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Italian Pages 217 Year 1990
ILYA PRIGOGINE ISABELLE STENGERS TRA IL TEMPO E [ETERNITÀ
BOLLATI BORINGHIERI
INDICE
Introduzione Il problema del tempo
7
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2 Uomini e dei
J4
3 Quale sguardo sul mondo?
45
4 Dal semplice al complesso
68
5 Il messaggio dell'entropia
91
6 Gli interrogativi della meccanica quantistica
119
7 La nascita del tempo
142
8 Tra il tempo e l'eternità
164
APPENDICI
A.I La realtà del tempo
192
A.2 Irreversibilità intrinseca
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A.3 L'origine dell'universo: singolarità o instabilità?
205
Nou
21J
India analitico
221
INTRODUZIONE
Questo libro ha una storia curiosa. Originariamente, doveva servire da introduzione a una raccolta di articoli di uno di noi. Bisognava descrivere in poche pagine il modo in cui si sono precisate e sviluppate le prospettive aperte dalla Nuova alleanza. Gradualmente, ci siamo dovuti arrendere all'evidenza: I'• introduzione• era divenuta l'opera di cui avevamo sottolineato la necessità nella prefazione all'edizione tascabile della Nuova alleanza. • A tutti i livelli - scrivevamo - la scienza riscopre il tempo. E forse questa problematica del tempo ci permetterà di scorgere il delinearsi di un nuovo tipo di unità della conoscenza scientifica.• Ma, lamentavamo allora, • un altro libro dovrebbe essere scritto per tracciare il quadro di questo rinnovamento•.' Ma la storia si ripete. Nella Nuova alleanza avvertivamo i lettori: «abbiamo scelto di presentare lo stato anuale delle cose, pur sapendo quanto incomplete siano le nostre risposte, quanto ancora imprevedibili siano i problemi che susciteranno le teorie attuali•. L'avvertenza è ancora valida. Nel corso di questi ulcimi anni, alcuni problemi teorici essenziali per la nostra prospeniva hanno conosciuto considerevoli sviluppi. Abbiamo preferito descriverli• in diretta•, prima ancora che taluni di questi sviluppi siano diventati oggeuo di pubblicazioni in riviste scientifiche specializzate. Sono questi nuovi problemi, oggi in piena evoluzione, che fanno di questo libro non un •seguito• della Nuwa alleanza, ma una ripresa più radicale del problema che costituiva già il suo filo conduttore, quello del tempo. La parte maggiore della Nuova alleanza era consacrata al rinnovamento della fenomenologia del tempo suscitato dallo sviluppo della termodinamica dei sistemi lontani dall'equilibrio. Vi esponevamo il rove-
,
INTRODUZIONE
sciamento del paradigma classico che identificava la crescita dell'entropia con l'evoluzione verso il disordine; e vi descrivevamo il ruolo costruttivo dei fenomeni irreversibili, e i fenomeni di auto-organizzazione che si producono in condizioni lontane dall'equilibrio. Discutevamo inoltre il ruolo che possono giocare le «strutture dissipative» nella comprensione della vita. I dieci anni che ci separano da quei lavori hanno visto uno straordinario sviluppo della nuova scienza del non-equilibrio. La mwva alleanza portava la discussione fin nel cuore della dinamica classica. In quell'opera, mostravamo come il« rinnovamento» della dinamica, legato alla scoperta dei siste!lli dinamici instabili, rimettesse in discussione l'ideale deterministico che aveva guidato la dinamica fin dalla sua origine; e come quei sistemi instabili conducessero a una nuova descrizione, che segnava il passaggio dal determinismo alle probabilità, dalla reversibilità all'irreversibilità. A quell'epoca, queste conclusioni potevano a qualcuno apparire rivoluzionarie. Oggi esse sono accettate se non dalla maggioranza, almeno da un numero crescente di fisici. Ma è nei campi della meccanica quantistica e della cosmologia, a cui La nuova alleanza faceva solo brevi riferimenti, che si pone ormai in maniera pressante il problema del tempo. La meccanica quantistica e la cosmologia, fondate sulla teori.i della relatività generale, sono le •scienze di punta• di questo secolo xx, quelle che si sono sostituite alla dinamica classica come •scienze fondamentali». Oggi sono queste discipline a menerei di fronte ai problemi che, fin dall'origine, sono caratteristici della fisica: lo spazio, il tempo, la materia. È dunque in rapporto ad esse che va considerata oggi la questione del tempo, così come, alla fine del secolo xix, era vista in rapporto alla dinamica classica. Orbene, la meccanica quantistica e la relatività generale, pur con il loro carattere rivoluzionario, sono, dal punto di vista della concezione del tempo, le eredi direrte della dinamica classica. Come vedremo, esse sono, come quest'ultima, portatrici di una negazione radicale dell'irreversibilità temporale. La formulazione di una interpretazione dinamica della irreversibilità non rimerte in discussione la dinamica classica, ma il modello conoscitivo che fino a questi ultimi anni l'ha accompagnata, quello della traiettoria deterministica e reversibile. Il problema del significato dell'irreversibilità temporale nelta meccanica quantistica e in cosmologia ci condurrà invece a proporre alcune modifiche a queste strutture concettuali.
INTRODUZIONE
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Heisenberg una volta definì, alla presenza di uno di noi, quella che per lui costituiva la differenza tra un pittore astratto e un fisico teorico. Il pittore, egli disse, cercherà di essere il più originale possibile, mentre il fisico tenterà di rimanere il più possibile fedele alla sua tradizione teorica; egli si appresterà a modificarla solo se costretto da un'effettiva necessità. È appunto in una situazione simile che ci troviamo oggi. Come vedremo, sono necessità interne alla fisica a permetterci di proporre una modifica delle sue prospettive fondamentali, e non la convinzione, per quanto profonda possa essere, che l'irreversibilità debba avere un significato fondamentale all'interno di questa disciplina. Nondimeno un tale tentativo è audace: si tratta di mettere in questione due scienze la cui fecondità ha trasformato l'immagine della fisica contemporanea. D'altra parte, come abbiamo detto, questo tentativo deve tener conto di ricerche che sono ancora in corso, e che avranno senza dubbio sviluppi inattesi. Siamo però convinti che, quali che siano questi sviluppi, sia da escludere un ritorno al passato. Il carattere illegittimo dell'ideale di conoscenza che finora aveva guidato la fisica moderna, comprese la meccanica quantistica e la relatività, ci sembra ormai acquisito. Una pagina della storia della fisica è stata definitivamente voltata. Dal punto di vista delle trasformazioni concettuali fondamentali della fisica, il nostro secolo è paragonabile solo al Seicento, che vide la nascita della scienza moderna. Il secolo xx ha avuto inizio con una svolta molto importante, la creazione dei due grandi schemi concettuali che prevalgono ancora oggi: la relatività e la meccanica quantistica. Oggi, curiosamente, possiamo comprendere meglio in che cosa questi schemi, nonostante il loro carattere rivoluzionario, fossero ancora partecipi della tradizione della fisica classica che li ha alimentati, poiché quella continuità nascosta è stata messa in discussione dalle inattese scoperte sperimentali che hanno caratterizzato la fisica a partire dagli anni cinquanta: instabilità delle particelle elementari, strutture di non-equilibrio, evoluzione dell'universo. Questi tre tipi di scoperte vanno in effetti nella stessa direzione: verso la necessità di superare la negazione del tempo irreversibile, che costituisce l'eredità trasmessa dalla fisica classica alla relatività e alla meccanica quantistica. Oggi si sviluppa una nuova coerenza, e ritroviamo a tutti i livelli della fisica quel tempo che la tradizione classica negava. li campo abbracciato da questo libro è dunque ben più esteso di quello della Nuova alleanza. Questo ampliamento riflette l'originalità della fisica,
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caratterizzata dalla diversità dei suoi approcci teorici e nel contempo dalla profonda solidarietà che li unisce. f: questa originalità della fisica a costituire il vettore essenziale del nostro libro, e non più la sua storia come nella Nuova allea11za. Il nostro libro tuttavia non è una introduzione alla fisica contemporanea. Il lettore non troverà, nei capitoli che seguono, una esposizione generale della dinamica, della termodinamica, della meccanica quantistica o della relatività. Non vi troverà nemmeno l'esame di alcuni temi importanti della fisica odierna, come la simmetria o l'unificazione delle interazioni fondamentali. D'altra parte, e soprattutto nel caso della scienza dei sistemi dissipativi lontani dall'equilibrio, non effettueremo un completo giro d'orizzonte, ma ci ispireremo principalmente a problemi affrontati dal nostro gruppo. Tentare di sostituirci alle opere propedeutiche di carattere generale, destinate a illustrare a un pubblico colto i diversi campi della fisica, sarebbe stata un'impresa tanto vana quanto smisurata. Essa, per di più, sarebbe stata un elemento di equivoco: il nostro libro non è una presentazione della fisica, ma l'approfondimento di un unico problema attraverso la molteplicità dei suoi aspetti. Tale problema ci condurrà, dunque, ad· affrontare certi campi, in particolare quelli della meccanica quantistica e della cosmologia, con un approccio insolito, quantunque accessibile, crediamo, ai lettori interessati allo sviluppo delle idee scientifiche del nostro tempo. Per coloro che volessero approfondire taluni aspetti essenziali della nostra opera, abbiamo aggiunto tre appendici che, pur senza entrare nei dettagli delle deduzioni, richiedono qualche conoscenza tecnica. Speriamo che il lettore, attraverso la potenza provocatrice dell'interrogativo che ci guida, così come ha ispirato la vita scientifica di uno di noi, scoprirà quanto le teorie fisiche siano estranee all'immagine quasi imperialistica che spesso si propone di esse. Riguardo al problema del tempo, queste teorie riveleranno il loro carattere inventivo, audace e arrischiato, di creazione di significati. È questo carattere che ci permet~ terà di comprendere come esse abbiano potuto finora negare il tempo, che è invece presente nelle descrizioni fenomenologiche della natura, e come oggi possano includerlo ai livelli fondamentali della fisica. La 11UDVa alkanza aveva per filo conduttore la storia della fisica. Tra il tempo t l'eternità esplora il confronto tra gli schemi concettuali della fisica e il problema del tempo. Per questa ragione abbiamo preso come punto di partenza l'opera di Boltzmann. Si tratta del primo atto di que-
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Il
sto confronto, del momento in cui i fisici hanno compreso il carattere radicale delle limitazioni che la dinamica classica faceva pesare sul nostro modo di pensare il divenire. Per la maggior parte dei fisici dopo Boltzmann, la verità del tempo fisico deve essere definita al livello delle teorie fondamentali, ed è da queste teorie che deve derivare lo statuto del tempo delle nostre descrizioni fenomenologiche. Il nostro percorso segue una direzione inversa. In tal senso, esso è in qualche misura parallelo a quello di Bergson, per il quale il punto di partenza di ogni pensiero alla ricerca della realtà doveva essere la nostra esperienza più intima, il •sentimento della nostra evoluzione e dell'evoluzione di tutte le cose nella durata pura•.' Il nostro punto di partenza non sarà tuttavia l'evidenza della nostra •esperienza intima», ma una evidenza immanente alla fisica stessa: il fatto che l'insieme delle descrizioni fisiche fenomenologiche non soltanto implicano la freccia del tempo, ma che ci conducono oggi a comprendere un mondo in divenire, un mondo dove •l'emergenza del nuovo• assume un significato irriducibile. Anziché cercare di «dedurre• il tempo fenomenologico dal tempo «fondamentale•, mettçremo in discussione la concezione del tempo fisico nelle teorie fondamentali a partire dall'evidenza fenomenologica. Il nostro cammino, nella misura in cui inverte il rapporto usuale tra «fondamentale• e • fenomc;nologico •, che portava a giudicare l'evidenza fenomenologica a partire dalle teorie fondamentali, pone immediatamente il problema dell'autorità che storicamente è stata conferita a queste teorie. Come si può spiegare il fatto che da un. problema apparentemente • tecnico» - l'impossibilità di definire una funzione che l'evoluzione di un sistema dinamico fa crescere nel corso del tempo, come l'entropia - sia potuta nascere questa affermazione dalle conseguenze quasi inconcepibili: la differenza tra passato e futuro non ha alcuna realtà oggettiva? Come comprendere la singolarità culturale che ha permesso alla fisica di negare un'evidenza così obbligata, che nessuna cultura fino ad allora aveva mai messa in dubbio? È a questo problema che sono dedicati i primi due capitoli del nostro saggio. Il terzo e il quarto capitolo di Tra il tempo e l'eternità esplorano lo sviluppo contemporaneo di quella scienza dei processi dissipativi produttori di entropia, che, dopo Boltzmann, fu interpretata come relativa soltanto al carattere approssimativo delle nostre osservazioni e dei nostri calcoli: Mostreremo che questa scienza è divenuta oggi scienza del dive-
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INTRODUZIONE
nire, non nel senso che essa fornisce un modello generale del divenire al quale le altre scienze dovrebbero sottomettersi, ma nel senso che essa scopre, a partire dai suoi propri oggetti, le condizioni senza le quali nessuna scienza, sia essa biologica o sociale, può definire il divenire: l'irreversibilità, le probabilità, la coerenza. Abbiamo dato largo spazio, in questi capitoli, ai nuovi concetti di attrattore, di orizzonte temporale, di caos, la cui importanza emerge ogni giorno sempre più chiaramente. Si tratta effettivamente di nuovi strumenti di pensiero, che fanno nascere problemi e prospettive inattesi, e stimolano raffronti tra campi a priori disparati. Già da ora, questi strumenti rinnovano il concetto dì •spiegazione• nelle scienze della natura. Mostreremo, in particolare, come essi possano aprire una via che potrebbe condurci a una comprensione non riduttiva dell'apparizione della vita a partire dal mondo dei processi fisico-chimici. li quinto capitolo ritorna sul problema di Boltzmann e sulla concezione secondo la quale l'irreversibilità sarebbe solo una proprietà fenomenologica, determinata dalle approssimazioni che introduciamo con il nostro modo di descrivere la natura. La fecondità della fisica dei sistemi dissipativi rende insostenibile una tale concezione. Tuttavia, il fatto che le leggi della dinamica sembrino ignorare la freccia del tempo pone un problema che sarà il Leitmotiv del nostro libro: l'irreversibilità temporale non può •nascere• all'interno di una realtà reversibile. O arriveremo a riconoscere l'irreversibilità temporale a tutti i livelli, oppure non potremo comprenderla da nessuna parte. Mostreremo poi come il rinnovamento della dinamica classica, incentrato sulla nozione di instabilità, permetta di definire i sistemi dinamici reversibili come casi limite particolari, e non più come modelli rappresentativi del comportamento dinamico. È in questa prospettjva che riprenderemo il problema di Boltzmann, cioè il problema del legame che la dinamica conserva con la teoria cinetica, la scienza a partire dalla quale Boltzmann aveva costruito il suo modello microscopico dell'entropia. Come vedremo, non soltanto le obiezioni che vennero mosse a Boltzmann hanno perso oggi la loro validità, ma possiamo dare un carattere più radicale all'interpretazione che lui proponeva. In effetti, le collisioni all'interno di un sistema formato da un gran numero di panicelle, come quelle che studia la teoria cinetica, non costituiscono solamente il meccanismo microscopico dell'evoluzione irreversibile di questo sistema verso "l'equilibrio. L'irreversibilità non è •creata• da condizioni macroscopi-
INTRODUZIONE
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che di non-equilibrio; sono le condizioni macroscopiche di equilibrio che impediscono alla freccia del tempo, sempre presente a livello microscopico, di manifestarsi attraverso effetti macroscopici. Nel sesto capitolo affronteremo il problema della meccanica quantistica, la scienza che, nel secolo xx, si è sostituita alla dinamica classica come via d'accesso al mondo microscopico. Qui, come abbiamo già sottolineato, non è possibile limìtarsi a una nuova interpretazione del significato e della portata delle equazioni fondamentali. Queste presuppongono in effetti la validità generale del modello di cui il rinnovamento della dinamica ha messo in evidenza i limiti, cioè il modello del sistema dinamico• integrabile•, deterministico e reversibile. Come dimostreremo, proprio questo modello è all'origine della struttura dualistica della teoria quantistica: da un lato un'equazione di base, l'equazione di Schrodinger, che è deterministica e reversibile; dall'altro, la sua •riduzione• irreversibile, che permette di predire in termini di probabilità i possibili risultati delle nostre misure. Conseguenza di questa struttura è che la meccanica quantistica sembra conferire un ruolo essenziale all'atto dell'osservazione, e suggerire che saremmo noi osservatori, con le nostre misure, a introdurre le probabilità e l'irreversibilità in un mondo che, senza di noi, sarebbe deterministico e reversibile. La struttura molto particolare della meccanica quantistica ha suscitato parecchie controversie. La nostra ricerca ci ha condotti a dare un senso preciso a ciò che Karl Popper aveva espresso come un •sogno metafisico»: • Il mondo sarebbe probabilmente altrettanto indeterministico di com'è anche se non esistessero "soggetti osservatori" a sperimentarlo e a interferire:. con esso•.• La prima formulazione della teoria quantistica, dovuta a Bohr, Sommerfeld e Einstein, aveva conferito un ruolo centrale all'evento aleatorio. Il «salto• dell'elettrone da un'orbita ad un'altra non rispondeva in essa a una legge deterministica, ma a una descrizione probabilistica, come le collisioni nella teoria cinetica classica. Mostreremo che sono questi eventi quantistici a porre un limite alla validità della meccanica quantistica attuale. Come le collisioni, questi eventi implicano l'abbandono del modello del «sistema integrabile•. La nuova formulazione alla quale siamo giunti restituisce ad essi il significato intrinseco che avevano nella prima teoria quantistica, e permette di affermare che il più semplice degli oggetti quantici, l'atomo di idrogeno, è già segnato dalla freccia del tempo. La teoria quantistica è oggi la teoria fisica maggiormente confermata
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dall'esperienza. Quindi ci sembra particolarmente interessante il fatto che la nuova formulazione, che qui descriveremo, permetta di prevedere degli scostamenti rispetto alle previsioni della teoria quantistica abituale. Dato lo sviluppo attuale delle tecniche sperimentali, questi eventuali scostamenti dovrebbero, nei prossimi anni, poter essere osservati. Comunque sia, la posta in gioco è chiara: la nozione di evento ha un senso al livello fondamentale della fisica? La meccanica quantistica permette di definire una irreversibilità intrinseca, indipendente dati' atto del1' osservazione? Questa questione non è diversa da quella già presente nella NumJa alleanza: dobbiamo riconoscere che il tempo separa l'uomo dalla natura, oppure possiamo costruire un modello conoscitivo che sia aperto all'idea del tempo umano come espressione esasperata di un divenire che condividiamo con l'universo? Abbiamo parlato dell'universo. Uno dei caratteri più vistosi della fisica del secolo xx è quello di aver fatto dell'universo un oggetto di scienza. Pertanto, è anche a proposito dell'universo che può e deve essere posta la questione del tempo. Il settimo capitolo di questo libro mostrerà il legame tra questo problema e quello che John Wheeler ha definito a la più grande fra le crisi della fisica•: la necessità, derivante dai modelli cosmologici contemporanei, di concepire all'origine dell'universo una singolarità, il big bang, che sfugge alle nostre teorie fisiche. La relatività generale, che sta alla base del modello cosmologico standard oggi dominante, ha introdotto la concezione rivoluzionaria di una relazione tra lo spazio-tempo e la materia. Ma questa relazione è concepita come essenzialmente simmetrica: la presenza di materia determina una curvatura dello spazio-tempo, e questa determina il movimento di tale materia. Non diversamente dalla teoria newtoniana del moto, di cui è l'erede, la relatività generale non dà alcun senso all'irreversibilità, e in particolare non consente di spiegare la gigantesca produzione di entropia che, come oggi si sa, ha segnato la nascita del nostro universo. Secondo la prospettiva che noi presenteremo qui, è questa produzione di entropia a costituire il vero a prezzo• del passaggio all'esistenza dd nostro universo, e che quindi costituisce la differenza tra questo universo materiale e un universo vuoto. Come vedremo, la possibilità di definire questa differenza e quel passaggio ali' esistenza ci ha condotti a una generalizzazione delle equazioni di Einstein che permette di descrivere un processo irreversibile di creazione di materia. Alla singolarità iniziale, che il modello standard impone, si potrebbe così sostituire una
INTRODUZIONE
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imtabilità che conduce a.una creazione simultanea della materia e dell'entropia del nostro universo. Il sogno di Einstein è sempre stato quello dell'unificazione della fisica, della scoperta del principio unico che desse intelligibilità alla realtà fisica. Questo sogno votava il divenire a non essere che un ostacolo per la fisica, un'illusione da superare. Oggi il divenire fa irruzione proprio dove questo sogno aveva trovato la sua espressione più grandiosa, nella simmetria delle relazioni stabilite dalla relatività generale tra la materia e lo spazio-tempo. L'instabilità iniziale, cui abbiamo fatto riferimento, fa dell'universo il prodotto di una rottura di simmetria tra lo spazio-tempo da una parre e la materia dall'altra. La nascita del nostro universo materiale si trova posta allora sotto il segno della più radicale irreversibilità, quella della lacerazione del tessuto uniforme dello spazio-tempo che genera contemporaneamente la materia e l'entropia. L'irreversibilità temporale, dunque, è oggi penetrata in tutti i livelli della fisica e permette di intravedere la possibilità di una nuova coerenza, articolata intorno a quel divenire che la fisica di ieri definiva come un ostacolo. Il titolo del nostro libro, Tra il tempo e l'eternità, esprime appunto questa radicale trasformazione concettuale. Fin dalle origini, la fisica è stata lacerata dall'opposizione tra tempo ed eternità: tra il tempo irreversibile delle descrizioni fenomenologiche e l'eternità intelligibile delle leggi che dovevano permetterci di interpretare queste descrizioni fenomenologiche. Oggi, divenire e intelligibilità non si contrappongono più, ma il problema dell'eternità non è tuttavia sparito dalla fisica. Al contrario, come vedremo, esso rinasce a nuova vita nella possibilità di un eterno ricominciamento, di una serie infinita di universi, esprimente l'eternità incondizionata di quella freccia del tempo che conferisce alla nostra fisica la sua nuova coerenza. Questa reinvenzione dell'articolazione tra tempo ed eternità rivela la fecondità della tradizione fisica, ieri portatrice di una negazione radicale del tempo, oggi suscettibile di rinnovarsi per dare un senso al divenire. Essa ci sembra anche rimarcare l'appartenenza di questa tradizione alla cultura occidentale, essa pure assillata dalla questione dei rapporti tra tempo ed eternità. Come abbiamo sottolineato nellaNUQVa alleanza, l'ideale di eternità, di cui era portatrice la fisica, è sembrato imporre un tragico faccia a faccia tra l'uomo, la cui libertà presuppone e afferma il tempo, e un mondo passivo, governabile e trasparente alla conoscenza umana. Lo
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INTRODIRJONE
sviluppo delle scienze ha così contribuito a irrigidire in opposizioni insormontabili le tensioni che segnano fin dalle origini la cultura occidentale, e a inaridire il dialogo tra scienze e filosofia, così fecondo di idee e problemi fino alla fine del secolo xvm. La ripresa di quel dialogo ci appare essenziale. È sorprendente constatare quanto sia oggi frequente che gli scienziati, allorché ricercano i mezzi per riflettere sul significato esistenziale della loro attività, si rivolgano a filosofie di tipo orientale. Così Schrodinger, uno dei più grandi fisici del secolo xx, espose una• concezione del mondo• essr-nzialmente ispirata dai Veda.• Egli affermò che i concetti e le conoscenze creati dalla scienza non hanno alcuna relazione con una • concezione fùosofica del mondo». Altri, come David Bohm, cercano al contrario di dimostrare che al di là del linguaggio dualistico che le scienze hanno ereditato dalla tradizione occidentale, il loro sviluppo, in particolare quello della fisica quantistica, ci porta a scoprire i percorsi della mistica orientale. Quanto a noi, non pensiamo certo che le scienze moderne siano destinate a intrattenere rapporti solo con la tradizione occidentale. Tuttavia, riteniamo che la fisica non abbia bisogno di «liberarsi• da questa tradizione che caratterizza, al di là di questa o quella dottrina, la ricerca rischiosa e appassionata delle relazioni tra conoscenza e significato, tra sapere ed esperienza. Tuttavia non si tratta, secondo noi, di proporre una «visione scientifica del mondo• che possa unificare scienza e fùosofia, eliminando le differenze e le tensioni. Una «visione scientifica del mondo•, qualunque sia il suo contenuto, è per definizione chiusa, portatrice di certezze, e privilegia le risposte rispetto alle domande che le hanno suscitate. Non è una «visione del mondo• quella che noi vorremmo far condividere, ma una visione della scienza. Come l'arte e la filosofia, essa è prima di tutto sperimentazione, creatrice di domande e di significati. Come la filosofia, essa non potrà dirci che cosa «è» il tempo, ma, come la fùosofia, essa ha come problema il tempo, la creazione di una coerenza tra la nostra esperienza più intima, che è quella del tempo, e i nostri modi di descrivere il mondo e noi stessi che siamo emersi da questo mondo. Questa visione della scienza ha certo una portata utopistica, come la • nuova alleanza• tra i saperi a cui si richiamava la nostra opera precedente. Essa esprime la nostra esigenza di liberarci dall'immagine tuttora dominante di una razionalità scientifica neutrale, destinata a distrug-
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gere quel che non può comprendere, e contro la quale dovrebbero essere difesi i problemi e le passioni che danno senso alla vita umana. Essa esprime anche la profonda convinzione, che ha guidato il lavoro scientifico di uno di noi, che siano state affrettate generalizzazioni, e non la sua verità, a condurre la scienza a contrapporre l'uomo al mondo che egli cerca di comprendere. Il libro che noi oggi presentiamo è il frutto di un lungo cammino, che non sarebbe stato possibile senza un impegno vivificato da un interrogativo al tempo stesso, e indissolubilmente, scientifico, filosofico ed esistenziale. Il fatto che questo cammino poni oggi a inserire nel cuore della fisica una problematica che ne sembrava esclusa per definizione, è sufficiente a testimoniare che la scienza è opera umana e non destino implacabile: un'opera che non cessa di inventare il senso del duplice vincolo che la genera e la feconda, l'eredità della sua tradizione e il mondo che essa interroga.'
