di quel necessario sentimento. In questo senso, tutto va a meraviglia per i primi, mettiamo, mille metri. Fino alla sequenza della carestia, La buona terra è, tra quelli pervenutici a tutt’oggi, uno dei migliori lavori che l’America abbia creato nella scorsa stagione. Ma già in quella sequenza la faccenda incomincia a diventare meno liscia. La durata del romanzo qui cessa di lasciarsi immedesimare senza sforzo in una durata cinematografica. Il romanzo può trasmettere e fare scontare il peso di una situazione d’angoscia proprio col peso della pagina, dell’episodio che ricade sull’episodio, senza smuovere né rinnovare la situazione. La poesia, la liberazione lirica sgorgano dalla bellezza della parola che diventa figura, che diventa fatto, che crea l’equivalente artistico di quel peso. (Non discutiamo se questo sia precisamente il caso del romanzo di Pearl Buck). Ma il cinema lavora già su figure concrete e piene di corpo, su fatti: troppo facile gli riesce di accumularli per dare un’impressione di angoscia e di soffocamento. Suo obbligo è invece di trovar l’immagine sintetica: che già sia creativa appunto perché diventa pregnante, perché basta da sola a suggerire tutto il resto. Un’immagine del genere poteva essere quella del bove sitibondo che, schiacciato contro la terra arida e screpolata in un’angolazione semplice quanto potente, cerca qualche zolla umida. Ai realizzatori della Buona terra non è bastato l’impegno o la buona volontà od il gusto di esprimersi con alcune di queste immagini essenziali: si sono lasciati imporre dal romanzo, ne sono diventati gli illustratori. Potevano comunque giustificare il loro tentativo con il proposito di una fedeltà quasi devota alla poesia originaria del romanzo. Ma anche su questo punto si sono smentiti, non appena è parso loro che il racconto aprisse qualche possibilità di partir per la tangente dei soliti partiti spettacolari. E sono venute fuori le scene della rivoluzione, quelle della ricchezza, l’immancabile tabarin con le canzonette e le danze e la donnina fatale. Naturalmente non si vogliono diminuire i meriti dell’episodio delle cavallette, né quelli di alcune trovate di sceneggiatura (il padre che, nell’ora della lotta, accende la torcia al figlio dianzi maledetto), né quelli d’uno dei più formidabili successi fotografici di Freund. Lo spirito, buono o vizioso, di un lavoro si riflette in tutte le sue parti. Chi volesse controllare il vero carattere di questa Buona terra non avrebbe che da riferirsi all’interpretazione di Paul Muni. In lui avevamo riconosciuto quasi sempre, e soprattutto nel Pasteur, il grande attore nel senso dell’arte. Anche qui ritroviamo il grande attore: ma prevalentemente nel senso del mestiere. Il gusto dell’illustrazione stinge anche su di lui: più ancora che impersonare un carattere ed una figura, egli li illustra. Quella figura è già data, è un modello da riprodurre. Momento per momento; l’attore non fa che rendere nel modo migliore, in un modo quale forse nessun altro avrebbe saputo, ciò che un lettore del romanzo si era più o meno confusamente immaginato: volto e gesti e accenti del protagonista nell’insieme della storia e nei singoli episodi. Come un ottimo illustratore, che prendesse la Divina Commedia o il Furioso e, con segno impareggiabile, imprigionasse per un attimo la fantasia di Dante o dell’Ariosto in una veduta delle colombe dal desìo chiamate o della fuga di Angelica.

Vera creatrice, in questo film che tentenna, sia pur superiormente, tra la formula illustrativa e quella spettacolare, non rimane che Luise Rainer. S’intende che non è poco: anzi, è più che molto. Se il sottoporre una creazione d’arte al dinamometro delle emozioni ch’è capace di procurarci, non fosse una prova delle più dubbie, conterebbe già parecchio il fatto che basta alla Rainer di comparire in primo piano per far salire alla gola un nodo di tenerezza. La grazia umile e rassegnata, la dolcezza mite e dolente con cui ella si sottopone alla miseria della sua truccatura e del suo costume sono di per sé solo un modo di entrare attivamente, vivamente nel personaggio: e non più da interprete, ma da creatrice. In tutt’altra gamma; ma dalla Duse in poi non avevamo più conosciuto una così continua incorruttibile ed alta trasmissione d’anima, una così irresistibile forza di emanazione spirituale, una persuasività così autorevole insieme e struggente. Anche dove può parere che le attitudini della Rainer si apparentino ad alcune celebri figurazioni della più grande scultura religiosa, si metterebbe la mano sul fuoco che i temi d’ispirazione di quegli antichi artisti sono spontaneamente rinati nell’animo dell’attrice. Appunto perché consentiamo alla giusta polemica che un intelligentissimo scrittore d’oggi va conducendo contro ogni forma di “dolorismo” in arte, ci appelliamo a questo prodigio della Rainer che esalta il dolore nell’espressione scenica e plastica e figurativa. E non ne fa uno dei tanti e volubili aspetti dell’estetismo, bensì una forma di umana grandezza.

Il demone del gioco di Fëdor Ozep Non è il caso di rimettere in discussione il talento di Ozep che, tra i registi operanti oggi in Europa, è senza dubbio uno dei più maturi e attendibili. Ma piacere a Dio e al diavolo è impresa talmente disperata, che neppure il talento di Ozep basta a tenervi testa. Come dimostra con palmare evidenza questo tentativo di portare sullo schermo La dama di picche, famosissima e fortunatissima novella di Aleksandr Puškin. Dio e il diavolo, nella nostra antitesi, sarebbero il grosso pubblico e gli intellettuali del cinema, senza decidere beninteso a quale dei due spettino i cieli ed a quale gli abissi. (Probabile se li disputino a vicenda con esito, a volta a volta, alterno). Chi sia vissuto in questi anni nel cosiddetto “mondo” cinematografico sa come l’occhio dei produttori non abbia mai perso di vista La dama di picche. L’annosa e terribile signora, che in giovinezza aveva innamorato di sé perfino Richelieu; che decrepita e sulla soglia della tomba aveva fatto impazzire, col segreto delle tre carte vincenti, il povero Hermann, tenente del Genio nell’esercito dello Zar, si era serbata per l’oltretomba una ultima inattesa risorsa: quella di eccitare le smanie dei produttori cinematografici in cerca di titoli e di vicende per le loro “combinazioni” più o meno internazionali. L’avessero detto al nobile, sdegnoso e altero Puškin che anche questo era nel fato della sua “Venere moscovita”! Letterariamente, La dama di picche costituisce un miracolo di equilibrio tra gli ingredienti di risentito sapore e lo stile di formidabile, asciuttissima eleganza. Una salsa per stomachi forti, ma cucinata per i piatti più difficili, diremmo, se non sapessimo che anche quegli ingredienti giungevano a Puškin da una qualificatissima tradizione letteraria. Truculenza, magia, mistero e “tinte forti” risalivano a quella vena byroniana, che all’autore negli anni giovanili era servita come iniziazione poetica. Comunque, ci vuol poco a scommettere che i normali produttori cinematografici erano attirati verso La dama di picche proprio da quei forti ingredienti, in cui vedevano un sicuro appello al gusto popolare. Ozep, invece, ed i suoi collaboratori (Bernard Zimmer, per esempio, che ha scritto i dialoghi del film) erano dei “colti”: diciamo pure dei letterati, che sentivano molto bene la più vera bellezza del racconto originale, portato avanti per tocchi e scorci tutti essenziali, raccolto e serrato come una molla. E se l’equivoco dei produttori poteva essere quello di scindere gli ingredienti dallo stile, servendo i primi nella loro forma più grossa e platealmente spettacolare, l’errore di questi realizzatori è stato quello di voler salvare gli ingredienti e lo stile, anziché gli ingredienti dentro lo

stile. Di dare ascolto con un orecchio all’opportunismo cinematografico e con l’altro alla loro sensibilità di artisti. (Quello che chiamiamo opportunismo cinematografico ha senza dubbio i suoi diritti; ma allora bisogna obbedirgli con franchezza, fuor dei denti: vedi alcune delle più famose riuscite americane). Ne è uscita una cosa contaminata, in continuo peccato di indecisione. Proprio il contrario di quel che ci voleva per riferire cinematograficamente la stringatissima novella. Così come stanno le cose, si intravedono giustapposti in questo Demone del gioco tre tentativi: 1) rifare con elementare candore la proverbiale Russia del cinema: quella dei berretti di pelo, dei traktir, delle troike, dei sarmatici climi di sgomento e delirio e isteria; 2) distendere la novella in un grosso e patetico melodramma, coronato naturalmente da un lieto fine; 3) trasporre lo stile di Puškin in uno stile cinematografico. Si aggiunga che per il proposito numero 3, è mancata la chiaroveggenza di adottare per lo meno uno stile cinematografico adeguato. Perché il carattere della narrazione puskiniana è proprio dato dalla facoltà di scegliere sempre il dettaglio insostituibile e di far centro con un colpo solo. Mentre lo stile espressionistico usato da Ozep si caratterizza nella sospensione diffusa, alonare del tocco, che non vuole e non deve mai far centro. Senza dire che, più che di uno stile, si tratta ormai di una sorta di gergo cinematografico, logorato da non freschissimi esempi russo-tedeschi. Valga come tipo la sequenza della pazzia: quella che, col vecchio frasario, si vorrebbe chiamare: la troika della follia. In sostanza, se ci si perdona il giuoco, vorremmo dire che a questo Demone del gioco, quel ch’è mancato è proprio il demone.

Labbra sognanti di Elisabeth Bergner Qualche giorno fa, un diligente osservatore si domandava perché mai un così malaugurato soggetto come Mélo di Henry Bernstein abbia provocato, da parte del cinematografo, recidive tanto numerose. Saggia domanda, che probabilmente rimarrà inevasa, anche perché i produttori che di volta in volta son tornati alla carica col dramma bernsteiniano, sarebbero forse pronti a rispondere in dieci diversi modi, di cui nessuno soddisfacente. Questa per intanto è la volta – la seconda, se non andiamo errati – che il film viene rifatto a maggior gloria della Bergner. E siamo nel caso tipico dell’opera cinematografica determinata dall’interprete. Determinata dal punto di vista “produzione”, prima che creata dal punto di vista “arte”. Si sa che Mélo è stato uno dei cavalli di battaglia di quell’attrice grandissima che è la Bergner, dotata se altre mai della facoltà di farsi attraversare come una fiala iridescente e trasparente da tutte quelle piccole nubecole vaporose che sono i sentimenti della protagonista: sottili, in apparenza, e complicati solo perché emananti da una psicologia ambiziosa e senza precisi rapporti con la vicenda abbastanza povera, lineare ed abusata. Ebbene, i produttori pare si siano prefissi, come unico scopo, di fotografare quella interpretazione celebre, per essere pronti a fornirla a richiesta di chiunque volesse vederla o rivederla. La mentalità con cui è stato fatto questo film è paragonabile a quella con cui viene inciso il disco di un famoso tenore: l’arte deve mettercela tutta il cantante; a chi incide non corre che l’obbligo della più alta fedeltà di riproduzione. Effettivamente ne è uscito un documento di carattere storico e commemorativo, molto più che spettacolare: da riporsi in una filmoteca per rivederlo ogni tanto, a ricordo e testimonianza di quella che sarà stata l’arte e la maniera di una delle più elette attrici di questi nostri tempi. Proprio come in una discoteca si ripongono i dischi di un Tamagno o di un Caruso. E così avessimo qualche cosa di paragonabile, mettiamo, per la Duse o per Sarah Bernhardt! Paul Czinner, che è un regista sul serio, si è per questa volta assoggettato ad un cosiffatto criterio con una obbedienza diligente e quasi passiva. Ha accettato di girare una sceneggiatura, che suppergiù risolve tutto il racconto e tutto il dramma in una serie di immani – immani per le proporzioni come per la lunghezza – tableaux della testa di Elisabeth Bergner. Su quel volto che un

obbiettivo di grandissimo millimetraggio avvicina ed analizza come un microscopio, lasciando astratto e sfocato lo sfondo, dovrebbe passare tutto ciò che il normale cinematografo, il cinematografo cinematografico, ci ha avvezzati a veder tradotto in immagini di movimento e di spazio, in rapporti visibili e concreti tra il personaggio e l’ambiente. Si direbbe che la Bergner ci racconti in prima persona la storia di Mélo. E il caratteristico del personaggio cinematografico (come, d’altronde, del personaggio teatrale) era invece fino ad oggi quello di essere raccontato. L’impressione che se ne riceve è delle più curiose: quasi che l’attrice, per uno sdoppiamento che non è senza prestigio, narri la propria interpretazione, anziché rappresentare la propria arte. E per chi, come noi, non ha visto che l’edizione italiana, l’impressione si accentua, giacché il doppiato, forse per la sua stessa diligenza e per un troppo ostinato tentativo di fedeltà all’accento ed alla voce dell’originale, riesce stranamente fuori di ritmo e dà il senso che la Bergner rincorra di continuo parole diverse da lei, e che non la riguardano. Val la pena di notare uno dei brani più prettamente cinematografici di questo film, anche perché rappresenta una felice conferma della tendenza europea a sfruttare a fini direttamente espressivi i tecnicismi della meccanica di ripresa (come nel Bandito della Casbah il trasparente, e nel Carnet di ballo il rallentatore). Qui la scena del primo incontro fra la donna ed il grande violinista che le sarà fatale, è resa mediante un’inquadratura che prende di spalle, enorme, un dettaglio del violinista in atto di suonare sul palcoscenico e, contro questo dettaglio, immediatamente, poco più che a mezzo campo, un settore della platea intenta. Il rapporto, la corrente sentimentale che si stabilisce tra il violinista e la platea (e in particolare fra lui e la donna che ci interessa) è adombrato da un gioco dell’obbiettivo, che alternativamente mette a fuoco o il primo piano o lo sfondo, sfocando l’altro. Qualche cosa si sente che deve prodursi da quello scambio, da quella reciprocità, così insistiti e misteriosi: è il fato del dramma che si annunzia, anche se poi il dramma non è in grado di mantenere la fatalità promessa da quell’annunzio. Un vero e proprio gag di obiettivo, e dei più ingegnosi. E val pure la pena, per la cronaca, di ricordare una battuta esplosa dal pubblico qui a Roma, la sera della prima di questo film. Si era giunti alla scena in cui il marito della protagonista, passabilmente tradito dalla consorte, appare sul proprio letto, superstite da una grave operazione chirurgica, a cui si è dovuto improvvisamente sottoporre. Quale maligno genio ha consigliato ai realizzatori del film di render più evidente il fatto, presentandoci l’infelice signore, afflitto da una vistosa ed abbondante fasciatura intorno al capo? Sia come si vuole: ma, incontenibile, dalla platea partì la voce: “Si è fatto amputare le corna!”. Non diciamo si tratti di un prodigio di finezza critica, ma la battuta è degna di rimanere nella storia delle beccate celebri.

La rivincita di Clem di Wallace Beery Con parecchi altri esempi di questa stagione (Fuoco liquido, poniamo, dove un Franchot Tone è ridotto a proporzioni assai minori di quelle che si merita), La rivincita di Clem, anche se si batte con più onore, contribuisce a far supporre che Hollywood sia un po’ sulla strada di vendere in moneta spicciola alcuni tra i suoi divi più quotati. Il fatto è da imputarsi probabilmente a quella “crisi dei soggetti”, che paralizza o quanto meno impaccia quasi tutto il mondo cinematografico, ma in America, dopo la ricca fioritura degli ultimi anni, prende aspetti molto particolari. Se tutti gli schemi sono fallibili, e tutte le idee generali pericolose, è però abbastanza vero che l’America ha potuto creare una grande cinematografia, in quanto ha trovato nel cinema la forma originale di un contenuto originale: i grandi miti pionieri e puritani (western e film d’avventura), gli ingenui stupori di un mondo giovane di fronte agli automatismi della vita (tworeels e vari cicli comici), trasposizione delle favole borghesi della vecchia Europa rivedute con gli occhi d’oltreoceano (riduzioni per lo schermo dei drammi e romanzi europei). La tensione e l’intima necessità del contenuto creavano, come sempre in arte, la solidità e l’organicità di quella che si chiama la forma: dai grandi

sceneggiatori ai grandi registi, dai grandi divi alle grandi strutture industriali tutto è stato funzione e conseguenza dell’aver qualche cosa da dire. Ma, esplorati ampiamente quei mondi che si era assunti in proprio, l’urgenza del contenuto si è venuta via via distendendo. All’epoca della grande fantasia pare che stia ormai subentrando quella del grande mestiere. Il cinema, ritirandosi, ha lasciato l’involucro. Per esempio, i divi e la maniera di utilizzarli con una sceneggiatura quanto mai abile e fertile di trovate, al servizio di una regia di precisa ed elegante sveltezza. Prodromi di questa fase sono state le commedie moltiplicatesi sui modelli di Lubitsch e di Capra. Oggi è dato constatare come sceneggiatura e interpretazione non riescano a salvar molto, soprattutto per difetto di stimolazione, quando poco ci sia da salvare. In Fuoco liquido, mettiamo, si vede chiaro lo sforzo di utilizzare ancora le strutture e i “quadri” produttivi che il cader della legge sulla proibizione ha lasciato disoccupati. Esauriti anche i G-men in tutte le loro varietà, si fa il film retrospettivo di qualche anno. Ma le vicende, ma le posizioni dei personaggi non palpitano più, non dicono più abbastanza: e succederà che a Franchot Tone si debba dare una parte indecisa, vuota di carattere, in cui è difficile ritrovare anche quello ch’era uno dei migliori requisiti della drammaturgia americana: la coerenza ed interezza della figura. Certo ne La rivincita di Clem non si può dire che la figura di Wallace Beery scapiti di coerenza o di interezza. Ma la “crisi dei soggetti” si rivela nel fatto che i produttori, tentando di imborghesire il popolare e popolaresco eroe, non hanno saputo trovargli una vicenda adeguata. Si sono voluti replicare i colori conosciuti e sovranamente effettistici di Beery, nonché il contrasto di tali colori, immergendoli però in una tonalità nuova e, per così dire, più semplice e quotidiana. Naturalmente si è ridisegnata la consueta redenzione da una brutalità caparbia e cieca ad un eroismo rude, massiccio e bonario, conseguita – come già nel Circo – attraverso l’amor paterno, qui dilatato ad amor familiare. Senonché, a far partire Beery da un clima e da un ambiente rozzo e torbido si aveva un simbolo più immediato della sua brutalità iniziale, laddove l’ambiente provinciale, di famiglia borghese e casalingo, costringe a parecchie forzature, quando si vuol riavere un Beery adeguatamente annegato nel buio della sua corpulenza compatta, ottusa, in apparenza, ed elementare. L’involucro del buon film si lascia scorgere non solo nella fattura, ma nell’improvvisa proprietà e freschezza di alcuni dei gags, con cui si cerca di tener su il morale dello spettatore: quello, per esempio, della morte del pappagallo, narrato da una spassosissima Una Merkel in veste di serva e complice di sbornie dell’incorreggibile Beery-Clem. E il finale, con la corsa dei tre diversi veicoli ad impedire la falsa partenza del protagonista, è di un gusto così franco e divertito, che lo fa parer nuovo, grazie anche ad un montaggio di svelta e frugale economia. Ci domandiamo invece il perché dei dialoghi di cinquanta o sessanta metri, in cui due personaggi costringono la nostra passività di spettatori a funzionar da testimone ad uno scambio, diciamo così, di idee, in cui sono riprodotte le solite repliche di repertorio o messe a partito le botte e risposte tenute in serbo negli schedari dei dialoghisti e sceneggiatori. Far del teatro, sta bene: ma occorre allora che il teatro sia teatro vero, nutrito di tutte le giustificazioni che siamo in diritto di richiedergli: sia cioè dramma o commedia o poesia. Se no, al cinematografo preferiamo vedere del cinematografo. La conclusione, ancora una volta, è questa: che il cinema ha bisogno ormai di nuovi miti. E che il serbatoio degli antichi miti rinnovantisi a traverso una tradizione di precisa cultura, nonché il crogiolo dei miti nuovi è, ancora una volta, l’Europa. E che probabilmente l’ora del vero cinematografo sta per tornare sul quadrante europeo.

Eravamo 7 sorelle di Aldo De Benedetti e Nunzio Malasomma La funzione crea l’organo: certe esigenze, o desideri, del pubblico più largo, pacifico e bonario finiscono col creare la formula di spettacolo più spensieratamente, più facilmente adatta a

soddisfarle. Quando la Cines di qualche anno fa stabilizzò, sia pur per breve tempo, una produzione continuativa, in grado di regolarsi sulle richieste del mercato e di rispondervi con una certa precisione, quel che prima raggiunse fu appunto il genere della commediola leggera, innocua e disoppilante, metà farsa e metà operetta con un pizzico di sentimento sulla coda. Il soggettista allora più attivo era Alessandro De Stefani, esperto uomo di teatro, che dal teatro appunto portava l’abilità di intricare le situazioni per poi districarle rapidamente e senza conseguenze. Ricordiamo, come il più riuscito prodotto di allora, su questa linea, il gradevole Paradiso, che qua e là, nelle intenzioni e nei risultati, rasentava anche i postulati di un gusto abbastanza raccomandabile. Oggi la produzione italiana, nella relativa convergenza dei suoi sforzi, ha raggiunto di nuovo quella continuità che il monopolio Cines per la sua stessa natura unitaria ed esclusiva spontaneamente assicurava. E con la continuità ha ritrovato il bisogno ed i mezzi di soddisfare al maggior numero possibile delle domande con l’offerta di una gamma di film, in cui i vari generi cinematografici siano rappresentati nel modo più esauriente. Così è rinato, con perfetto parallelismo, il tipo di commedia sopraddetto. E, anche questa volta, il soggettista in auge è un uomo di teatro dal provato talento comico, Aldo De Benedetti: uno che possiede, con più che discreta sicurezza, la ricetta di alcuni effetti di pronto smercio. Eravamo 7 sorelle, anche se rallentato da indugi e pesantezze ed errori di gusto che, per dirla alla francese, crepano gli occhi, è il “come volevasi dimostrare” della commedia amena, per gente di buona bocca. Tre attori di diverso temperamento, ma tutti e tre reputati come “assi” della comicità, Gandusio, Tofano e Besozzi, vi rinvengono, con generale soddisfazione, abbondante pascolo alla loro più tipica maniera. I noleggiatori, che oggi hanno tanta parte delle formazioni produttive, trovano pane per i loro denti nella certezza di una programmazione stabile e tranquilla. Gli spettatori ridono e si divertono puntualmente ad un quaranta per cento almeno delle battute e situazioni messe lì per farli ridere e divertire. Saremmo degli abominevoli Padri Zappata se dopo di avere, da mattino a sera, predicato ai nostri bambini che non bisogna smontare i giocattoli, ci mettessimo noi per i primi a voler guardare come sono fatti dentro. Eravamo 7 sorelle è un giocattolo che, per circa un’ora e mezza, raggiunge sufficientemente il suo scopo: vorremmo sottoporlo a calcoli di dinamica e di resistenza del materiale? Ci limiteremo ad osservare che ci sono due specie di comico: un comico inventivo ed uno deduttivo. Le grandi e ormai proverbiali commedie cinematografiche americane appartenevano al primo tipo; queste nostre (e le loro fortunate primogenite e sorelle tedesche) al secondo. La formula sarebbe: dato un paradosso iniziale, trovarne tutte le conseguenze, possibilmente le più esasperate e sostenerle quanto più si può; finché occorra, se si vuol vedere una soluzione, decapitarle di prepotenza. Il comico inventivo è lirismo, è fantasia; quello deduttivo è pura, è meccanica immaginazione, il cui merito massimo consiste nella scaltrezza, una sorta di scaltrezza scacchistica. Tanto è vero che se, in qualche momento, nostalgia le prenda di mettere ali, le occorre di imprestarsele, e fa appello alla musica, sia pure ad una leziosa ed irresponsabile musica di canzonetta. Qui la sequenza più fantasiosa e “risolta” è appunto quella che narra la vita delle sedicenti sette figlie nella villa del conte Varani, mostrandone e legandone le piacevoli ore e gli aspetti piccanti e deliziosi attraverso una canzoncina. Registriamo la solida competenza di mestiere conseguita da Nunzio Malasomma nello sceneggiare e realizzare come regista questi lavori di genere medio e giocoso. A voler precisare, metteremo l’accento più sulla sua sveltezza tecnica che su quella di umore; nel senso che non sempre egli sa scegliere la via più agile e breve, e spesso si affeziona a particolari e spiegazioni che, taciuti o sorvolati, accrescerebbero intensità e brio e malizia alla commedia. Mentre invece riesce a riscattare la pigrizia dell’invenzione con movimenti speditivi di regia e di montaggio. Anche a costo di soggiacere alla ripetizione di certe scorciatoie tecniche e passaggi di inquadratura. (Non so, per esempio, quante volte in questo film è replicato il partito del personaggio che esce di spalle

per rientrare di fronte, e viceversa). Non già che si voglia fare, per carità, i pignoli delle pagliuzze, quando è ancor tempo di pensare alle travi.

