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Italian Pages 106 [120] Year 2019
IL TEMPO NUOVO DELLA TRADIZIONE Confronti tra conservazione e innovazione
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Achille BONITO OLIVA Giovanni CARBONARA Gianmarco DE FELICE
a cura di
Federica Ribera
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Il tempo nuovo della tradizione Documento acquistato da () il 2023/04/27.
Confronti tra conservazione e innovazione Achille BONITO OLIVA Giovanni CARBONARA Gianmarco DE FELICE a cura di
Federica Ribera
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Questo volume è stato stampato con il contributo dei fondi per le iniziative culturali dell’Università degli Studi di Salerno, anno 2018.
Comitato scientifico: Maurizio Angelillo, Università degli Studi di Salerno Gennaro Miccio, Segretariato Regionale del Piemonte per il MiBAC Federica Ribera, Università degli Studi di Salerno Enrico Sicignano, Università degli Studi di Salerno
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Comitato di redazione: Pasquale Cucco, Rossella Del Regno L’occasione per la composizione di questo volume è stata offerta della giornata di studi “Il tempo nuovo della tradizione”, tenutasi il 16 maggio 2018, presso il Dipartimento di Ingegneria Civile dell’Università degli Studi di Salerno.
Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 – I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2019 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Marzo 2019 Ribera, Federica (a cura di) : Il tempo nuovo della tradizione. Confronti tra conservazione e innovazione/ Federica Ribera (a cura di) Napoli : Liguori, 2019 ISBN 978 – 88 – 207 – 6823 – 2 (a stampa) eISBN 978 – 88 – 207 – 6824 – 9 (eBook) 1. Beni culturali 2. Sicurezza I. Titolo II. Collana III. Serie Aggiornementi: 27 26 25 24 23 22 21 20 19 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
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INDICE
VII Prefazione. Arte, Architettura, Struttura Federica Ribera
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1 Brevi righe. La tradizione è un’avventura Pasquale Cucco 5 Saluti Aurelio Tommasetti 7 Apertura dei lavori Vincenzo Piluso 9 Introduzione Enrico Sicignano 15 Indicazioni di metodo Gennaro Miccio 17 Il tempo nuovo della tradizione Achille Bonito Oliva 21
Beni culturali e danni da terremoto: ricostruire in sicurezza ma secondo i principi del restauro Giovanni Carbonara 57 Monumenti e terremoti: fare o non fare? Gianmarco de Felice 81 Discussione e sintesi Gianvittorio Rizzano 95 Postfazione. Ingegneria delle strutture ed edifici antichi Maurizio Angelillo
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PREFAZIONE
Arte, Architettura, Struttura
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Federica Ribera
Ho il compito, gravoso e probabilmente immeritato, di aprire questo volume che raccoglie gli atti della giornata di studi incentrata sul tema dei moderni rapporti tra tradizione e innovazione, con gli interventi di autorevoli esponenti di tre discipline: arte, architettura e struttura. L’incontro si è svolto nell’ambito del corso di laurea in Ingegneria Edile-Architettura dell’Università degli Studi di Salerno, dinanzi, quindi, ad un’ampia platea di studenti, ai quali, ai giovani, va lasciato il testimone, va affidata loro la responsabilità del “tramandamento”, dando così vita alla storia. Con Achille Bonito Oliva, Giovanni Carbonara, Gianmarco de Felice e insieme agli studiosi che hanno qui offerto il loro contributo, il testo intende proporre riflessioni ideali e operative con l’obiettivo di individuare nel progetto di conservazione del patrimonio culturale la relazione che si instaura tra istanza storico-artistica, istanza strutturale e richieste della modernità. Attraverso la ricerca, l’intuizione e la sensibilità, questioni meramente tecniche, o ritenute tali, possono essere restituite come espressioni artistiche, senza svilire o ridurre a fini utilitaristici gli interventi volti a custodire la storia. I lavori di questa giornata di studi invitano a riflettere, nella prospettiva di una programmazione più organica e interdisciplinare fondata sulla collaborazione tra ars e techne, su come il patrimonio di conoscenze scientifiche e tecniche possa integrarsi con la cultura artistica e architettonica e ingenerare una consapevolezza capace di condizionare significativamente il processo progettuale, tanto nell’architettura del passato quanto in quella moderna e contemporanea. Ogni netta divisione del lavoro, di risorse e di capacità, produce risultati non coordinati e spesso imprevedibili, che portano a separare la figura professionale di architetto, di strutturista, di storico, di critico o di matematico, restituendo informazioni frammentate e parziali. È necessario, quindi, che i nostri corsi di laurea mirino alla formazione di figure complete le quali possiedano il background culturale umanisti-
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VIII Prefazione
co, che tradizionalmente caratterizza la formazione dell’architetto, con conoscenze più accurate nel settore delle scienze applicate, in particolare meccaniche, dalle quali trarre spunto per l’invenzione di nuove forme e linguaggi per intervenire sulle preesistenze. Figure professionali che dovranno, in definitiva, possedere gli strumenti necessari per la conoscenza e l’interpretazione critica delle opere architettoniche del passato, fortemente connotate dal punto di vista strutturale e della memoria storica. In Italia, la cultura dominante è orientata alla conservazione dei beni ospitati sul suo territorio, contrariamente ad approcci più drastici e pragmatici, diffusi soprattutto nelle regioni dell’Europa orientale, indirizzati a facili interventi di demolizione e ricostruzione. I recenti e sempre più violenti eventi calamitosi nel nostro Paese hanno portato all’attenzione della comunità scientifica, dei tecnici, della collettività e delle amministrazioni pubbliche, l’urgenza di ritrovare nuovi stimoli e strumenti che sappiano coniugare l’istanza storico-artistica con quelle della modernità e della sicurezza e siano in grado di instaurare un dialogo tra diversi, in una relazione dove la storia costituisca la base su cui si possa costruire il futuro, perché un futuro senza una base solida sarebbe un po’ meno futuro. L’arte moderna rivela l’andare dei tempi, l’abbreviarsi delle tappe, il balzo in avanti, l’elidersi dei periodi di transizione, imponendo ogni evento come inedito e nuovo. Allo stesso tempo, essa trae dalla tradizione stimolo e spunto ora di imitazione, ora di cesura, ora di protesta. L’errore risiede nell’asserire con fierezza l’incompatibilità fra tradizione e modernità, considerando la prima come dogma o mito e la seconda come opposizione radicale ed ideologica. Può essere possibile oggi scoprire/riscoprire il filo rosso che lega Antico e Nuovo e solletica l’immaginazione di critici e artisti? È chiaro che non si tratta di tipizzare la tradizione, ridurla ad aspetti formali e cronologici: Fidia, Giotto, Masaccio, Michelangelo, Caravaggio, Vanvitelli e molti altri ancora appartengono alla nostra esperienza storica, compongono e qualificano la tradizione. È quindi la vastità dei contenuti e delle forme che dà alla tradizione un valore universale. Tale vastità si riscontra chiaramente nella produzione architettonica di ogni secolo, nell’edilizia diffusa e in quella monumentale: residenze, insediamenti, musei, chiese, biblioteche, castelli, ville e palazzi, teatri, siti archeologici, ecc. Sono organismi edilizi caratterizzati da un’elevata vulnerabilità a fronte di rischi spesso imprevedibili, proprio per i diversi e specifici aspetti che contraddistinguono il patrimonio storico: irriproducibilità, per cui la salvaguardia del bene assume un’importanza quasi pari a quella della salvezza delle persone; eterogeneità e complessità, per via di tipologie e tecnologie
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Arte, Architettura e Struttura IX
costruttive estremamente diversificate che non conoscono soluzioni standard e precostituite; coralità, che rende ogni opera figlia ed espressione di intere epoche. Per Ludwig Mies van der Rohe «non sono le produzioni architettoniche che ci fanno sembrare le costruzioni del passato così ricche di significato, piuttosto il fatto che gli antichi templi, le basiliche romane e anche le cattedrali medievali non sono opere di una singola personalità, ma creazioni di un’intera epoca. In questo sta il loro significato più profondo. Solo così poterono divenire simboli del loro tempo». Simboli da conservare, tutelare e risanare affinché siano tramandati alle generazioni future e continuino a rappresentare segni e significati di intelligenze, arti e mestieri. L’ingegneria viene incontro alla storia attraverso le conquiste, le sperimentazioni e le scoperte sempre più orientate alla performance qualitativa, abbracciando le istanze artistiche e abbandonando, seppur gradualmente, la sua natura meramente tecnica e strumentale. Edoardo Benvenuto – fine studioso della Scienza delle Costruzioni e attento ai temi della difesa dell’ambiente e del recupero dei centri storici – nella prefazione al libro di Eduardo Torroja La concezione strutturale del 1995 così scriveva: «L’architettura riconosce l’esigenza vitale di parlare il linguaggio della tecnica contemporanea e al contempo la tecnica avverte la necessità di trascendere la propria natura strumentale inverandosi in un processo creativo di tipo artistico». Di fronte ad interventi di consolidamento invasivi operati ancora oggi sulle preesistenze, si comprende come i progettisti abbiano spesso focalizzato l’attenzione solo sulle verifiche numeriche, senza dedicare analoga attenzione alla natura delle fabbriche storiche, alla ricerca di risultati ottimali, valutati caso per caso, per non rischiare di stravolgere strutturalmente l’immobile storico. Si tratta di interventi progettati senza conoscere l’effettiva storia pregressa del fabbricato, il suo comportamento strutturale e le sue intrinseche potenzialità. Il moderno dibattito è orientato da una parte all’intervento pragmatico e tecnico sulle preesistenze storico-monumentali per adeguarle alle richieste della modernità, anche favorendo interventi invasivi, dall’altra alla difesa della materia e dell’immagine storica contro ogni gratuita operazione moderna. Tali posizioni sono reciprocamente impegnate a confrontarsi, nel tentativo di trovare un punto di equilibrio e una maggiore consapevolezza circa l’esigenza di calibrare il progetto in ragione di una compatibilità storica, materica, strutturale e urbana. Oggi vi è una tale maturità e conoscenza tecnica che è possibile conseguire il giusto compromesso per la tutela dei fabbricati e di tutti i valori che essa rappresenta.