TRA IL TEMPO E L'ETERNITÀ
CAPITOLO 1 Il problema del tempo
Ottant'anni fa appariva un libro che ha segnato la storia dei rapporti tra scienza e filosofia e che suscita ancor oggi discussioni e controversie, L 'Evolution créatrice di Henri Bergson. Al contrario di molti filosofi di fronte alla scienza, Bergson non si interessava di problemi astratti, come la validità delle leggi scientifiche, i confini ultimi della conoscenza ... , ma di ciò che la scienza ci dice del mondo che essa pretende di comprendere. E il suo verdetto annuncia la fine di questa pretesa. Egli mostra che la scienza è stata feconda ogni volta che è riuscita a negare il tempo, a darsi degli oggetti che permettono di affermare un tempo ripetitivo, di ridurre il divenire alla produzione dello stesso da parte dello stesso. Ma, allorché abbandona i suoi argomenti preferiti, quando tenta di ricondurre allo stesso tipo di conoscenza ciò che in natura esprime la potenza inventiva del tempo, non è più che la caricatura di sé stessa. Il giudizio di Bergson fece scandalo. Si poteva ammettere che la scienza non potesse penetrare nei campi tradizionalmente riservati alla filosofia, come lo spirito umano, la libertà, l'etica. Ma, seguendo Bergson, è il campo stesso in cui la scienza è feconda, e non quello riservato alla filosofia, a restringersi. Infatti è partendo dalla nostra esperienza più intima, che è quella della durata, e non dagli oggetti privilegiati dalla scienza, che possiamo sperare di comprendere la natura con cui siamo solidali. Il tempo vissuto, il tempo che è la nostra stessa vita, non ci oppone, secondo Bergson, a un mondo •oggettivo», ma traduce invece la nostra solidarietà con il reale. • Uno degli scopi dell' Evo/ution créatria è mostrare che il Tutto è della stessa natura dell'Io, e che lo si coglie mediante un approfondimento sempre più completo di sé stessi».'
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CAPITOLO PRIMO
Nella misura in cui intendeva proporre un approccio che fosse in grado di presentarsi come rivale della conoscenza scientifica, Bergson ha fallito. li •sentimento della nostra evoluzione e dell'evoluzione di tutte le cose nella durata pura•' non ha potuto trasformarsi, contrariamente alle sue speranze, in un metodo di ricerca capace di divenire tanto preciso e sicuro quanto quello che guida le scienze.' E tuttavia, proprio perché non crediamo più alla soluzione che egli vedeva profilarsi, alla possibilità di un'•altra• scienza che prenda come punto di partenza l'intuizione della durata concreta, il problema posto da Bergson anima questo libro così come ha animato l'opera scientifica di uno di noi. Possiamo richiamarci al giudizio di Bergson, secondo il quale la conoscenza scientifica, e in particolare la conoscenza fisica, è votata a opporre l'uno all'altro il mondo descritto e chi lo descrive? Noi pensiamo che il giudizio di Bergson misconosca il fatto che la fisica non è un dato, a partire dal quale si possa porre il problema della natura della conoscenza scientifica, ma un'opera che riunisce, come ogni opera creativa, la libertà dell'immaginazione e l'esplorazione rigorosa ed esigente del mondo nuovo tra i possibili che l'invenzione implica. Si può anche dire che, derivando dall'alleanza di invenzione teorica ed esperienza, la fisica porta a un grado eStremo i due aspetti complementari rappresentati dalla libertà e dalla limitazione. La sua forza inventiva si manifesta nella creazione di nuovi linguaggi, in particolare di linguaggi matematici che permettono di introdurre distinzioni inaccessibili al linguaggio naturale. Ed essa è costantemente rilanciata dalla scoperta di fenomeni inattesi, che sfidano l'immaginazione e impongono alle teorie e alle anticipazioni dei fisici la scoperta dei loro _limiti. Come vedremo, ciò è particolarmente vero per la fisica del secolo xx, che è stato, per i fisici, il secolo delle sorprese. È in questa prospettiva, che fa della fisica non un modello, ma un'•interfaccia• inventiva tra gli uomini e il mondo dei fenomeni, che noi vogliamo collocarci. Tenteremo di moStrare come la fisica - senza tradire le limitazioni che hanno conferito rigore e disciplina all'esplorazione che conduce - abbia oggi potuto creare nuovi significati, nuove impostazioni che la aprono all'esperienza umana del tempo, che Bergson pensava fosse votata a ignorare. Nel corso di questo saggio tenteremo di descrivere non la nascita di un'«altra» scienza, in rotta drammatica con la propria tradizione, ma la trasformazione profonda tanto dell'ideale di conoscenza che orienta lo sviluppo di questa scienza, quanto delle possibili letture della sua tradizione.
IL PROBLEMA DEL TEMPO
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Le origini della fisica sono caratterizzate da un'irriducibile contingenza che non rinvia solo alla storia degli uomini, ma anche alla natura, al fatto che essa, fino a un ceno punto, ha dato un senso agli ideali di conoscenza che animavano coloro che l'hanno interrogata. Consideriamo il movimento della Terra intorno al Sole. La storia della nostra fisica è stata condizionata dal fatto che le forze d'interazione tra la Terra, la Luna e gli altri pianeti possono in prima approssimazione essere trascurate, cioè dal fatto che l'orbita terrestre può corrispondere idealmente a un sistema a due corpi (ferra-Sole). In caso contrario, il cielo non avrebbe offeno agli uomini lo spettacolo dei moti periodici regolari che hanno dato impulso all'astronomia classica. Sarebbe forse nata una scienza probabilistica al posto della «meccanica celeste•, per spiegare la complessità dei moti planetari? Allo stesso modo, la fisica di Galileo rimanda al fatto che viviamo in un ambiente in cui le forze di attrito sono spesso deboli. Se, come i delfini, vivessimo in un ambiente più denso, la scienza dei moti avrebbe assunto una forma diversa. Esempi di questo genere possono moltiplicarsi: non dobbiamo la creazione dei nostri grandi schemi teorici solo alla nostra intelligenza, ma anche al fatto che, in questo mondo complesso, alcuni «oggetti» si stagliano in maniera naturale e hanno attirato l'attenzione degli uomini, hanno provocato lo sviluppo di tecniche e la creazione di linguaggi che rendono comprensibile la loro regolarità. Oggi la fisica è in grado di superare la contingenza che ha presieduto alla sua nascita. Possiamo ammirare la semplicità del moto dei pianeti senza lasciarci stregare da essa, poiché possiamo meglio inquadrare il suo carattere panicolare, quasi singolare. È appunto questa trasformazione del modo di vedere del fisico che vorremmo descrivere in questo saggio, allo scopo di rendere panecipe il lettore della sensazione di vivere un momento privilegiato. Non soltanto la fisica ci apre oggi un mondo non più estraneo alla nostra esperienza, alle nostre conoscenze, alle nostre pratiche, ma ci permette anche di comprendere meglio il suo passato, la singolare semplicità degli oggetti che guidarono i suoi primi passi, i limiti dell'ideale di conoscenza che essi poterono ispirare. Prima di impegnarci in questa esplorazione della fisica contemporanea, vorremmo tuttavia dedicare qualche pagina ad un ritorno indietro. Non è un caso se è stato all'inizio del secolo xx che Bergson e tanti altri hanno potuto fare del tempo il problema cruciale a parure dal quale poteva essere pronunciato un giudizio globale sulla scienza e sui suoi
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limiti. Infatti, erano stati da poco affrontati, per la prima volta in modo diretto ed esplicito, il problema del tempo e l'ideale conoscitivo della tradizione fisica. Già nella Nuova allta11za abbiamo presentato un quadro della storia della fisica imperniato sul problema del tempo. Abbiamo mostrato come, nd corso della seconda metà del secolo xix, si siano sviluppate due grandi concezioni del divenire fisico, derivate rispettivamente dalla dinamica, nata nel secolo xvu, e dalla termodinamica del secolo xix. Curiosamente queste concezioni corrispondevano a due visioni opposte del mondo fisico. Dal punto di vista della dinamica, divenire ed eternità sembravano identificarsi. Come il pendolo perfetto oscilla intorno alla sua posizione d'equilibrio, così il mondo retto dalle leggi della dinamica si riduce ad immutabile affermazione della propria identità. L'universo termodinamico, invece, è l'universo della degradazione, dell'evoluzione progressiva verso uno ·stato di equilibrio caratterizzato dall'uniformità, dal livellamento di rune le differenze. Il pendolo, qui, ha cessato di essere perfetto e l'attrito lo destina irrevocabilmente all'immobilità dell'equilibrio. All'eternità dinamica si oppone dunque il secondo principio della termodinamica, la legge della crescita irreversibile dell'entropia formulata da Rudolf Clausius nel 186 5; al determinismo delle traiettorie dinamiche, il determinismo ugualmente inesorabile dei processi che livellano le differenze di pressione, di temperatura, di concentrazione chimica, e che conducono in maniera irreversibile un sistema termodinamico isolato al suo stato d'equilibrio, di massima entropia. Abbiamo sottolineato come l'idea di definire un'attività attraverso la distruzione che essa opera delle disomogeneità che la generano, cioè delle sue stesse condizioni di esistenza, l'idea di definirla, insomma, come diretta irreversibilmente alla sua scomparsa, avesse impresso al secolo XIX un'ansia quasi escatologica. Il nostro mondo è condannato alla morte termica. Le nostre società esauriscono le loro risorse, sono condannate alla decadenza. Tuttavia, sarebbe un errore pensare che il secondo principio della termodinamica sia stato solo fonte di pessimismo e angoscia. Per alcuni fisici, come Max Planck e soprattutto Ludwig Boltzmann, fu anche il simbolo di una svolta decisiva. La fisica poteva finalmente descrivere la natura in termini di divenire; essa era sul punto di poter descrivere, come le altre scienze, un mondo aperto alla storia. In effetti è sorprendente constatare come nell'epoca in cui la fisica,
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grazie al secondo principio della termodinamica, annuncia l'evoluzione irreversibile là dove sembrava regnare l'eternità, le scienze e la cultura scoprono ovunque la potenza creatrice del tempo. È l'epoca in cui tutti i tratti della cultura umana, le lingue, le religioni, le tecniche, le istituzioni politiche, i giudizi etici ed estetici, vengono visti come prodotti di storia, e in cui la storia umana si legge come la scoperta progressiva dei mezzi razionali per dominare il mondo. È l'epoca in cui la geologia e la paleontologia insegnano che la Terra, e tutto ciò che appariva come il quadro fisso della nostra esistenza, gli oceani, le montagne, le specie viventi,_ so~o il frutto di una lunga storia caratterizzata da distruzioni e creazioni. Per il fisico viennese Ludwig Boltzmann il secolo xix fu « il secolo di Darwin•, di colui che mostrò che l'invarianza delle specie viventi era solo un'apparenza. E tuttavia, per la maggior parte dei fisici, il nome di Boltzmann evoca un risultato in qualche misura antitetico a quello di Darwin: proprio lui avrebbe dimostrato che l'irreversibilità era solo un'apparenza, al di là della quale regna l'eternità invariante delle leggi della dinamica. Proprio questo fu il dramma di Ludwig Boltzmann, che tentò in fisica ciò che Darwin aveva compiuto in biologia - dare un senso al tempo dell'evoluzione a livello di descrizione fondamentale-, per finire in un vicolo cieco e infine capitolare di fronte all'esigenza di eternità della dinamica. · La similitudine tra l'approccio di Darwin e quello di Boltzmann si impone a prima vista. Darwin aveva trasformato l'oggetto della biologia, aveva mostrato che quando si studiano le popolazioni viventi e la loro storia, e non quella degli individui, si può comprendere come la variabilità individuale, sottoposta alla selezione, generi una «deriva» della specie, una trasformazione progressiva di ciò che, alla scala del tempo degli individui, si presenta come dato. Allo stesso modo, Boltzmann cercava di mostrare che in una popolazione numerosa di particelle l'effetto delle collisioni può dare un senso alla crescita dell'entropia e quindi ali' irreversibilità termodinamica. Nel 1872 Boltzmann presentava il suo famoso «teorema H».• La funzione H esprime l'effetto delle collisioni che, in ogni istante, modificano la posizione e la velocità delle particelle di un sistema. Essa è costruita in modo da decrescere monotonamente nel corso del tempo fino a raggiungere un minimo. In quel momento si trova realizzata una distribuzione delle posizioni e delle velocità delle particelle che le ulte-
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riori collisioni non modificheranno più. Bolrzmann, dunque, aveva costruito un modello microscopico dell'evoluzione irreversibile della popolazione di particelle verso uno staro di equilibrio. Le collisioni tra le particelle costituiscono il meccanismo che causa la progressiva scomparsa di ogni• differenza• iniziale, cioè di ogni scarto rispetto alla distribuzione statistica di equilibrio. Torneremo, nel terzo capitolo, sull'evidente contraddizione tra le teorie di Darwin e di Bolrzmann. Cerro, entrambe sostituiscono lo studio delle popolazioni a quello degli individui e mettono in evidenza il rapporto tra •piccole» variazioni (variabilità degli individui, collisioni microscopiche) ed evoluzione dell'insieme corrispondente ad una scala temporale lunga; ma la prima tenta di spiegare l'apparizione di specie adattare al loro ambiente, secondo modalità sempre diverse e più complesse, mentre la seconda descrive un'evoluzione verso l'uniformità. Qui vorremmo sottolineare la divergenza tra i destini conosciuti dalle due teorie. L'evoluzione darwiniana, attraverso critiche, difficoltà e accanire controversie tra biologi e studiosi di statistica, finì per trionfare e ancor oggi è il fondamento del nostro modo di comprendere i viventi. Al contrario, l'interpretazione bolrzmanniana dell'irreversibilità soccombene ai suoi critici. Bolrzmann fu progressivamente spinto a riconoscere, di non essere riuscito a dare un'interpretazione microscopica dell'irreversibilità. Una evoluzione • anritermodinamica•, nel corso della quale l'entropia diminuisca e nella quale le differenze, invece di livellarsi, si approfondiscano spontaneamente, rimaneva una possibilità fisica altrettanto valida dell'evoluzione termodinamica osservata. La situazione che Bolczmann si trovò di fronte era profondamente drammatica. Come abbiamo detto, egli era convinto che comprendere l'universo significasse comprenderlo nel suo carattere storico, e che quindi l'irreversibilità definita dal secondo principio della termodinamica avesse un senso fondamentale. Ma egli era anche l'erede della grande tradizione dinamica. E scoprì che questa tradizione entrava in conflitto con ogni tentativo di dare un senso intrinseco alla a freccia del tempo•.' Retrospettivamente il dramma vissuto da Bolczmann, costretto a scegliere tra la sua intuizione del tempo e la fedeltà alla tradizione fisica, ci sembra particolarmente straziante. Da una parre, il fatto che il suo tentativo fosse votato all'insuccesso sembra, col senno di poi, di per sé evidente: tutti noi apprendiamo ormai, fin dall'insegnamento elementare della fisica, che una rraierroria non è solo deterministica, ma intrin-
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secamente reversibile, che essa non permette di fare lllcuna differenza tra il futuro e il passato; cercare di spiegare l'irreversibile col reversibile appare allora, come sottolineò Poincaré,6 un errore che la sola logica basta a condannare. Ma, d'altra parte, oggi sappiamo come quella evidente contraddizione logica possa essere superata. Siamo in grado di rispondere ai critici che condannarono il modello di Boltzmann, ma questa risposta ha richiesto una trasformazione fondamentale del modo dinamico di concettualizzare. Affronteremo il problema nel corso del quinto capitolo. Qui vorremmo soprattutto illustrare questo episodio cruciale della storia della fisica, nel corso del quale il modo di concettualizzare della dinamica classica rivelò le sue esigenze e le sue implicazioni. Come comprendere il fatto che Boltzmann, come la maggior parte dei suoi contemporanei, abbia potuto sperare di dare un senso dinamico all'irreversibilità? Come mai non hanno visto subito ciò che a noi oggi sembra evidente: che il tempo della dinamica non afferma solo la concatenazione deterministica di cause ed effetti, ma anche l'equivalenza essenziale delle due direzioni del tempo, quella che noi conosciamo e che definisce il nostro futuro, e quella che possiamo immaginare quando ci rappresentiamo un sistema che • risale» verso il suo passato? È meglio sottolineare subito il carattere quasi inconcepibile di questa idea di reversibilità dinamica. Il problema del tempo - di ciò che il suo flusso conserva, crea, distrugge - è stato sempre al centro delle preoccupazioni umane. Molte forme di speculazione hanno chiamato in causa l'idea di novità e affermato l'inesorabile concatenazione di cause ed effetti. Molte forme di sapere mistico hanno negato la realtà di questo mondo mutevole e incerto, e hanno definito l'ideale di un'esistenza che permetta di sfuggire al dolore della vita. Conosciamo d'altra parte l'importanza che aveva nell'antichità l'idea di un tempo circolare, che ritorna periodicamente alle sue origini. Ma lo stesso eterno ritorno è segnato dalla freccia del tempo, come il ritmo delle stagioni o quello delle generazioni umane. Nessuna speculazione, nessun sapere ha mai affermato l'equivalenza tra ciò che si fa e ciò che si disfa, tra una pianta che cresce, fiorisce e muore, e una pianta che rinasce, ringiovanisce e ritorna al suo seme primitivo, tra un uomo che matura e impara, e un uomo che diventa progressivamente fanciullo, poi embrione, poi cellula. Tuttavia, fin dalla sua origine, la dinamica, la teoria fisica che si identifica con il trionfo stesso della scienza, implicava questa negazione
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radicale del tempo. Ecco quello che rivelò l'insuccesso di Boltzmann e che, prima di lui, nessuno dei pensatori che, come Leibniz o Kant, avevano fatto della scienza del moto il modello conoscitivo del mondo, aveva osato riconoscere. Per noi oggi è evidente l'impossibilità, alla quale è votata la dinamica, di definire una differenza intrinseca tra il prima e il poi. Ma fin dall'origine questa impossibilità era al tempo stesso affermata e dissimulata mediante un principio che, con i lavori di Galileo, Huygens, Leibniz, Eulero e Lagrange, è divenuto il principio stesso di concettualizzazione della dinamica. Leibniz ha chiamato questo principio principio di ragion sufficiente. In termini leibniziani questo principio enuncia /'"lllivalmza tra la causa «pima» e l'effetto «intero». Il principio di ragion sufficiente non descrive soltanto un mondo in cui gli effetti seguono le cause, né solo un mondo in cui la concatenazione delle cause e degli effetti è rigorosamente deterministica. Conosciamo un gran numero di processi causali e deterministici che contraddicono questo principio. Così, la legge di Fourier descrive il processo di diffusione del calore e indica la sua• causa•: la differenza di temperatura dei punti tra i quali si produce la diffusione. Quando il processo di diffusione del calore si arresta, esso ha annullato la sua stessa causa: è progressivamente sparita ogni differenza di temperatura tra le diverse regioni del sistema. Il punto importante è che questa scomparsa è irreversibile. La differenza di temperatura che ha generato il processo, e che questo ha distrutto, si è perduta senza ritorno, senza aver prodotto un ejfmo che possa permettere di rirtabilirla. L'equivalenza tra causa ed effetto affermata dal principio di ragion sufficiente implica, al contrario, la reversibilità dei rapporti tra ciò che si perde e ciò che si crea. Un mobile che scende lungo un piano inclinato perde in altezza, ma acquista una velocità che (in assenza di attrito) è quella che gli sarebbe necessaria per risalire alla sua altezza iniziale. Fu questo ragionamento che guidò Galileo nella formulazione della legge della caduta dei corpi, e che Huygens generalizzò, identificando i due termini dell'uguaglianza tra •causa• ed a effetto•: ciò che un corpo guadagna al momento di una caduta di dislivello b non è misurato dalla sua velocità, ma dal quadrato della sua velocità (oggi scriviamo mgb = mv'/2, ove m è la massa del corpo, b il dislivello, g l'accelerazione di gravità e v la velocità). E Leibniz poté leggere in questa uguaglianza tra la causa e l'effetto il filo d'Arianna della nascente dinamica.