Dolce inganno di Katharine Hepburn Fa meraviglia che questo film sia potuto incorrere in curiose riserve proprio qui in Italia, e proprio da parte della critica. Una tradizione gloriosa, ormai più che secolare, dovrebbe averci allenati a distinguere il “libretto” dalla “musica”, e a riconoscere come le melodie più ispirate e sincere possano nascere sulle parole più goffe, sulle situazioni più artefatte e, in apparenza, inette a comportarle. Si dirà che cinema e melodramma lirico sono due cose ben diverse. Il cinema è uno spettacolo, dove azione vuol dire tanto la vicenda quanto il gesto che esteriorizza la vicenda. Il gesto non ha facoltà di svincolarsi dalla vicenda, e partirsene per la tangente, come la musica faceva col libretto. Nella favola aggrottata e confusa del Trovatore, in quel pittoresco assurdo e di bassa lega, Verdi poteva benissimo appurare i momenti d’una passione incalzante e generosa per renderli veri, riscattando la cabaletta e mirando al cuore. Ma il cinema, almeno quello normale ed attualmente in corso, non usa permettersi questi superiori escamotages: evadere dal soggetto, sia pure poeticamente, vuol dir correre il rischio di farsi fraintendere, o quanto meno di cambiar sottomano il soggetto. La Hepburn ha invece osato di avventurarsi nel gioco disperatamente pericoloso. Ci è riuscita, anche se è stata incompresa da una parte della critica; anche se una parte del pubblico rimane perplesso e agnostico di fronte all’alta, nobile, patetica poesia in cui ella ha trasfigurato la piccola materia che le avevano messo tra le mani. Ci si perdoni il confronto; ma come certi insetti, che l’entomologia descrive tra i miracoli un po’ mostruosi della natura, istintivamente vanno a colpire gli organi vitali delle loro vittime, così la Hepburn ha centrato il dolente segreto umano che s’annidava nelle pieghe del frivolo e semplicistico soggetto, ha superato il cinismo di paccottiglia del paradosso narrativo (una donna è amata non per la sua buona e profonda verità, ma per i suoi pettegoli ed accivettati infingimenti) ed ha portato, per quanto la concerneva, la sterile commediola ad un dramma della propria statura. Con una soperchieria lecita a lei sola, e della quale non ci stancheremo di ripeter le lodi, ha reso vero un pretesto terribilmente falso. La Hepburn è più che un’attrice nel senso normale della parola: è una presenza lirica. Qualcuno faceva giustamente osservare che se domani la sapessimo autrice di un grande romanzo o di una bella poesia, non ce ne meraviglieremmo. Si tratta probabilmente di una illusione, di un miraggio: ma miraggio sintomatico, paragonabile a quello creato, supponiamo, da un Toscanini, allorché tramuta in suoni una partitura. Qual è, di fatto, la differenza tra Toscanini e un comune, anche ottimo, direttore d’orchestra? Che mentre quest’ultimo non cessa mai di apparire un depositario, magari autorizzato, della musica che ci trasmette, Toscanini diventa a volta a volta il responsabile diretto di quella musica, con una fedeltà ed autenticità di autore. Se gli altri riescono a consegnarci, più o meno integra, e tutt’al più accompagnata da un “modo di usarla”, la formula con cui un poeta, Beethoven o Verdi, ha interrogato il destino, Toscanini invece, come per virtù di una investitura privilegiata ed unica, diventa lui stesso l’eroe che scende ad interrogare il destino; riportandone, non già la formula, ma l’immediata rivelazione. Anche la Hepburn ha un dono consimile. Nell’incarnare un personaggio, ella non ci presenta soltanto una maschera umana o una sorte individuale da decifrare con la nostra partecipazione di spettatori. Ci fa toccare alcuni termini solenni e precisi, alcuni segni definitivi del Destino con la maiuscola. È andata lei personalmente, è andata lei per noi, così fragile e femminile e lieve, a parlare con la Sfinge. V’è andata con quel suo passo che pare ancorarla alla terra contro la tentazione e la possibilità continua del volo. E del dialogo ansioso ed oscuro, del dialogo ch’ella ha affrontato con la sola scorta del suo coraggio, facendosi una forza della propria vulnerabilità, ci riporta gli enigmi divenuti trasparenti attraverso la trasparenza profonda e inesauribile del suo volto; attraverso gli scatti repentini eppur melodiosi del

suo gestire; attraverso le sospensioni del suo parlare, obbedienti ad un ritmo interno e segreto, che trascende il disegno immediato della frase; attraverso le armoniche impulsive e i guizzi e le oscillazioni della voce. La Hepburn è una di quelle che vanno al di là. Dove? Bisognerebbe aver chiarito il mistero della poesia. È una di quelle che si sono voltate indietro, e tuttavia ritornano a noi, non si sono lasciate risucchiare dal gorgo. Oh, Euridice! Basti uno, per tutti i miracoli a cui ci fa assistere Dolce inganno. Dieci anni sono passati, da quando un crollo d’amore sembrava avere per sempre frustrata la vita della protagonista, allora così ridente di speranze, così dolcemente trepida di giovinezza appena dischiusa. Questo passare del tempo sulle vite umane, questo cieco e crudele frammettersi degli anni è uno dei più usuali espedienti di emozione e di lirismo. E il cinema l’ha copiosamente sfruttato a proposito ed a sproposito: pronta e comoda ricetta per i suoi surrogati e le sue pretese di poesia, fin da quando le didascalie tentavano di far la voce patetica ed ispirata, per cantare: “E X anni erano trascorsi…”. Anche Dolce inganno perpetra questo trapasso, e neppure con la debita serietà. La regia di Stevens non riesce a vincere un difetto di invenzione e di sceneggiatura: che dipinge il tempo con mano inopportunamente volubile e leziosa. Ma quella serietà ce la mette in compenso la Hepburn. Quando la rivediamo, dieci anni dopo, al ritorno dell’uomo che l’aveva lusingata e delusa, tutto, dalla veste alla persona scheletrita alla cuffietta da nonnina, potrebbe far pensare ad una facile e scipita caricatura della zitella precoce e predestinata. E invece, no. La Hepburn reinventa la poesia della rassegnazione mal rassegnata e peraltro decisa a non tradirsi. Ne fa un attributo della carne, umiliata dall’anima dolente più ancora che dal lavoro del tempo. Quando le vediamo insegnare, con mimica pudica e impacciata, il minuetto ai bimbi della sua scuola privata, soffriamo con lei l’irrisione di una condanna sproporzionata e ingiusta. Questa trasfigurazione della vicenda in lirismo avviene ad ogni attimo. E fa del Dolce inganno una scatola a sorpresa, da cui scattano prodigi, impreveduti forse agli stessi produttori che pure, nella scatola, avevano rinchiuso Katharine Hepburn.

Voglio vivere con Letizia di Camillo Mastrocinque “Sono sicuro che tra qualche anno, quando questo periodo di prova sarà finito, quando saranno svaniti gli ultimi fumi della Bengodi cinematografica, quando si lavorerà con più serietà, passeremo gli altri in tromba e saremo nelle primissime posizioni”. Queste fiducie, recentemente espresse da Vittorio Mussolini, non manifestano soltanto il necessario ottimismo di chi si accinge a costruire; rivelano una sollecita e ragionata osservazione dei sintomi che, per quanto ancora in germe, per quanto ancora parziali e frammentari, non potranno che finire col saldarsi e orientarsi organicamente, sprovincializzando il cinema italiano e portandolo su un piano mondiale. Constatiamo intanto che sempre più frequente, assunta quasi ad intercalare, circola tra i cineasti italiani la parola “film pulito”: e con la parola anche l’esigenza. Pulito, cioè capace di salvare con decoro un tono e uno stile, senza cafonerie, senza pigri rimedî, senza goffe pretenziosità. Le eccezioni, anche per il modo come il pubblico ha saputo difendersene e metterle subito in quarantena, confermano la regola. In altra occasione, a proposito dell’attuale e ben visibile crisi del cinema americano, notavamo che il residuo per cui oggi Hollywood riesce ancora a salvarsi ed a battere i mercati, è l’involucro del film ben fatto. Ebbene, oggi in Italia si manifestano i primi segni di maturità, creando e perfezionando un consimile involucro. (Sappiamo le obiezioni, perfino le accuse, che si possono muovere contro questo nostro modo di ragionare: vi risponderemo tra poche righe). Voglio vivere con Letizia è precisamente, è quasi esclusivamente un film di involucro. La vecchia commedia del conte Almaviva che si fa credere Lindoro per giungere alla sue bella, è appena modificata qui nel caso, non peregrino, di un ricchissimo giovanotto che si finge pittore squattrinato per esplorare il cuore della ragazza destinatagli in isposa. Frattanto manda in

avanscoperta un amico, munito del suo nome e di un buon gruzzolo dei suoi quattrini; il quale amico dovrebbe funzionare come paracadute, qualora l’esperimento desse risultati negativi. E nel contempo provvedere del necessario contrappunto comico, o addirittura elegantemente farsesco, la vicenda satirico-sentimentale. In questo ennesimo risvolto di una commedia secolare come l’Inutile precauzione, le precauzioni ce le ha messe tutte, e assai lodevolmente, la regia. Per un novanta per cento essa è buon senso e misura: procede con la studiata cautela di gesto di chi pensa a quel che fa. Piuttosto prendere l’accelerato, anche là dove sarebbe più normale saltare sul direttissimo; ma arrivare in stazione, e arrivarci in orario. Certe lentezze e indugi, soprattutto nel primo tempo, possono anche ascriversi a troppa diligenza e indulgenza del montaggio, che ha cercato di utilizzare il massimo possibile della pellicola girata; ma soprattutto dipendono dal modo guardingo e prudente di condurre le scene, sì da ottenerne tutta e sola la resa preveduta, senza pericolo di scarti né in più né in meno. Dipendono dalla pazienza di tener la scena sotto l’obbiettivo, fino all’assoluta certezza che non ne verranno fuori sviste od errori. Lo si sa fin dai tempi di Dante che il voler camminare con furia “l’onestate di ogni atto dismaga”: qui lo scopo di Mastrocinque è stato appunto di salvare l’onestà, le belle maniere. La discussione che si potrebbe fargli è se le “belle maniere”, le quali implicano anche il buon gusto, possano identificarsi col Gusto in senso assoluto. Diremmo che le “belle maniere” sono, o dovrebbero essere, un’abitudine quotidiana, mentre il Gusto è estro, invenzione, innovazione. Nei film di buona media, il regista deve rappresentare il luogo geometrico di incontro e di equilibrio tra le esigenze pratiche della produzione e quelle teorico-creative del progetto letterario (soggetto e sceneggiatura). Anche da questo punto di vista, Mastrocinque ha lavorato esemplarmente, e con esemplare fedeltà al proposito di creare il film di involucro. Dalla “produzione” ha ottenuto un gruppo di attori principali (Noris, Melnati, Cervi) che, messi in determinate situazioni e sottoposti a determinati sforzi, potessero fornire risultati già collaudati, realizzare effetti precisi e preventivamente al sicuro da ogni sorpresa (il meglio è nemico del bene). Per le parti minori si è assicurato interpreti veri, dalla Stagno Bellincioni alla Baghetti a Barnabò, che lo garantissero contro quelle zeppe e stonature, in cui incorrono i film di “assi” mal circondati. E si è procurato un operatore come Farkas, capace di mantenere per tutto il film una fotografia piena e sobria, senza preziosità ma senza cedimenti, senza estetismi ma senza sciatterie, unita, energica: tale insomma da dare al lavoro, anche nella vernice esterna, immediata autorevolezza. La sceneggiatura aveva da risolvere il problema di fornire consistenza ad un soggetto evanescente. Bisognava riempire, creare una narrazione e una struttura, dove c’era poco da narrare e meno da costruire. Il criterio è stato sempre lo stesso: dar vita e dignità ad un involucro. E sono stati messi a partito tutti i gags, tutte le trovate, magari tutti i “luoghi comuni” di repertorio, ma col criterio di mantenere un livello. Tra la prima e la seconda idea che potevano venire in mente per ogni singolo punto e passaggio, non ne è quasi mai stata cercata una terza, ma almeno è stata scelta la seconda. Un fondo piccante e più risentito affiora: è la satira nostalgica che la borghesia fa dei propri usi ed amori (la premiazione nel collegio di suore, il “mito” della signorina, la visita alla mostra di pittura). Affiora, ma non sfora. Che, in un film come questo, è anche un merito. Dimostra una volta di più come l’intervento di uomini di cultura raffini il cinematografo, specie quando le iniziative di quella cultura siano trattenute nelle misure suggerite da un esperto mestiere. Si dirà: sta bene l’involucro, ma perché partir dall’involucro, e non dal nucleo? Intanto non è ancora ben dimostrato che l’abito non finisca col fare il monaco. E poi nel cinema non deve né può riprodursi il caso toccato in Italia al romanzo, dove è sempre difettata l’opera di buona media, fatta bene in un senso normale. O capolavori, o niente; e intanto il pubblico, se non ha fame di capolavori, non sa che cosa leggere. Il pubblico del cinema vuol sapere sempre che cosa vedere. E d’altronde oggi in Italia ben venga l’involucro, ché per il nucleo non abbiamo paura.

Carnet di ballo di Julien Duvivier Per i duemilacinque o duemilaseicento metri (ché tanti ne sono sopravvissuti, dopo non gravi amputazioni, nella edizione italiana) di questo film ambizioso e felice, assistiamo, incatenati alla nostra sedia di spettatori, incatenati e tentati e spesso sedotti, ad un pericoloso confronto del cinema con i suoi limiti e le sue formule espressive. Giustamente a Carnet di ballo l’ultima Mostra veneziana ha assegnato il massimo premio: non si può che plaudire ad un riconoscimento dell’intelligenza, dell’iniziativa spirituale, della maturità culturale in lotta contro le pigre abitudini spettacolari e in implicita polemica contro il luogo comune, anche se fortunato. La riuscita apparente corrisponde ad un’intera riuscita reale? Ecco il problema critico. Il cinema americano (che possiamo sempre ancora prendere come un esempio ed un punto di arrivo) aveva largamente messo a contributo la letteratura, ma trattandola come un serbatoio di idee, come una miniera di fatti e di situazioni. Uccidendola, cioè, come letteratura; estraendone e mettendone a contributo tutto il residuo extraletterario o antiletterario. Prova ne sia che poi le rare volte che ci è ricascato, ha fatto della cattiva letteratura, della letteratura da bibliotechina circolante, con tutti i deteriori sentimentalismi annessi e connessi. Invece Duvivier, in concordanza coi più rappresentativi cineasti europei, e forse con mezzi di realizzazione maggiori e più vistosi che quasi tutti i suoi compagni, si impegna in un’altra direzione. Abbandona la letteratura come intermediaria, per assumerla come complice. Va lui direttamente ad ispirarsi negli stessi luoghi dove si ispirano i poeti e gli artisti della sua leva spirituale. Strappa il cinema alla civiltà di Broadway, cioè dello spettacolo, e lo riconquista, come linguaggio diretto ed oramai pienamente responsabile, alla civiltà delle grandi capitali europee, intesa come civiltà di poesia, o quanto meno di aspirazioni verso la poesia. Non è il primo a tentar la prova: è però il primo che giunga così immediatamente, così integralmente, al pubblico. Vi era giunto, sì, Chaplin, lavorando in solidarietà con alcune tra le più sintomatiche tendenze della poesia contemporanea. Ma il procedimento era forse meno diretto, meno dichiarato: come tutti gli istintivi, Chaplin era sottile e complicato nei suoi raffinamenti e sottintesi. Come tutti i raffinati, Duvivier finisce invece col risultare semplice, quasi candido. Intanto, per segnare la diretta origine della sua ispirazione dal mondo della poesia anziché dai moduli dello spettacolo, non ha preso un tema singolo e specifico, di quelli che s’intrecciano nel patrimonio collettivo degli artisti d’oggi, bensì ha celebrato una sorta di poesia di quella poesia. Cristina, la protagonista, colei che ci fa da guida attraverso le varie tappe del viaggio in cui il film consiste, non è un carattere nel senso ordinario della parola, non è una figura dai tratti univoci e disegnati: è un punto di confluenza di luoghi poetici, un mutevole indizio di movimenti lirici, una ondeggiante e suggestiva figlia dell’amor di poesia. (Non sempre, s’intende, il poetico è sinonimo di poesia: la poesia più vera è quasi sempre una cosa concreta, precisa, di cui si fa il giro). Cuor pensoso non sa dove va, diceva alcuni anni or sono un vecchio romanziere francese. Cristina ha un itinerario ben certo: quello fissatole dal carnet del suo primo ballo, in traccia degli amici e compagni e timidi “patiti” di allora. Eppure ha l’errabonda indecisione e irrequietezza del “cuor pensoso”. È la sua una “ricerca del tempo perduto”? Anche: un letterato come Duvivier, un colto come Duvivier non poteva lasciarsi sfuggire una ispirazione così intrinseca alla civiltà letteraria di questi anni. Ma non è poi anche una nuova versione della romantica crisi della donna alle soglie dei quarant’anni? E non anche un pretesto a rievocazioni nostalgiche, struggenti, ebbre di una grazia febbrile e malinconica, e per il cinema, da un pezzo in qua, così fruttuose d’incanti? (Commemorazione del “primo ballo”, assaporato al rallentatore, risognato in una sala splendida, con le grandi tende agitate da una tiepida brezza, e la bianca, vaporosa ghirlanda delle fanciulle in crinolina). O non è finalmente il dramma più semplice, più terra terra, della donna delusa dal matrimonio, che va cercando, negli innamorati della sua adolescenza, una nuova possibilità d’amore?

Appunto perché depositaria di questo groviglio di motivi, Cristina non ha una sua volontà, non è un personaggio. In lei e per lei avviene il più tipico urto tra le intenzioni poetiche da cui Duvivier era animato ed i canoni della drammaturgia cinematografica, ch’egli ha accettato per esprimersi. Per risolvere il film,, per non ridurre Cristina ad un semplice compare di rivista, egli ha dovuto depotenziarla, cercar di ridurla a “personaggio”. E si è piegato, per esempio, alla soluzione sentimentale e facile di portarla a confronto con una fanciulla sedicenne, ella pure al suo primo ballo, come la Cristina del “tempo perduto”. Il medesimo contrasto si riproduce in seno ai singoli episodi. Lasciamo stare che quello di portarli tutti ad una conclusione negativa, di chiudere tutti i conti con un bilancio fallimentare è un modo di seguir la linea di minore resistenza. Veder tutto in nero è una di quelle forme di scetticismo elementare, che hanno ragione solo per il loro semplicismo; la vita, non occorre dirlo, è una cosa più ricca e complicata. Ma soprattutto la necessità di rendere presenti quegli episodî, di praticare uno spaccato nel mondo, costringe il Duvivier a venire a patti col più normale realismo cinematografico, a dimenticare l’intensità lirica che aveva tentato rinchiudere nella sua “pellegrina appassionata”, per abbandonarsi ad una cronaca a volta a volta maliziosa o palpitante, abbastanza spicciola sempre, del drammetto o della commediola quotidiana. Purtuttavia, così com’è, Carnet di ballo ci induce con una probabilità in più, e quale probabilità, a puntare in pieno, e con sempre maggior fiducia, in un cinema nostro, in cui si trasfondano le nostre tradizioni di cultura e di pensiero e di poesia, in cui si verifichi la nostra matura coscienza ed esperienza dell’arte. Senza contare la lode che va data a Duvivier per aver mostrato come ci si svincoli dagli ingranaggi della macchina standardizzata in cui il cinema potrebbe anche arrugginire.

Sotto i ponti di New York di Alfred Santell Questo grosso calibro della stagione americana ’36-’37 spara con un rinculo così curioso e imponente, che non si sa alla fine se l’impressione più forte sia quella del balzo in avanti, o del rimbalzo all’indietro. Primo: ti colpisce con l’azzeccata, inoppugnabile evidenza delle figure e col contagio di un’atmosfera d’incubo – sia pure facile, sia pure monotona – contro cui non c’è resistenza o vaccinazione che valga. Secondo: ti respinge con la violenta e disinvolta arbitrarietà del racconto. E terzo, quello che non t’aspettavi: ti si attacca al ricordo con una nostalgia inespressa, pungente e amara, di cui stenti ad appurare il motivo. E che, se non è poesia, certo in qualche modo le somiglia. Dal giorno in cui è nato, più esattamente: dal giorno in cui ha compreso che la sua specifica destinazione era, fino a nuovo ordine, di mettersi a raccontare novelle e romanzi, fatale era che il cinema prendesse di preferenza una piega naturalistica, si ricollegasse ai gusti di quella che, in letteratura, si chiamò la narrativa naturalistica. Della quale i dogmi e gli assunti principali furono: far nascere il problema dal documento (umano e psicologico o sociale), e viceversa isolare il documento attraverso il problema. Quanto a captare il documento, il cinema pareva fatto apposta. Non rimaneva che creare, o scovare i problemi: e l’assillo si faceva più urgente di mano in mano che il cinema diventava più serio e contraeva l’obbligo di aver qualcosa da dire. Quasi trentacinque anni, ormai, di storia del cinematografo si possono spiegare o come obbedienza, in forme quanto si voglia ricche e svariate, ai canoni del naturalismo; ovvero come tentativo di sfuggire a quei canoni. Servito o contraddetto, il naturalismo è sempre lui che conduce il ballo. Diciamo subito che, di problemi o pseudoproblemi, il naturalismo con tutte le sue propaggini, nel romanzo come nel teatro, ne ha creati tanti, che il cinema è potuto viverci per un pezzo da signore, e per un altro pezzo sembra immune dal pericolo di rimanere in secco, per quanto si comincino ad avvertire i primi segni di esaurimento e di stanchezza. Sotto i ponti di New York, come problema, cerca più o meno di riverginarne uno che ha fatto le spese soprattutto di un certo naturalismo “di ritorno”: di quel nuovo naturalismo in cui tentarono

rilanciarsi, forse con più meditata e programmatica cupezza che i loro predecessori, i romanzieri tedeschi d’or sono alcuni anni. Il problema dell’errore giudiziario con le sue varie conseguenze. Qui nel film esso è tutto scaricato su una figura, la quale ha il compito di tenerlo in piedi, presente ed assillante come un fantasma, più ancora che di innescarlo nell’ingranaggio della trama. Si tratta di quel giudice che ha pronunciato la condanna a morte di Lowanio ed ora se ne va per il mondo, pazza ombra di se stesso, vivo solo ai suoi dubbi e rimorsi, in cerca dell’unico, dell’ultimo testimone non escusso, e che è anche il solo depositario della verità. E veniamo al documento. Si sa che il naturalismo ha sempre amato, ha morbosamente amato, di prelevare i suoi documenti dai bassifondi. Sotto i ponti di New York conferma la regola, appunto perché si guarda bene dal farvi eccezione. Ma il cinema ha due modi di riuscir documentario. Anzitutto il modo ovvio, che vorremmo chiamar di primo grado, e semmai costituisce proprio la tara realistica del cinema: quello insomma che consiste nel mettere immediatamente la macchine di presa di fronte alla cosa. L’obbiettivo, ci si perdoni il bisticcio, è obiettivo: dovunque lo si affacci, un documento lo cava sempre. E rischia di cadere nella brutalità dell’occhio fotografico (prendiamo la parola a Dos Passos, che è anche lui, a suo modo, un romanziere naturalista). Tutta, o quasi, la parte “ambiente” di questo film – eccettuata la sequenza dell’organetto – rientra in questa documentazione elementare. E non varca la facile effettistica della tetraggine, ottenuta calcando senza misericordia sul documento tetro. Ma c’è poi l’altro modo di costituirsi dei documenti. Quello di assumere cose o persone, non per buttarcene addosso l’identità materiale, bruta e massiccia, ma per lasciarne sprigionare – attraverso una complicità oscura, lirica e vivente – la suggestione. Modo indiretto, modo poetico. Sotto i ponti di New York lo realizza sottilmente nella scelta e nella resa di quei “documenti” umani che sono i personaggi. Tanto il tipo fisico della protagonista, con la sua dolcezza attonita e opaca, quanto quello del figlio di Lowanio, con la facies isterica subito denunziata dalla luce anormale e smarrita degli occhi troppo chiari, hanno l’innocenza di due “pezzi di natura”, ma insieme il denso e misterioso potenziale emotivo, che supera la singolarità del “caso” e fa direttamente, irresistibilmente appello all’umano. (Si dice comunemente che una delle superiorità del cinema americano nasce dall’aver distrutta la fissità dei ruoli, sostituendola con una più ricca e sfumata ed esauriente varietà di tipi. Senza dubbio il produttore americano, per ogni personaggio o carattere, trova pronto un interprete che par nato apposta: volto, figura, temperamento. Ma bisogna anche soggiungere che Hollywood ha saputo convertire questa ricchezza in un merito. Perché è arrivata a credere nella diretta emanazione della figura umana, che è poi il segreto più alto della magia scenica. E assume quella emanazione come una diretta forza espressiva, giustamente anteponendola a tutti i giuochi mimici ed a tutti i surrogati verbali e letterari. Il maggior pregio della regia di Santell in Sotto i ponti di New York è appunto di aver messo a partito, come raramente era stato fatto sino ad oggi, queste forze oscure, originarie, irrecusabili che la figura umana sprigiona con la sola sua presenza. Quando i due protagonisti si incontrano per la prima volta sul ponte e si innamorano uno dell’altro, le frasi che corrono tra di loro sono estremamente vuote, prive di qualunque rapporto con la realtà che dentro di essi sta sorgendo. Di primo acchito, e in base agli ordinari criteri teatrali e cinematografici, quel dialogo può anche apparir banale, non risolto. La verità è che quei due esseri, per il solo fatto di trovarsi lì, l’uno di fronte all’altro, si sono scoccati vicendevolmente un messaggio intraducibile, ma perentorio, ma senza scampo. Che è un fatto magico, e tale sempre è apparso: tanto è vero che, per casi simili, le leggende dei grandi, antichi amori parlano di “filtri”). Il difetto del film consiste, a nostro avviso, nell’avere usato impianto, repertorio, linguaggio e perfino casistica della narrativa naturalista, senza darsene o cercarne motivi adeguati. La sproporzione tra il tono, tra la materia e l’animus dà a Sotto i ponti di New York una curiosa e disagevole aria di capolavoro (s’intendano il senso ed i limiti della parola) mancato. Chi dice

narrativa naturalista dice sempre l’impegno o l’ambizione di una tesi. Questo film invece non sa dove voglia arrivare. Non a risolvere il caso di coscienza del giudice, ché non ci si prova neppure. Non ad una pura e disinteressata evocazione o sublimazione poetica dell’atmosfera dei bassifondi, ché allora sarebbe fallito per un eccesso di drammaticità macchinosa. Non ad un atto di fede in una superiore giustizia riparatrice dei torti e restauratrice dell’ordine, ché a tal fine difetterebbe di religiosità. Si ricordi il finale. Quel cercatore di cicche, proprio per il modo come viene presentato e sviluppato nel film, costituisce una troppo ironica e meschina incarnazione della Nemesi; anche se, accendendo un insperato mozzicone, è lui che determina l’uccisione del colpevole. Certo le vie del Signore sono infinite; ma, in una rappresentazione idealizzata come quella dell’arte, è meglio non attribuire al Signore le vie paradossali e grottesche. Se non che, ad enfiare e tender troppo un racconto – com’è il caso di questo film – si finisce a non poterlo più risolvere che col sistema delle vesciche troppo gonfie: cioè le bucature di spillo.

