Il cinema di Giuseppe De Santis tra passione e ideologia 8879230972, 9788879230971

Cinema

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Italian Pages 205 [210] Year 1983

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Il cinema di Giuseppe De Santis tra passione e ideologia
 8879230972, 9788879230971

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©1983 Codino  editore  s.r.l. casella postale  6225 00100 Roma

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Antonio Parisi

IL CINEMA DI GIUSEPPE DE SANTIS TRA PASSIONE E IDEOLOGIA

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Fotocomposizione  ed  impaginazione : Co/i/Vonrographic,  viale  Vittorio Emanuele IH, 41 ­ Fondi

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a mio padre

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INDICE SOMMARIO 11

Gli anni di formazione Ciociaria come un 'infanzia.  Tra scapigliatura e impegno. Il retroterra realistico.

21

L'esperienza di «Cinema» Tra  vecchio  e nuovo  Continente.  Critica e progettualità.  Il  "formalismo dei rondiani". L'"altro" cinema.

36

Tappe di un apprendistato Tra Ossessione e Desiderio.  G.A.P..  Giorni di gloria. Il sole sorge ancora.

47

Temi e stilemi

70

Lotta di classe e utopia rivoluzionaria: la prima trilogia della terra

La  terra.  Eros e socialità.  Il cinema e altri  "media". La  cultura  contadina.

// clima culturale.  Le lotte contadine.  Tra passione e ideologia. Caccia tragica (1947). Riso amaro (1949). Non c'è pace tra gli ulivi (1950).

105

Tra ricostruzione e restaurazione: gli anni cinquanta

116

La città: mercificazione e catastrofe

Clericalismo  e guerra fredda.  Profittatori,  censori e invasione hollywoodiana.  Crepuscolo  del neorealismo.  Alcuni sogni  nel cassetto.

Roma ore 11  (1952).  Un  marito per Anna Zaccheo  (1953). La garsonnière (1960).  Un  apprezzato professionista di sicuro avvenire (1972).

140

L'etica della "fatica": la seconda trilogia della terra

Giorni  d'amore  (1954).  L'uso  del colore:  la  "consulenza" di  Purificato. Uomini e lupi (1956).  La strada lunga un anno (1958).

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173 182

Un epilogo

Italiani brava gente (1964).

Le ragioni di un silenzio La svolta degli anni sessanta.  Neorealismo  e realismo socialista. Proletari  vecchi e nuovi.  Sud:  mito  e realtà.

200

Filmografia

205

Bibliografia essenziale

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Ringraziamenti Desidero  ringraziare  Lino  Miccichè,  Gaetano  Carnevale,  Alfredo Antonetti,  Antonio  Di  Fazio,  Venanzio  Micarelli  e  Franco  Sepe  per  gli amichevoli suggerimenti che mi hanno  dato nella stesura del saggio.  E,  in particolar  modo,  il professar  Vittorio  Stella,  ordinario  di  Estetica presso l'Università  di  Roma,  con  cui  ho  discusso  ampiamente  il  testo,  per  i suoi preziosi ed autorevoli consigli. Sono  molto grato,  inoltre,  a Peppe De Santis per l'estrema disponi­ bilità con cui ha assecondato le mie richieste di documentazione e per la ric­ chissima testimonianza che mi ha fornito,  oltre che per avermi permesso di utilizzare senza riserve il suo archivio e la sua collezione fotografica,  da cui sono  tratte le foto che illustrano il libro.  Un grazie anche al professar Do­ menico  Purificato per  le puntuali  informazioni  che  mi ha  dato sulla storia della rivista «Cinema» e sulla sua collaborazione artistica a  "Giorni d'amo­ re".  Ringrazio,  inoltre,  l'amico  editore  Lido  Chiusa/io per  la fiducia  che mi ha concesso e per la paziente attenzione con cui ha seguito la mia fatica. Un  doveroso  ringraziamento,  infine,  all'Amministrazione Comuna­ le di Fondi e,  in particolare,  all'Assessore alla Cultura Arcangelo Rotunno, che hanno permesso la concreta realizzazione di questo lavoro.

A.P.

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Gli anni di formazione «Andando per certe Società cinematografiche capita che s'intoppi troppo sovente in cadaveri che si ostinano a credersi vivi. Sarà toccato ad altri,  come a  me,  di  incontrarne,  e non  li avrà identificati  li  per  lì:  perché, quando sono in circolazione, vanno vestiti come me e come voi.  Ma quel processo di decomposizione, che è in loro nascostamente in atto, diffonde tuttavia un lezzo di guasto che non sfuggirà più a un naso che sia appena un po'  sperimentato.  [...]  Che i giovani d'oggi,  che son tanti  e che vengon su nutrendosi, per ora, solo di sana speranza, tuttavia impazienti per tante co­ se che hanno da dire, si debbano trovare come bastoni tra le ruote, cedesti troppo numerosi cadaveri, ostili e diffidenti, è cosa ben triste. Il loro tempo è finito e loro son rimasti: e non si sa perché.  [...] Verrà mai quel giorno so­ spirato,  in  cui  alle  giovani  forze  del  nostro  cinema  sarà  concesso  di  dire chiaro e tondo:  / cadaveri al cimitero? Vedrete come tutti accorreremo, quel giorno,  a  sollecitare  qualche  imprudente  ritardatario,  e  ad  aiutarlo,  con tutti i riguardi (che non s'abbia a far male) a introdurre anche l'altro piede nella fossa». Questa  "esortazione",  tanto  macabra  quanto  profetica,  è,  come tutti gli addetti sanno, di Luchino Visconti. Essa appare il  10 giugno del  1941  sulle pagine della rivista «Cinema», e rappresenta una sorta di  "manifesto" in cui si riconosce tutta una genera­ zione di giovani cineasti arrabbiati. Cadaveri,  è questo  il  titolo dell'articolo,  anche  se porta soltanto la firma di Visconti, è la "dichiarazione di guerra" che la redazione della rivi­ sta, tutta insieme, concertò contro quello che era il "cinema di papa" di al­ lora,  per  la  nascita  di  un  cinema  totalmente  alternativo,  antropomorfico, ­ in  cui  il peso dell'essere  umano,  la  sua presenza,  potesse ridare verità alle cose, perché esso è "la sola cosa che veramente colmi il fotogramma". E nel  "gruppo" di «Cinema» troviamo, oltre a Visconti,  Michelan­ gelo Antonioni,  Domenico  Purificato,  Gianni,  Massimo e Dado Puccini, Mario  Alicata,  Carlo  Lizzani,  Pietro  Ingrao,  Francesco  Pasinetti,  Antonio Pietrangeli. Tra loro c'è anche Giuseppe De Santis.

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•    f  come un ,.infanzia  

cresce  la  pietra  come  rosa, la  bella  età  del  giorno  si  riposa e  in  ogm  zMa  è  un  seme  di  furore Libero  de  Libero

De  Santis  arriva  a  Roma  ancora  adolescente.  Viene  da  Fondi,  "un lembo  di  pianura  della  Ciociaria",  una  "conca  di  sole  e  di  boschi  d'aranci", come  lui  stesso  la definisce.  Cosi  ricorda  il  suo  inurbamento:  «Mio  padre, di  professione geometra  ­  ma  all'occorrenza  imprenditore  edile,  appaltato­ re  di  fiumiciattoli  e  laghetti  per  lo  sfruttamento  della  pesca  di  anguille  e  di capitoni,  amministratore di società per la trasformazione di terreni  monta­ ni  in  terreni  agricoli  ­,  ci  aveva  condotti  in  città  sulla  scia  delle  consuete emigrazioni di intellettuali meridionali verso i grandi centri di affari, in cer­ ca di  migliore fortuna e di maggiore spazio professionale.  Emigrando, ave­ vamo  portato con  noi  tutto  il peggio della nostra gente:  diffidenza,  pregiu­ dizi  e  caparbia.  E  avevamo  lasciato  il  meglio,  ritenendo  che  a  Roma  non dovesse  servirci:  la gentilezza,  l'onore  dei  sentimenti,  la  fierezza  e  la  lealtà dei  ciociari.  In  paese,  nei giorni  inquieti  della adolescenza,  m'ero cresciuto al  sole  come  una  lucertola  e  nutrito  dei  fichidindia  che  crescevano  a  grap­ poli lungo i fossi.  M'ero innamorato di figlie di contadini e di operai, e in­ sieme a esse  avevo pascolato bufale nella palude,  trasportato calce e matto­ ni  per  rattoppare  case  divorate  dai  secoli  e  dalla  miseria  e  avevo  imparato nelle  forge a cambiare i  ferri agli zoccoli dei cavalli.  Avevo avuto per com­ pagni  barbieri,  macellai,  fabbri,  muratori  e  calzolai.  Una  sorta  di  innata diffidenza  mi  aveva tenuto sempre lontano dai  figli  di  papa.  Con questi  m' incontravo  soltanto  dietro  le  mura  del  vecchio  camposanto:  per  fare a caz­ zotti (1)». Il  primo  contatto  con  la  cultura  e  uno  dei  primi  incontri  decisivi  è ancora  al  suo  paese  che  avvengono,  dove  egli  torna  ogni  anno con  la  fami­ glia a trascorrere l'estate.  Nasce cosi la lunga amicizia con il poeta conter­ raneo  Libero de  Libero.  La  poesia di  de  Libero era già apprezzata dalla cri­ tica italiana,  dopo  che  Ungaretti  gli  aveva  pubblicato  nel  '32  la  sua  prima raccolta di  versi  Solstizio,  che aveva dato inizio a quella piccola epopea sur­ realista  della  Ciociaria,  di  quella  "Italia  arcaicissima"  ­  di  cui  parla  Gian­ franco  Contini  ­  mitica  e  preistorica,  fermata  in  eterno  stupore del  senti­ mento  e  dei  sensi.  Racconta  lo  stesso  de  Libero:  «Un'estate  a  Fondi,  in mezzo  al  consueto gruppo  di  amici che mi  attendevano,  trovai  lui,  Peppino De Santis,  ma quanto  mutato,  e laconico,  fuor di  moda,  e alla buona,  spel­ lacchiato,  in  crisi  di  "crescenza",  come  ebbi  subito  a  capire,  un  giovane scontento di sé, inquieto e ansioso di sapere, di guardare, di ascoltare. Ap­ pariva già emozionato dalla poesia e dall'arte,  i  luoghi  in cui eravamo nati trovavano già in lui una rispondenza amorosissima, ineffabile quando non era  passionale  [...].  In comitiva andavamo a  Sperlonga,  andavamo a Santa Anastasia, a Formia,  le nostre passeggiate duravano fino a tarda ora,  den­ 12 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tro quel  paesaggio che mi arresta sempre i  battiti  del cuore quando vi tra­ scorro, là dove i Lepini si incontrano con gli Aurunci, a picco sulla pianura odorosa di  mare e di aranci.  E quando finì la stagione dei bagni, dopo aver tribolato chissà quanti giorni, Peppe mi consegnò timidamente, arrossendo non  poco,  un  certo  numero  di  pagine  dattiloscritte:  era  un  suo  lungo  rac­ conto,  forse aveva  tentato altre prove,  non so,  quel  racconto si  intitolava Paese,  era la celeste e accorata storia del nonno, di trama sottile e di scrittu­ ra delicata che mi stupì; qualche mese dopo P.M.  Bardi glielo pubblicò nel suo «Meridiano di  Roma» e ne pubblicò altri allo stesso modo singolari, di tono favoloso, quel tono che gli è rimasto nonostante le verità di cui scotta­ no  le  sue  narrazioni  cinematografiche.  Gli  amici  ricordano  ancora  quella diecina di racconti che io volevo pubblicargli nelle «Edizioni della Cometa». Volevo dire che in quell'epoca io abitavo per molti mesi in campagna;  ave­ vo con me tutti i miei libri,  i classici e i moderni, i quadri e i disegni della mia  piccola  collezione,  una  terracotta  di  Mirko.  E  laggiù  veniva  Peppe  a frugare tra quei libri, a sceglierseli avidamente; e furono letture a capofitto, furono discussioni a perdifiato, discorsi che lasciavano in lui segni indelebi­ li, decisioni che si precisavano ogni volta che mi riportava un libro e ne sce­ glieva un altro, e così per tre mesi.  Fu allora che il suo amor di pittura prese corpo e curiosità sempre più attiva,  un accento e un gesto che gli affinaro­ no maggiormente l'ottica quando si  rafforzò la sua consuetudine con le arti plastiche,  a  Roma,  durante gli  anni  della  "Galleria  della  Cometa".  Ma ciò che più mi legò a lui in quel tempo fu la passione che anche lui portava alla scoperta,  alla conoscenza del territorio natale e della gente che ci somiglia: la Ciociaria e i ciociari.  Ma era,  è una passione non accecata dalla contem­ plazione o dalla magnificenza di quei luoghi, oppure da un elogio remissivo; essa invece si esercitava storicamente per ricercare le ragioni più segrete che avevano  relegato  la  Ciociaria  in  seno  alle  regioni  circonvicine  nelle  quali  i passeggeri  distratti  la  confondono,  sicché  per  secoli  essa  è  rimasta  fuori della  storia  con  quella  bandiera 4i  logoro  fazzolettone che ogni  tanto  sven­ tola sulla rocca di  Prosinone (2)». L'incontro  con  il  poeta  dei  Cantari di  Ciociaria rappresenta  dunque, per  De Santis,  una vera e propria iniziazione.  E la rivelazione,  o la confer­ ma,  di  una  "passione",  anche  se  ancora  incerta  tra  letteratura  e  arti  figu­ rative. Attorno  a  de  Libero  si  costituisce  a  Fondi,  un  piccolo  ma  vivace gruppo  di  intellettuali,  ciascuno  dei  quali,  a  suo  modo,  trarrà  dall'amico poeta più adulto insegnamenti di cultura e di vita. «Libero de Libero ­  mi  confessa infatti  De Santis in  una lunga con­ versazione dell'aprile  1978,  cui altre volte farò riferimento nel corso di  que­ sto  mio  lavoro  ­,  è  stato  un  uomo  molto  importante  nella  mia  vita.  E  credo non  solo  nella  mja,  ma  in  quella  di  molti  intellettuali  fondani  (o  anche  di paesi  vicini,  come  Ingrao,  che è di  Lenola).  Intellettuali  appunto come  In­ 13 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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grao,  Dante  Di  Sarra,  Domenico  Purificato,  Guido  Ruggiero,  Leopoldo Savona.  Io ero allora un ragazzo.  Avrò avuto diciott'anni,  e avendo questi stimoli di cultura, di conoscenza e di crescita, cercai del tutto di fare amici­ zia  con  questo  mio  compaesano,  questo  poeta  di  Fondi  che  era  celebrato già dalla critica  italiana,  un  uomo  importante  nella  nostra cultura.  De  Li­ bero  mi  ha  insegnato,  e  non  solo  a  me,  a  leggere  certi  testi,  ha  fatto  in modo che avessi una impostazione culturale seria,  per chi come me a queir epoca  ambiva  a  fare  lo  scrittore.  In  più  Libero  ha  questa  grande  qualità: che  pur  essendo  un  poeta  di  impronta  e  di  livello  europeo,  poi  personal­ mente  conserva  questi  caratteri  del  nostro  paese,  fondani,  nel  bene  e  nel male.  Il discorrere,  lo stare con lui,  il vivere e il crescere con  lui per me ha sempre significato in  qualche modo crescere insieme con  il  mio paese,  per­ ché era come se queste lezioni  io l'avessi da Fondi  stessa.  Perché egli  lo  fa­ ceva  con  quella  violenza,  con  quella  aggressività,  o con quella tenerezza e quella  dolcezza,  che  sono  i  caratteri  tipici  della  nostra  gente,  dei  nostri compaesani». A  Fondi  dunque cresce,  a contatto  con  "Peppe"  De  Santis  e  de  Li­ bero (peraltro, devo aggiungere, scomparso il 3  luglio  1981:  dunque, dopo il mio colloquio con De Santis), anche un altro giovane che comincia a d i ­ pingere i suoi primi paesaggi lussureggianti di aranceti, o addolciti da l u ­ minosità  crepuscolari,  i  suoi  contadini  alla  fatica  e  le  sue  "pastore"  già assorte  in  antiche  e  accorate  rimembranze:  "Ménico"  Purificato.  E,  in ognuno  dei  tre,  appare  già  profondo  il  sentimento  verso  la  propria  terra d'origine,  che  fin  d'allora,  fissa  nella  loro  memoria  gli  "stampi  immagina­ tivi", i simboli e i miti dell'infanzia che accompagneranno in futuro, come motivo dominante, i loro rispettivi itinerari poetici. E a tal punto che in essi 'sarà possibile ritrovare, oltre a quella primitiva fonte di ispirazione, anche alcuni segni espressivi unificanti. Quale il rifiuto, soprattutto, di canoni na­ turalistici, a favore di uno stile spinto sempre al di là della pura e meccanice! riproduzione della realtà,  e la ricerca di  una dimensione affabulatrice in grado di riportare alla luce ascendenze e sedimentazioni di una c i v i l t à pre­ storica.  La  riproposizione,  in  definitiva,  di  un  "cantare"  ­  lirico  o  epico che sia ­ attraverso cui tessere la memoria collettiva della terra di Ciociaria («La sua storia non  rammenta che pastori  / guerrieri  e idoli» de  Libero). Ciociaria come luogo dell'anima, allora; che ricorda una natura pri­ mitiva e segnata da antichi conflitti, cose e accadimenti immersi in una luce favolosa e mitologica,  personaggi dalle passioni elementari  in lotta contro un'antichissima  inerzia  della  Storia.  E  anche  come  "radici",  come  memo­ ria storica, appunto; nelle cui pieghe è necessario addentrarsi per poter rin­ venire, insieme ai modelli di comportamento, alle ritualità, ai valori della propria gente, anche il mistero della propria identità.

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Tra scapigliatura e impegno

Al  Centro  Sperimentale  di  Cinematografia  dove  si  è  iscritto  senza eccessiva convinzione, poiché la sua vera aspirazione resta quella di  fare lo scrittore,  De Santis ha i  primi  incontri  decisivi,  in un clima in cui  il  fasci­ smo non è riuscito a soffocare la voglia di vivere e di conoscere di chi si tro­ va in quegli anni ad avere vent'anni. Racconta  lo stesso De  Santis:  «Solo da poco avevamo smesso di  fre­ quentare i bigliardi del Mocaino e le sale da ballo di Pichetti al Bufalo e Via Velletri.  Adesso eravamo amici  di  Corrado Cagli e di  Mirko,  di Guttuso e di  Mafai,  e passavamo interi pomeriggi in una galleria d'arte diretta da  Li­ bero de Libero che si chiamava La Cometa ed era situata ai piedi del Cam­ pidoglio, in un'ala del bellissimo palazzo della Contessa Pecci­Blunt.  Di se­ ra sedevamo ai tavoli di  Rosati  in Via Veneto ad ascoltare i discorsi dei let­ terati e scrittori più maturi di noi:  Pannunzio,  De Benedetti, Talarico, De Feo,  Brancati;  ma  non  avevamo  smesso  di  andare a  puttane  tra gli  oscuri viali  della vicina  Porta  Pinciana.  Mangiavamo due supplì nelle rosticcerie del  centro  della  città  per  prolungare  la  nostra  permanenza  fuori  casa,  e spesso,  a  notte  alta,  aspettavamo  un  segnale  convenuto,  davanti  alle  case delle nostre compagne di  Università che scendevano ad aprirci i portoni di nascosto dei familiari,  e lì, nei cortili puzzolenti di gatti, restavamo a stro­ finarci, abbracciati,  sino all'alba.  Impegnando al Monte di  Pietà una parte delle  lenzuola  trafugate dal  corredo a dodici di  nostra  madre ci  comprava­ mo le scarpe da Valk­Hover in Via del Tritone, e nelle librerie antiquarie i primi libri di Antonio Labriola, le cravatte di flanella da Franceschini ed i quaderni della  Voce raccolti da Prezzolini.  Leggevamo in edizione origina­ le  Proust  ed  Alain  Fournier,  i  narratori  americani  tradotti da  Pavese e gli ultimi  scritti  che  Benedetto  Croce veniva  pubblicando  da  Laterza.  In  estate ci buttavamo nelle acque del Tevere,  circondati da sanguigni pederasti te­ deschi o da squallidi invertiti dell'aristocrazia vaticana, e alla domenica an­ davamo alla Messa di mezzogiorno in Piazza Quadrata, per appoggiarci al­ le natiche delle ragazze di buona famiglia dei Parioli durante l'uscita (3)». A Roma De Santis si ritrova con i compaesani Ingrao (che frequenta con lui il Centro Sperimentale) e Purificato. Sono loro a stabilire i contatti con il gruppo che fa capo a Ruggero Zangrandi,  amico personale di  Vittorio Mussolini, il cinèfilo figlio del duce, e a Bruno Zevi. Mi dice De Santis: «Mentre gli Ingrao, i Zangrandi, ebbero una vera e propria esperienza di fascismo ed appartenevano a quella  frangia che cre­ deva veramente che  il  fascismo  potesse  fare un'operazione di  sinistra,  per me  questo  non  avvenne.  Io  non  ho  mai  fatto  parte  del  fascismo,  non  per 15 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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presa di posizione,  ma per superficialità,  perché la politica non mi interes sava in quel periodo, perché ero preso nelle nuvole o, come dice il mio ami­ co Tonino Guerra, ero  "nelle bambole", cioè avevo i  miei  fantasmi lettera­ ri, inseguivo certi miei miti poetici per cui ero distaccato dalla politica.  Ho cominciato ad interessarmi di politica proprio attraverso i  rapporti con  In­ grao,  Alicata,  Trombadori,  i  Puccini,  in  ritardo;  in  ritardo  rispetto  a  loro. E devo dire che ho avuto il compito facilitato, nel senso cioè di trovarmi già di  fronte dei giovani che avevano già superato l'esperienza  del  fascismo ed erano  andati  più  avanti,  erano già antifascisti  quando io  li  ho incontrati e mi  sono  cresciuto  alla  loro  scuola». La  prima  occasione  di  incontro  con  questi  suoi  coetanei  De  Santis l'ha avuta grazie ai  Littoriali,  a cui partecipa con alcuni  racconti che narra­ no  storie di gente  del  suo  paese.  Ai  Littoriali  prendono  parte  quasi  t u t t i  i giovani  intellettuali  dell'epoca che li  accettano come uno dei  momenti  più propizi di intervento nella vita culturale che offre il fascismo. Alcuni di essi ­ i più ­ vi partecipano perché aderiscono, convinti.  Altri perché li ritengo­ no una delle poche possibilità di esercitare ­ sia pure nell'ambito del discor­ so specificamente artistico­letterario da loro svolto ­ quel processo di criti­ ca  tutto  all'interno  del  regime,  quella  fronda  del  fascismo  "di  sinistra", dapprima intessuta quasi  esclusivamente di  inquietudini  culturali,  poi,  a mano a mano, di insofferenze politiche che ben presto assumeranno forme di vera e propria opposizione.  Soprattutto durante la guerra di  Spagna;  che, per la seconda generazione intellettuale del  '900,  ha rappresentato, come è stato detto, quello che il Viet Nam è stato per l'ultima generazione del do­ poguerra. È in questo periodo che lo studio di Guttuso e la casa di Bruno Zevi diventano i luoghi d'incontro del "gruppo romano" del quale sono i n t a n t o entrati a far parte altri giovani:  Paolo Alatri, Carlo Salinari, Aldo Natoli, Lucio  Lombardo  Radice.  La consapevolezza  antifascista  si  fa  sempre  più chiara,  specialmente dopo che essi  hanno raggiunto la coscienza che certe interpretazioni "di sinistra" del fascismo sono ormai insoddisfacenti e per­ fino "ripugnanti". Si discute delle ragioni storielle dell'avvento del regime, della sua matrice di classe, e ci si avvicina alle tesi marxiste attraverso la let­ tura collettiva dei classici di quel pensiero e la discussione sugli avvenimenti politici  del  momento.  È  questo per  De  Santis  il periodo della vera matura­ zione politica, e il primo avvicinamento al Partito Comunista di cui il grup­ po,  ormai  in via di assumere un carattere organizzativo e di azione cospira­ tiva,  riconosce  la  guida  politica.  Nello  stesso  periodo  comincia  la  collabo­ razione di  De  Santis  con  Purificato e i  Puccini  nella redazione di  «Cinema». E soprattutto il suo sodalizio con Mario Alicata,  il quale avrà un'importan­ za  decisiva  nell'itinerario  ideologico  e  nella  ricerca  di  ascendenze  culturali del  suo progetto cinematografico.  Alicata è,  nel  1940,  uno degli  ingegni  più vivi e uno dei giovani più brillanti del gruppo.  Viene subito notato da Nata­

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lino  Sapegno  di  cui  diventa  assistente  alla  cattedra  di  Letteratura  italiana all'università  di  Roma  e  proprio  in  quegli  anni  comincia  a  collaborare  a «Primato»,  la  rivista  diretta dall'allora  ministro dell'Educazione  Naziona­ le Giuseppe Bottai.  «Primato» rappresenta uno dei tentativi più singolari, e ancor oggi più discussi,  che il fascismo attua per assicurarsi la collaborazio­ ne dei migliori intellettuali dell'epoca; un'operazione di scaltra strategia del consenso  che  nella  sua  "ortodossia"  lascia,  spesso,  spazi  di  inusitata  spre­ giudicatezza  culturale.  Si  possono  leggere  sulla  rivista  poesie  di  Pavese, Gadda,  Ungaretti e Montale,  e articoli di  critica letteraria di  Giaime Pintor, di Giovanni Macchia,  Carlo Muscetta e Galvano Della Volpe.  Si può intui­ re quale apporto di  idee Alleata,  avendo la possibilità di  tali contatti,  for­ nirà al gruppo di «Cinema».  E quale influenza eserciterà nella formazione culturale e politica di De Santis.