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La storia della scienza del moto, da Galileo fino a Lagrange e Hamilton, ha confermato la tesi di Leibniz. Il principio di ragion sufficiente ha realmente guidato la creazione di linguaggi dinamici sempre più potenti. Ed è con esso che si scontrò Boltzmann; fu quel principio che condannò il suo tentativo di spiegare in termini dinamici l'asimmetria temporale dei processi termodinamici. In effetti, una delle obiezioni decisive al tentativo di Boltzmann fu quella di.Loschmidt, relativa all'inversione delle velocità. Immaginiamo che le velocità che animano, in un dato istante, gli elementi di un sistema siano tutte istantaneamente invertite. In tal caso, come il mobile galileiano sul suo piano inclinato riguadagna la sua altezza iniziale, così l'evoluzione del sistema dinamico lo ricondurrebbe al suo stato iniziale. Le collisioni ricreerebbero allora ciò che le collisioni avevano distrutto, e restaurerebbero le differenze che erano state livellate. L'evoluzione generata dalle collisioni è dunque irreversibile solo in apparenza. Partendo da un diverso stato iniziale, le collisioni devono poter ricreare ciò che le collisioni messe in scena da Boltzmann distruggevano. Boltzmann aveva voluto concepire in termini dinamici l'irreversibilità termodinamica, ma il principio fondatore della dinamica portò il suo modello alla sconfitta e lo costrinse a concludere che, in ultima analisi, nessun privilegio può essere assegnato alle evoluzioni che fanno crescere l'entropia. A ogni evoluzione dinamica corrispondente ad una crescita dell'entropia, l'uguaglianza era causa piena ed effetto intero permette di far corrispondere l'evoluzione inversa, che la farebbe decrescere: è l'evoluzione che restaurerebbe le «cause• distruggendo a poco a poco gli • effetti». Tuttavia oggi gli argomenti che hanno condannato il tentativo di Boltzmann si rivelano meno convincenti. Che cos'è una causa piena, che cos'è un effetto intero per il fisico, e per ogni altra persona la cui conoscenza del mondo ha origine da osservazioni o misure che si esprimono con dei numeri? Questa domanda ha acquistato un grande significato con la scoperta dei sistemi dinamici instabili. Torneremo nei capitoli seguenti su questo recente sviluppo della dinamica. Limitiamoci qui a indicare che ormai è aperta la via per una ripresa del modello di Boltzmann. Come vedremo esiste, per sistemi sufficientemente instabili, un •orizzonte temporale• oltre il quale non può più essere loro attribuita alcuna traiettoria determinata. A ogni stato iniziale .determinato con una data precisione finita corrisponde un tempo
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dì evoluzione a partire dal quale non possiamo più parlare del sistema se non in termini di probabilità. L'instabilità dinamica implica dunque una limitazione della nozione di traiettoria che rende caduca l'obiezione di Loschmidt contro Boltzmann e permette - come vedremo - di definire la differenza intrinseca, che Boltzmann aveva invano cercato di formulare, tra le evoluzioni che portano un sistema all'equilibrio e quelle che lo allontanano da esso. Torniamo ora alla situazione che dovette affrontare Boltzmann, costretto a scegliere tra l'apertura della fisica alla temporalità e la sua fedeltà alla dinamica, di cui scopriva i condizionamenti. Egli fece la scelta della fedeltà. All'interpretazione dinamica del secondo principio sostituì un'interpretazione probabilistica. Avremo occasione dì tornare sulla nozione di probabilità. Qui sottolineiamo che le probabilità introdotte da Boltzmann rimandano alla nostra mancanza d'informazione. Egli considera in effetti dei sistemi complessi formati da miliardi di miliardi di molecole in movimento. L'evoluzione di un tale sistema evidentemente non può essere dedotta dalle equazioni della dinamica, ed è naturale ipotizzare che tutti gli stati dinamici possibili hanno a priori la stessa probabilità. Ammesso ciò, diventa possibile calcolare gli stati dinamici che corrispondono a ogni situazione macroscopica. Immaginiamo, per esempio, un recipiente diviso in due da un divisorio e riempito di molecole in movimento, come quelle di un gas. Qui l'osservazione corrisponde alla misura della pressione in ciascuna delle due sezioni, quindi al numero di molecole che ognuna di esse contiene. Supponiamo che nell'istante iniziale la sezione di sinistra sia vuota, mentre quella di destra contiene tutte le molecole. Apriamo un foro nel divisorio. Che cosa possiamo aspettarci? Tra tutte le situazioni osservabili, una è realizzata dalla grande maggioranza degli stati dinamici possibili a priori: l'equilibrio delle pressioni, la situazione in cui in ogni sezione vi è lo stesso numero di molecole. Possiamo quindi dedurne che, tra tutte le evoluzioni dinamiche possibili a priori, il maggior numero arriverà a questo stato finale. Quando questo stato, tanto più probabile quanto più numerosa è la popolazione, sarà raggiunto, le molecole continueranno ad attraversare il foro, ma, in media, tante molecole passeranno a sinistra quante a destra. La ripartizione delle molecole tra le due parti del recipiente resterà dunque uniforme, prescindendo dalle fluttuazioni. Una ■ ricreazione• spontanea della differenza di pressione
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tra i due comparti, che, allontanando il sistema dallo stato di equili. brio, corrisponderebbe ad una evoluzione a entropia decrescente, non sarebbe impossibile in queste condizioni, ma sarebbe di una improbabilità tanto maggiore quanto più numerosa è la popolazione di molecole. L'interpretazione probabilistica di Boltzmann rinvia dunque l'irreversibilità che osserviamo al carattere grossolano,• macroscopico• delle nostre osservazioni. Chi potesse seguire il moto di ogni molecola descriverebbe un sistema reversibile; è per il fatto che consideriamo solo il numero medio di molecole misurato dalla pressione in ogni comparto, che noi descriviamo un sistema in evoluzione irreversibile verso l'equilibrio delle pressioni. D'altra parte, secondo questa interpretazione, l'irreversibilità dei processi che osserviamo intorno a noi rinvia a uno stato di fatto: il mondo non è uniforme, non è nel suo stato •più probabile•. Noi viviamo in un mondo «improbabile•, e la «freccia del tempo•, la possibilità di stabilire una differenza tra il prima e il poi, non è altro che la conseguenza di questo fatto. Ciò che chiamiamo «natura-, l'insieme dei processi correlati che condividono con noi lo stesso futuro, dallo zucchero, di cui Bergson diceva che bisogna aspettare che si sciolga, fino alla pianta che cresce, o all'uccello che prende il volo, non è che la traduzione della progressiva scomparsa di questo scostamento dal1' equilibrio. Ma come spiegare Io scostamento dall'equilibrio a cui la natura e noi stessi dobbiamo l'esistenza? Noi - scrive Boltzmann - abbiamo la scelta di due ùpi di immagine. O assumiamo che l'intero universo è al momento attuale in uno stato assai improbabile. Oppure assumiamo che gli eoni durante i quali si svolge questo stato improbabile, e la distanza da qui a Sirio, sono minuscoli a confronto con l'età e la grandezza dell'universo intero. In un tale universo, che nel suo insieme si uova in un equilibrio termico, e perciò è morto, si possono trovare qua e là delle regioni relativamente piccole della grandezza della nostra galassia; regioni (che possiamo chiamare• mondi•) che deviano in modo significativo dall'equilibrio termico per tratti relativamente brevi di quegli •eoni• di tempc. Entro questi mondi, le probabilità del loro stato (cioè l'entropia) aumenteranno con la stessa frequenza con cui diminuiscono. Nell'universo nel suo insieme le due direzioni del tempo sono indistinguibili, esattamente allo stesso modo in cui nello spazio non c'è un sopra e un sotto.( ... ) A me pare che questo modo di vedere le cose è il solo che ci permetta di capire la validità della seconda legge, e la morce termica di ogni singolo mondo, senza invocare un mutamento unidirezionale dell'intero universo da un definito stato iniziale ad uno stato finale.'
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Questa è dunque la conclusione a cui giunse alla fine Boltzmann. Volendo interpretare l'irreversibilità del tempo in termini di leggi fondamentali, e fare entrare la fisica nell'insieme delle scienze che scoprivano la storia, egli finì per ridurre la freccia del tempo a un fatto contingente: il mondo che osserviamo non è che una fluttuazione locale in un universo che, globalmente, ignora la direzione del tempo; in altre regioni dell'universo, statisticamente tanto numerose quanto quelle che condividono la nostra freccia del tempo, l'entropia sarebbe decrescente. Possiamo provare a immaginare questi altri mondi? La nozione di probabilità sarebbe in essi inutilizzabile, almeno per prevedere il« futuro»: le differenze si approfondirebbero spontaneamente, i sistemi si allontanerebbero da soli dall'equilibrio, ciò che per noi è un miracolo statistico sarebbe la regola.• Come spiegare, d'altra parte, il fatto che nel nostro mondo non incontriamo mai altri tipi di fluttuazioni che diano alle regioni da esse occupate una freccia del tempo opposta alla nostra? Perché un'unica freccia del tempo definisce tutto l'universo osservabile? Oggi questi interrogaàvi fanno apparire la soluzione proposta da Boltzmann ancor più fantasmagorica che alla sua epoca. Alla fine del secolo xix, le osservazioni astronomiche erano limitate alla nostra galassia. Ora sappiamo che la «microregione» fluttuante, che Boltzmann postulava, dovrebbe comprendere miliardi di galassie, tutte quelle che oggi possiamo osservare e delle quali sappiamo che condividono la 'nostra freccia del tempo. Inoltre, la scoperta di Hubble, secondo la quale le galassie si allontanano le une dalle altre ad una velocità proporzionale alla loro distanza, e la scoperta di Penzias e Wilson della radiazione omogenea e isotropa di corpo nero che inonda il nostro universo, si sono unite per imporci la concezione di una storia globale dell'universo caratterizzata da un'origine che risalirebbe ad una quindicina di miliardi di anni. Come comprendere, allora, che l'universo nel suo insieme sia nato «lontano dall'equilibrio»? Torneremo su questi problemi nei capitoli seguenti. L'essenziale era qui rispondere alla domanda posta a proposito dell'Evolution créatrice, perché, all'inizio del secolo xx, sorge nel cuore del dialogo tra scienza e filosofia il problema del tempo scientifico? La critica di Bergson si rivolge a una fisica che non è più la scienza che Boltzmann cercava di aprire al problema dell'evoluzione. Gli eredi di Boltzmann hanno infatti trasformato in trionfo ciò che lo stesso Boltzmann aveva vissuto come una drammatica sconfitta. La negazione dell'irreversibilità del tempo,
che per Boltzmann fu una soluzione disperata, è divenuta, per la maggior parte dei fisici della generazione di Einstein, il simbolo stesso della vocazione della fisica: raggiungere, al di là del reale osservabile, una realtà intelligibile atemporale. Indubbiamente Einstein incarna al meglio l'ideale definito da questa nuova vocazione della fisica, l'ideale di una conoscenza che possa sfrondare la nostra concezione del mondo dai segni della soggettività umana. L'ambizione di talune pratiche mistiche è sempre stata quella di sfuggire alle catene della vita, ai tormenti e alle delusioni di un mondo mutevole e ingannevole. In un certo senso Einstein ha fatto di quell'ambizione la vocazione stessa del f1Sico, e, così facendo, l'ha cradona in termini scientifici. I mistici cercavano di vivere questo mondo come un'illusione; Einstein, invece, intende dimostrare che è solo un'illusione, e che la vetità è un universo trasparente e comprensibile, purificato da tutto ciò che turba la vita degli uomini, la memoria nostalgica o dolorosa del passato, il timore o la speranza del futuro.• Come all'epoca di Bolczmann, oggi ci troviamo a un bivio. La nostra alternativa non è sicuaca dove l'aveva posta Bergson: essa non ci impone la scelta era un procedimento che muova dalla nostra •esperienza intima• e uno che si applichi ai fenomeni calcolabili e riproducibili. Ma forse essa è ancora più radicale. In efferci, una scienza che tenta di ricostruire la verità oggettiva dei fenomeni, partendo da un reale intelligibile ma atemporale, non porrà cerco comprendere l'«esperienza intima del tempo• di Bergson. Ma una tale scienza è anche incapace di dare un senso all'insieme delle conoscenze, delle pratiche di calcolo e di manipolazione a cui Bergson opponeva quell'esperienza intima. Il mondo, spogliato dell'irreversibilità temporale, della distinzione tra prima e poi, è un mondo in cui anche la scienza condannata da Bergson perde ogni significato. Giudicare il mondo in nome di un ideale che si prefigge di renderlo illusorio, oppure tentare di costruire, a partire dalla nostra esperienza di questo mondo, una conoscenza appropriata che dia senso alla distinzione e ai problemi che esso ci propone: questa è l'alternativa rispecco alla quale questo resto prende posizione. Ma, prima di impegnarci nel1' esplorazione dei nuovi punti di vista che permettono di far avventurare la fisica sulla via che Bolczmann aveva concepito, soffermiamoci, per lo spazio di un capitolo, sullo strano destino della fisica che, fin dalle origini, ha affascinato i suoi stessi creatori, ispirando loro l'illusione di poter accedere al tipo di conoscenza che, se esiste, Dio avrebbe del mondo.
CAPITOLO 2
Uomini e dei
Uno degli aspetti più sorprendenti della vicenda di Boltzmann è forse il fatto che la conclusione alla quale egli dovette giungere - l'irreversibilità non rimanda alle leggi fondamentali della natura, ma al nostro modo grossolano, macroscopico, di descriverla - non suscitò alcuna crisi all'interno della fisica. Colpisce il contrasto con l'accoglienza che venne riservata, qualche anno più tardi, alla teoria della relatività di Einsrein. Mentre quesr' ultima costituì un evento culturale eccezionale, che suscitò passioni, interrogativi, smarrimento, la teoria di Boltzmann all'inizio trovò qualche eco solo tra i fisici; e la maggior parte di essi la considerò un lavoro notevole, ma senza alcuna portata rivoluzionaria. La teoria della relatività negava una nozione che, tutto sommato, gioca un ruolo secondario nella vita degli uomini, quella di un'assoluta simultaneità tra due eventi distanti. È anche notevole il fatto che, all'epoca di Einsrein, quella nozione iniziava appena a introdursi nelle pratiche umane. Fino ad allora, solo lo spettacolo del cielo, delle posizioni relative del Sole, della Luna, dei pianeti, forniva ai suoi osservatori, asrronomi e marinai, lo Strumento per sincronizzare i tempi in luoghi diversi. Solo con l'invenzione del telegrafo e, alla fine del secolo XIX, con I' abbandono delle ore locali per l'ora comune del meridiano di Greenwich, gli uomini inauguravano l'esperienza di un mondo che vive il tempo all'unisono. Invece l'idea di una distinzione tra il prima e il poi fa a tal punto parte delle nosrre esperienze che non le potremmo neanche descrivere, senza presupporre quella differenza. È senza dubbio questo il motivo per cui, come abbiamo sottolineato, è stato necessario, perché i fisici leggessero nelle loro equazioni la negazione di cui era portatrice la dinamica, che vi fossero costretti dal problema dei processi irreversibili.
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Come spiegare, allora, il facto che l'insuccesso di Boltzmann e la negazione della freccia del tempo che ne risultava non abbiano segnato la nostra memoria quanto la relatività o la meccanica quantistica? Come spiegare che quello scacco non sia stato riconosciuto come la prima delle grandi crisi che segnarono la nascita della fisica contemporanea? Questo problema richiederebbe uno studio storico approfondito. Limitiamoci a ricordare che la scoperta dell'impossibilità di dare un senso alla freccia del tempo nel quadro della dinamica è parsa come l'espressione di ciò che quella teoria di fatto implicava da sempre, e non come una « rivoluzione». È in tal senso che Bergson la utilizza: egli non ha neanche bisogno di citare Boltzmann, perché questi non aveva fatto altro che rendere esplicita quella che era la verità essenziale della fisica. Ma occorre allargare il campo di questa problematica. Abbiamo detto che Boltzmann aveva fatto la scelta della fedeltà alla tradizione dinamica e ad essa aveva sacrificato l'intuizione del carattere evolutivo del mondo. Né per lui né per i suoi eredi, che ratificarono la sua scelta, la dinamica era dunque un linguaggio scientifico tra gli altri, che permetteva di predire e di calcolare con successo il moto dei pianeti o dei proiettili. La dinamica godeva di un prestigio sufficiente a vincere l'evidenza del tempo: non solo l'evidenza nata dalla nostra esperienza soggettiva, ma anche quella imposta dall'insieme dei processi che costituiscono la natura. La storia della fisica non si riduce alla storia dello ~viluppo di formalismi e sperimentazioni, ma è inseparabile da quelli che vengono chiamati abitualmente giudizi a ideologici». La sceha di Boltzmann infatti ci rimanda alla stessa storia della fisica nell'ambito della nostra cultura, e, in particolare, all'eccezionale significato intellettuale e speculativo che le è stato conferito fin dalle sue origini. A questo proposito la lettura del Nome della rosa di Umberto Eco ci insegna forse di più, sull'originalità della scienza nata m Europa meno di quattro secoli fa, di canti trattati di epistemologia. Essa ci immerge veramente nel cuore della •turbolenza culturale» della fine del Medioevo. Come vedremo, oggi i fisici descrivono un regime: turbolento attraverso correlazioni di lunga portata che rendono ogni punto dell'ambiente turbolento sensibile a ciò che si produce in altri punti. Un po' allo stesso modo, Eco ci mostra le implicazioni di lunga portata dei problemi che agitavano il pensiero medievale. Che cosa possiamo conoscere del mondo? Che cosa ci comunica un nome? Può una conoscenza generale darci
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CAPITOLO SECONDO
la verità di un individuo? Può la ricerca di indizi essere sufficiente a guidarci nel labirinto dei fenomeni? Eco ci ricorda che tali domande producono risonanze nei campi più disparati, dalla politica all'etica, all'estetica, alla religione, e viceversa. Nessuno si stupisce che il passato della geologia, della biologia o del1' astronomia siano stati caratterizzati dai loro rapporti con ciò che la religione definiva sapere rivelato. Il posto della Terra nel mondo, la sua età, l'apparizione delle specie viventi, l'identità stessa dell'uomo hanno rinviato all'attività del Dio creatore, prima di divenire oggetti della ricerca scientifica. Ma è molto più curioso constatare come una questione apparentemente tecnica, come quella di sapere se la collisione tra due corpi debba essere spiegata a partire dalla loro elasticità o, al contrario, a partire dalla loro durezza, abbia potuto esser messa in relazione con la questione del ruolo di Dio o della libertà umana. Tuttavia è proprio questo che ci mostra la celebre corrispondenza tra Leibniz e Clarke, portavoce di Newton. Questo scambio di lettere, 1 che iniziò nel l 715 e si concluse alla morte di Leibniz, associa indissolubilmente registri che ogni epistemologo.serio cercherebbe di tenere distinti. Teoria politica: qual è il miglior principe, quello i cui sudditi sono tanto disciplinati da non esservi bisogno del suo intervento, oppure quello che invece interviene di continuo? Teologia: come spiegare il mira· colo? Come distinguere gli interventi attuali di Dio nel mondo dall'insieme degli eventi che derivano dall'atto iniziale cli creazione? Etica: l'atto libero è un atto immotivato o capace di determinarsi contro i motivi più forti, oppure segue sempre l'inclinazione più forte, anche se non siamo consapevoli di tutte le ragioni che ci fanno propendere per questa o quella scelta? Cosmologia: in che senso lo spazio è infinito? Il mondo è stato creato in un istante preciso, oppure il tempo è relativo ali' esistenza del mondo? Fisica: le «forze attive» (ciò che noi oggi chiamiamo energia, cinetica e potenziale) diminuiscono da sole, oppure si conser· vano? Allorché due corpi molli si urtano e si arrestano, la loro • forza» è annientata, oppure si tratta solo di un'apparenza, la forza essendosi di fatto dispersa nelle parti minute dei corpi? Leibniz e Clarke stabiliscono delle relazioni tra tutti questi problemi. Essi in effetti, come è stato sottolineato dai due protagonisti, ruotano tutti intorno a una stessa posta in gioco: la portata e la validità del principio di ragion sufficiente, che Leibniz vuole senza limiti e Clarke intende ridurre alla sola trasmissione puramente meccanica del moto (con esclu-
sione delle stesse accelerazioni relative alle forze newtoniane di interazione). Si resta sorpresi nel constatare, leggendo questi testi, fino a che punto Newton, che controllava da vicino la presentazione del suo pensiero da parte di Clarke, fosse poco •newtoniano•. È Leibniz a difendere quella che chiameremmo la •visione newtoniana• del mondo. E sono Newton e Clarke ad affermare che ogni azione produce un nuovo moto, che prima non esisteva e che non può essere compreso a partire dalla conservazione della causa nell'effetto.' Leibniz parla di un mondo in «moto perpetuo», di un mondo in cui cause ed effetti si generano continuamente, senza che si possa mai dire che l'universo abbia ricevuto una nuova forza, cioè che un corpo abbia guadagnato forza senza che un altro ne abbia perduto altrettanta. Newton e Clarke parlano della natura come di un «lavoratore perpetuo», la considerano penetrata da una potenza che la trascende, evocano forze d'interazione che non sono sottoposte a una legge di conservazione ma che esprimono l'azione perpetua di Dio, autore attuale di un mondo di cui non cessa di alimentare l'attività. L'idea che l'universo come totalità sfugga alle affezioni del divenire non è in sé un'idea nuova. La si ritrova in particolare in Giordano Bruno, ove è sinonimo di infinita perfezione: È dunque l'universo uno, infinito, immobile (. ..) Questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si traspone, atteso che sia il tutto. Non si genera; perché non è altro essere, che lui possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa. Non può sminuire o crescere, atteso che è infinito( ...) Non è alterabile in altra disposizione, perché non ha esterno, da cui patisca e per cui venga in qualche affezione.'
L'universo descritto da Giordano Bruno è concepito in modo puramente negativo: nulla di ciò che è in grado di modificare un essere finito può modificarlo. Al contrario, Leibniz e Clarke incentrano le loro argomentazioni riguardo all'universo sul problema di stabilire se un osservatore più dotato di noi possa ritrovare, nelle parti minute dei corpi, il moto che sembra essersi perso al momento di una collisione. Ecco la singolarità della fisica come noi la conosciamo ancora oggi: le discussioni di tipo «metafisico• non si sovrappongono arbitrariamente a questioni propriamente scientifiche, ma dipendono da queste in modo cruciale. La possibilità di una misura, o di un esperimento (fosse anche
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mentale) è in grado di simbolizzare e di mettere alla prova le più grandi e ambiziose scommesse del pensiero. Se le collisioni sono occasione di •perdite• di forza, si produce qualcosa di nuovo nella natura, sostenevano Newton e Clarke contro Leibniz. Se, con un esperimento mentale, si invertono simultaneamente le velocità delle molecole di un gas, esso ritornerà verso il suo passato, e quindi la freccia del tempo non è che un'illusione, dovette riconoscere Boltzmann. E nel caso in cui Einstein avesse potuto opporre a Bohr un esperimento mentale nel quale posizione e velocità potessero essere misurate simultaneamente, sarebbero state al tempo stesso sconvolte la struttura delle equazioni quantistiche e le implicazioni fùosofiche che Bohr attribuiva ad esse. Maxjammer ha paragonato le discussioni tra Bohr e Einstein al carteggio tra Leibniz e Clarke: In entrambi i casi fu lo scontro di due concezioni fùosofiche diametralmente opposte riguardo ai problemi fondamentali della fisica; in entrambi i casi fu uno scontro tra due dei più grandi spiriti della loro epoca; e come il famoso carteggio tra Leibniz e Clarke (1715-16) - • forse il più bel monumento che abbiamo di dispute letterarie• (Voltaire) - non fu che una-breve manifestazione della profonda divergenza di opinioni tra Newton e Leibniz, così le discussioni tra Bohr e Einstein nella sala dell'hotel Métropole di Bruxelles furono soltanto il punto culminante di un dibattito che continuava da vari anni, anche se questo non si attuò sotto forma di dialogo diretto. Infatti, esso proseguì anche dopo la morte di Einstein (il 18 aprile 19 55), giacché Bohr ammise a più riprese di continuare a discutere spiritualmente con Einstein e che ogni volta che rifletteva su una questione fisica fondamentale, si domandava che cosa Einstein ne avrebbe pensato. E l'ultimo disegno di Bohr alla lavagna del suo ufficio al castello di Carlsberg, tracciato la sera prima della sua morte (il 18 novembre 1962), fu lo schema della scatola a fotoni di Einstein, associata a uno dei maggiori problemi sollevati all'epoca della sua discussione con Einstein.• Ci si chiede spesso quali influenze culturali, che potrebbero spiegare le loro divergenze, abbiano segnato il pensiero di Einstein o quello di Bohr. Ma, al di là di queste divergenze, la passione delle loro discussioni, il significato emozionale e intellettuale che entrambi attribuivano alla questione di sapere che tipo di accesso la fisica apra alla realtà, fanno di essi dei discendenti di quel Guglielmo da Baskerville raffigurato da Umberto Eco. Si può forse parlare di una razionalità scientifica • universale•, ma l'eredità specificamente occidentale risulta in qualche modo dal fatto che in queste discussioni le scienze non sono sviluppate come un gioco imellettuale o come una fonte di· pratiche utili, ma come una
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ricerca appassionata della verità. Quali che siano le precauzioni epistemologiche di cui si potrebbe circondare questo termine, quali che siano gli altri fattori che conducono a relativizzarne la portata (ricerca del potere, del prestigio, della potenza economica ecc.), rimane questo fatto storico: la scienza nata in Occidente non sarebbe stata quella che è se non le fosse stata associata la convinzione che essa apre la via a una comprensione del mondo. Al di là della loro opposizione, Bohr e Einstein appartenevano alla stessa cultura, quella da cui deriva anche La Nuova Alleanza e quella che riunisce, malgrado le loro divergenze, uno Jacques Monod, un René Thom, un Bernard d'Espagnat. Accettare quella tradizione, il carico di significati che essa attribuisce alla scienza, le relazioni al tempo stesso strette e difficili che questa si trova perciò a intrattenere con la filosofia, non significa affermare che quella tradizione sia superiore ad altre, ma riconoscerla come un'eredità che ci individua. Che vuol dire, dunque, comprendere il mondo? Nelle sue Memorie Heisenberg ricorda una visita al castello di Kronborg in compagnia di Bohr, e una riflessione di quest'ultimo: È strano, vero, come cambia l'atmosfera quando si pensa che questo è il castello di Amleto? Noi siamo scienziati, e in quanto tali siamo convinti che i castelli siano fatti essenzialmente di pietre; tuttalpiù ammiriamo il modo in cui l'architetto ha impiegato e organizzato le pietre. Queste pietre, quel tetto con la sua patina di verderame, il legno intagliato che abbiamo visto nella cappella: questo è il casteUo. Né pietre né tetto né legno mutano per il fatto che Amleto sia o meno esistito qui; eppure questa consapevolezza cambia completamente il castello, ed ecco che le muraglie e gli spalti ci dicono qualcosa di radicalmente diverso ( ... ) E invece, cosa sappiamo di Amleto? Quasi nulla, solo che il suo nome appare in una cronaca del Duecento (... ) Però tutti noi conosciamo di prima mano il grande problema che Shakespeare gli ha messo sulle labbra, e le profondità dell'esistenza che questo personaggio porta alla superficie. Anche Amleto, del resto, ha diritto a un suo luogo su questa terra: e questo luogo è il castello di Kronborg.'