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X Prefazione
Tuttavia, si tratta ancora di un tema delicato ed ampiamente dibattuto: non si può prescindere dall’esigenza di intervenire in modo coerente e consapevole sul comportamento strutturale degli immobili, per garantirne la sopravvivenza anche a successivi eventi che sicuramente si manifesteranno. Ma in che modo? A quale prezzo? A noi contemporanei non resta altro che capire come la concezione strutturale, la firmitas vitruviana, possa acquistare un ruolo determinante nel processo creativo fino ad integrarsi organicamente con le altre componenti del progetto di architettura e restauro. L’ideale di artifex sognato da Vitruvio, quella figura professionale che possedeva istruzione e conosceva la natura, la geometria, l’aritmetica, la musica, la pittura, la scultura, s’intendeva di filosofia e di astronomia, è destinato a riproporsi ancora oggi per governare ed indirizzare la genialità di coloro che si approcciano al progetto del passato con intuizione e sensibilità, esperienza personale e capacità d’interpretare i fenomeni fisici e i meccanismi di funzionamento delle strutture, attraverso il concepimento di nuove forme architettonico-strutturali e l’upgrade di quelle tradizionali. «La struttura è determinata da esigenze statiche e funzionali. […] Come sempre in tutta la mia opera progettistica ho constatato che i suggerimenti statici interpretati e definiti con paziente opera di ricerca e di proporzionamento sono le più efficaci fonti di ispirazione architettonica. Per me questa regola è assoluta e senza eccezioni», scriveva Pierluigi Nervi nel suo libro Costruire correttamente del 1965, elevando la pratica strutturale a indirizzo e ispirazione di forme, linguaggi e stili architettonici. I contributi contenuti in questo volume sono tutti orientati ad indagare le strette relazioni tra le conquiste della storia e le nuove istanze della modernità, in arte così come in architettura e nella tecnica, cercando di rispondere agli interrogativi sollevati in questa breve introduzione, con l’umiltà di rivolgersi alla Storia, Magistra vitae, come solida radice e trampolino di lancio per nuove opportunità. Ai nostri giovani studenti e professionisti chiediamo di essere attori e non spettatori, protagonisti e non coro della vicenda italiana antichissima e, allo stesso tempo, nuovissima. È attraverso un atto culturale, già a partire dalle aule universitarie, che arte, architettura e struttura cesseranno di essere discipline contrapposte, ma si concilieranno saldamente in un’unità di intenti e di ideali che, se spesso sognata come utopia, può diventare effettivamente realizzabile e sperimentabile.
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BREVI RIGHE
La tradizione è un’avventura
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Pasquale Cucco
Tra il tradizionale e il nuovo, o tra ordine e avventura, non esiste una reale opposizione, e quello che chiamiamo tradizione oggi è una tessitura di secoli di avventura. J. L. Borges
La tradizione è un’avventura. È un’avventura la ricerca della presenza viva dell’antico nella società, saperlo leggere, interpretare e usare. Una presenza che ha rappresentato da sempre l’avere l’altro in casa, in un fecondo dialogo con il diverso. Claude Lévi-Strauss osservò che proprio l’antico è stato la prima molla di curiosità di tipo antropologico e sociale. È un’avventura proprio come quella che Vincent Van Gogh, nella sua opera “I primi passi”, ritrae in una scena familiare, dove il padre interrompe il suo lavoro per accogliere il bambino, che è sul punto di iniziare a camminare da solo. Nel dipinto si nota la tensione dello spazio che esiste tra le braccia aperte del padre e quelle del figlio, uno spazio necessario, vitale; entrambi spalancano le braccia come fosse una promessa, mentre lo spazio si apre tra di loro. Quasi non esiste più il pericolo del fallimento, la possibilità della tempesta, delle nubi grigie che solcano il cielo. Quel padre è la storia, quel bambino è il futuro; il bambino prenderà a camminare soltanto con la fiducia nelle braccia tese del padre. Solo così inizierà la sua avventura.
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2 Il tempo nuovo della tradizione
Con questa immagine, anche se un po’ sentimentale, il testo intende riflettere sul tema del rapporto tra la tradizione e l’innovazione, tra il passato e il presente, tra quello che è scritto e quello da scriversi ancora. La storia è quel padre dalle braccia sicure, larghe, possenti; il futuro è quel bambino che tenta di camminare da solo ma con la certezza che, se cadrà, lo farà in quell’abbraccio, dove si costruisce la storia di domani, il tempo nuovo, i tempi nuovi. Il tempo fugge, a volte veloce a volte lento; cambia, muta. Se la storia è il tempo – scrive Edoardo Souto de Moura – allora non si può bloccare, cristallizzando il modo di interpretare la realtà e negare, quindi, ogni iniziativa. D’altronde la storia è il racconto di come le cose sono cambiate, ovvero di come sono diventate “moderne”. Non ci resta che indagare il cambiamento, è questo il compito della modernità. Alla Storia – volutamente in maiuscolo – vorremmo porre tante domande, sul tempo e sullo spazio, sul principio e sulla fine. Le vorremmo chiedere dove abitano, adesso, tutte le scoperte, le invenzioni, i desideri, i pensieri mai scritti e mai detti; le vorremmo chiedere se possiede uno scrigno in cui raccoglie le sue conquiste. Le vorremmo chiedere se continuerà ad accompagnarci nel futuro, o se ci lascerà camminare da soli nel panorama dell’esistenza. Le vorremmo chiedere se c’è un futuro verso cui protendere e se esistono e di che natura siano le leggi che governano gli universi e perché esistono la matematica, la fisica, la chimica, la biologia, la medicina, la musica e la poesia, la bellezza e il coraggio. Alla Storia vorremmo chiedere se ancora abbia un senso rivolgersi ad essa, se ha un senso cercare nella tradizione le risposte alle domande che oggi ci poniamo. La tradizione è una predisposizione innata; è figlia del passato ma – citando Hans Gadamer – «il passato non è un evento concluso che si deve congelare o superare, ma entra nel presente di cui è parte. Questo è il senso della tradizione». Già nel 1958 Roberto Pane si chiedeva quale significato potesse darsi alla parola “tradizione”: La parola “tradizione”, dal latino traditio e cioè consegna o trasmissione, è stata usata nei più opposti significati ed è servita ai più diversi propositi: da quello di una restaurazione di antichi valori, come ad esempio il ritorno alla religiosità medievale, sino alle rivoluzioni ottocentesche, per le quali sono stati rievocati, a scopo patriottico, gli aspetti del costume popolare. […] A me pare che il solo valore legittimo della parola “tradizione” debba essere riconosciuto nelle più generali tendenze che una determinata
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Brevi righe. La tradizione è un’avventura
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civiltà ha manifestato lungo il suo svolgimento; tendenze che hanno accompagnato le più distinte espressioni individuali, pur continuando a sussistere come un tono od un accento comune, quasi il segno di una affinità elettiva. […] da noi (in Italia) esso può individuarsi in quella organica visibilità e chiarezza che hanno, per tanti secoli, distinto le arti figurative e l’architettura italiana; può riconoscersi, cioè, nell’attributo di quel felice equilibrio compositivo che fu presente anche nei maestri minori…Questo riconoscimento di un proprio compiuto destino può segnare una continuità nel presente, aiutandoci ad intendere il particolare senso della nostra creatività1.