Alì Babà va in città di Eddie Cantor L’elogio della scemenza è ormai troppo inveterato, perché possa venire la tentazione di riprenderlo, sia pure a proposito di Eddie Cantor. La scemenza come evasione, la scemenza come forma superiore dell’intelligenza: chi non conosce a memoria questi luoghi comuni di una certa estetica ipersensibile, saccente e decadente? La vergogna d’aver preso gusto alle cose di cui si spassa il volgo profano, la paura di confondersi con la greggia, il bisogno di sofisticare l’ingenua, irresistibile confessione di essersi divertiti hanno senza dubbio una parte segreta, ma cospicua, in quelle colte apologie della buffonata, dell’idiozia perpetrata a freddo, del “riso bianco”, ecc. Anche Aristofane si serviva del proprio genio comico per mettere in istato d’accusa usi e abusi e istituti che, al suo paese ed al suo tempo, meno gli andavano a genio. Ma Eddie Cantor è l’idolo dei radioamatori americani. Non è Aristofane. Preferiamo quindi incorrere nella taccia di non aver saputo gustare parecchie delle sue ultime scemenze, piuttosto che dir la bugia di aver goduto i molti e troppi passaggi del film, in cui egli approfitta d’un innegabile talento di “pizzica e non ride” per far la satira del New Deal e d’altre contingenze dell’economia nonché della legislazione tributaria americana. (Parentesi caritatevole: non parleremo del doppiaggio, che si sforza di avvicinare a noi alcune di quelle punte satiriche e spiritosaggini). Diremo di più: si rimane freddi perché le facezie di quel genere costituiscono altrettanti errori di stile nella linea di Eddie Cantor, altrettante eccezioni alla scemenza pura e innocente, apparentemente arbitraria nell’apparente estemporaneità delle sue uscite, ineluttabile nel rigore dei suoi ritmi. Il mondo di questi comici deve essere chiuso, circolare come quello degli artisti, esclusivo e concentrato ed assorto come quello dei bambini: deve obbedire ai propri automatismi senza prendere mai l’imbeccata o lo spunto da circostanze esterne. Liberato dalle scorie e ridotto alle poche centinaia di metri veramente validi, questo Alì Babà ci riporta, con una suggestione straordinaria, ad una esigenza che, di questi tempi, va facendosi sempre più sentire: quella del ritorno ai primitivi del cinematografo, ai loro estri, alle loro libertà, alle loro geniali disinvolture. Perfezionata la sua sintassi, assoggettate le sue strutture a coerenze via via più strenue, il cinema, questa Butterfly minacciata di pinguedine, avverte ormai il bisogno di tornare indietro, di disimpacciarsi dalle strettoie, di sciogliere i vincoli di una logica convenzionale ed esteriore, “per non morire”. In fondo: a che serve la prepotenza visiva dello schermo, se poi si vuole subordinarla ad una persuasione di tipo intellettuale? Sono dubbi e domande, per ora: ma intanto vorremmo sapere quale impressione farebbe oggi un film che avesse il coraggio di restituirci, nel linguaggio cinematografico di oggi, gli inseguimenti, i deprecati inseguimenti, e gli altri trucchi farseschi del tipo Ridolini o Fatty. Piacerebbe, crediamo, come prima e meglio di prima. D’altronde lo stesso Cantor, preso in sé, come tipo, rappresenta un ritorno ad alcuni dei più gloriosi comici dello schermo. Quei suoi occhi straordinari su un volto fisso ed esageratamente

giovanile, quelle sue contrizioni davanti alla vita ed alle cose più grandi di lui, riproducono precedenti così illustri, che non mette neppur conto di far dei nomi. La correzione personale di Cantor consiste nel trasferire le doti del suo talento personale in doti del suo personaggio. La rivincita finale appare più meritata. E perciò anche più semplice: diremmo, più banale. Riprendendo il vecchio tipo, Cantor l’ha reso più maneggevole, l’ha addomesticato, ne ha diminuito la profondità e la portata. Il divertimento diventa più scarico, meno compromettente. C’è meno il personaggio e più il numero di musichall: ma in questo ambito i risultati sono di prim’ordine. Basterebbe, in Alì Babà, la canzonetta mattutina, fattagli cantare dai due improvvisi e terribili compari, al termine della quale il povero Eddie finisce col precipitar dal treno. Grande music-hall, messo in valore anche dai patiti della scenografia: si pensi al mirabile e commovente incantesimo teatrale di quel villaggio da Mille e una notte, che Eddie, tifoso del cinema e cavaliere errante in cerca d’autografi dei divi, incontra – costretto da una troupe hollywoodiana – quasi un miraggio del deserto californiano. Chi ricordi il programmatico, perfino troppo voluto, impegno di stile che, dalla materia alla linea delle costruzioni, dominava la scenografia di un Ladro di Bagdad, può immaginare, sull’esempio di questo Alì Babà, quali risultati si conseguirebbero oggi, se una tanto più matura e rapida capacità d’effetti suggestivi si mettesse al servizio di quella felicità d’invenzioni, che i primitivi del cinema potrebbero ancora insegnarci.

La contessa Alessandra di Alexander Korda & Jacques Feyder Interessante prodotto d’incrocio, questa Contessa Alessandra reca abbastanza visibili i segni – sovrapposti e combinati, più che amalgamati – delle due diverse mentalità che ne hanno propiziato il nascere. Se Alexander Korda ha conseguito le sue migliori e più fortunate riuscite con lavori come Le sei mogli di Enrico VIII, vuol dire che gusto e talento lo portano verso la commedia di genere e di mezzo carattere, sviluppata lungo una rapsodica successione di episodi e di aneddoti più che costruita su uno schema chiuso. Bisogna togliersi dalla mente che il produttore, quando è un produttore vero e di “classe”, si limiti all’organizzazione economica, industriale e tecnica del film. Attraverso le cifre e i piani di lavorazione, e prima ancora attraverso la scelta del soggetto e la discussione della sceneggiatura, il produttore esercita una suggestione più o meno diretta, esplica un’azione decisamente influitiva. E finisce sempre col portare il film nelle proprie corde (non è un gioco di parole), con l’imprimervi il proprio stile. (Quando si dà il cento per cento dei meriti e delle responsabilità al regista, è perché questi – come spesso succede qui in Italia – assume su di sé anche i compiti del produttore). Lo stile di Korda è quello di una prosa amabile, colorita ed elegante, proprio là dove altri userebbe il verso epico od altre forme anche più paludate. Per questo egli ha potuto, nella commedia storica, salvar proprio la scioltezza e la spregiudicata varietà della commedia, quando tutto l’avrebbe tentato a cader nella costruzione macchinosa e nell’enfasi del film in costume. (La storia è nota a tutti: si è visto che mattone sia venuto fuori dal Dominatore allorché, dopo la Caterina e l’Enrico, si è voluto fare, senza Korda, il film alla Korda). Insomma, Korda è uno di quelli che, pur con tutte le cautele e garanzie di chi vuol ottenere un buon prodotto commerciale, prendono a martellate la “macchina” narrativa, e sbaragliano l’enfasi architettonica. Bisogna riconoscergli il merito d’aver precorso il gusto del film episodico, oggi sempre più diffuso tra i cineasti intelligenti, e di sapervi tener fede, senza tuttavia buttarsi all’eccezione e senza perder di vista il pubblico. Anche in Contessa Alessandra spirito del soggetto e forme della sceneggiatura rispecchiano quel tipico gusto. Un’avventura, che pareva fatta apposta per sfogare in un melodramma gonfio di spunti truculenti – quella della bellissima contessa Alessandra Wladinoff, sorpresa in villa dalla rivoluzione russa, fatta prigioniera dai comunisti e liberata da un ex-giornalista inglese – è risolta in una seria di aneddoti vivaci, dove anche la tragedia e il pericolo di morte sono toccati con mano

leggera, con una piacevole evasività, con una volubile grazia, che non appoggia, né forza, né drammatizza mai il tocco. Nel racconto cinematografico uno dei maggiori pericoli di appesantimento è sempre rappresentato dai cosiddetti ponti, cioè dei passaggi e legamenti tra l’uno e l’altro episodio. A quante acrobazie non sono costrette la perizia e l’ingegnosità e la scaltrezza degli sceneggiatori, per giungere a legittimare, nella logica dei fatti e nel succedersi del tempo, il trapasso da una situazione alla successiva. La sceneggiatura di Contessa Alessandra salta i ponti: esaurito un episodio, ne attacca un altro, senza preoccuparsi di legami. I fondu se le dissolvenze incrociate non sono stati inventati apposta? Poco importa se piovano a gragnuola, se cadenzino episodi troppo brevi in rapporto al respirogenerale che l’azione dovrebbe avere. (Come chi dicesse: un romanzo di andatura epica, in cui certi capitoli non durino più di tre righe). Che se poi questi sbrigativi trapassi non bastino ancora, ci sono i sottotitoli pronti a sbrogliare qualunque difficoltà, a superare qualunque salto. Naturalmente questa tendenza di sciogliere il film dagli schemi più rigidi e consueti, sposandosi con la volontà di “fare il film” nel senso più conformista e commerciale della parola, genera qualche contraddizione che finisce tosto o tardi con l’infirmare il lavoro. Disimpegnato da ogni rigida deduzione narrativa, il racconto procede ad anelli; ma viene poi a mancare una precisa ragione perché gli anelli debbano essere quelli e non altri, tanti e non di più né di meno. Se dietro al film non ci fosse un romanzo, che ne prescrive la traccia, si potrebbe perfino insinuare che il produttore, avendo a disposizione Marlene Dietrich, abbia aggiunto episodi fino ad aver sfruttato tutti gli atteggiamenti della diva, nuda e abbigliata, in veste di sposa e in veste da sera, in costume e in borghese, nei panni della contadina e in quelli della profuga e fino in un travestimento da cosacco. E che solo allora abbia fatto punto, prosciogliendo finalmente la protagonista dalla sua ripetuta e prolungata avventura. Una interessante Marlene, d’altronde, ridiventa attrice e attrice di proporzioni amabili quanto accessibili, dopo di essere stata star. Ma qui entra in gioco la regia. Feyder non è artista da accettare supinamente il gusto di un produttore, neppure se questo si chiami Alexander Korda. Come di Marlene egli s’è fatto un dato, un presupposto, un personaggio già noto, di cui poteva dispensarsi dallo scavare la psicologia, per moltiplicarne invece, sotto tutti gli aspetti, la sempre uguale e pur sempre prestigiosa bellezza di apparizione, per giocare sull’eterno equivoco tra la carne e l’anima; così dei vari episodi in cui la sceneggiatura gli aveva frantumato il racconto, ha ricavato altrettanti “luoghi comuni”, che gli permettessero di mostrare sinteticamente, con pochissime notazioni, come si possa trascrivere in istile il più abusato frasario cinematografico. C’è in questo film una Russia di maniera, una congiura nichilista di maniera, una rivoluzione, una fuga nel bosco, una odissea di due profughi perseguitati ed amanti, tutto di maniera. Perfino gli stati d’animo e le posizioni dei personaggi sono di maniera. Feyder ha assunto tutte queste “cifre”, tutte queste “frasi fatte” come una stenografia per sbrigarsi di un racconto abbastanza anodino. Ma in quella stenografia ci ha fatto sentire una tutta sorprendente, una tutta commovente bellezza di arabesco. Ha lavorato, in certo senso, sui proverbi del cinematografo come nella Kermesse eroica aveva lavorato sugli schemi della pittura fiamminga. Questo, dai praticoni e sapientoni del cinema, viene chiamato letteratura. Benedetta ancora e sempre la letteratura.

Mademoiselle Docteur di Georg W. Pabst Si crede comunemente che l’originalità, in arte, consista nel portare una rivoluzione, piccola o grande, nelle “cose da dire”. Si parla di un artista originale presso a poco come si parla di un “bell’originale”, a proposito del primo Tizio incontrato per via. Poniamo il caso, l’originalità del teatro di Pirandello fu salutata e battezzata come “novità” del cosiddetto contenuto: che, in parole povere, sarebbe ciò che rimane, distruggendo l’opera d’arte e riducendola al fatterello che ve ne può riferire il vostro barbiere. Originalità è invece rivoluzione nei rapporti tra le “cose da dire”,

rivoluzione nell’ottica con cui quelle cose sono guardate. Non si riprenderà mai abbastanza alle buone il vecchio distinguo tra immaginazione e fantasia. Vecchio, ma sempre valido a raddrizzare le più ostinate storture. Insomma: l’uomo di pura immaginazione è un fabbricatore di orologi, un giocatore di scacchi; solo l’uomo di fantasia è poeta. Checché si dica del cerebralismo di Pabst, egli è uomo di fantasia, è poeta. Con tutti i suoi limiti, con tutti i suoi difetti, Mademoiselle Docteur ce ne fornisce la riprova. È un film abbastanza piccolo, è un film di quelli che, a valutarli col criterio comune, in base alla trama, difettano tipicamente di originalità. Viceversa, per realizzarlo, il suo autore mostra di essersi messo nella posizione classica del poeta, che si rifiuta qualunque risorsa di immaginazione, per buttarsi allo sbaraglio, munito della sola sua fantasia. Le “cose da dire” qui erano già tutte note, attraverso la serie innumerevole dei film di spionaggio, e di spie innamorate. Pabst ha avuto la forza di ricominciare: che, per un artista come lui, voleva dire il coraggio di mettersi a rivivere vecchie immaginazioni con fantasia nuova. In cinematografia è sempre difficile stabilire con esattezza i meriti e le responsabilità di una iniziativa. Fino a qual punto possiamo attribuire a Pabst l’idea di misurarsi con un soggetto frusto e banale, per infoltirlo di quel quid che specificamente si chiama Pabst? Certo ameremmo che così fosse: la fisionomia di questo regista, così eccezionale, ne uscirebbe ancor meglio iscritta nello sforzo di portare il cinema al livello delle altre arti. Ma i film, più che quando un artista li vuole, generalmente nascono allorché una “combinazione” industriale od una qualunque confluenza di interessi pratici e finanziari li permette: l’artista deve accettare il genere, quando non addirittura il soggetto, per cui il gruppo produttore ha trovato i quattrini. E allora non gli rimane che fare di necessità virtù, e trasformare l’ostacolo in una condizione favorevole, il vincolo in una spinta a più acute e concrete invenzioni. Ora di questo almeno va data lode al Pabst di Mademoiselle Docteur: che in un tema probabilmente coercito, in un tema di tutti e di nessuno, ha ritrovato i suoi motivi, originali appunto perché suoi. Si sa che intorno alla figura, storica e romanzata, della famosa spia tedesca, nota sotto il nome di Mademoiselle Docteur, il film lascia imperversare la solita trama: incontro ed innamoramento con un ufficiale dell’esercito nemico, conflitto tra il dovere e l’amore con la complicazione di tutti i rischi a cui si espone una donna fatale, allorché si consacra ad un uomo, sventando e respingendo le adorazioni da cui è circondata, buttandosi dietro le spalle i torbidi drammi che la sua bellezza suscita. Intorno a questo facile mistero, a questa – è il caso di dirlo – opera o melodramma da quattro soldi, Pabst ha lavorato per creare il più vero mistero, che non consiste nell’ingranaggio dei fatti, ma nel presentarsi delle cose, nel loro modo di apparire, gratuito ma subito pieno di sensi oscuri; nella reazione sempre imprevedibile per cui la loro naturalezza diventa fatalità, al contatto con le anime e con la varia loro angoscia. S’intende che il più esasperato romanticismo è sotteso ad una simile concezione del mondo; e si potrà infatti discuterlo ideologicamente o sentimentalmente, si potrà anche contestarlo negli indirizzi di gusto che esso determina, si potrà perfino dichiararlo vizioso e sorpassato; ma non rifiutare le immagini che crea, quando siano veramente vive e toccanti. Come appunto avviene in questo film, allorché ad evocare l’incubo e il terrore di un covo di spie installato in una sedicente bottega di fruttivendolo, Pabst sviluppa la miracolosa sequenza dell’innocente, che viene ad acquistare un melone in quella bottega. Lo stupore stranito, dolce e inoffensivo di quell’uomo che, colla sola sua presenza, così immotivata, basta a seminare il panico di una sorpresa del controspionaggio, si potrebbe quasi assumere come il simbolo della forza, del potere inconscio – in una parola: della magia – che le cose e gli aspetti generano col solo loro presentarsi. C’è di più: chi ha veduto Salonicco al tempo della guerra europea conferma che la Salonicco di Mademoiselle Docteur è di una verità da giurarci. Eppure, niente è meno costruito, meno documentario. La verità è raggiunta per corrispondenze psicologiche, piuttosto che per una diretta

testimonianza delle cose. È precisamente questa capacità di allusioni, attraverso l’inconscia complicità delle cose, che crea a Pabst un linguaggio tutto cinematografico, un vocabolario prettamente visivo, ma di una ricchezza, di una complessità e, in un senso quasi sempre buono, di una sottigliezza raramente uguagliata. A conferma, si veda in questo film la descrizione, senza pettegolezzi e senza inutili compiacenze, dell’albergo equivoco dove un individuo, che fa il doppio gioco dello spionaggio e del controspionaggio, attira Mademoiselle Docteur in un agguato che egli non sa ancora quanto, tra le maligne e corrotte persuasioni del luogo, diventerà agguato per lui: avvinghiante e mortale agguato dei sensi. Il lavoro di Pabst consiste appunto in questo assiduo e tortuoso spionaggio (ci si perdoni l’involontario incontro di parole) delle anime nelle loro situazioni più ambigue e insediate. Spionaggio, ripetiamo, e non esplorazione, come si direbbe per altri artisti specialmente dediti allo studio delle psicologie. Pabst prende a tradimento i suoi personaggi, li coglie alle svolte: e non li confessa, anzi lascia che si accusino da soli, indotti in una sorta di tentazione che emana dall’ambiente e dalle circostanze. Si ricordi la corsa in auto sotto la pioggia, la villa di campagna, apertasi, come un fatato asilo di fortuna, ai due protagonisti, allorché tra loro comincia a nascere l’amore. E tutta questa storia d’amore ha un’andatura sinuosa, sospesa: come la danzatrice di Baudelaire “elle se développe avec indifférence”. Quando una circostanza qualsiasi l’arresta, allora il gesto in cui si immobilizza diventa di delirio e di passione. Ed è il caso, per esempio, dell’ultimo colloquio tra Mademoiselle Docteur e il suo amante, prima della fuga. Poche volte il cinema aveva reso quell’ebbro brucior di febbre rappresa sotto la pelle: quella torturata e lancinante trepidazione di un’offerta d’amore destinata ad essere un addio; quell’ansia di dover tutto dire in un luogo in cui non si può parlare. Ed è forza di poesia trasfusa da Pabst nei suoi personaggi, che di un’attrice, in se stessa mediocremente autorevole e fisicamente poco felice qual è Dita Parlo, fa una creatura di prestigio veramente fatale. Che non è tra i minori miracoli di una regia veramente ispirata.

Pel di carota di Julien Duvivier Questo film di alcuni anni or sono giunge soltanto ora agli schermi italiani; ma era stato anticipato dagli osanna e dai punti di esclamazione della piccola, snobistica massoneria ammessa alle “visioni private”. Nella ortografia spagnola, per esempio, è regola che il punto esclamativo preceda la frase; ma poi deve anche seguirla. Nel caso di Pel di carota non è detto che avvenga altrettanto. È destino di tutte le produzioni sperimentali e d’avanguardia che, poco o tanto, finiscano sempre con lo scontare le loro audacie ed unilateralità, i loro partiti presi. Chi indica la Terra Promessa non entra nella Terra Promessa: questo ce lo insegna anche la Bibbia. Che non è, s’intende, argomento per incoraggiare l’avanguardia: anzi aggiunge un valore morale – il gusto e la virtù di un sacrificio certo – ai valori ed alle necessità artistiche di ogni “arte dell’avvenire”. Se, in questi ultimi tempi il film francese si è portato così energicamente in linea, è proprio perché aveva saputo per anni immolarsi, di là da ogni calcolo immediato, a ricerche di intelligenza, di finezza, di spiritualità e di buongusto. Il Poil de carotte di Duvivier è tratto con fedeltà sintomatica ed esemplare dall’omonimo romanzo di Jules Renard: un romanzo fine Ottocento, che aveva fatto subito il giro del mondo non meno per i suoi intrinseci pregi stilistici e narrativi che per un gagliardo equivoco. La massa dei lettori e delle lettrici – aveva creduto raccogliere tra le mani un tepido e patetico passero caduto dal cielo, mentre invece stringeva tra le dita una bomba. E non già, badiamo, una bomba carica di gas lacrimogeni, bensì di esplosivi ad alto potenziale. È uscito pochi anni or sono il diario, il Journal di Jules Renard; ed ha mostrato, più chiaro di quel che si fosse veduto fino allora, come le invenzioni narrative (e teatrali) di questo autore non fossero che travestimenti della sua autobiografia, i suoi personaggi metafore di se stesso. Figlio della piccola borghesia campagnola di Francia, il Renard ripete il caso (citiamo da un grande e brillante critico) dell’ovo dell’analisi “deposto dal genio

immanente della letteratura francese, dentro un buon bruco borghese in cui si sviluppa, e che lo nutre senza sentirsi distruggere”. Soggiungiamo che di quella piccola borghesia, ch’egli criticava senza distruggerla, il Renard aveva preso anche l’utile, ma non affascinante virtù dell’economia. Il Diario ci rivela un uomo intento a convertire in brevi e brillanti notazioni letterarie tutti gli episodi e gli incontri, tutto il succo, non ricchissimo né molto vario, della propria vita intima ed esteriore; un tipo armato di taccuino per non lasciar disperdere nemmeno una briciola degli aneddoti, epigrammi, trovatine, arguzie, battute amare o maliziose che veniva secernendo lungo la giornata. Poil de carotte è costruito appunto a piccoli aneddoti, che gravitano ciascuno verso uno di quegli epigrammi. È una serie di poemetti in prosa infilati, come gli acini di una collana, su un filo narrativo. Sebbene scarna e lineare, c’è più la trama che il tempo del romanzo. Che sarebbe, com’è noto, la storia penosa, disgraziata e sadica di una infanzia seviziata da una famiglia, la quale conserva, della struttura familiare, soltanto le apparenze, distrutta ormai ogni sostanza ed ogni cemento affettivo. Si capisce perché Duvivier abbia scelto un simile soggetto. Vi trovava, nel contenuto, un’acre e paradossale conferma al proprio pessimismo: e difatti, nel passare dal romanzo al film, egli ha ulteriormente esasperato quel pessimismo, togliendogli anche la vena di umore che apparentemente lo consolava. E vi trovava forse, nella forma, quell’andatura episodica che a lui, futuro autore del Carnet di ballo, preannunziava la possibilità di un componimento strofico, svincolato dai meccanici addentellati e congegni di un ingranaggio, libero di accettare tutti e soli gli episodi aventi un valore poetico, senza doversi assoggettare mai alla necessità di passaggi esplicativi, di ponti e connessioni didascaliche, di legami puramente strutturali e quindi prosastici. Non è la prima volta che ci accade di constatare e di lodare la fisionomia culturale e letteraria della personalità di Duvivier. Anche qui, messosi ad elaborare cinematograficamente un’opera illustre della letteratura, egli ha mostrato prima di tutto di capire a fondo di che si trattava, e s’è fatto scrupolo, come sceneggiatore e come regista, di rispettarne e restituirne tutti i valori. Siamo completamente agli antipodi del canone americano, e non americano, che consiste nello sconvolgere e nel violentare l’opera originale, pur di cavarne quello che si chiama, o si crede, del cinematografo. Tutto quel che Duvivier si è permesso è stato di concentrare in una sola sequenza alcuni episodi particolarmente adatti a chiarirsi e motivarsi vicendevolmente; di spostare le occasioni, non però le ragioni, di talune battute. Ma come il suo autore, esaurito appena il breve aneddoto o tocco descrittivo destinato ad aggiungere una nota alla biografia del suo protagonista o alla descrizione dell’ambiente, staccava la penna, così Duvivier stacca l’obbiettivo, dissolve al nero. Dal punto di vista sceneggiatura, l’aspetto più tipico di questo film è la frantumazione episodica del racconto, l’infittirsi degli “a capo” e dei fondus. E dal punto di vista regia, gli equivalenti stilistici del romanzo sono ottenuti mediante un controllo del gioco e dell’azione, che li fa risultare densi e pregnanti nei motivi, nelle intenzioni, nel sostrato psicologico, quanto invece schematici e quasi appena abbozzati nel gesto. Il linguaggio di Jules Renard, duro e preciso e scintillante ma nel tempo stesso succoso e assaporato, è riprodotto in una fotografia splendidamente contrastata, cupa e luminosa, come iscritta in un oro che non fa pulviscolo. Questa stessa fedeltà, e quasi religione, verso l’originale letterario (i brevi sconfinamenti cinematografici, come la giornata col padrino, si isolano tra il contesto e non costituiscono concessioni) crea le tare del film. Si è detto che Poil de carotte è una autobiografia larvata. Ha dunque i segreti limiti del genere: che si riassumono principalmente nella incapacità, da parte dell’autore, di uscir da se stesso, di migrare nella fantasia del possibile. Letterariamente, questo difetto può trovare, come trova in Renard, mille compensi o surrogati: la pagina riesce sempre, se ha certi numeri, a giustificarsi e vivere come pagina. Ma al cinema è difficile rimanere incatenati e passivi di fronte al “pezzo” che non rinnova la situazione, né la fa progredire; anzi si limita a riprodurla in nuove immagini, per quanto belle, o a riprenderla con nuovi pretesti, per quanto validi.