Come non riconoscere in questa meditazione di Niels Bohr quello che fu il Leitmotiv della sua vita scientifica: l'inseparabilità del problema della realtà da quello dell'esistenza umana? Che cos'è il castello di Kronborg indipendentemente dalle domande che gli rivolgiamo? Le stesse pietre possono parlarci delle molecole che le costituiscono, degli strati geologici da cui provengono, forse delle specie scomparse che esse contengono allo stato di fossili, delle influenze culturali subite dall'architetto che costruì il castello, o delle domande che inseguirono Amleto
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fino alla morte. Nessuno di questi saperi è arbitrario, ma nessuno ci permette di evitare il riferimento a colui per il quale queste domande acq_uistano senso. E forse nel dialogo tra Einstein e il poeta e filosofo indiano Tagore che troviamo l'espressione più pura della disputa tra le due concezioni della verità e dell'oggettività che le discussioni tra Einstein e Bohr sottintendono. Nel corso di quel dialogo, Einstein finì per concludere che lui era più religioso del suo interlocutore. Di fronte a Tagore Einstein difendeva la concezione di una realtà indipendente dallo spirito umano, dall'esistenza stessa degli uomini, senza la quale la scienza non avrebbe senso. Non sarebbe mai possibile - riconosceva - provare che una verità scientifica abbia un'oggettività •sovrumana•, e si trattava dunque di una fede religiosa, di una fede indispensabile alla sua vita. Tagore, invece, definiva come relativa la realtà oggetto della verità, sia essa di ordine scientifico, etico o fùosofico: la carta ha una realtà infinitamente diversa dalla realtà della leneratura. Per il tipo di spirito che possiede la tarma, che divora la carta, la le11eratura è assolutamente inesistente, ma per lo spirito umano la letteratura ha un valore di verità maggiore della carta stessa. Ugualmente, se esiste una verità priva di qualsiasi relazione sensibile o razionale con lo spirito umano, essa rimarrà un nulla per lo stesso tempo in cui noi rimarremo umani.6 Per lui la verità era quindi un processo continuo, e per definizione aperto, di riconciliazione tra lo •spirito umano universale• - ossia l'insieme delle domande, degli interessi, dei significati a cui gli uomini sono o possono divenire sensibili - e lo spirito che è relegato in ogni individuo. L'ideale di conoscenza che Einstein descrisse a Tagore assilla la fisica fin dalla sua origine. Se noi potessimo definire la causa •piena» e l'effetto • intero•, diceva già Leibniz, la nostra conoscenza raggiungerebbe in perfezione la conoscenza che Dio ha del mondo. E ancora oggi René Thom definisce insuperabile il riferimento al Dio del determinismo, al Dio di un mondo •in cui non vi è posto per il non formalizzabile».' Quella scelta metafisica fatta dalla fisica si è tradotta in molteplici riferimenti a un Dio - che non gioca a dadi, secondo Einstein; che conosce simultaneamente la posizione e la velocità di una particella, secondo Planck - oppure ai demoni: quello di Laplace, capace di calcolare il passato e il futuro dell'universo a partire dall'osservazione di uno qualunque dei suoi stati istantanei; quello di Maxwell, in grado di invertire
l'evoluzione irreversibile associata alla crescita dell'entropia, manipolando ogni molecola individuale. Ma si può oggi assimilare ancora questa scelta metafisica all'ideale della conoscenza scientifica? Perché affermare come necessaria quella pericolosa prossimità tra ragione e irrazionalità che conduce la fisica a identificare l'ideale della conoscenza nel fantasma di un sapere separato dalle sue radici? Noi, dunque, ci orientiamo nella_ direzione definita da Tagore. L'oggettività scientifica non ha senso se essa finisce per rendere illusori i rapporti che intracceniamo col mondo, per condannare come •soltanto soggettivi•, •soltanto empirici• o •soltanto strumentali• i saperi che ci permettono di rendere intelligibili i fenomeni che indaghiamo. Einstein diceva che il fatto che il mondo si riveli comprensibile è un miracolo incomprensibile. Ma che la comprensione del mondo arrivi a negare ciò che la rende possibile, e a ricondurre le sue stesse condizioni a un'approssimazione di carattere pratico, questo non è più un miracolo, ma un'assurdità! La tradizione che conferisce alla fisica il suo significato intellettuale e affettivo è caraccerizzata da una domanda appassionata, non da una risposta. È per questo che essa dà senso a una scoria aperta, e non ci rinchiude in una verità che non lascerebbe altra scelta che la fedeltà o la diserzione. In particolare, l'ideale di una comprensione del mondo che elimini totalmente colui che lo descrive, e che mantenga nel cuore della fisica il riferimento a Dio, l'unico capace di dare senso alla conoscenza del areale in sé•, non ha come alternativa una concezione puramente pragmatica del sapere. Il fatto che la nostra conoscenza non passa essere pensata senza rifarsi alla relazione che intratteniamo col mondo, non è in sé sinonimo di limite, di rinuncia. Come cercheremo di dimostrare, ciò può essere anzi la fonte di nuove esigenze di coerenza e di pertinenza, l'apertura a nuovi interrogativi, che diano un senso positivo alla molteplicità delle relazioni che ci situano in questo mondo. In particolare, alla scelta metafisica di affermare il determinismo non si oppone la rassegnazione all'indeterminismo, ma la decisione di affrontare il problema del tempo, di creare, con i mezzi rinnovati che ci fornisce la scienza contemparanea, gli interrogativi e i metodi conoscitivi che gli danno senso. E, come si vedrà, è proprio integrando nella stessa nozione di legge scientifica una limitazione che ci situa, che distingue il tipo di conoscenza che possiamo avere dei fenomeni da quella, del tutto mitica, che rinvierebbe all'immagine di un essere infinitamente
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onniscente, che la fisica può oggi dare un senso a quel tempò senza il quale la sua esistenza sarebbe inconcepibile. Da questo punto di vista è notevole che Leibniz, lo stesso che riconobbe nella fisica ael suo tempo il ruolo eccezionale del principio di ragion sufficiente, e che fece del determinismo l'ideale di una scienza in cui il sapere umano avrebbe coinciso con il sapere divino, sia stato anche colui che mostrò perché e come quell'ideale poteva divenire inac• cessibile, illusorio e sterile. Prendiamo l'asino di Buridano di fronte a due prati ugualmente invitanti. Prendiamo Adamo che esita a mangiare la mela proibita. Possiamo prevedere quale prato sceglierà l'asino? Potevamo, conoscendo Adamo prima del suo peccato, prevedere che avrebbe ceduto alla tentazione e disobbedito agli ordini divini? E poteva prevederlo Adamo, anche avendo di sé stesso la massima conoscenza possibile? No, risponde Leibniz.' La scelta spontanea dell'asino, l'atto libero di Adamo non possono essere ridotti a illusioni. Certo, Dio sa, ma questo sapere non ci è negato per motivi contingenti, che potrebbero essere superati con un futuro progresso della conoscenza. Noi non possiamo prevedere né la scelta dell'asino, né quella di Adamo, perché, per farlo, dovremmo disporre di una conoscenza positivamente infinita. Per quanto grande sia la somma delle informazioni che potremmo accumulare riguardo ad Adamo prima della sua scelta, dal momento che queste informazioni rimangono finite, cioè dal momento che esse possono esprimersi con dei numeri o delle parole, noi arriveremo alla definizione di un Adamo •vago•, compatibile con un'infinità di Adamo individuali suscettibili di destini divergenti, di peccare o di resistere alla tentazione. La libertà leibniziana all'interno di un mondo retto di diritto dalla ragion sufficiente non è un'illusione, ma una verità pratica che traduce in maniera rigorosa e insuperabile la distanza, che solo Dio è capace di sormontare, tra l'essere che include l'infinito e la nostra conoscenza, per sua narura finita. Se pensiamo di agire spontaneamente, senza motivo o a dispetto di ogni motivo razionale, in realtà quello che chiamiamo motivo è relativo alla nostra conoscenza, a ciò che noi possiamo concepire in maniera distinta. E nessun progresso di questa conoscenza potrà privare del suo senso l'esperienza pratica della nostra libertà, poiché, anche se il campo della nostra conoscenza distinta tende all'infinito, non arriverà mai al termine della serie, all'infinito che il nostro essere individuale e la più insignificante delle nostre azioni presuppongono. L'affermazione leibniziana dell'irriducibilità pratica della libertà umana
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rientra nel campo filosofico. La fisica contemporanea non può evidentemente seguire Leibniz sul piano etico, ove egli si pone quando afferma che in un mondo retto dalla ragion sufficiente noi possiamo vivere liberi e rivolgerci al prossimo come a un essere libero, poiché sappiamo che né lui né noi possiamo prevedere il modo in cui saremo indotti ad agire. Viceversa, la via trovata da Leibniz per creare un'articolazione intelligibile tra l'esperienza della libertà degli uomini (o della spontaneità degli animali) e il mondo della ragion sufficiente può oggi essere ripercorsa a proposito di oggetti ben più umili, che appartengono al terreno proprio della fisica, e condurre al problema fisico dell'irreversibilità. Se sappiamo che nessuna conoscenza, per quanto dettagliata, ci permetterà di prevedere la faccia su cui cadrà un dado, è preferibile mantenere l'affermazione secondo la quale questo dado segue nonostante tutto una legge deterministica, o tentare di formulare la sua descrizione in un modo che rispetti e renda comprensibile il tipo di comportamento al quale esso deve la sua esistenza in quanto strumento del gioco d'azzardo? li tiro del dado rompe, come vedremo, la simmetria del tempo, e definisce il futuro comune a lui e a noi che aspettiamo il suo risultato. li tentativo di Leibniz, che esplorava i limiti a cui è sottoposta ogni conoscenza umana finita, qualunque essa sia, fu guidato da un'esigenza di coerenza, dalla ricerca di un'articolazione tra saperi apparentemente contraddittori. È ugualmente un'esigenza di coerenza a caratterizzare il rinnovamento degli interrogativi della fisica contemporanea. Tale esigenza è radicata nella profonda trasformazione che la fisica ha conosciuto nel corso di questo secolo, e che nello stesso tempo ha condotto alla sua scissione in molteplici linguaggi e alla scoperta di prospettive inattese che contengono, ci sembra, un nuovo ideale di conoscenza. La storia di questa trasformazione è scandita da tre periodi. li primo di tali periodi ha visto l'elaborazione dei grandi schemi concettuali che sono ancora prevalenti: relatività, ristretta e generale, e meccanica quantistica. Questi schemi sono stati riconosciuti dai fisici come il coronamento dell'ambizione con cui identificavano la fisica: scoprire, al di là dei fenomeni, la trasparenza di un mondo razionale. Tuttavia, oltre a questa continuità è opportuno segnalare l'appari-_ zione di un elemento essenzialmente nuovo: il significato assunto dalle costanti universali, e, la velocità della luce, e b, la costante di Planck. L'universo di Einstein non rinvia a un punto di vista unico. Esso è p0polato da osservatori solidali situati in sistemi di riferimento in moto gli uni rispetto agli altri; in esso l'oggettività non può nascere che da un
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lavoro comune di scambio di informazioni. Ma questo scambio è sottoposto a una limitazione: nessun essere fisico può trasmettere un'informazione a una velocità superiore a quella della luce. Quanto alla costante di Planck, b, che collega gli aspetti corpuscolari e ondulatori dell'ente quantistico, essa ci costringe a rinunciare alla metà dei predicati che permettevano di definire la particella classica. Nessuno, nell'universo quantistico, può attribuire in modo simultaneo valori determinati a variabili come la posizione e la velocità, che erano ambedue necessarie per definire in modo oggettivo una particella classica. In questo senso, si può dire che la formulazione da parte della termodinamica del secondo principio ha giocato un ruolo di precursore rispetto ai grandi schemi concettuali della fisica del secolo xx. Anche il secondo principio configura una limitazione intorno alla quale si organizza la termodinamica: i processi irreversibili sfuggono al controllo in quanto è impossibile invertirne il corso, ricreare le differenze che essi hanno livellato. Tuttavia questa analogia è rimasta nascosta. Mentre la relatività e la meccanica quantistica si identificavano con i grandi trionfi della fisica del secolo xx, il secondo principio è rimasto sinonimo d'impotenza: sarebbero i nostri limiti a renderci incapaci di lottare contro il livellamento progressivo delle differenze, contro il processo di degradazione che condanna ogni cosa e conduce il nostro universo alla morte. Una serie di scoperte assolutamente inattese, che hanno aperto insospettate prospettive, segna l'origine del secondo periodo. Una è certamente quella dell'instabilità delle particelle elementari e della loro complessità. Lungi dal- ritrovare, al di là dei fenomeni alla nostra scala, un mondo che sfugge al tempo, alla meraviglia dei fisici si è imposto un mondo attivo, all'interno del quale in ogni istante si creano e scompaiono delle particelle. Un'altra scoperta inaspettata è quella del carattere storico dell'universo. La terza è la scoperta delle strutture di nonequilibrio, che rovesciano il dogma che assimila la crescita dell' entropìa al disordine molecolare. Si può dire, a posteriori, che questo secondo periodo ha visto la scoperta di un mondo di processi, di creazione, di distruzione, di evoluzione, ben lontano dal mondo retto dalle leggi atemporali che costituiva l'ideale della fisica classica. Riunire in una nuova coerenza le prospettive create dalla fisica del secolo xx: ecco cosa caratterizza quello che chiameremo il • terzo periodo della fisica del Novecento, quello di cui ci troviamo alle soglie e al quale è dedicato questo saggio.
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Fin dal tempo in cui Leibniz e Newton discutevano se il movimento inizia o no «da sé stesso•, non ha cessato di porsi una domanda: si può render conto della novità senza ridurla a una semplice apparenza, si può spiegare il cambiamento senza negarlo, senza ricondurlo alla concatenazione dello stesso allo stesso? Questo interrogativo è oggi più attuale che mai. Nel secolo xtx, la vita, le diverse specie, l'esistenza degli uomini e delle loro società sono state concepite come prodotti dell'evoluzione. Oggi, alla fine del secolo xx, nulla sembra ormai poter sfuggire a questo modello conoscitivo, né la materia, né lo stesso spazio-tempo. Non solo le stelle nascono, vivono e muoiono, ma Io stesso universo ha una storia, alla quale rinviano le particelle elementari che non cessano di crearsi, sparire e trasformarsi. Questa scoperta dell'evoluzione ovunque si immaginavano condizioni atemporali, rende ancor più paradossale la nozione classica di conoscenza che domina ancor oggi la nostra concezione delle «leggi della natura». Come comprendere un evento come quello dell'apparizione della vita, prodorto della storia e portatore di nuove possibilità di storia, se le leggi della fisica non permettono di dare un senso all'idea di storia? Jacques Monod' ha avuto il grande merito di affrontare alla radice questo problema. Per lui l'apparizione dei viventi è un fatto che non contraddice le leggi della fisica, ma che queste, tuttavia, non possono rendere comprensibile. •Il nostro numero è uscito alla roulette di Monte Carlo•, e di questo evento unico le leggi della fisica possono solo esprimere la probabilità infinitesima, quasi nulla. Ma il problema va ancora più lontano: la stessa esistenza di un universo attivo, differenziato, sembra una sfida al secondo principio, identificato con l'evoluzione verso uno stato di uniforme e inerte equilibrio.
CAPITOI.O TE/IZO
«Si potrà vincere un giorno il secondo principio?•: questa è la domanda che degli uomini pongono, generazione dopo generazione, civiltà dopo civiltà, al gigantesco calcolatore elettronico immaginato da Isaac Asirnov in Tbt Last Qyestio11.' E il calcolatore risponde impenurbabile: i dati sono insufficienti. Passano miliardi di anni, le stelle e le galassie muoiono, ma il calcolatore, ormai direttamente attaccato allo spaziotempo, continua a riunire i daù mancanti. Ben presto non può più esserne raccolto alcuno, «non esiste più• nulla, se non l'ineffabile caos, ma il calcolatore continua a calcolare, a costruire correlazioni. E, finalmente, ha in sé la risposta. Non c'è più nessuno che possa venirne a conoscenza, ma il calcolatore sa ormai come vincere il secondo principio. E la luce fu ... Come la comparsa della vita per Jacques Monod, così anche la nascita dell'universo è quindi assimilata a un evento antientropico, • antinaturale•, a una vittoria del sapere sulle leggi della natura. Il racconto di Asimov, la lotteria cosmica invocata da Jacques Monod appartengono tuttavia al passato. Non è più necessario, oggi, pensare che gli eventi ai quali dobbiamo la nostra esistenza si collochino al di fuori delle ,leggi• della natura. Perché queste leggi non si oppongono più all'idea di un'autentica evoluzione, ma, al contrario, come ora vedremo, mostrano di soddisfare le esigenze minimali necessarie per pensare una tale evoluzione. La prima di queste esigenze, quasi una tautologia, è senz'altro l'irreversibilità, la rottura di simmetria tra il prima e il poi. Ma ciò non è sufficiente. Un pendolo il cui movimento si attenua progressivamente, la Luna il cui periodo di rotazione su sé stessa è ridotto fino a coincidere col suo periodo di rotazione intorno alla Terra, o una reazione chimica che si arresta al suo stato di equilibrio, possono difficilmente pretendere di illustrare ciò che noi intendiamo per evoluzione. Una seconda esigenza consiste dunque nel poter dare un senso alla nozione di evento. Un evento non può essere, per definizione, dedotto da una legge deterministica: esso implica, in un modo o nell'altro, che ciò che si è prodotto «avrebbe potuto• non prodursi, esso rinvia dunque a dei possibili che nessun sapere può ridurre. Il modo di intelligibilità dei possibili in quanto tali e degli eventi che decidono tra questi possibili è, per definizione, la descrizione probabilistica. Tuttavia, le leggi probabilistiche, in sé stesse, non sono ancora sufficienti. Ogni storia, ogni narrazione implica degli eventi, implica che si sia prodotto ciò che avrebbe potuto non accadere, ma essa è interessante solo se questi eventi
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sono portatori di senso. Una successione di tiri di dadi non si racconta, a meno che certi tiri non abbiano conseguenze significative: il dado è lo strumento di un gioco d'azzardo solo se il gioco ba una posta. Tutti conoscono la filastrocca sul chiodo che venne a mancare alla spada, la cui perdita immobilizzò il cavaliere, la cui assenza determinò la sconfitta al momento di una battaglia che provocò la caduta di un impero ... Questo è un esempio caricaturale del tipo di domanda che affascina ogni amante della storia e che costituisce il rema privilegiato dei « viaggi nel tempo» immaginari dalla fantascienza: cosa sarebbe accaduto se ... ? A questa domanda corrisponde sempre un problema di cambiamento di scala. Una modifica apparentemente insignificante avrebbe potuto cambiare il corso della nostra storia? La terza esigenza minimale è, dunque, che taluni eventi siano in grado di trasformare il senso del1' evoluzione che essi scandiscono, ossia, che questa evoluzione sia caratterizzata da meccanismi o relazioni suscettibili di dare un senso ali' evento, di produrre, a partire da esso, nuove coermu. La teoria darwiniana mette in luce le tre esigenze minimali che abbiamo appena posto: di irreversibilità, di evento, di coerenza. L'irreversibilità è evidente, poiché essa esiste a tutti i livelli, dalla nascita e dalla morte degli individui fino all'apparizione di nuove specie alle quali corrispondono nuove nicchie ecologiche che creano nuove possibilità di evoluzione. E l'evento? L'evento notevole, quello che la teoria darwiniana deve rendere comprensibile, è l'apparizione di una nuova specie. Ma questo evento rinvia esso stesso ad una popolazione fluttuante di microeventi: quella che noi chiamiamo una specie è solo statisticamente omogenea; ogni popolazione è costituita da individui più o meno diversi tra loro, e ogni nascita costituisce quindi un «evento•, l'apparizione di un individuo nuovo. La creazione di una nuova specie significa che, tra questi microeventi, alcuni hanno assunto un senso: alcuni individui si sono caratterizzati per un tasso di riproduzione più alto degli altri, e la loro moltiplicazione ha progressivamente trasformato l'identità della specie e la relazione tra i membri di questa specie con il loro ambiente. La selezione naturale costituisce, dunque, il meccanismo grazie al quale differenze costantemente fluttuanti possono cambiare scala, generare una vera differenza, la trasformazione del profilo medio della popolazione. L'evoluzione darwiniana, evidentemente, costituisce solo un modello, non la verità di ogni storia. Ma ogni storia contiene, come il modello
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darwiniano, l'irreversibilità, l'evento e la possibilità (per certi eventi, in determinate circostanze) di acquisire un significato, di essere alla base di nuove coerenze. Comprendere una storia non significa ridurla né a regolarità soggiacenti, né a un caos di eventi arbitrari, ma significa comprendere al tempo stesso coerenze ed eventi: le coerenze, in quanto possono resistere agli eventi, votarli all'insignificanza, oppure, al contrario, essere distrutte o trasformate da alcuni di essi, gli eventi, in quanto possono o meno far intervenire nuove possibilità di storia. È chiaro che la termodinamica definita nel secolo xix sulla base della nozione di e,•oluzione irreversibile verso l'equilibrio non soddisfa queste esigenze. Il solo evento al quale possa dare senso è la preparazione iniziale di un sistema lontano dall'equilibrio, e ciò che essa descrive è il modo in cui questo evento diviene insignificante: il sistema dimentica la particolarità della sua origine per evolvere verso uno stato che poche variabili sono sufficienti a descrivere. Come spiegare la trasfonnazione di significato che ha conosciuto, nel corso di questi ultimi vent'anni, la nozione di irreversibilità? Come è possibile che il secondo principio abbia smesso di identificarsi con la scomparsa di ogni attività, di ogni differenza, e possa oggi partecipare alla comprensione di un mondo intrinsecamente evolutivo? li secondo principio della termodinamica, come venne enunciato da Clausius, aveva certamente per oggetto ciò che noi possiamo chiamare l'attività fisico-chimica della materia. Le reazioni chimiche, i fenomeni di trasporto, di diffusione, di propagazione, che corrispondono a evoluzioni a entropia crescente, non possono essere idealizzate come processi reversibili, contrariamente, per esempio, al movimento del pendolo. Ogni reazione chimica segna una differenza tra il passato e il futuro, si produce nella direzione del nostro futuro. È ugualmente nella direzione del nostro futuro, non in quella del nostro passato, che il calore si diffonde da un punto più caldo a uno più freddo. Tuttavia, il secondo principio, nel significato datogli da Clausius, definiva questa attività da un punto di vista molto particolare: in quanto essa, in certe condizioni, porta inevitabilmente alla sua stessa scomparsa, cioè allo stato di equilibrio. Come considerare in maniera più generale l'attività fisico-chimica produttrice di entropia? Lo stato di equilibrio può essere definito come un esempio particolare di staw stazwnario, ossia di uno stato la cui entropia non varia nel
QUAI.E SGUARDO SUL MONDO?