Il retroterra realistico Prima di esaminare il percorso del binomio Alicata­De Santis e la li­ nea  che  dal  1941  al  1943  caratterizzerà  «Cinema»  sulla  traccia  della  loro "battaglia per il realismo", è utile rintracciare gli antecedenti, almeno i più immediati, di quella linea per meglio chiarire certe ascendenze, continuità e diversificazioni che riscontreremo, in seguito, nella filmografia di De San­ tis.  La  linea  "realista"  (ma  vedremo  come  nel  cinema  di  De  Santis  l'acce­ zione  di  realismo  sia  per  molti  versi  deviante  dal  tracciato  tradizionale)  ri­ prende vigore dal dibattito culturale, e specificamente letterario e concer­ nente le arti  figurative,  creato proprio da quella  fronda giovanile del  "fa­ scismo di sinistra" cui si è accennato, che, messi da parte i miti nazionalisti e sindacal­rivoluzionari, pone attenzione soprattutto alle esigenze sociali. Esigenze che derivano da quel  "popolarismo  rurale"  delle origini del  movi­ mento fascista, che era penetrato nel  "selvaggismo" ad esempio di Soffici, Malaparte  e  Maccari;  che  si  era  espresso  nella  tematica  dell'"anticittà"  e nell'elogio  della  campagna  di  Papini;  nell'ideologia  "strapaesana"  che esaltava  i  "valori  rurali"  della  provincia  italiana  con  l'equazione:  "tutto ciò che è moderno è anti­italiano". La  dialettica  modernità­industrialismo  /  tradizione­ruralismo,  si chiede giustamente Asor Rosa, è «veramente peculiare del periodo e del re­ gime fascista, o non rappresenta una costante della vita intellettuale italia­ na postunitaria  [...], il riflesso d'un modo d'essere dell'Italia moderna, an­ cora divisa tra città e campagna, tra passato e futuro? (4)» Si può agevolmente propendere per la seconda ipotesi.  Ed aggiunge­ re anche che  questa dialettica si  protrae  per tutto il periodo del secondo do­ 17 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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poguerra e degli anni cinquanta, fino alla soglia dell'industrializzazione e del "miracolo economico". Lo spartiacque che preciserà,  o ribalterà il segno politico e culturale della tematica meridionalista e contadina,  sarà la  Resistenza. Ma  vecchie  scorie,  ambiguità,  mitologie  ricorreranno,  come  vedre­ mo,  nella  cultura  postbellica,  e  soprattutto  nel  movimento  neorealista. Non ne sarà immune il cinema di De Santis. E, per molti versi, in modo pa­ radigmatico,  per aver ripreso,  in tono predominante,  il  tema della  "terra". Da tutte queste suggestioni presenti nella nostra tradizione nasce, anche in campo cinematografico, l'interesse per Verga, di cui  De Santis e Alicata si faranno  portatori. Già la  letteratura degli  anni  trenta,  quella  prodotta  dagli  scrittori più giovani ­ che sono stati il nutrimento della generazione di De Santis ­ ri­ sente notevolmente degli influssi del verismo italiano. Passando per Tozzi e Cicognani è a Verga che approdano infatti Alvaro, Silone, Bernari, Bilen­ chi,  e poi  Vittorini  e  Pavese.  Verga  è  un  punto  di  riferimento continuo: «Noi giovani si dovrebbero avere idee chiare,  ormai,  ed alla voce  "roman­ zo"  messi  in  pari  con  Palazzeschi,  fermarsi  a Tozzi  e a  Verga.  Con  questi contadini  e con questi  pescatori  (Podere e Malavoglia) c'entra aria sana  ne' polmoni e ci giova allo spirito»; cosi si esprime Pratolini su « I I  Bargello» nel  1935. Quella vocazione popolaresca del fascismo che ama nutrirsi di impe­ gno  sociale,  trova  in  Verga  un  autore  congeniale  a  tal  punto  che  perfino Bottai, in un saggio su «Verga politico», cosi si esprime: «L'opera di Verga ha nella nostra letteratura contemporanea, una grande importanza, perché avvia  la  nuova  generazione  degli  italiani  ad  un'arte  più  schietta,  più umana, più serena [...].  Con Verga rinasce il sano realismo italico e terri­ geno (5)». Come giudicare questa continuità tematica ed espressiva che percor­ re internamente la cultura del periodo fascista per poi riemergere, sia pure con caratteri  profondamente mutati e di  segno ideologico opposto, dopo la Liberazione?  Abbastanza  convincente  ci  sembra  ancora  la  risposta  che  se ne  da  Asor  Rosa:  «La  parte  socialmente  impegnata  della  cultura  italiana, che  oltretutto,  in  quanto  formata  essenzialmente  di  giovani,  non  aveva  e non  voleva  avere  rapporti  con  la  tradizione  culturale  dell'età  liberale,  doveva collocarsi  nel  seno  del  fascismo,  perché  il  fascismo,  durante  il  ventennio, era  l'unica  realtà  in  cui  fosse  possibile  svolgere  (o  pensare  di  svolgere)  un' attività  politica  socialmente  impegnata  con  dimensioni  di  massa.  Perciò  è tutt'altro  che  sorprendente che non  solo questi  quadri giovanili  fascisti  sia­ no  divenuti  in  seguito  antifascisti,  ma abbiano proprio loro,  e  non,  appun­ to,  gli  eredi  più  diretti  della tradizione intellettuale liberale,  formato il  nu­ cleo dell'impegno sociale della cultura antifascista (6)».  E verso la fine del 18 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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"lungo  viaggio"  attraverso  le  illusioni  e  le  mistificazioni  del  ventennio, quando  avranno  chiara  la  natura  classista  e  demagogica  delle  prospettive sociali e  "popolari"  propagandate, essi,  sappiamo, si  ritroveranno a com­ battere  il  regime  sia  culturalmente  che  politicamente.  Ma,  giustamente  ri­ prende  Asor  Rosa:  «Non  pochi  equivoci  e  difficoltà  del  neorealismo  sono da  imputarsi  ad  un  processo  troppo  rapido  di  rimozione di  questa  fase  dell' esperienza  giovanile  fascista,  con  cui  fare  i  conti  in  profondità  avrebbe  si­ gnificato  probabilmente  un'elevazione  e  una  maturazione  dello  stesso  im­ pegno  antifascista,  se  non  altro  sul  piano  dei  linguaggi  e  su  quello  assai poco  approfondito,  durante  tutto  questo  lungo  periodo,  del  rapporto  con  il pubblico  (7)».

De  Santis  e  Purificato  giovanissimi  con  Libero  de  Libero  (al  centro).

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Note (1)  Giuseppe  De  Santis,  Ripensando  ai  tempi  di  «Cinema» prima serie,  in  «Cinema  Nuovo» n. 201, settembre­ottobre  1969. (2) Libero de Libero,  Ciociaro come la Ciociaria,  in «Milano sera»,  18 ottobre  1950. (3) Giuseppe De Santis, art. cit. (4)  Alberto  Asor  Rosa,  Dall'Unità  a  oggi.  La  cultura,  in  Storia  d'Italia,  tomo  11,  voi.  I V , Einaudi, Torino  1975, p.  1500. (5) Giuseppe Bottai, «Studi verghiani»,  1,  1929, pp. 3­16, citato da A. Asor Rosa, op. cit., p.1571. (6) Alberto Asor Rosa, op. cit., pp.  1576­77. (7) Ibidem.

De  Santis con  il gruppo di  amici  di  Fondi,  ad  una  mostra  di  Purificalo alla galleria  «La  Palma» di Roma, nel 1950. Si riconoscono, da sinistra: Nino Peppe, Guido Ruggiero, Marcelle Di Vito, Purificato, Pietro Ingrao, Dante Di Sarra, Libero de Libero,  De Santis, Leopoldo Savona; e due  fratelli  di  Purificato.

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L'esperienza di «Cinema» L'analisi fin qui condotta costituisce un'indicazione di massima del retroterra culturale di De Santis.  Esaminiamo ora qual è, specificamente, il retroterra,  o  meglio,  il  retro­testo  cinematografico  che  sottende  il  "proget­ to realistico"  del suo cinema.  Esso prende forma attraverso l'individuazio­ ne,  nel cinema che egli si trova a vedere e a recensire prima di passare dietro la macchina da presa, di alcuni modelli stilistici e ideologici e di alcune fi­ gure tematiche, da riutilizzare e da reinventare poi per suo conto. Alcuni di questi temi e di  questi stilemi sono poi divenuti quelli classici nell'accredita­ mento di certe ascendenze di tutto il cinema neorealista. Certa critica ha vi­ sto  in  questo  retro­testo  la  prova  della  intertestualità  tra  il  neorealismo  (e quindi  anche  il  cinema  di  De  Santis)  e  il  cinema  soprattutto  italiano  degli anni trenta,  riscontrando dei  "ponti ideologico­retorici" col cinema del pe­ riodo  fascista.  Il  neorealismo visto cioè come la massima utilizzazione dei materiali  e  delle  formule  dei  vecchi  "generi"  tradizionali,  ricomposti  in ag­ gregazioni inedite e decontestualizzati, fino ali esplosione di un vero e pro­ prio  "disordine semiologico".  Paragonabile,  per rendere l'idea,  come ebbe a  dire  Bazin,  a  quello  che  si  verifica  ad  esempio  nell'  hot jazz.  Ci  sembra appropriata questa chiave di interpretazione, a patto però di considerare il neorealismo,  come  ha efficacemente precisato  Carlo  Lizzani,  non  un  mo­ mento  di  casuale  e  provvisoria  co/7­fusione  di  generi,  che  subito  dopo  ri­ prendono  le  proprie  legittime  traiettorie,  ma  come  una  aggregazione  che non è la somma aritmetica soltanto di tanti elementi preesistenti, ma che «in un  certo  momento  storico  [...]  abbia  prodotto,  come  avviene  in  tanti  pro­ cessi chimici, fisici e biologici, quel risultato o processo che la fenomenolo­ gia definisce evento e che il marxismo scientifico chiama salto di qualità, e che diventa fenomeno nuovo ed autonomo (1)». Anche  la  ricerca  di  De  Santis  sarà  tutt'altro  che  una  nostalgica  re­ trospezione a rinvenire materiale di antiquariato filmico da ammodernare, perché,  vedremo,  proseguirà  come  un'educazione  intellettuale  capace  di offrire saldi e convincenti punti di riferimento alla sua progettualità. È dalle colonne di  «Cinema» che il progetto di  De Santis comincia a precisarsi.  Ma ricostruiamo per un attimo il clima dell'epoca: qual è l'am­ biente della rivista e come De Santis riesce a farne,  insieme a quelli del suo 21 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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gruppo, la più battagliera pubblicazione cinematografica del momento, «Cinema» è diretta dal  figlio del  Duce,  Vittorio,  uno strano diretto­ re però,  quasi  mai presente,  e noto soprattutto per certi  suoi  pellegrinaggi in America da dove torna acceso d'entusiasmo per il cinema di Hollywood; e che  non da eccessivo  fastidio nei  riguardi  della vivacità che la redazione va  già  manifestando.  Ma  lasciamo  che  continui  lo  stesso  De  Santis:  «Per me,  tutto era cominciato un  giorno del  1940.  Gianni  Puccini  a quel  tempo si guadagnava da vivere scrivendo per la rivista «Cinema», e quel giorno, uno dei tanti della nostra profonda amicizia,  lui,  e  Francesco  Pasinetti,  mi dissero: ­ «Vieni, e fai la critica cinematografica per nor; Peppe Isani se ne va,  parte come  Lettore d'Italiano in Germania,  e lascerà il posto.  Tu sei scaltro, attento, ciociaro, siamo certi che ti riuscirà». «Non sono né scaltro né attento»,  risposi,  «e come ciociaro,  a sentire Anton Giulio Bragaglia che di  Ciociaria  se  ne  intende,  sono  soltanto  un  ciociaro  della  Costa,  e  perciò un mezzo sangue, un ciociaro impuro, un bastardo insomma, se è vero che i miei antenati, generati e cresciuti a pochi chilometri dal mare di Sperlon­ ga, ebbero il torto di abbandonare le loro donne in pasto alle voglie dei pre­ doni  turchi,  arabi  e  saraceni,  sbarcati  un  po'  di  secoli  addietro  da  queste parti, per saccheggiare le nostre contrade. 1 ciociari, quelli veri, sono figli di  antichi  guerrieri,  sono  alti,  fieri,  robusti,  svelti  di  coltello,  ruba­terre e roditori di confini nelle notti di luna e hanno stampato sul volto quella ma­ linconia immutabile delle mandrie di pecore che la maggioranza di essi por­ tano a spasso per i monti tutto il giorno. Io, invece, sono piccolo, olivastro, ho il naso a becco, sono ombroso, diffidente, e l'orgoglio e la presunzione mi  rodono il  fegato tutto l'anno nello sforzo di  nascondere  meglio quel  mi­ sterioso  complesso  di  inferiorità  che  colpisce  t u t t i  i  bastardi  nelle  ore  di profonda  sincerità.  Un  tipo  cosi,  instabile,  accidioso,  non  vi  conviene!» ­  «Ma  sei  vivace,  assurdo,  polemico.  Accetta,  non  te  ne  pentirai».  E  De Santis accetta. «Io sottoponevo ­ continua ­ un film che avessi ritenuto sba­ gliato alla rabbia dei miei sentimenti feriti e alla violenza del mio impulso giovanile, senza tenere in alcun conto i rigori politici ed i canoni estetici in voga a quei tempi.  Era,  il mio,  un modo arruffato e contadinesco di eserci­ tare il  mestiere di  critico,  a ben rifletterci.  Ma sincero,  sino allo spasimo. Credo  di  essere stato il critico  meno  obbiettivo che il cinema italiano abbia mai  avuto.  Riconducevo  tutto  a  me stesso,  al  mio mondo  morale,  ai  miei amori  cinematografici  e  letterari  di  quel  tempo,  e  ai  miei  personali  criteri artistici ed estetici che,  a dire il vero, erano assai angusti, data la mia scarsa preparazione culturale ed i miei studi universitari compiuti in modo piutto­ sto disordinati.  Avrebbe dovuto essere un disastro.  Invece, come spesso ac­ cade  in  questi  casi,  fu  un  successo  [...].  Tutto  quanto  io  venivo  scrivendo con le mie critiche era  prima ancora che dentro di me,  al di fuori di me; era nell'aria,  nel  clima  che  a  mano  a  mano,  come  una  macchia  d'olio,  aveva

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cominciato  ad  allargarsi  conquistando  l'anima  e  la  coscienza  del  cinema italiano più insofferente dello stato di cose dentro il quale tutti vivevano (2)».

Tra vecchio e nuovo Continente II  "viaggio" intrapreso da De Santis (all'inizio in compagnia di Ali­ cata) e narrato in quella specie di reportage filmico che sono le sue critiche su  «Cinema»,  può  ritenersi,  per più  versi,  simile a quello che alcuni  anni prima  hanno  compiuto  alcuni  dei  nostri  letterati  più  noti  come  Cecchi,  e più giovani e inquieti come Soldati, Pavese, Vittorini. Almeno se si consi­ dera il primo Continente in cui sbarcano:  l'America della grande depressio­ ne e  poi del  New Dea! di  Roosevelt;  e  l'approdo  finale di  alcuni  di  essi:  il "profondo Sud" dell'Italia e la Sicilia di Verga.  Nel cinema, come nella let­ teratura, ognuno di loro, come è stato detto,  fa il giro del mondo per ritor­ nare a scoprire casa propria. Prima  di  entrare  nella  mitologia  western,  nell'epopea  popolare dei Ford e degli Hawks, sappiamo che l'Illinois, il Michigan, il Dakota, il Ne­ braska, già rappresentano la nuova leggenda dei nostri scrittori. Faulkner, Steinbeck,  Caldwell,  Hemingway,  Dos  Passos,  Saroyan,  per  il  loro  modo del tutto inconsueto di osservare la vita, senza veli e senza schemi, per la lo­ ro spregiudicata rappresentazione della realtà del  proprio paese,  aprono il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto, come dirà Pavese, che non t u t ­ to nella cultura del mondo finisca coi fasci. Un'America che non è un paese diverso e lontano,  ma  "il gigantesco teatro" dove,  con maggior franchezza che altrove, viene recitato "il dramma di tutti".  Una novella Atlantide che riemerge, come da antichissimi recessi, con la vitalità della sua civilizzazio­ ne, con il fascino dei suoi territori ancora vergini, squassati da biblici con­ flitti di razze e di culture, affollati di eroi senza macchia e senza paura e di avventurieri irrequieti, oltre che di disperati dannati di fame e di sesso. Cer­ tamente una novella terra promessa per un proletariato dilagante da t u t t i i porti  d'Europa:  tedeschi,  svedesi,  austriaci,  italiani.  Ma  America  anche come condizione dello spirito, dove si persegue il compito di creare "un gu­ sto,  uno stile,  un  mondo moderno".  E America,  ancora,  come Cinema:  as­ soluto,  totalizzante,  specchio  amplificato  e abbacinante  di  una  Babele  di clamorosa  efficienza,  di  una  eterna  odissea,  dove  le  prove  che  l'eroe,  "il campione"  affronta  e  supera  come  novello  protagonista  della  creazione, sono altrettanto importanti della meta finale.  Un mito, insomma.  Proietta­ to in una dimensione fatta di contrasti di assoluti: di coraggio e viltà, amo­ re  e  odio,  vita  e  morte;  come  nella  parabola  della  lotta  tra  indiani  e yankees.  Ma  dove  si  ha  pure  esperienza  di  un  futuro  che  già  è  iniziato,  e 23 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dove  già  si  avvertono  segni  di  dissociazione,  nuove  angosce  di  non  risolti equilibri  tra  individualismo  e  massificazione,  tra  l'ottimismo  del  "sogno americano"  di  un  Frank  Capra,  e  l'alienazione della  "folla solitària"  di  un King Vidor. Cosi  De  Santis  e  Alleata  si  imbarcano  nell'immaginario  collettivo del  Nuovo  Mondo,  ricercando  nel  buio  onirico  ed  esaltante  delle  sale  di proiezione,  "le spezie e  l'oro"  da  portare a casa  per  il  loro  progetto. Paradossalmente,  proprio quel paese, che per la generazione dei  De Santis,  Ingrao,  Trombadori,  Lizzani,  fra qualche anno diventerà  (in  una singolare  ambivalenza  di  odio­amore)  il  simbolo  dell'imperialismo  dalle "fattezze demoniache", il Sistema più antitetico all'Utopia Comunista, co­ stituì,  per  gli  stessi,  uno  dei  primi  nutrimenti  intellettuali,  e  la  prima cotta per il Cinema: con la maiuscola, appunto.  E proprio grazie alla presenza di una gamma così ampia di idee e di valori,  per la consistenza sociale e l'im­ pietoso realismo che spesso caratterizzavano la fantasia letteraria e la f i n ­ zione filmica elaborate in quel Continente. Dopo aver fatto tesoro delle nuove esperienze del cinema tedesco dei Murnau e dei  Fritz  Lang e delle loro preziose ricerche tecnico­figurative,  i due giovani critici fanno tappa in Francia.  Qui, più che subire il fascino un po'  letterario  del  dolente  crepuscolarismo  dei  Prévert,  Carnè  e  Duvivier, delle loro storie immerse in squallide periferie affollate di prostitute, di so­ gnatori  e  di  sradicati,  essi  si  entusiasmano  per  i  gioiosi  fermenti  libertari diffusi  da  Rene Clair e soprattutto per le grandi  illusioni  democratiche del Fronte  Popolare  trasmesse  da  Renoir,  dai  suoi  popolani  presi  in  prestito da Gorkij  e da Zola. Ed è proprio in Renoir che, dopo tanto peregrinare, a loro sembra di  ritrovare  il  giusto  equilibrio  tra  arte  e  socialità,  di  ravvisare  i  segni  di quel  realismo  ansiosamente  ricercato  e  di  avvertire  un  clima,  una  retorica, uno  stile,  magari  già  nazionali  e  popolari.  Poi  il  ritorno  a  casa,  a  Roma, tra  le  quinte  di  Cinecittà,  così  soffocante  nel  suo  grigiore  provinciale,  so­ prattutto  se  raffrontato  con  esperienze cosi  moderne  ed  esaltanti.  Un  cine­ ma,  il  nostro,  osservano  De  Santis  e  Alleata,  che  ha  come  massimi  poli  di riferimento  il  dannunzianesimo  archeologico  di  Cabina e  le  evasioni  picco­ lo­borghesi  dei  tabarins  di  Via  Nazionale,  e  che  attinge  ispirazione  invece che  dalla  nostra  narrativa  maggiore,  dagli  esangui  canovacci  dei  Rovella, Lucio  D'Ambra,  Luciana  Peverelli.  Cosi,  delusi,  essi  partono  di  nuovo, questa  volta  verso  l'interno,  verso  il  nostro  profondo  Sud  e  finalmente sbarcano  in  Sicilia,  tra  i  pescatori  di  Acilrezza,  nella  terra  "omerica  e  leg­ gendaria"  di  Verga,  laddove  sia  possibile  ripensare  «cose  e  falli  in  un  tem­ po e in uno spazio di reallà», per cui valga la pena di lenlare un'operazione d'arie  "rivoluzionaria",  ispirata ad una «umanilà che soffre e spera» e ad un  linguaggio  «vergine,  essenziale  e  violento».