Mentre in Italia, da De Sanctis a Croce, si formulava il più alto pensiero critico del nostro tempo, la cultura novecentesca delle avanguardie incitava al «bello e orribile mostro», espressione che Carducci nel suo Inno a Satana usa per rappresentare un treno in corsa, simbolo del progresso tecnologico. L’Antico viene considerato ciò che non è utile ad incrementare il progresso, il Nuovo ciò che lo alimenta. Il risultato è una produzione artistico-culturale che si svilisce nella sindrome del progresso; senza collegarsi a una tradizione, tutto deperisce in fretta. Il vero male spesso è sembrato manifestarsi nelle esperienze più estremiste del cubismo e del futurismo, ossia in tutte quelle avanguardie che hanno ostentato la ripulsione per il passato e la fiducia ideologica nel futuro proponendo un fare artistico completamente privo di riferimenti culturali alle preesistenze. La tradizione non è ‘cosa trascorsa’, cosa che resta solo come oggetto della coscienza storica, alle nostre spalle, ma viene verso di noi, le siamo consegnati e ad essa destinati. Il mondo contemporaneo, seppur nella sua autonomia, non può fare a meno di una tradizione cui collegarsi, è una necessità ontologica di riconoscere un’origine. La tradizione tramanda un’esperienza, trasmette un’eredità di modelli, di tipi, di tecniche, di forme, di stili, ecc. È quindi un processo dinamico, continuo, vivo, anziché un’eredità statica di dogmi e di soluzioni immutabili e infallibili. Alla Storia, quindi, vorremmo chiedere che ci svelasse qualcosa di sé. Sei forse un artigiano che non ha ancora finito di restaurare le sue preziose pietre? O sei una signora che ha il potere di lasciarci in eredità la sua carica di conquiste insieme alla nostalgia di un bene che è stato e che, a volte, ci permette di percepire un suo ritorno? 1
Cfr. R. Pane, “La cultura architettonica italiana nel mondo moderno”, in M. Civita (a cura di), Attualità e dialettica del restauro, Solfanelli, Chieti 1987.
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4 Il tempo nuovo della tradizione
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Per l’uomo di oggi queste domande hanno una grande importanza. Per l’uomo di oggi, lo spazio e il tempo e tutto ciò che adesso esiste sono un libro da indagare e forse tu, Storia, puoi dargli un indizio di corretto cammino. Non ti lasci sedurre né commuovere alle nostre domande; non somministri carezze o colpi di frusta, come direbbe Montale; semplicemente resti silenziosa, taci. A noi contemporanei non resta che decifrare i tuoi silenzi.
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Saluti Aurelio Tommasetti
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MAGNIFICO RETTORE DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO
Buon pomeriggio a tutti, Signore, Signori, Studenti, Colleghi ed ospiti tutti. Un buon pomeriggio e un benvenuto agli illustri relatori: al Critico d’Arte Prof. Achille Bonito Oliva, già nostro ospite all’inaugurazione della scultura di Varotsos; al Prof. Emerito dell’Università La Sapienza di Roma Giovanni Carbonara, Docente di Restauro e tra i massimi esperti di questa disciplina a livello nazionale ed internazionale; al Prof. Gianmarco de Felice, esperto di murature antiche e docente all’Università Roma Tre. L’evento di oggi che ha come titolo “Il Tempo nuovo della Tradizione” è incentrato sul tema attualissimo della coesistenza, o meglio del dialogo, che l’arte moderna e contemporanea può intessere con la preesistenza, il patrimonio storico, artistico, architettonico e monumentale. Un patrimonio che non può essere trascurato, dissipato, ridotto a degrado o peggio ancora vandalizzato o distrutto. Un patrimonio che deve essere ben conservato, restaurato, ben tenuto e manutenuto, sicuro, efficiente dal punto di vista strutturale, funzionale e della fruizione in senso lato. Abbiamo il dovere, morale e culturale, di ben mantenere tutto quanto abbiamo ereditato dalle generazioni passate e di traferirlo in buone e rinnovate condizioni alle generazioni future. La Seconda Guerra Mondiale ha causato la devastazione di molte capitali e città europee e di parte del grande patrimonio architettonico ed artistico. Dopo oltre settanta anni in alcune parti del Medio Oriente abbiamo assistito – impotenti – alla deliberata distruzione di capolavori di arte e di architettura, secoli di storia annientati in un attimo da folli atti terroristici. L’Italia è un Paese unico al mondo, in quanto la sua identità risiede proprio nella sua storia millenaria, nel suo patrimonio architettonico, storico, artistico, nei suoi paesaggi, nella diversità dei suoi territori, nel patrimonio etno-antropologico, nelle sue culture, nelle sue tradizioni.
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6 Il tempo nuovo della tradizione
Scelte culturalmente impegnate sono quelle di far dialogare l’arte contemporanea in edifici storici e che appartengono alla tradizione. Cito come esempi il Museo MADRE a Napoli, le recenti e felici realizzazioni delle stazioni della Metropolitana di Napoli e le installazioni di molti artisti contemporanei, molti dei quali giovani, proprio scoperti ed individuati da Achille Bonito Oliva. Tutto ciò fa seguito, inoltre, al felice esperimento tenuto qualche anno fa proprio alla Certosa di Padula con installazioni di giovani e brillanti artisti contemporanei. Nel nostro Campus le opere d’arte si trovano in contesti nuovi: Umberto Mastroianni con la scultura “Furia Selvaggia”; Enzo Cucchi, proprio uno degli esponenti della trans-avanguardia, così come coniata da Achille Bonito Oliva, è al “Chiostro della Pace”; la sedia, il tavolo, il treppiedi, il secchio e la scarpa di Pietro Lista, in ricordo ed in omaggio della cultura contadina e del luogo che preesisteva a questo insediamento universitario; la scultura “Orizzonte due” di Costas Varotsos, recentemente installata e facente parte del più generale programma di opere d’arte “L’albero della cuccagna”; la “Meridiana” di Lucio Perone, da poco installata in Piazza del Sapere. Non posso non citare, poi, la piccola collezione di archeologia di epoca romana e preromana (vasi, statuette e suppellettili varie) catalogata secondo le norme del Ministero dei Beni Culturali e conservata in teche nelle stanze del Rettorato. L’Università degli Studi di Salerno che ho l’onore e l’onere di guidare ha, nei vari percorsi formativi, insegnamenti di Restauro, di Storia dell’Arte, di Archeologia, di Strutture, di Architettura erogati dai Docenti dei nostri Dipartimenti DICIV (Dipartimento di Ingegneria Civile) e DISPAC (Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale). La giornata di studi di oggi si snoda lungo un percorso inusuale ed inedito, ossia trasversale a tre mondi del sapere: quello artistico, quello umanistico e quello tecnico, normalmente poco o raramente convergenti, anche se ciascuno portato al suo interno ai massimi livelli da studiosi, docenti, ricercatori ed esperti di chiara fama. Voglio ringraziare i Colleghi del Dipartimento di Ingegneria Civile: Enrico Sicignano, Federica Ribera, Maurizio Angelillo e Gennaro Miccio che hanno organizzato questa giornata di studio. Ringrazio ancora i Colleghi, gli Studenti e voi tutti che siete qui presenti.
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Apertura dei lavori Vincenzo Piluso
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DIRETTORE DEL DIPARTIMENTO DI INGEGNERIA CIVILE, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO
A nome di tutti i componenti del Dipartimento di Ingegneria Civile porgo il mio più cordiale benvenuto ai partecipanti a questa iniziativa culturale il cui titolo, “Il tempo nuovo della Tradizione”, intende focalizzare l’attenzione sulla complessità delle attività progettuali degli interventi di recupero, restauro e riabilitazione dei beni a carattere storico-monumentale e sull’interazione che queste attività hanno con l’arte e la storia. I relatori che abbiamo oggi il piacere di ospitare nel nostro Ateneo sono figure di spicco nel panorama nazionale ed internazionale in merito alla critica d’arte, al restauro architettonico e agli interventi sul patrimonio monumentale. Ringrazio i colleghi che hanno voluto organizzare questa manifestazione e tutti i partecipanti che dimostrano, con la loro presenza, di apprezzare l’iniziativa. Per la grande qualità dei relatori, sono sicuro che l’evento avrà un significativo successo. Due interventi saranno dedicati al tema molto delicato della protezione sismica dei beni a carattere monumentale. Come ben noto, intervenire sugli edifici esistenti al fine di conseguire l’adeguamento o anche il solo miglioramento sismico è materia di per sé molto più complessa che intervenire per garantire un adeguato livello di sicurezza nel caso di nuove costruzioni. Come se non bastasse, le problematiche relative agli interventi sull’esistente si amplificano a dismisura quando bisogna intervenire su un bene che rappresenta un patrimonio storico, artistico e monumentale, la cui importanza economica e sociale risulta di gran lunga superiore a quella di tutte le altre categorie di edifici. Va ricordato che il patrimonio nazionale è ricchissimo di tali beni; è ben noto a tutti che l’Italia è al primo posto della graduatoria UNESCO per il possesso di beni culturali e siti considerati patrimonio dell’umanità. Si tratta, quindi, di un tema di grande interesse, attualità e complessità che i relatori presenti sapranno certamente sviluppare con maestria e rigore, fornendoci, da un lato, un quadro completo delle teorie sugli interventi sui beni storico-monumentali e, dall’altro, trasmettendoci quel saper fare che trae origine dalle esperienze vissute sul campo.