La pietà per il piccolo Poil de carotte, così ben suscitata dalla figura e dalla recitazione di Robert Lynen, l’adolescente attore dal fascino e dalla dolcezza morbosi e quasi ambigui, non basta a reggere, come tema unico e sempre uguale, un intero e lungo film. Che patisce di uno squilibrio tra il fatale, indugiato distendersi della descrizione ambientale e la relativa semplicità dell’assunto drammatico. Poil de carotte è l’opera di un Duvivier che ha trovato già i suoi mezzi, ma non ancora se stesso; e chiede in prestito ad altri una parola da dire, simile a quella che sarà la sua, ma non ancora precisamente la sua.

Un giorno alle corse dei fratelli Marx Preceduti da una unanimità di entusiasmi che ne avevano fatto quasi una leggenda, sono dunque arrivati anche fra noi, con un saggio dei più decisivi, questi famosi comici americani. La loro grazia spregiudicata; la loro poesia generosa, implacabile e violenta ha intanto un primo effetto: quello di risolvere senza ambagi né pentimenti la fase autocritica che il cinema viene oggi attraversando. Alla favola-mascheratura, alla favola accattata e faticosamente combinata per tener su in un modo qualunque i necessari duemilacinquecento o tremila metri di film, essi sostituiscono con allegra disinvoltura una parodia di racconto, qualche cosa che, non avendo capo né coda, si difende dichiarando che, un capo ed una coda, finge di averli solo per burla. Siamo ben lontani da quelle ansiose contraffazioni di racconto con cui, condannando la logica ai lavori forzati, si è tentato troppe volte di dare una fittizia ossatura alle esibizioni di celebri “numeri” teatrali: dai tenori ai divi del music-hall. Dal momento in cui comincia ad esistere sul serio, questo film non ha giustificazioni estrinseche più di quanto ne possa avere un’uscita di clowns al circo equestre. Che se la validità dei risultati non ci dimostrasse i vantaggi di questa liberazione da una trama strettamente consequenziale, una controprova negativa si troverebbe nei primi tre o quattrocento metri del lavoro. Che, per dosare l’entrata dei protagonisti e fissarne in qualche modo le posizioni, fanno le viste di impostare una specie di racconto suppergiù plausibile e approssimativamente realistico. Sono proprio i pochi metri in cui il film sembra pericolare, minacciare di aver torto, se poi viceversa non covasse sapientemente una domanda ed un’attesa: dove sono questi fratelli Marx? Ed eccoli. La più suggestiva definizione del comico – quella notissima del Bergson – stabilisce che il riso nasce in noi dalla constatazione di un automatismo. L’esempio tipico è quello dell’uomo che cade per via: non si ride per crudeltà, ma perché quel passante non è riuscito a vincere l’automatismo del proprio peso, vi ha obbedito come una marionetta. Il comico è colui che non riesce mai ad uccidere in sé la marionetta. Che cosa ricordiamo dei primitivi del cinema, di quelli che coi loro lazzi frenetici e superiori hanno conquistato i pubblici all’arte nuova? Non già dei caratteri, ma degli automatismi caratteristici. Il film dei fratelli Marx indugia a fissare delle posizioni, non per creare tre personaggi destinati a vivere e risolvere una vicenda, ma per stabilire tre differenti automatismi, che reagiranno l’uno sull’altro con un gioco di rimbalzi e di reciproche combinazioni dal ritmo irresistibile. Se osserviamo da vicino gli sketches dei Marx, quello del gelataio che vende libri sulle corse dei cavalli, quello della visita medica evitata, quello dell’appuntamento amoroso mandato a vuoto, vediamo che la comicità non è mai, o non è prevalentemente, esplosiva ed estemporanea: anzi è generata con la ripetizione del medesimo gesto, ricondotti dalla più ingegnosa varietà di motivi. Si comincia a ridere quando il gesto si replica, quando vi ravvisiamo l’ineluttabilità di un automatismo. La novità dei Marx è di avere ridotta al minimo la marionetta iniziale, e di farla rinascere ogni volta su nuove basi, con una sorta di imitazione di se stessi. Quando ci compaiono davanti, essi sono quasi dei personaggi: il comico scaturisce dal modo come riescono ogni volta a sventare il loro personaggio, a liberarsi dai loro motivi umani, facendosi surrogare da un fantoccio capace di muoversi in una sola direzione. Del resto, quando Groucho suona il pianoforte (è uno dei passaggi più belli del film), la sua mano sorpresa e isolata in primo piano sulla tastiera, comincia a

rivelare la propria personalità esilarante, allorché va caparbiamente a ricadere, attraverso i più vertiginosi glissando, sulla nota che la logica del pezzo non richiederebbe né comporterebbe. Anche questa esibizione musicale, come gli altri sketches, nasce dal bisogno di sfuggire a qualche cosa: qui Groucho si attacca al pianoforte per eludere lo sceriffo che sta cercandolo. Non vorremmo appesantirci più del necessario: ma si sa che la psicologia di Freud vede nel comico una fuga da ciò che la censura dell’io non vuol lasciare accedere o venire in luce. Il doppio fondo della comicità dei Marx, la ragione per cui essa prende subito una singolare, quasi misteriosa, autorità, consistono forse in questo segreto. Un comico che scende alle origini, che disegna direttamente i motivi umani e dolorosi da cui è provocata, e forse comandata, la comicità.

Addio Poggioli

Forse avrà visto avvicinarsi la Morte con quello stupore interdetto, con cui accoglieva, nelle nostre discussioni di lavoro, un’idea che stentasse a persuaderlo. E allora si metteva a respingere quell’idea, con la sua voce un po’velata e grassa, che solo l’inflessione leggermente lamentosa, come di uno che si raccomandasse, riusciva ad acuire, a rendere penetrante. Ma questa volta la voce un po’velata e grassa non gli è voluta uscire di bocca, per respingere la Morte: questa proposta sciagurata, incongrua, assurda, che certo non gli poteva entrare nel cervello. Forse, nell’opaco dormiveglia dell’asfissia, gli sarà baluginata un’obiezione, in quel tono di sincera modestia, di affabile signorile conciliante dissenso che era così suo: “La mia povera, piccola opinione non conta niente, ma mi pare che questo episodio non funzioni…”. Ma questa parole, con cui sempre finiva col persuadere i suoi amici, non le poté più pronunciare e l’atroce sceneggiatura si compì, malgrado Poggioli, fino alla fine, come Poggioli non la voleva, come Poggioli non la poteva volere, con quello stupido, insensato “risvolto”, che buttava all’aria tutta quanta la trama, tutta la logica del racconto. Una sceneggiatura che non si poteva girare. E lui, il nostro caro, il nostro bravo Nandino, non si volgerà più verso i ponti dove tra i proiettori e i “cinquemila” si annidano acrobatici gli elettricisti, non si volgerà più a chiedere: “Luce!”, non darà più, nel teatro fattosi silenzioso, l’attacco della scena: “Motore!…Azione!”. Preparavamo insieme il copione di Addio, giovinezza! nei giorni del giugno ’40, quando cadde Parigi. E veramente pareva che quelle parole: “addio, giovinezza!” scandissero il crollo delle speranze, dei convincimenti, delle fedi, degli amori in cui eravamo cresciuti. Ma ogni giorno, quando lui tornava per riprendere il lavoro, bastava la sua presenza, il senso di equilibrio caldo e calmo che da lui emanava per riaffezionarci un poco alla vita, per farci credere che il mondo non sarebbe finito quella sera, con le terribili notizie, che il giornale e la radio non avrebbero mancato di portarci. Addio, giovinezza! tornava a diventare il destino patetico, ma in fondo non troppo amaro di tutte le generazioni che sono invecchiate in questo mondo, e non più il triste privilegio della nostra generazione. Si parlava di Torino: via Po, piazza Carlina, piazza Maria Teresa, il Valentino, i luoghi dove lui avrebbe portato Mario e Dorina, dove avrebbe fatto ripetere, nelle povere e struggenti parole della canzonetta il motivo del distacco dagli anni belli: “Ma fugge la bellezza/e giovinezza/non torna più…”. Confluivano i suoi e i nostri ricordi, disseppellivamo le tenere archeologie dell’altr’ieri. E lui, venuto da una gioventù avventurosa, lontana da ogni specie di Università, ma tanto più proficua di esperienza e di umano intendimento, lui mostrava di capire gli studenti, le gioie e le malinconie, i fasti e le bollette goliardiche, assai meglio di tanti che avevano barattato la leggenda e la poesia degli studenti contro una qualunque laurea in utruoque. “Addio, Dori…addio amore… addio, giovinezza…”. Poggioli si tergeva una lacrima, e poi tutto il suo viso e tutta la sua persona giuravano che, malgrado tutto, la vita è buona. (Anche per questo, fu un vero e sincero artista). Era tra i più degni di vivere, perché era tra i più capaci di amare la vita. Se non fosse bestemmia, diremmo che la vita si è tradita, ad abbandonarlo così precocemente. Una sceneggiatura sbagliata sul più bello. Pareva che il meglio avesse ancora da venire, che nemmeno fosse finito il primo tempo. E non volevamo che toccasse a noi di pronunciare la battuta del finale: “Addio, Poggioli!”.

Cinema a Roma

The Thief of Bagdad [Il ladro di Bagdad] di Ludwig Berger, Michael Powell, Tim Whelan Les enfants du paradis [Amanti perduti] di Marcel Carné Roma città aperta di Roberto Rossellini Lenin v 1918 godu [trad. it. Lenin nel 1918] di Michail I. Romm Il mondo continua, pare impossibile, e si ricomincia persino coi festival cinematografici. I fascisti si davano l’aria di aver inventato loro tutto quello che facevano: ma la spudoratezza di assumersi la paternità anche dei festival forse non la ebbero. Comunque, noi prenderemo in buona parte, come segno di collaborazione culturale, come indizio di una volontà di far circolare le idee, il festival che si è inaugurato sabato per iniziativa dell’Accademia di Santa Cecilia. Non giureremmo che una parte del pubblico, il più frivolo, non si facesse l’illusione di prolungare i grandi giorni dei festival veneziani. Ma l’aria era tutta diversa. Alla luce del triste, fragrante, verde Adriatico che palpitava al Lido intorno al palazzo delle feste si è sostituita quella di un pingue coagulato autunno romano che colava lungo i vecchi muri del teatro Quirino. Film di inaugurazione, un Thief of Bagdad girato in Inghilterra ad opera di tutta quanta la famiglia Korda: Alexander, produttore, Zoltán e Vincent, sottoproduttori. Con in più tre registi e una famosa specialista del colore, Natalie Kalmus, dato che il film è in Technicolor. Ci è capitato in altri tempi di vedere girare dei film a Cinecittà: un solo regista e un solo produttore bastavano ampiamente a farli litigare tra di loro o, in mancanza di meglio, magari con se stessi. Ci domandiamo come abbiano fatto tanti galli a coabitare e collaborare in questo pollaio del Ladro di Bagdad. Il film, a tutta prima, ci ha restituito una sensazione che, frequentissima e meravigliosa nei giorni immediatamente successivi alla liberazione, si viene sempre facendo più rara, finchè poi scomparirà del tutto: vogliamo dire l’entusiasmo e la riconoscenza di ritrovare nomi, volti, persone del mondo libero da cui per tanti anni eravamo rimasti esclusi e che ci apparivano quasi come entità mitologiche. Rivedevamo finalmente nelle parti dei personaggi principali attori come Conrad Veidt – quello dello Studente di Praga, dell’Ultima compagnia, del Fortunale sulla scogliera – un Conrad Veidt di cui avevamo saputo che nel frattempo era morto esule dalla Germania persecutrice (è sempre terribile vedere i film degli attori morti: fanno pensare a una lugubre seduta spiritica, una operazione di magia non del tutto bianca). Poi, a poco a poco, come ci è successo con l’allontanarsi del momento della liberazione, le entità mitologiche riprendevano proporzioni umane. E ci siamo ritrovati in grado di giudicare – di scontare – il film. Non si affronta impunemente il paragone col vecchio Ladro di Bagdad prodotto tanti anni fa in America, protagonista il più agile, il più scanzonato, il più alacre, il più acrobatico, il più spadaccino, il più irresistibile Douglas Fairbanks. Questo nuovo Thief of Bagdad paga in pesantezza e in lungaggini narrative le cosiddette conquiste del cinema, che sono la parola e il colore. Il vecchio film era la folgorante stenografia di una favola: questo ne è un dolciastro commento illustrativo. La storia pressappoco è presa dalle Mille e una notte. Se la memoria non ci tradisce fu André Gide a dire che due sono i grandi libri in cui si entra nudi: la Bibbia e le Mille e una notte. Nel Ladro di Bagdad dei fratelli Korda si entra terribilmente vestiti. L’antica favola orientale ci viene ripetuta con una diligenza fastosa e pedantesca come una governante annoiata, che la replichi al capezzale di bambini ben educati, ma restii al sonno. I cavalli volano con audacie da battere l’ippogrifo e volano i tappeti: ma la nostra meraviglia di un tempo dove se ne è andata? Queste favole millenarie rinascono eternamente giovani a far testimonianza della umana grandezza e delle umane follie.

In linguaggio moderno si direbbe che confessino l’inconscio collettivo ma in questo film la notte dell’inconscio è abolita: la notte è sonno, e il sonno è sogno, e il sogno è rivelazione di destino; quella notte che Shahräzäd moltiplicò per mille ed una coi suoi racconti che rinviavano l’ora della morte. Al film è seguito un documentario, Giardini del mondo, inglese anch’esso e anch’esso a colori. Lo Pseudo-Longino (scusate l’erudizione) nel trattato Del sublime enumerava gli elementi del bello: e in ciò metteva fiori, fontane e giardini. Tali elementi sono qui profusi a piene mani. Manca però il bello, che è sostituito da uno smanceroso sentimentalismo. Domenica scorsa secondo spettacolo con Les enfants du paradis. Questo poi è un processo a fondo dell’ultima cinematografia francese celebrato con la scorta di voluminosissimi incartamenti da uno dei massimi autori e responsabili: Marcel Carné. Gli esteti, gli ipersensibili, i saccenti e le donne apprezzarono molto quella cinematografia. Tutti l’applaudimmo e anche oggi non sapremmo darci la zappa sui piedi. Un film come Alba tragica, appunto del Carné, aveva tutta l’aria di un capolavoro. Suo pregio era di apparire autentico: francesi avevano inventato il romanzo naturalista, francesi lo riprendevano sullo schermo. Prolungavano una tradizione, somigliavano a se stessi. Ma che cos’era in realtà quel naturalismo tradotto in cinema? Romanzieri come Zola erano scesi nei bassifondi per prelevarne una testimonianza umana e sociale. I moderni cineasti francesi avevano compiuto la stessa discesa, soprattutto per ricavarne particolari allucinanti e procurarsi delle delizie stilistiche. Fu un viaggio nella malavita intrapreso con borghese spirito di esotismo, a caccia di sensazioni (ci perdonino i compagni Carné e Prévert: qui si bada soltanto ai risultati) e il veicolo di tale viaggio fu l’intelligenza. Ma in questo genere di imprese l’intelligenza presto si logora. E, intelligentissimi come sono, i cineasti francesi hanno messo le mani avanti, hanno prevenuto il fallimento con una liquidazione. Les enfants du paradis rappresentano questa liquidazione: che riesce, momento per momento, splendida. Sul filo di un melodramma quanto più si potesse melodrammatico, Carné regista e Prévert sceneggiatore hanno allineato tutte le situazioni, tutte le scene del loro repertorio. Per essere completi hanno aggiunto anche il costume: in una Francia del 1840, nella Parigi del “Boulevard du Crime” hanno raccolto tutti i personaggi tipici, hanno immaginato una sirena irresistibile, perduta e fedele e l’hanno messa al vertice di tutti i possibili triangoli, assegnando gli altri vertici a un ricattatore in guanti più o meno gialli, a un pierrot disperatamente lunare, un grande attore in cui regolarmente il genio si mescola alla sregolatezza, a una piccola cabotine sentimentale, a un blasonatissimo conte che è poi quello che deve, chi sa perché, rimetterci la pelle. Questi personaggi si inseguono, condotti in giro con tattica combinatoria, che permette di descrivere ogni sorta di ambienti, produrre ogni specie di simmetrie ed incontri. Ma è chiaro che le singole scene sono affrontate e risolte per se stesse, si succedono come gli sketches del Carnet di ballo. La legge che ne governa l’apparire è quella dei contrasti, il brioso dopo il patetico, il buffonesco dopo il drammatico. E ad ogni scena, malgrado la continuità della favola, pare che il film ricominci. Cosa che riesce allo spettatore abbastanza faticosa. E il film per potere essere un campionario esauriente dura circa quattro ore. Dopo l’altra guerra venne il “grottesco” a smaltire le pesanti situazioni del teatro borghese. Film come Les enfants du paradis assolveranno forse al compito di esaurire, spremendoli fino all’ultima goccia, gli effetti di una cinematografia senza dubbio gloriosa, ma di un’ambigua ispirazione populista a cui difficilmente oggi presteremmo ancora fede. Una immagine riassumerà forse per sempre le ore che seguono la battaglia ed è quella del principe Andrej in Guerra e pace, che, supino e ferito sul campo di Austerlitz, apre gli occhi verso il cielo alto e lontano. Tutti quanti, anche quelli di noi che non hanno materialmente combattuto, tutti quanti più o meno abbiamo riportato le nostre ferite nella battaglia che si chiama della resistenza; ma i nostri occhi non si sono ancora schiusi su quel cielo alto e lontano. E certo non si distende, quel cielo, sul film Roma città aperta, cronaca di battaglia e rievocazione della resistenza, che

abbiamo veduto ieri nella terza giornata del Festival cinematografico. Il film appartiene al genere che in letteratura è stato battezzato “delle catacombe”. La parola è a doppio versante. Adombra la mistica, le speranze e i martiri della vita clandestina; attrae però a sé, anche per associazione, un certo gusto e compiacenza del sadico di cui altri abusò con tristi scopi speculativi nel descrivere terrori e torture di quella vita. Da tali compiacenze, tutto sommato, il film va esente: però le sue sequenze di più sicuro effetto sono quelle che rievocano gli interrogatori crudeli e le sevizie di via Tasso. Gli autori, lo sceneggiatore Amidei e il regista Rossellini, si sono impegnati in una materia che poteva parere facile tanto è straripante, intensa, ancora tutta accesa, e viceversa era ardua ed irta di tranelli. Il cinematografo pare oggi il veicolo narrativo per eccellenza. Invece il film non è riuscito, o è riuscito solo raramente, a raggiungere il risultato ultimo della narrativa, cioè l’andatura e la cadenza epica. A parte certo bozzettismo romanesco che risolve con troppa disinvoltura parecchi episodi, alcune cose si potrebbero dire sulla vicenda. Essa ribalta sopra un’attricetta cocainomane che si fa delatrice per vendicarsi dell’ingegnere moralista e ostile al suo vizio. Questo è troppo semplice e meccanico. Forse l’attricetta vorrebbe simboleggiare la corruzione che alligna sotto il terrore. Ma le delazioni, i delatori e i veri nemici furono ben altri e da ben altri interessi corrotti. Costoro, occorreva denunziare che, purtroppo, spavaldi ed impuniti, spesso circolano ancora per le nostre strade. Tuttavia, nonostante il suo tono di prosa dialettale, nonostante la sua struttura tutta ad incastri, Roma città aperta ha un requisito piuttosto singolare: la vita franca che vi circola da cima a fondo. Vi si sentono ancora intatte, fra i tormenti e le angosce, le verdi speranze della vigilia. Un film grave, assertivo, di un’attenzione meditata e quasi solenne, il Lenin nel 1918 ha fornito il programma alla quarta giornata del Festival. Ciò che a tutta prima colpisce è la dignità del racconto, la sua compostezza. Un terzo della pellicola è speso, si direbbe, a guardare i personaggi e ad analizzarli. Analisi però che non disgrega, che non polverizza, anzi restituisce momento per momento il blocco umano. È una particolarità dell’occhio russo, ed è quel suo fissarsi sgranato, che pare attonito, oltre l’oggetto, e viceversa è un modo di penetrare le cose con una lentezza sicura, metodica e in un certo senso implacabile. L’immagine che ne risulta può sembrare, tradotta nel nostro linguaggio, fantasiosa e primitiva: mentre invece è subito anche un giudizio e dei più psicologicamente raffinati. In questo Lenin il regista Romm e l’obbiettivo della macchina da presa fissano i personaggi con quegli occhi. Ne descrivono minutamente il fisico come se non si preoccupassero di raggiungere il contenuto spirituale. Dopo qualche sequenza, ci accorgiamo che quel contenuto è ormai irrefutabile. Gor’kij, Lenin dovevano essere così, non potevano essere che così, così sono Stalin e Vorošilov: come li abbiamo veduti ieri sullo schermo. Il film è senz’altro “vero”, indubitabile. Ha lavorato con la macchina ferma facendole spendere in attenzione ciò che le risparmiava in movimento. Ci domandavamo se il cinema possa narrare una cronaca con fedeltà documentaria, evitando l’intreccio, il novellistico, il pittoresco psicologico. E sospettavamo di no. Ma forse il cinema come noi lo vediamo e lo pratichiamo è ancora affetto da una malattia infantile, che invece questo Lenin nel 1918 mostra di avere ormai superato. La gravità, la convinzione della testimonianza permettono ad un narratore di tenersi ligio alla cronaca. L’interesse che egli vi porta si traduce in interesse dello spettacolo. Vero è che questo film documenta una cronaca di per se stessa estremamente drammatica: quella dell’anno che seguì la rivoluzione russa. I kulaki, imboscando il grano, affamavano i lavoratori e si preparavano ad assalire il governo. La guerra contro i bianchi attraversava una fase piuttosto pesante: infine la controrivoluzione congiurava ed organizzava il terrore bianco con una serie di attentati che culminarono in quello di

Fanny Kaplan contro Lenin. Questa materia riesce per noi doppiamente significativa, come se ci dimostrasse, tradotti in una metafora di proporzioni gigantesche, le difficoltà ed i pericoli, che ogni rinnovamento sociale deve superare. Le vittorie dell’esercito rosso a Zarizin, lo scampato pericolo di Lenin ci aprono il cuore. Pare ci confortino a credere che la reazione non può vincere, non vincerà. Anche il montaggio e il ritmo del Lenin nel 1918 hanno parecchie cose da dirci onde da noi si mira sempre a chiudere la scena, a marcare la cadenza. Qui le scene si esauriscono da sé, evitando l’enfasi dell’accordo finale. Qualche decennio fa giunse nell’Europa Occidentale un altro lavoro russo che sconvolgeva tutte le architetture, le convenzioni dell’opera di musica, rinnegava gli acuti al calar del sipario: era il Boris di Musorgskij, e bastò da solo ad aprire nuovi orizzonti al melodramma. Vedendo Lenin nel 1918, abbiamo sospettato qualche volta che il nostro cinema è ancora troppo operistico, troppo legato al melodramma.

This Happy Breed [La famiglia Gibson] di David Lean Il romanzo familiare, che trova la sua durata nel tempo casalingo e domestico quale si sgrana nell’interno di una casa, con le nascite, le morti, il crescere e l’avvicendarsi delle generazioni, è il trovato più specifico della narrativa inglese, la sua maggior gloria. A suo modo anche Cavalcata di Noel Coward, uno dei grandi successi cinematografici di una dozzina di anni fa, era tributario di quella tradizione. La risolveva tutta in superficie; ma in compenso le regalava anche una seducente innovazione, molto adatta a solleticare le facili nostalgie del pubblico; riportava in un interno domestico e borghese il riflesso dei grandi fatti esterni, e, per così dire, faceva risuonare il passo della storia sulle mattonelle di un pavimento casalingo. Un grande successo cinematografico è come la proverbiale vincita dell’ambo: impossibile resistere alla tentazione di fare un’altra giocata. C’era da giurare che, presto o tardi, Coward avrebbe fatto un alt improvviso e provvisorio nella sua fortunata carriera di commediografo e di cineasta, e sarebbe rientrato nel botteghino a riscrivere sulla bolletta i numeri di Cavalcata. Il numero questa volta è This Happy Breed, che letteralmente significa Una stirpe felice. Il film, che abbiamo visto l’altro ieri al Festival, ci racconta a colori la storia di una famiglia inglese fra le due guerre. I parallelismi con Cavalcata, i ricorsi alla ricetta fortunata fornirebbero un elenco da non finire. Là c’era il ritorno dalla guerra contro i boeri, qui il ritorno dalla prima guerra mondiale: e il reduce è il capo della famiglia, che, con le sue vicende, fornirà l’esile supporto narrativo del film. Là, morte e funerale della regina Vittoria; qui, morte e funerali di Giorgio V; e nei due casi la vicenda delle esequie è riassorbita in immagini minori in ingegnosi equivalenti. A qualcuno interesserà sapere che fra i grandi avvenimenti esterni riflessi dalla cronaca della famiglia Gibson, c’è anche il ritorno di Chamberlain da Monaco. Si diceva che l’altra guerra ha segnato la grande frattura fra il secolo scorso e il nostro. Ma ieri l’altro i volti, le fogge, i sentimenti degli anni attorno al 1919 ci restituivano una nostalgia intenerita e commossa, come se già si fossero dileguati in un secolo che più non ci appartiene, in uno stupido e caro secolo decimonono. Che cosa è stato stavolta a determinare la frattura? Il fascismo, la seconda guerra? Il film di Coward non si prende certo la responsabilità di una simile diagnosi. È frivolo e commosso, arguto e sentimentale, toccante e birichino, come tutte le cose di Coward. Questo autore è uno dei più grandi maestri dell’anticlima. Forse stavolta ha sbagliato nel volersi servire del colore. Esso rende più fastosa ed appariscente la pellicola, ma serve anche al tenue lirismo evocativo che ne è l’anima. Pure essendo piacevolmente falso, questo colore da tricromia denuncia una intenzione realistica, è aggressivo: con la sua festa puerile, pare distragga dalla fantasia del riandare agli anni trascorsi. Il bianco e nero in Cavalcata conveniva meglio al soggetto, forse perché il sentimento che serbiamo del passato è un sentimento, per l’appunto, in bianco e

nero. La trama, si è detto, è esilissima. La sua maggiore complicazione è data dalla storia della figlia, che, ambiziosa di elevarsi socialmente, litiga col fidanzato, e scappa di casa. Ma poi vi ritorna, moglie proprio di quel giovanotto: vuol dire che a questo mondo tutto si aggiusta, e che l’ottimismo non è il peggiore dei ritrovati. Alla fine i figli se ne vanno per la loro strada, e lasciano soli i loro vecchi, che si stabiliscono in una più piccola casa, dove iniziano la loro vecchiaia. Tornava alla mente la favola orientale di quel re che, avendo tentato di apprendere la storia del suo popolo sulle voluminose complicazioni dei sapienti, si era consumata l’intera esistenza. E sul letto di morte chiedeva ancora in che consistesse quella storia. Al che un saggio rispose: “Nacquero, vissero, morirono”. Severa, sapiente e patetica poesia, della quale This Happy Breed sembra cogliere, nei momenti buoni, un fuggevole e iridescente riflesso. Coward questa volta ha fatto il film per interposta persona. Si è presa la parte del produttore ed ha affidato la regia all’abile David Lean. Gli attori sono eccellenti.