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E,  scartati  i  banali  romanzi  d'appendice,  si  danno  ad  inseguire,  in un  paesaggio più  libero  e  fantasioso,  i  gesti  delle creature più  primitive e più  vere  di  quello  scrittore:  «il  sentenziare  disperato  e  amaro  di  padron 'Ntoni  Malavoglia,  il sacrificio silenzioso e tragico di  Luca,  quello consa­ pevole  e  malinconico  di  'Ntoni  di  padron  'Ntoni,  l'innocenza  aspra  e  sel­ vaggia di Jeli il pastore (3)».  L'excursus dei due giovani critici insomma si risolve in  una vera e propria inversione di  prospettiva  e  nella messa a  punto di  una poetica­manifesto:  dagli  "interni"  piccolo­borghesi  del  cinema  "se­ dentario"  del  ventennio,  l'obbiettivo  si  sposta  verso  gli  "esterni"  inesplo­ rati  del  paese,  con  un'attenzione  insolita nel  suo  "nomadismo",  per  tutto quello che si  svolge per le strade,  per i campi,  nei porti,  nelle fabbriche. Il suo itinerario De Santis lo continua poi da solo. E non può che es­ sere cosi. Con Alleata, cineasta occasionale e soprattutto uomo di lettere e politico,  il  sodalizio  deve per  forza  limitarsi  al  rinvenimento  di  ascendenze ideologico­letterarie. Quello che premerà poi a De Santis sarà soprattutto 1' individuazione  di  alcune  coordinate  cinematografiche  entro  cui  muoversi con la macchina da presa.

Critica e progettualità De Santis concepisce il suo "mestiere di critico" non come una fred­ da  e  distaccata  operazione  di  analisi,  ma  soprattutto  come  un'occasione per  formulare quello che a suo modo deve diventare,  in quel momento,  il cinema.  Scende in campo contro ('"esistente cinematografico"  perché esso gli sembra pienamente asservito all'esistente culturale e politico, avendone sposato sia i codici espressivi, ormai inerti e ripetitivi, sia l'ideologia domi­ nante.  E  combatte  anche  certi  tentativi  di  "metaforizzare"  il  dissenso,  le­ gati  ad  un'estetica  che  tende  a  "parlare  a  bassa  voce",  o  a  non  parlare  di temi  obbligati,  per  sottrarsi  appunto  alle  categorie  concettuali  in  quel  mo­ mento imposte dal fascismo.  Ritiene infatti queste operazioni troppo esan­ gui  e  sospette  nel  loro  aristocratico  estetismo,  tanto  che  preferisce  coloro che  in  qualche modo si  sporcano le mani con  la propria contemporaneità. Per queste ragioni  De Santis finisce per giudicare i film che vede,  special­ mente quelli italiani, non tanto per quello che essi sono, ma soprattutto per quello che non riescono ad essere.  È,  il  suo,  forse il  primo vero esempio di critica  "di  tendenza"  della  nostra  storiografia  cinematografica.  Con  tutta la  sua  efficacia  dialettica  e  "pedagogica".  E  anche  con  alcuni  rischi  del caso,  dovuti proprio  al  suo giacobinismo,  come  è per certe stroncature che oggi  magari  appaiono troppo ideologizzate.  Ma che allora ebbero l'effetto voluto, da terapia d'urto. 25 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il  valore  ancora  di  questa  sua  battaglia  critica  consiste  nel  fatto  che essa non si fonda poi solo su negazioni o rigetti, ma è sempre sorretta da un tracciato progettuale. Tant'è che certi parametri  di giudizio diventeranno poi patrimonio comune di tutta una generazione che si avvia a costruire il nuovo cinema italiano. Patrimonio magari fin troppo accreditato ed esclu­ sivo.  Ma che allora era  l'unica  risorsa;  o  una  delle  pochissime. Il gruppo di «Cinema»,  insomma, guidato da  De Santis,  per molti versi è stato negli anni quaranta, quello che, negli anni cinquanta sarà l'equi­ pe dei  «Cahiers du Cinema» che darà la nouvelle  vague dei Truffaut,  Cha­ brol,  Godard.  Anche su  «Cinema»  si  comincia  a  fare attenzione a quelle personalità che  maggiormente  hanno  saputo creare attraverso  il  linguaggio cinematografico, un clima, uno stile, una visione del mondo. Anche i De Santis, i Lizzani, i Puccini, i Pietrangeli, gli Antonioni, danno origine ad una "politica degli autori",  tendendo a personalizzare la  "scrittura" cine­ matografica, fino a concepire la propria militanza critica come un preludio alla regia.

Il "formalismo dei rondiani'

Nella crociata di De Santis guidata da eroici furori, a volte manichei, non  c'è  spazio  per  eufemismi,  diplomazie,  riflessioni  chiaroscurate;  c'è, prima di  ogni  altra cosa,  la volontà caparbia di cambiare il modo di inten­ dere e fare cinema, e,  sotteso, il sogno di modificare la realtà mediante il ci­ nema:  «Una  nuova estetica,  oggi,  va dispiegandosi,  contro i canoni che  fi­ no  a  ieri  sorressero  le  sorti  di  un  giudizio  critico,  e  affiora  alla  luce  di  un preciso momento storico, dichiarando come ancor più di una bella pagina scritta,  di un bel  quadro dipinto,  di  una bella sequenza realizzata,  sia meri­ tevole colui che preferisce schierarsi in  una chiara linea d'azione,  prenden­ do la sua giusta posizione  umana di  fronte al proprio lavoro (4)».  Egli esor­ disce  cosi  attaccando  senza  reticenze  "l'ozio  formalistico­intellettuale­pit­ torico" del giovane cinema di allora, quello dei Castellani, Soldati, Lattua­ da.  Certi  nuovi  fermenti  che  pure  traspaiono  da  quelle  opere gli  sembrano subito smentiti e neutralizzati dagli antichi vizi che puntualmente rispunta­ no  nella  nostra  cultura:  la  "retorica"  e  il  "formalismo".  Quei  film  rivela­ vano  sensibilità degli  sfondi ambientali,  minuta cura dei dettagli,  ma in essi «la vera sostanza dell'arte, il sentimento che doveva unire gli uomini a que­ sti aspetti  formali  e  fare tutt'uno con essi tanto da  rivelarsi  impastati anche nell'intimo da quelle cose,  veniva per sempre a mancare e a risolversi,  quin­ di,  in  un  assoluto  dominio  della decorazione  (5)».  A  proposito  di  Malombra 26 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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\1942)  di  Soldati  scrive:  «Ecco  sorgere  ora  i rondiani oziosi  e accomodanti, con  la  loro  pretesa  di  prosa  d'arte,  in  testa  ai  quali  possiamo  porre  Mario Soldati,  scortato  da  una  lunga  serie  di  giovani  [...].  Malombra è ancora  un esempio di questa scuola.  Vi partecipa con dovizia quasi tutta la pittura ita­ liana  dell'Ottocento  e  principio  di  secolo,  da  F.  Hayez  a  S.  Lega,  da  De Nittis a F.P.  Michetti,  da T.  Cremona ad  A.  Mancini,  senza equilibrio di scelta.  Accanto  a  Fogazzaro,  invece,  sono  state  abilmente  riesumate  ­  è constatazione d'altronde  che  non  tocca solo Malombra ma  in  generale  tut­ to il cinema italiano in costume ­ le stravaganti spoglie di una Carolina In­ vernizio  o  di  un  Francesco  Mastriani,  odorose ancora  di  Baci della Morte. [...]  L'ambizione di esser fedeli al romanzo ha sommerso personaggi ed av­ venimenti  in  un  inevitabile marasma romantico,  ampolloso e pedante.  Il racconto va avanti con intoppi frequenti; l'anacoluto sembra, addirittura, il  suo  termine  d'ispirazione  poetica.  Non  un  solo  personaggio  che  sappia conservare una linea psicologica chiara e netta e condurla in porto: Marina agisce  ora  in  nome  di  una  sua  fredda  e  calcolata  vendetta,  ora  sotto  l'in­ fluenza  della pazzìa  [ . . . ] .  Gli altri personaggi  [...]  non sono che degli sche­ mi di pretesto al servizio di quell'unico nucleo retorico.  [...] Il paesaggio è splendido, ma non riesce a tradursi che raramente in funzione espressiva (6)». Né meno drastiche sono le critiche a Sissignora (1942) di Poggioli: «II dramma dei crepuscolari si risolveva, ieri, in una totale individualizzazione dei  rapporti  umani,  nel  completo  abbandono  egoistico  ad  una  natura  deca­ dente  che  aveva  creato  la  sua  fede  più  grande  nell'amore  alle  piccole  cose, nella dedizione assoluta ai  propri  sentimenti,  tentando di  riscattare una re­ torica  mentre  cadeva  essa  stessa  nella  retorica  opposta.  Se  una  tale  edoni­ stica e malata concezione della vita era scusabile in uomini d'altri tempi,  ri­ masti semplici  spettatori di  una storia che si compiva alle loro spalle e non ebbero  il  coraggio  di  incatenarla  a  sé  stessi  e  di  ciò  fare  la  propria  reale  e non  fantastica  sofferenza,  noi  siamo  fermamente convinti  che quei  tempi sono trascorsi e mutati e che la nostra storia più recente vada vissuta in al­ tro modo, con la piena coscienza di certi valori.  È questa la massima accusa che  noi  rivolgiamo  al  regista  Poggioli  e  massimamente  agli  sceneggiatori Cecchi e Lattuada, responsabili primi di un tale risultato.  [...]  Niente ci ap­ pare  più  fastidioso  di  un  pittore  che  dipinge  solo  con  i  suoi  colori,  con  la sua pelle, e che per essi trascura di tener presente la sua più importante sof­ ferenza di uomo,  o di un poeta che limita la sua percezione ad una estatica contemplazione dimenticando di tradurla in dramma (7)». Letteralmente stroncato  è anche  Un  colpo di pistola (1941),  del  de­ buttante Castellani, accusato di essere un tipico campione di calligrafia, nel rifare il verso  ad  un  "hollywoodiano  neo­classicismo  da  rivista  musicale", tradendo totalmente il senso di uno dei più scarni racconti di Puskin, da cui il film è tratto: «laddove Puskin indicava una società malinconica ed altera 27 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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e  ad  essa  scavava  una  storia  toccandola  nelle  sue  più  intemperanti  manie, essi  [Castellani  e gli  sceneggiatori  Soldati,  Corrado  Pavolini  e  Mario  Bon­ fantini]  hanno  opposto  un  balletto,  un  pretensioso  e  smodato  arabesco  tra cornici  di  trine,  ombrellini,  alamari.  [...]  Chi  come  noi  porta  amore,  spas­ sionato  e  sincero,  al  cinematografo,  ricorderà certo  quell'indimenticabile Capriccio  spagnolo  di  Joseph  von  Sternberg,  esempi  fra  i  più  preziosi  di uno stile che la settima arte abbia  saputo dare.  Potremmo dimostrare,  qua­ lora  lo  stesso  Colpo  di pistola  non  lo  denunciasse  cosi  apertamente,  che  le aspirazioni del Castellani erano del tutto rivolte verso quell'unico modello. Ma  bisogna  dire,  cosi  stando  le cose,  che egli  conserva,  purtroppo,  un  ma­ gro  ricordo  di  come  quel  sottile  arabesco,  lungi  dal  dichiararsi  fine  a  se stesso, diventava t u t t ' u n o con  la esasperante v e r i t à storica e morale di  un paese,  la  Spagna,  fino a  racchiuderla in  una esaltata,  omogenea concretez­ za poetica.  Sono rimasti, invece,  nel Castellani,  più tangibili, avendo egli mancato, dunque, di rivivere in pieno senso storico e morale questo clima, i segni  delle  sue scuole  più  prossime:  quella  cameriniana  e  l'altra  blasettiana. Ma anche in ciò occorrerà convenire che se della prima gli è sfuggila queir acre  punta  di  amarezza borghese e quel genuino piacere dell'aneddoto che distinse il Camerini  della prima  maniera,  mentre  ha preferito conservare quegli insopportabili sentimentalismi all'acqua di mammole e viole, dalla seconda si è lasciato ingannare dal facile giucco oleografico, dal suo chias­ soso  colore  di  cattiva  lega  e  non  ha  saputo apprezzare  la  forza  popolana  e aspramente polemica di quei lontani, e non mai abbastantemente compian­ ti nella vena di questo regista,  1860 e  Vecchia guardia (8)». E  contro  i  "telefoni  bianchi"  che  ancora  imperversano  nel  nostro cinema,  cosi  si  esprime:  «Gli  americani  costumavano  classificare  ih  Serie, con  appellativi  pubblicitariamente  sgargianti,  le  loro  produzioni.  Nacque cosi  la  famosa  Serie  d'oro.  Ora,  quale  denominazione  daremo  noi  a  tutta questa  nostra  produzione?  Serie  dei film  che parlano  al  cuore,  ha  detto qualcuno.  Serie  conigli,  vorremmo  proporre  noi,  con  termine  più  realisti­ co,  seppure  apparentemente  meno  istruttivo.  Infatti  la  Serie  conigli  è  in piedi  da  un  pezzo,  continua  e  ha  l'aria  di  voler  continuare  ancora  per  mol­ to.  [...]  Mattoli,  Bragaglia,  Gallone  minacciano  di  essere  i  rappresentanti massimi  del  cinema  italiano,  visto  che  le  loro  opere  si  inviano  anche  ali' estero  (9)».

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L'"altro" cinema Opposto  a  questo,  per  De  Santis,  c'è  però  un  altro  tipo  di  cinema. Un  cinema  in  cui  viene  risolta  in  modo  originale  quella  convergenza  tra ideologia e linguaggio da lui  ricercata.  Le risultanti di questa felice combi­ nazione sono individuate attraverso alcuni elementi espressivi che possono essere cosi distinti: a)  II  paesaggio:  come  spazio  del  cinema  (realistico­simbolico):  in rapporto alla Storia e alla socialità; come elemento  di drammatizzazione:  in  rapporto alla  interiorità dei personaggi. «Ma  come  altrimenti  sarebbe  possibile  intendere  e  interpretare  1' uomo ­ egli afferma infatti ­ se lo si isola dagli elementi nei quali ogni gior­ no egli  vive,  con i quali  ogni giorno comunica,  siano essi  ora le mura della sua  casa  ­  che  dovranno  recare  i  segni  delle  sue  mani,  del  suo  gusto,  della sua natura in maniera inequivocabile ­;  ora le strade delle città dove egli si incontra con gli altri uomini.  [...]  Dovrebbe essere propria del cinema,  poi­ ché  più  di  ogni  altra quest'arte parla  nello  stesso momento a  tutti  i  nostri sensi, la preoccupazione di un'autenticità, sia pure fantastica, dei gesti, del clima,  in  una  parola  dei  fattori  che  debbono  servire  ad  esprimere  tutto  il mondo nel quale gli uomini vivono (10)».  Esempi significativi in tal senso sono per lui alcune sequenze dei  due  maggiori  film di  Jean  Renoir  ­  non  a caso  figlio  del  grande  pittore  impressionista  Auguste,  e  dotato  di  una  pro­ fonda  conoscenza  pittorica:  ­  La grande  illusione  (1937)  e  L'angelo  del  ma­ le  (La  bète  humaìne)  (1938),  nei  quali,  ogni  elemento  della  "ambientazio­ ne"  concorre  a  determinare  il  dramma  dei  protagonisti;  dalla  componente figurativa, ai volti, alla gestualità degli attori. Renoir ­ nota De Santis ­ sembra avvertire che ci sono dei sentimenti che l'uomo non può esprimere, e allora bisogna servirsi di tutto quello che gli sta attorno:  «Cosi il viaggio che i prigionieri  francesi compiono da una regione  tedesca  ad  un'altra,  nella  Grande illusion,  è  dato  dal  trasformarsi graduale del paesaggio sotto gli occhi dei prigionieri stessi; e la lite fra due fuggiaschi,  affamati,  spossati,  mentre  hanno  quasi  raggiunto  il  confine svizzero, diventa più raccapricciante in un paesaggio invernale, arido e de­ .solato (11)».  L'angoscia profonda che dominava  la vicenda dei  prigionieri non era espressa soltanto dai volti o dai sentimenti degli uomini,  ma dalla partecipazione ancora più drammatica di tutti gli elementi complementari: «Non un solo episodio di guerra appariva mai  sullo schermo:  pure la guer­ ra stessa impregnava del suo significato ogni  fotogramma,  grazie ai  riferi­ menti  presenti  e lontani  che senza posa stringevano il  racconto (12)».  E  ne L'Angelo del male:  «la  crisi  in  cui  cade  Jacques  Lantier  quando  vuole  stran­ 29 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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gelare  la  ragazza  sul  ciglio  della  strada  ferrata,  viene  dominata  dall'improv­ viso frastuono di un treno che passa, contro un ciclo burrascoso.  Più tardi sono  ancora  le  stazioni  nude  e  deserte  del  nord­ovest  della  Francia,  i  salici allineati  in  eleganti  filari,  come  ulivi,  lungo  la  strada  che  il  treno  percor­ re (13)». Come  esempio,  parecchio  infrequente  nel  nostro  cinema,  di  una  si­ mile  funzione  del  "paesaggio",  De  Santis  cita  Piccolo  mondo  amico  (1941) di  Soldati  (il  quale,  come  si  è  visto,  sarà  poi  accusato  di  calligrafismo): «Per  la  prima  volta  nel  nostro  cinema  abbiamo  visto  un  paesaggio,  non  più rarefatto,  pacchiano­pittoresco,  ma  finalmente  rispondente  alla  umanità dei  personaggi  sia come elemento emotivo  che come  indicatore dei  loro  sen­ timenti.  Penso alla partenza di Franco per Milano,  all'alba.  Luisa che l'ha accompagnato  resta  sulla  riva  mentre  egli  la  vede  scomparire,  col  paesaggio che  ondeggia  come  il  movimento  della  barca  che  lo  trasporta  sul  lago.  Così le  sequenze più  importanti  nel  film  ci  sono apparse,  ancora,  quelle in  cui tutti  gli  elementi  da  noi  sopra  citati  erano  presenti:  il  ballo  in  campagna, nel  primo  tempo;  la  morte  di  Ombretta,  l'incontro  di  Luisa con  la  marche­ sa,  sotto  la  pioggia,  la  corsa  per  le  scale  del  villaggio  delle  tre  donne  che vengono  a  darle  la  notizia della  disgrazia,  nel  secondo  tempo  (14)». Da queste premesse De Santis arriva alla rivalutazione dell'elemento documentaristico  che  una  inveterata  mentalità  considera  estraneo  alla  crea­ zione  cinematografica,  e  che  invece  per  lui  può  costituire  uno  degli  apporti più preziosi  per  la definizione di  un autentico cinema nazionale.  E cita  Uomi­ ni  sul fondo  (1941)  del  comandante  di  marina  Francesco  De  Robertis,  che narra la storia di  un  sottomarino affondato  nel  corso di  una esercitazione e interamente  interpretato  da  autentici  marinai.  Ma  ancor  più  Un pilota  ri­ torna  (1942)  e  L'uomo  dalla  croce  (1943)  (che  con  La  nave  bianca  (1941) compongono la discussa trilogia di  Rossellini sulla guerra fascista).  In quei due  film  propagandistici,  tipici di quegli  anni di  guerra.  De Santis  intuisce quello che,  dietro la  facciata bellicosa,  costituisce,  sia  pure  in  modo ancora embrionale, il vero centro di interesse e lo stile di Rossellini: «[...] nessuna meraviglia che  il  suo  mondo  [di  Rossellini]  a  prima vista  possa apparire,  fra tanto chiasso,  il  più  sprovvisto di  senso polemico e insieme il  più  lontano da ogni  lotta  di  tendenza.  Ad  una critica attenta e  minuziosa  non  devono sfuggire, invece, alcune premesse ideali che sembrano guidare il suo lavoro: ricreare una realtà oeeettiva senza i n u t i l i fronzoli decorativi ed arabeschi (15)». b) La coralità: come "rapporto" individuo /collettività', come  epica popolare. I  personaggi  del  cinema italiano  di  quei  tempi,  per  De  Santis,  vivono tutti  in  solitudine,  scontando  il  loro  dolore  di  non  essere  di  carne  viva, vuoti  di  ogni  sostanza  poetica,  accomunati  da  un  parlare  da  oltretomba 30 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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«come  fanno i  pazzi  tra  loro che ognuno racconta  la  sua».  Egli  avverte  la necessità  di  rompere  con  certi  claustrofobici  interni  borghesi  dove  non  si agitano personaggi,  ma  letterarie e meccaniche marionette:  «Sono  nudi  di sentimenti,  nudi  di  ossessioni:  agiscono  in  un  mondo  del  quale  non  è  mai possibile vedere gli orizzonti, i confini.  Mai proiettati in un paesaggio: alle loro spalle o dinnanzi ai loro occhi restano solo stanze fredde, spazi disabi­ tati (16)». Ancora  un  bisogno di  "spazio",  dunque,  che si  espanda,  che si  apra alla vita collettiva;  un luogo ideale che ricrei il senso di comunità,  ma, allo stesso tempo,  un luogo  fisicamente concreto dove l'uomo viva la sua storia insieme agli altri; e dove sia avvertibile il suo ritmo quotidiano: «[...] vor­ remmo  che anche  l'uomo  che  scantona  dietro  il  vicolo  di  sfondo avesse  la sua importanza,  avesse la sua tragedia perché è impossibile che non ce l'ab­ bia; vorremmo che proprio lui,  soprattutto lui,  non  risultasse un semplice elemento  decorativo,  ma  scaturisse  da  un  bisogno  di  creare  l'umano,  di creare  il  rapporto  (17)».  In  questo  caso,  è significativo  che  sia  De­Sica  a soccorrerlo,  con  Un garibaldino  al convento  (1942),  premonitore  di  quella accorata  elegia  dei  sentimenti  che  di  lì  a  poco  egli  avrebbe  avviato  con  / bambini ci guardano.  De Santis considera quel  film come «l'unico esempio prodotto  in  Italia  di  un  cinema  corale,  intendendo  con  ciò  svalutare  una tendenza  largamente  diffusa  nella  nostra produzione,  secondo  la  quale si dimostra  di  non  saper  creare,  mai,  un  mondo  che  vada  poco  più  lontano dell'astratto egocentrismo di  pochi  attori,  di  pochi  personaggi,  inevitabil­ mente chiusi tra quattro mura o irrimediabilmente persi nello sfarzo di son­ tuosi  saloni  ducali  (18)».  E  accanto  a  De  Sica,  il  Blasetti  di  Quattro passi fra  le nuvole (1942),  che con  la  sua  quotidianità sommessa  porta  nel  nostro cinema,  al di  fuori  di  ogni  retorica,  i  primi disvelamenti dell"'uomo occul­ to"  italiano.  De  Santis  rinnova  così  la  sua  stima  per  il  regista  di  i860 (un film da lui  considerato come «una delle più  concrete,  serie e fondamentali fonti del cinematografo italiano») e accoglie la nuova opera come un  felice ritorno ad un lineare linguaggio realistico.  Il protagonista, il piccolo com­ messo viaggiatore, gli appare infatti dipinto «con una sottigliezza psicolo­ gica perfetta».  Egli vi ritrova «una coerenza di gesti e di atteggiamenti che non  lasciano  dubbi  fin  dall'inizio  sulla  sua  condizione  sociale».  La  poesia del  quotidiano gli  appare espressa attraverso  un  «pacato  e dolce essere ano­ nimo di  tutte le cose che  si  pongono avanti,  senza la più  piccola affettazio­ ne,  ma come se le incontrassimo per la strada,  allo stesso modo che accade nella vita vera (19)». Una  verità,  dunque,  della  vita  di  tutti  i  giorni,  che  si  accordi  però, quando  è  il  momento,  con  i  grandi  conflitti  della  società,  come  già  aveva indicato  Renoir  ne La Marsigliese (1937).  Ma,  in  questa  direzione,  è  il cine­ ma  sovietico,  con  il  suo  progetto  di  "epicità"  volta  ad  esaltare  la  dialettica 31 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di  un conflitto rivoluzionario,  che affascina  De Santis.  Un  cinema che rap­ presenta  uno  degli  esempi  più  alti  di  quell'accordo  tra  assunto  ideologico  e sperimentazione  linguistica  che  egli  sembra  ricercare:  «[...]  la  Russia  cele­ brava il  suo Ottobre rivoluzionario e  le sue  tragiche giornate di  sangue  pro­ letario,  celebrava  lo  spirito  degli  uomini  nuovi  affermatosi  su  quello  ora­ mai  corrotto  e  abbandonato  delle  pseudo­coscienze  democratiche,  celebra­ va  una storia che  non  avrebbe  mancato di  incidere anche sulla  civiltà  di  al­ tri paesi.  Eisenstein,  Pudovkin,  Dovgenko erano figli diretti di questa rivo­ luzione,  l'avevano vissuta nelle strade e nelle piazze,  sulle barricate,  ed ora potevano  raccontarla  con  un  linguaggio,  profetico  anch'esso  come  l'idea che  l'aveva  promosso,  linguaggio  che  non  ammetteva  compiacenze,  che mirava a toccare diritto nel cuore degli uomini della  nuova  Repubblica.  Fu la nascita di uno stile crudo, secco,  incisivo,  tutto espressione cinematogra­ fica: le leggi di un'armonia ritmica venivano sancite definitivamente. Ora il cinema  può  vantare  la  sua  epica  popolare.  Si  afferma  un  realismo  cinema­ tografico  avido  di  fratellanza  umana,  di  verità,  forte  di  concetti  ed  allusio­ ni  ideologiche,  mai  fine  a  sé  stesso  perché  ispirato  da  chi  per  quella  stessa fratellanza e verità aveva rischiato la vita (20)». e) II realismo: come autenticità del reale mediante la "finzione" del cinema. Negli  scritti  di  De  Santis  ricorrono  spesso,  come  si  è  visto,  termini come  realismo  e  verità,  che  di  per  sé,  cosi  onnicomprensivi  ed  ambigui  qua­ li sono,  non sono sufficienti certo a definire i caratteri del suo cinema.  Né legittimerebbero  solo  per  virtù  loro,  la  sua  collocazione  nel  movimento neorealista.  Anche perché, come è stato detto,  forse un'estetica u n i f i c a n t e il  neorealismo  non la possiede,  essendo stato soprattutto un atteggiamento etico,  un  modo nuovo di confrontarsi con  la sconvolta realtà del dopoguer­ ra:  tanto  che si  potrebbe  affermare  che  esistono  t a n t i  neorealismi  q u a n t i sono  i  registi  di  quella  tendenza.  Ora,  appunto,  Tacce/ione  che  al  termine "realismo"  De Santis  ha  cominciato  ad  a t t r i b u i r e già  nelle  sue  recensioni giovanili, ha indubbie rispondenze tematico­culturali con le poetiche cine­ matografiche dei  suoi  futuri  compagni  di strada ed  è prefiguratrice di  alcu­ ne specifiche affinità. Si pensi alla identità della matrice Verga­Renoir dal­ la quale trarrà ispirazione Visconti,  e all'avvertimento del  "documentari­ smo"  di  Rossellini  e dell'affettuosa  "coralità"  di  De  Sica,  di  cui  si  è detto. Ma  queste  "simpatie",  questi  elementi  unificanti,  costituiscono  appunto solo una delle coordinate del percorso neorealista, quella di carattere etico­ culturale, cui si accennava.  L'altra, quella "estetica", ci  fornirà alcuni mo­ tivi­chiave  utili  per  iniziare a  definire  il  linguaggio espressivo di  De Santis, proprio grazie a certe peculiarità della sua  "diversifica/ione". Sono indicative, a riguardo, alcune dichiarazioni di teorica cinema­ tografica, che egli già propone, anche se senza sistematicità, nelle sue criti­ che. 32 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il cinema è per lui un'arte che parla a tutti i nostri sensi,  e lo spetta­ tore  è  uno  che  anzitutto  vuole  vedere;  e  deve  essere  proprio  del  cinema  la preoccupazione,  come  si  è  visto,  di  un'autenticità  sia pure fantastica,  di tutti gli elementi che concorrono ad esprimere il mondo del personaggio: il realismo «non  come passivo ossequio ad una statica verità obbiettiva,  ma come forza creatrice, nella fantasia, di una storia di eventi e di persone (21)». Realismo,  insomma,  come  piena  valorizzazione  del  mezzo  espressivo,  co­ me elaborazione  fantastica  della realtà. Per questo l'attenzione per la sperimentazione è sempre vigile nelle sue critiche; ed è indicativa la sua ammirazione per il cinema espressionista e  del  Kammerspiel,  per  registi  come  J.  Sternberg,  Pabst,  Murnau,  Lang nelle cui opere la sensibilità verso i drammi quotidiani e verso le inquietudi­ ni sociali della Mitteleuropa del primo dopoguerra,  va di  pari passo con la ricerca linguistica. E, ancora una volta, la sintesi di tutte queste esperienze è riscontrata nel cinema di Renoir, in cui magicamente riescono a fondersi poesia e realismo.  Quel  Renoir che,  dopo aver visto nel  1924 Femmine folli di Stroheim numerosissime volte, affermava affascinato: «Stroheim ha in­ segnato  un  sacco di  cose.  Il  più  importante dei  suoi  insegnamenti è che la realtà non  ha valore se non quando è trasfigurata.  In altre parole,  un arti­ sta esiste solo se riesce a creare il suo proprio piccolo mondo.  Non è a Pari­ gi,  a Vienna,  a Montecarlo  o ad Atlanta,  che i personaggi di  Stroheim,  di Chaplin, e di Griffith si muovono. È nel mondo di Stroheim, di Chaplin, e di  Griffith».  De  Santis  sembra  avere  perfettamente  inteso  certi  parametri estetici del maestro francese e il valore del suo insegnamento. Scrive infatti ancora a proposito de L'angelo del male: «L'amore di Renoir per una fan­ tasiosa  ricerca  della  verità  umana,  confessata  fin  dai  suoi  primi  film,  ha, qui,  fatto miracoli.  Poche opere .cinematograficlie conosciamo di  una cosi potente e  schietta  aderenza alla  vita.  Accanto  a  Charlot,  ad  Hallelujah! di King  Vidor,  a  Variété  di  Dupont,  alla  Corazzata  Potemkin  di  Eisenstein, ad A  nous la libertà di  Clair,  possiamo ben collocare questa nuova conqui­ sta,  senza timore di  minorarla.  Forse  fino ad oggi,  nessuno più di  Renoir, ha compreso tutto ciò che il cinema con i suoi specifici mezzi espressivi può dare  all'Arte:  dalla  forza  poetica  che  con  un  sonoro  funzionale  con  il dramma dei personaggi, si ottiene, alla evidenza plastica che con una foto­ grafia ora piatta,  ora suggestiva,  ora  scevra  di  ogni  pittoricistica intenzio­ ne, si può offrire al racconto; dalla capacità che uno studiato movimento di macchina  possiede  per  sottolineare  psicologicamente  l'azione,  al  forte  si­ gnificato drammatico che una  inquadratura con  i  segni  che vi  sono conte­ nuti, può avere. Si ricordi, ad esempio, tutte le volte che gli interpreti del film vengono colti dall'alto, con quei treni nel basso che fumano fra le ro­ taie o fischiano passando per la stazione. [...] Un lineare e manifesto conte­ nuto si affaccia presto alla nostra mente: quei valori stanno là ad indicare, di volta in volta, il presentimento di un precipizio nel quale gli uomini ca­ 33 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dranno alla fine, o il loro intcriore abbandono, in una vita che indifferente continua  il  suo  corso,  o,  ancora,  la  loro  sofferente esistenza  preda  dei  mo­ derni mezzi meccanici (22)». Queste dunque che abbiamo esaminate sono alcune delle coordinate estetiche che sottenderanno il progetto di De Santis. E, inscindibile da esse, c'è la coscienza della  necessità di  nuovi  valori  in  grado  di  sostanziare  una estetica  nuova,  che  definisca  anche  il  compito  che  in  un  momento  come questo spetta all'artista. È già forte ormai il presagio della fine di un'epoca e  l'urgenza  dell'assunzione  di  nuovi  doveri  collettivi:  «Non  si  creano  una storia e un'estetica, e quindi tutti i fatti che da essa dipendono, con un solo poeta,  ma  tanto  più  costui  sarà  grande  se  vorrà  rappresentare  gli  interessi spirituali di tutti quanti,  anche quando egli  non lo crede, a questa forma­ zione  hanno contribuito  (23)».  «Se  alla  vera  umanità  di  un  paese,  e  quin­ di alla sua storia,  noi dobbiamo guardare ogni volta che i suoi sentimenti, le sue aspirazioni più manifeste e più nascoste, da un artista vengono con­ traffatte, ci è lecito rispondere che in questa sede, la più valida oggi, perché la più drammatica,  saremo indotti  a suddividere la vita dell'uomo,  le sue azioni in utili ed inutili, nei riguardi di quella storia e di quella umanità (24)».