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Introduzione
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Enrico Sicignano
Il titolo scelto, solo apparentemente con una contraddizione nei termini, tratta il tema complesso, ampio e particolare del nuovo, della trasgressione “costruttiva” nella tradizione. Analizziamo innanzitutto i tre termini scelti: “Tempo”, “Nuovo”, “Tradizione”. Il termine “tempo”, che qui si intende, attiene in primis ad un momento storico, non ad una data precisa, per riferirci a quello che i greci definivano “Kairos” ben distinto da “Chronos”. Chronos è quantificabile, misurabile (si pensi, ad esempio, al cronometro). Letto ed interpretato al negativo, il Chronos porta al calcolabile, all’efficienza a tutti i costi, all’ottimizzazione, al ritmo incalzante, alle lancette dell’orologio o ai numeri al quarzo che incessantemente scandiscono i secondi, i minuti, le ore, le giornate, le settimane, i mesi, gli anni. Chronos è il tempo asettico, senza contenuti, senza pathos, senza bene e senza male, senza progetti ma che scorre inesorabile. Non a caso nella mitologia greca è rappresentato dal gigante cattivo che divora persino i propri figli fino a che uno gli sfuggirà, Zeus, e da cui sarà ucciso. Kairos è invece il momento giusto ed opportuno, il tempo di Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento, il tempo in cui maturano ed avvengono fatti e storie importanti, epocali per la comunità, la società, l’umanità intera. Kairos, inoltre, è il tempo della assunzione delle responsabilità in cui l’uomo partecipa ed agisce; è una opportunità di interagire con l’aldilà del tempo e con la storia. È anche una dimensione morale. Non a caso nella mitologia greca è raffigurato come un bel ragazzo con le ali ed i piedi alati nell’atto di reggere una bilancia che egli stesso pone in posizione di dis-equilibrio e con difficoltà ad afferrarla stabilmente. Kairos è nella mitologia greca e classica, nell’Iliade, nell’Odissea, nell’Eneide. Ogni episodio, storia e parabola di ciascuno dei quattro Vangeli del Nuovo Testamento inizia sempre con la frase “In quel tempo”, per affermare una realtà temporale che non è e non può essere puramente e freddamente cronologica. Essa si inquadra e necessita di
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10 Il tempo nuovo della tradizione
un respiro ampio che non può e non vuole essere incasellato o legato ad una data precisa perché ciò, viceversa, sarebbe fortemente riduttivo. Il termine “Nuovo” parla invece di un atto coraggioso, della volontà e della capacità di voltare pagina, di una forma mentis e comportamentale che non accetta di vivere sugli allori, di rendita sul passato, su quanto già acquisito, ma di mettersi sempre in gioco ed in discussione, di sperimentare, di rischiare, di proporre, di inventare, di ricercare, di modificare, di integrare, di migliorare. Questo è ciclicamente avvenuto in tutte le attività umane, nel mondo artigianale, industriale, del commercio e della produzione, in campo tecnico, scientifico, culturale, artistico; riguarda le scoperte, le invenzioni, fino alle fondazioni di nuove città come Nea-Polis, New York, Nuova Caledonia, ecc. Nea e New non si riferiscono solo alle città nuove come luoghi fisici. Ad esse sono indissolubilmente legate ed associate le vite di migliaia di persone nell’antichità, di milioni di persone nel secolo scorso che sognavano (come The American Dream) in quelle nuove città un futuro migliore e quindi di cambiare in meglio la vita propria e quella dei propri figli. Questo ci riporta agli attuali migranti e alla complessa e difficile situazione umanitaria, sociale e di politica internazionale. In tal caso il “Nuovo” viene dal di dentro, non è misurabile, non è quantificabile e ha a che fare, quindi, con la dimensione spirituale, il mondo dei desideri e dei sogni dell’individuo. Escludiamo, ovviamente, il significato negativo, ambiguo di quel presunto nuovo che si pone invece come semplice e pura contestazione del passato, come un pregiudizio non costruttivo ma solo demolitivo. Si pota la pianta se essa rinasce a nuova vita e porta nuovi fiori e nuovi frutti. Altrimenti essa va tagliata e gettata nel fuoco. Il termine “Tradizione” deriva, invece, dal latino “tradere” che significa trasmettere, consegnare, affidare in eredità; nel mondo anglosassone “trade” significa scambio commerciale, affari (il World Trade Center, ad esempio). La parola Tradizione deriva anche da “trans-ducere”, portare oltre. Il suo negativo è il tradimento, il consegnare con l’inganno (Gesù fu tradito per trenta denari da Giuda che con l’inganno del bacio lo consegnò ai sommi sacerdoti, ai Giudei, ai soldati). Il significato vero di tradizione è, però, più ampio, alto e nobile. Esso attiene all’atto di andare avanti, facendo tesoro della lezione e del patrimonio del passato, senza negarlo, manometterlo, prevaricarlo, ma valorizzandolo e arricchendolo.
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Introduzione
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Per Louis Kahn la «tradizione non è il passato tout-court, ma il potere di anticipare». Per Gustav Mahler la «tradizione non è cenere da adorare ma fuoco da custodire». Vittorio Gassman, uno dei più straordinari attori di cinema e di teatro che recitava mirabilmente e con la stessa competenza e passione Sofocle, Pirandello, Eschilo, Shakespeare ed Ibsen, a proposito della forza e della potenza in nuce della tradizione diceva «ho un grande futuro alle spalle». Per tutte queste ragioni “Il tempo nuovo della tradizione” significa qualcosa di essenziale ed importante. Il tema indaga nel dialogo tra arte moderna e contemporanea e la preesistenza, il patrimonio storicoartistico, architettonico, archeologico, restaurato, sicuro, efficiente, ben conservato e ben manutenuto. Si tratta di un percorso inedito e trasversale a tre saperi: quello artistico, quello umanistico e quello tecnico. Essi sono tre saperi, tre mondi apparentemente indipendenti e che con difficoltà dialogano tra di loro. Nel nostro territorio questa esperienza è stata felicemente realizzata e ben riuscita nella Certosa di Padula, quando nel 2002 fu allestita una straordinaria mostra di Arte Contemporanea, ideata, organizzata e curata dal critico d’arte Achille Bonito Oliva, nella quale vennero invitati gli artisti Mario Airò, Maja Bajevic, Nanni Balestrini, Per Barclay, Massimo Bartolini, Betty Bee, Alfonso Antonio Caggiano, Sandro Chia, Nicola De Maria, Jan Fabre, Gianandrea Gazzola, Pia Gazzola, Robert Glicorov, Mimmo Iodice, Mark Kostabi, Myriam La Plante, Amedeo Martegani, Hidetoshi Nagasawa, Raffaella Nappo, Luigi Ontani, Mimmo Paladino e Toni Servillo, Perino e Vele, Michelangelo Pistoletto, Alfredo Pirri, Franco Scognamiglio, Lorenzo Scotto Di Luzio, Elisa Sighicelli, Marianna Troise, Giuseppe Zevola e Natalino Zullo, ad ognuno dei quali fu affidata la cella di un monaco. Esperimento nuovo, con artisti in vita, presenti e protagonisti. Questi eventi si aggiungono poi a quel grande patrimonio, soprattutto italiano, in cui si sono confrontate e misurate realtà, valenze e competenze diverse. Ci riferiamo – tanto solo per fare un esempio – a tutto lo straordinario mondo della museografia e degli allestimenti ad opera di Maestri del calibro di Carlo Scarpa al Museo di Castelvecchio a Verona (1957-1975) e a Palazzo Abatellis a Palermo (1953-1954), o di Franco Albini per il Museo del Tesoro di San Lorenzo a Genova (1952-1956). Nel corso dei secoli il nuovo ha sempre caratterizzato e segnato la storia dell’umanità. Nell’antichità classica il tempio greco in pietra e marmo è “il nuovo” rispetto al precedente in legno. E non è solo que-
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stione di materiali. Il sistema costruttivo, il materiale, le loro potenzialità ed i loro limiti impongono una nuova composizione architettonica, una nuova forma e, quindi, nuovi linguaggi e diversi “stili”, a loro volta afferenti a diverse culture, società, epoche, città e luoghi, in Madrepatria e nella Magna Grecia. È “il nuovo” il Pantheon rispetto alle opere della Roma Repubblicana e del primo Impero. È “il nuovo” la pittura di Giotto rispetto a Duccio di Buoninsegna e Simone Martini. È un’autentica rivoluzione. Si lasciano alle spalle le madonne in trono ed i fondi dorati di tradizione bizantina per fare entrare nel quadro, nella tela, nell’affresco, i volti, gli occhi, le mani della vera umanità, della gente comune, insieme ai palazzi, alla città, al paesaggio, alla vita vera. È “il nuovo” la Cupola di Santa Maria del Fiore di Brunelleschi per impegno costruttivo, per forma, per il nuovo rapporto che un’opera di architettura instaura con la città e con il territorio. È la tradizione del romanico e del gotico che passa attraverso Arnolfo di Cambio e si aggiorna. È “il nuovo” il “Dolce stil novo”, la lingua di Guido Cavalcanti e Dante Alighieri, rispetto al “volgare” e che anticipa Francesco Petrarca ed apre la strada alla vera lingua italiana. È “il nuovo” nella pittura manierista e post-michelangiolesca la luce drammatica e tagliente di Caravaggio che squarcia gli ambienti, illumina i corpi in primo piano, mette gerarchicamente in penombra ed in ombra ciò (persone e cose) che è secondario nel contenuto e nell’espressione. È “il nuovo” nel panorama ottocentesco parigino, tra i boulevard haussmanniani e gli Champs-Élysées, quella torre in ferro, pensata effimera, dell’ingegnere dei ponti Gustave Eiffel e che vi rimarrà, invece, per sempre. È “il tempo nuovo” della Fisica la Teoria della Relatività di Albert Einstein nella tradizione già tracciata da Newton, Copernico, Keplero e prima ancora, risalendo all’indietro, a Pitagora, ad Euclide. È “il tempo nuovo” dell’Architettura Ville Savoye di Le Corbusier, un oggetto bianco, metafisico, appoggiato al suolo, rispetto alla paccottiglia dell’Eclettismo ottocentesco; opera ultima di una lunga ricerca solo apparentemente modernissima, ma che viene, invece, dopo lo scavo profondo nel mondo ellenico e che porta dentro – tutte insieme – la sezione aurea, la perfezione del Partenone, l’essenzialità e la scala umana delle case bianche della tradizione del Mediterraneo, visitate e fissate nei memorabili appunti e schizzi, i Carnets de Voyage d’Orient (1910-1911).