corso del tempo. Ogni variazione di entropia all'interno di un sistema termodinamico può essere scomposta in due tipi di contributi: l'appurto esterno di entropia, che misura gli scambi con l'ambiente e il cui segno dipende dalla natura di questi scambi e la produzione di entropia, che misura i processi irreversibili all'interno del sistema. È questa produzione di entropia che il secondo principio definisce come positiva o nulla. Nello stato stazionario, per definizione, la produzione di entropia è compensata stabilmente dall'apporto di entropia legato agli scambi con l'ambiente: il sistema è la sede di un'attività permanente, produttrice di entropia, che si mantiene a prezzo di scambi continui con l'ambiente. Lo stato di equilibrio corrisponde al caso particolare in cui gli scambi con l'ambiente non fanno variare l'entropia, e in cui la produzione di entropia è, quindi, anch'essa nulla. Lo stato stazionario permette dunque di caratterizzare l'attività produttrice di entropia in quanto tale, e non solo nella prospettiva della sua scomparsa nelle condizioni di equilibrio. Lo studio degli stati stazionari è sufficiente a distinguere il secondo principio dall'idea di evoluzione verso il «disordine•, l'inerzia, l'uniformità. Consideriamo l'esperienza della termodiffusione (fig. I). Due recipienti sono collegati da un condotto, e riempiti di una miscela di due gas, per esempio di idrogeno e azoto. Partiamo da una situazione di equilibrio: i due recipienti si trovano alla stessa temperatura, alla stessa pressione, e contengono
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CAPlTOLO TERZO
la stessa miscela omogenea dei due gns. Stabiliamo ora una differenza di temperatura tra i due recipienti. La deviazione dall'equilibrio costi• cuita da questa differenza di temperatura può essere mantenuta solo se questa è alimentata da un flusso di calore che compensi gli effetti della diffusione termica: un recipiente è stabilmente riscaldato mentre l'altro è raffreddato. Ora, l'esperienza mostra che, abbinato al processo di diffusione del calore, si produce un processo di separazione dei due gas. Quando il sistema avrà raggiunto il suo stato stazionario, tale che, per un dato flusso di calore, la differenza di temperatura non varia più nel corso del tempa. si avrà, paniamo, più idrogeno nel recipiente caldo e più azoto nel recipiente freddo, essendo la differenza di concentrazione proporzionale alla differenza di temperatura. In questo caso, noi vediamo che l'attività produttrice di entropia non può essere assimilata a un semplice livellamento delle differenze. Ceno, il flusso termico gioca questo ruolo, ma il processo di separazione dei gns mischiaci che si produce in abbinamento con la diffusione, è un processo di creazione di differenza, un processo di• antidiffusione• che comparta un contributo negativo alla produzione di entropia. Questo semplice esempio mostra fino a che punto sia necessario liberarci dell'idea che l'attività produttrice di entropia sia sinonimo di degradazione, di livellamento delle differenze. Giacché, se è vero che dobbiamo pagare un prezzo in termini di entropia per mantenere il processo di termodiffusione al suo stato stazionario, è anche vero che questo stato corrispande a una creazione di ordine. Si può allora concepire un altro modo di vedere: possiamo vedere il «disordine» prodotto dalla conservazione dello stato stazionario come ciò che ci permette di creare un ordine, una differenza di composizione chimica·tra i due recipienti. L'ordine e il disordine si presentano qui non come opposti l'uno all'altro, ma come indissociabili. Che cosa chiamiamo ordine? Che cosa chiamiamo disordine? Ognuno sa che le definizioni mutano e esprimono per lo più giudizi sulla bellezza, sull'utilità, sui valori. Tuttavia, questi giudizi si arricchiscono anche di ciò che apprendiamo. Per molto tempo la turbolenza si è imposta a noi come l'esempio di disordine per eccellenza. Al contrario, il cristallo è parso come l'immagine dell'ordine. Come vedremo in seguito, siamo ormai in grado di modificare questi giudizi. Oggi sappiamo che dobbiamo comprendere il regime turbolento come «ordinato»: i movimenti di due molecole poste a distanze macroscopiche, misurabili in
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centimetri, sono infatti correlati. Al contrario, gli atomi che formano un cristallo vibrano intorno alla loro posizione di equilibrio in maniera incoerente: il cristallo è disordinato dal punto di vista dei suoi modi di eccitazione. L'esempio della termodiffusione pone il problema del •prezzo• della creazione di ordine. La separazione chimica tra i due gas non è una scelta operata una volta per tutte, ma risulta da un processo che ha come prezzo una creazione permanente di •disordine•, il livellamento della differenza di temperatura che il flusso di calore conserva. Ritroviamo un'anicolazione analoga al metabolismo vivente, in cui la costruzione delle molecole biologiche complesse si accompagna alla distruzione di altre molecole, essendo la somma dei processi corrispondente, beninteso, a una produzione di entropia positiva. Ma possiamo estendere questa idea fin dove la termodinamica non può guidarci, e precisamente là dove si tratta dei rapporti degli uomini tra di loro e con la natura? L'intensificazione dei rapporti sociali che la vita urbana favorisce, per esempio, non è stata fonte di spreco, di inquinamento e, al tempo stesso, di invenzioni pratiche, artistiche, intellettuali? L'analogia è feconda per il fatto che coordina ciò che noi troppo spesso siamo tentati di opporre, ma non esprime alcun giudizio sul valore di ciò che viene creato e distrutto, né soprattutto legittima la nostra storia come necessaria o ottimale. L'esempio della fisica può illuminare il problema posto agli uomini, non risolverlo. Come vedremo nel settimo capitolo di questo saggio, la dualità, creatrice e distruttrice, dei processi irreversibili può anche chiarire la queStione dell'origine dell'universo. All'interno di questo universo, per ogni barione, una panice)la •pesante•, vi sono all'incirca da IO' a IO' fotoni. Questi rari barioni e questi numerosi fotoni, che costituiscono la famosa• radiazione residua di corpo nero•, sono i prodotti di un evento unico nel corso del quale sono stati creati simultaneamente. Come non vedere in ciò una indicazione preziosa? La morte termica, lungi dal rientrare nel nostro futuro, non risalirà alle nostre origini? I barioni, strutture complesse e ordinate, non devono la loro esistenza a una formidabile esplosione encropica di cui i fotoni, prodotti residuali ineni, ci permettono di calcolare il costo? Torniamo alla fisica-chimica. Il fenomeno di termodiffusione è un fenomeno continuo: la ;eparazione dei due gas è proporzionale alla differenza di temperatura. Ma in altri casi, abbiamo a che fare con feno-
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CAPITOLO TERZO
meni bruschi, spettacolari: con l'apparizione di nuovi regimi di funzionamento, qualitativamente diversi, che si producono a una determinata distanza dall'equilibrio, ossia a partire da una soglia di intensità dei pro- . cessi irreversibili di cui il sistema è sede. Non ci dilungheremo qui sulla scoperta delle strutture dissipative, che è stata ampiamente descritta nella Nuova alleanza. Per mettere in evidenza la sorpresa che esse hanno rappresentato, prendiamo il celebre esempio dell'•instabilità di Bénard•. Un sottile strato liquido è sottoposto a una differenza di temperatura tra la superficie inferiore, riscaldata in permanenza, e la superficie superiore, a contatto con l'ambiente esterno. Per un valore determinato della differenza di temperatura, il trasporto di calore per conduzione, in cui il calore si trasmette per collisione tra le molecole, si unisce ad un trasporto per convezione, nel quale le stesse molecole partecipano a un movimento collettivo. Si formano allora dei vortici che distribuiscono lo strato liquido in •cellule• regolari. L'apparizione dei vortici di Bénard rappresenta una rottura della simmetria spaziale. Al di qua ddla soglia d'instabilità, ogni regione del sistema si trovava nello stesso stato medio. Dopo l'instabilità di Bénard non è più così: in un punto le molecole salgono, in un altro scendono. Com'è possibile ciò? Come· possono le molecole, che costituiscono in numero immenso lo strato liquido, abbandonare il movimento incoerente di prima? Come può questa moltitudine incalcolabile e caotica adottare un comportamento coerente, diverso da regione a regione? Lontano dall'equilibrio, conviene parlare veramente di nuovi stati della materia, di stati che si oppongono all'insieme degli stati di equilibrio. In effetti, poco importa che si parli di stato d'equilibrio gassoso, liquido o cristallino: tutti hanno in comune un tratto essenziale che li distingue dalle situazioni di non-equilibrio, e illustrate dai vortici di Bénard o dalla turbolenza. I nuovi stati di non-equilibrio della materia sono caratterizzati dall'apparizione di correlazioni a lunga portata. L'enorme differenza di scala tra le correlazioni della portata dell'angstrom (lo·•cm), che caratterizzano gli stati di equilibrio, e le correlazioni su distanze macroscopiche, per esempio dell'ordine di un centimetro, che si manifestano lonrano dal!' equilibrio, esprime la differenza tra equilibrio e non-equilibrio. Che cos'è una correlazione? Mentre la definizione delle interazioni, cioè dei rapporti effettivi tra costituenti, fa parte della definizione stessa
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di un sistema e quindi precede lo studio dei suoi differenti regimi di attività, le correlazioni si definiscono relativamente a questi regimi: esse permettono di precisare la relazione tra •tutto• e •parti• che caratterizza ognuno di essi. Le parti in questione possono essere semplicemente le diverse regioni del sistema, e allora ci si chiederà in che modo, in che misura e fino a che punto tale evento locale modifichi le sue vicinanze, ma possono anche essere più astratte. Così, il cristallo può essere caratterizzato facendo riferimento alle sue modalità di eccitazione collettiva (i fotoni). Gli stati di equilibrio sono caratterizzati dal fatto che vi è sempre una rappresentazione, una scelta di unità (i modi di eccitazione per il cristallo, le molecole per il gas) tale che il comportamento di queste unità sia disordinato. Un ambiente lontano dall'equilibrio, come quello che è sede dei vortici di Bénard, è caratterizzato invece da correlazioni intrinseche di lunga portata. I vortici sono un esempio della coerenza espressa da queste correlazioni: le molecole prese in un vortice non possono più essere definite come unità indipendenti tra loro. Un recente esperimento di simulazione numerica al calcolatore ha permesso per la prima volta di visualizzare la nascita di vortici di questo genere.' La simulazione mette in scena 5040 dischi rigidi capaci di muoversi e di scontrarsi in un ambiente a due dimensioni. Due• bordi• opposti del contenitore sono mantenuti a temperature diverse (una sfera che urta uno di questi bordi se ne allontana con una nuova velocità determinata a partire dalla distribuzione delle velocità caratteristica della «temperatura• di questo bordo). I dischi, d'altra pane, sono sottoposti a una forza esterna costante in direzione opposta al gradiente termico, che rappresenta la forza di gravità. In partenza la posizione delle molecole è aleatoria, e la distribuzione delle loro velocità obbedisce alla distribuzione di equilibrio corrispondente alla temperatura locale (fig. 2a). La simulazione permette di •vedere• cosa significhi l'apparizione di correlazioni a lunga portata: la nascita di un nuovo comportamento macroscopico che non ha origine dalle nuove interazioni elementari, ma si riferisce alla popolazione in quanto tale, a ciò che le unità elementari fanno • insieme•. Quando la differenza di temperatura è inferiore alla differenza critica (fig. 2b), si vedono dei piccoli vonici formarsi, sussistere per qualche tempo, e poi disfarsi. Invece, nelle condizioni corrispondenti al punto critico (fig. 2c), i vortici apparsi dopo alcune
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Figura 2, Distribuzione delle velocità medie dopo 12 milioni di collisioni per una differenza di temperatura superiore alla soglia critica.
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migliaia di collisioni non si disfano più, ma si accentuano sempre di più, «reclutando• un numero sempre maggiore di molecole, fino a organizzare l'ambiente nel suo insieme. La simulazione mostra dunque la competizione tra l'agitazione termica delle molecole e il vincolo imposto al sistema. Appena viene stabilita una differenza di temperatura, essa causa la comparsa di vortici, ma, al di sotto della soglia critica, questi restano passeggeri, e finiscono per essere distrutti dall'agitazione termica. Al di sopra della soglia, invece, risultano stabilizzati. Nel caso dei vortici, è difficile spiegare, senza formule matematiche, che cosa significhi in termini molecolari l'apparizione di correlazioni a lunga portata. Nel caso dei sistemi chimici lontani dall'equilibrio, la situazione è invece più intuitiva.4 In questo caso, il vincolo globale verte sulla composizione chimica del sistema, più precisamente sullo scarto tra questa composizione e quella che corrisponderebbe all'equilibrio. Possiamo considerare ognuna delle collisioni di reazione come un •evento» raro rispetto alle collisioni «browniane• che non cessano di prodursi, e cercare di caratterizzarlo dal punto di vista delle sue conseguenze. Ogni collisione di reazione ha per conseguenza una variazione locale delle concentrazioni chimiche, crea una differenza. Così, se una molecola a dà due molecole x, questo evento ha per conseguenza locale l'esistenza di «più» molecole x in questa microregione. Il problema è allora di sapere se questa differenza verrà ridotta, essendo compensata immediatamente dalla reazione inversa, come accade nello stato di equilibrio chimico, oppure se essa potrà causare un effetto. Consideriamo il caso in cui i flussi che allontanano il sistema del1' equilibrio provocano una prevalenza della reazione •a dà 2x• sulla sua inversa. Producendo ogni reazione due molecole di x nella stessa regione del sistema, queste si ritroveranno più vicine tra loro rispetto a quanto vorrebbe la distribuzione media. Al contrario, quando a dominare è la reazione inversa, le molecole x saranno tra loro più lontane che nella distribuzione •disordinata»: tutte le molecole vicine hanno in effetti la possibilità di incontrarsi e di scomparire. Tutto avviene, dunque, «come se», in un caso, le molecole x si attraessero, e nell'altro si respingessero (fig. 3). Ogni meccanismo di reazione chimica non lineare (del tipo a~ 2x) causa dunque, fuori dell'equilibrio, la comparsa di correlazioni. Ma, perché queste correlazioni abbiano conseguenze spettacolari, sono neces-
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sarie delle condizioni più forti, cioè l'esistenza di reazioni catalitiche («autocatalisi• del tipo a+ 2x->- 3.x-, «cross-catalisi• del tipo a+ x->- 2y; b + y-+ 2x). Lo stato stazionario può divenire allora instabile a una determinata distanza dall'equilibrio, e il sistema può adottare un regime di anività strutturato (per esempio, del tipo orologio chimico). In un tale regime, il sistema forma un «tutto», ogni pane del quale è •sensibile» a tutte le altre. Lontano dall'equilibrio, i processi irreversibili sono dunque fonte di coerenza. L'apparizione di questa atùvità coerente della materia - le «stnmure dissipative• - ci impone un nuovo modo di vedere, una nuova maniera di porci in rapporto al sistema che definiamo e manipoliamo. Mentre all'equilibrio e vicino all'equilibrio il comportamento del sistema è, per tempi sufficientemente lunghi, interamente determinato dalle condizioni al contorno, dovremo ormai riconoscergli una certa autonomia che permette di parlare delle strutture lontane dall'equilibrio come di fenomeni di «auto-organizzazione». Prendiamo anzitutto un termine come quello di •vincolo•. Il flusso di calore o di materia che mantiene lo scarto dall'equilibrio è un «vincolo• nella misura in cui, senza di esso, il sistema evolverebbe verso l'equilibrio. Vicino all'equilibrio, questo vincolo che imponiamo è sufficiente a determinare l'attività del sistema: lo stato stazionario corrisponde in effetti all'attività minimale compatibile con il vincolo che mantiene il sistema fuori dell'equilibrio (è il teorema di produzione di entropia
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minima, formulato da uno di noi nel 1945). Si può dunque dire, per un processo come quello, ad esempio, della termodiffusione, che la differenza termica imposta al sistema ne spiega l'attività. Esso non va ugualmente al di là della soglia d'instabilità. Così, i vortici di Bénard costano più entropia rispetto allo stato stazionario, divenuto instabile, che corrisponderebbe alla stessa differenza di temperatura: il calore è trasportato più rapidamente dalla superficie inferiore alla superficie superiore, e bisogna quindi alimentare il sistema con un flusso di calore più intenso per conservare una stessa differenza di temperatura. In questo caso, è difficile dire che il vincolo del non-equilibrio impone al sistema la sua attività. Questa si organizza spontaneamente a partire da quel vincolo. Ma la modificazione del rapporto tra l'attività del sistema e le condizioni che la determinano porta ad altre conseguenze: mostreremo come, a partire dalle nozioni di sensibilità, di instabilità e di bifort:llzione, essa apra la fisica al problema dell'evoluzione. Per introdurre la nozione di sensibilità, prendiamo un primo esempio che ci rimanda ai vortici di Bénard.' Mentre in un sistema in condizioni di equilibrio l'effetto della gravità su uno strato di liquido è del tutto insignificante, essa gioca invece un ruolo cruciale in un fenomeno di instabilità come quello di Bénard. In effetti, i vortici di Bénard esprimono in qualche modo la «contraddizione• tra la gravità e il gradiente di temperatura: questo determina una densità più debole nella parte più bassa, cioè più calda, dello strato liquido, mentre la gravità determina una ripartizione inversa della densità. Un sistema fisico-chimico lontano dall'equilibrio può dunque divenire sensibile a fattori trascurabili vicino all'equilibrio. Utilizzare in questo contesto un termine come quello di «sensibilità» non implica alcuna proiezione antropomorfica, ma significa un arricchimento della nozione di causalità. I sistemi lontani dall'equilibrio non subiscono la forza di gravità allo stesso modo di un corpo pesante, il loro comportamento non è sottoposto ad una relazione generica di causa ed effetto. La relazione causale è qui reciproca: è l'attività del sistema che «dà senso• alla gravità, che la integra in modo specifico al suo proprio regime di funzionamento, e la gravità rende questo sistema capace di nuove strutture, di nuove differenziazioni. La nozione di «sensibilità» unisce ciò che i fisici avevano l'abitudine di separare: la definizione del sistema e la sua attività. Per definire un sistema in equilibrio, si può trascurare il fatto che esso si trovi nel campo
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gravitazionale terrestre, ma una tale approssimazione non è più possibile lontano dall'equilibrio. È dunque l'attività del sistema che impone di trasformare la sua definizione. Perciò non si può più parlare, come si faceva nel caso dell'equilibrio, di un sistema •manipolabile» perché interamente determinato dalle sue •condizioni al contorno•, ossia dai rapporti che instaura col suo ambiente e che noi possiamo modificare a piacere. È l'attività intrinseca del sistema che determina il modo in cui dobbiamo descrivere il suo rapporto con l'ambiente, e che genera, dunque, il modello conoscitivo che sarà adeguato per comprendere le sue storie possibili. Si ritrova la nozione di sensibilità associata a quella di instabilità, perché si tratta, in questo caso, della sensibilità del sistema rispetto a sé stesso, alle fluttuazioni della sua propria attività. Qui, ancora, è dal!' attività del sistema che dipende la pertinenza delle nostre forme di rappresentazione. Possiamo descrivere un sistema in equilibrio partendo solo dai valori medi delle grandezze che lo caratterizzano, perché lo stato di equilibrio è stabile in rapporto alle incessanti fluttuazioni che perturbano questi valori, e perché queste fluttuazioni sono destinate a regredire. Per questo motivo possiamo anche definire questi siscemi come controllabili: in un sistema fisico-chimico, il valore medio del flusso di energia o di materia e l'insieme delle condizioni al contorno dipendono dalla scelta dello sperimentatore, ma non il fatto che in un dato istante abbia luogo una tale collisione reattiva o che si formi un tal altro piccolo vortice in uno strato sottile di liquido. La rappresentazione che costruiamo a proposito di un sistema rinvia dunque certamente alle nostre possibilità di manipolazione, ma la sua pertinenza è relativa alla stabilità del sistema in rapporto a quel che di esso possiamo manipolare, al fatto che gli eventi incontrollabili rimangano o meno insignificanti. Il fatto che quesco o quell'evento possa « prendere senso•, possa cessare di essere un mero rumore nel tumulto insensato dell'attività microscopica, introduce in fisica quell'elemento narrativo che abbiamo detto essere indispensabile per un• autentica concezione del1'evoluzione. E la scoria della vita può indubbiamente esser letta, almeno in parte, come la scoria di una demoltiplicazione della• sensibilità•, come l'incorporazione, da parte dell'organismo vivente attivo, di interazioni deboli, le quali divengono altrettante infurmazioni che tessono i suoi rapporti col mondo. Torniamo al problema dell'inscabilità. Cosa accadrà se...? Cosa sarebbe
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accaduto se ...? Queste non sono soltanto domande dello storico, ma anche del fisico nei confronti di un sistema che non può più essere rappresentato come manipolabile e controllabile. Queste domande non rimandano a un'ignoranza contingente e superabile, ma definiscono la singolarità dei punti di biforcaziune. In questi punti, il comportamento del sistema diviene instabile e può evolvere verso vari regimi stabili di funzionamento. In tali punti, una •conoscenza migliore• non ci permetterebbe di dedurre ciò che accadrà, di sostituire la certezza alle probabilità. Lo studio del punto di biforcazione più semplice, quello in cui uno stato diventa instabile mentre altri due stati stabili possibili emergono simmetricamente, è sufficiente a dimostrare il carattere irriducibile della situazione probabilistica: dopo il punto di biforcazione, esiste una possibilità su due di trovare il sistema nell'uno o nell'altro dei due possibili regimi di attività. È senz'altro possibile rompere la simmetria dei due regimi. Così, in certi casi, il campo gravitazionale è sufficiente a determinare una scelta privilegiata, e quindi a ristabilire una possibilità di previsione quasi deterministica (fig. 4). Tuttavia il fenomeno rimane essenzialmente aleatorio, nella misura in cui a permettere di risolvere il caso non è un miglioramento della nostra conoscenza dei meccanismi di interazione, delle condizioni iniziali, di tutte le particolarità del sistema, ma una modifica della struttura del diagramma delle biforcazioni. È quindi questo diagramma, rappresentazione della coesistenza e dell'articolazione dei possibili, che determina in ogni caso ciò che potrà essere previsto e ciò che potrà solo essere (lo sappiamo a priori) constatato e raccontato. La teoria delle biforcazioni è attualmente in piena crescita e molti nomi vi sono associati, specialmente quello di René Thom, la cui teoria delle catastrofi ha rappresentato una prima classificazione importante dei tipi possibili di biforcazione. Oggi sappiamo che un medesimo sistema, man mano che si fa aumentare la sua distanza dall'equilibrio, può attraversare molteplici zone di instabilità (fig. 5) nelle quali il suo comportamento si trasformerà qualitativamente. In particolare, esso potrà raggiungere un regime caotico in cui la sua attività può essere definita come l'opposto del disordine indifferente che regna nell'equilibrio: nessuna stabilità assicura più la pertinenza di una descrizione macroscopica, tutti i possibili si realizzano, coesistono e interferiscono, il sistema è •simultaneamente• tutto ciò che può essere. Nelle pagine precedenti abbiamo abbozzato la descrizione delle nuove
CAPITOLO TERZO
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X
l.,
Figura 4
Fenomeno di biforcazione •mistica, in presenza di un campo memo (per =mpio gravitazionale). La concentrazione :e, aranerizzanrc il regime di attività del sistema, è rappresentata in funzione del parametro À che misura lo scostamento .Wl'cquilibrio. La linea punteggiata rappresenta la biforcazione simmetrica tra i regimi (a) e (b) che ci sarebbe stata in assenza dd campo. In presenza di quest'ultimo, il regime (a) emerge in modo continuo mentre il regime (b) non può essere raggiun10 che con una pcnurbazione finita a panirc da À = l.,.
nozioni proposte dalla fisica delle condizioni lontane dall'equilibrio, e abbiamo accennato al nuovo sguardo che i fisici, nel corso di questi ultimi anni, hanno imparato a volgere sul mondo dei processi fisicochimici. Fin dalla NIIQl/a alleanza, avevamo affermato che questo nuovo sguardo costituisce la promessa di un rinnovamento della coerenza culturale che gli ideali della conoscenza, con cui si è identificata la fisica classica, avevano contribuito a distruggere. Come concepire questa promessa.' Non cerro come quella di un ritorno indietro, verso una concezione unificata e rassicurante, che sostituirebbe al cosmo statico dei greci un «cosmo evolutivo•, anch'esso trasparente all'intelligenza umana. Per questo abbiamo caratterizzato la nozione di evoluzione non in termini
QUALE SGUARDO SUL MONDO?