De  Santis  con  Gianni  Puccini,  a  Roma,  nel  1940.

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Note (l)Carlo Lizzani,  Introduzione a Riso amaro,  Officina edizioni,  Roma  1978, p.  54. (2)  Giuseppe  DeSantis,  Ripensando  ai tempi di «Cinema» prima serie,  cil..  Ora  anche  in  Giu­ seppe  De  Santis,  Verso  il neorealismo,  un  crìtico  cinematografico  degli anni quaranta,  a  cura di CallistoCosulich, Bulzoni,  Roma  1982, pp. 33, 34, 35. (3) Giuseppe  De Samis e  Mario  Alicata,  Verità e poesia:  \ erga e il cinema italiano,  in  «Cine­ ma»,  n.  127,  10 ottobre  1941 ;  e Ancora di  Verga e del cinema italiano,  in  «Cinema»,  n.  130, 25  novembre  1941;  ora anche in Giuseppe  De Santis,  Verso il neorealismo,  cit.,  pp. 48, 49,  53. (4)  Giuseppe  De  Santis,  recensione  de  La  cena  delle  beffe,  in  «Cinema»,  n.  137,  10  marzo 1942, ora anche in op. cit., p.  101. (5) Giuseppe De Santis, recensione di  Tragica notte,  in «Cinema», n.  141,  10 maggio 1942, ora anche in op. cit., p.  130. (6) Giuseppe  De  Santis,  recensione di  Malombra,  in  «Cinema»,  n.  158,  25 gennaio  1943,  ora anche in op. cit., pp.  155,  156. (7) Giuseppe De Santis, recensione di Sissignore!,  in «Cinema», n.  138, 25 marzo  1942, ora an­ che in op. cit., pp.  107,  108. (8) Giuseppe  De Santis,  recensione di  Un  colpo di pistola,  in  «Cinema»,  n.  156,  25  dicembre 1942, ora anche in op. cit., pp.  144,  145,  146. (9)  Giuseppe  De  Santis,  recensione di  Labbra serrale,  in  «Cinema»,  n.  162,  25  marzo  1943, ora anche in op. cit., pp.  175,  176. (10) Giuseppe De Santis,  Per un paesaggio italiano,  in «Cinema»,  n.  116, 25 aprile  1941, ora anche in op. cit., pp. 42­43. (11) Ivi, p. 43. (12) Giuseppe De Santis, recensione di  Un pilota ritorna,  in «Cinema», n.  140, 25 aprile  1942, ora anche in op. cit., p.  125. (13) Giuseppe De Santis, Per un paesaggio italiano,  in op. cit., p. 43. (14) Ivi, pp. 44­45. (15) Giuseppe  De Santis,  recensione de L 'uomo dulia croce,  in  «Cinema»,  n.  168,  25 giugno 1943, ora anche in op. cit., p. 2 1 1 . (16) Giuseppe  De  Santis,  // linguaggio  dei rapporti,  in  «Cinema»,  n.  132,  25  dicembre  1941, ora anche in op. cit., p. 63. ( 17)  Ivi, p. 64. (18) Giuseppe De Santis,  recensione di  Un garibaldino al convento,  in  «Cinema»,  n.  139,  10 aprile 1,942, ora anche in op. cit., p. 118. (19)  Giuseppe  De  Santis,  recensione  di  Quattro passi fra  le nuvole,  in  «Cinema»,  n.  157,  10 gennaio 1943, ora anche inop. cit., p.  152. (20) Giuseppe De Santis (con lo pseudonimo di  Pietro Goduti),  recensione di  Within  thè ìaw, in «Cinema», n.  173­174, 25 settembre­25 ottobre 1943, ora anche in op. cit., p. 234. (21 (Giuseppe De Santis, Per un paesaggio italiano, op. cit., p. 43. (22) Giuseppe  De Santis,  recensione de L 'angelo del male,  in «Cinema»,  n.  159,  10 febbraio 1943, ora anche inop. cit., p.  165. (23) Giuseppe DeSantis, recensione di Comacchio, in «Cinema», n. 157, lOgennaio 1943, ora anche in op. cit., p.  149. (24) Giuseppe De Santis, recensione di Sissignora, in op. cit., p.  107.

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Tappe di un apprendistato Tra Ossessione e Desiderio «Erano le vacanze di Pasqua del  1940, c'era la guerra in Europa, era finita un anno prima quella di Spagna e poco dopo l'incendio s'era riacceso più  vasto  ancora.  Per  il  momento,  l'Italia  era  non  belligerante,  secondo una  formula  ambigua che,  all'ombra  delle illusioni  lampo,  mascherava  1' agguato  imminente  dello  sciacallo  fascista.  Pure,  si  viveva;  pure,  c'erano ancora  vacanze.  C'erano  ancora  vacanze,  e  sul  vaporetto  di  Capri,  in  un giorno d'aprile prima o dopo che l'Olanda e la Danimarca erano state inva­ se  da  Hitler,  tra  la gente  viaggiavano  due  giovani,  uno  sui  trentaquattro l'altro  sui  ventitré.  Non si  conoscevano,  ma  fecero presto ad attaccare di­ scorso durante la traversata, prestissimo a sentirsi congeniali e a diventare amici.  Non  parlarono  solo  di  cinema,  parlarono  forse  soprattutto  della guerra e dell'ansia, ed era molto importante per tutt'e due parlarne e capir­ si. Uno, il più anziano, era alto, bruno, con due occhi magnetici nel mezzo d'un rostro tormentato e cinquecentesco, da monumento equestre, le mani simili  a  due  ali,  un  passo  singolare,  pesante e leggero  a  un  tempo,  una di quelle  andature  che  svelano  un  carattere,  e  qui  si  capivano  forza ponderata,  slancio trattenuto,  morbida  fortezza,  l'altro,  biondo,  l'esiguità della  corporatura  corretta  da  una  mascella  improvvisa  e  aspra  sotto  uno sguardo attento e ironico insieme, con una punta perenne di diffidenza sot­ tile e contadina,  un  puntino appena  nella pupilla.  Il  primo aveva  fatto il bohémien,  ribellandosi  a  un  avvenire  tracciato  e  a  un  presente giudicato monotono, l'allenatore di cavalli, il regista dilettante di teatro, l'assistente cinematografico,  sempre  cercando  febbrile  la  sua  strada;  aveva  perfino scritto un romanzo,  finito poi per sempre in fondo a un cassetto;  il secondo inventava racconti pieni di bizzarra malinconia,  ambientati in un paesaggio favoloso e  larghissimo,  e  stava  per  diventare  il  critico  cinematografico che più  avrebbe  avuto  influenza  sul  cinema  italiano  d'allora.  Si  capirono  subi­ to, strinsero un patto di fervido lavoro insieme, a Capri imbastirono e poi a 36 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Roma scrissero, dimenticando tutto, il mare, la gente, le vacanze, una ridu­ zione del Grand Meaulnes che non diventò mai un film. Così si incontraro­ no Luchino Visconti e Giuseppe De Santis (1)». È  Gianni  Puccini  che  racconta:  un  po'  fantasiosamente  (De  Santis mi ha confessato che il primo incontro con Visconti avvenne in modo mol­ to più affrettato e prosaico);  ma significativamente, perché sul filo di una memoria  già  mitizzante.  Il  che  rivela  la  misura e  il  significato che  Puccini, uno  dei  protagonisti  del  "nuovo  corso"  del  cinema  italiano,  attribuisce  a quel  sodalizio.  Senza  il  quale  non  si  capirebbe  la  nascita  di  Ossessione  e quella conversione che doveva condurre Visconti  ­ come  lui  stesso ebbe a dire ­ sulla via di Damasco del disvelamento di quella realtà del "paese rea­ le",  per  vent'anni  occultata  e  rimossa  dal  fascismo.  Oltre  alla  riduzione dell'elegiaco romanzo di Alain­Fournier,  Visconti e De Santis ne scrivono altre,  tutte rimaste poi  nel limbo dei  "sogni  nel cassetto":  come quelle trat­ te  da  Disordine  e  dolore precoce  di  Thomas  Mann  e  da Adrienne Mesurat di  Julien Green.  (E qui si  avverte l'eterogeneità di registri e di sensibilità pre­ senti nelle scelte iniziali di due tipici autori neorealisti). Ai due si aggiungo­ no poi Ingrao e Puccini e insieme decidono di abbordare Verga. Si rivolgo­ no al padre di Puccini, che era stato amico dello scrittore siciliano negli ul­. timi anni di vita,  perché interceda presso il nipote di Verga per l'acquisto dei diritti.  Si riescono ad avere quelli de L'amante di Gramigna e di Jeìi il pastore,  ma non quelli de I Malavoglia che vengono rifiutati dopo una lun­ ga trattativa perché per gli eredi di Verga, pare che il nome di Visconti, al­ lora  completamente  sconosciuto,  non  rappresentasse  una  garanzia  suffi­ ciente. L'amante di Gramigna è la prima sceneggiatura del gruppo,  cui si è aggiunto intanto  Mario  Alicata,  al  quale è affidato il  compito di  "sicilia­ nizzare", insieme a Rosario Assunto,  i dialoghi del film scritti in italiano. Quando già le basi del film sono gettate e sono stati fatti i sopralluo­ ghi tra Fondi e Itri, dove forse per ragioni economiche si pensa di ambien­ tare il film figurando la Sicilia, e già si fanno i nomi di Luisa Ferida per il ruolo di Peppa e di Massimo Giretti per quello di Gramigna,  al Ministero della cultura popolare,  di pugno dello stesso ministro Alessandro  Pavolini, è annotato sul copione: basta con questi briganti!. Pavolini, nonostante le insistenze di Visconti, non rimuove il veto censorio preventivo e il film non si  fa. Il gruppo  è disperato.  Mesi  di  lavoro  e di  entusiasmo buttati  via. «Che si poteva fare d'altro? ­ racconta ancora Puccini ­ Renoir, in Francia, aveva prestato una copia dattiloscritta a  Luchino del Postino di  Cain.  La leggemmo tutti, ci parve una materia suggestiva. Luchino entrò in contatto con  l'avvocato  Franchini,  vediamo  se si può fare  un fi/m  di  questa storia, gli disse. Franchini ne parlò alla lei, la faccenda si mise bene, e noi comin­ ciammo  a  scrivere.  Mario  Alicata,  che  ci  aveva  dato  fuggevolmente  una 37 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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mano  pei  dialoghi  di  Gramigna,  entrò stabilmente  nel  nostro  gruppo:  noi quattro, Alleata,  Visconti,  De Santis e io scrivemmo soggetto e sceneggia­ tura  di  Palude,  poi  Ossessione.  Lavorammo  duro.  Poi  Solaroli,  cui  la  lei aveva affidato l'organizzazione del film, fu l'uomo che diede la spinta deci­ siva,  ebbe  fiducia  in  Luchino  e  in  noi  tutti,  un  incontro  importante  per  il gruppo  di  Ossessione;  e  la  sua  fiducia  seppe  autorevolmente  trasmettere, determinando così la partenza e la nascita concreta di  Ossessione (2)». Con decisione audace  Visconti  chiede  Anna  Magnani  per  il  perso­ naggio  della  protagonista,  Giovanna.  L'attrice  era  allora  soprattutto  ap­ prezzata nella rivista, ma in cinema aveva avuto soltanto ruoli di carattere e in  teatro  qualche  successo  di  critica.  Visconti  deve  lottare  parecchio  per averla, e quando ha finalmente l'assenso della produzione si reca a trovar­ la.  Ma è un incontro drammatico, perché la Magnani, disperata, gli rivela di  essere  incinta.  E  Visconti  allora  ripiega  sulla  "riserva"  Giara  Calamai (che si rivelerà poi una splendida Giovanna). Il  film  finalmente  prende  il  via  e  De  Santis  segue  Visconti  come aiuto regista. Ma le traversie del "gruppo" non sono terminate; altri "incidenti" scandiscono  le  tappe  della  realizzazione  di  Ossessione.  Dopo  la  morte  del padre di Visconti, avvenuta subito prima della lavorazione del film, comin­ ciano gli arresti, da parte della polizia politica fascista, dei componenti del­ la  cellula  comunista  romana,  di  cui  fanno  parte  parecchi  dei  redattori  di «Cinema». Siamo ormai in pieno periodo di guerra. Ha  scritto  Ruggero  Zangrandi  nel  suo  Lungo  viaggio  attraverso  il fascismo che  nell'autunno del  1941,  mentre  la guerra volge a  favore della Germania e sembra voglia concludersi con l'imminente vittoria di  Hitler, gli uomini liberi sono assillati da cupi presagi e sentono imminente la trage­ dia già con la scomparsa di compagni caduti  in guerra.  Si va diffondendo in strati sempre più estesi dell'opinione pubblica, un disagio crescente verso l'ottimismo  della  propaganda  ufficiale  del  regime  e,  di  giorno  in  giorno, nuove leve della popolazione sentono che si sta combattendo per una causa persa.  1 giovani frattanto si interrogano febbrilmente sulla situazione del momento,  si  accorgono  che  la  guerra  è  un  "fatale  sbaglio"  ed  è  mossa  da scopi ingiusti, e sembrano impazienti di far qualcosa per togliere di mezzo il  fascismo.  All'inizio,  nel  1939  e  nel  1940,  la  "guerra  inevitabile"  viene propagandata dal  regime come un mezzo di difesa dei  "paesi giovani e pro­ letari" contro le vecchie "plutocrazie".  Adesso,  l'estensione del conflitto, l'invasione di  nazioni  che non possono certo essere considerate "plutocra­ tiche", l'eroica resistenza di esse contro la barbarie nazista e la convinzione sempre  più  ferma  che  il  "nuovo  ordine"  europeo che  il  nazismo  instaure­ rebbe si rivela sopraffattore e odioso, produce anche nei meno preparati un senso di diffidenza e di avversione. La guerra mostra sempre più il suo vero 38 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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volto di oppressione impcrialistica voluta e diretta dai tedeschi. Molti par­ tono e soprattutto tornano senza più nessuna delle passate illusioni.  E, an­ che se spesso in preda allo sconforto,  esprimono il convincimento che non c'è ormai altro se non di farla finita con il fascismo (3). I militanti della cellula comunista romana finiscono per buona parte in carcere.  Tra il  1939 e il  1940 vengono arrestati  Lucio Lombardo Radice, Aldo  Natoli  e  Pietro  Amendola.  Alla  fine del  1942  tocca a Marco Cesarini e ai  fratelli  Dario e Gianni  Puccini.  Ecco come ricorda l'episodio Aldo Sca­ gnetti:  «Era  accaduto  cosi:  noi,  la  notte  stessa  che  avevamo  saputo  che Gianni  e  Dario  erano  stati  messi  in  carcere,  ci  eravamo  presentati  in  reda­ zione,  mandati  da  altri  amici;  io  con  questa  faccia  sempre  perennemente ingenua,  per cui  pensavano  che  fossi  il  migliore da  mandare in  redazione. Arrivai  e  trovai  Domenico  Purificato  e  dissi  a  lui  piano  la  cosa  come  era avvenuta.  Il povero Domenico Purificato cominciò a sfogliare una serie di riviste, che stavano nell'archivio; non sapeva che pesci prendere.  Alla fine, mi  decisi  ed  entrai  nella  stanza  di  "Vi"  [Vittorio  Mussolini],  il  quale,  appe­ na  lo seppe,  si  meravigliò  profondamente.  Io seguitai  a dirgli:  «Vi  ricorda­ te,  stanno sempre qui  dentro,  sempre casa e rivista e rivista e casa;  come è possibile che possano  aver  fatto  qualche cosa?» Allora lui  cominciò a tele­ fonare,  e pensate con quale cuore io assistevo a queste telefonate.  Poi  Vit­ torio Mussolini esplose: «Macché casa e rivista e rivista e casa. Gianni Puc­ cini e Dario Puccini sono due comunisti!» (4) Dopo  il  loro  arresto  la  discussione  tra  i  redattori  di  «Cinema»  e  i collaboratori  ed  amici  che  gravitano  intorno  alla  rivista,  continua  nelle case,  specialmente  in  quelle  di  Visconti  e di  De  Santis,  visto  che anche  i Cine  Guf (i  cineclub  della gioventù  universitaria  fascista) sono diventati luoghi  sospetti.  Ma la polizia vigila e appena qualche settimana dopo l'ar­ resto dei Puccini, viene preso Mario Alicata. Pietro Ingrao riesce a sfuggire per caso:  è fuori  Roma,  ancora al  suo paese,  a  Lenola;  quando torna viene subito avvertito dall'organizzazione del partito e parte per Milano. Intanto la lavorazione di Ossessione è proseguita e De Santis resta accanto a Viscon­ ti come collaboratore principale, fino al montaggio del film, fatto con Ma­ rio  Serandrei,  e  all'edizione  definitiva.  Quando  il  film  viene  finalmente proiettato, a Palazzo Braschi, i sospetti dell'OVRA si sono fatti ancora più forti nei confronti dei componenti del gruppo: viene perquisito il Cine Guf di  Roma  dove  vengono  trovati  molti  opuscoli  di  propaganda  comunista portati là da Mario Calzini e Carlo Lizzani. Il locale viene chiuso. Ma il 25 luglio è ormai vicino.  Dopo un anno dalla caduta del fascismo, nell'estate del 1944 Visconti verrà catturato dai repubblichini della famigerata banda Koch e riuscirà solo per caso a sfuggire alla condanna a morte. Come  si  può  intuire  da questa serie di  elementi,  il  significato che Ossessione acquista  nei  riguardi  del  nascente  neorealismo,  e della  fprma­ 39 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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zione artistica e politica di De Santis, va al di là del testo strettamente filmi­ co per dilatarsi a comprendere il contesto culturale e storico di quel signifi­ cativo  periodo. Ossessione  è  stato  felicemente  definito  il  "25  luglio  del  cinema  ita­ liano"  e  come  tale  non  poteva  non  lasciare  profonde  tracce  in  tutti  coloro che  concorsero  alla  nascita  di  questa  vera  e  propria  "opera­manifesto", antesignana  di  quel  "cinema  antropomorfico"  per  il  quale  i  giovani  di «Cinema»,  e  in  special  modo  De  Santis,  si  erano  battuti.  Pur  nella  profon­ da diversità di temperamento e di  stile,  vedremo come certi  grumi  ferali e come  certo  primordiale  vitalismo  trascorreranno  dall'opera  di  Visconti  in quella di  De Santis e quanto Ossessione sia stato prezioso di indicazioni per il  regista  ciociaro:  per  quella  sorta  di  metafora  trasgressiva  dell'ideologia dominante  che  il  film  rappresentò  e  per  l'operazione  di  "azzeramento  e  di ribaltamento"  dell'immaginario cinematografico italiano preesistente che, con esso, Visconti riuscì a compiere. Negli ultimissimi giorni del regime fascista, il 15/16 Luglio del 1943, Rossellini  da  inizio  alla  lavorazione  di  Scalo  Merci.  Prende  con  sé  come aiuto regista  De Santis,  che ha inoltre già collaborato con  lui  alla sceneggia­ tura  del  film.  L'incontro  di  Rossellini  con  i  giovani  del  gruppo  di  «Cine­ ma»  è  stato  finora  parecchio  sottovalutato  dalla  storiografia  neorealistica, oscurato  dal  sodalizio,  certamente  più  significativo  e  progettuale,  che  essi costituirono  con  Visconti.  A  ben  considerarlo,  invece,  quell'incontro,  an­ che per l'apporto di  recenti  testimonianze,  appare ugualmente rilevante sia ai  fini  dell'arricchimento  esegetico  del  movimento  neorealista,  sia  per  quel­ lo che concerne  le  ragioni  di  alcune  "conversioni"  (di  Visconti  stesso e  poi di De Sica/Zavattini) altrimenti incomprensibili, oltre che criticamente in­ giustificate.  I contatti perciò tra il già maturo professionista Rossellini e la generazione molto più giovane legata a «Cinema» dimostra quanto produt­ tivo sia stato quel lento lavoro di ricerca, di verifica culturale e politica ini­ ziato  all'interno  del  sistema  fascista  e poi  approdato  all'impegno  resisten­ ziale.  Anche  nei  confronti,  e  forse  più  indicativamente  per  questo,  di  un temperamento come quello di Rossellini, uno dei più alieni dalla diretta mi­ litanza  politica  e  dall'immediata  denuncia  sociale,  ma  uno  dei  più  accorti  e sensibili  a  catturare  i  segni  di  nuovi  valori  e  comportamenti.  Diventerebbe in  tal  modo  un  po'  meno  "misterioso"  e  brusco  quel  suo  passaggio  così  ra­ pido  da  un  fronte di  guerra (quella della retorica  fascista di  Un pilota ritor­ na  e  L'uomo  dalla  croce)  ad  un  altro  opposto  (quella  della  Resistenza).  È estremamente significativo che proprio due dei redattori di «Cinema», Mi­ chelangelo Antonioni e Massimo Mida Puccini,  partecipino alfa sceneggia­ tura di Un pilota ritorna, il cui soggetto era stato scritto, guarda caso, dallo stesso direttore della rivista, quel Vittorio Mussolini  che si  firma all'occa­ sione,  forse a causa della sua cronica timidezza, Tito Silvio Mursino.  E non è di minore rilevanza il fatto che il protagonista del film sia Massimo Girot­ 40 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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De  Santis  con  Visconti  durante  la  lavorazione  di  Ossessione. De  Santis  con  Rossellini  sul  set  di  Scalo  merci  (poi  Desiderio}.