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Introduzione
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Sono “il tempo nuovo” della Pittura le Avanguardie Storiche (Cubismo, Espressionismo, Futurismo, Dadaismo, Costruttivismo, Suprematismo, Astrattismo, Neoplasticismo, Metafisica, ecc.) che aprono una nuova stagione nelle Arti Figurative e Plastiche rispetto all’eredità storica dell’Ottocento e dei periodi precedenti. È decisamente “il nuovo”, nel corso della tradizione, tutta l’opera, complessa, articolata, multiforme di Pablo Picasso, il quale esordisce giovanissimo con opere straordinarie, riferibili e paragonabili a quelle di Raffaello, di Goya, di Tiziano per poi rimescolare le carte e rivoluzionare la pittura del XX secolo. Il discorso potrebbe, così, continuare all’infinito e con tantissimi altri esempi in tantissimi campi. Si tratta di ricorsi storici di “vichiana” memoria. L’innovazione, il nuovo, avviene sempre come momento di critica, superamento, trasgressione della tradizione. Per i più questa diventa norma fino ad essere possibile “maniera” per essere poi essa stessa innovata e trasgredita. E così via. Se la storia dell’umanità è così viva e feconda è solo grazie al fatto che c’è stato sempre e per fortuna un Tempo – un Kairos – in cui la Tradizione è stata e si è fatta innovare.
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Indicazioni di metodo
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Gennaro Miccio
I temi proposti in questa giornata di studi sono stati spesso oggetto di discussione tra i docenti di questo Dipartimento di Ingegneria Civile che, per i loro insegnamenti, trattano le problematiche connesse alla conservazione del patrimonio storico. Il corso di laurea in Ingegneria Edile-Architettura ha, per sua stessa vocazione e organizzazione, la possibilità di porre a confronto una gran parte delle istanze che ogni intervento sul costruito storico dovrebbe manifestare. La complessità di questo confronto ha suggerito di chiamare in questa occasione a dialogare eminenti rappresentanti di alcune delle discipline che animano il dibattito intorno alle problematiche connesse alla conservazione: la necessità di garantire la fruizione in termini di sicurezza, il rispetto dei dettati culturali e scientifici imposti dal riconoscimento storico di un manufatto, l’inevitabile adeguamento al mutare della sensibilità della collettività nella lettura dell’opera d’arte che la critica propone. Ci sono, senza dubbio, dei periodi nei quali il dibattito si fa più animato, soprattutto in occasione di eventi calamitosi che periodicamente nel nostro Paese mettono in grave crisi il patrimonio storico e che, come di recente, coinvolgono drammaticamente l’intero tessuto urbanistico di molti centri storici. In queste circostanze alcune delle argomentazioni che solitamente sono oggetto di polemiche si concentrano, ovviamente, proprio intorno al significato stesso della conservazione ed alle varie declinazioni con le quali questo termine viene variamente esplicitato. Negli ultimi decenni la rapida evoluzione della tecnologia ha reso ancor più pressanti il recepimento dei processi innovativi che in passato, pur partecipando al dibattito sulla conservazione, venivano acquisiti con maggiore consapevolezza. Anche il significato stesso con il quale viene oggi inteso il termine restauro ha assunto una connotazione, almeno nel comune sentire, molto diversa da come veniva considerato solamente non tanti decenni addietro. Nonostante ancor oggi nei nostri Atenei si continui a trattare l’intervento di restauro con la stessa atten-
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zione dettata dai maestri della disciplina, si assiste già da diversi anni alla tendenza a un’omologazione del termine con altre categorie di interventi, sicuramente non equivalenti al restauro: spesso si associano indifferentemente, e quasi confondendoli in senso di omonimia, i termini di ‘restauro’ e ‘recupero’, come pure di ‘consolidamento’ e ‘restauro’. Probabilmente, l’attuale periodo storico presta minor attenzione verso il necessario supporto scientifico e culturale nei confronti di una disciplina che, al contrario, ha basato la sua ragion d’essere proprio sul dibattito scientifico e sul confronto culturale tra scuole di pensiero di varia provenienza ed estrazione. La tendenza a dover intervenire in ogni caso, oggi, sembra aver preso il posto delle discussioni del “se intervenire” e del “come intervenire” che sempre accompagnavano la fase cognitiva a corredo di un progetto. La “riconoscibilità” dell’opera d’arte, quale premessa indispensabile per avviare ogni tipo di ragionamento e quale presupposto irrinunciabile alla conservazione, sembra essere una pratica non più necessaria e sicuramente avvertita in misura subordinata rispetto agli aspetti pratici ed economici. Le istanze etiche ed estetiche non sembrano trovare più spazio rispetto all’esigenza, quasi ossessiva, del dover rispettare innanzitutto le normative, spesso nate e sviluppate in altri ambiti, alle quali si pretende di dover adeguare i modelli delle pratiche per attuare una corretta conservazione. Ci si pone la domanda se sia opportuno che il mondo culturale faccia sentire un forte richiamo all’esigenza di riattivare il dibattito culturale tra le varie componenti che hanno finora reso possibile la conservazione del nostro patrimonio storico, oppure arrendersi al predominio delle istanze legislative, economiche, finanziarie, speculative verso cui sembra essere sempre più orientato l’operato anche del settore della conservazione. Tali questioni assumono anche un carattere di urgenza, visto che ci si appresta ad affrontare il problema della conservazione delle architetture del Novecento e delle opere d’arte realizzate con i nuovi materiali, problemi rispetto ai quali non sembra essersi ancora sviluppato un confronto in grado di orientare positivamente gli strumenti che il rapido sviluppo del progresso tecnologico e scientifico oggi mette a disposizione dell’operatore. Avere delle prime indicazioni dall’odierno incontro già potrebbe costituire una utile premessa per successivi sviluppi del dibattito sul tema della conservazione del nostro patrimonio culturale.