Goupi-Mains-Rouges [La casa degli incubi] di Jacques Becker In una ingegnosa prefazione al Novellino, Corrado Alvaro sosteneva che i tempi di fiabe e racconti si possono ridurre a pochi tipi, legati fra loro da parentele psicologiche tutt’altro che indimostrabili. L’idea di Alvaro ci tornava alla mente ieri, mentre assistevamo alla proiezione del film francese Goupi-Mains-Rouges (sesta giornata del Festival). Il soggetto, dovuto a Pierre Very – autore del quale confessiamo di avere sempre ignorato l’esistenza – è certamente nato in Francia, è autoctono, ha le carte di cittadinanza in piena regola, senza alcun sospetto di “naturalizzazione”. Appartiene anzi, come fantasia e colore, al filone di certo romanzo rurale, tra provincia e campagna, di cui il pedigree tutto gallico è incontestabile. Eppure, questo Goupi ha una strana aria di famiglia con quei Fratelli Castiglioni che ebbero parecchia fortuna qui in Italia, qualche anno fa. Ma c’è un altro elemento che richiama la tesi di Alvaro. All’inizio della vicenda, vediamo alcuni membri della famiglia Goupi che, decisi a sventare un matrimonio, atterriscono il fidanzato con una serie di mistificazioni diaboliche, tra cui figura anche una paurosa foresta. Se non andiamo errati, è questo l’espediente adoperato per dissuadere Falstaff dalle sue ostinate iniziative amorose. Insomma, se i musicisti si lamentano per essere costretti ad inventare melodie sempre diverse con le sette note sempre uguali, che dovrebbero dire i romanzieri, dannati a combinare l’imprevisto delle loro trame con situazioni così scarse di numero e pronte a ripetersi? Dall’esordio che abbiamo accennato, si dipana un giallo campagnolo e grottesco, non tanto originale nello sviluppo, quanto gradevole nel sapore, e ricco di intenzioni abbastanza sagaci. Si noterà, per esempio, come il regista abbia saputo trar partito dall’ambiente agreste. Il rapporto fra figure e paesaggio riceve una soluzione, prevalentemente fotografica se si vuole, ma suggestiva. Come direbbero i cineasti, il paesaggio assume un valore funzionale, entra nella storia, un po’ come nei gialli lirici di Simenon. Senonché, il risultato qui non è lirico, anzi grottesco, come si diceva, e persino farsesco, di quel tono particolare che i francesi chiamano cocasse. Un’immagine rimarrà nella memoria degli spettatori: la fuga dell’omicida che, braccato dagli inseguitori, si issa su un albero, sempre più in alto, finché l’albero si spezza. Questa ascesa è condotta su un ritmo di “crescendo” un crescendo appuntito, a imbuto, che la macchina compie con un’angolazione sempre più vertiginosa. Un fisiologo direbbe che se ne riceve un effetto di natura vasomotoria: tutto sommato, vale la pena di riceverlo. Del regista Jacques Becker ricordiamo tre film, che non sappiamo se siano venuti in Italia: L’or du Cristobal, con la Parlo e Vanel, Dernier atout con la Balin e Renoir, e infine Falbalas. Questo Goupi ci pare un progresso sui precedenti: certo è molto intellettualistico, e lo si rileva anche dal modo di presentare i personaggi principali, sempre con la stessa inquadratura; come dire, un

tentativo di creare quasi un leitmotiv fotografico. Ma quando in un film la fotografia si vede troppo, se ne conclude senz’altro che deve esserci qualche difetto di ispirazione o di vitalità.

čelovek n. 217 [trad. it. Matricola n. 217] di Michail I. Romm That Hamilton Woman [Lady Hamilton poi Il grande ammiraglio] di Alexander Korda Kascej Bessmertnyj [Kascej l’immortale] di Alexandr Rou Matricola n. 217, il film proiettato alla settima giornata del Festival del cinematografo al teatro Quirino, narra l’odissea di una donna russa deportata in Germania. Il racconto si svolge in quella forma di rievocazione che rimane sempre ancora il partito più sicuro per mettere al presente l’imperfetto narrativo, per convertire il “tempo” di una vicenda nella attualità di una visione, pur senza distruggere il particolare incanto della cosa rinata nella memoria. La rievocazione fu particolarmente cara al film muto (osservazione per gli specialisti: essa sta alla tecnica della sceneggiatura come il carrello a quella della regia). Sul parlato, che a tutta prima l’aveva abbandonata, essa si prese almeno due clamorose rivincite: Alba tragica e Voce nella tempesta. Ma poi interferì con tale indiscrezione che il pubblico finì per non volerne più sapere. Ci par di ricordare che, negli ultimissimi anni, i baccalari di Cinecittà – persuasissimi sempre di tenere in mano il polso del pubblico – sgranarono tutto il rosario delle loro maledizioni, per lo più napoletane, contro il malcapitato soggettista che si attentasse a parlare di una rievocazione. Il regista di Matricola n. 217 è quello stesso Romm del quale vedemmo giorni fa Lenin nel 1918. Questo Romm dev’essere un uomo intelligentissimo, come dimostrano i suoi film; un ostinato, come dimostra la sua tecnica. Per anni dopo il trionfo del passato egli si tenne fedele al muto, da cui si risolse a staccarsi solo con quel Sangue sulla sabbia che apparve al Festival veneziano del 1936. Ma fu un divorzio solo apparente. Romm seguitò a risolvere tutto nel visivo, ed ecco la sua ostinazione. E riuscì tuttavia ad accettare il parlato col suo obbligo di subordinare l’immagine al dialogo, ed ecco la sua intelligenza. A volte però si abbandona, lascia scorgere i segni dell’antica fiamma: e si hanno le sequenze di puro montaggio (indimenticabile nel Lenin quella dell’attentato), i primi piani mastodontici, di una monumentalità esasperata e allucinatoria, quali piacquero all’ultima maniera del muto. Un’altra manifestazione di quella ostinazione si ritroverà nel rifiuto dei movimenti di macchina: Romm si rassegna alla panoramica come uno stilita al peccato mortale. In paragone col Lenin questo Matricola n. 217 è più aperto, più concesso: l’altro era come tutto ricavato, ottenuto dal didentro senza ricorsi agli abbellimenti dell’immaginazione. Quantunque di stile severo, quantunque diretto a scopi di edificazione e di serrata polemica antiborghese, Matricola n. 217 è ancora un prodotto che rivela una più chiara costruzione. Si direbbe sia anche un prodotto di esportazione dedicato a pubblici più laici ed eterodossi. Vi ritroviamo, però, una virtù singolare del Romm: quella di mettere in piedi i personaggi, dar loro al primo aspetto una consistenza umana quale di rado si trova nelle trasparenti sagome dello schermo. Stavolta è aiutato dall’attrice Jelena Kuz’mina: una delle più alte, terribili e veramente sovrane maschere che ci sia accaduto di vedere. Nella settima giornata, poi, ci è stato servito ancora un pudding – l’ultimo, fino a nuovo ordine – sugli amori di Nelson e di Emma Liona. Il pasticcio, inzuppato di canditi, imbibito di rosolii, esce dalla cucina della famiglia Korda. È un genere da table d’hôtel o da carrozza ristorante: qualunque palato l’accetta, nessuno se ne sente soddisfatto. In altri tempi, Korda aveva risolto grosse favole e romanzi, rovesciando come guanti quei personaggi in clamide e re in corona, scoprendone la psicologia borghese e quotidiana. Senza rinunziare allo spettacolo – magari costoso e persino di gusto un po’ massiccio – pareva aprisse uno spiraglio alla intelligenza. In questa Lady Hamilton sì, ha tagliato corto: ha preferito buttarsi a

capofitto nel romanzo storico, ne ha illustrato la versione ufficiale senza critica, senza iniziative in proprio. La sala era piena di pubblico eccitato e mondano. Pareva di essere al Planetario: tutte le stelle di Roma erano venute a vedere Vivien Leigh. Devono essere emerse dal titolo “fine” perfettamente abbagliate. Vivien ha giocato con la parte, vi si è divertita, prodigandovi una grazia sconcertante, una eleganza folle. Nelson è Laurence Olivier; fa benissimo, com’era giusto; ma il sospetto rimane, che sia meglio aspettarlo a miglior occasione.

Kascej l’immortale, che abbiamo veduto poi, è una fiaba girata in Russia da Alexandr Rou. Non sappiamo che rapporti abbia col folclore slavo; nessuno, visto che è un’antologia di tutte le situazioni connesse col tema della Bella e del mostro. Ci si domanda come mai una cinematografia pensosa e volitiva come quella russa, una cinematografia che sa così bene quello che vuole, si sia impegnata in una simile impresa. Desiderio di svago? Tentazione dell’arte come gioco? O proposito di travestire in immagini (utile duci) la certezza che il mostro finisce sempre col soccombere, che nessun Hitler può sopravvivere? Il giovane eroe che libererà la bella è un Sigfrido che non conosce il terrore. E la bella è una addormentata, come Brunilde, nel cuore di uno spaventoso incantesimo. Il vincitore per raggiungerla deve attraversare le prove più tremende. Ma, così carica di possibili significati, la storia rimane infantile, candida. Piace per i trucchi ingenui e allucinanti, di un illusionismo da sfondare le pupille, riportati su una scala ridotta da spettacolo di famiglia e da lanterna magica. Il favoloso, le visioni di portento sono perfette, come può essere perfetto il rumore del mare prodotto da una conchiglia. I tappeti volano, navigano in cieli di burrasca, fortezze di maghi adergono i loro vertiginosi strapiombi e le loro porte si spalancano come fauci di draghi: ma tutto questo pare che possa trovar posto sul tavolino di un prestidigitatore. Ma i limiti sono aboliti dal ritmo. E, col riportarci alla credulità dell’infanzia, il racconto si accelera, si fa più stringato soprattutto a confronto con le prime sequenze che sono di un idillismo naturalistico e troppo lentamente descrittivo. L’eroe Nikita è impersonato dall’attore Stolyarov: raramente avevamo visto un Sigfrido così prestante e luminoso. Viceversa la bella (Grigorieva) ha forse, per la sua parte, un viso abbastanza innocente. Amitié noire di François Villiers e Germaine Krull.

L’éternel retour [L’immortale leggenda] di Jean Delannoy All’ottava giornata del Festival: beneficiata di Cocteau. Testo scritto e recitato da Cocteau, a commento del documentario Amitié noire; soggetto, sceneggiatura e dialoghi di Cocteau nel film L’éternel retour. Ben tornato, Cocteau: molte cose si erano dette sul suo contegno durante l’occupazione tedesca, e invece questa sua riapparizione in gloria dimostra che non erano vere o si riducevano a peccati venali. Amitié noire è una rassegna di riti cerimonie danze di quei negri che, come si vede nel finale, presero poi le armi per l’amica Francia nella guerra contro il nazismo. Quanto la materia è traboccante di colore, tanto il resoconto è severo e senza indulgenze. Lo stile può far pensare a quello del diario cinematografico che Gide riportò dal Congo. Niente esteticheria del primitivo, niente saccenteria raffinata. Regista e operatore hanno avuto la rara discrezione di farci vedere, su volti di sacerdoti e di guerrieri, le famose maschere negre, senza insinuarci che sapevano anche loro che cosa quelle maschere avessero significato nelle ultime o penultime mostre d’arte. Cocteau nel commento si è tenuto ligio all’immagine, non ha mai tentato di scavalcarla, di mettere la propria firma. Certe frasi pareva magari di leggerle sulla sua pagina: profilate da un contorno rigoroso, ma insieme raggiante di vibrazioni, come la luce che trepida nelle perle. Ma l’oriente di quelle perle non si fermava fra le dita di un gioielliere, trascorreva come gli splendori di un monile intravisto. Il film L’éternel retour traduce in moderno, con una letteratura quasi puntigliosa, la leggenda di

Tristano ed Isotta. Cocteau ama misurarsi coi miti e il film appare completamente suo: il regista Delannoy mostra di averlo secondato con ineccepibile fedeltà illustrativa: l’operatore ha fatto il doppio gioco fra realtà e leggenda; Jean Marais e Madeleine Sologne che sono i protagonisti hanno subìto il suo prestigio fino a diventare gli anfibi dei due elementi. E allora se l’esempio fa testo, noi sappiamo ormai come Cocteau senta il cinematografo: uno strumento, e non uno scopo. Le sue pagine sono inopium, e l’oppio è una fabbrica di sogni. Per Cocteau il cinema è una macchina per andare a vedere i sogni e le fantasie. Soggiungiamo che lui dà a vedere tutto, come il più arrischiato dei pokeristi. E allora c’è un’obiezione. Il cinema fotografa un sogno già sognato, riorganizza una fantasia prestabilita. Cocteau potrà magari sostenere, e lo ha fatto, che la fotografia è rivelazione, che dalla macchina fotografica escono dei misteri. Ma la pellicola non sogna, non aggiunge il suo inconscio alle immagini che le abbiamo affidato. Cocteau questa volta ha mandato il cinema a vedere che cosa succeda a una delle grandi leggende d’amore, quando sia inoculato in creature dei nostri sogni. Ma quelle leggende, quei miti, sono eterni proprio perché ritornano da sè, all’insaputa dei loro protagonisti. Dopo, a cose fatte ci si accorge di avere verificato uno dei grandi proverbi umani. Qui invece i protagonisti sono costretti a una verifica volontaria: il loro non è più un destino, è una prova del nove. Si capisce subito quale spreco di intelligenza sia costato il ricondurre quei personaggi alle grandi situazioni obbligatorie della loro favola. Non ci voleva meno della intelligenza di Cocteau, della sua abbagliante felicità, per farsi perdonare tanto sciupio di intelligenza. Per esempio. Il duello di Tristano contro il gigante Moroldo diventa una zuffa da osteria, stile Hollywood, nella quale Tristano (che qui si chiama Patrizio) riceve in una coscia il coltello lanciatogli dall’avversario. Ma questo avversario, perché il pubblico non perda d’occhio la favola, è costretto a portare l’improbabile nome di Moroldo. Isotta (che si chiama Natalia) è stata allevata da una donna superstiziosa che le ha fatto bere un filtro per assicurarle la felicità in amore. Quanto a Kurvevaldo, lo ritroviamo nei panni di un proprietario di autorimessa: ha una sorella di nome anch’essa Natalia, e Patrizio è in procinto di sposare questa seconda Natalia durante la solitudine e l’abbandono. Nemmeno Wagner si era preoccupato di inserire l’episodio delle due Isotte: la bionda e quella dalle bianche mani. Ma Cocteau non ci ha saputo rinunziare. E quelle complicità, quell’occulto senso di un destino che la favola tradotta non gli forniva, li ha cercati nella atmosfera e nella decorazione. La casa di campagna, dove il dramma si svolge, è infestata da qualcosa di spiritistico: ricorda, non si sa perché, la villa di Voce nella tempesta. E tutto il film brulica di elementi visionari e morbosi: vi circola un’inquietudine striata di apparizioni e presagi. Lo sforzo è di ottenerli con incidenti che possano apparire naturali. Mélo, per esempio, affetto da un complesso di inferiorità da atterrire Freud. È chiaro che Cocteau ha giocato con quell’amore del deforme e del mostruoso, che è come l’emblema di molta romanzeria moderna. Se Cocteau non fosse più regolato à la page, non sarebbe più Cocteau. Non sappiamo se L’éternel retour sia una battaglia vinta. Ci pare che valga più delle vittorie di Pirro che parecchio cinema scrive gloriosamente sulle proprie bandiere.

Blithe Spirit [Spirito allegro] di David Lean Les visiteurs du soir [L’amore e il diavolo] di Marcel Carné Berlin [trad. it. Berlino] di Julij J. Rajzman A distanza di pochi giorni da una commedia di Coward, girata da David Lean, la nona giornata del Festival ci ha mostrato una commedia di Coward girata da David Lean. Blithe Spirit in teatro deve essere certamente una grande riuscita, tanto è vero che tiene il cartellone da più di quattro anni. Trasferito sullo schermo, anche Blithe Spirit verifica con scrupolosa esattezza le obiezioni a sazietà ripetute sul teatro filmato, altrimenti detto anche teatro in scatola. Noi per lo scatolame abbiamo la massima simpatia, e confessiamo che più di una volta ci siamo svenati per farne acquisto in borsa nera. Subito dopo l’arrivo degli alleati, il sapore del beef ci è parso per qualche

tempo il sapore stesso della libertà. Soltanto lo scatolame cinematografico potrebbe farci cambiare idea. E sì che gli ingredienti, come sempre nella manifattura britannica, sono tutti di prim’ordine: quattro dei più eccellenti attori di prosa, Rex Harrison, Constance Cumming, Kay Hammond, Margareth Rutherford, prendono parte a questa registrazione della commedia. Gli uomini sono costruiti in modo che il loro piacere si accresce nel sapersi esclusivi: quei fortunati parevano gustare maggiormente il loro privilegio, decantando come l’ottava meraviglia il film a noi precluso. Gli autori di Les visiteurs du soir hanno cercato di impegnarsi su un meraviglioso stregato e satanico, raccontando, in costume del secolo XV, la storia di due menestrelli mandati dal diavolo in un maniero a distruggere la poesia dell’amore e dell’alto potere del riscatto che l’amore racchiude. Ma il diavolo esce sconfitto: per via di sovrumani sacrifizi e di abnegazione sublime si celebra ciò che i romantici avrebbero chiamato “la redenzione d’amore”. Curiose ed eterogenee alleanze si compongono in questo film: dove circolano per grotteschi e gotici meandri quegli elisir del diavolo cari al repertorio romantico, mentre poi il racconto, nonché il modo di tirare la morale, pare vagheggino l’elegante distacco dei settecentisti. Per la cronaca: c’è fra gli interpreti del film una Arletty abbastanza inedita, e c’è un Berry arrivato finalmente a fare il personaggio del diavolo: ma di un diavolo vero e non più metaforico. Una specialista ci fece osservare che un film russo si riconoscerebbe fra mille, anche perché fa rimanere sotto gli occhi l’inquadratura qualche istante più del necessario. Quando un montatore occidentale taglierebbe la scena, per passare ad altro, il russo vi indugia ancora, come se si fosse dimenticato che esistono delle forbici. Ma forse è proprio questa breve corona tenuta su ogni cadenza, sono questi pochi attimi in soprannumero che gli danno il passo cadenzato dell’epopea. Questa impressione ci pareva specialmente probabile mentre assistevamo alla proiezione del documentario Berlino. I documentari di questa guerra sono stati innumerevoli, immediati e quasi tutti belli. Se dovessimo scegliere, daremmo la precedenza a quelli americani di Capra e a questi russi. Gli uni fanno pensare alle prediche di un pastore veramente ispirato, di un pastore di pionieri durante le grandi emigrazioni; gli altri a una canzone di gesta scandita su strofe di un metro nuovo, nella quale gli eroi abbiano un nome collettivo. La battaglia di Berlino è presa dalle sue origini, cioè dal passaggio dell’Oder. Il Consiglio di guerra in cui il Maresciallo Zukov, coi generali e comandanti dei vari settori, decide che alle 4 e 22 del mattino ventiduemila cannoni dovranno aprire il fuoco, fa pensare, per l’ambiente, per i banchi su cui siedono gli intervenuti, a una lezione di collegio, con la sola differenza che gli allievi portano i baffi e vestono l’uniforme militare. E dopo sembra che di ogni cannone e “Katiuscia” ci sia fatto vedere il fuoco, come se ognuno di quegli ordigni avesse un nome e fosse chiamato a un appello. È fatale, è istintivo che la narrazione di un grande sogno, di un grande orgoglio crollato, rievochi a contrasto le ore della follia trionfante, quando pareva che Dio, gli uomini, la storia dessero ragione a quei disegni spavaldi. È il grande movimento lirico del Cinque maggio: “E ripensò le mobili tende e i percossi valli…”. Quaranta operatori hanno procurato il materiale con cui il regista Rajzman ha composto questo documentario. La battaglia per le vie di Berlino è colta da tutti gli angoli con gli occhi stessi del soldato che combatteva e avanzava in mezzo al disastro, tra la popolazione atterrita o indolente o stupefatta. L’arrabbiata polemica che Baudelaire e poi tutti gli artisti francesi di avanguardia condussero contro il borghese, considerato come il monumento dell’ottusità, l’emblema araldico della incomprensione, non si spiegherebbe senza un tipo di borghese a oltranza che in Francia trova la sua espressione più irrimediabile. Borghesia qui vuol dire “qualunquismo”: non è una classe sociale, ma un grado specifico di involuzione dell’intelletto e del gusto, a cui va congiunta una arrogante contentezza di sé. Questa borghesia ha i suoi mobili, i suoi cibi, le sue bevande: e ha

anche i suoi film. I quali appartengono a un genere di prodotti che, una volta sfruttati commercialmente, si dovrebbero tenere ben chiusi come le cartoline pornografiche.