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ti,  che oltre ad  essere già  un  divo,  per avere  l'anno  prima girato  La corona di ferro  con  Blasetti  con  grande  successo,  diviene  ora  anche  uno  degli  amici del gruppo di  «Cinema»,  con cui  stabilirà  un  vero e proprio sodalizio arti­ stico, tanto da diventare il Gino di  Ossessione e uno degli attori preferiti da De  Santis,  nonché  il  protagonista  del  suo  primo  film  Caccia  tragica.  Ecco allora  come  si  spiega  la  presenza,  tra  gli  sceneggiatori  del  nuovo  film  di Rossellini,  di  Giuseppe  De  Santis.  Una  presenza  che  può  fornire  parecchi elementi nella comprensione del salto di qualità già avvertibile nel soggetto del film. (Non nella realizzazione perché, come vedremo, le riprese saranno ben presto interrotte per il precipitare degli eventi e il  film sarà poi conti­ nuato  da  Marcelle  Pagliero  e  uscirà  completamente  trasformato  rispetto all'idea  originale,  con  il  titolo  Rinuncia  e  infine  Desiderio,  nel  1946,  per­ dendo c ompletamente l a p aternità d i Rossellini). La  storia  è  tipica  di  certi  film  dell'epoca,  ispirata  alla  narrativa d'appendice,  in  cui  la  protagonista  sedotta  e  abbandonata  incontra  il "grande  amore"  e  si  trova,  al  ritorno  al  paese,  ad  affrontare  tutte  le  in­ comprensioni  di  una mentalità retriva.  Ma in questo tessuto convenzionale gli  sceneggiatori  inseriscono  alcuni  elementi  "trasgressivi":  l'imprevisto suicidio  della  protagonista  e  la  rappresentazione,  in  ambiente  piccolo  bor­ ghese e  operaio,  di  una  vischiosa  "palude"  morale  del  tutto  insolita  nel  ci­ nema  italiano  di  allora.  Segni,  come si  può  osservare,  di  quelle diffuse  in­ quietudini che, sepolte da tempo, di lì a poco sarebbero smottate con tutta la  loro  sgradevole verità.  La  presenza di  De  Santis  nel  gruppo  degli autori del testo originario del  film,  autorizza a ritenere molto probabile il trascor­ rere  di  certi  cupi  umori  di  dissoluzione  e  sconfitta,  dal  set  di  Ossessione a quello  del  primitivo  Desiderio /Scalo  merci.  Significativa  è  questa  recente testimonianza di Lizzani: «In anni di fronda, la conversazione, il dialogo, i contatti  personali,  sono  un  grande  territorio  di  dibattito,  un  reticolo  for­ mativo  del  quale  alle  generazioni  successive  resta  quasi  niente.  Nel  nostro caso un  patrimonio che  non  è stato consegnato a  documenti  scritti,  ma che ha contato per Rossellini, come per De Sica e Visconti, enormemente.  Io ri­ cordo  che  noi  più  giovani  avevamo  una  grandissima  fiducia  in  questa  guer­ riglia culturale condotta attraverso il dialogo e il dibattito privato.  Le sera­ te passate a chiacchierare alla redazione di  «Cinema»,  il sodalizio sul set di Scalo merci  [ . . . ] , penso che abbiano dato a quel  regista una spinta decisiva (5)».  La  breve esperienza  della  lavorazione del  film  è  per  De Santis,  come naturalmente  per  Rossellini,  parecchio  fortunosa.  L'ambientazione è pre­ vista nella zona di  San  Lorenzo a  Roma,  dove si  trova lo scalo  ferroviario, in quanto l'azione si svolge tra ferrovieri, popolane e operai, in esterni dal vero,  ih  vere  case,  strade,  officine.  Ma  dopo  qualche  giorno  dall'inizio del  film  il  quartiere  e  lo  scalo  vengono  completamente  distrutti  dal  ter­ ribile  bombardamento  americano  del  19  luglio  del  1943.  Il  film  è  bloccato. Il  soggetto  per  ragioni  pratiche  viene  quindi  trasformato  e  ambientato  in 42 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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montagna; ai ferrovieri sono sostituiti dei boscaioli.  La troupe si trasferisce allora in Abruzzo.  Ma sopraggiunge l'armistizio dell'8 settembre.  Rosselli­ ni  rimane  con  tutta  la  troupe  a  Tagliacozzo,  vicino  alla  linea  del  fronte, bloccato dai bombardamenti e dai rastrellamenti tedeschi. De Santis mi ha dato questa versione di quei momenti: «Nella realtà Rossellini  abbandonò  la  lavorazione  a  Roma  del  film  perché  quando  fu bombardato  lo  scalo  di  San  Lorenzo,  egli  ritenne  che  Roma  non  era  più una città sicura.  E  disse:  ­ Qua possono succedere cose molto gravi anche per l'incolumità  fisica  delle  persone  che  stanno  a  Roma.­  E  così  preferì  prende­ re quel  poco di  troupe che era disposto a seguirlo e si  rifugiò in  Abruzzo. Perché si  pensava che gli alleati allora sbarcati  a  Salerno,  ad Anzio,  potes­ sero  arrivare per  prima  da  quelle parti  ed  era  un'operazione di  vero  e  pro­ prio  salvataggio o comunque di  collegamento.  Io gli  risposi:  ­  No.  Questo non  mi  interessa.  Oltre  al  mio  lavoro  nel  cinema  ho  un'attività che  è quella di  militante  comunista,  ho  il  mio  lavoro  clandestino  nella  Resistenza  da fare qui a Roma. ­ Lui partì con quel poco di troupe e si rifugiò in Abruzzo dove poi  non  riusci  a girare il  film,  a completarlo,  perché anche l'Abruzzo non era certo molto sicuro. E io rimasi a Roma a fare il mio lavoro di parti­ giano.»

G.A.P. Sono  gli  ultimi  mesi  dell'occupazione  di  Roma.  De  Santis,  Gianni Puccini (uscito di prigione), Aldo Scagnetti e Mario Socrate si riincontrano a Roma sia per motivi cospirativi che per progettare dei  film da fare appena dopo la Liberazione.  Scrivono un primo soggetto tratto da Maupassant,  un Baule  de  suif ambientato  tra  Roma  e  il  retroterra  occupato  dai  tedeschi. Poi,  loro  quattro  più  Franco  Calamandrei  e  Antonello  Trombadori  (che hanno  già  un  ruolo  di  primo  piano  nell'organizzazione  dei  "gappisti"  ro­ mani,  i  "Gruppi  di  Azione  Patriottica"  che  operano  azioni  di  guerriglia contro  l'esercito  tedesco)  scrivono  il  trattamento  e  la  sceneggiatura  di G.A.P..  Vi lavorano nell'ufficio del produttore Guarini,  marito di  Isa Mi­ randa, che si trovava vicino a via Rasella, dove avverrà l'attentato contro un  plotone  di  soldati  tedeschi,  al  quale  farà  seguito  la  feroce  rappresaglia delle Fosse Ardeatine. «Il giorno dell'attentato, mi precisa De Santis, fum­ mo avvisati dal Partito di non recarci in quell'ufficio, senza però che ci fos­ sero svelate le ragioni».  E  mi dice ancora a proposito di questa esperienza: «Io  avevo  partecipato,  come  ho detto,  alla  Resistenza,  ma  non  avevo  mai fatto  parte  dei  G.A.P..  Ero  un  commissario  politico  del  settore  di  piazza Bologna e mi sono occupato solo del lavoro politico,  non di quello milita­ re.  È chiaro che la cosa che ci venne in mente di  fare ­ lo facemmo già negli 43 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ultimi mesi della Resistenza ­ fu quella di  scrivere qualcosa che riguardasse la  Resistenza  stessa.  E  una  delle  cose  che  ci  sembravano  più  affascinanti per  celebrare  l'opera  di  questi  compagni  che  rischiavano  giornalmente  la vita  nelle  formazioni  dei  G.A.P.,  fu  quella  di  scrivere  un  soggetto  che  li avesse come protagonisti. Fu il primo film concepito sulla Resistenza, pri­ ma di Roma città aperta.  Direi che il film di  Rossellini^copiò,  non so se vo­ lontariamente o a caso,  perché faceva parte della  Resistenza romana, l'epi­ sodio  della  donna,  della  Magnani,  uccisa  dai  tedeschi,  che  nelle  realtà  si svolse  in  viale  Giulio  Cesare  fuori  dalla  caserma  dell'81 e  fanteria,  ed  era uno degli episodi più importanti inseriti in G.A.P.».

Giorni di gloria. Il sole sorge ancora Subito  dopo  la  Liberazione  di  Roma,  De  Santis  realizza  in  équipe, con  Mario  Serandrei,  Marcelle  Pagliero  e  Visconti,  Giorni  di  gloria,  che rappresenta  «il  primo  contatto  del  cinema  documentario  con  la  materia  re­ sistenziale e la lotta antifascista (6)». Il film racconta, attraverso episodi ri­ costruiti ed altri girati dal vero, l'estendersi delle azioni partigiane durante l'occupazione  nazifascista  di  Roma,  le  violente  rappresaglie  dei  tedeschi,  la strage  delle  Fosse  Ardeatine,  il  processo  e  l'esecuzione  dell'ex  questore  di Roma,  Caruso,  e  del  repubblichino  Pietro  Koch,  l'aguzzino della  Pensione Jaccarino in cui si trucidavano i partigiani.  Quest'ultima parte viene girata da  Visconti;  mentre  De  Santis,  mi  ha precisato,  gira un'azione dei G.A.P., completamente ricostruita, ed inoltre tutte le interviste ai parenti delle vit­ time  delle  Fosse  Ardeatine,  fatte  un  giorno  delle  commemorazioni.  Giorni di gloria,  pur nei suoi limiti di un linguaggio in larga misura ancora legato a cadenze e soluzioni tradizionali,  mutuate dai cinegiornali degli anni prece­ denti,  rappresenta  un  prezioso  documento  della  lotta  partigiana.  «Ci  con­ sente di raccogliere l'entusiasmo nella confusione,  e come si configurano e si fanno leggibili questa confusione e questo entusiasmo nel film, in tutto il film, con i suoi pezzi ricostruiti e autentici (7)». L'anno dopo troviamo De Santis accanto a Vergano nella realizza­ zione de // sole sorge ancora,  uno dei film più significativi tra quelli ­ pochi in verità ­ di  argomento resistenziale,  oltre che il primo sulla Resistenza nel Nord.  Racconta  Lizzani  che subito  dopo  la  Liberazione  una colonia di  scrit­ tori­cineasti,  costituita da  Vasco  Pratolini,  De  Santis,  Massimo Mida  Puc­ cini,  Lizzani  stesso  e  Franco  Calamandrei  si  reca  a  Milano  appollaiata  su un  camioncino  pericolante  in  cerca  di  lavoro,  richiamata  dalla  rinascente editoria meneghina.  È questa l'occasione per un singolare innesto cinema­ 44 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tografico nel tessuto industriale milanese. Ed è qui che l'abilità e la spregiu­ dicatezza operativa di  De Santis  avrà modo di  manifestarsi  in pieno  nel  re­ cupero di  un  film che sta per andare a monte, che poi si chiamerà,  appunto, II sole sorge ancora.  De  Santis  e gli  altri,  consultati  dal  comandante  parti­ giano Giorgio Agliani,  il  futuro produttore del  film (che produrrà poi  Cac­ cia  tragica),  si  oppongono  alla  scelta  come  regista  del  film,  di  Goffredo Alessandrini,  uno  dei  più  compromessi  negli  ultimi  tempi  col  fascismo,  e appoggiano invece la candidatura di  Aldo  Vergano,  allora  a Milano con  la speranza di  poter  fare qualcosa  di  nuovo in  una zona cinematograficamen­ te ancora vergine.  Grazie al gruppo,  Vergano  la spunta;  e  De Santis e  Liz­ zani, cui si aggiunge intanto Guido Aristarco ­ per la sua esperienza diretta della Resistenza nel  Nord ­ insieme allo stesso Vergano scrivono la sceneg­ giatura del film.  De Santis chiama Libero Solaroli, uno dei più lucidi inge­ gni della nostra industria cinematografica, ad organizzare il film. Ma questi si  ammala  ed  è  costretto  ad  abbandonare  la  lavorazione.  De  Santis  allora prende su di  sé tutto il compito organizzativo,  nonché quello di aiuto  regi­ sta del  film.  «Fu nell'appello a Solaroli, ­ continua Lizzani ­ come in altre operazioni che presiedono alla costruzione di un film (la scelta dei collabo­ ratori giusti  come  degli  "esterni"  giusti)  che  De Santis  dette prova,  allora, di poter essere regista, e fu standogli vicino che io imparai a capire le neces­ sità ­ per fare un film ­ di saper coprire con un arco di esperienze complesse tutta  l'area  di  creazione  dell'opera  cinematografica,  che  è  fatto  appunto, non  soltanto  artistico,  ma  condizionato  ad  una  serie  di  fattori  economici, concreti,  prosaici  che  bisogna conoscere  per  poterli  superare  e  sconfiggere o almeno neutralizzare (8)». È  all'atto  della  sceneggiatura  de  // sole sorge ancora  che  De  Santis suggerisce a Vergano quel modulo stilistico che sarebbe poi diventato fonda­ mentale nel suo discorso filmico: quello in cui è risolta la sequenza finale del­ la fucilazione del prete e del partigiano da parte dei tedeschi «costruita attra­ verso una successione­addizione di voci e di immagini (il prete dice le litanie e  i  contadini  rispondono  ­  prima  uno  poi  tre  dieci,  cento,  mille  "ora  prò nobis")  che crea un  evento visivo e sonoro  sconvolgente,  trasforma la pre­ ghiera individuale, via via, in rivolta collettiva e la rivolta in catastrofe (ma anche trionfo morale:  i tedeschi infatti sparano per paura) (9)». Siamo  nel  1946.  De  Santis  è  impaziente  di  dare  consistenza  ai  suoi temi,  di rischiare di  persona,  di  "fare il cinema".  Non avrebbe potuto  farsi le ossa con uomini  migliori  di  quelli  cui  è stato vicino.  È pronto ormai ad affrontare la regia.

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Note (1)  Gianni  Puccini,  Storia  di  «Cinema»,  in  //  lungo  viaggio  del  cinema  italiano,  (Antologia  di «Cinema» 1936­1943),  a cura di  Orio Caldiron,  Marsilio,  Padova  1965,  pp.  LXXX­I1. (2) Ivi, pp. LXXXIV­V­VI. (3)  Ruggero  Zangrandi,  //  lungo  viaggio  attraverso  il fascismo,  Feltrinelli,  Milano  1963,  pp. 237­39. 4)  Aldo Scagnetti,  Testimonianza:  I fermenti dì  "Cinema" e  "Bianco e Nero",  in // cinema italiano  dal fascismo  all'antifascismo,  a  cura  di  Giorgio  Tinazzi,  Marsilio,  Padova  1966,  p. 116. (5) Carlo Lizzani, Introduzione a Riso amaro cit., p.  14. (6) Alfonso Canziani, Gli anni del neorealismo,  La Nuova Italia, Firenze  1977, p.  147. (7) Ivi, p.  149. Canziani (e non è il solo) attribuisce erroneamente a De Santis (probabilmente fuorviato dai titoli di testa del film) la parte che descrive la ricostruzione del paese distrutto, che,  secondo il critico,  pur girata nella  memoria del  miglior  cinema sovietico «non si  sottrae all'enfasi  retorica  e vacua».  L'osservazione è del  tutto  legittima.  Ma  De Santis  non c'entra. (8) Carlo Lizzani, op. cit., p. 22. (9) Ivi, p. 19.

De  Santis  con  Aldo  Vergano  (ultimo  a  destra)  alla  presentazione  de  //  sole  sorge ancora  alla  Mostra  di  Venezia.