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Figura S Variazione temporale del •patenziale di elettrodo, (che misura lo stato chimico del mezzo di reazione) per la reazione dorito-tiosolfato. • Per la stessa reazione chimica, che si produce a concentrazioni e in condizioni di flusso differenti, il sistema può avere oscillazioni periodiche complesse (da a ab) e infine un'oscillazione di rilassamento, oppure oscillazioni aperiodiche (ca_otiche) (da a' a d').
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CAPl70LO TERZO
di «concetti• che si presume rispondano alle nostre domande, ma in termini di esigenze minimali, di condizioni senza le quali il problema non può esser posto. Abbiamo mostrato come la fisica poteva ormai soddisfare queste esigenze minimali. Tuttavia essa non costituisce la scienza modello, nel senso che i concetti creati dai fisici potrebbero •applicarsi• ad altre scienze o trovarvi il loro equivalente. Tutt'al contrario, la trasformazione della fisica infrange la nozione di «scienza modello». Questa nozione di scienza modello era legata a ciò che costituiva la gloria della fisica classica: la scoperta, al di là del mutamento, di leggi invarianti. Ogni scienza veniva allora giudicata in rapporto alla sua distanza da questo ideale, indotta a pensarsi come • prescientifica•, ancora sottomessa all'aneddotica, all'apparenza, o all'aderenza a un conuomodello che affermava, di fronte all'oggettività scientifica, l'intenzionalità o i valori che sono propri del soggetto. Oggi i fisici sono indotti a trasformare l'ideale che li guidava, a considerarlo e utilizzarlo come uno strumento di cui si tratta di comprendere i limiti. Comprendere vuol dire sia capire i motivi per cui lo stato di equilibrio è stabile, perché permette cioè di definire un sistema non sottoposto a colui che lo manipola, sia capire perché, lontano dall'equilibrio, questa definizione dell'oggetto fisico-chimico deve essere abbandonata, mentre diventano pertinenti nuovi concetti, come quelli di correlazione, di instabilità, di sensibilità, di biforcazione. Lungi dal proporre alle altre scienze una visione unica, il fisico scopre nel proprio dominio una realtà molteplice alla quale non può dare un senso senza riconoscere al contempo la irriducibile diversità dei problemi che si pongono alle altre scienze. Consideriamo ad esempio una nozione come quella di sensibilità. Come abbiamo visto, essa implica che la definizione dei rapporti di un sistema col suo ambiente sia relativa al regime di attività di questo sistema. A che cosa è sensibile un essere? Da che cosa può essere modificato? Di che cosa lo rendono capace le sue relazioni col mondo? Simili questioni hanno già senso per •esseri• semplici come i sistemi fisico-chimici. Ma come potrebbero non porsi in modo ancor più pressante a coloro che studiano gli esseri viventi, dotati di memoria, capaci di apprendere e di interpretare? Come potrebbero non trovare un senso ancor più cruciale quando si tratta degli uomini, che il linguaggio rende sensibili all'infinita varietà dei loro passati, dei futuri che possono temere o sperare,
QUALE SGUARDO SUL MONDO?
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delle divergenti e frammentarie letture del presente? Non sono le stesse scienze uno dei vettori di questa sensibilità? Per gli uomini di oggi, il big bang e l'evoluzione dell'universo fanno parte del mondo allo stesso titolo che, ieri, i miti originari. Come giudicare a priori che cosa •è» l'uomo, quali sono i concetti pertinenti per definire la sua identità, se perfino l'identità di un sistema fisico-chimico è relativa alla sua attività? Allo stesso modo, la questione dell'evento, delle circostanze che gli consentono di diffondersi, di assumere un senso, di essere occasione di una trasformazione qualitativa, è comune a tutte le scienze che si occupano di popolazioni, di modi di essere •insieme•. È sorprendente constatare il fatto che le teorie sociali e politiche, ma anche i rivoluzionari, i creatori di moda, i tecnici della pubblicità ecc., si trovano di fronte lo stesso problema: che cos'è un'instabilità? Come favorirla, o, al contrario, premunirsene? Ma la situazione è qui molto più complessa che in fisica: contrariamente alle molecole, gli uomini ricordano, immaginano, stabiliscono o inventano correlazioni; in breve, sono in grado di porsi il problema del loro vivere. Le circostanze assumono dunque significati molteplici e comprendono anche i racconti o le analisi mediante cui cerchiamo di interpretarle. Le relazioni non lineari, di cui i fisici hanno compreso il ruolo cruciale in fisica, sono qui non soltanto onnipresenti, ma suscettibili di collegare i punti di vista locali, le visioni globali, le rappresentazioni divergenti del passato, _del presente e del futuro. Come sarebbe possibile allora cercare di ignorare la singolarità deHe questioni che pone la storia degli uomini? Questa è la promessa di coerenza che noi leggiamo nel divenire della fisica. Non un'unità che ci permetta di comprendere nei medesimi termini il «soggetto» e !'«oggetto•, di ricondurre l'evoluzione biologica, e persino sociale, alle categorie della fisica-chimica, ma la pcssibilità di un'articolazione positiva tra le scienze, la possibilità di affrontare problemi che non le chiudano nella loro specificità, ma le aprano alla possibilità di trattare questioni con le quali già altre scienze si confrontano. In un recente libro,' Allan Bloom ha ricordato la critica rivolta da Swift alla razionalità scientifica. Da perfetti cartesiani, gli abitanti di Laputa hanno un occhio rivolto al cielo, di cui decifrano le leggi matematiche, e l'altro verso l'interno, verso la loro soggettività egoista. E l'isola volante di Laputa domina la Terra grazie al potere tecnico fondato sulla scoperta dei principi fisici. La scienza sarebbe dunque l'alleata naturale del potere, che domina ciò che essa decide di ignorare:
gli uomini, che non sono né figure geometriche né pura soggettività riflessiva. Il problema sollevato da Swift è grave, e non è di quelli che una semplice trasformazione teorica può risolvere. Tuttavia, possiamo dire che oggi non può più essere invocata la razionalità scientifica per giustificare gli scienziati che seguono il modello degli abitanti di Laputa. La contrapposizione tra l'oggetto, sottoposto a leggi atemporali, e il soggetto libero, che domina il mondo, ma privato dei molteplici legami che intesse con esso, non può più ormai dirsi • razionale• nel senso in cui sarebbe razionale opporre il mondo •vero•, • legale•, decifrato dalla scienza, al mondo opaco in cui lo scienziato vive. L'ideale classico della scienza, la scoperta di un mondo intelligibile ma senza memoria, senza storia, rinvia all'incubo annunciato da Kundera, da Huxley e soprattutto da Orwell. In 1984, la lingua stessa è separata dal suo passato, e quindi anche dalla sua potenza di inventare dei futuri: essa contribuisce a imprigionare gli uomini in un presente senza rimedio né alternativa. Questo incubo è quello del potere, non quello della razionalità scientifica. Questa non permette più di definire la soppressione della memoria, l'eliminazione dei racconti, la riduzione dell'immaginazione, come purificazione, giusto prezzo da pagare per fare della società un oggetto di scienza; essa porta invece a considerarle come mutilazioni che distruggono ciò che si pretende cercare di comprendere. La cultura è profondamente storica, intessuta di racconti relativi al passato, è memoria degli eventi che l'hanno segnata e ricreazione continua del senso di questi eventi, delle possibilità che essi aprono. Scrivendo questo saggio, che è di memoria e di creazione di senso, noi siamo quindi per definizione partecipi della cultura e, ciò che è più importante, di una cultura in cui, come abbiamo detto nel capitolo precedente, la scienza ha giocato un ruolo peculiare fin dalla sua origine. La lettura che abbiamo compiuto della fisica lontana dall'equilibrio, imperniata sulla nozione di evoluzione, si colloca in questa tradizione culturale. Essa mira a suscitare nuove sensibilità, nuove questioni, nuove prospettive. Uno •stesso• mondo e un mondo irriducibilmente molteplice: questa è un'idea che anima la nostra cultura, ma che rimaneva estranea alle scienze, prigioniere di una sterile oscillazione tra l'unificazione riduzionistica o visionaria, e la frantumazione autarchica delle discipline.
QUALE SGUARDO SUL MOND07
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Questa è l'idea che anima questo libro. Come mostreremo nel prossimo capitolo, incentrato sulla nozione di attrattore, l'esplorazione di questo mondo, al tempo stesso uno e molteplice, non è che agli inizi. Oggi nuovi concetti, portatori sia di riavvicinamenti inattesi sia di distinzioni insospettate, destabilizzano le categorie meglio fondate e stabiliscono tra le scienze molteplici vie di comunicazione.
CAPITOLO 4 Dal semplice al complesso
Come si può definire la differenza fra il semplice e il complesso? La prima risposta che viene in mente, la risposta tradizionale, implica la nozione di gerarchia. A un estremo, degli oggetti deterministici e perfe11amente comprensibili, come il pendolo. All'alcro, gli uomini e le loro società. Tra i due, l'enigma di un processo progressivo di •complessificazione•, di «emergenza• del complesso a partire dal semplice. Ma la situazione che stiamo scoprendo oggi è ben più so11ile. Ovunque ri\·olgiamo lo sguardo, è con un miscuglio che abbiamo a che fare, e in esso semplice e complesso sono vicini senza opporsi in maniera gerarchica. Così noi sappiamo ormai che l'apparente semplicità del pendolo può nascondere un'estrema complessità. Quanto alle società umane, non ci presentano l'immagine stessa di questo miscuglio, che suscita nello scesso tempo la nozione di• governo•, comportante la possibilità di descrivere e di predire, e di a scoria•, che rinvia alla creazione complessa di nuovi rapporti dalle implicazioni e dalle conseguenze poco prevedibili? Forse una delle lezioni più interessanti della •scoperta della complessità• è dunque quella di insegnarci a decifrare il mondo in cui viviamo senza sottometterlo all'idea di una differenza gerarchica tra livelli. Al fine di esplorare questo rinnovamento dei rapporti era semplice e complesso, prenderemo come guida la nozione di attratture. Questa nozione, come vedremo, ha potuto essere, in passato, il simbolo della omogeneità. Tutti i sistemi sottoposti ad un attrattore sembravano doversi • rassomigliare•. Oggi la nozione di attrat10re simbolizza, al contrario, la diversità qualitativa dei sistemi dissipativi. La nozione di stato attrattore rinvia in effe11i a quella di sistema dissipativo, produttore di entropia. Un pendolo ideale, senza attrito, non
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ha uno stato attrattore, ma prosegue indefinitamente il suo moto di oscillazione. Il moto di un pendolo reale, invece, si attenua progressivamente. Nel caso del pendolo semplice, l'esistenza dell'attrattore, costituito dal suo stato di equilibrio (nel senso meccanico del termine), permette di caratterizzare ogni movimento pendolare reale in tutta la sua generalità, senza aver bisogno di conoscerlo nella sua panicolarità. Quali che siano la velocità e la posizione iniziale di un pendolo, noi conosciamo infatti il modo in cui potremo descriverlo se aspettiamo abbastanza a lungo: esso finirà per trovarsi in riposo nella sua posizione di equilibrio. Analogamente, l'esistenza dell'attrattore costituito dallo stato di equilibrio termodinamico permette di affermare che una popolazione di miliardi di miliardi di panicelle in un recipiente isolato evolverà verso uno stato la cui descrizione dipenderà soltanto da un piccolo numero di parametri osservabili, come temperatura e pressione. Notiamo di sfuggita che il minimo attrito trasforma radicalmente la definizione del pendolo in quanto oggetto fisico, facendoci passare, per un tempo sufficientemente lungo, dalla descrizione di un movimento perpetuo reversibile a quella di una evoluzione dissipativa caratterizzata da uno stato attrattore. Si tratta di un esempio di «instabilità strutturale•, nozione sulla quale avremo occasione di tornare a proposito della cosmologia. Per rappresentarci l'attrattore, introduciamo uno spazio in cui questo attrattore è inserito. Questo spazio avrà tante dimensioni quante sono le variabili che occorrono per descrivere l'evoluzione temporale del sistema. Gli stati di equilibrio dei sistemi dissipativi corrispondono per definizione a degli attrattori puntuali, rappresentati da un punto in questo spazio. È questo il caso anche dei sistemi vicini all'equilibrio termodinamico e sottoposti al teorema di produzione di entropia minima. In tutti questi casi, quale che sia la preparazione iniziale del sistema, la sua evoluzione - in date condizioni al contorno - potrà essere rappresentata da una traiettoria che conduce dal punto che rappresenta lo stato iniziale al punto attrattore. Questo domina dunque la totalità dello spazio. Tutti i sistemi rappresentati dalle stesse variabili indipendenti e sottoposti alle stesse condizioni al contorno «ritornano allo stesso•, hanno lo stesso destino (fig. 6). La scoperta, lontano dall'equilibrio, di componamenti coerenti, come !'«orologio chimico• con il suo periodo temporale ben determinato, implica un primo ampliamento della nozione di attrattore. Qui non si
CAPITOLO QUARTO
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X
(a)
x, (b).
Figura 6 Swo anrattorc puntuale caratterizzato da due variabili indipendenti, X, e X,: tutte le evoluzioni di cui è suscrnibile un sistema caranerizzato da date condizioni aJ comomo conducono allo stesso stato. La fig. a rapprcscenta il componamento del sistema per due evoluzioni temporali possibili di una delle sue variabili. La fig. b rappresenta le medesime evolu-
zioni considerando le due variabili del sistema, X, e X,.
tratta più di un punto, ma di una linea. Questa volta, quale che sia la situazione iniziale, il sistema evolve verso un • ciclo limite• (fig. 7). Un sistema caratterizzato da un ciclo limite resta un sistema prevedibile, che può essere descritto in maniera semplice. Ma questa semplicità ha un carattere inatteso. Noi possiamo rappresentarci lo stato di equilibrio chimico, é immaginare il modo in cui una moltitudine di processi chimici compensano i loro effetti reciproci, come le moni com-
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Figura 7 Ciclo limite rappresentato, come nella fig. 6b, ndlo spazio costruito con le sue due variabili indipendenti X e Y, rune le evoluzioni di cui è suscettibile un sistema per date condizioni al contorno conducono allo stesso comportamento P"riodico.
pensano le nascite in una popolazione in equilibrio demografico. Ma l'idea che miliardi di miliardi di molecole, interagenti solo per collisione, agiscano « insieme• in modo tale che l'ambiente reattivo divenga per esempio rosso, poi blu, poi ancora rosso, con una periodicità dell'ordine del minuto, sfida l'immaginazione. Si tratta di una manifestazione spettacolare delle correlazioni a lunga portata che abbiamo discusso nel capitolo precedente. Senza l'esistenza di «orologi chimici•, il più studiato dei quali è la reazione di Belusov-Zabotinskij, come accettare l'idea di quella «semplicità» che non deriva più dal caos indifferente dei processi individuali, ma da una coerenza d'insieme in cui questi processi sembrano rimandare a un tutto che tuttavia non preesiste ad essi? Fino a pochi anni fa si credeva che i soli attrattori possibili corrispondessero a varietà continue, come linee, superfici e volumi. Ma la scoperta di •attrattori strani» ha aperto nuove prospettive. Gli attrat-
tori strani non sono caratterizzati da dimensioni intere, come una linea e una superficie, ma dn dimensionifrazi011arie. Sono quelle che, a partire da Mandelbrot,' si chiamano varietà frattali. Come può una dimensione essere frazionaria? In genere una dimensione definisce semplicemente un ente geometrico con il numero di variabili necessarie per situare uno dei suoi punti. Così, su una linea sarà necessario un solo numero per situare un punto, su una superficie due, in un volume tre ecc. Esistono tuttavia altri modi più astratti per definire una dimensione. Prendiamo ad esempio una linea la cui lunghezza misuri un centimetro. Quanti segmenti di lunghezza I/ I O cm saranno necessari per ricoprire questa linea? I O, evidentemente. Ma quanti quadrati di lato I/ I O cm saranno necessari per ricoprire una superficie col lato di un centimetro? 100. E 1000 nel caso simile di un cubo. Qui, come si vede, la dimensione compare all'esponente: IO, IO', IO'. Ritroveremo questa progressione degli esponenti qualunque sia la lunghezza u che caratterizza la lunghezza del segmento, del lato del quadrato e dello spigolo del cubo, che sono le nostre unità di ricoprimento. Non entreremo nei dettagli tecnici della definizione di questo tipo di misura, che implica un passaggio al limite in cui u tende verso lo zero. L'essenziale è stato già detto: quando si caratterizza un ente geometrico mediante un numero minimale di •cellule• necessarie a ricoprirlo, il calcolo di questo numero definisce la dimensione come potenza nella relazione che unisce il numero n di queste cellule e la loro dimensione u. Si può allora scrivere n = (I/u)' . Fin qui sembra che non si sia fatto altro che definire in modo complicato un'idea semplice. Eppure, se lasciamo enti geometrici come la linea, il quadrato o il cubo per studiare un ente frattale, comprenderemo la fecondità di questa nuova definizione. Un classico esempio di frattale è l'insieme di Cantor. Prendiamo un segmento di lunghezza I. Dividiamolo in tre parti uguali e togliamo la parte centrale. Ricominciamo la stessa operazione: dividiamo in tre ognuno dei due segmenti e togliamo la parte centrale (fig. 8). L'algoritmo può ripetersi all'infinito e termina con la costruzione di un insieme infinito e non computabile di punti non collegaci tra loro. Non si può più, allora, descrivere questo insieme in termini di lunghezza, ma la tecnica di ricoprimento che abbiamo esposto permetterà di attribuirgli ugualmente una dimensione. Dopo la prima operazione, è evidente che sono necessari due seg-
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..........
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H
H
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H
Figura 8 Costruzione dell'insieme di Cantor.