Cinema: il destino di raccontare

Uno dei pochissimi uomini nati col genio della critica – John Ruskin – si propone, in un suo libro su Venezia, di spiegare la bellezza dei capitelli eretti sulle colonne della Piazzetta. Andando a casa per la colazione – suggerisce al lettore – compra un etto di groviera. Poi a tavola ritaglia con la massima diligenza un cubetto di questo formaggio. Comincerai a capire il problema: come lavorare questo cubo, in modo che la sua parte superiore regga la statua e l’inferiore si adatti al cilindro della colonna? Ruskin promette che, in capo a un quarto d’ora di questa scultura nel formaggio, il suo discepolo si sarà trasformato nel più fine intenditore d’arte, almeno per ciò che concerne i capitelli della Piazzetta. Ma il cinema non è un capitello della Piazzetta. Noi siamo qui per la prima seduta del circolo cinematografico trasferito nelle scuole. Vuol dire che il cinema sta prendendo il suo posto tra le manifestazioni di storia dell’arte che già si discutono e studiano nelle scuole, non meno dal punto di vista estetico che da quello morale, civile, sociale e di costume. Molto ingenuo sarebbe, in questa occasione valersi del metodo ruskiniano della groviera. Ruskin poteva ricorrere all’espediente didattico, sempre fruttuoso, di supporre il suo ascoltatore del tutto ignaro. Voi invece, del cinema, sapete tutto: se, come qualcuno sostiene, la critica tende all’inventario, non c’è oggi persona che non sia versata anche nella critica del cinema. Voi fate anche parte del pubblico: e il pubblico possiede intanto una perfetta informazione filologica ed erudita di tutto ciò che riguarda il film. Conosce i titoli ed il contenuto, i nomi degli autori e degli editori, l’anno di edizione, distingue gli interpreti; quando occorre non ignora chi sia stato l’operatore, il musicista, l’architetto, lo scenotecnico, il costumista. Riconosce il ciclo produttivo e la direzione di gusto a cui le singole opere appartengono. Oltre questo corredo filologico, il pubblico possiede anche criteri di valutazione estetica, che raramente sbagliano. Nelle epoche di più speciale fervore letterario, è sempre esistita quella che i francesi chiamano la critica des honnêtes gens, critica spontanea, conversativa. Ora questa critica si è trasferita al cinema. Ed ha allargato la sua base. Nelle epoche letterarie, la critica des honnêtes gens aveva le sedi nei salotti, cenacoli, caffè; oggi, applicatasi al cinema, essa ha la sua sede dovunque. Semmai, in queste riunioni noi dobbiamo proporci di prendere più precisa coscienza degli strumenti critici che già maneggiamo. Se, malgrado tutte queste premesse, volessimo tuttavia applicare il metodo della groviera, dovremmo probabilmente prendere le mosse da un fatto tecnico. Osservare che il cinema, ultimo venuto tra le forme della narrativa, è anche quello che possiede i mezzi più limitati: oso dire, più soffocati. Esso si vale delle testimonianze di quell’occhio che è l’obbiettivo; ma l’obbiettivo è un occhio che vede molto stretto; non coglie mai il mondo se non attraverso fessure terribilmente anguste, e prive della possibilità di essere allargate oltre un certo limite. Se voi analizzate, scena per scena, quello che sta dentro il campo, vi accorgerete che è uno spicchio, una fetta di realtà circoscritta, tagliata con molta avarizia dall’insieme di ciò che il nostro occhio vedrebbe, qualora si affacciasse allo stesso spettacolo. Al punto che un regista non meno noto per le sue ispirazioni che per le sue stramberie, Abel Gance, nel suo Napoléon pensò di servirsi di un triplice schermo per poter dilatare il campo, aprirsi la vista su simultaneità spazialmente più vaste. Se questa angustia della visione non vi imprigiona, se non avete mai l’impressione che la totalità della scena vi sia restituita soltanto da un mosaico di vedute frammentarie, questo è dovuto a varie ragioni. Primo: ciò che vi è presentato all’occhio, sotto l’aspetto di una realtà ingenua, è una sineddoche visiva, è la parte per il tutto, come avviene in ogni espressione che tenda ad essere arte. Una parte

dello spettacolo di oggi sarà dedicato a dimostrarvi il valore di questa sineddoche, che nel cinema si chiama inquadratura. In secondo luogo, il merito è del montaggio che ricrea con una successione nel tempo anche l’estensione nello spazio. Ma questo del montaggio è uno dei capitoli fondamentali di tutte le pratiche e trattatistiche del cinema, e anche di tutte le poetiche del cinema: i libri e i saggi che ne discutono sono famosi; e d’altronde è un capitolo su cui certamente tornerete nell’esaminare e discutere i film che vi saranno presentati. Non mi dite che questi sono problemi di tecnica, legati alla materia e alla strumentalità, mentre voi giustamente volete arrivare a rendervi ragione del cinema come arte. Le resistenze tecniche, le energie del mezzo materiale provocano specificatamente quella energia dello spirito, quella aggressività del bisogno di esprimersi, quella temerarietà nell’escogitare la soluzione, che sono alla base dell’arte. Un filosofo francese ha detto che il motto: “incidere la pietra dura” è addirittura l’emblema di ogni arte. Il cinema ha anche lui la sua pietra dura da incidere, e questo è appunto il suo titolo di dignità artistica. Se molte volte esso ci lascia perplessi, è proprio perché tenta di sostituire la pietra dura con una materia più friabile. Voi sapete che il cinema, come narrazione, è nato da uno sternuto. Il primo film che si vide al Cinetoscopio di Edison, cinquantanove anni fa, fotografava uno sternuto del signor Fred Otto, assistente dell’inventore. Voglio dire che la sua prima capacità spontanea era di documentare la durata, lo svolgimento continuativo di un atto. Raccontare una storia è esattamente l’opposto: esige un’attività sempre presente e in moto. Ecco un altro problema del cinema: trasformare in attività creativa la sua inerzia documentaria. Se riflettete, nessuna delle altre arti lavora con un mezzo espressivo che registri passivamente la realtà: la parola, il suono, il colore, la forma plastica sono una cosa diversa, eterogenea dalla realtà che ci danno l’illusione di trasfigurare o di riprodurre. La prima volta che tentò di raccontare un dramma – ed era già un grandissimo progresso – il cinema si limitò a documentare un dramma preesistente, non creato da lui, non generato dai suoi mezzi specifici né dal suo specifico modo di guardare. Fu nel 1897 quando venne fotografata la Passione di Oberammergau (sia detto tra parentesi: non era quella vera di Oberammergau, ma una riproduzione un po’ apocrifa: e questo fu uno dei primi trucchi deteriori del cinema). Il problema era di articolare quelle registrazioni documentarie, le sole risorse immediate dell’obiettivo in modo da farle agire e reagire l’una sull’altra, da farne nascere un racconto, un dramma. Non è il caso di insistere su questo punto che chiederebbe troppe distinzioni e sottilizzazioni, se volessimo uscire dall’approssimativo e dall’impreciso. Ho accennato alla questione perché uno dei brani che ci saranno mostrati oggi, tra i “primitivi” del cinema, è la sequenza finale delle Due orfanelle di Griffith, la quale ci fa assistere appunto a una escogitazione di questo linguaggio. Voi vedrete il cinema nell’atto che sta inventando l’avverbio “mentre”, cioè uno dei pilastri della sintassi, l’avverbio principe della coordinazione temporale, l’infallibile molla, nei romanzi e nei drammi, del palpito e del batticuore. Fate l’ipotesi, puramente convenzionale e di comodo, di un uomo primitivo, un uomo delle caverne, che tornato a sera nel suo clan dopo una giornata di caccia voglia descrivere la più forte delle emozioni che ha passate, quella che ancora nel ricordo lo fa palpitare. Lui era alle prese con la belva, in un disperato corpo a corpo: gli occhi della fiera sfavillavano sul suo volto, le zampe lo artigliavano, le fauci spalancate già stavano per divorarlo. Le armi gli erano cadute: tentava ancora di dibattersi, ma le forze via via lo abbandonavano. E tuttavia, in quegli attimi di agonia, ha udito rami spezzarsi nel bosco, qualcosa gli ha fatto sperare l’arrivo di un salvatore. Il nostro cavernicolo non ha, per esprimersi, altro che un presente storico, tutto in atto, capace solo di accompagnare lo sviluppo dell’avvenimento nel succedersi elementare e rettilineo dei suoi istanti. Gli manca ogni capacità di astrazione, per cui possa sostituire a qualcuno di quegli istanti, altri fatti che abbiano un rapporto avvicendante o emotivo o simbolico con ciò che egli viene narrando. Allora ha una trovata. Chiama il suo benefattore. Gli dice:

racconta come sei arrivato a salvarmi. E mentre questo cavernicolo n. 2 narrerà o mimerà il suo procedere fra l’intrico dei rami e delle liane, le sue precauzioni per arrivare a uccidere la fiera senza colpire l’uomo che essa azzanna e senza che essa si rivolti contro di lui, il cavernicolo n. 1 per conto suo narrerà o mimerà la propria azione tra le zanne micidiali. Gli uomini e le donne del clan spostando alternativamente gli occhi dal cavernicolo n. 1 al cavernicolo n. 2 grideranno al secondo: muoviti, che aspetti, corri fai vedere chi sei, al cavernicolo n. 1: resisti ancora! non cedere! un attimo e sei salvo! Con questo concerto di azioni parallele, il nostro cavernicolo ha inventato l’equivalente visivo dell’avverbio mentre. La macchina da presa intorno al 1903, quando Porter nella Vita di un pompiere americano escogitò l’espediente delle azioni parallele, si trovava su per giù nelle condizioni del cavernicolo. Era un occhio incapace di testimoniare altro che l’immediata contingenza. D’altra parte, il cinema sentiva che il suo destino era di raccontare. Si trovava circondato da altre forme epico-narrative, il romanzo e il teatro, che non solo avevano recato grandissimi messaggi poetici e umani, ma avevano anche preso coscienza strumentale dei loro mezzi e delle loro capacità effettistiche. In particolare, l’avverbio “mentre” aveva percorso la più gloriosa delle carriere. Caratteristico di Griffith – autore al quale nessuno peraltro può negare un’ispirazione propriamente poetica, di tipo civile, sociale e religioso – caratteristico di Griffith è lo sforzo di carpire alla narrativa le risorse effettistiche, adeguando ad esse il linguaggio nuovo del cinema. Il suo è un vero e proprio inseguimento: raggiungere con trovate di linguaggio certi effetti di sicura presa spettacolare. Perciò sottopone il dato narrativo a uno schema strutturale e meccanico che gli permetta di toccare quei traguardi, quelle formule di linguaggio di cui sa a priori l’effetto emotivo. L’infallibile formula, o cifra, delle azioni parallele corrisponde ad un altrettanto infallibile formula o cifra narrativa: quella che gli americani chiamano: “last minute rescue” (liberazione all’ultimo minuto) e che il pubblico traduce nell’entusiastica esclamazione: “Ecco i nostri!”. Naturalmente questo comporta una abbastanza rigida schematizzazione dei caratteri: una violenta antitesi tra i buoni da una parte, buoni al cento per cento, e i cattivi dall’altra, cattivi al cento per cento. Tuttavia Griffith, che è un uomo intenso e sensibile, tenta di contrapporsi ai pericoli di un tale schematismo: e mentre da un lato intensifica meccanicamente il crescendo, il climax – claimex lo chiamano i cineasti americani che non sono greci – dall’altra aggiunge elementi presi dalla natura, pioggia, vento, tempeste, ghiacci, che accrescono l’angoscia della situazione, ma insieme spiritualizzano questa angoscia, trasfigurandola nei suoi simboli atmosferici. Così pure, all’alternarsi delle azioni simultanee, intercala primi piani, come voi vedrete tra poco: gli zoccoli dei cavalli galoppanti, la lama della mannaia, il collo della ragazza denudato, l’eccitazione sui volti della folla, le lacrime negli occhi di Lilian Gish che impersona la protagonista ecc. Questo mentre stringe la tensione fino alla strozzatura – il primo piano infatti permette un montaggio più rapido e febbrile – mentre accentua i particolari emotivi, è nello stesso tempo un modo metaforico di rendere il senso della situazione: e la metafora, quando non è barocchismo, è segno di poesia. Naturalmente un metodo così sicuro per estorcere al pubblico l’emozione conteneva tutti i difetti dei suoi pregi. È troppo facile mascherare con questa formula di linguaggio un vuoto dell’invenzione. La storia veramente affollatissima dei brutti film ce lo dimostra a sazietà. In genere ogni scoperta di linguaggio, capace di essere ripetuta, è abbastanza abbagliante per diventare fine a se stessa, finisce coll’uccidere l’ispirazione. L’abbiamo visto, per esempio, quando certi romanzieri europei si sono troppo entusiasmati dei procedimenti sintattici e dei ritmi del romanzo americano. Comunque, in Griffith c’è ancora tutto lo stupore ingenuo di chi vede nascere la meraviglia di una nuova parola, idonea a battezzare qualche cosa che fino ad allora era rimasto inesprimibile. E un’emozione personale, soggettiva dell’artista, che si trasfonde, sto per dire, nel tremito o calore della mano che traccia quel segno, e che imprime ad esso una vibrazione di poesia. Quando Paolo Uccello, nel dipingere le sue battaglie, scopre i segreti della prospettiva,

quella prospettiva, destinata a diventare la grammatica zoccolona delle più turpi oleografie, quella prospettiva in lui è miracolo di una natività, è poesia. Un fenomeno diametralmente opposto è quello presentatoci da Charlot, che con Griffith, e da un’altezza molto superiore, costituisce uno dei principali momenti del programma di oggi. Charlot è un grande artista che si serve dei partiti di un linguaggio, apparentemente consueto, per esternare un mondo lirico tutto nuovo e originale. Come Molière, al quale possiamo avvicinarlo senza pregiudizi, egli prende la materia farsesca tradizionale e la trasforma in una grande poesia comica. Comica, che vuole anche dire tragica: qui veramente gli estremi si toccano: Tartufo o Il misantropo sono due grandi tragedie classiche, come Il monello o La febbre dell’oro sono due grandi tragedie moderne. È noto che cosa capitò a Chaplin agli inizi della sua carriera. Figlio d’arte, proveniente da una famiglia di attori di varietà, aveva conosciuto i primi successi nella compagnia di Fred Karno, specializzata nella pantomima inglese. Dalla quale egli tolse i soggetti per le sue prime comiche, allorché venne scritturato dalla casa cinematografica Keystone. Ma il suo esordio fu uno scandalo per i produttori. Si parlò persino di protestargli la scrittura. Perché? Precisamente perché Charlot usava quel linguaggio in apparenza da circo e da spettacolo in piazza, nell’epoca in cui le comiche trionfavano aggrovigliando farraginosi inseguimenti e altre cose che parevano più originali, più adeguate al nuovo tipo di spettacolo. I produttori non potevano certo capire, allora, il messaggio, la poesia che Charlot affidava al veicolo dei suoi lazzi. Sul comico e sulla poesia di Chaplin se ne sono dette tante, che è inutile ritardare il nostro spettacolo per tentarne l’enumerazione. Dalla teoria bergsoniana del riso, a quella freudiana del Witz, non c’è schema moderno che non abbia funzionato nei suoi confronti. Di Chaplin si è fatto un rivoluzionario, un umiliato, un nostalgico, un collettivista, un individualista, un eroe del complesso di inferiorità, un conformista deluso, un anticonformista, un ribelle, un bisognoso di conciliazione, un dolente profeta dell’epoca delle prescrizioni e persecuzioni, e chi più ne ha più ne metta, e ognuna di queste ipotesi ha un elemento di vero. Vero è certamente che, come in tutti i suoi film, egli alla fine è costretto a chinare il capo alla realtà della vita, e non gli rimane scampo se non un’evasione di là dai confini – ricordatevi del Pellegrino – così nella sua arte egli accetta, quasi subisce il proprio fenomenale potere mimico e istrionico, cercando di mettere nel lazzo una tale carica umana, di disperazione e di nostalgia, che permetta appunto al lazzo di travalicare di là dai confini, quasi stupefatto di questa sua inaudita possibilità. A un amico che gli lodava la famosa danza delle pagnottelle nella Febbre dell’oro, Chaplin rispose lamentando lo smodato successo di questo numero di varietà. “Se uno si entusiasma della danza delle pagnottelle – egli avrebbe detto – significa che non ha capito niente di tutto il resto”. Lo sforzo di Chaplin, una volta riconosciuto, autenticato il proprio mondo attraverso il lazzo e la pantomima di Charlot, pare sia proprio quello di arrivare ad esprimere direttamente questo mondo, senza intermediari. È quello che si chiama il distacco di Chaplin da Charlot. “Sono il più esposto degli uomini – egli avrebbe detto – Lavoro sulla strada. La mia estetica è quella del calcio nel sedere…e comincio a riceverlo”. Benedetto questo calcio, se l’ha spinto fino al delirante carrello, allo spropositato primo piano che, negli ultimi metri di The Great Dictator, lo lancia fuori della vicenda, perfino fuori dello schermo, in una spaventosa, in una vertiginosa solitudine, senza maschera, disarmato uomo che si avanza a predicare agli uomini un messaggio di pace e di bontà. C’è chi ha parlato di una infatuazione da primo attore, uscita dal senso della propria misura. Io credo che quel primo piano sia da mettere all’altezza dei più nobili messaggi di Thomas Mann durante la guerra, e forse più su perché lanciato da una soglia, da un limite tanto più rischioso. Cinematograficamente, forse, sarà pura pazzia. È la più generosa delle pazzie. È la poesia di Chaplin che ha raggiunto e superato persino l’insuperabile Charlot. Voi qui vedrete il Charlot delle origini. Vedrete il suo lazzo, o meglio il suo fenomenale segno

mimico, come nasce maturo. Vedrete come in quel suo tempo di fulminea e implacabile concisione esso riesca a compiere simultaneamente due strade: una che attraversa o, come si dice, salta lo schermo per raggiungere il pubblico, senza che nemmeno il più rapido cenno significativo o allusivo ne vada perduto; mentre dall’altra, per via opposta e tutta interna, esso si sprofonda nella più segreta e dolente e inappagata zona dell’uomo. Questi lazzi sono, per così dire, l’acqua madre dove si generano le fenomenali riuscite mimiche dello Charlot più consapevole, se non più maturo. Quella, per esempio, del film o piuttosto contaminazione di due film che in Italia è noto col titolo Vita da cani. Charlot soldato della prima guerra mondiale è giunto a una casupola in rovina sul fronte francese. Incontra una ragazza, non sa parlare francese, e deve spiegarle che è americano. Si dà un pugno sull’occhio, cioè vede le stelle, poi con la mano traccia nell’aria alcune strisce. Ha rappresentato – stelle e strisce – la bandiera americana. Oppure quando, evaso dalla galera arriva a una stazione ferroviaria: gli basta di aggrapparsi con le mani alla inferriata della biglietteria, e ci ha manifestato l’incubo di Sing Sing. O quando, nella Febbre dell’oro, cammina incolonnato con gli altri cercatori verso i deserti auriferi. Dalle spalle gli spenzola una enorme bilancia. Se 1’è portata per pesare l’oro. Se i sogni avessero un peso anche materiale, essa basterebbe appena a bilanciare il carico dei sogni con l’inevitabile fallimento. Del resto, voi vedrete tra poco anche una comica di Max Linder. Il confronto con la liscia, elegante, inappuntabile, superficiale e direi mondana comicità di Linder, vi spiegherà molte cose su Charlot. Un giorno capitò che egli si incontrasse in pieno oceano, su una nave da carico, con un altro poeta, Jean Cocteau. Chaplin era un signore riservato, silenzioso, con i capelli bianchi. Passava le giornate in cabina a scrivere il suo prossimo film. Questo apparente improvvisatore scrive tutto, meticolosamente con una diligenza quasi pignola. Ma lasciamo parlare Cocteau: “Provo una difficoltà grandissima a congiungere i due estremi: quest’uomo colorito che mi parla, che è uno, e il suo piccolo fantasma pallido che è il suo angelo innumerevole e ch’egli ha il privilegio di dividere e di mandare dappertutto come Mercurio. A poco a poco, giungo a sovrapporre i due Chaplin. Una smorfia, una ruga, un gesto, una strizzata d’occhio e le due sagome si confondono in quella del semplice del Vangelo, del piccolo santo in tubino che entra nel Paradiso tirando su i polsini e drizzando orgogliosamente la persona, e quella dell’impresario che tira le sue fila”. Ma è ora che lasciamo parlare le immagini dello schermo, quantunque esse appartengano a un tempo in cui le immagini dello schermo non avevano ancora la parola. Non mi rispondete che il silenzio è d’oro.

Inviato speciale a Cinelandia

L’evoluzione è lenta in confronto con la storia. Si veda ciò che succede a parecchi tra i cultori del cinema. Da anni il loro pupillo è uscito di minorità, ha dimostrato che può fare dell’arte, ed essi hanno ancora il dente avvelenato del tempo che nessuno dava credito al giovane rompicollo. Merito loro se, persone di garbo, ricoprono il dente avvelenato con la capsula d’oro. Questa è anche la situazione di Guido Aristarco, quando si mette a scrivere la Storia delle teoriche del film. Fa stupire, perché l’Aristarco, poco più che trentenne, si è diplomato in cinecultura, quando già il cinema aveva fatto dimenticare le proprie origini. Direttore, redattore, collaboratore di autorevoli riviste, l’Aristarco può personalmente controllare, anche dal successo dei suoi libri, che in questo campo non esistono più obiettori di coscienza. Eppure, anche nella prefazione di questa Storia, la capsula d’oro continua a rimasticare vecchie ruggini. Per esempio, verso “il disprezzo di un Proust”. Non è valso che, in altra occasione, si ricordasse all’Aristarco l’incompatibilità di carattere tra Proust e il cinema. Proust era un feticista delle fotografie fisse, ce lo attestano i suoi biografi. Noi altri, poi, in Italia, eravamo scientificamente immunizzati contro ogni residuo di rancore. Per trenta o quarant’anni, nel nostro paese, l’occupazione principale di chiunque manovrasse una penna, fu di riflettere sull’arte. E proprio perché eravamo così puntigliosi, così intransigenti nelle discriminazioni tra arte e no, quelle discriminazioni, una volta concesse, passavano in giudicato. Per il cinema la cosa avvenne quando nei nostri cenacoli e dintorni cominciò a spargersi la notizia: Benedetto Croce è andato al cinema. Cosa fatta, capo ha. Simili ricordi potevano guarire l’Aristarco dall’atteggiamento di pioniere e vindice, che serpeggia sotto il suo libro; e ne guasta un poco il tono. Per due motivi. Primo: perché gli mette nel sottosuolo un tanto di vulcanismo aggressivo, che tiene a disagio l’autore stesso e lo costringe a compensarsi con inchini a molti valentuomini, la cui amicizia è certamente desiderabile, ma l’autorità in materia cineastica non fa testo. (Fuori i nomi, ci dirà l’Aristarco. No, grazie: anche noi ci teniamo cari i nostri amici.) Secondo: perché un vittimismo da apostolo in quarantena tira a riscattarsi in eroici furori. Finito di leggere, verrebbe voglia, chi avesse come l’Aristarco le carte in regola, di mettersi a scrivere una storia. Si troverebbe, forse, che anche le teoriche del cinema fanno parte della biografia della cultura di ieri, nella quale cominciamo appena a veder chiaro. Si troverebbe, forse, che i connotati di quelle teoriche presentano un’allucinante aria di famiglia con gli aspetti coetanei della medesima cultura. Così, le prime “conversioni” al cinema da parte degli intellettuali e degli artisti (Canudo, Delluc, Dulac, ecc.) capitarono quando nelle altre arti si cercava la “purezza”, disposti a pagarla col frammentismo. Poi viene l’ora di quelli che l’Aristarco chiama i “sistematori” (il decennio sul ’35, all’ingrosso). Tra i quali, bisogna distinguere. Ci sono artisti in atto come Pudovkin e Ejzenštejn, o artisti in potenza come Béla Balázs, gli uni e gli altri portati a dar veste di teorie alle loro poetiche: e cristallizzano tutto lo stile del cinema, tutto il suo “dover essere”, intorno a quei particolare effetti o accenti di stile, a quei miraggi di una poesia da fare, che essi vagheggiano per le proprie opere. C’è viceversa il teorico senza mani, quello che vuol dedurre e generalizzare, vietandosi argutamente i piaceri della creazione, come è il caso di Rudolf Arnheim. Questi organizza una precettistica o stilistica, più raffinata nel metodo, ma nei risultati abbastanza analoga a quelle che da secoli corrono per le mani degli scolari di letteratura, o di chi sogna direbbe Svevo – “di diventare il divino autore” capace “di riunire in sé tutti quei pregi, essendo immune da quei difetti”.

L’Aristarco termina la sua esposizione – non senza giusti riconoscimenti al contributo italiano del Barbaro o del Chiarini – con un tentativo di proposte nuove e, per così dire, in proprio. Con le quali, cade certamente in buon punto. Noi abbiamo assistito al tramonto dell’estetica idealistica, e di quelle indagini sulla “forma”, che sono state insieme il suo più acuto sforzo di sopravviversi e il suo modo di esaurirsi in bellezza: il suo canto del cigno. Prima che avessimo trovato una sistematica confutazione di quelle dottrine, esse avevano spontaneamente cessato di guidarci: le loro più fascinose soluzioni risolvono problemi scomparsi dall’ordine del giorno. Lo stesso Arnheim scriveva di recente dall’America che le “analisi ideologiche” oggi ci interessano più che le “discussioni sul contenuto e sulla tecnica”. (Non sofistichiamo sulle parole: basta capirsi). L’Aristarco si propone di inoltrarsi nel chiarimento di un’estetica materialistica. L’esigenza è diffusa, di qua e di là da ogni “cortina” politica. Va però riconosciuta la difficoltà del problema. L’Aristarco, per ora, prepara materiali e cerca di farsi gli argomenti sul concreto, con una generosa cavalcata attraverso i film: da Amleto a La terra trema, a Mičurin, all’Edera. Il rischio è, talvolta, che egli si limiti a sostituire la precettistica di ieri con un’altra più aggiornata; perorando, mettiamo, l’efficacia espressiva dei carrelli e panoramiche in su o in giù dell’Amleto, a scapito del montaggio spezzato. O puntando sul soggetto, per far da contrappeso agli idolatri del cinema puro: dove gli si chiederebbe di stabilire, con più rigore, il rapporto tra due termini, a suo stesso parere, indispensabili l’uno all’altro. Per il momento, egli si trova nella condizione di certi medici che adoperano insieme l’aspirina e la psicoanalisi, e magari aggiungono un pizzico di ormoni. Bisogna lasciarlo fare: meglio così, che ridursi alle pigrizie, talvolta dilettose, dei vecchi dulcamara. Non saremo noi, con un alacre uomo come l’Aristarco, a volerci prendere la parte (lui, purtroppo, insisterebbe nel dire “il ruolo”) degli Scannabue.