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Il tempo nuovo della tradizione
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Achille Bonito Oliva
Poche idee ma confuse. Mi occupo di arte contemporanea e la confusione è un elemento di fertilità creativa. Ma cos’è l’arte contemporanea? Per me è un massaggio del muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva. L’arte contemporanea vive sul principio del progresso; comincia a metà dell’Ottocento con l’Impressionismo, in sintonia con l’avvento della civiltà industriale, con il rinnovamento dell’automazione e si sviluppa fino ad oggi passando attraverso le avanguardie storiche, ossia quei movimenti che si sono succeduti nel Novecento come Espressionismo, Futurismo, Cubismo, Surrealismo, Dadaismo, Costruttivismo e poi con le avanguardie del dopoguerra, New Dada, Action Painting, Pop-art, ecc. Quello che l’arte contemporanea porta con sé è un ottimismo produttivo e sperimentale, in base e per conto di una fiducia nella storia e nella ragione, in quel fattore che caratterizza la civiltà occidentale, ovvero l’idea di progetto. La progettualità si accompagna con l’arte contemporanea e con la sua sperimentazione, procede all’inizio finanche pensando di poter veramente trasformare il mondo con le avanguardie storiche e di modificare l’assetto sociale. Poi ci sono i contraccolpi, l’avvento al potere delle destre – fascismo, nazismo, franchismo – e quindi si assiste all’esodo di molti grandi artisti europei in America dove nasce in maniera radicale la contemporaneità che si sviluppa dal dopoguerra in avanti. Questo ottimismo produttivo in realtà c’era già stato nell’antichità. Durante il Rinascimento, si assiste al momento di massimo apogeo dell’arte occidentale in quanto c’è lo sfondamento della bidimensionalità spaziale dopo i primi tentativi di Giotto e si arriva alla prospettiva, forma simbolica di rappresentazione della centralità dell’uomo come essere razionale. Si tratta di una profondità strutturata sui principi di simmetria, proporzione e armonia. Ecco che la prospettiva diventa il momento più alto di corrispondenza tra il sociale, la politica e l’immaginario individuale dell’artista. È un’idea di progresso che però dura molto poco. Il Rinascimento dura trenta o quaranta anni, non è così prolungato rapportato all’importanza della prospettiva rinascimentale, perché c’è
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dapprima la scoperta dell’America, poi il sacco di Roma del 1527, poi ancora la scoperta della finanza moderna, i principi di realismo politico di Machiavelli, la scoperta che non è il sole a girare intorno alla terra, in quanto pianeta abitato dall’uomo, ma è la terra a girare intorno al sole. Ecco il passaggio a Copernico che smaschera questo primato pseudo-scientifico che l’uomo rinascimentale aveva in qualche modo, con orgoglio, vissuto. L’artista allora cosa fa? L’artista si trova di fronte ad un futuro sbarrato, così che per affrontare il presente si affida al passato, utilizza il passato per poter condividere un presente caotico, critico; l’artista vive un momento di esaurimento storico e individuale, non ha fiducia nel futuro e, quindi, non c’è più la possibilità di utilizzare il principio della sperimentazione, allora si rifugia nel principio della ‘citazione’, cita il passato per vivere il presente in quanto c’è uno sbarramento per il futuro. Tutto questo avviene con gli artisti del Manierismo – Rosso Fiorentino, Parmigianino, Beccafumi – pittori che citano il principio prospettico rinascimentale. Tuttavia, la citazione non è pedissequa ripetizione in quanto tutto è vissuto in prima persona con uno stato che Marsilio Ficino chiama ansietas, ansietà, che porta all’alterazione dei principi che reggono la prospettiva. Non è più, quindi, una profondità misurata, ma arriva fino all’anamorfosi, alla modificazione. Se fino a Raffaello l’artista aveva vissuto un principio di adesione a quelli che erano i valori del potere politico, ecco che col Manierismo, dopo il Rinascimento, l’artista vive una condizione e uno stato di dissenso, si pone in una posizione di lateralità e la posizione laterale è tipica del traditore. Chi è il traditore? È uno che guarda il mondo, non lo accetta, vorrebbe cambiarlo ma non agisce, vive tutto nello spazio mentale della riserva psicologica. Trasferito questo nell’arte, l’artista vive il dissenso attraverso la metafora e l’allegoria; vive un rapporto di dissenso con la realtà che non può esprimere pubblicamente, pena l’autorità del principe che può intervenire. Quindi, in qualche modo è l’uso velenoso di una tradizione che in ogni caso innova, riporta tutto sul valore oggettivo dell’artista. La centralità è l’artista che elabora le forme, l’ansietas è un principio che introduce e anticipa di alcuni secoli la psicanalisi. Tutto questo porta ad una modifica anche in termini cromatici: i colori di Pontormo, di Beccafumi, di Rosso Fiorentino sono alterati, artificiali, e il Manierismo è la dimostrazione del principio che l’arte è metalinguaggio, citazione di linguaggi precedenti ma modificati dall’interno. Nello svolgimento dei secoli l’arte riprende fiducia nella storia e per questo l’arte contemporanea inizia a metà dell’Ottocento nelle grandi
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Indicazioni di metodo
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città della Francia, Europa del nord, Germania, con l’Impressionismo che cerca di catturare attraverso la luce i temi della velocità e dell’accelerazione. Quindi, questo principio rinnovato di fiducia nella storia nel progresso poggia su quello che io chiamo “ideologia del darwinismo linguistico”, idea evolutiva dell’arte, evoluzione lineare che si può raccontare all’università attraverso una storia progressiva. Ma nel dopoguerra, dopo i primi anni di rinnovamento di centralità dell’ideologia negli anni Settanta, si palesa una crisi che riguarda l’ideologia. C’è la crisi del petrolio, dovuta alla guerra del Kippur, Arabia e Israele si scontrano e la prima, per sensibilizzare l’Occidente che stava dalla parte di Israele, alza il prezzo del petrolio così da provocare la crisi dell’industria. Altri principi scuotono la sicurezza della cultura occidentale e soprattutto questa idea progressiva, progressista e ottimista dell’arte. L’arte di avanguardia, concettuale, diventa accademica proprio perché fino ad allora, fino alla smaterializzazione dell’oggetto, l’artista elaborava questo primato mentale pensando che fosse ancora il modo di vedere l’attualità delle cose. Questa paralisi mi porta, non a caso, a scrivere nel 1976 L’ideologia del traditore, il libro sul Manierismo, trovando delle attinenze con la situazione degli anni Settanta. Comincio così a teorizzare un ritorno alla manualità, non più quindi la scelta mentale del objet trouvé di Duchamp ma un recupero della pittura, mezzo abbandonato, e l’elaborazione di un linguaggio che non è più costretto a sperimentare nuove forme, ma utilizza anche il valore della memoria della citazione senza più divaricazione tra arte figurativa e astratta. Si tratta di un divario che aveva portato negli anni Cinquanta e Sessanta il partito comunista ad affermare che il figurativo è rivoluzionario perché rappresenta, come Renato Guttuso, le lotte operaie e contadine, e chi astratto è piccolo borghese perché si rifugia nel proprio angolo psicologico. Io invece teorizzo un recupero giocato sul principio dell’integrazione, della contaminazione, dell’eclettismo stilistico: progettare il passato – ecco che veniamo al tema – in quanto l’artista non è un restauratore ma uno che utilizza il passato come mezzo, come objet iconografico per elaborare proprie forme personali. La transavanguardia è concepita, quindi, come arte di attraversamento, arte di transito, non come la conferma del post-modern che è muro contro muro, specialmente in architettura dove al principio razionale del progetto si risponde con la ripresa della decorazione. Transavanguardia significa capacità di integrare astratto e figurativo su un’idea o valore dell’eclettismo stilistico. Progettare il passato è veramente paradossale perché è anche la dimostrazione di un principio secondo il quale l’arte è indecisa a tut-
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to, l’arte vive una condizione di potenza personale, soggettiva, legata all’immaginario dell’artista che gli permette di scorrere nel tempo, avanti e indietro. Quindi, progettare il passato è un paradosso, significa rimuovere ciò che sembrava definitivo. È in questo senso rispondo al “tempo nuovo della tradizione” dimostrando come l’Italia che ha una memoria bimillenaria di storia dell’arte e di pittura sia il paese preposto per questo tipo di innovazione che poi si diffonde in Europa e in America, tanto che ho raccolto nella transavanguardia internazionale esempi espositivi di artisti che lavoravano in questa direzione. Ecco, in fondo è una forma di neo-manierismo, dimostrazione di come l’arte contemporanea trovi nel manierismo la sua matrice. L’arte è metalinguaggio, è memoria di un linguaggio precedente, è elaborazione, è anche coscienza politica che l’artista rinnova nelle proprie forme ma non può vivere il delirio di onnipotenza di modificare il mondo.
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Beni culturali e danni da terremoto: ricostruire in sicurezza ma secondo i principi del restauro
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Giovanni Carbonara
Il tema di questo intervento riguarderà in particolare il rapporto fra beni culturali e danni da terremoto, argomento che richiama in causa i principi posti a fondamento del restauro, di natura storico-critica prim’ancora che tecnica. Il titolo di questa conversazione fa riferimento a ciò che sta concretamente emergendo nella riflessione in corso sugli interventi di ‘ricostruzione’ – anche se sarebbe meglio dire ‘restauro’ – dei centri storici dell’Italia Centrale colpiti dal sisma del 2016-17: Umbria, alto Lazio, Abruzzo settentrionale, Marche. Centri molto qualificati dal punto di vista della qualità paesaggistica, urbana, architettonica, oltre che propriamente storico-artistica. Si tratta di una parte d’Italia che risentiva, già prima del terremoto, di notevoli difficoltà socio-economiche e demografiche, come tante altre zone appenniniche, ma che traeva, tuttavia, molta della sua linfa vitale proprio dal rapporto col paesaggio, le tradizioni, l’agricoltura ed una conseguente, ‘spontanea’ cura del territorio. Basti un esempio a tutti noto: la produzione delle lenticchie di straordinaria qualità di Norcia e di Castelluccio, specifica del luogo e testimone dello stretto legame, dal punto di vista socio-economico, del paesaggio con le colture tradizionali. Il tema sarà affrontato dal punto di vista dell’architetto di formazione storica, poiché, da quello tecnico, altri oratori qui presenti lo potranno fare molto meglio di me. Cercherò di mettere in luce due problemi che sono emersi, ai più alti livelli di discussione interna agli organi di consulenza tecnico-scientifica di Governo e della pubblica amministrazione statale e regionale, circa le linee da intraprendere nella ricostruzione. Sono passati quasi due anni dal terremoto, ancora non si è fatto molto ma, almeno, si è affrontata l’emergenza e si sono prodotte norme specifiche che dovrebbero guidare e agevolare la ricostruzione.