menti di lunghezza 1/3 per ricoprire l'ente geometrico creato. Dopo la seconda, ne occorrono quattro, di lunghezza 119. Dopo la terza, otto, di lunghezza 1/27. Dopo la ennesima operazione, il numero n di segmenti necessari è uguale a 2•, e la lunghezza u di questi segmenti è uguale a 1/3•. La dimensione d dell'insieme di Cantor è dunque definita, allorché n tende all'infinito e u allo zero, dalla relazione 2" = (3")'; da cui d= log 2/log 3, cioè circa 0,65. A questo insieme corrisponde dunque una dimensione frazionaria compresa tra O, la dimensione del punto, e I, quella della linea. In maniera analoga si possono costruire in uno spazio a due dimensioni oggetti di dimensione compresa tra 1 e 2 ecc. Molti oggetti naturali sono caratterizzati da una dimensione frattale. Così una nuvola' non è né un volume né una superficie, ma un essere intermedio, caratterizzato da una dimensione compresa tra 2 e 3. Oggi gli algoritmi frattali sono largamente utilizzati nelle immagini di sintesi e permettono di costruire con una facilità e una • fedeltà» sconcertanti forme che prima sfidavano l'occhio e la mano del disegnatore. La scoperta di attrattori caratterizzati da dimensioni frazionarie permette di trasferire il nuovo modo di vedere determinato dai franali dallo spazio delle forme a quello dei comportamenti temporali. Un attrae-
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CAPITOLO QU~RTO
tore • frattale• sarà, come l'insieme di Cantor, una struttura straordinariamente sottile. Le traiettorie che lo costituiscono riempiono letteralmente una porzione dello spazio con le loro piegature e ripiegature. Quando si esamina una di queste pieghe su scala più grande, vi si può scoprire una nuova struttura simile alla prima, di piegatura e ripiegatura, e così all'infinito. Mentre un attrattore usuale o dominava• lo spazio, poiché tutte le traiettorie convergevano verso di esso, le traiettorie che costituiscono un attrattore frattale formano una molteplicità indefinita. Fino a poco tempo fa, l'esistenza di un attrattore era stata sinonimo di stabilità e di riproducibilità: ritorno allo •stesso•. nonostante le perturbazioni, quali che siano le panicolarità iniziali. Ai nuovi tipi di attrattori corrispondono invece comportamenti •sensibili alle condizioni iniziali•, che fanno perdere significato alla nozione di •stesso•. In ogni regione occupata dall'attrattore frattale, per quanto sia piccola, passano infinite traiettorie, e ognuna di queste traiettorie ha un destino diverso dalle altre. Conseguentemente, situazioni iniziali anche vicinissime possono generare evoluzioni divergenti. La minima differenza, la minima perturbazione, lungi dall'esser resa insignificante dall'esistenza dell'attrattore, ha conseguenze considerevoli. L'idea di causa è sempre stata associata, più o meno esplicitamente, alla nozione di •stesso•, nozione necessaria per dare alla causa una portata operazionale. • Una stessa causa produce, in circostanze simili, uno staso effetto•; •se prepariamo due sistemi simili allo stesso modo, otterremo lo stesso comportamento•· Anche gli storici, allorché invocano un rapporto di causalità, si arrischiano a pensare che se le circostanze fossero state leggermente diverse - se il vento avesse soffiato meno forte, se una certa persona avesse deciso di indossare un abito diverso -, la siruazione che essi analizzano, nella sua essenza, non sarebbe stata modificata. Questo rischio è quello di ogni descrizione, di ogni definizione. Le parole, così come i numeri, sono di precisione finita. Ogni descrizione, verbale o numerica, definisce una situazione non in quanto essa sarebbe identica a se stessa, ma in quanto appartiene a una classe di· siruazioni tutte compatibili con le stesse parole o gli stessi numeri. Indipendentemente dalla possibilità di rapportarla a una classe di • stessi sistemi•, l'idea di causa si riduce a un'affermazione priva di ogni portata cognitiva: accade ciò che •doveva• accadere. Ora, a causa della loro proprietà di «sensibilità alle condizioni iniziali•, gli attrattori frattali, pur retti da equazioni perfettamente deter-
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ministiche, mettono in discussione questa possibilità. Come descrivere un sistema nel suo spazio rappresentativo? Con dei numeri, che rappresentano i valori delle variabili indipendenti che definiscono ogni stato possibile in questo spazio. Certo, come abbiamo detto nel capitolo precedente, questi stessi numeri possono corrispondere in realtà solo a valori medi, ma, nel caso degli attrattori frattali, bisogna ricordarsi che la descrizione con i numeri può avere solo una precisione finita: non è un punto ciò che i numeri possono definire, ma una piccola regione dello spazio, tanto più ristretta quanto più lunga sarà la sequenza di decimali. Tutti i punti compresi in questa regione designano quindi gli •stessi• sistemi, ma questi «stessi• sistemi, se sono caratterizzati da un attrattore frattale, non conosceranno destini convergenti. Essi appartengono a traiettorie che diverge-ranno nel corso del tempo. Giungiamo così alla definizione del comportamento •caotico•, che è un comportamento tipico dei sistemi caratterizzati da un attrattore strano. Un comportamento è caotico se delle traiettorie nate da punti, vicini quanto si voglia nello spazio delle fasi, si allontanano le une dalle altre nel corso del tempo in modo esponenziale; la distanza tra due punti qualunque appanenenti a tali traiettorie cresce quindi proporzionalmente a una funzione e'1', ove tir, positivo per definizione nel caso dei sistemi caotici, è !'•esponente di Ljapunov•, e T il •tempo di Ljapunov•. Il tempo di Ljapunov pennette di definire una vera •scala di tempo•, la scala del tempo rispetto alla quale l'espressione •due stessi sistemi• - due sistemi corrispondenti alla •stessa• descrizione iniziale - conserva un effettivo significato. Dopo un tempo di evoluzione lungo in rapporto al tempo di Ljapunov, la co~oscenza che avevamo dello stato iniziale del sistema ha perduto la sua pertinenza e non ci permene più di determinare la sua traiettoria. In questo senso, i sistemi caotici sono caratterizzati da un orizzonte temporale, definito dal tempo di Ljapunov, orizzonte che possiamo eventualmente spostare, ma non annullare. In effetti, se per tali sistemi volessimo prolungare il tempo durante il quale possiamo prevedere una traiettoria, aumentando la precisione della loro definizione e restringendo quindi la classe dei sistemi che consideriamo come «gli stessi», il prezzo da pagare diventerebbe presto smisurato: così, per moltiplicare per dieci il tempo durante il quale l'evoluzione rimane prevedibile a panire dalle sue condizioni iniziali, dovremo aumentare la precisione della definizione di queste condizioni di un fanore e' 0 ••. Come un vero e proprio orizzonte, l'orizzonte temporale dei sistemi
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CIIPITOLO QUIIRTO
caotici costituisce dunque la differenza tra ciò che possiamo •vedere• dal punto in cui siamo e ciò che si trova al di là: l'evoluzione che non passiamo più descrivere in termini di compartamento individuale, ma solo in termini di compartamento erratico, comune a tutti i sistemi carat• terizzati dall'attrattore caotico.' Negli ultimi anni, i fisici e i matematici hanno scoperto una quantità di sistemi caotici e definito un certo numero di• rotte» verso il caos. Non entreremo qui in dettagli tecnici e ci limiteremo a presentare un esempio particolarmente semplice, poiché mette in scena l'oggetto prevedibile e deterministico per eccellenza, il pendolo.' Consideriamo un pendolo debolmente dissipativo (il cui moto si smorzerebbe, se non fosse conservato). Questo pendolo è sferico: il suo peso è libero di oscillare non secondo una curva, ma secondo una superficie sferica. Imprimiamo ora a questo pendolo un movimento periodico. Anziché essere appeso a un punto fisso, il filo del pendolo è appeso a un supparto che si spasta periodicamente avanti e indietro. Una prima biforcazione si produce allorquando si dà a T, periodo di oscillazione forzata, un valore uguale a 0,989 T, dove T, è il periodo proprio del pendolo libero. A partire da questa soglia, il moto oscillatorio piano cessa di essere stabile, mentre si stabilizzano due forme di oscillazione non piana, delle quali il pendolo adotta l'una o l'altra. Una seconda biforcazione si produce per T= 0,99887 T,: il moto oscillatorio cessa allora di essere semplice e appaiono delle oscillazioni lente, di periodo più elevato; il pendolo non torna più nella stessa posizione rispetto al suo punto di appoggio, che ogni sei periodi circa (fig. 9a). Altre biforcazioni si producono aggiungendo delle sottoarmoniche alle frequenze fondamentali e sdoppiando il periodo di circolazione del movimento (figg. 9b e 9c). Infine, quando il periodo T assume il valore 1,002 34 T., ogni regolarità sparisce. Nessuna frequenza particolare caratterizza più il movimento, che è divenuto completamente erratico. La scelta effettuata alla prima biforcazione è dimenticata: il sistema passa da uno dei due modi di comportamento ali' altro. La successione dei passaggi tra questi due modi è aleatoria e cambia in maniera discontinua in funzione delle condizioni iniziali (fig. 9d). Il moto del pendolo, pur generato da un accoppiamento di due moti deterministici - quello suo proprio e quello che gli è imposto dallo sposta• mento del suo punto di sospensione-, ha acquisito un comportamento caotico.
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DAL SEMPLICE AL COMPLESSO
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(al Figura 9 Comportamento di un pendolo sferico di periodo proprio T.. per periodi diversi T del moto al quale è sottoposto il suo punto fisso (secondo Milcs). Questo moto, di ampiezza /, ha luogo nella direzione dell'asse delle :c. Il diagramma a sinistra rappresenta nel piano (:c,y) la variazione dell'ampic:zza della patte dcli' oscillazione pendolare che è in fase con il moto imposto. Nel caso di una oscillazione semplice, piana o non piana, questo diagramma si ridurreb~ a un punto. li diagramma a destra rappresenta lo spettro delle frequcn~ del moto pendolare: il logaritmo L della densità spcurale è rappresentato in funzione di F, rapporto tra la frequenza e la frequenza propria del pendolo. Figura 9a Periodo T = 0,99922T.; il pendolo ha adottato uno dei due modi possibili di oscillazione complessa Oa seconda è simmetrica alla prima in rapporto all'asse delle :e).
La trasformazione di un moto periodico in comportamento caotico è un fenomeno generale; essa riguarda tanto i sistemi debolmente dissi-
pativi, come il pendolo che abbiamo appena descritto, quanto i sistemi chimici puramente dissipativi, come la reazione di Belusov-Zabotinskij: anche in questo caso, lontano dall'equilibrio, il comportamento perde la regolarità che permetteva di parlare, nei suoi riguardi, di •orologio chimico» e diventa caotico. Alla prevedibilità di un comportamento regolare generato da una moltitudine di processi elementari succede, ancor più inattesa, l'imprevedibilità complessa di un'attività collettiva erratica, l'esatto contrario del disordine inerte che, all'equilibrio, permetteva di definire dei valori medi stabili in rapporto alle fluttuazioni.
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4x/l Idi Figura 9d Periodo T = 1,002 34T•. D moto dd pendolo è divenuto caotico e permane per durate di lunghezza variabile nell'uno o nell'altro dei suoi due modi possibili.
Abbiamo appena visto come l'esistenza dei sistemi caotici trasformi la nozione di imprevedibilità, la liberi dall'idea di un'ignoranza contingente che una migliore conoscenza sarebbe sufficiente a superare, e le dia un senso intrinseco. Ma che cosa ci insegna la scoperta degli attrattori caotici per quel che riguarda le descrizioni probabilistiche che utilizziamo per descrivere fenomeni che non possiamo prevedere in modo deterministico? La nozione di comportamento caotico può aiutarci a comprendere meglio questi sistemi, e in particolare la ragione per cui non possiamo prevederne il comportamento temporale? È evidente che, in molti casi, le probabilità traducono un'ignoranza: troppi fattori entrano in gioco in un evento perché possiamo prevederlo. Così è, per esempio, nel caso delle statistiche che riguardano avvenimenti come matrimoni, divorzi, morti, nascite ecc. Ognuno di questi eventi è il risultato di una storia, che i dati in cifre non possono che ignorare. Ma è sempre così? Prendiamo l'esempio del clima. Certo, ognuno sa che il clima è il risultato di molteplici circostanze. L'esistenza di microclimi, la variabilità del clima in funzione della situazione ecologica, il ruolo del rilievo' ecc., implicano che le variazioni climatiche comprendano una quantità di variabili. Tuttavia, il clima pone altri problemi.
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CAPITOLO QUIIRTO
Noi sappiamo che il clima terrestre globale ha conosciuto enormi cam• biamenti che hanno giocato un ruolo essenziale nella storia della Terra. Così, due o trecento milioni di anni fa, il clima era molto più mite di oggi: non c'era praticamente ghiaccio sui continenti e.il livello degli oceani era 80 metri più alto di oggi. Fu durante l'era terziaria, quaranta milioni di anni fa, che si è accentuato il contrasto tra la temperatura dei poli e quella delle zone equatoriali, dando inizio a una profonda trasforma· zione del regime di scambio del calore tra le alte e le basse latitudini, che ha amplificato ancora di più il fenomeno. È superfluo ricordare la serie di glaciazioni che hanno caratterizzato l'era quaternaria. Settemila anni fa, dopo il ritiro dei ghiacci, la Terra ha conosciuto quello che viene chiamato un •optimum climatico•: è questa l'epoca - finita circa tremila anni fa, all'inizio dell'età del ferro - in cui il Sahara conosceva una prospera agricolrura. Come spiegare queste enormi variazioni a lungo termine? Occorre invocare, per comprendere questo fenomeno, delle cause esterne, come ad esempio una variazione del flusso dell'energia solare? Oppure si tratta di variazioni erratiche generate da una dina- . mica globale del tipo di quelle che abbiamo descritto? Riconoscere tra i fenomeni che si presentano come aleatori quelli che potrebbero essere prodotti da un attrattore caotico, è evidentemente di una importanza straordinaria. Pensiamo, ad esempio, al problema, oggi così cruciale, dell'azione dell'uomo sull'ambiente. Per compren· dere la natura e la portata di questa azione, è necessario chiarire le moda· lità intrinseche del comportamento di questo ambiente, distinguere le variazioni che rinviano a cause specifiche e quelle che, eventualmente, risultano da una dinamica interna. Ma come riconoscere l'esistenza di un attrattore caotico? Di che tipo di conoscenza disponiamo abitualmente? Molto spesso ignoriamo l'identità e il numero delle variabili che regolano il possibile attrattore. Non disponiamo in genere che di una serie temporale di misure basata su una sola variabile. Per esempio, nel caso della variazione climatica a lungo termine, i climatologi possono ricostruire una serie di valori della temperatura in una regione del globo. Abbiamo quindi a che fare con il problema inverro rispetto a quello che di solito si pone ai matematici. Si può dedurre dall'evoluzione generata da un sistema di equazioni l'evoluzione di una delle sue variabili nel corso del tempo (si veda, per esempio, la fig. 6a). Qui si tratta di servirsi di una serie temporale di valori di una variabile come di una traccia, a partire dalla
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quale potremo imparare a decifrare il tipo di meccanismo evolutivo di cui questa serie è l'eventuale risultato. Riconoscere un attrattore puntuale a partire da una tale serie non presenta alcuna difficoltà: la serie evolverà verso un valore determinato che si manterrà in seguito costante nel corso del tempo. Riconoscere un ciclo limite è altrettanto facile. In questo caso, la serie assumerà un andamento periodico agevolmente identificabile con i metodi classici. Ma una serie generata da un attrattore caotico di dimensione frattale non presenta alcuna periodicità di questo genere. Eppure, un tale attrat· tore può essere reperito, la sua dimensione frattale individuata, il numero minimale di variabili indipendenti, che esso implica, determinato, e può essere valutato il limite di prevedibilità del comportamento caotico. Delineiamo qui, senza entrare nei dettagli matematici, il metodo proposto da Grassberger e Procaccia.' Noi disponiamo, dunque, di informazioni in merito a una sola variabile. I valori che questa variabile ::e ha assunto nel corso del tempo sono determinati dalle sue relazioni con alt_re variabili di cui ignoriamo non solo l'identità, ma il numero. Si sa che un'equazione a n variabili può essere generalmente riscritta come un'equazione ad una sola variabile ma di grado più elevato: il comportamento del sistema, allora, non è più determinato dai valori iniziali delle sue n variabili, ma dai valori iniziali della variabile e dalle sue n derivate successive. Evidentemente non disponiamo di questi valori iniziali e ignoriamo il valore di n, ma disponiamo invece di una serie temporale da cui estrarremo d serie parziali. Ognuna di queste serie parziali conterrà, come la serie originale, dei valori di ::e equidistanti nel tempo, ma ognuna avrà come punto di partenza quel valore in un istante iniziale spostato. Il valore iniziale delle diverse serie sarà dunque ::c0 , ::c., ::e,,, ••• x" _•~. Il metodo consiste nel ricercare il valore di d, d., per il quale queste serie cessano di essere indipendenti tra loro. li valore d, determina la dimensione n del sistema dinamico. Quanto all'attrattore, esso formerà un insieme (frattale o no) di dimensione inferiore a d,. Che cosa accade se il fenomeno è puramente aleatorio? Per quanto aumentiamo d, nessuna correlazione si stabilirà tra i valori delle serie parziali. La dimensione del sistema e quella dell'attrattore sono allora, per convenzione, infinite. Che dire, dunque, della variazione climatica che ha segnato la storia del nostro pianeta? G. e C. Nicolis hanno studiato la serie delle temperature che può essere inferita a partire dalla proporzione di ossigeno
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isotopico di sedimenti provenienti, in questo caso, dalla wna equatoriale del Pacifico. La loro analisi' permette di pensare che essa sia stata effettivnmente prodotta da un attrattore caotico, caratterizzato da una dimensione 3, l. Un tale attrattore è necessariamente immerso in uno spazio di almeno quattro dimensioni (quindi, qui, n = 4). In altri termini, questo risultato implica che un sistema a quattro variabili indipendenti potrebbe essere sufficiente per spiegare la storia •caotica» del clima terrestre. Questo risultato apre delle prospettive inattese. La variazione di temperatura, in effetti, può essere interpretata come il risultato di un grandissimo numero di variabili, che vanno dalla salinità dell'acqua alle macchie solari, alle eruzioni vulcaniche ecc., ognuna delle centinaia di variabili di questo genere essendo sottoposta a una distribuzione statistica. Ecco che ora l'analisi di Nicolis indica che quattro variabili indipendenti potrebbero bastare a definire le variazioni di lungo periodo del clima terrestre! Sono anche state studiate delle serie di dati ricavaci da misurazioni dell'attività cerebrale, effettuate con l'elettroencefalogramma.' Nello stato di sonno profondo, l'attività del cervello avrebbe i tratti del caos deterministico e sarebbe caratterizzata da un attrattore frattale a cinque variabili indipendenti. Nello stato di veglia, invece, non può essere reperito alcun attrattore: allorché partecipa a un regime di esistenza aperto all'ambiente, l'attività cerebrale sembra non poter più essere rappresentata come un sistema dinamicamente auto-prodotto. Infine, nel caso di crisi epilettiche, può essere di nuovo reperito un attrattore frattale, ma in uno spazio che potrebbe essere definito da due sole variabili indipendenti! L'epilessia, lungi dall'essere assimilabile a un comportamento irregolare, si caratterizzerebbe invece per una •regolarità• troppo grande dell'attività cerebrale... Il• disordine mentale•, da questo punto di vista, apparirebbe come la situazione fisiologicamente normale. Si può ammirare come l'analisi matematica si avvicini alle meditazioni di Valéry: il cervello è l'instabilità stessa, e forse non si tratta di un caso, ma di un'espressione del ruolo che l'evoluzione biologica ha conferito a questo •organo•, che è quello della nostra più intensa sensibilità verso noi stessi e il nostro ambiente. Evidentemente, il valore dell'analisi dipende dal fatto che la variabile misurata conserva la sua identità nel corso del tempo e che il campione di misura resta invariante. È per questo motivo che l'analisi delle serie dei dati economici, per esempio, pone problemi complicatissimi.'
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Ma il problema di sapere se i ritmi dell'economia possono essere chiariti con la nozione di caos deterministico, se quelle che noi viviamo come cc crisi" economiche esogene non vengano prodotte autonomamente da un sistema complesso altamente instabile, è oggi al centro delle ricerche condotte dagli economisti. Lo studio degli attrattori illustra la grandissima varietà dei sistemi dissipativi. Molto spesso, coesistono tipi differenti di sistemi. È senz'altro così nel caso degli esseri viventi. I grandi meccanismi di regolazione metabolica non sono evidentemente caratterizzati da un comportamento caotico: sappiamo del resto che alcuni di essi corrispondono a un regime di attività del tipo ciclo limite. Ma altri aspetti dell'attività di un organismo vivente sono estremamente imprevedibili. Possiamo quindi riconoscere, in un medesimo essere vivente, il tipo di contrasto che ha portato da molto tempo alla distinzione tra il mondo celeste - oggi noi possiamo prevedere la posizione che avrà la Terra fra cinque milioni di anni - e il mondo sublunare, sede dei fenomeni meteorologici ancora difficili da prevedersi oltre quindici giorni. Veniamo ora a un interrogativo ancora più ambizioso. Fin qui abbiamo esplorato le molteplici ricchezze del mondo lontano dall'equilibrio, ma le nostre domande si sono limitate al tipo di problemi più familiare per i fisici: dato un sistema, di che cosa esso è capace? Perciò non abbiamo ancora affrontato la grande differenza tra i fenomeni idrodinamici, come l'instabilità di Bénard (si veda il cap. 3), e i processi chimici. I primi scompaiono quando scompare il vincolo del non-equilibrio. Ma i processi chimici sono creatori di nuove strutture materiali che costituiscono in qualche modo le tracce e le testimonianze delle condizioni della loro stessa formazione. L'irreversibilità, qui, non si limita a conferire alla materia un comportamento transitorio o fugace, ma è suscettibile di inscriversi in questa materia. Consideriamo anzitutto l'esempio dei fiocchi di neve. Se un fiocco è costituito da cristalli molto regolari, sferici, possiamo dedurne che esso si è formato vicino all'equilibrio. Se, al contrario, i suoi cristalli presentano una struttura a rami ben sviluppati, si è formato lontano dall'equilibrio: la crescita è stata molto rapida, le molecole non hanno avuto il tempo di spandersi regolarmente sulla superficie. Allo studio del cristallo ideale oggi si sostituisce quello dei cristalli concreti, ognuno dei quali costituisce, con la sua struttura singolare (imperfezioni, sconnessioni ecc.), una memoria del cammino intrapreso al momento della sua
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CAPITOLO QUARTO
formazione. Possono così essere create nuove proprietà elettriche, magnetiche, meccaniche, ottiche, che non rinviano ad una definizione generale del materiale, ma alla sua storia. Ma è l'attività chimica che dà all'irreversibilità tutta la sua potenza creatrice di strutture. Le molecole non incorporano solo il segno delle condizioni irreversibili della loro formazione, ma devono a questa irreversibilità la loro stessa esistenza. Alcune possono formarsi solo in un ambiente allontanato dall'equilibrio. Lo sanno bene i chimici, che giocano da sempre sulle condizioni di reazione per creare delle nuove molecole. La chimica «crea il suo oggetto•, diceva il chimico Berthelot, e questa creazione, a sua volta, suscita nuovi interrogativi. Di quali nuove storie possono essere capaci queste creature dell'irreversibilità? Evidentemente qui si profila l'enigmatico problema dell'origine della vita. Possiamo considerare l'iscrizione dell'irreversibilità all'interno della materia come un elemento di spiegazione di quella mutazione radicale costituita dall'apparizione dei viventi? Le biomolecole attuali sono tanto le attrici quanto i prodotti dell'attività metabolica dissipativa che esse creano e al tempo stesso implicano. Ma che ne è delle antenate di queste biomolecole? Come spiegare il fatto che si siano potute creare in numero sufficientemente grande perché potesse aver inizio il nuovo tipo di storia al quale le loro discendenti ormai partecipano? Come spiegare la transizione da una storia di tipo «chimico•, in cui si sintetizzano delle molecole individuali, a una storia • biologica•, in cui queste diverse sintesi divengono interdipendenti, in cui le molecole non sono più soltanto delle strutture complesse particolari, ma degli attori la cui esistenza rinvia ali' attività di altri attori e la cui attività è necessaria ali' esistenza di questi? Come passare dall'idea di «condizioni generali di sintesi•, del tipo di quelle che i chimici manipolano, a quella di «informazione•, a quella del «messaggio• che una molecola rappresenta per altre molecole? In che modo biomolecole differenti hanno assunto un senso le une rispetto alle altre? Alcuni' oggi pensano che la vita sarebbe apparsa intorno alle sorgenti calde sottomarine che proliferano lungo le dorsali attive. L'acqua ricca di metalli, che scaturisce da queste sorgenti con una pressione di circa 275 atmosfere, può raggiungere 350 °C ed entra in contatto con l'acqua molto fredda dell'oceano: si tratta dunque di una situazione di intenso non-equilibrio, unica nel suo genere sulla Terra. Forse le sorgenti calde che nascono e muoiono lungo le dorsali sono state il luogo