Charlot clown e dandy

Leopoldo [il protagonista di Ricordi di un impiegato di Federigo Tozzi] prende lo spunto dalla facile vittoria ottenuta […], capovolge meccanicamente quella che conosce come la propria inderogabile natura: si esalta all’idea di essere uno spavaldo, un coraggioso, un eroe. Una volta di più si manifesta privo di fantasia, in quell’incessante progetto che per ciascuno è la propria vita; privo di fantasia, perché fantasia vera è creare il nuovo valendosi dei dati di fatto; mentre Leopoldo, con sterile e gratuita e infeconda immaginazione, lavora sul gratuito, sull’inesistente, su ciò che egli non è: “ormai, non temo più di nulla; e spero ch’io mi trovi nella camera nuova a qualche avventura; che mi invidierà tutto il paese. Non potrebbe darsi che qui mi dovessi difendere da qualcuno che tenterà di entrarmi in camera di notte? Non può darsi che io faccia ammirare il mio coraggio dalla padrona? Dovranno dire tutti: come siamo contenti che Leopoldo Gradi è venuto a Pontedera! Se, poi, porterò la moglie qua, le faranno tutti festa. E, per poco, non mi par di vedere la stazione infiorata”. Molti grandi modelli dell’arte moderna sono stati mobilitati nelle recenti rivalutazioni di Tozzi, il quale avrebbe raggiunto risultati analoghi, senza neppure sospettare quelle parentele, spesso precedendo i modelli. Non so tuttavia se sia venuto in mente a qualcuno di accostare l’episodio che abbiamo ora ricordato con una delle più memorabili invenzioni di Chaplin-Charlot nella Febbre dell’oro, un film girato nel 1925, cioè assai posteriore ai Ricordi. È la scena del saloon dei cercatori d’oro, in cui Charlot si trova, per una di quelle incolpevoli coincidenze che fatalmente ricorrono nella sua arte, a dover venire alle mani col gigantesco personaggio del suo antagonista. Naturalmente gli toccherebbe la peggio se una pendola, staccatasi da un cornicione, non piombasse in testa del gigante, facendolo stramazzare. Dopo di che, Charlot passa col sorriso del trionfatore tra gli astanti sorpresi e ammirati. Ma Charlot è un disperato ottimista, o un fidente pessimista: spera sempre che tra le smorfie della sua sorte tapina ci sia anche quella che gli sorrida amica. E poi Charlot crede nel proprio spirito di risorsa, nella destrezza di cui dispone la sua fragilità disarmata, crede nella luce del proprio sorriso, nella propria bontà e amicizia col mondo che, alla fine, è più forte di qualunque sopruso o violenza, perché vale di più. C’è in lui una specie di spiritualità che irradia anche dallo squallore, c’è la fiducia nella propria eleganza e leggerezza. Charlot non si disprezza, perché sa di emanare simpatia, e si vuol bene senza egoismo perché questo volersi bene fa parte della sua benevolenza verso gli uomini e la vita, che si serba indenne nonostante le delusioni e anche quando gli uomini e la vita gli mostrino, come succede quasi sempre, la faccia indifferente od ostile. Perciò nel suo autocompatirsi non si umilia mai, così come nello stupore o gratitudine felice con cui guarda le proprie insperate fortune c’è, dopo tutto, la coscienza tranquilla di avere in qualche modo contribuito a farle succedere, c’è umorismo che non si stravolge mai nell’autolesionismo di un’ironia esercitata contro se stesso. Per Charlot, nella vita possono succedere i miracoli senza bisogno che siano sovvertite le leggi del naturale e del quotidiano. E quando il miracolo non avviene, e lui lo sogna, quel suo sogno, per fantastico che sia, rimane ancora sempre una parabola di qualche cosa che può accadere; che probabilmente anche accadrà, tanto è stato propiziato dalla buona fede, dal sincero e ingenuo abbandono di quel sogno. Perciò i grandi capolavori di questo artista sono fiabe realistiche, dove un personaggio dall’aspetto improbabile, un personaggio in costume tra di clown e di dandy decaduto, eppure quanto mai reale nella sua piena riconoscibilità di uomo, vive avventure che paiono anch’esse improbabili, mentre danno atto delle contraddizioni della nostra società e della

nostra storia, e soprattutto riflettono i vinco1i, i dati di fatto e le possibilità concrete della realtà, che è insieme spietata e meravigliosa. Questo confronto tra una situazione di Charlot e una, esteriormente analoga, dell’impiegato di Tozzi dovrebbe farci capire come il nostro scrittore, portando il suo personaggio a fantasticarsi un capovolgimento trionfale della sua avvilita mediocrità, gli faccia sfiorare un involontaria autonomia (Leopoldo qui non si giudica, gode il momento di euforia, ma nel contesto del racconto si giudica, quindi allinea tutte quelle manchevolezze umane che dovrebbero condurlo a canzonarsi, a ridere di se stesso, allorché si vagheggia eroe e trionfatore), ma non raggiunge quel superiore umorismo che, col suo giocoso volteggiare sulle contraddizioni della vita e dell’uomo, ammette queste contraddizioni e quindi ammette la possibilità che si avveri anche il contrario dello squallore: cioè, lascia una porta aperta al miracolo. Che vuol poi dire quegli aspetti positivi, di cui si integra ogni vicenda umana, anche la più disgraziata: e questo, senza che occorra far intervenire un balordo ottimismo. Ma cogliere la dialettica dei due aspetti, quello positivo e quello negativo, coglierne se non altro il gioco assortito è conoscenza, e in ciò consiste l’arte realistica che è sempre un raggiungimento o, almeno, un procedimento conoscitivo. Il naturalismo, invece, è un procedimento parziale e descrittivo: sia che accetti sia che polemizzi, ritaglia della realtà osservata un aspetto solo; quindi non tende a capirla, ma a celebrarla o a denunciarla. Nel campo della narrativa, si è generalmente scelto la parte della denuncia: ha guardato i vizi, le malattie, le aberrazioni, le grettezze o le magagne degli individui o degli ambienti; in genere ha guardato ciò che va male, senza curarsi di cogliere la controparte o l’antitesi positiva. (Non vogliamo svalutare, naturalmente, l’arte di denunzia, che è la più adeguata, forse la sola possibile nei periodi i profonda trasformazione della realtà: anche l’arte di evasione, o quella che contraddice gli altri aspetti in cui si muove contemporaneamente la storia, sono riconducibili a forme di denunzia oppure a indizi che la denunzia è necessaria). Perché Svevo doveva rimanere per trent’anni in quarantena prima di essere capito? […] In generale, tutte le spiegazioni di una fama ritardata, o addirittura postuma rientrano nello schema (se è lecita un’immagine scherzosa) del signore che finalmente prende l’autobus, dopo averlo aspettato per un tempo interminabile a una fermata, dove forse esso non sarebbe passato mai più. In una simile situazione, i casi sono due: o il signore era talmente lungimirante da essersi messo alla fermata prima ancora che esistesse la linea, nella certezza intuitiva o ragionata che presto o tardi quella linea sarà istituita; oppure sta lì, aspetta passivamente con l’angoscia quasi kafkiana che la linea, datagli per sicura e regolare, nel frattempo e a sua insaputa sia stata soppressa. […] Nel caso di Svevo, invece, si parlerebbe del desolato pedone al quale si offre di sorpresa l’autobus, su cui non contava più. […]. Nei primi tentativi di approccio della critica a Svevo, parecchi parlarono di somiglianze, certamente involontarie, tra Zeno e Charlot, il personaggio di Chaplin. […] L’idea era azzeccata, non tanto per le somiglianze dirette, materialmente riscontrabili, che possano sussistere tra i due personaggi, quanto perché suggeriva che entrambi erano suscitati da una stessa situazione problematica dell’uomo di fronte al senso del proprio destino. Perché entrambi, insomma, si prestano come campioni, come esemplari di indagine per una interpretazione storica, sociologica e culturale che, nei due casi, approda a risultati molto simili o addirittura uguali. Adesso, passati tanti anni, quando ormai Svevo non ha più bisogno dell’aiuto di Chaplin per essere raccomandato alla nostra attenzione, o per essere capito (è chiaro semmai che capirlo consiste, tra l’altro, nel vederlo assai diverso da Chaplin), possiamo benissimo immaginare un’ipotetica comica di Charlot in cui sia sceneggiato e mimato, e proprio come sequenza finale, l’aneddoto dell’autobus con il quale abbiamo cercato di raffigurare quasi allegoricamente la parabola della fortuna di Svevo. In quella comica intitolata, poniamo, Charlot e l’autobus, si vedrebbe appunto il protagonista che, a piedi divaricati nelle scarpe sbadiglianti, appoggiato con un’anca al bastoncino che si inarca, sta lì in

attesa, ogni tanto fa il gesto di estrarsi dal taschino e di consultare l’orologio che non possiede: a un tratto, quando un gigantesco poliziotto per una ragione qualsiasi gli intima di circolare, ecco che passa l’autobus e la piccola folla addensata alla fermata spinge sulla piattaforma anche lui, il piccolo Charlot che, alzato di peso, scalcia nell’aria, poi si allontana rispondendo con uno sberleffo dolce, arguto, ancora sgomento ma già affettuoso, al poliziotto che continua a minacciarlo. Non ho nessuna intenzione, si capisce, di far vivere a Italo Svevo, fine ed elegante signore, la farsa dell’altrettanto, elegante ma sgangherato e cencioso Charlot. Ma nella misura in cui Zeno, la conclusione di Zeno paiono quasi dettati da inconsapevoli presagi autobiografici di ciò che sarebbe ben presto toccato allo scrittore Svevo, questo riferimento a una possibile fiaba charlottiana è abbastanza calzante. Un grande artista, che si è espresso in opere in apparenza del tutto distaccate da ogni contesto autobiografico, da ogni presupposto suo, privato e puramente soggettivo, da ogni presupposto, insomma, che il pubblico ignori; un artista che per di più è attore, e perciò ha potuto presentarsi dietro una maschera, la quale alterava profondamente i suoi tratti naturali, biograficamente, anagraficamente riconoscibili: parlo di Chaplin, ha recentemente pubblicato un’autobiografia. (Parlando di maschera, sì intende che mi riferisco al Chaplin che impersona la figura di Charlot, cioè a quello che ha toccato i più alti, patetici raggiungimenti). Ammettiamolo pure: anche prima di quell’autobiografia, il pubblico aveva appreso, dalla pubblicità e dalla critica, che alcuni tratti del personaggio di Charlot appartenevano al passato dell’uomo Chaplin: da ragazzo, figlio di piccoli attori, aveva conosciuto gli stenti, i vestiti a brandelli, la fame, il vagabondaggio: tutte le strettezze, insomma, per cui ora faceva ripassare il protagonista delle sue comiche e dei suoi film. Charlot per lui era una presenza, ma era anche un ricordo, e questa sua autenticità, questa sua verità vissuta, aggiungevano alla autenticità e verità fantastica, mettevano una nota di più, un’armonica di più nel patetico del suo aspetto e delle sue vicende. Ma i ricordi dal vero che Chaplin trasfondeva in Charlot erano maturati in uno stato d’animo, in un’ispirazione. Oggi, nel leggere l’autobiografia, apprendiamo qualcosa di più sottile, di più particolareggiato e diverso. Leggiamo, per esempio, che da ragazzino, tra tutti gli espedienti per campare la vita nei periodi più neri, mortogli il padre, lontana la madre, reclusa in un ospizio per disturbi mentali, egli tra l’altro si era messo a vendere mazzolini di violette. E allora, come per dissolvenza incrociata, noi vediamo la patita, straziante, dolcissima ragazza cieca del film Luci della città che vende lei pure violette (ad ogni suo apparire sullo schermo, la colonna sonora riprende, come un leitmotiv, la canzonetta della Violetera). Direi che questo è un esempio di come l’autobiografia possa alimentare un racconto, fornendogli tratti che divengono irriconoscibili, si fondono in altre immagini, vicende e figure. Dalla propria identità iniziale, rinata da cronache ormai lontane, traggono solo una forza di stimolo segreto, di commozione inconfessata, quasi inconfessabile, che dà alle nuove immagini una vibrazione, un potere toccante, di cui noi sentiamo l’intensità, ma non sapremmo mai trovare l’origine altro che in loro. Se posso esprimermi con un paradosso, direi che in quelle poetiche utilizzazioni dell’autobiografia, l’artista allude a se stesso, ma non lascia vedere nulla di allusivo. come se, strizzandoci un occhio invisibile, ci si presentasse a occhi aperti, senza una benché minima contrazione dei sopraccigli. Quasi che in obbedienza al monito oraziano del lettore al poeta: si vis me flere, primum tibi flendum, piangi se vuoi far piangere, l’artista sia giunto al pianto che deve farci piangere, con un ricordo privato, soggettivo, che non ha nulla in comune con l’immagine oggettiva dalla quale sono sollecitate ora le nostre lacrime.

Indici

Indice dei film

Accadde una notte (It Happened One Night, F. Capra, 1934) Acciaio (W. Ruttmann, 1933) Addio, giovinezza! (F.M. Poggioli, 1940) Alba tragica (Le jour se lève, M. Carné, 1939) Ali (Wings, W.A. Wellman, 1927) Alì Babà va in città (Alì Baba Goes to Town, D. Butler, 1937) Allegria (Allotria, W. Forst, 1936) Alleluja! (Hallelujah!, K. Vidor, 1929) All’ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front, L. Milestone, 1930) Amanti perduti (Les enfants du paradis, M. Carné, 1945) Amaro tè del generale Yen, L’ (The Bitter Tea of the General Yen, F. Capra, 1933) A me la libertà (À nous la liberté, R. Clair, 1931) Amicizia (O. Biancoli, 1938) Amleto (Hamlet, L. Olivier, 1948) Amitié noire (F. Villiers, G. Krull, 1945) Amore e il diavolo, L’ (Les visiteurs du soir, M. Carné, 1942) Amore tzigano (The Little Minister, R. Wallace, 1934) Angelo (Angel, E. Lubitsch, 1937) Angelo azzurro, L’ (Der blaue Engel, J. von Sternberg, 1930) Angelo bianco, L’ (The White Angel, W. Dieterle, 1936) Anima allegra (R. Roberti, 1919) Anime sul mare (Souls at Sea, H. Hathaway, 1937) Anna Bolena (Anna Boleyn, E. Lubitsch, 1920) Anna Christie (Anna Christie, C. Brown, 1930) Anna Karenina (Love, E. Goulding, 1927) Anna Karenina (Anna Karenina, C. Brown, 1935) Argento vivo (Spitfire, J. Cromwell, 1933) Assalto al treno, L’ (The Great Train Robbery, E.S. Porter, 1903) Assunta Spina (G. Serena, 1915) Atlantide, L’ (Die Herrin von Atlantis, G.W. Pabst, 1932) Bacio, Il (The Kiss, J. Feyder, 1929) Ballerine (G. Machatý, 1936) Bandera, La (La bandera, J. Duvivier, 1935) Bandito della Casbah, Il (Pépé le Moko, J. Duvivier, 1936) Becky Sharp (Becky Sharp, R. Mamoulian, 1935) Berlin (J.J. Rajzman, 1945) Bisbetica domata, La (F.M. Poggioli, 1942) Broadway (Broadway, P. Fejös, 1929) Buona terra, La (The Good Earth, S.A. Franklin, 1937) Cabiria (G. Pastrone, 1914) Cantante di jazz, Il (The Jazz Singer, A. Crosland, 1927) Cantico dei Cantici, Il (The Song of Songs, R. Mamoulian, 1933) Canzone dell’amore, La (G. Righelli, 1930) Canzone di Magnolia, La (Show Boat, J. Whale, 1936) Capanna zio Tom, La (Uncle Tom’s Cabin, H. Pollard, 1927) Capitan Fracassa (D. Coletti, 1940) Capitani coraggiosi (Captains Courageous, V. Fleming, 1937)

Cappello del prete, Il (F.M. Poggioli, 1944) Cappello di paglia di Firenze, Un (Un chapeau de paille d’Italie, R. Clair, 1927) Capriccio spagnolo (The Devil Is a Woman, J. von Sternberg, 1935) Carne e il diavolo, La (Flesh and the Devil, C. Brown, 1927) Carnet di ballo (Un carnet de bal, J. Duvivier, 1937) Casa degli incubi, La (GoupiMains-Rouges, J. Becker, 1943) Catene (Smilin’ Through, S.A. Franklin, 1932) Caterina di Russia (Spielerein einer Kaiserin, V. Strichewsky, 1929) Cavalcata (Cavalcade, F. Lloyd, 1933) Cavalieri della montagna, I (Der Sohn der weissen Berge, M. Bonnard, 1930) Cavalieri del Texas, I (The Texas Rangers, K.Vidor, 1936) Cavalleria (G. Alessandrini, 1936) Cenere (E. Duse, F. Mari, 1916) Čelovek n. 217 (M.I. Romm, 1944) Charlot soldato (Shoulder Arms, Ch. Chaplin, 1918) Chicago (Chicago, F. Urson, 1928) Circo, Il (The Circus, Ch. Chaplin, 1928) Cleopatra (Cleopatra, C.B. DeMille, 1934) Crepuscolo di gloria (The Last Command, J. von Sternberg, 1928) Come tu mi vuoi (As You Desire Me, G. Fitzmaurice, 1932) Conquista del West, La (The Plainsman, C.B. DeMille, 1936) Contessa Alessandra, La (Knight Without Armour, J. Feyder, 1937) Corazzata Potëmkin, La (Bronenosec Potëmkin, S.M. Ejzenštejn, 1926) Corsaro Nero, Il (A. Palermi, 1936) Cortigiana (Susan Lenox: Her Fall and Rise, R.Z. Leonard, 1931) Cose dell’altro mondo (N. Malasomma, 1939) Crisi (Abwege, G.W. Pabst, 1928) Dame aux camélias, La (H. Pouctal, 1911) Damigella di Bard, La (M. Mattoli, 1936) Danza di Venere, La (Dancing Lady, R.Z. Leonard, 1933) David Copperfield (David Copperfield, G. Cukor, 1935) Demone del gioco, Il (La dame de pique, F. Ozep, 1937) Dernier atout (J. Becker, 1942) Desiderio (Desire, F. Borzage, 1936) Desiderio di re (The King Steps Out, J. von Sternberg, 1936) Destino (A Woman of Affairs, C. Brown, 1928) Diavolo è femmina, Il (Sylvia Scarlet, G. Cukor, 1935) Disonorata (Dishonored, J. von Sternberg, 1931) Dolce inganno (Quality Street, G. Stevens, 1937) Dominatore, Il (The Loves of the Dictator, V. Saville, 1934) Don Bosco (G. Alessandrini, 1935) Donna che ama (The Single Standard, J.S. Robertson, 1928) Donna di Parigi, La (A Woman of Paris, Ch. Chaplin, 1923) Donna di platino, La (Platinum Blonde, F. Capra, 1931) Donna divina, La (The Divine Woman, V. Sjöström, 1927) Donna misteriosa, La (The Mysterious Lady, F. Niblo, 1928) Donna nell’ombra, La (The Life of Vergie Winters, A. Santell, 1934) Donna si ribella, Una (A Woman Rebels, M. Sandrich, 1936) Don Cesare di Bazan (R. Freda, 1942) Don Pietro Caruso (E. Ghione, 1916) Dottor Antonio, Il (E. Guazzoni, 1937) Dottor Mabuse, Il (Doktor Mabuse, der Spieler, F. Lang, 1922) Duca di ferro, Il (The Iron Duke, V. Saville, 1934) Due città, Le (A Tale of Two Cities, J. Conway, 1935) Due madri, Le (A. Palermi, 1938) Due mondi (Two Worlds/Zwei Welten/Les deux mondes, E.A. Dupont, 1930)

Due orfanelle, Le (Orphans of the Storm, D.W. Griffith, 1921) È arrivata la felicità (Mr. Deeds Goes to Town, F. Capra, 1936) Eclisse, L’ (M. Antonioni, 1962) Edera, L’ (A. Genina, 1949) Ektase (G. Machatý, 1933) Entr’acte (R. Clair, 1924) Equipaggio, L’ (L’équipage, A. Litvak, 1935) Eravamo 7 sorelle (N. Malasomma, 1937) Eroi del deserto, Gli (Hell’s Heroes, W. Wyler, 1930) Eskimo (S.M. Van Dyke, 1933) Falbalas (J. Becker, 1945) Falena d’argento (Cristopher Strong, D. Arzner, 1933) Famiglia Barrett, La (The Barretts of Winpole Street, S.A. Franklin, 1934) Famiglia Gibson, La (This Happy Breed, D. Lean, 1944) Fanciulla d’Amalfi, La (R. Roberti, 1921) Fanciulla di Portici, La (M. Bonnard, 1940) Fantasma galante, Il (The Gost Goes West, R. Clair, 1935) Febbre dell’oro, La (The Gold Rush, Ch. Chaplin, 1925) Febbre di vivere (A Bill of Divorcement, G. Cukor, 1932) Fedora (G. de Liguoro, 1916) Feroce Saladino, Il (M. Bonnard, 1937) Figaro e la sua gran giornata (M. Camerini, 1931) Figliol prodigo, Il (Der verlorene Sohn, L. Trenker, 1934) Filibustieri, I (The Buccaneer, C.B. DeMille, 1938) Finalmente una donna! (Petticoat Fever, G. Fitzmaurice, 1936) Folla, La (The Crowd, K. Vidor, 1928) Follie di Broadway (Broadway Melody of 1938, R. Del Ruth, 1937) Follie di Broadway 1936 (Broadway Melody of 1936, R. Del Ruth, 1935) Fortunale sulla scogliera (Cape Forlorn/Menschen im käfig/Le cap perdu, E.A. Dupont, 1931) Fossa degli angeli, La (C.L. Bragaglia, 1936) Fra Diavolo (The Devil’s Brother, H. Roach, Ch. Rogers, 1933) Fratelli Castiglioni, I (C. D’Errico, 1937) Fuoco liquido (Exclusive Story, G. A. Seitz, 1936) Futurismo (L’Inhumaine, M. L’Herbier, 1924) Gelosia (F.M. Poggioli, 1942) Generale Crack, Il (General Crack, A. Crosland, 1930) Giardino di Allah, Il (The Garden of Allah, R. Ingram, 1928) Giardino di Allah, Il (The Garden of Allah, R. Boleslawski, 1936) Gioco pericoloso (N. Malasomma, 1942) Giorno alle corse, Un (A Day at the Races, S. Wood, 1937) Giovanna d’Arco (Das Mädchen Johanna, G. Ucicky, 1935) Giulietta e Romeo (Romeo and Juliet, G. Cukor, 1936) Gloria del mattino (Morning Glory, L. Sherman, 1933) Grande Caterina, La (Catherine the Great, P. Czinner, 1934) Grande dittatore, Il (The Great Dictator, Ch. Chaplin, 1940) Grande parata, La (The Big Parade, K. Vidor, 1925) Grande sentiero, Il (The Big Trail, R. Walsh, 1930) Grand Hotel (Grand Hôtel, E. Goulding, 1932) Gran Gabbo, Il (The Great Gabbo, J. Cruze, 1929) Harlem (C. Gallone, 1943) Ho ucciso! (Crime and Punishment, J. von Sternberg, 1935)

Immortale leggenda, L’ (L’éternel retour, J. Delannoy, 1943) Immortale vagabondo, L’ (Der unsterbliche Lump, G. Ucicky, 1930) Impareggiabile Godfrey, L’ (My Man Godfrey, G. La Cava, 1936) Imperatore della California, L’ (Der Kaiser von Kalifornien, L. Trenker, 1936) Imperatrice Caterina, L’ (The Scarlet Empress, J. von Sternberg, 1934) Intolerance (Intolerance, D.W. Griffitth, 1916) Istruttoria (Voruntersuchung, R. Siodmak, 1931) Kascej l’immortale (Kascej Bessmertnyj, A. Rou, 1944) Katusha (Resurrection, E. Carewe, 1931) Kermesse eroica (La kermesse héroïque/Die kluge Frauen, J. Feyder, 1936) Labbra sognanti (Dreaming Lips, P. Czinner, 1937) Ladro di Bagdad, Il (The Thief of Bagdad, R. Walsh, 1924) Ladro di Bagdad, Il (The Thief of Bagdad, L. Berger, M. Powell, T. Whelan, 1940) Lady Hamilton (That Hamilton Woman, A. Korda, 1941) Leggenda di Gösta Berling, La (Gösta Berlings Saga, M. Stiller, 1923) Lenin v 1918 godu (M.I. Romm, 1939) Lord Fauntleroy (Little Lord Fauntleroy, J. Cromwell, 1936) Luana, la vergine sacra (Bird of Paradise, K. Vidor, 1932) Luci della città (City Lights¸ Ch. Chaplin, 1931) Maciste all’inferno (G. Brignone, 1926) Mademoiselle Docteur (Mademoiselle Docteur, G.W. Pabst, 1936) Ma l’amor mio non muore! (M. Caserini, 1913) Malìa (A. De Antoni, 1917) Mancia competente (Trouble in Paradise, E. Lubitsch, 1932) Mar dei Sargassi, Il (The Isle of Lost Ships, I.V. Willat, 1929) Mare Nostrum (Mare Nostrum, R. Ingram, 1926) Margherita Gauthier (Camille, G. Cukor, 1936) Maria di Scozia (Mary of Scotland, J. Ford, 1936) Marocco (Morocco, J. von Sternberg, 1930) Mascherata (Maskerade, W. Forst, 1934) Mata Hari (Mata Hari, G. Fitzmaurice, 1931) Mazurka di papà (O. Biancoli, 1938) Mazurka tragica (Mazurka, W. Forst, 1935) Mičurin (A.P. Dovženko, 1949) Missione pericolosa (Eskapade, E. Waschneck, 1936) Modella, La (Inspiration, C. Brown, 1931) Modern Hero, A (G.W. Pabst, 1934) Monello, Il (The Kid, Ch. Chaplin, 1921) Montagna dell’amore, La (Der heilige Berg, A. Fanck, 1926) Mostro del mare, Il (The Sea Beast, M. Webb, 1926) Nanuk l’eschimese (Nanook of the Nord, R.J. Flaherty, 1922) Napoléon (A. Gance, 1927) Napoli che canta (M. Almirante, 1930) Nave degli uomini perduti, La (Das Schiff der verlorenen Menschen/La navire des hommesperdus/The Ship of Lost Men, M. Tourneur, 1929) Nelly la gigolette (E. Ghione, 1914) Nibelunghi, I (Die Nibelungen, F. Lang, 1924) Nona sinfonia, La (Schlussakkord, D. Sierck, 1936) Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, F. W. Murnau, 1922) Nostro pane quotidiano (Our Daily Bread, K.Vidor, 1934) Nozze vagabonde (G. Brignone, 1936)