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22 Il tempo nuovo della tradizione
Sono emersi due nodi fondamentali e controversi, su cui è necessario soffermarsi. 1) Il presunto contrasto fra ‘conservazione’ e ‘sicurezza’. Un punto forte, sostenuto da molti tecnici, è che sussista un radicale e insanabile contrasto fra i due termini, portatori di istanze diverse e inconciliabili. Se non si cerca un loro ragionevole contemperamento e si accolgono, per varie ragioni, i proclami sbrigativi (e scientificamente infondati) dei politici che promettono il “100% di sicurezza”; poi le affermazioni dei giornali e degli altri mass media, che solleticano la naturale paura delle popolazioni colpite, dando false informazioni sulla distruzione “totale, anzi la polverizzazione” delle antiche città; infine alcuni opachi interessi professionali di ingegneri, architetti e grandi imprese che vedono nella ricostruzione ex novo occasioni molto più attraenti rispetto a quelle che potrebbe offrire un’attenta, artigianale ed umile opera di riparazione, le conseguenze, come già si può vedere in molti casi, saranno gravi per le sorti del patrimonio locale. Quest’ultimo, ripetiamo, non ha solo valore culturale ma soprattutto identitario, sociale ed anche economico. Premere sull’esclusivo dato della sicurezza, immaginando formidabili innovazioni tecnologiche da un lato, costruzione di modernissime case antisismiche dall’altro, demolizioni radicali e rifacimenti in copia più o meno “com’era e dov’era” (un assurdo storico) dall’altro ancora, ha già portato, per esempio nel caso di Amatrice, ad una totale distruzione del centro antico, perché realizzato con murature sbrigativamente tutte giudicate ‘inaffidabili’ e ‘irrecuperabili’ dal punto di vista strutturale. Una sorta di ben calcolata eutanasia che, in nome della sicurezza, semplifica drasticamente i problemi, cancellando le tracce materiali superstiti, quelle antiche memorie da cui soltanto avrebbe potuto germogliare la ‘nuova città’ conservando pienamente l’identità spaziale, paesaggistica, psicologica e mnemonica, di quella antica. Amatrice era una città disegnata in età angioina, posta come altre (Cittaducale, Cittareale, ecc.) a baluardo del Regno di Napoli al confine con lo Stato della Chiesa. Sono città progettate fra Due e Trecento da architetti militari francesi secondo una concezione urbana razionale e raffinata che poi ha visto, spesso, arricchimenti successivi. In particolare, Amatrice registrò cambiamenti notevoli nel Cinquecento: il grande asse centrale della città – sostanzialmente dritto ma leggermente flesso né rigorosamente geometrico, quindi interpretato in chiave di sensibilità medievale – è stato poi ripreso e regolarizzato, su un lato, dall’architetto e pittore Cola dell’Amatrice per trasformarlo in una sorta di piccola via Giulia, la famosa strada romana voluta dal
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Beni culturali e danni da terremoto
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papa Giulio II, riprendendone il modello non solo in termini urbanistici ma anche architettonici, rifondendo le vecchie case gotiche in forma di ‘moderni’ palazzetti rinascimentali. Si tratta, dunque, d’una città che già nella sua sola impronta urbanistica aveva una grande rilevanza, eppure oggi essa è completamente rasa al suolo, quale esito dell’opera violenta dei mezzi meccanici impiegati per un’inconsulta rimozione delle macerie, come se si trattasse di una cava. Che cosa è rimasto in piedi? I monumenti ‘vincolati’ dal MiBAC, anche se ciò che si è perduto, pur non essendo direttamente tutelato, aveva un notevole valore storico di cui non si è voluto tener conto. Le chiese di San Francesco, di Sant’Agostino, il complesso religioso e assistenziale progettato dall’architetto Arnaldo Foschini negli scorsi anni Trenta sono rimasti in piedi perché vincolati, insieme alla torre civica che è riuscita a sopravvivere per virtù propria al terremoto. Va ricordato che i monumenti vincolati rappresentano solo una minima parte del patrimonio culturale architettonico e urbanistico; ma i primi sono affidati in buone mani, vale a dire alle cure delle Soprintendenze, mentre tutto il resto ricade, a causa d’una serie di ben calcolate deleghe di legge e del recente indebolimento della tutela paesaggistica, in mano ai sindaci ed ai loro uffici tecnici, culturalmente impreparati e inadatti ad affrontare tale genere di problemi. Oltre ad Amatrice, sembra che Accumoli e Arquata del Tronto siano state distrutte con pale meccaniche, di primissimo mattino, in modo che nessuno potesse accorgersene, mettendo così la popolazione, sovente contraria a tali operazioni di cancellazione della memoria, di fronte al fatto compiuto. Si è detto all’inizio che, fra conservazione e sicurezza, si manifesta un ‘presunto’ contrasto anche perché non si tiene conto del fatto che, nel campo del restauro, il contemperamento di esigenze diverse è una realtà normale e ricorrente. Esiste il contrasto fra conservazione e accessibilità, fra conservazione e sicurezza antincendio, fra conservazione e miglioramento delle prestazioni energetiche e via dicendo, ma sono tutti problemi che, con una buona progettazione riferita ad una seria base metodologica, si possono sempre risolvere, anche a costo di pagare un certo prezzo (in termini di maggiore complessità esecutiva e quindi di aggravio economico, oppure di qualche sacrificio materialmente imposto al bene in questione). Il restauro non è mummificazione e la conservazione è pur sempre trasformazione ma, come già scriveva Leonardo Benevolo nel 1957 in un suo bell’articolo su L’Architettura. Cronache e Storia, il problema è di definire in quale direzione e misura orientare l’indispensabile cambiamento.
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2) Il secondo punto riguarda il modo secondo cui condurre la ricostruzione o meglio il ‘restauro’ del patrimonio, maggiore o minore, vincolato o non vincolato, che sia, purché ne rimangano ancora tracce materiali, anche allo stato di rovina. Ad Amatrice, si è condotta la distruzione del centro abitato senza effettuare un preventivo rilievo, senza una chiara idea urbanistica, ma in questo caso, non esistendo più quasi nulla, il problema diventa quello d’una progettazione ex novo, con buona pace per il valore dei luoghi e le loro memorie. Nel caso della ricostruzione si tratta, invece, di agire su un bene storico che in parte ancora sussiste nonostante, come s’è detto prima, la stampa si sia scatenata nel dipingere le città colpite come ‘polverizzate’: la preziosa chiesa di Salvatore a Campi presso Norcia, pur duramente colpita ma liberata con attenzione dal materiale di crollo (applicando le indicazioni in materia fornite e diffuse dal MiBAC), sta a dimostrare che molto di più di quanto si potesse immaginare a prima vista si è salvato, come i muri affrescati, oggi nuovamente visibili, ancora alti per diversi metri. Altre domande che non si possono eludere riguardano la scelta del linguaggio architettonico da utilizzare nella ricostruzione, il modo di trattare i vuoti urbani, frutto di crollo ma destinati a rimanere tali, oppure gli stessi antichi centri prossimi ad essere definitivamente abbandonati a causa della prevista ‘delocalizzazione’, per cogenti ragioni geosismiche o idrogeologiche, dei nuovi abitati. Sicuramente in alcune cittadine, già in fase di spopolamento prima del terremoto, resteranno dei vuoti urbani da risolvere architettonicamente, accettando la presenza del rudere oppure negandola. C’è poi la voce dei geologi del CNR, che ricordano come il Centro Italia sia altamente sismico e come di conseguenza, in certi casi, risulti indispensabile spostare alcuni centri abitati. Si tratta del 2-3% circa del totale, un dato che si può accettare, seppur con dolore, poiché non è tale da cambiare il volto del territorio. Ma se si delocalizza, la vecchia città abbandonata dev’essere inesorabilmente destinata a diventare un cumulo di rovi o può divenir essa stessa oggetto d’una specifica progettazione ruderale di tipo archeologico? Ciò non per ‘feticismo della conservazione’, come pure si è detto, ma perché il rapporto col paesaggio, la qualità del territorio, le memorie storiche – anche quelle ruderali – sono parte attiva e positiva, come accennato, della realtà sociale, economica ed anche turistica di quei vecchi centri e del loro ambiente. Eppure, una preoccupazione di questo genere è vista, anche ai massimi livelli di governo, come una pazzia, come tempo sprecato. Si percepisce, dietro le parole di circostanza, un crescente disprezzo ed una insofferenza per le componenti umanistiche del problema, sì da