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di molteplici •esperimenti•, e forse uno dei camini idrotermali fossili, dimenticato da qualche parte lungo una dorsale, è il sito deserto in cui è nata la vita? Se il cammino preso dalla storia della vita ha avuto come origine il ribollimento delle acque opache scaturite dalle bocche idrotermali, si patrebbe veramente dire: all'inizio era l'attività. L'attività chimica intensa, produttrice di molecole complesse e diverse, concentrate intorno a fratture della crosta terrestre, in cui la Terra stessa è in divenire, alimentata dall'enorme produzione di entropia che accompagna questo divenire. La vita, figlia della Terra prima di essere figlia del Sole? Ma si pongono allora altre domande. Possiamo caratterizzare il tipo di molecole al quale sono potute appartenere le antenate delle nostre biomolecole, quelle prime molecole complesse che •presero senso• le une rispetto alle altre? Detto in modo più preciso: possiamo immaginare un meccanismo di reazione in grado di sintetizzare un tipo di molecole capaci di divenire •portatrici di informazione•, capaci, come sono le nostre biomolecole attuali, di giocare un ruolo specifico in altre reazioni? L'irreversibilità, come abbiamo detto, si inscrive nella materia. Come può inscriversi in modo tale che le strutture che essa crea siano capaci di divenire attrici di un'altra storia? Può tornare utile a questo punto la teoria dell'informazione, nella misura in cui essa si propone di definire con una misura quantitativa il contenuto d'informazione di una sequenza formata - come le biomolecole attuali, ma anche come i nostri testi, i nostri spartiti musicali ecc. - da un determinato «alfabeto•. La definizione più classica dell'informazione è dovuta a Shannon.' 0 Secondo questa teoria, l'informazione misurerebbe la •sorpresa• che noi manifestiamo alla scoperta di ogni lettera di una sequenza. L'informazione più ricca corrisponderebbe così a una sequenza perfettamente aleatoria, in cui la lettura dei primi 99 •caratteri• non aiuta affatto a prevedere il centesimo. Questa nozione rinvia ai testi che comporrebbe la celebre scimmia dattilografa immaginata da Bore) nell'ipotesi, poco credibile, in cui essa battesse veramente in modo puramente aleatorio sulla sua macchina. Chi avrebbe la pazienza di leggere ognuno dei a testi• prodott i dalla scimmia dattilografa di Borel, alla ricerca di quello che •abbia senso• o annunci la possibilità di un senso? Ognuno di essi sarebbe un evento unico, diverso da tutti gli altri! In uno potrebbe figurare, casualmente, una sequenza di parole dotate di senso, ma questa sequenza non esiste0
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WITOLO QUARTO
rebbe più nella prova successiva. Come non chiarisce la questione di sapere che cos'è un testo - che non ha nulla di una sequenza puramente aleatoria, perché è condizionato da diversi tipi di regole e presenta caratteristiche regolarità statistiche - la definizione dell'informazione data da Shannon non SP.iega la questione dell'identità delle prime • biomolecole,. A priori sono possibili 20 100 sequenze proteiche di cento amminoacidi, se ognuno dei 20 tipi di amminoacidi ha un'uguale possibilità di occupare ognuna delle 100 posizioni. Nel senso di Shannon, ciò vuol dire che ognuna delle 20 100 sequenze ha un contenuto di informazione molto alto, ma come concepire che, in un'infinita diversità di questo genere, alcune sequenze abbiano potuto assumere un senso? Se il meccanismo originario di formazione delle prime biomolecole avesse avuto il carattere aleatorio dell'attività della scimmia di Bore(, la storia di cui cerchiamo di comprendere l'origine sarebbe rinviata al puro e incomprensibile caso. La sintesi di ogni sequenza particolare costituirebbe un evento unico, sostanzialmente non riproducibile. Perché una sequenza o una famiglia di sequenze abbia una possibilità di emergere dall'insieme indifferenziato dei possibili, di singolarizzarsi con proprietà • interessanti• in questa o quella situazione, sembra necessario ridurre l'insieme dei possibili; cioè aumentare la probabilità di formazione di ognuno di essi. Come • programmare• allora la scimmia dattilografa perché segua cene regole e non batta a caso? Se potessimo determinare a priori quello che vogliamo, quella che è una •proprietà interessante•, potremmo rivolgerci alla teoria algoritmica dell'informazione proposta da Chaitin e Kolmogorov: 11 la misura dell'informazione sarebbe allora la lunghezza del programma che occorrerebbe dare a un calcolatore - o alla scimmia di Borel - perché sia capace di realizzare la struttura che desideriamo. Una tale definizione ha il difetto di presupporre che si possa stabilire a priori ciò che è indispensabile in un messaggio. Sicuramente ciò awiene in matematica. Per tutt'altra ragione, questo è anche il caso dell'opera di Shakespeare o dei quartetti di Beethoven: qui l'inf9rmazione ha come unica misura l'opera stessa; nessun programma più breve di quell'opera permetterebbe in effetti di riprodurla, ma solo di mutilarla o di negarla. In linea generale, però, la misura dell'informazione, così come la propongono Kolmogorov e Chaitin, è limitata dal fatto che essa rinvia implicitamente alla finalità di ciò che al calcolatore si chiede di riprodurre. La loro definizione, dunque, non è neutrale, ma presuppone un conte-
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sto operazionale in cui i significati e i rapponi tra fini e mezzi sono fissati a priori. Essa implica quindi che la storia di cui tentiamo di comprendere la nascita esiste già, ponatrice della distinzione tra ciò che è semplice rumore e ciò che è peninente. Come caratterizzare delle sequenze di unità dementari che non siano puramente aleatorie, né ripetitive, e che dunque potrebbero costituire l'insieme abbastanza vario e al tempo stesso abbastanza stabile al cui interno si sono potuti riconoscere i primi attori della storia della vita? Come insegnare alla scimmia dattilografa a ridurre le possibilità senza far entrare in gioco una finalità che presupponga la storia di cui cerchiamo di comprendere l'origine? In che modo l'attività dissipativa potrebbe «codificare• nella materia un messaggio che, per riprendere la bella espressione di Henri Adan, non sia né cristallo né fumo? Di fatto, noi conosciamo un modo di ridurre la diversità senza tuttavia annullarla. Quelle che si definiscono le •catene di Markov, non risultano da un processo puramente aleatorio, né da un algoritmo deterministico. Nel primo caso, la conoscenza dell'inizio della sequenza lascia il suo seguito perfettamente indeterminato; nel secondo, esso dovrebbe permettere di predirlo. Nel caso della catena di Markov, ognuno dei termini che possono seguire un termine o una sequenza di termini dati è caratterizzato da una probabilità. Le probabilità di passaggio sono d1mque delle condizioni che strutturano la sequenza e riducono, senza annullarla, la • sorpresa• sulla quale insisteva Shannon. Possiamo immaginare un meccanismo • naturale• di produzione di una tale catena? È il problema al quale Nicolis e Subba Rao" hanno fornito un contributo interessante. Il modello proposto presuppone un meccanismo di reazione nel corso del quale tre monomeri, X, Y e Z, si trasformano l'uno nell'altro. X, Y e Z sono, d'altra pane, suscettibili di aggregarsi ad una catena polimerica in formazione. Facciamo l'ipotesi che questo meccanismo di polimerizzazione introduca un elemento discreto: ogni volta che la concentrazione di X supera una determinata soglia, un monomero X si aggiunge alla catena. Lo stesso vale per Y e Z. La formazione della catena costi. tuisce, dunque, una specie di memoria che registra ciò che contemporaneamente essa definisce come «evento• modificante l'ambiente di reazione. Immaginiamo innanzitutto che la reazione tra X, Y e Z avvenga vicino all'equilibrio, cioè che il superamento delle soglie dipenda dalle fluttua-
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CAPITOLO QUi\RTO
zionì disordinate, non correlate, che modificano lo stato stazionario. In questo caso, ogni anello del polimero ha uguali possibilità dì essere occupato da ognuno dei tre, come ogni lancio di una moneta (ideale) ha uguali possibilità di cadere su ognuna delle sue due facce: si tratta di una catena corrispondente alla definizione shannoniana della massima informazione. Sì può facilmente immaginare anche un'altra situazione. Supponiamo che X, Y e Z partecipino a una reazione chimica oscillante, del tipo «orologio chimico•. In questo caso, la catena formata presenterà una regolarità periodica dd tipo XY2XY2XY2. L'esame di una tale sequenza ci indicherà che essa è stata formata in condizioni di non-equilibrio, al dì là di una biforcazione che porta a un orologio chimico. Ma, come la precedente, una tale molecola non può essere considerata un modello di bìomolecola. Questa volta la diversità è troppo piccola. L'informazione non è «incompressibile•; nel senso di Kolmogorov-Chaitin, essa sì riduce all'istruzione: prendete n volte la sequenza XY2 (o un'altra sequenza). Come ottenere una sequenza che non sia puramente aleatoria, né ripetitiva, una sequenza che abbia il tipo dì riproducibilità statistica che cararterizza le catene di Markov? Il caos deterministico corrisponde a una tale situazione intermedia tra la pura alea e l'ordine ridondante. D carattere erratico - ma non puramente aleatorio - dell'attività dissipativa generata da un attrattore caotico può effettivamente inscriversi nella materia sotto forma di vincoli probabilistici che caratterizzano le catene di Markov. Nicolis e Subba Rao hanno mostrato che, se la produzione di X, Y e Z è legata a una reazione chimica caratterizzata da un attrattore caotico (in questo caso, il modello di Rossler "), la sequenza prodotta avrà i tre caratteri generali delle catene di Markov, e che ci si può attendere da un qualunque testo, compreso il •testo• costituito dalle biomolecole che conosciamo oggi: non-ripetitività, esistenza di correlazioni a lunga portata, rottura dì simmetria spaziale, cioè distinzione di un senso di lettura del testo nel quale queste correlazioni sono visibili. In effetti, la sequenza dì quasi IO 000 unità, ottenuta per simulazione, può essere riscritta utilizzando tre ipersìmboli corrispondenti rispettivamente a ZYX, ZXYX e ZX, e ciò implica che essa esclude cene sottosequenze come la doppia XX o la tripla YXY. D'altra pane, questa sequenza si avvicina a una catena di Markov dì quinto ordine: data una
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quintupla, o sequenza di cinque lettere, ·l'identità della sesta ha una probabilità ben determinata. Tra le probabilità condizionali che definiscono la comparsa di una lettera, essendo date le cinque precedenti, all'incirca la metà si rivelano uguali a uno. La catena così ottenuta è non ripetitiva ma, a priori, estremamente improbabile; così, tra tutte le sequenze di sette lettere che possono a priori esser formate (3' sequenze, cioè 21 8 7), solo 21 sono effettivamente realizzate dalla dinamica caotica. È difficile evitare il paragone tra i vincoli statistici prodotti dall'unione di una dinamica caotica con delle soglie discrete, e l'insieme delle• regole grammaticali• che costituisce la differenza tra una sequenza battuta in modo casuale dalla scimmia di Borel e un testo vero e proprio. Questo modello molto schematico mostra che l'irreversibilità del1' attività dissipativa può inscriversi nella materia e determinarvi la creazione di un esistente veramente nuovo: una sequenza in cui è rotta la simmetria spaziale, una sequenza che acquista un senso intrinsecamente diverso, indipendentemente dal suo contenuto preciso, se un lettore Io legge cominciando dall'•inizio• oppure dalla •fine•. Il fatto che qui si possa quasi parlare di •genesi fisico-chimica• dell'informazione non significa certo una riduzione della storia alle leggi fisico-chimiche, ma esprime, al contrario, la ricchezza irriducibile delle relazioni tra processi, eventi e circostanze che acquistano senso lontano dall'equilibrio. Giunti a questo stadio, infatti, iniziano i veri problemi. Le molecole •markoviane• non spiegano la storia, ma solo il •terreno• sul quale essa è potuta nascere. Per chi avrà senso !'«informazione• di cui l'attività caotica irreversibile ha potuto essere la fonte? Quale ruolo giocheranno queste nuove molecole, e in che modo tale ruolo avrà un effetto retroattivo sulla loro fonte? Si intravede qui la necessità di un nuovo tipo di narrazione, ossia di cambiare tipo di storia. Evidentemente siamo solo ai primi passi. Quello che si va aprendo è un nuovo capitolo della storia della chimica. Fino alla fine del secolo xvm, la chimica è stata una •scienza della natura• per eccellenza. Il laboratorio era lo scenario chiuso in cui il chimico tentava di riprodurre, di modificare, di accelerare i processi che si producono nel «laboratorio• della natura. Forse Io studio di ciò che la materia può fare quando coesistono meccanismi di interazione non lineari e vincoli di nonequilibrio, ci porterà a ritrovare Io stupore dei primi chimici, a far riemergere l'antica immagine della chimica, scienza del divenire della materia.
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CAPITOLO QUARTO
Fin qui abbiamo dedicato la nostra esplorazione alla scoperta dei sistemi dissipativi. In questo campo il cammino percorso è stato spettacolare. Ancora non molto tempo fa, la nozione di stato di equilibrio orientava a tal punto i nostri giudizi che l'attività dissipativa era venuta a identificarsi con una evoluzione verso l'uniformità. Certo, in particolare con il teorema di produzione di entropia minima, il non-equilibrio era divenuto oggetto di scienza, ma ormai comprendiamo meglio i limiti di validità di quel teorema: esso risulta dal fatto che, vicino ali' equilibrio, le leggi di evoluzione sono lineari. La situazione è diversa in condizioni lontane dall'equilibrio, e attualmente stiamo imparando a conoscere il ruolo essenziale delle non-linearità, sia nella produzione della sorprendente coerenza di alcune strutture dissipative, sia nel comportamento erratico, altrettanto sorprendente, dei regimi di attività caotica. Lontano dall'equilibrio non si possono più comprendere i processi a partire da stati in cui in media i loro effetti si compensano. Essi si articolano in intrecci singolari, sensibili alle circostanze, suscettibili di mutamenti qualitativi, intrecci che permettono di dare un senso a un'idea un tempo inconcepibile: spiegare la novità senza ridurla a un'apparenza. La termodinamica classica aveva potuto estendersi ai campi vitini all'equilibrio, ma ha dovuto trasformarsi radicalmente per entrare nel nuovo mondo dei processi non lineari lontani dall'equilibrio. Altre scienze hanno conosciuto, nel corso di questi ultimi anni, un mutamento simile. Nei capitoli seguenti mostreremo come la dinamica, la meccanica quantistica e la stessa cosmologia, anch'esse dominate per lungo tempo da un ideale statico di conoscenza, scoprano oggi nuovi percorsi che le conducono al problema del divenire.
CAPITOLO 5 Il messaggio dell'entropia
Nelle prime pagine di questo saggio abbiamo evocato due nomi, quelli di Boltzmann e di Bergson. Abbiamo ricordato la lotta che Boltzmann condusse per integrare il secondo principio della termodinamica nella fisica classica, e l'esito di questa lotta. Costretto a riconoscere I' incompatibilità radicale tra l'evoluzione irreversibile della termodinamica e le leggi reversibili della dinamica, Boltzmann fece la scelta della fedeltà alla dinamica, e definì le evoluzioni vietate dal secondo principio non impossibili, ma solo improbabili. Bergson ratificò questo scacco. La fisica - egli affermò - è fatta per negare il tempo, per ridurre il divenire alla ripetizione dello cc stesso•. Sconfitta drammatica per l'uno, punto di partenza di una costruzione metafisica per l'altro, il fisico e il filosofo si incontravano in un punto: tutti e due pensavano che il giudizio che essi decifravano nella fisica della loro epoca fosse definitivo, che il modello conoscitivo proposto dalla dinamica classica si sarebbe mantenuto senza incrinature. li futuro immediato sembrò dar loro ragione poiché, come abbiamo già detto, tanto la relatività che la meccanica quantistica hanno prolungato la negazione del tempo nata dalla dinamica classica. Tuttavia, ascoltiamo la solenne dichiarazione pronunciata poco tempo fa da sir James Lighthill, allora presidente della Internatistammto di Bernoulli. Al fine di spiegare questa nozione, cominciamo coll'esprimere in fonna binaria il valore, compreso tra O e I, delle due coordinate che definiscono ogni punto dello spazio delle fasi nella trasformazione del fornaio. Ogni coordinata sarà allora rappresentata da una serie di •decimali• (questo termine evidentemente è improprio), il cui valore è O o I. Consideriamo tutti i punti la cui coordinata orizzontale si esprime nella forma binaria con un numero che comincia con 0,01. Il valore O del primo decimale implica che questi punti appartengono alla metà sinistra del quadrato (coordinate comprese tra O e 0,5). Il valore I del secondo decimale implica che essi appartengono alla metà destra di quella prima metà (coordinate comprese tra 0,25 e 0,5). Vediamo ora (fig. 11) l'effetto della trasformazione del fornaio sull'insieme dei punti definiti da questa coordinata. Tutti questi punti si troveranno riuniti nel quarto inferiore destro dello spazio delle fasi. Questo nuovo insieme di punti è definito dal valore O, I della loro coordinata orizwntale (essendo i decimali successivi indeterminati), ma anche dal valore 0,0 della loro coordinata verticale. È facile verificare che, se fossimo partiti da punti definiti da una coordinata orizzontale di valore O, 11, l'insieme trasformato sarebbe stato definito da un valore O, I della coordinata verticale.
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utPITOLO QUINTO
In altri termini, il primo decimale della coordinata orizzontale (dilatante) è divenuto il primo decimale della coordinata verticale (contraente). La fig. 12 mostr.i l'effetto della trasformazione del fornaio sull'insieme dei punti definiti da un valore della loro coordinata verticale (contraente) uguale a 0,0 I. Questa volta la trasformazione produce due insiemi corrispondenti rispettivamente a una coordinata verticale di valore 0,00 l e a un'altra di valore O, 101. Per ogni punto, il valore del primo decimale della nuova coordinata contraente corrisponde a quello che aveva il primo decimale della coordinata dilatante. Rappresentiamo ora ogni punto con la doppia serie dei decimali delle sue due coordinate messi capovolti: ... u_, u_, u_, u0 u, u 1 u, ... (u 0 rappresenta il primo dei decimali della coordinata dilatante, che corrisponde agli indici negativi). Il lettore potrà verificare da semplici esempi, come quelli che precedono, che ogni trasformazione del fornaio può essere rappresentata con un semplice spostamento degli indici della serie: i decimali •dilatanti• risalgono di un grado (il secondo.diventa il primo), mentre i decimali •contraenti• discendono di un grado (il primo diventa il secondo). Dopo una trasformazione, un decimale u. della nuova serie ha dunque il valore del decimale u•• , della serie di partenza. Comprendiamo ora l'origine del termine •spostamento di Bernoulli». I lavori di Bernoulli avevano per oggetto i giochi d'azzardo, e in particolare il gioco del testa o croce, in cui ogni esperienza può avere due esiti di uguale probabilità. Ognuno di questi esiti è definito come indipendente dagli altri. Qui, ugualmente, i decimali u. possono avere, con una probabilità uguale, due valori, e il valore di ogni decimale è indipendente da tutti gli altri, come se esso fosse ottenuto con un gioco di testa o croce.
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Figura 12 T rasfonnazione ddla regione dcfmita dal valore 0,0 I della coordinata contraente.
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La trasformazione del fornaio, rappresentata in termini di «spostamento di Bernoulli•, ci offre un esempio immediato di quel miscuglio intimo di traiettorie qualitativamente diverse al quale abbiamo fatto riferimento a proposito del lancio di _una moneta. Ovunque nello spazio delle fasi si trovano dei punti le cui coordinate corrispondono in rappresentazione binaria ad una serie periodica di O e di I (è il caso dei numeri riuionali). Questi punti genereranno delle traiettorie periodiche. Gli altri punti, che corrispondono a serie non periodiche, genereranno delle traiettorie «ergodiche• che «ricopriranno• la totalità dello spazio delle fasi. Le traiettorie periodiche sono dunque l'eccezione, così come i numeri razionali. Ma la trasformazione del fornaio, così rappresentata, ci mostra anche in modo immediato perché, nel caso dei sistemi caotici, di cui essa fornisce un esempio, le nozioni di punco e di traiettoria deterministica e reversibile corrispondano a una idealizzazilTTll 11IT1I legittima: per sapere con che tipo di traiettoria abbiamo a che fare, dovremmo descrivere il nostro sistema con una precisione infinita, corrispondente a un numero infinito di decimali. I fisici non possono• darsi• un punto, essi devono tener conto, nelle loro descrizioni, del fatto che possono conoscere i loro sistemi solo per osservazione o preparazione. Pertanto non definiranno mai un sistema con un punto, ma con una regi= dello spazio delle fasi, e dunque con una serie u_0 ••• u_, u0 u, ... u•• caratterizzata da un numero finito n di decimali. Il valore di n esprime l'ampiezza della finestra che abbiamo sul mondo. Prendiamo dunque la serie u_ • ... u_, u0 u, ... u. di cui conosciamo solo una finestra corrispondente a un valore n finito. Al momento della prima trasformazione, i• decimali• più importanti sono evidentemente i decimali u0 e u_,, che nella trasformazione successiva sono chiamati a divenire i primi ·decimali di ognuna delle due coordinate. Ma, da questa prima trasformazione, il decimale sconosciuto u_ 0 _ 1 è venuto ad occupare la posizione u_ •. Delle due l'una: o ammettiamo che la nostra finestra si restringe, cioè che la nostra descrizione perda di precisione, oppure dobbiamo far intervenire, da questo stadio in poi, le probabilità: la trasformazione può avere due esiti possibili, ugualmente probabili. Nella trasformazione successiva, la precisione della nostra descrizione sarà ancora ridotta, oppure avremo quattro possibili equiprobabili. E
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così di seguito, dal momento che dei decimali di valore sconosciuto risalgono verso u0 • Quando un decimale sconosciuto sarà finalmente risalito fino alla posizione u0 , il sistema avrà altrettante possibilità di essere rappresentato da una qualunque coordinata dilatante. Dopo 2 n + I trasformazioni, esso, con un'uguale probabilità, si troverà ovunque nello spazio delle fasi. Questa volta, l'informazione iniziale sarà completamente scomparsa. Questa situazione ricorda stranamente quella che prevale nello studio dei fenomeni meteorologici: dettagli insignificanti che sfuggono ali' osservazione, possono in un futuro più o meno lontano giocare un ruolo significativo. In entrambi i casi, e a differenza del movimento della Terra intorno al Sole, che possiamo prevedere per milioni di anni, ritroviamo un limite intrinseco alla previsione: ciò che oggi è nascosto nel rumore di fondo delle nostre osservazioni, domani potrebbe rivelarsi un elemento in grado di giocare un ruolo cruciale. Certamente il tempo meteorologico non ha la regolarità dello spostamento di Bernoulli: nel suo caso non possiamo neanche definire il tipo di informazione che sfugge alla nostra «finestra• - può essere il battito di un'ala di farfalla in qualche parte del bacino amazzonico, o lo starnuto di un abitante del Madagascar. Già nel 1927 Heisenberg aveva fatto rilevare che il problema posto dalla legge di causalità (alla base del determinismo) non è tanto quello dell'esistenza di una legge a partire dalla quale il futuro potrebbe essere determinato muovendo dal presente, quanto la sua premessa, la definizione stessa di questo •presente•. Questa osservazione acquista qui tutto il suo significato: la «legge• di evoluzione del fornaio è di una semplicità estrema, ma essa implica, per essere legge di una traiettoria individuale, un modo di definire il presence privo di senso fisico. Il determinismo, come ha ricordato Lighthill, esprimeva le certezze dei discendenti di Newton, Laplace e Lagrange, a giusto titolo fieri della scienza di cui erano gli eredi. Oggi il senso del nostro sapere è mutato. Possiamo ricordare il protagonista del Nome della rosa di Umberto Eco, Guglielmo da Baskerville, per il quale decifrare il mondo ha qualcosa in comune con la storia poliziesca: un gioco intellettuale nel quale non abbiamo mai la totalità degli elementi, ma solo degli indizi. Fin qui abbiamo sottolineato soprattutto le valenze negative del caos dinamico, la necessità, da esso implicata, di abbandonare le nozioni di traiettoria e di determinismo. Ma lo studio dei sistemi caotici è anche
Il MESSAGGIO DEU'ENTROPU
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un'apertura, esso crea la necessità di costruire nuovi concetti, nuovi linguaggi teorici (si veda l'appendice I). Il linguaggio classico della dinamica implica le nozioni di punto e di traiettoria e, finora, noi stessi vi abbiamo fatto ricorso nel momento stesso in cui mostravamo l'idealizzazione - in questo caso, non legittima - da cui esse derivano. Il problema è ora quello di trasformare questo linguaggio, in modo che esso includa in maniera rigorosa e coerente le limitazioni che abbiamo or ora riconosciuto. In effetti, non è sufficiente esprimere il carattere finito della definizione di un sistema dinamico descrivendo lo stato iniziale di questo sistema con una regione dello spazio delle fasi, e non con un punto: perché una tale regione, sottoposta all'evoluzione definita dalla dinamica classica, per quanto si frammenti nel corso del tempo, CD11Serverà il suo volume nello spazio delle fasi. È ciò che esprime un teorema generale della dinamica, il teorema di Liouville. Tutti i tentativi di costruire una funzione entropia che descriva l'evoluzione di un insieme di traiet• torie nello spazio delle fasi si sono scontrati col teorema di Liouville, col fatto che l'evoluzione di un tale insieme non può essere descritta da una funzione che cresca nel corso del tempo.' Ora, un argomento semplice permette di mostrare l'incompatibilità, nel caso di un sistema caotico come quello che è definito dalla trasformazione del fornaio, tra il teorema di Liouville e la limitazione secondo la quale ogni descrizione corrisponde a una «finestra•. L'esistenza di questa finestra determina il • potere di risoluzione• delle nostre descrizioni: vi sarà sempre una distanza r tale che noi non potremo distinguere tra loro due punti vicini l'uno all'altro più di r nella direzione verticale. Seguiamo ora l'evoluzione di una regione dello spazio delle fasi contenente tutti i punti rappresentativi del sistema. Di trasformazione in trasformazione, questa regione si contrarrà nella dimensione verticale, ma quando avrà raggiunto il valore minimale r, non potremo più seguire la sua contrazione e dovremo definirla come costante (fig. I 3). Mentre il teorema di Liouville ha definito la superficie di questa regione come costante nel corso del tempo, essa coprirà la totalità dello spazio delle fasi. Non basta, dunque, abbandonare la rappresentazione di un sistema dinamico mediante un punto nello spazio delle fasi. Occorre costruire un nuovo linguaggio, una nuova definizione dello stato di un sistema dinamico e della sua evoluzione, che non presupponga più la nozione
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