Odette (G. de Liguoro, 1916) O la borsa o la vita (C.L. Bragaglia, 1932) Ombre bianche (White Shadows in the South Seas, R.J. Flaherty, W.S. Van Dike, 1928) Opera da tre soldi, L’ (Die Dreigroschenoper, G.W. Pabst, 1931) Orchidea selvaggia (Wild Orchidis, S.A. Franklin, 1929) Or du Cristobal, L’ (J. Stelli, J. Becker, 1940) Orizzonte perduto (Lost Horizon, F. Capra, 1937) Oro della Cina, L’ (The General Died to Down, L. Milestone, 1936) Paradiso (G. Brignone, 1932) Paradiso delle fanciulle, Il (The Great Ziegfeld, R.Z. Leonard, 1936) Paradiso in fiore (Evergreen, V. Saville, 1934) Parnell (Parnell, J.M. Stahl, 1937) Partire (A. Palermi, 1938) Partita a quattro (Design for Living, E. Lubitsch, 1933) Passione di Giovanna d’Arco, La (La Passion de Jeanne d’Arc, C. Th. Dreyer, 1928) Pattuglia dei senza paura, La (G Men, W. Keighley, 1935) Pattuglia di frontiera (The Border Patrolman, D. Howard, 1936) Pattuglia sperduta, La (The Lost Patrol, J. Ford, 1934) Pel di carota (Poil de carotte, J. Duvivier, 1932) Pellegrino, Il (The Pilgrim, Ch. Chaplin, 1923) Perle della corona, Le (Les perles de la couronne, S. Guitry, 1937) Per le vie di Parigi (Quatorze Juillet, R. Clair, 1932) Piccole donne (Little Women, G. Cukor, 1933) Pietro il vagabondo (Luffar-Petter, E.A. Petschler, 1922) Pioggia (Rain, L. Milestone, 1932) Pionieri del West, I (Cimarron, W. Rugglers, 1931) Prateria in fiamme, La (Battling white Buffalo Bill, R.G. Taylor, 1931) Prigioniero di Santa Cruz, Il (C.L. Bragaglia, 1941) Prigioniero di Zenda, Il (The Prisoner of Zenda, R. Ingram, 1921) Primo amore (Lonesome, P. Fejös, 1928) Primo amore (Alice Adams, G. Stevens, 1935) Principe e il povero, Il (The Prince and the Pauper, W. Keighley, 1937) Processo Clemenceau, Il (E. Bencivenga, 1918) Quando si ama (Break of Hearts, Ph. Moeller, 1935) Quando una donna ama (Riptide, E. Goulding, 1934) Quattro cavalieri dell’Apocalisse, I (The Four Horsemen of the Apocalypse, R. Ingram, 1921) Quattro diavoli, I (Four Devils, F. W. Murnau, 1928) Quattro moschettieri, I (C. Campogalliani, 1936) Quo vadis? (E. Guazzoni, 1912) Quo vadis? (G. Jacoby, G. D’Annunzio, 1924) Ragazze in uniforme (Mädchen in Uniform, L. Sagan, 1931) Regina Cristina, La (Queen Cristina, R. Mamoulian, 1933) Regina di Navarra, La (C. Gallone, 1942) Re dei re, Il (The King of Kings, C.B. DeMille, 1927) Re del Jazz, Il (The King of Jazz, J. M. Anderson) Rivalità eroica (Today We Live, H. Hawks, 1933) Rivincita di Barbara Worth, La (The Winning of Barbara Worth, H. Bell Wright, 1926) Rivincita di Clem, La (The Good Old Soak, W. Ruben, 1937) Roma città aperta (R. Rossellini, 1945) Romanzo (Romance, C. Brown, 1930) Rubacuori (G. Brignone, 1931) Sally (Sally, J.F. Dillon, 1930) Salto mortale (Salto mortale, E.A. Dupont, 1931)

San Francisco (San Francisco, W. S. Van Dyke, 1936) Sangue bleu (N. Oxilia, 1914) Sangue sulla sabbia (Trinadčat’, M.I. Romm, 1936) Saratoga (Saratoga, J. Conway, 1937) Scaramouche (Scaramouche, R. Ingram, 1923) Scarface (Scarface, Shame of a Nation, H. Hawks, 1932) Scrooge (H. Edwards, 1936) Segretaria privata, La (G. Alessandrini, 1931) Segreto dei candelabri, Il (Die Leuchter des Kaisers, K. Hartl, 1936) Sei mogli di Enrico VIII, Le (The Private Life of Henry VIII, A. Korda, 1933) Sentiero del pino solitario, Il (The Trail of the Lonesome Pine, H. Hathaway, 1936) Sentinelle di bronzo (R. Marcellini, 1937) Shangai Express (Shangai Express, J. von Sternberg, 1932) Show Boat (H.A. Pollard, 1929) Signora dalle camelie, La (Camille, F. Niblo, 1927) Signora dalle camelie, La (Camille, R.C. Smallwood, 1921) Signora dalle camelie, La (G. Serena, 1915) Signora per un giorno (Lady for a Day, F. Capra, 1933) Signorina Chicchirichì, La (E. Perego, 1928) Signorina dell’autobus, La (N. Malasomma, 1933) Signor Max, Il (M. Camerini, 1937) Sinfonia dei briganti, La (The Robber Symphony, F. Feher, 1935) Sotto due bandiere (Under Two Flags, F. Lloyd, 1936) Sotto i ponti di New York (Winterset, A. Santell, 1936) Spirito allegro (Blithe Spirit, D. Lean, 1945) Squadrone bianco (A. Genina, 1936) Stasera alle 11 (O. Biancoli, 1937) Stella del cinema, La (M. Almirante, 1931) Stingari, il bandito sentimentale (Stingaree, W.A. Wellman, 1934) Strettamente confidenziale (Broadway Bill, F. Capra, 1934) Studente di Praga, Lo (Der Student von Prag, H. Galeen, 1926) Tabù (Tabu, R. J. Flaherty, F. W. Murnau, 1931) T’amerò sempre (M. Camerini, 1943) Tartufo (Tartüff, F.W. Murnau, 1925) Tempi moderni (Modern Times, Ch. Chaplin, 1936) Tentatrice, La (The Temptress, F. Niblo, 1926) Terra trema, La (L. Visconti, 1948) Testamento del dottor Mabuse, Il (Das Testament des Dr. Mabuse, F. Lang, 1933) Torrente, Il (The Torrent, M. Bell, 1926) Tosca (A. De Antoni, 1918) Traditore, Il (The Informer, J. Ford, 1935) Tragedia del Bounty, La (Mutiny on the Bounty, F. Lloyd, 1935) Tragedia della miniera, La (Kameradschaft/La tragédie de la mine, G. W. Pabst, 1931) Tre moschettieri, I (Les trois mousquetaires, H. Diamont-Berger, 1933) Tre moschettieri, I (Les trois mousquetaires, H. Diamont-Berger, H. Andréani, 1921) Tre rose rosse (The Feather, L.S. Hiscott, 1929) Tristi amori (C. Gallone, 1943) Tutti per uno! (The Leatherneck, H. Higging, 1929) Ultima compagnia, L’ (Die letzte Kompagnie, C. Bernhardt, 1930) Ultimo ballo, L’ (C. Mastrocinque, 1941) Ultimo Eden, L’ (Moana, R. J. Flaherty, 1926) Uomini, che mascalzoni…, Gli (M. Camerini, 1932) Uomo di Aran, L’ (Man of Aran, R. J. Flaherty, 1934) Uomo tra le fiamme, L’ (Der Mann im Feuer, E. Waschneck, 1926)

Valle della sete, La (When a Man’s a Man, E. Cline, 1935) Varieté (Varieté, E.A. Dupont, 1925) Vedova allegra, La (The Merry Widow, E. Lubitsch, 1934) Velo dipinto, Il (The Painted Veil, R. Boleslawsky, 1934) Venere bionda (Blonde Venus, J. von Sternberg, 1932) Vienna di Strauss (Waltzes from Vienna, A. Hitchcock, 1933) Via senza gioia, La (Die freudlose Gasse, G.W. Pabst, 1925) Vie della città, Le (City Streets, R. Mamoulian, 1931) Vigilia d’armi (Veillée d’armes, M. L’Herbier, 1935) Vinti, I (Traumulus, C. Froelich, 1936) Vita da cani (A Dog’s Life, Ch. Chaplin, 1918) Vita del dottor Pasteur, La (The Story of Louis Pasteur, W. Dieterle, 1935) Vita di un pompiere americano (Life of an American Fireman, E.S. Porter, 1903) Vita e la Passione di Gesù Cristo, La (La Vie et la Passion de Jésus Christ, L. Lumière, 1897) Voglio vivere con Letizia (C. Mastrocinque, 1937) Voyage au Congo (M. Allégret, 1927)

Indice dei nomi

Adorée, Renée Alberti, Guglielmo, pseud. di Guglielmo Mori Ubaldini degli Alberti della Marmora Alcott, Louisa May Alessandrini, Goffredo Alfieri, Vittorio Alicata, Mario Alighieri, Dante Allégret, Marc,22 Almirante Manzini, Italia Almirante, Mario Álvarez Quintero, Joaquín Álvarez Quintero, Serafín Alvaro, Corrado Amidei, Sergio Andersen, Hans Christian Anderson, John Murray Andreose, Mario Annabella, nome d’arte di Suzanne Charpentier Antonioni, Michelangelo Aquarone, Bartolomeo Arbasino, Alberto Arbuckle, Roscoe, detto Fatty Argan, Giulio Carlo Ariosto, Ludovico Aristarco, Guido Aristofane Arletty, nome d’arte di ArletteLéonie Bathiat Arnheim, Rudolph Arthur, Jean Asther, Nils Aumont, Jean-Pierre Autera, Leonardo Bacchelli, Riccardo Baghetti, Tullia Bagni, Margherita Bálazs, Béla Baldacci, Luigi Baldini, Antonio Balin, Mireille Balzac, Honoré de Bánky, Vilma, nome d’arte di Vilma Koncsics Barbaro, Umberto Bardi, Pietro Maria Barilli, Bruno Barnabò, Guglielmo Barrymore, John, nome d’arte di John Sidney Blyth Barrymore, Lionel, nome d’arte di Lionel Herbert Blyth Bartholomew, Freddie Baudelaire, Charles

Bazlen, Roberto Beato Angelico, Guido di Pietro detto Becker, Jacques Beckett, Samuel Beery, Wallace Beethoven, Ludwig van Bell, Monta Benedetti, Arrigo Bennet, Constance Bennet, Joan Benoît, Pierre Berardinelli, Alfonso Bercovici, Conrad Berger, Ludwig, nome d’arte di Ludwing Bamberger Bergner, Elisabeth Bergson, Henri Berlioz, Hector Bernhard, Ernst Bernhardt, Sarah, nome d’arte di Henriette-Rosine Bernard Bernstein, Henry Berry, Jules Bertini, Francesca, nome d’arte di Elena Seracini Vitiello Besozzi, Nino Biagini, Ada Biancini, Ferruccio Bianchi Bandinelli, Ranuccio Biancoli, Oreste Blanchar, Pierre Blanche, Jacques-Emile Boleslawski, Richard Bonaparte, Napoleone Bonnard, Mario Bontempelli, Massimo Borelli, Lyda Borghesi, Angela Borsellino, Nino Borzage, Frank Bosco, Giovanni Boswell, Jessie Botticelli, Sandro Filipepi detto Bourget, Paul Bow, Clara Boyer, Charles Braccini, Lola Bragaglia, Anton Giulio Bragaglia, Carlo Ludovico Braggiotti, Francesca Brandi, Cesare Breschi, Giancarlo Brignone, Guido Bronzino Agnolo di Cosimo detto Brook, Clive Brown, Clarence Bruegel, Pieter il Vecchio Bruegel, Pieter il Giovane Brunetta, Gian Piero Buck, Pearl, nata Sydenstricker

Buffalo Bill, William Friedrick, Cody detto Buffon, Georges-Louis Leclerc conte di Byrell, Tala Camasio, Sandro Camerini, Mario Campogalliani, Carlo Camus, Albert Cantoni, Remo Cantor, Eddie Canudo, Ricciotto Capra, Frank Capuana, Luigi Carewe, Edwin Carlo XII, re di Svezia Carlo VIII, re di Francia Carné, Marcel Carocci, Alberto Caruso, Enrico Casorati, Felice Cassirer, Ernst Cavalcanti, Alberto Cecchi, Emilio Čechov, Anton Pavlovi Cervi, Gino Ceseri, Ugo Chamberlain, Joseph Chaplin, Charles Spencer detto Charlie Charlot, vedi Charlie Chaplin Chenal, Pierre Chessa, Gigi Chiarelli, Luigi Chiarini, Luigi Ciano, Galeazzo Ciapini, Rina Ciocchetti, Marcello Citton, Giuliana Clair, René Cleopatra VII, regina d’Egitto Cline, Eddie Cocteau, Jean Colette Sidonie-Gabrielle Coletti, Duilio Collo, Alberto Colman, Ronald Consiglio, Alberto Contini, Gianfranco Conway, Jack Cooper, Fenimore James Cooper, Frank James detto Gary Copeau, Jacques Cortez, Ricardo Costa, Romolo Costello, Dolores Coward, Noel Craig, Edward Gordon Crawford, Joan, nome d’arte di Lucille Fay Lesuer Cristina di Svezia Croce, Benedetto

Crosland, Alan Cromwell, Oliver Cruze, James Cukor, George Cumming, Constance Czinner, Paul Dagover, Lil, nome d’arte di Martha Maria Lilitts Daguerre, Louis-Jacques-Mande Dalma, Rubi, nome d’arte di Giusta D’Aloia, Adriano D’Amico, Fedele D’Ancora, Maurizio, nome d’arte di Rodolfo Gucci D’Annunzio, Gabriele D’Anzi, Giovanni David, Michel De Beauvoir, Simone De Benedetti, Aldo Debenedetti, Antonio Debenedetti, Marco Edoardo De Céspedes, Alba De Chirico, Giorgio De Feo, Luciano De Laude, Silvia Del Rio, Dolores Delannoy, Jean Delluc, Louis De Marchi, Emilio De Martino, Ernesto DeMille, Cecil Blount Denis, Maria, nome d’arte di Maria Esther Beomonte De Putti, Lya De Sanctis, Francesco De’ Giorgi, Elsa De Sica, Vittorio De Stefani, Alessandro Dieterle, William Dietrich, Marie Magdalena detta Marlene Dillon, John Francis Di Marzio, Cornelio Disney, Walt Donatello, Donato di Niccolò di Betto Bardi detto Dos Passos, John R. Dove, Billie Dressler, Mary Dreyer, Carl Theodor Du Bos, Charles Dulac, Germaine, nome d’arte di Germaine Saisset-Schneider Dumas, Alexandre Dumas, Alexandre fils Duncan, Isadora Dupont, Ewald André Duse, Eleonora Duvivier, Julien Edison, Thomas Alva Egger-Linz, Albin Eggerth, Marta

Eisner, Lotte Ejzenštejn, Sergej Michailovič Eldridge, Florence Elisabetta I Tudor, regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda Ellington, Duke Enrico VIII, re d’Inghilterra e Irlanda Epstein, Jean Eschilo Fairbanks, Douglas, nome d’arte di Douglas Elton Ullman Falconi, Dino Faldini, Franca Falena, Ugo Fanck, Arnold Farkas, Akos Farrère, Claude Faulkner, William Feher, Friedrich Fejös, Pál Fellini, Federico Ferrari, Mario Ferrari, Paolo Ferrieri, Enzo Feyder, Jacques, nome d’arte di Jacque Frédérix Fitzmaurice, George Flaherty, Robert Joseph Flaubert, Gustav Fleming, Victor Flynn, Errol Fofi, Goffredo Ford, John Forst, Willy Forster, Edward Morgan Fortini, Franco Foscolo, Ugo, France Anatole Francen, Victor Franci, Adolfo Frandini, Paola Franklin, Sidney Arnold Freda, Riccardo Freddi, Luigi Freud, Sigmund Freund, Karl Fröhlich, Gustav Gable, Clark Gadda Conti, Piero Galante, Nicola Galli, Augusto Galli, Dina Galli, Rosina Gallone, Carmine Gallone, Soava, nome d’arte di Stanislava Winaver Gance, Abel Gandusio, Antonio Garbo, Greta, nome d’arte di Greta

Garboli, Cesare Gatti, Guido Maggiolino Gauguin, Paul Gaynor, Janet, nome d’arte di Laura Augusta Gainor Genina, Augusto Gentile, Giovanni Gerbi, Antonello Gerbi, Sandro Ghedini, Giorgio Federico Ghenzi, Sandro Gherardi, Gherardo Ghidetti, Enrico Ghione, Emilio Gide, André Gilbert, John, nome d’arte di John Cecil Pringle Ginzburg, Natalia Giorgio V, re di Gran Bretagna e Irlanda Gish, Lilian Gloria, Leda, nome d’arte di Leda Nicoletti Data Gobetti, Piero Goethe, Johann Wolfgang Goldoni, Carlo Gómez de la Serna, Ramón Gor’kij, Maxim Gotta, Salvator Gozzoli, Benozzo Gramatica, Emma Gramsci, Antonio Grigorieva, Galina Griffith, David Wark Gromo, Mario Gualino, Riccardo Guazzoni, Enrico Guitry, Sacha Gundolf, Friederich Gustafsson, Karl Alfred Gys, Leda Hammond, Kay Händel, Georg Friedrich Hanson, Lars Hardy, Oliver Harlow, Jean Harrison, Rex Hartl, Karl Hathaway, Henry Hecht, Ben Heisenberg, Werner Karl Hepburn, Katharine Hesperia, nome d’arte di Olga Mambelli Higgins, Howard Hiscott, Leslie Stephenson Hitchcock, Alfred Hitler, Adolf Hodler, Ferdinand Hoepli, Ulrico

Holbein Hans il Giovane Honegger, Arthur Hopkins Adams, Samuel Howard, David Husserl, Edmund Huxley, Aldous Ingram, Rex Jacobini, Diomira Jacobini, Maria Jannings, Emil, nome d’arte di Theodor Friedrich Emile Janenz Jaspers, Karl Jona, Emilio Joyce, James Jung, Carl Gustav Kafka, Franz Kalmus, Natalie Kaplan, Fanny Karenne, Diana Karloff, Boris, nome d’arte di William Henry Pratt Karno, Fred, nome d’arte di Frederick John Westcott Keighley, William Kerényi, Carlo Kessel, Joseph Kipling, Rudyard Joseph Klee, Paul Klimt, Gustav Korda, Alexander, nome d’arte di Sándor László Kellner Korda, Vincent, nome d’arte di Vincent Kellner Korda, Zoltán, nome d’arte di Zoltán Korda Krull, Germaine Kuz’mina, Jelena La Cava, Gregory Lagerlöf, Selma Landi, Elissa Lang, Fritz Lang, Lotus Lante, Diana, nome d’arte di Diana Lante Della Rovere Lattanzi, Tina Laughton, Charles Laurel, Stan Lavedan, Henri Lean, David Lehár, Franz Leigh, Vivien Lenin, Nikolaj, pseudonimo di Vladimir Il’ič Ul’janov Leopardi, Giacomo Leroux, Gaston Levi, Carlo Lévi-Strauss, Claude Leyda, Jay L’Herbier, Marcel Linder, Max Liona, Emma

London, Jack Listz, Franz Litvak, Anatole, nome d’arte di Mikhail Anatol Litwak Lloyd, Frank Lloyd, Harold Lodge, John Louӱs, Pierre Loy, Myrna Lubitsch, Ernst, l Luciani, Sebastiano Arturo Lukács, György Lynen, Robert MacDonald, Jeanette Machatý, Gustav MacMurray, Fred MacOrlan, Pierre Maffi, Bruno Magnetti, Adelina Malaparte, Curzio Malasomma, Nunzio Malipiero, Gian Francesco Mallarmé, Stéphane Malraux, André Mamoulian, Rouben Mann, Thomas Mansfield, Katherine Mantegna, Andrea Manuel, Roland Manzini, Gianna Manzoni, Alessandro Marais, Jean Marcacci, Augusto Marcellini, Romolo March, Fredric Margadonna, Ettore Maria Mari, Febo Marshall, Herbert Martin du Gard, Roger Marx, Chico Marx, Harpo Marx, Groucho Masetti, Enzo Mastrocinque, Camillo Massis, Henri Mata Hari, pseud. di Margaretha Geertruida Zelle Matisse, Henri Matsuoka, Yōsuke Mauch, Billy Maupassant, Guy de May Wong, Anna McKinney, Mina McLaglen, Victor Meccoli, Domenico Melnati, Umberto Menichelli, Pina

Menzio, Francesco Merkel, Una Merleau-Ponty, Maurice Merlini, Elsa Michelstaedter, Carlo Milano, Paolo Milestone, Lewis Milhaud, Darius Mix, Thomas Edwin detto Tom Molière, pseud. di Jean-Baptiste Poquelin Mondadori, Alberto Mondo, Lorenzo Montaigne Michel Eyquem de Montale, Eugenio Montgomery, Robert Moore, Grace Morand, Paul Morante, Elsa Moravia, Alberto, pseud. di Alberto Pincherle Muni, Paul Murat, Jean Murnau, Friedrich Wilhelm, pseud. di Friedrich Wilhelm Plumpe Murolo, Ernesto Musco, Angelo Mussolini, Benito Mussolini, Vittorio Nabucodonosor II, re di Babilonia Naldi, Nita Napolitano, Gian Gaspare Nazimova, Alla, nome d’arte di Allah Orleney Nazimov Nazzari, Amedeo, nome d’arte di Salvatore Amedeo Buffa Negri, Pola, nome d’arte di Barbara Apolonia Chalupiec Nelson, Horatio Niblo, Fred, nome d’arte di Fredrick Liedtke Nielsen, Asta Nietzsche, Friedrich Wilhelm Noris, Assia, nome d’arte di Anastasia Noris von Gerzfeld Noventa, Giacomo, pseud. di Giacomo Ca’Zorzi Olivier, Laurence Olsen, Moroni Ophuls, Max, nome d’arte di Maximilian Oppenheimer Orengo Debenedetti, Renata Orlandini, Lia O’Sullivan, Maureen Otero, Carolina Otto, Fred Oxilia, Nino Ozep, Fëdor Aleksandrovi Pabst, Georg Wilhelm Padoa, Clara Pagnani, Andreina Palazzeschi, Aldo Palermi, Amleto

Pallavicini, Sandro Pancrazi, Pietro Panicali, Giulio Pannunzio, Mario Paolella, Domenico Parlo, Dita Parnell, Charles Stewart Pascoli, Giovanni Pasinetti, Francesco Pasolini, Pier Paolo Pasteur, Louis Pastrone, Giovanni Pater, Walter Paulucci, Enrico Pavese, Cesare Pavolini, Corrado Pedullà, Walter Pellico, Silvio Perego, Eugenio Petrolini, Ettore Petrovich, Ivan Petschler, Erik Arthur Pettinelli, Amilcare Piave, Francesco Maria Picasso, Pablo Piero della Francesca Pilotto, Camillo Pirandello, Luigi Pitoëff, Georges Pittaluga, Stefano Podrecca, Vittorio Poe, Edgar Allan Poggioli, Ferdinando Maria Porter, Edwin Stanton Powell, Michael Pratella, Balilla Praz, Mario Préjean, Albert Prévert, Jacques Prince, Charles Printemps, Yvonne Proust, Marcel Pseudo-Longino Puccini, Gianni Pudovkin, Vsevolod Illarionovič Puškin, Aleksandr Sergeevič Quilici, Nello Radiguet, Raymond Raft, George Ragghianti, Carlo Ludovico Raimondi, Ezio Rainer, Luise Rajzman, Julij Jakovlevi Ravel, Maurice

Reinhardt, Max Renard, Jules Renoir, Jean Repaci, Leonida Ricci, Renzo Richelieu, Armand-Jean du Plessis duca di Ridolini, vedi Larry Semon Riefenstahl, Leni Righelli, Gennaro Ring, Ragnar Roach, Hal Robbe-Grillet, Alain Roberti, Roberto, nome d’arte di Vincenzo Leone Rogers, Charles Romagnosi, Gian Domenico,18 Romm, Michail Il’ič Rossellini, Roberto Rou, Alexander Ruffini, Giovanni Ruffini, Sandro Runyon, Damon Ruskin, John Russolo, Luigi Ruttmann, Walter Saba, Umberto Sacchi, Filippo Sacerdote, Emanuele F. Salgari, Emilio Salvatorelli, Luigi Sanguineti, Tatti Santell, Alfred Sartre, Jean-Paul Saville, Victor Savini, Luigi Savinio, Alberto Savio, Francesco, pseud. di Francesco Pavolini Scheiwiller, Vanni Schirato, Franco Sciascia, Leonardo Scotto, Giovanna Segre, Cesare Serena, Gustavo Sereni, Vittorio Shakespeare, William Shaw, George Bernard Shearer, Norma Sierck, Detlef Signoret, Gabriel Simenon, Georges Simoneschi, Lydia Siodmak, Robert Siti, Walter Sjöström, Victor Solmi, Sergio

Sologne, Madeleine, nome d’arte di Madeleine Simone Vouillon Squarzina, Luigi Stagno Bellincioni, Bianca Stahl, John M., nome d’arte di Jacob Strelitzky Stalin, Iosif Visarionovič Džugašvili detto Sten, Anna, nome d’arte di Anel Sudakevi Sternberg, Josef von Stevens, George Stevenson, Robert Louis Stiller, Mauritz 156 Stolyarov, Sergei Strauss, Johann Stravinskij, Igor Strichewsky, Vladimir Stroheim, Erich von Suarés, André Sudermann, Hermann Sullavan, Margaret Suter, Johann August Svevo, Italo Taine, Hippolyte Talmadge, Norma Taylor, Ray G. Tamagno, Francesco Tellini, Piero Terry, Alice Thalberg, Irving Thibaudet, Albert Thiele, Hertha Tintoretto Tofano, Sergio Tolstoj, Lev Nikolaevi Tommaseo, Niccolò Tone, Franchot Tordi, Rosita Torres, Raquel Toscanini, Arturo Tourneur, Maurice, nome d’arte di Maurice Félix Thomas Tozzi, Federigo Tracy, Spencer Trenker, Luis Turgenev, Ivan Sergeevi Twain, Mark, pseud. di Samuel Langhorne Clemens Ucicky, Gustav Ungaretti, Giuseppe Urson, Frank Valentino, Rodolfo, nome d’arte di Rodolfo Guglielmi Valeri, Diego Valéry, Paul Valli, Alida Van Dyke, Woodbridge S. Vanel, Charles Veidt, Conrad

Vélez, Lupe, nome d’arte di María Guadalupe Vélez de Villalobos Venturi, Lionello Vercors, pseud. di Jean Bruller Verdi, Giuseppe Verga, Giovanni Vergani, Vera Verratti, Ciro Very, Pierre Vidor, King Vigolo, Giorgio Villier,s François Vitiello, Arturo Vitti, Monica, nome d’arte di Maria Luisa Ceciarelli Vittoria, regina di Gran Bretagna e Irlanda Vittorini, Elio Viviani, Raffaele Vorošilov, Kliment Efremovič Young, Loretta Wagner, Richard Warner, Albert Warner, Harry Warner, Jack Warner, Sam Waschneck, Erich Webb, Millard Wellman, William Augustus Wesendonk, Mathilde West, Mae Whelan, Tim Wilcock, Rodolfo Juan Willat, Irving V. Wilson, Edmund Wright Mills, Charles Wyler, William Zacconi, Ermete Zambuto, Gero Zavattini, Cesare, Zimmer, Bernard Zola, Émile Zukor, Adolph Zukov, Georgij Konstantinovič Zweig, Stefan