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Temi e stilemi La terra Una delle caratteristiche  più  importanti  del  cinema di  De  Santis  sta nell'aver posto al centro  del  suo  interesse,  l'universo della  "terra".  E  la sua filmografia appare la più organica e coerente che ci sia,  su questo tema,  nel cinema italiano del  dopoguerra (1). Gli elementi costitutivi di questo suo universo, sono quelli primigeni di ogni  civiltà contadina:  il lavoro e la sessualità. Nella maggior parte dei suoi film queste due componenti sono indis­ solubilmente legate, e riproposte nella loro unità originaria. E questo acca­ de quando egli resta all'interno, appunto, del mondo contadino. Qui  il la­ voro assume il significato di una perenne lotta: nei confronti dell'elemento naturale,  simboleggiato  di  volta  in  volta  in  "zolla",  "fango"  o  "roccia". È lotta per il pane e il diritto al lavoro (Riso amaro) o per la sopravvivenza contro  la  furia delle bestie (Uomini e lupi),  o per la conquista di  un  diritto civile  (Giorni d'amore). Ma  è  anche  lotta  di  classe:  contro  lo  sfruttamento  padronale  e  il lavoro  nero  (ancora  Riso amaro),  contro  lo  strapotere degli  agrari  e  la  cri­ minalità politica (Caccia tragica); contro le prepotenze dei grossi allevatori (Non  c'è pace);  contro  un  potere  politico  asservito  ai  potenti  (La  strada lunga un anno).  La  forza in grado di sostenere questa lotta è individuata da De Santis nell'unità dei lavoratori, come in un classico schema marxiano. Un'unità che i detentori del potere tentano ogni volta di impedire o di  spezzare (indicativo in  tal  senso è in Riso amaro lo scontro tra le mondi­ ne  "regolari"  e  quelle  "clandestine",  assoldate  senza  contratto  e  strumen­ talizzate in  funzione antisindacale in  una vera e propria  "guerra di  poveri"). I  lavoratori  sono rappresentati  da  De Santis come la classe che,  pur tra grandi  sforzi  e  contraddizioni,  sta  acquistando  la coscienza  di  essere  il nuovo  soggetto  storico  emergente,  in  grado  di  rappresentare  gli  interessi 47 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dell'intera società e di porsi a guida di essa. Le  storie  dei  suoi  film  assumono  quindi  la  forma  di  "apologhi" (spesso  anche troppo  didascalici)  di  questa graduale  presa  di  coscienza  col­ lettiva, della faticosa costituzione di questa unità di classe. Lo  si  riscontra appunto  in  ognuno dei  suoi  film  "della  terra",  dove la risoluzione drammatica è anche la risultanza di quella direttrice ideologi­ ca. E cioè: solo organizzandosi tutti insieme i contadini del ravennate riusci­ ranno a sventare il colpo dei banditi assoldati dagli agrari, e a recuperare la somma  rubata  che  serve  per  la  loro  cooperativa  agricola  (preciso  elemen­ to,  anche quello cooperativistico,  di  assunzione di  responsabilità diretta dei lavoratori nella produzione del lavoro); solo grazie all'unità dei pastori del­ la  campagna  ciociara  potrà  avere  successo  la  rivolta  contro  il  potente  abi­ geatore; e ancora, solo grazie alla mobilitazione di tutta una comunità nella costruzione della strada, i braccianti de La strada lunga un anno riusciran­ no  a portare a conclusione il  loro  "sciopero a  rovescio"  e  a vincere l'oppo­ sizione delle autorità. Ed infine soltanto la ricostituita unità tra "clandesti­ ne"  e  "regolari"  permetterà  alle  mondine  di  continuare a  lottare contro  il padronato,  spingendole a salvare il raccolto dall'allagamento e a recupera­ re il riso rubato dai banditi,  che è qui considerato un prodotto e anche un indispensabile fattore di continuità del proprio lavoro. Questi motivi  non hanno però soltanto una matrice ideologica;  essi sono  da  ricercare  anche,  e  forse  innanzitutto,  nelle  "radici"  personali  di De Santis:  nelle sue origini ciociare.  È da esse che deriva la quasi fisica ade­ sione  al  paesaggio  naturale,  la  partecipazione  appassionata  al  mondo  del lavoro, la sua predominante sensibilità per i valori della civiltà contadina, la rappresentazione da "canzone di gesta" delle lotte degli esclusi. E infine la necessità di porre al centro di questo universo conflittuale, la donna, con il suo dirompente erotismo e nel suo discriminato ruolo sociale. I  suoi  personaggi,  essendo quasi  sempre di  estrazione popolare,  so­ no  caratterizzati  pertanto secondo  una  tipologia di  immediata decodifica­ zione. La scelta di alcuni protagonisti maschili (Giretti, Vallone, Mastroian­ ni, Armendariz, Cucciolla) è indicativa di come essi aspirino ad essere per­ sonificazioni  simboliche  (e  quindi  spontaneamente  "divistiche")  di  quei valori  positivi,  quando  non  addirittura  "eroici",  così  rispondenti  all'im­ maginario popolare. Come lo è d'altronde la predilezione per certe presen­ ze femminili (la Mangano, la Bosè, la Pampanini, la Vlady, la Miletic, la Benussi) sul piano di una più marcata carica erotica. Personaggi (soprattut­ to gli "eroi" maschili) che hanno ancor più modo di rivelarsi grazie al loro corrispettivo "negativo",  incarnato da alcuni  "cattivi"  classici del cinema di allora, come Folco Lulli,  Andrea Checchi, o il Gassman prima maniera. L'altro significativo protagonista del cinema di De Santis, cui è affi­ data una precisa funzione dialettica, è il Coro: contadini, pastori, militari, 48 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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artigiani,  dattilografe,  mondine,  reduci.  Come  nei  western  o  nei  romanzi popolari, i buoni e i cattivi, i prepotenti e gli oppressi si fronteggiano quali poli di un elementare conflitto di classe. E in queste "favole" si calano poi dichiarati  assunti  politici.  Ispirandosi  alle teorie  del  cinema sovietico post­ rivoluzionario,  De  Santis  elabora  così  la  sua  concezione  del  cinema  come "arte a tesi",  come  "rappresentazione di  un conflitto in un'idea"  e crea nel dopoguerra il primo esempio che si riscontri da noi di cinema militante. Con tutto il fascino della sua bruciante presa diretta sulla realtà, ma anche, come si vedrà, con t u t t i i rischi che esso comporta.

Eros e socialità L'altra novità del cinema di De Santis è l'introduzione, nel clima un po' puntano del neorealismo, di un dirompente elemento trasgressivo. L'attenzione al fatto sociale aveva quasi completamente estromesso nel cinema postbellico l'aspetto più privato, e più inquietante, dei suoi pro­ tagonisti:  la sessualità; considerata  fino ad allora solo sotto forma di  rap­ porti di sentimenti. (Poche le eccezioni: Ossessione soprattutto, come prima esplosione,  nel  nostro  cinema,  distruttiva  e  anarchica  del  "desiderio").  La raffigurazione da parte di  De Santis dell'eros come sesso,  fisicità,  in  pieno clima post­resìstenziale, da una parte irrita e allarma i pontefici della cultura marxista, dall'altra scandalizza i tutori della morale cattolica. Quasi nessu­ no avverte l'originalità della sua intuizione.  Nel suo Ainour ­ Érotisme ci Cinema Ado Kyrou, uno dei più autorevoli studiosi in materia, cosi si espri­ me: «Per De Santis, il mondo è complesso, continuamente cangiante; gli uomini soffrono e lottano per far cessare questa sofferenza, ma malgrado la loro sventura essi vivono avidamente, ammirando le danze delle donne, o  amandole.  La  vita  è  una  meravigliosa  avventura  durante  la  quale  t u t t o può accadere, cosi semplicemente come nei romanzi popolari; gli eroi di De Santis però non aspettano per questo che le cose vadano loro incontro, per­ ché essi stessi vanno incontro alla libertà e all'amore. Le antiche epopee ri­ propongono i loro fasti sulla penisola italiana.  [...] L'universo di De Santis, straordinario e multiforme,  [...] riflette l'estrema ricchezza della realtà di oggi, l'amore in ogni sua forma ha un posto dominante, è legato alla realtà sociale, la condiziona o se ne lascia condizionare. [...] Con una purezza tut­ ta mediterranea,  De Santis ha infranto le regole cinematografiche,  ha osato fare dei  film d'amore che siano allo stesso tempo,  e senza dubbio proprio perché sinceramente erotici, dei  film di rivendicazione sociale.  Ha capito che gli amanti vivono in un mondo che è loro nemico, ha affermato che la 50 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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lotta  rivoluzionaria  non  respinge  l'amore  come  cosa  secondaria  e  senza  im­ portanza,  ha  congiunto  l'uomo  che  ama  e  l'uomo  che  lotta  in  un  solo  esse­ re (2)». L'eros  infatti,  per  De  Santis,  è  spia e detonatore delle contraddizio­ ni  della  società;  il  rapporto tra  i  sessi  ha  un  preciso  riscontro nei  rapporti  di classe,  contrappuntando  l'itinerario  dei  suoi  personaggi,  nei  quali  le  due sfere, quella del "privato" e quella del "sociale", non sono scisse ma inter­ feriscono  tra  loro  condizionandosi  l'un  l'altra.  De  Santis  è  uno  dei  primi autori che tenta di  affrancare le proprie creature dall'imperante moralismo repressivo  secondo  il  quale  il  sesso  è  legittimato  solo  nell'ambito  di  un  sof­ focante  familismo,  fuori  del  quale  c'è  solo  "disonore"  e  "peccato".  L'eros viene quindi liberato da queste incrostazioni mortificanti e riportato all'in­ terno  di  una  comunità  (quella  contadina  e  proletaria)  che,  secondo  il  regi­ sta  ciociaro,  ancora  ha  la  possibilità  di  viverlo  in  maniera  laica,  in  una  pie­ nezza  di  innocenza  quasi  pagana.  Ecco  perché  i  suoi  film  danno  "scandalo", in  un  periodo  in  cui  il  moralismo  comunista  è  perfettamente  omologo  a quello cattolico.  Un  po'  quello  che accade a  Moravia,  e che accadrà a  Paso­ lini  più  tardi. In  De  Santis,  infatti,  l'etica con cui  deve accordarsi  l'eros,  non  è quel­ la  cattolico­familistica  (che  nello  stesso  periodo  avvince,  ad  esempio,  in  una morsa  di  "catene"  e  "tormenti",  le  madri  e  le  spose  di  Raffaello  Mataraz­ zo) ma quella che regola i rapporti sociali dei suoi contadini, braccianti, pa­ stori.  Il  vero  "peccato",  in  questo  suo  universo,  è  trasgredire  alla  propria natura  e  alla  propria  classe. In  Caccia  tragica,  la  donna  che  guida  i  banditi,  Lili  Martene  (Vivi Gioì),  che  ricorda  nell'abbigliamento  e  nei  tratti  mascolinizzati,  l'agente  del­ la  Gestapo  lesbica  di  Roma città aperta,  è caratterizzata  all'inizio  soprattutto per  via  della  sua  ambiguità  sessuale.  11  contesto  in  cui  è  collocata  è  quasi sempre carico di  feralità e perversione, come a sottolineare uno stretto rap­ porto tra  la  sua devianza elica (oltre  che  una  ladra,  è stata  anche collabora­ zionista dei  tedeschi)  e  la  sua devianza sessuale. E  il  suo  rapporto  con  la giovane  e  innocente  sposina  Carla  Del  Pog­ gio,  presa  in  ostaggio  per  sfuggire alla cattura,  è t u t t o  intessuto  di  latente omosessualità.  Mentre  quello  con  l'amante  Andrea  Checchi  è  fortemente conflittuale fino a raggiungere toni sadomasochisti. Una stretta relazione insomma, già intuita da De Santis,  tra ideologie di morte (qui gli ultimi rigurgiti della delinquenza nazifascista) e perversio­ ne degli istinti; che anticipa il  Visconti de La caduta degli dei e la Cavani de II portiere di notte.  E,  significativamente,  la  vera  identità  di  Lili  Marlene verrà  scoperta  attraverso  il  "segno"  del  suo  tradimento,  che  mostra  che  è stata  "rapata"  (come  si  usava  fare con  le collaborazioniste),  violentata ap­ punto nejla sua natura, sfregiata nella sua femminilità. 51 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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In Riso amaro invece, l'eros esplode in t u t t a la sua carnalità p r i m i t i ­ va,  e  viene  esaltato  nella  fisiologica  felicità  del  corpo,  fino  a  marcare  lo stesso  abbigliamento  della  protagonista (gli  shorts  e  le  lunghe calze  nere). Non a caso è il ballo, il boogie­woogie iniziale, che rivela t u t t a la sessualità terrestre  e  allo  stesso  tempo  mitica  di  Silvana  Mangano  sublimata  in  una sorte di Afrodite delle risaie. Un eros che,  anche in questo caso,  viene a corrompersi  nel momento in cui entra in contatto con  una  "mitologia" estranea alla sua natura:  quel­ la rappresentata dai nuovi modelli di comportamento diffusi dalla società americana. Avviene allora  lo scontro tra la cultura contadino­popolare e la  na­ scente civiltà consumistica.  A spingere Silvana sulla strada della "perdizio­ ne"  sarà  proprio  Vittorio  Gassman,  un  gangster,  tipico  esempio  di  "euro­ peo americanizzato",  fuggito dalla città, e che di quella porta t u t t i i segni negativi  di  disgregazione morale e sociale.  E quello  tra  Silvana e  Walter­ Gassman  è  un  rapporto  fatto  di  attrazione  e  repulsione  insieme,  da  parte della  donna,  che  arriva,  anche  qui,  ad  assumere  connotazioni  sadomaso­ chiste (le frustate e lo stupro che subisce sotto la pioggia).  La popolana di­ venta  "schiava  d'amore"  del  gangster.  Ossessionata  e  spinta  dal  "deside­ rio" ella tradisce le sue compagne e la sua classe.  L'eros allora non  può che volgersi  in  autodistruzione,  in  thanatos.  Silvana  uccide  l'amante  e  poi  si suicida. In  Non  c'è pace tra gli ulivi invece,  il  personaggio  di  Lucia  Bosè  se­ gue  un  percorso  ideologico  e  comportamentale  del  t u t t o  opposto,  perché più rappresentativo della condizione della donna nella società contadina. Il suo  itinerario sentimentale  parte  dall'acccttazione del  matrimonio con  il ricco possidente Folco  Lulli,  perché costretta a lasciare il giovane pastore Francisco che non ha  nemmeno più  le sue quattro  pecore;  una scelta impo­ sta  dalla  madre:  a  riprova  che  se  patriarcale  è  l'ordinamento  socio­econo­ mico di quella società, matriarcale è spesso, invece, il ruolo educativo nella famiglia,  responsabile del condizionamento,  della subordinazione e della repressione sessuale della donna.  Lucia sconta pertanto le contraddizioni e le ambiguità regressive connesse anche a certi costumi della società conta­ dina.  Al  "valore"  della  roba,  del  buon parlilo,  la donna,  cosi  come in  alcu­ ni  strati  della  società  borghese,  è  legata  come  un'anima  moria,  ed  è  vano tentare di  sottrarsi ad una consuetudine cui  per  retaggio si  è destinati.  È la devianza  sociale  dell'eros,  subordinato  alla  proprietà.  Questa  soggezione verrà spezzata quando  Lucia capirà la natura della violenza di cui  è vittima il­pastore­brigante  Raf  Vallone  e  il  significato  della  "sua"  legge  (Chi si ri­ prende  la  roba  sua  non  è  ladro!).  Violenza  poi  dilatata  nel  privato,  dallo stupro  che  la  sorella di  Francisco,  Maria Grazia,  subisce da  parte del  possi­ dente  Bonfiglio.  Lucia  diverrà  quindi  l'amante  del  bandito,  contravverrà alla  "norma"  di  quella  società,  per  essere  libera  come  donna  e  perché  ha .52 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 03/12/2018 Le  confidenze,  i  sogni,  il  riposo  delle  mondine,  sottolineati  dalla  intimità  dei «  corpi  ».  Silvana  Mangano  e  Doris  Dowling  in  Riso  amaro.

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preso coscienza della propria condizione.  Maria Grazia,  al contrario,  schie­ randosi dalla parte di  Bonfiglio, che pure l'ha violentata, si  fa, come la Sil­ vana di  Riso amaro,  complice­vittima del  suo carnefice,  che alla  fine la uc­ ciderà.  Sarà  ['"agnello  sacrificale"  immolato,  nel  ripetersi  di  antichi  con­ f l i t t i , come a ricelebrare una pagana Pasqua di sangue. In  Giorni d'amore,  invece,  l'erotismo  è  t u t t o  giocato  in chiave allu­ siva,  come  un  godimento  continuamente  interrotto  ed  eluso.  La  purezza  di Angela,  Marina  Vlady,  protratta  fino  alla  soglia  del  matrimonio,  è,  an­ che qui,  un  atto di  difesa  nei  confronti  di  una esclusione sociale.  È,  il  suo, un antico bisogno di  riconoscimento attraverso la  legittimazione istituzio­ nale dell'eros  in  una  comunità,  come  quella  contadina,  che  ne  riconosce  la necessità,  non  tanto  per  osservanza  verso  norme  formali,  quanto  per  l'"uti­ lità"  sociale ed  economica  che  il  matrimonio  possiede,  come cellula  prima, rivitalizzante di un organismo cui assicurare continuità. L'unità  tematica lavoro­eros,  anche  se  scossa da  anomalie  perturba­ trici, qui riesce ancora a ricomporsi e a ritrovare un suo equilibrio. Allorché invece si avvertono i primi segni di eclisse della civiltà con­ tadina,  essa  tende  ad  essere  sostituita  da  un  diverso  conflitto,  troppo  carico ­ questa volta ­ di contrasti e lacerazioni per essere ricomponibile. Esso  sorge  quando  la  comunità  contadino­popolare  di  De  Santis viene  a  trapiantarsi  e  a  scontrarsi  con  la  società  urbana,  a  tal  punto  che  i valori  positivi di quella,  vengono ad essere contaminati,  o addirittura sof­ focati dalla disumanità di questa. Si  ripresenta  allora,  pur  se  con  segni  molto  più  vigili  e  ideologica­ mente diversificati, l'antica dialettica città­campagna, in cui la città è vista come universo negativo, congestione di masse anonime sradicate dalla pro­ pria  terra.  Un'antitesi  riproposta  però da  De Santis secondo  rinnovate ra­ gioni  sorte dall'evoluzione della situazione storica  italiana:  quella che già nel  corso  degli  anni  cinquanta  vede  la  sconvolgente  trasmigrazione  dalle campagne  del  Sud  verso  un  Nord  che  sta  per  essere  toccato  dal  miracolo industriale, e che è rimasta la sola speranza per  una gran  massa di disoccu­ pati alla ricerca di un lavoro o di  una qualsiasi  occasione per sopravvivere. E  al  regista ciociaro  non  resta che  registrare gli  inquietanti  segnali premonitori della irreversibile perdita di identità della sua comunità conta­ dina.  Sia dal punto di vista antropologico: come perdita di valori e modifi­ cazioni  di  comportamenti;  sia da quello  ideologico:  come arresto della cre­ scita politica dei suoi  lavoratori, compromessa dai veleni della nascente so­ cietà consumistica, e dal riprodursi di antichi squilibri sociali. La città è da De Santis ­ come sul versante letterario ad esempio lo è per  Pavese,  e  come  lo  sarà  nel  cinema,  in  una  dimensione  ancora  più  alie­ nata  e  simbolizzata,  per  Antonioni,  Visconti  e  Fellini  ­ già da  adesso  vista come incapace di operare una sintesi di valori ideali  urbano­rurali; e quindi 54 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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•SÉ*

II  «saltarello»  di  Lucia.  Lucia  Bosè  in  Non  c'è  pace  tra  gli  ulivi. Angela:  la  sessualità  innocente  e  pagana  della  società  contadina.  Marina  Vlady in  Giorni  d'amore.

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in grado soltanto di disumanizzare l'individuo sia nella sfera sociale del suo lavoro che in quella privata del suo eros. Il  passaggio  pertanto  dalla  terra  alla  città  è  dato  come  una  "caduta agli  inferi";  cosi  come,  ad  esempio,  è  simbolizzata  dal  crollo  delle  scale  in Roma ore 11:  «Nella collettività contadina il male può essere vinto ed estir­ pato ovvero espulso dal corpo sociale,  nella città il male identificato"con il potere responsabile della catastrofe ­ quel potere invisibile che appunto qui ha la sua sede ­ opprime direttamente la scena e la distrugge.  Contro di esso la solidarietà è ormai impossibile, irrappresentabile, perché la città è il luo­ go maledetto della frammentazione e della detribalizzazione.  In questo sen­ so  Roma ore  11  è l'opposto  di  Roma città aperta  (3)».  Il  distacco'dalla Terra,  insomma,  come  perdita  della  Madre.  E  come  morte  della  famiglia­ comunità:  un  filo  nero  che  lega  la  Silvana  Melega  e  le  altre  ragazze  di  De Santis  al  giovane  'Ntoni  di  padron  'Ntoni  Malavoglia,  in  una  ideale conti­ nuità  con  il  "Rocco"  di  Visconti  dell'Italia  delle  speranze  di  ieri,  e con  i  "tre fratelli"  di  Rosi,  di  quella disperata  di  oggi. Secondo  De  Santis,  quindi,  anche  l'eros  ha  la  possibilità  di  essere vissuto con  pienezza e  felicità se la realtà in cui  si  espande è in  accordo con l'individuo.  Quando invece  viene a collocarsi  nella città,  che è realtà disgre­ gante,  diventa infelicità,  perversione,  delitto. In  Un marito per Anna Zaccheo, ad esempio, il problema erotico è legato,  come  in  Giorni d'amore,  al  traguardo  sociale  del  matrimonio.  Ma  è sintomatico  che  Anna  Zaccheo  non  sarà  in  grado  di  rimuovere  e  superare felicemente  tutti  quegli  impedimenti  che  l'ambiente  le  opporrà  ad  ogni svolta,  tanto che  il  film  terminerà con  un  fallimento.  Il  microcosmo picco­ lo­borghese cittadino  in cui  ella agisce concepisce la donna,  infatti,  come og­ getto  erotico  in  vendita  al  migliore  offerente  e  di  cui  si  può  approfittare perché essa è socialmente e sessualmente segnata da una inferiorità che nes­ suno si sogna di  mettere in discussione.  E quanto più  l'eros è prepotente (e la sensuale bellezza della  Pampanini  è,  a ragione,  esaltata) tanto più esso si ritorce  contro  la  stessa  donna,  e,  da  meraviglioso  dono  naturale,  diventa dannazione sociale e sessuale. La  sjessa  tematica  è  al  centro  de  La  garsonnière,  in  cui,  già  nel titolo, si connota l'eros, attraverso l'ambiente in cui viene vissuto, di  mor­ bosa  clandestinità  e  di  inganno  dei  sentimenti.  Qui  ['"apprezzato  profes­ sionista"  Raf Vallone insegue una impossibile felicità mediante un rappor­ to adulterino con la giovanissima e crudele ­ nella sua disinibita sessualità ­ Gordana  Miletic  (la  cui  conturbante  e  raffinata  bellezza,  anche  qui,  è  vi­ sualizzata con goduta  stupefazione).  Il  sogno  naufragherà  tra  meschini  ri­ catti sentimentali e finanziari cui il protagonista, ormai invischiato in un si­ stema  di  vita  i  cui  soli  valori  sono  il  danaro  e  l'onorabilità  professionale, non ha più forza di sottrarsi. 56 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 03/12/2018 Lucietta:  un  giocattolo  erotico  per  una  perversa  scalata  al  potere.  Femi  Benussi  in Uà  apprezzato  professionista  di  sicuro  avvenire.

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La stessa corruzione morale e una identica connotazione di  "malat­ tia"  dell'eros  sono  ­  un  decennio  dopo  ­  al  centro  di  Un  apprezzato profes­ sionista,  dove  il  prezzo  pagato  dall'avvocato  di  successo  Lino Capolicchio, è  ancora  più  alto,  perché  più  spieiato  e  cannibalesco  è  diventato  intanto  il codice di comportamento di certa borghesia degli anni settanta.  Un prezzo rappresentato,  questa  volta,  dall'impotenza,  che  è  reale  e  metaforica  in­ sieme:  un  eros  che  alla  fine  punisce  e  castra  se  stesso,  forse  anche  per  un inconscio  senso  di  colpa  generazionale  (l'avvocato  è  di  umili  origini  ed  è stato educato  secondo  i  sani  principi  del  padre,  un  onesto  ferroviere socia­ lista). La  misura  della  perversità  morale  cui  arriva  il  "professionista"  è data dall'assassinio del prete suo compagno d'infanzia,  di cui egli arriverà a  macchiarsi  pur  di  non  perdere  la  "reputazione"  alla  quale  sono  legati  il suo  potere e  la  sua  promozione  sociale.

Il cinema e altri "inedia" Si è detto che il neorealismo ha avuto molte "anime". L'elemento che appunto diversifica gli autori che eticamente e cultu­ ralmente  sono  riconducibili  a  quel  movimento,  è  dato  dalP"anima",  dalla concezione del cinema, cioè, di ognuno di loro. Per quanto  riguarda  De Santis,  ad  una  prima  lettura dei  suoi  film, considerato il contenuto popolare delle sue storie e il loro trattamento nar­ rativo,  egli  potrebbe  apparire  un  regista  tutto  istinto,  se  non  addirittura "nai'f".  Ad  un  esame corretto,  invece,  attento alle  forme e ai  codici espres­ sivi  da  lui  usati,  egli  si  rivela  uno degli  autori  italiani  del  dopoguerra  tra  i più raffinati, oltre che tra i più agguerriti sul piano delle teoriche cinemato­ grafiche e uno dei più vigili nei riguardi delle possibilità comunicative del "mezzo". Già  la  sua  accezione  di  "realismo"  (preannunciata,  come  s'è  visto, nella  sua  giovanile  attività  di  critico)  è  abbastanza  indicativa.  «La  mia  po­ sizione sul  realismo ­  ha precisato lui  stesso ­  implica una trasfigurazione della realtà.  L'arte non  è  la  riproduzione  meccanica di  semplici  documenti.  Ac­ contentandosi  di  piazzare  la  macchina  da  presa  nella  strada  o  fra  i  muri non  si  può pervenire che ad un realismo del  tutto esteriore.  Secondo  me il realismo non esclude affatto una finzione, né t u t t i i mezzi classicamente ci­ nematografici». Lo  stile  di  De  Santis  può  essere  ancor  meglio  definito  proprio  grazie ad alcune diversificazioni rispetto alla triade Visconti­Rossellini­De Sica/Za­ vattini. Già dall'inizio, infatti, si avverte ­ rispetto a quelli ­ una più marcata 58 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ideologizzazione,  una  concettualità  più  studiata  ed  un  linguaggio  più  ricco di  mediazioni  mediologiche. L'esperienza  che  De  Santis  percorre  con  la  macchina  da  presa  è op­ posta,  ma  anche  speculare  a  quella  di  Rossellini.  Ambedue  si  pongono costantemente il  problema del  "medium" e delle sue possibilità di  riprodu­ zione  del  reale.  Rossellini  lo  risolverà  mediante  un  procedimento  di  "sot­ trazione",  di  scarto  progressivo  delle  regole  codificate  dell'"ideologia  del­ lo  spettacolo",  giungendo  ad  una  sorta  di  spettrografia  della  realtà,  di  au­ topsia  (4).  Al  contrario  De  Santis  si  servirà  pienamente  dello  "spettacolo", delle sue tecniche e dei  suoi  artifici,  per arrivare,  mediante un  processo di "accumulazione",  ad  una  espansione  linguistica  che  sacrifica  "l'impres­ sione di realtà" a vantaggio della "finzione filmica".  Lo stile di De Santis è inoltre  agli  antipodi  rispetto  a  quello  perseguito  dal  massimo  teorico  del neorealismo,  Zavattini,  con  la  sua  poetica  del  "pedinamento"  dei  perso­ naggi,  della  cainera­stylo,  della  macchina  da  presa  cioè  da  maneggiare  libe­ ra come una stilografica; così come è dissimile dal commosso documento e dal rifiuto pregiudiziale della spettacolarità del De Sica più rigoroso del pri­ mo  periodo  neorealista,  poiché  De  Santis  tende  invece  ali''iperbole,  a\V a ti­ pico,  al  romanzesco.  Ed  infine  l'elaborazione  barocca  o  espressionista cui la sua scrittura sottopone i dati realistici, ­ raggelati, a volte, fino alla stiliz­ zazione ­ è all'opposto dell'aristocratico rigore del  romanzo cinematografi­ co di  Visconti.  Il cinema di  De Santis appare come una singolare e persona­ le rilettura,  come si è visto, di  tutta una cultura cinematografica:  francese, tedesca,  sovietica,  americana;  e  di  alcuni  "generi"  classici  hollywoodiani: il western, la gangster story, il musical, Yavventuroso, il melodramma. Gli stilemi da essi attinti, una volta superate le secche di una certa loro tenden­ za a  porsi  come  meccanismi  puramente  spettacolari,  riescono a combinarsi in  una sintesi delle più  audaci  ed originali  e a dar vita ad  una sorta di  "neo­ realismo  fantastico",  in  cui  assume  un  ruolo  non  secondario  la  valorizza­ zione  dei  nuovi  mezzi  di  comunicazione  di  massa.  Il  gioco  allora  un  po' compiaciuto  delle  "citazioni"  (Eisenstein,  Vidor,  Renoir,  Pabst,  Welles)  si dissolve e si trasforma nelle mani di  uno dei pochi cinèfili di  razza del cine­ ma  italiano del  dopoguerra,  in  autonomo  e  ricchissimo  universo cinemato­ grafico. La  scrittura  di  De  Santis  è  caratterizzata  inoltre  da  alcuni  stilemi  ti­ pici,  riconoscibili  in  tutti  i  suoi  film e,  in  special  modo,  in  quelli  di  carattere corale.  Frequente  è  l'uso  dei  movimenti  di  macchina,  in  cui  "carrellate"  e "panoramiche"  si  combinano  a  seguire  e  a  sottolineare  le  azioni  dei  perso­ naggi;  così  come  quello  della  "gru"  che,  con  insolita  audacia,  è  in  grado  di consentire il passaggio da un  volto in primo piano fino ad un ampio totale, spaziando  epicamente  dall'alto.  Ed  è  costante  la  ricerca  della  "profondità di campo"  per  mettere  in  risalto  t u t t i  gli  elementi  presenti  nella  scena,  da quelli  in  primo  piano  fino  ai  più  distanti,  in  modo  da  consentire  l'applica­ 59 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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zione  del  montaggio  interno  e  di  un  periodare  senza  l'uso  di  stacchi,  attra­ verso  lunghi  "piani­sequenza".  E  questo  istintivamente,  non  essendo­ ci  precedenti  stilistici  del  genere  nel  nostro  cinema  e  pochissimi  in  quello straniero (e forse qui ancora una volta è presente il ricordo di  Renoir e so­ prattutto  dell'Orson  Welles  de L'orgoglio degli Amberson,  del  1942,  parti­ colarmente ammirato da De Santis).  Un uso però del piano­sequenza non preziosistico  ma  funzionale  a  quella  sua  ricerca  di  una  dimensione  dello spazio più espansa, più vicina alla tridimensionalità, in grado di aggregare i tre elementi  costitutivi  del  suo  mondo poetico:  individuo­coralità­paesaggio. La messa in scena di questo universo assume,  quindi, carattere di  forte pla­ sticità grazie appunto  alla  moltiplicazione dello  spazio  in  senso  orizzontale, sui  cui  tre  piani  (campo  ravvicinato/medio/lungo)  si  dispongono  in  rap­ porto  dialettico  eroi/masse/scena;  come  in  una  tragedia  classica  o  in  una rappresentazione sacra.  E qui il dramma viene recitato ogni volta in un di­ verso  contesto  realistico­simbolico  che  rappresenta  le  varie  immagini  del suo mondo contadino ("fango", "zolla", "roccia"). E, secondo un antico rituale,  i conflitti individuali si accendono e si sciolgono quasi sempre ali' esterno,  alla  presenza  di  tutti,  in  una  ideale  agorà,  legati  come  sono  alle sorti di una intera collettività. A questa classicità di impianto fa riscontro nel cinema di De Santis, e ne costituisce uno degli elementi più affascinanti, tutta una serie, come si è detto, di richiami mediologici di modernissima acquisizione. La  tecnologia dell'informazione entra  nelle  strutture dei  suoi  film, arricchendole all'interno della presenza di una molteplicità di segni prodot­ ti  appunto  dall'uso  dei  nuovi  mass­media.  Come  la  radio,  ad  esempio,  che direttamente o attraverso i microfoni trasmette i messaggi  della nuova cul­ tura di  massa:  comizi,  discorsi  ufficiali,  canzoni,  interviste,  cronaca gior­ nalistica. Oppure si identifica addirittura con la voce­narrante fuori campo dello  stesso  regista.  «Nella orale cultura contadina  "in principio era il  ver­ bo",  e  il  narratore­Dio.  Quale  migliore  oggetto­simbolo  che  la  radio  per esprimere l'idea di una cultura orale che si sta tecnologizzando (la radio è la parola  tecnologica)  (5)».  È,  inoltre,  avvertibile  addirittura  l'anticipazione del  mezzo  televisivo,  se  non  proprio  come  linguaggio,  almeno  come  "pre­ senza":  nelle  interviste  radiofoniche  delle  ragazze  ferite,  all'ospedale,  in Roma  ore  lì,  il  microfono  si  trasforma  in  "occhio"  della  telecamera  e  il campo visivo si  riduce alle dimensioni  di  un  "monitor",  simulando l'attua­ lità della presa diretta. Oppure, ancora,  il mezzo cinematografico si model­ la su altri media, privilegiandone due che allora godevano di grande diffu­ sione popolare: il fotoromanzo e il rotocalco.  In Riso amaro il fotoroman­ zo raffigura sia l'universo fantastico in cui  sogna di  proiettarsi  la protago­ nista,  sia lo stesso modello strutturale del film, che rappresenta infatti un' operazione  in  chiave  mimetica,  di  adattamento  del  popolare  genere  lettera­ 60 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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rio  (riproposta  poi  poco  dopo  da  Fellini,  ma  in chiave  critica,  con  Lo sceic­ co  bianco).  Riso amaro,  per  questo,  è  uno dei  film  più trasgressivi  dei  cano­ ni  neorealistici  e  uno dei  più carichi  di  ambiguità semantica,  di  possibilità di  letture,  in quanto i  dati  della sua verità oggettiva,  sia storici che psicolo­ gici,  si  fondono ­  fino  a confondersi  ­ con il verosimile di  un'altra dimensio­ ne:  ì\ fantastico,  altrettanto  attendibile  per  la  sua  interna  necessità  e  per  la sua  coerenza  formale.  (I  "sogni"  a  fumetti  di  Silvana  Mangano  preludono ai  "fantasmi"  di  Giulietta  degli spiriti'!). Solo apparentemente è più  dentro all'ortodossia  neorealista  un  film come  Roma ore  IL  Qui  De  Santis  si  è  ispirato  in  maniera  rigorosa  alla  cro­ naca,  preoccupandosi  di  tenersi  stretto ai  fatti.  Sintomatica,  infatti,  è la pre­ senza di Zavattini tra gli sceneggiatori, e tutto zavattiniano è il metodo dell' inchiesta cui  il  film si  rifa,  con  le sue numerose storie ad  incastro.  Ma qui, poi,  la "cronaca" e l'affettuoso "pedinamento" dei personaggi subiscono un'elaborazione  espansiva  modellandosi,  ancora  una  volta,  su  un  nuovo medium:  il  rotocalco.  Roma  ore  11  diventa  allora  un'inchiesta  "ricostruita" secondo il punto di vista, l'impostazione sociologica e ideologica dell'auto­ re.  Un esempio insomma di cinema "saggistico",  strutturato come un cine­ giornale  in  cui  l'attualità  non  è  più  immediata,  ma  "differita"  e  dove  la "notizia" diventa "romanzo". In  definitiva  il  cinema  di  De  Santis  rappresenta  uno  dei  risultati espressivi più stimolanti e più ricchi di senso ­ per la molteplicità dei codici utilizzati  ­  che il  neorealismo  raggiunse  nella volontà di  fornire  un'estetica nuova a quella che era una nuova consapevolezza etica. Ed è anche «uno dei pochi tentativi non già di narrare il punto di vi­ sta del  popolo,  ma dal punto di  vista del  popolo (6)».  A  questo punto  il  ri­ chiamo a Granisci è d'obbligo.  Il cinema di  De Santis,  infatti,  si  basa sulP applicazione,  come già è apparso,  di  un progetto che stabilisce una stretta re­ lazione tra artisti­società­pubblico, e che costituisce una evidente e sorpren­ dente anticipazione di certe proposte da Granisci espresse soprattutto negli scritti  poi  raccolti  in  Letteratura e  vita nazionale (1950). Con  quelle  proposte  il  cineasta  fondano  registrerà  una  singolare congenialità, ed esse varranno come una insospettata­conferma di certe sue personali intuizioni, e serviranno a sostenere e a chiarire la propria poetica. Pur tenendo conto degli squilibri che si rinverranno nella testualità dei  suoi  film,  De Santis  certamente è  riuscito a creare,  in  particolar  modo nelle opere  in  cui  è presente il  tema  della  "terra",  uno degli esempi  più  ori­ ginali ed affascinanti di epica nazional­popolare del cinema italiano.

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La cultura contadina Nell'attingere alla cultura popolare, De Santis si appropria anche di elementi specifici legati a\ folclore contadino, considerato come il comples­ so di  cognizioni  che  la  sua comunità  possiede,  scartando gli  elementi  più decorativi  e privilegiando quelli  maggiormente rivelatori  dei  comportamen­ ti e della mentalità dei suoi  personaggi. I  suoi  film della "terra"  sono  fortemente caratterizzati da alcuni  dei segni più felicemente espressivi di questo patrimonio culturale. Uno di que­ sti,  il  più  "elementare",  è il canto.  Esso parla  della condizione dei  suoi  la­ voratori, esprime la loro v i t a l i t à , o più di frequente, aiuta a sopportare la fatica  quotidiana  ("canti  di  lavoro").  Ma  può  diventare  anche  mezzo  di comunicazione, sostituendosi alla "parola",  negata alle classi subalterne. In  Riso  amaro  un'anziana  mondina  avverte  la  giovane  compagna: «Non  si  parla  sul  lavoro.  Qui  si  fa  come  in  carcere:  se  vuoi  dire  qualcosa alle tue compagne,  si può solo cantare». II canto collettivo infonde allora coraggio nei momenti di sconforto, oppure  è  usato  scherzosamente,  "a  dispetto".  O  ancora  ­  e  questa  è  la  no­ vità  ­  esso  ha  valore  funzionale,  soccorre alla dinamica della storia.  Come quando serve a nascondere l'aborto nella risaia di una delle ragazze, perché non venga licenziata. Allora  diventa  espressione  di  rìtualità  collettiva,  linguaggio  specifi­ co  delle  classi  subalterne.  In  momenti  come  questi,  mediante  uno  stilema ricorrente in De Santis,  esso scandisce,  in progressione,  il diagramma sono­ ro­visivo attraverso il quale sono espressi alcuni conflitti della storia.  Così come  quando  è  rappresentato  lo  scontro  tra  le  mondine  "regolari"  e  le "clandestine":  «Una,  due,  tre,  dieci,  cento voci  secondo  un ordito audiovi­ suale  che  cresce  con  regolarità  fino  a  deflagrare in  una  "catastrofe"  che  fa emergere,  dalla  scomposizione  violenta  che  subiscono  i  gruppi,  prima  ag­ gregati  in  forma  rituale,  e  ora  "esplosi",  momenti  di  rivolta,  di  isteria col­ lettiva (7)». Anche  in  Non  c'è pace  tra  gli  ulivi  il  canto  accompagna  i  momenti più lirici o risolve quelli più drammatici della vicenda. Canta Maria Grazia, la  sorella  del  pastore  Francisco,  quando  per  la  sua  famiglia  si  prepara  un altro  inverno  di  fame:  ­  Jù  cielo  è chiuso  / e  chiusa  è la  montagna  / le foglie morte càden 'a una a una...  / e già se coglie l'ulive alla campagna /.  Tra la nebbia risona la canzone /.  Sempre  'sta nebbia ammore già se coglie / l'uli­ vo  casca  e all'albero  le foglie...  /  Mentre  i  pastori  durante  la  transumanza

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Lo  sciopero  « a  rovescio ».  Il  lavoro  come  conquista  della  solidarietà  di  classe. Massimo  Giretti  ne  La  strada  lunga  un  anno. Il  luparo:  un  eroe  che  libera  la  comunità  dai  «  mostri  ».  Yves  Montand  in domini  e  lupi.

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cantano:  ­  'Opecuraro lascia la montagna / sennò l'inverno  viene e nun se magna  ­  E  ancora  Maria  Grazia,  inquieta:  ­  Me  s'è ficcata  'na  spina  agliu core  /  'Napònto  c'è  rimasta  e  mi da guai  /  e  mi  da guai  da  matina  a sera  /  ­ E canta festoso il prepotente abigeatore Bonfiglio,  in coro con i suoi servi,  per  festeggiare  il  "contratto"  di  matrimonio  con  Lucia,  sottratta  a Francisco,  perché  povero:  ­  E chi la pò  compra' questa  cavalla  / Di  tutta  la montagna  è  la più  bella!  /  Bonfiglio  se  l'è presa  e  se  la  tiene.  /  Nun  t'accu­ sta',  cumpa',  so' fucilate'!  / E se  le pecore  mo' so' duecento  /  'stai tr'anno ce  n'avrà  tre  volte  tanto!  /  Bonfiglio  mo'  diventa jù  cchiù  ricco  /  se ficca tutti  quanti  dentro  al sacco!  /  E  poi  all'improvviso  la  festa  si  guasta:  ap­ profittando della notte,  Francisco si è ripreso le pecore sue. Quando  Bonfiglio  sfila  per  le  strade del  paese,  con  il  corteo dei  pa­ renti,  e con  Lucia  sottobbraccio  per  andare  a  sposarsi  in  chiesa,  una voce sconosciuta,  come un presagio,  ripete il  motivo che cantava Maria Grazia: ­  Me  s'è ficcata  'na  spina  agliu  core...­  Ed  ecco,  subito  dopo,  la  "scenata" che  la  ragazza  fa  a  Bonfiglio  sotto  gli  occhi  della  gente,  accusandolo  pub­ blicamente  di  averla  sedotta;  e  il  gesto  di  "rifiuto"  di  Lucia,  che  butta ai piedi dell'uomo i gioielli che ha avuto come dono di nozze. Ed infine, quando Bonfiglio scappa dopo aver ucciso Maria Grazia, i  pastori  che  lo incalzano  si  passano  la  voce al  canto  di:  ­  Quanno jù pecu­ raro  va  alla  caccia  / scappa la  lepre,  scappa  la lepre!  / E mmo ' che la paura fa  novanta  / scappa  la  lepre,  scappa  la  lepre!  /  Jù pecuraro punta jù fucile  / scappa  la  lepre,  scappa  la  lepre!.../  ­ Ugualmente  funzionale è  la  danza.  Essa  interviene quasi  sempre  a sciogliere  un  nodo  narrativo:  in  Riso  amaro  il  boogie­woogie  di  Silvana serve  una volta a mimetizzare la  fuga del  ladro Gassman,  un'altra a  scate­ nare la lite tra lo stesso Gassman e il sergente Raf Vallone.  Mentre il salta­ rello di  Lucia  Bosè in Non c'è pace consente al  pastore  braccato di  scappare e alla ragazza stessa di raggiungerlo verso i monti, dopo aver distratto i ca­ rabinieri.  È,  la danza,  «un  rito erotico con precise funzioni  narrative,  an­ che  essa  "mithos"  che  si  fa  "epos"  (8)».  Anche un  elemento della  tradizio­ ne  popolare  religiosa,  come  la  processione,  sempre  in  Non  c'è pace,  non  è inserito  come  semplice  supporto  scenografico,  ma  ancora  come  un  inter­ vento  "provvidenziale",  questa volta del  Coro:  i  pellegrini  che si  recano al Santuario  della  Madonna  della  Civita,  sono  il  "deus  ex  machina"  che  con­ corre  a  salvare,  anche  qui,  il  pastore  dalla  cattura  da  parte  dei  rappresen­ tanti di una legge "forestiera".  Un altro "rito",  quello "sociale" del  ma­ trimonio,  diventa in  Giorni d'amore,  il nucleo  stesso del  film,  scandendo la stessa  struttura dell'opera,  attraverso i  vari  "momenti"  in  cui  la tradizione divide  quel  rito,  dal  "ratto"  della  sposa,  alla  necessità della  dote.  Anche  il concetto  di  "giustizia"  che regola i  rapporti  comunitari  nella terra ciociara di  De  Santis,  è quello appreso dalla tradizione:  una giustizia vissuta come 64 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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espressione  del  diritto  popolare,  come  "diritto  vivente".  Ed  ecco  il  "pro­ cesso  popolare"  promosso  da  tutta  la  comunità  dei  contadini  contro  il  re­ duce­bandito  in  Caccia  tragica,  la  "condanna"  delle  mondine  nei  confron­ ti di Silvana che le ha tradite,  e la sua espulsione;  il  "legittimo diritto"  che il pastore di Fondi rivendica di riprendersi il suo gregge dopo che gli è stato rubato,  la  "sentenza"  dei  pastori  ciociari  contro  il  ladro  Bonfiglio.  Com­ portamenti e codici morali dettati anche dall'antica diffidenza nei confron­ ti della giustizia  "ufficiale"  ­ come,  in  modo esemplare,  dimostra il  proces­ so  al  "brigante"  Raf  Vallone  ­  vista  come  la  "legge",  estranea  e  sospetta, che sta sempre dalla parte di chi sa leggere e scrivere e di chi è ricco. E quin­ di la decisione di difenderli da sé i propri diritti; non come atto di ribelli­ smo  ideologico  negatore in  assoluto dell'esistente,  ma come  affermazione spontanea della propria storia,  come gesto simbolico di rifiuto di una con­ dizione di  "diversità"  e di  "esclusione"  cui  si  è soggetti:  come atto di  non riconoscimento di  una  Legge che,  nel  sostituirsi  alla  propria  Tradizione, non è riuscita a farsi accettare come vera Giustizia.  Una forma di rivolta, questa, che è una costante delle lotte contadine (in special modo della "guer­ ra sociale" del brigantaggio post­unitario nel Meridione) e che rappresenta una manifestazione ancora anarchica della lotta di classe. Ed è anche sinto­ matica di quella sofferta e ostinata difesa della propria identità antropolo­ gica, che alcuni gruppi sociali sostengono nei primi momenti della nascita di una nazione. Il pastore­bandito della Ciociaria potrebbe benissimo rien­ trare in quella  numerosa  schiera di  "ribelli"  individualisti  del  West,  che popolano la leggenda degli albori degli Stati Uniti d'America.  Un indivi­ dualismo però che negli eroi di De Santis è sempre sorretto dalla volontà di coinvolgere un gruppo, una comunità. Anche se poi la raggiunta solidarie­ tà di  classe appare piuttosto come  la gratificazione di  una  visione  utopica, che come sbocco di un realistico percorso di affrancamento. Anche  il  décor,  il  contesto  ambientale  dei  suoi  film  della  "terra", rappresenta  un  tipico  campionario  iconografico  della  cultura  contadina. Dagli elementi più secondari come i costumi:  le pelli di pecora,  i tabarri,  i cappelloni,  le  "ciocie",  le  vesti  nere  delle  donne;  agli  attrezzi  da  lavoro, agli utensili, ai carri, al bestiame, alle biciclette; ai momenti del lavoro stes­ so: la pastura, la semina, il raccolto, la mungitura, i lavatoi. E  soprattutto  agli  ambienti,  rappresentati  nella  loro  autenticità:  i campi,  le montagne,  le  risaie,  i  borghi;  quelli  reali  in  cui  si  svolgono le vi­ cende.  (Tutti  elementi  che,  per molti  versi,  richiamano ancora l'iconografia del  western.  Cosi  come  lo  richiamano  alcune  situazioni  tipiche  di  quel!' epopea  di  "terre  vergini", .quali  il  "duello",  il  "furto  del  bestiame",  la "violenza  sulla  donna",  la  presenza  del  "treno"  come  simbolo  della na­ scente  industrializzazione). Significativa  è  anche  la  presenza  del  "coro",  sempre  costituito  da

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gente del luogo, con una felice scelta dei tipi: in mezzo al quale agiscono ­ in equilibrio tra realismo e fantasia ­ attori di grossa impronta divistica. Questo  tipo  di  recupero  della  cultura  popolare  precorre  inoltre,  a conferma  della  vitalità  che  essa  possiede,  certe  opere  del  cinema nóvo  lati­ no­americano,  che  se  ne  servono  come  di  una  analoga  preziosa  materia ispirativa,  e  che  la  ripropongono,  allo  stesso  modo,  come  espressione  di una  società contadina  ancora  più  arretrata,  e dai  conflitti  di  classe ancora più esplosivi.  Basti pensare ai drammi epico­didattici del brasiliano Glauber Rocha  quali // Dio Nero e il Diavolo Biondo (1964) e Antonio das Mortes (1968) dove i miti del Nordeste si  fondono con l'ideologia rivoluzionaria,  in un clima di  rovente feralità e con un linguaggio di esuberante formalizzazio­ ne,  cosi  come  in Non  c'è pace tra gli ulivi;  dove  l'eroe  solitario  Antonio,  mata­ dor de cangaceiros (giustiziere di banditi) è,  come Francisco, il pastore del­ la Ciociaria, il portatore di una coscienza collettiva e di una utopia politica. Allo stesso modo del cileno Miguel Littin: quando narra, alla maniera delle antiche saghe popolari, il cammino della speranza e le lotte dei suoi conta­ dini  per  la  conquista  della  Tierra  prometida  (1973),  oppure  la  rivolta  (e l'eccidio)  di  un  villaggio  di  minatori  contro  i  grossi  proprietari  e  l'esercito in A ctas de Marusia ( 1975). Il termine  "popolare"  riferito al cinema di  De Santis va considerato poi nella sua duplice accezione: esso, infatti, oltre a definire temi e moduli espressivi  delle  sue  opere,  sta  ad  indicare  anche  la  loro  destinazione  e  le possibilità di fruizione di esse. Uno degli apporti più originali e significativi da De Santis forniti al cinema italiano del dopoguerra, è l'intuizione del ci­ nema  come  "medium"  allora  dominante,  l'avvertimento  dell'espansione che esso andava acquistando a contatto con le nuove e molteplici tecniche della comunicazione di massa. De Santis tenta, infatti, di ridefinire lo spetta­ colo filmico, e di ritessere il rapporto ­ troppo rigoristicamente rimosso dai registi neorealisti ­ tra chi fa spettacolo e chi, appunto, lo fruisce; e quindi si preoccupa di  "formare"  un nuovo destinatario con cui avviare un dialo­ go civile,  rinnovato non solo nei contenuti,  ma anche nelle forme di rappre­ sentazione.  Proprio  perché  il  "pubblico"  cui  egli  intende  rivolgersi  non  è quello genericamente definito  "medio"  dai  sedicenti  esperti  del  box­office, ma  è  un  preciso  interlocutore,  che  coincide  con  la stessa  classe cui  appar­ tengono,  in  gran  misura,  i  personaggi  dei  suoi  film:  quella  cioè  dei  ceti popolari rurali ed urbani. Di essi egli tenta di farsi interprete, di essi media la cultura, ad essi ripropone le opere e i giorni della propria esistenza. De  Santis  parte,  inoltre,  da  premesse  ideologiche  dichiarate  che  lo spingono a concepire  le  sue  opere come delle  tesi in  cui  calare  la  denuncia delle contraddizioni e delle ingiustizie di una società fondamentalmente an­ cora divisa, secondo lui, in sfruttati e sfruttatori: ed egli si schiera natural­ mente dalla parte degli  "umiliati e offesi"  da sempre vittime della Storia, fedele così ad una tradizione letteraria di stampo ottocentesco che da Victor 66 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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La  famiglia. Silvana  Pampanini  in  U»  marito  pur  Anna  Zaccheo. Silvana  Mangano  e  Pedro  Armendariz  in  Uomini  e  lupi.

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Hugo arriva fino alla Morante.  In definitiva il suo è un esperimento diparte popolare"  che  troviamo  riproposto  ancora  oggi  nel  nostro  cinema,  con Novecento  di  Bertolucci,  ad  esempio,  magari  con  analoghe  ambiguità  e schematismi,  nonostante  il  "populismo"  più  acculturato,  ma  anche  con l'identica  appassionata  volontà  di  esprimere  la  "memoria  storica"  delle classi  subalterne.  Novecento,  infatti,  presenta  diverse  analogie  tematiche  e strutturali  con  i  "film della terra"  di  De Santis:  dalla  impostazione da saga nazional­popolare,  al  connubio  di  "storia"  e  "finzione",  dal  recupero  del­ la cultura contadina,  alla  tematica  erotica  ad  essa  legata,  e  infine alla  "ce­ lebrazione"  del  lavoro,  della terra e della lotta di classe. Quello di  De Santis,  inoltre,  è il primo tentativo di cinema  "politico­ civile" da noi realizzato, che in seguito sarà ripreso da Lizzani,  Rosi, Petri, Pontecorvo,  Vancini  e  anche  dai  Taviani.  Un  cinema  che,  anche  se  non sempre  è  riuscito  a  realizzare  il  necessario  accordo  tra  "ideologia"  e  "lin­ guaggio"  (perché a volte  ne  ha registrato solo  lo  scarto),  purtuttavia  resta uno dei momenti di più preziosa testimonianza del rapporto tra arte e so­ cietà civile, che è uno dei semi più apprezzabili lasciati dal neorealismo. I  modi,  infine,  della  fruizione  dei  "messaggi"  dei  film  di  De  Santis si  pongono,  oltre che in  rapporto  dialettico,  come si  è visto,  con quella che è la  nuova  cultura  tecnologica,  anche,  in  alcuni  casi,  e  paradossalmente,  in contraddizione  con  se  stessi,  producendo  perfino  singolari  germinazioni spontanee.  I  mass­media  infatti  non  solo operano all'interno dei  suoi  film, ma  addirittura  riproducono  nuovi  modelli  da  imporre  allo  spettatore,  che vengono  immediatamente  catturati  ed  usati  ambiguamente  dall'industria culturale.  I  "miti  americani",  ad  esempio,  presenti  in  Riso  amaro,  gene­ rano  essi  stessi  nuovi  miti:  la  mondina  Silvana  Mangano  diventa  un "sex­symbol"  internazionale,  ed  inoltre  l'"american  way  of life",  il  model­ lo di  vita americano,  sognato dalla protagonista  ­ e condannato dal  regista  ­ invece  di  essere  rigettato,  cattura  letteralmente  il  pubblico.  «Riso  amaro non  mette  in  corto  circuito  l'industria  culturale,  piuttosto  immette  nel  cir­ cuito dell'industria nuovi spettatori,  spettatori neorealisti (9)». Insomma,  De  Santis  è  l'antesignano,  tra  i  registi  italiani  del  dopo­ guerra,  di  quel  Cinema,  che come  una  nuova  sorte  di  mostro  bifronte  (Arte­ Industria),  si  riavvia ad essere l'immaginario collettivo per eccellenza della moderna  mitologia  dello  Spettacolo.

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Note (1) Vedi Carlo Lizzani, // neorealismo: quando è finito, quello che resta, in // neorealismo cine­ matografico  italiano,  Atti  del  Convegno  della  X Mostra  Internazionale  del  Nuovo  Cinema (Pesaro), a cura di Lino Miccichè, Marsilio, Padova 1975, p. 99. (2) Ado Kyrou, Amour­Érotisme e Cinema,  Eric Losfeld éditeur, Paris  1966,  p.  33, mia tra­ duzione. (3) Andrea Martini e Marco Melani,  "De Santis",  in // neorealismo cinematografico italiano •cit.,p. 314. (4) Vedi Adriano Apra, Rossellini oltre il neorealismo,  in // neorealismo cinematografico cit., pp. 288 e seg. (5) Andrea Martini e Marco Melani, saggio citato, p. 316. (6) Lino Miccichè, Un 'alternativa epica al neorealismo, in «Aut» n. 16, 18 maggio 1975. (7) Carlo Lizzani, Commento a Riso amaro, cit., p. 101. (8) Lino Miccichè, art. cit. (9) Andrea Martini e Marco Melani, saggio cit., p. 312.

Anna:  un  solare  « oggetto  del  desiderio ».  Silvana  Pampanini  in  Un  marito  per Anna  Zaccheo.

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Lotta di classe e utopia rivoluzionaria la prima trilogia della terra II clima culturale La  prima  "trilogia  della  terra"  (Caccia  tragica,  Riso  amaro,  Non c'è pace tra gli ulivi) si  inserisce in  un arco di  tempo  (1946­1950) che coinci­ de con  un  momento  particolarmente significativo  della  storia e  del  dibattito ideologico  del  nostro  dopoguerra.  Le  tre  opere  di  De  Santis  riflettono  in maniera  quasi  paradigmatica  due  "questioni"  significative  e  convergenti  di questo arroventato periodo; e cioè:  il riacutizzarsi dei c o n f l i t t i sociali  nel Mezzogiorno,  che  vede  l'estendersi  delle  lotte  contadine  con  l'occupazione delle terre; e l'azione politica e culturale della sinistra ­ e in particolare del Partito  Comunista  ­  nei  confronti  di  questo  fenomeno.  De  Santis  si  trova ad essere, in questo periodo,  il più accreditato esponente del  P.C.l.  tra i  ci­ neasti  italiani  del  dopoguerra,  quello  che,  con  più  scoperta  combattività, sembra sostenerne la linea di politica culturale; anche attraverso i suoi f i l m . Dal  punto di  vista culturale,  appunto,  la questione  meridionale è al  centro dell'attenzione  del  Partito  Comunista  perché  rappresenta  la  tematica  di fondo  su  cui  innestare  quella  "via  al  realismo"  percorsa,  come  si  è  visto, fin dagli anni trenta da una nutrita schiera di i n t e l l e t t u a l i .  Realismo signifi­ ca,  nel dopoguerra,  soprattutto il mondo della terra,  la civiltà contadina e, in  generale,  l'"immagine"  del  Meridione.  E  significa,  in  letteratura,  Carlo Levi,  Jovine,  Alvaro,  Rea,  Bernari,  Prisco,  e  poi  Sotellaro;  e,  infine,  Vitto­ rini  e  Pavese;  anche per la loro  riproposta del  "profondo  Sud"  degli  S i a t i Uniti. Ma è nell'arte figurativa che,  più che altrove,  si  possono riscontrare indicazioni  più  decise  e  programmatiche,  o  addirittura  vere  e  proprie  di­ chiarazioni  teoretiche  a  favore  dell'"arte  realista"  e  "nazional­popolare". Già  nel  1944,  a  proposito  della  mostra  organizzata  dall"'Unità"  (a cui seguiranno delle altre,  ciclicamente) sul  tema:  "L'Arte contro la  barba­ ,rie",  si  parla  di  «artisti  partigiani  di  un  contenuto  determinato,  preciso, storicamente definibile come popolare e progressivo»;  mentre dalle colon­ ne di  «Rinascita» ci  si  batterà contro il perdurare del  «trantran del  manie­ 70 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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rismo naturalistico»,  delle  «scenografie metafisiche» e del  «decorativismo arcaizzante»  dell'arte  d'avanguardia,  per  propugnare  «l'impegno  attivo della libera fantasia creatrice figurativa». Tutte le manifestazioni pittoriche contemporanee erano già state oggetto di critiche impietose da parte di To­ gliatti e del suo portavoce in campo culturale, Emilie Sereni, i quali le rim­ proveravano di non riuscire a farsi capire dalla classe lavoratrice, e sostene­ vano  un'arte  ispirata  ad  un  sano  buonsenso,  "facile"  e  "comprensibile"  a tutti. Cosi come già da tempo si praticava nell'Unione Sovietica. Sottrarsi  a  questi  "moniti",  non  era  facile,  almeno  per chi  non  vo­ lesse  rompere  i  rapporti  col  Partito.  Tanto  che  quel  movimento  che  nel Fronte  Nuovo  delle  Ani,  raccoglieva  artisti  delle  più  varie  tendenze,  dai neorealisti,  ai  cubisti  e agli  astrattisti,  accomunati dalla simpatia politica per  il  P.C.I.  o  addirittura  iscritti  ad  esso,  non  resse  all'urto,  e,  appena dopo un anno dalla sua fondazione (1948), si sciolse. Sarà Guttuso a guidare l'ala del  movimento che seguirà una proget­ tazione di arte realistica e  "impegnata" (anche se molto più aperta e  "spe­ rimentale" di quanto i funzionari del Partito si fossero augurati, accoglien­ do,  ad  esempio,  la  rivoluzionaria  esperienza di  Picasso).  Mentre  Paolo  Ricci e  Corrado  Maltese,  due  dei  più  autorevoli  critici  d'arte  dell'epoca  di  parte comunista,  riproporranno,  in  alternativa  a  Picasso  e  alle  nuove  tendenze dell'Avanguardia,  la  lezione  della  pittura  dell'Ottocento  napoletano  dei Gemito  e  dei  Mancini,  aggiungendo  il  richiamo  al  "realista"  Courbet,  il pittore legato alla Rivoluzione della Comune di Parigi del  1848. Nello stesso  periodo,  ancora  su  «Rinascita»,  appaiono degli articoli in cui  si  considera ormai  inevitabile la congiunzione tra via italiana nazio­ nal­popolare  e via  sovietica,  tracciata  da  Zdanov,  "nazionale  per  la  forma, socialista  per  il  contenuto".  Ed  infatti  gli  anni  1946/53  sono  per  l'Unione Sovietica  quelli  della  battaglia  contro  il  "cosmopolitismo"  e  le  "degenera­ zioni del  decadentismo",  e gli anni della diffusione in Occidente dello statuto del  realismo  socialista.  Su  questo  retroterra  culturale  e  ideologico  il P.C.I. organizza il suo intervento di "direzione politica" degli intellettuali. In letteratura,  ancora,  Carlo Salinari (succeduto poi a Sereni nella direzio­ ne culturale del Partito) insieme a Luigi  Russo,  proclamano appelli per un "contatto  sentimentale  e  ideologico"  con  le  masse ed  operano  la  netta  di­ stinzione  tra  arte  "aristocratica"  e  arte  "popolare"  (richiamandosi  non  a caso al Verga de I Malavoglia).  Le riviste «Realismo» e «II Contemporaneo» tenteranno di fissare l'equazione addirittura tra realismo e democrazia, at­ traverso il recupero sia delle tradizioni nazionali che dei dettami del comu­ nismo internazionale. I  pittori  della  nuova  Scuola  Romana daranno  un  contributo  fonda­ mentale  e  di  grande  penetrazione  pubblica  a  questo  "movimento",  attra­ verso alcune mostre itineranti sui  luoghi di  lavoro o delle lotte contadine. Guttuso andrà a  ritrarre l'occupazione delle terre in  Sicilia,  Cagli  la trage­ 71 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dia  dell'alluvione  del  Polesine,  Omiccioli  il  lavoro  dei  tagliaboschi  della Sila,  Purificato  i  contadini della Ciociaria,  Vespignani  il lavoro degli  ope­ rai  romani.  E  i  grandi  scioperi  di  braccianti  del  1949  vedono  altri  come Leoncillo, Attardi, Turcato, in giro a dipingere le loro condizioni. Iniziative  che  ricordano  quel  «reclutamento  dei  lavoratori  d'urto nella letteratura» che si era avuto in Unione Sovietica, con visite alle nuove imprese industriali, alle fattorie collettive attraverso il paese, che la RAPP (l'associazione degli artisti proletari dell'URSS) aveva organizzato già negli anni trenta. È in questo clima che si inserisce già qualche autorevole voce di dis­ senso, come quella che emerge nella polemica tra Togliatti e Vittorini sulla impostazione della rivista «II  Politecnico»,  già in  odore di  eresia;  con  Vit­ torini che dice:  «Premere su Guttuso perché dipinga più in  un  senso che in un altro,  non fa invece parte di nessun compito rivoluzionario».  Un'affer­ mazione  che  dimostra  quanto  certi  intellettuali  comincino  a  diffidare  di una politica culturale che pretende di stabilire addirittura le linee obbliga­ torie di  una  "estetica comunista".  E di  una interpretazione di Gramsci che viene  "corretta"  in  funzione  di  un  "ancoraggio  storicistico"  dove  si  tenta di  far  convivere  Francesco  De  Sanctis  con  Stalin.  Tanto  che  il  concetto  di intellettuale "organico"  finisce per significare la pura e semplice strumen­ talizzazione degli artisti per  un programma stabilito e diretto da una buro­ crazia di partito, spesso sorda agli stimoli culturali delle nuove discipline e delle  nuove  tendenze  artistiche  che,  sia  pure  a  fatica,  stanno  penetrando anche in Italia (1). E per di più soggetta alle direttive "estetiche" del realismo socialista di Zdanov.  Era questi ­ come è noto ­ l'addetto di Stalin al settore della cul­ tura,  il  quale  «avendo  scoperto  nelle  categorie  di  "irrazionalistico"  e  di "decadente"1 il  grimaldello  per  entrare  in  tutte  le  case  delle  vittime  nate dopo  il  1890,  non  solo  ne  usò per  far  strage  in  casa propria,  ma  ne rese ob­ bligatoria l'adozione anche da parte di tutto il movimento comunista inter­ nazionale.  Lo zdanovismo era intriso di  una forte vena nazionalistica,  che per  molti  versi  sembrava  rimandare  alla  tradizione  russa  di  xenofobia  an­ tioccidentale grande­slava;  esso inoltre predicava come contenuti dell'ope­ ra  d'arte  l'esaltazione  dei  "sani  valori"  della  vita,  della  "patria  socialista", dell'"eroismo  della  classe  operaia",  i  quali  finivano  per  comporre  il  qua­ dro di un'estetica (per così dire) ottimistica e autarchica (2)». Un'"estetica",  i  cui  dettami  erano  più  o  meno  cosi  concepiti:  «Allo scrittore si chiede di dimenticare e astrarsi dalla propria soggettività per im­ mergersi  nel  reale,  ma  poi,  [...]  al  posto e col  nome  del  reale gli  si  presenta un  concentrato  di  ideologia  elaborata  dal  partito  ad  uso  e  consumo  delle masse,  negando  poi  allo  scrittore,  "per  via  amministrativa",  il  diritto  e ogni  possibilità di  denunciare anche il  più  macroscopico divario  tra ideolo­ 72 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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già e realtà. Allo scrittore viene quindi lasciata tutt'al più la parte di  "illu­ stratore" di verità che non è stato lui a scoprire e a creare, bensì il partito, il quale si attribuisce naturalmente il ruolo di ideologo universale e definitivo [...];  è  evidente  che  per  questa  teoria  non  il  socialismo  è  per  l'uomo,  bensì l'uomo è per il  socialismo  (3)». Mi dice De Santis in proposito: «Nel realismo socialista ci siamo sta­ ti tutti dentro. Tutti gli intellettuali comunisti dell'epoca, e non solo comu­ nisti, ma anche socialisti, e tutto il P.C.I.. Nel momento in cui noi e anche i dirigenti vedevamo ancora nell'Unione Sovietica l'ideale, il modello da rea­ lizzare e da seguire come sviluppo politico, storico e culturale, identificava­ mo anche il realismo socialista come l'arte da perseguire. Pochi di noi sono stati  così  avveduti  che  quello  che  si  voleva  dall'Unione  Sovietica  era  un' operazione dittatoriale,  tiranneggiante,  di  oppressione.  Noi,  essendo  idea­ listicamente e ideologicamente legati a questo grande paese che aveva realiz­ zato  per  primo il  socialismo,  ne abbiamo subito anche i  condizionamenti. Ma  nelle  mie  opere  il  didascalismo  politico  non  ha  niente  a  che  fare  col realismo socialista.  Era un mio modo di concepire certe strutture, e di con­ cepire i personaggi psicologicamente all'interno di queste strutture. Io ten­ devo ad un cinema semplice, chiaro, comprensibile a tutti.  Il mio cinema a mio  giudizio,  anche  se  può  dare  questa  impressione,  non  ha  niente  a  che fare col realismo socialista, che è un'esaltazione di certi determinati canoni. All'interno dei  miei  film  non  è  che  trovi  l'eroe  positivo­soltanto;  trovi  ad esempio  in  Caccia  tragica  Girotti  che  è  l'eroe  positivo,  ma  trovi  anche  An­ drea Checchi che è il bandito e che è l'eroe negativo che recupero.  In Riso amaro  trovi  sì  le mondine,  però  trovi  anche  Silvana Mangano che è un per­ sonaggio estremamente sfumato.  In Roma ore 11  direi che le sfumature so­ no  perfino  troppe.  Ma,  comunque,  dal  realismo  socialista  siamo  stati  tutti quanti condizionati».

Le lotte contadine

Nel  cinema  del  dopoguerra,  dove  prevale  l'attenzione  soprattutto verso i riflessi della tragedia bellica, in ambienti prevalentemente urbani o provinciali, o verso temi resistenziali, il regista che può considerarsi il più tenace e convinto elaboratore di quella cultura realistico­meridionalista è, appunto,  proprio  De Santis.  E per questo,  anche se non  fosse stato comuni­ sta,  avrebbe  necessariamente  dovuto  incrociare  la  politica  culturale  del P.C.I..  De Santis,  abbiamo  visto,  aderisce al partito inizialmente,  spinto più  da consonanze culturali  e di  interesse  per  certe problematiche sociali, 73 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che  non da convinte scelte ideologiche.  Ma,  di queste,  vedremo,  subirà ben presto  le suggestioni.  «Quello che è alla  base del  mio  lavoro ­ mi  dice anco­ ra ­,  che è la chiave a mio giudizio per penetrare a fondo in t u t t o quello che ho  cercato  di  fare,  è  il  Partito  Comunista.  Il  mio  incontro  con  il  P.C.l.  è stato  determinante  nella  mia  vita.  Si  dice  che  si  può  arrivare  al  P.C.l.  da molte  strade.  La  mia  è  una strada particolare.  Ho  incontrato il  P.C.l.  per­ ché  era  il depositario a  mio  modo di  vedere,  del  mio  mondo  poetico.  Io  ho le origini  che ho.  Vengo da  un  paese,  un  paesone,  di  grossa civiltà contadi­ na.  Ho  avuto  una vita in  mezzo a operai,  contadini,  che hanno inciso  pro­ fondamente su  di  me,  soprattutto durante il periodo della mia adolescenza e  in  modo  tale  da  farmi  dedicare  a  questo  mondo,  che  era  quello  che  in qualche  modo si era stampato dentro  di  me in  modo  così  incisivo,  la  mag­ gior parte del mio lavoro.  Ora cosa succedeva?  Di  t u t t o il panorama politi­ co  italiano,  anche  nella  clandestinità,  l'unico  partito  che  si  occupasse  di questi  personaggi,  operai,  contadini,  l'uomo  della  strada,  il  piccolo  bor­ ghese  afflitto  da  disperazioni  non  esistenziali  ma  materiali,  era  il  P.C.l. All'interno di questo partito io ritrovavo la difesa di questi personaggi che erano i miei, di questo mio mondo poetico». Gli anni dal  1946 al  1950, l'arco in cui vengono realizzati Caccia tra­ gica,  Riso amaro e Non  c'è pace tra gli ulivi,  coincidono,  si  è detto,  con uno  dei  periodi  più  caldi  delle  lotte  contadine,  e  questi  film  sono  quelli  che nel panorama del cinema italiano del dopoguerra riflettono in maggior mi­ sura quei clima e quelle lotte.  Magari per molti aspetti in forma traslata: sia in ragione degli stilemi espressivi tipici di De Santis, sia, si può agevolmente ritenere,  a causa dei condizionamenti del mercato,  soggetto a sua volta alla vigilanza  politico­censoria  della  classe  dirigente  democristiana  che  sta prendendo  in  mano  il  potere.  Non  riuscendo  sempre  ad  imporre  la  rappre­' sentazione dello scontro frontale, delle lotte per la terra,  De Santis "ripiega" sui conflitti (apparentemente) più sfumati, e cerca di narrare le lotte sulla terra. Muovendosi in equilibrio tra la dimensione storica e realistica e quel­ la metaforica, egli tenta di fornire, riguardo a quell'arroventata questione, delle ragioni e dei ragionamenti. Ed è a questo punto che è difficile separa­ re ­ cosi come sarebbe  una  forzatura  farla coincidere come un calco  ideolo­ gico ­ la sua visione da quella della politica del Partito Comunista. Ricordiamo un momento, per meglio fissare la drammaticità del cli­ ma, alcuni dei fatti più caldi svoltisi in quegli anni. Dal  1944 al  1946 in tutto il Centrosud è un crescendo di  occupazioni di terre, di assalti alle prefetture, agli uffici comunali, a quelli delle imposte, e,  per contro, di una lunga serie di repressioni e di eccidi attuati dalle forze dell'ordine,  dagli agrari e dalla mafia.  1944:  i contadini tentano di invadere le terre dei Torlonia nel Fucino, dopo che gli agrari si sono rifiutati di rispet­ tare  la  legge  Cullo  sulla  concessione  delle  terre  incolte  e  mal  coltivate.  1 74 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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