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spostare il dibattito dal ‘che cosa fare’ e ‘perché fare’ al ‘come fare’; ma il ‘come’ non può svilupparsi se non dopo aver capito ‘che cosa’ si voglia e si debba fare. Si parla con leggerezza di “dov’era e com’era”, espressione letteraria che risale alle polemiche sulla ricostruzione del Campanile di San Marco, ma senza davvero comprendere quali problemi si nascondano dietro quella semplice affermazione. Serve poi una riflessione sul ruolo che, nei diversi processi di ricostruzione (condizionati dal luogo, dalla storia, dal grado di danno subito dal patrimonio edilizio), può essere riservato all’architettura e all’urbanistica contemporanee. Sul rapporto col paesaggio, coi materiali, con le tecniche moderne o tradizionali e via dicendo. Molti e complessi sono dunque i problemi; cercherò di conseguenza, attraverso alcuni esempi, di mostrare le varie possibilità di rapportarsi alle rovine prodotte dai terremoti (ragionando, parallelamente, anche su quelle generate dagli eventi bellici): ricostruzioni e integrazioni di tipo ‘critico e creativo’ che tendono a distinguere il nuovo dall’antico secondo un ben studiato equilibrio. Il caso dell’Aquila pone, rispetto ad Amatrice, problemi del tutto diversi e non solo per la differente dimensione delle due città. La prima è un grande centro abitato, ricostruito piuttosto bene in seguito al terremoto del 1703 che stimolò e perfezionò la già esistente tradizione locale di provvidenze edilizie antisismiche, semplici ma efficaci (capriate con le teste dei tiranti fornite di paletti lignei, cerchiature lignee o metalliche, catene, ‘radiciamenti’ murari, ecc.) le quali hanno evitato il ribaltamento generalizzato delle facciate sulle strade come avvenuto, invece, altrove. L’uso di buone malte di calce ha, inoltre, ridotto i casi di sgretolamento dei muri e distacco dei paramenti dai nuclei murari. Ciò che all’Aquila è mancato non riguarda tanto, ancora una volta, i singoli ‘monumenti’, in massima parte già magnificamente restaurati a cura o sotto il controllo della locale Soprintendenza Unica (basti pensare alla basilica di Collemaggio, a quella di S. Bernardino o al palazzo Ardinghelli), ma la concezione urbana dell’intera opera di ricostruzione, con tutte le negative conseguenze sociali ed economiche che tale circostanza comporta, fra cui la spinta ad abbandonare l’antico centro storico a favore di una squalificata periferia, oggi vivacissima. Si tratta di rischi di cui si era subito accorto S.E. l’arcivescovo Mons. Giuseppe Petrocchi anteponendo, nella richiesta d’interventi ricostruttivi rapidi, psicologicamente e simbolicamente significativi, tali esigenze sociali a quelle propriamente pastorali e religiose. Egli temeva giustamente il rischio della disaffezione, da parte della popolazione, per la propria vecchia città; in altre parole quello che oggi si può vedere: un anello
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periferico molto vitale che circonda un centro storico morto, nonostante l’impegno della Soprintendenza che tuttavia può agire su alcuni punti, per fortuna numerosi, ma non sul tessuto edilizio diffuso né sulle strategie propriamente urbanistiche. A parte i soliti monumenti vincolati, dunque, di cui s’interessa il MiBAC, il tema urbanistico di fondo irrisolto compete alla Regione ed al Comune, la cui azione è stata troppo debole e incerta, anche sotto il profilo di alcune opportune demolizioni senza ricostruzione, di edifici gravemente danneggiati e mal costruiti, in anni recenti, in aderenza alle magnifiche mura trecentesche. Ma mentre i problemi dell’Aquila si stanno, pur lentamente e soprattutto per merito degli organi periferici dello Stato, avviando a soluzione (pur essendosi perse alcune buone occasioni di puntuale miglioramento urbanistico) nel caso del Centro Italia sempre le autorità locali stanno favorendo una politica di sconsiderate demolizioni e sistematica cancellazione delle residue testimonianze materiali, anche urbanistiche e di rilevanza paesaggistica, degli abitati feriti da terremoto; ciò come se il programma ideale fosse di poter operare nel vuoto. Alcuni colleghi ingegneri vedono bene questa possibilità, ossia radere al suolo la città, gettare una serie di piastre di cemento, porre al di sotto gli smorzatori sismici e ricostruirvi sopra qualcosa di totalmente nuovo o di fintamente antico che possa durare ‘in eterno’. Molti architetti, d’altra parte, sognano di creare le loro razionali e moderne New Town, mescolando così interessi professionali, sogni personali e malintesi culturali. Manca ogni riflessione sull’opportunità di conservare le pur povere testimonianze materiali dei vecchi edifici e sul loro significato. L’Abbazia di Montecassino, intorno alla metà del XIV secolo, è stata gravemente danneggiata da un terremoto ma poi ricostruita e in parte modernizzata nel corso del Cinque, Sei e Settecento. In seguito a quel doloroso evento essa coniò il sigillo con la scritta Succisa virescit, per sottolineare che, pur tagliata alle radici come un vecchio albero, da queste era rinata, mantenendo la propria identità. Rinascere dalle radici è molto diverso che partire da zero. Inoltre, pur volendo accettare l’obiezione che “i muri sono frantumati” e irrecuperabili, si può operare salvando almeno il sedime, l’impronta urbanistica. In sostanza, giocando sulle paure delle persone, si corre il rischio che i bellissimi territori dell’Italia Centrale diventino un’altra cosa da sé, magari il luogo di nuove case in legno tirolesi o anche giapponesi. Ma, bisogna domandarsi, esiste una tradizione occidentale del costruire in muratura che abbia qualità antisismiche? Mi piacerebbe sentire le risposte dei colleghi ingegneri. Esiste la possibilità di incorporare i muri
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residui, quali frammenti di verità storica, quali testimonianze, pur poco rispondenti alla “regola dell’arte” ed assai povere, di storia e di vita, entro i nuovi edifici oppure dobbiamo accettare l’ipotesi di una loro scomparsa totale? In questo clima si sta manifestando anche un attacco tout court alle ragioni della conservazione, allo stesso Codice dei Beni Culturali, al concetto di ‘miglioramento’ sismico cui esso fa riferimento. Si è indebolita la funzione del soprintendente rispetto al passato; leggevo documenti del 1946-48 in cui si evidenzia come Piero Gazzola, Gino Chierici ed altri soprintendenti del tempo intervenissero energicamente, con puntuali prescrizioni, nella ricostruzione dei centri urbani e non solo limitatamente ai monumenti ‘vincolati’. Essi avevano allora l’autorità di un prefetto. Due anni fa, per i 40 anni dal terremoto del Friuli (1976), ho avuto modo di partecipare ad un convegno a Udine e di visitare, nei dintorni, un piccolo museo che espone filmati, ritagli di giornale, documenti dell’epoca. L’impressione che ne ho tratto è stata quella di una enorme diversità rispetto ad oggi: vi si percepiva il senso di una solida coesione sociale, che superava anche le divisioni politiche del tempo; di un clero, quello dipendente dal Patriarcato di Aquileia, energico e molto vicino alle popolazioni, che sosteneva si dovessero ricostruire prima le fabbriche, poi le case, infine le chiese; di una volontà di discutere e confrontarsi molto forte. Il soprintendente del tempo, Gino Pavan, dall’alto dei suoi 93 anni, ha presentato con lucidità tutto quello che ha potuto fare tra il maggio e il settembre del 1976, cioè tra la prima e la seconda drammatica scossa che ha distrutto definitivamente molti edifici. Egli in quell’intervallo di tempo è riuscito, con la fiducia che in lui riponevano le imprese locali e col sostengo del commissario di governo Giuseppe Zamberletti, a mettere in sicurezza rapidamente e senza inutili intralci burocratici numerosi monumenti, salvandoli dalla rovina completa; ha messo in gioco tutta la sua autorità e le sue competenze culturali, professionali e tecniche, operando in modo efficace e colto, con straordinari risultati. Oggi, al contrario, sembra sia più opportuno (e prudente) avere tutte le carte ben ordinate ed a posto che affrettarsi a mettere in sicurezza, in condizioni di grave emergenza e di rischio di rinnovate scosse sismiche (com’è puntualmente avvenuto nell’Italia Centrale), i monumenti. Si vede, nelle immagini di seguito, Amatrice prima del recente evento sismico, poi, a seguire, dopo la prima scossa (agosto 2016) e infine dopo le scosse successive (autunno-inverno 2016-17). La foto aerea mostra una situazione di danno gravissima ma si osserva che l’impronta urbana sussiste pienamente, né si può parlare di una ‘polverizzazione’ della città.
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Fig. 1 – La sequenza di eventi sismici del 2016-2017.
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Ma se anche ne fosse rimasto in piedi solo il 20%, avrebbe sempre avuto senso, invece di radere al suolo tutto, com’è avvenuto, utilizzare ciò che restava per reinterpretare e ripensare la città attraverso un progetto certamente contemporaneo ma legato alla memoria e alla sua stessa storia. Nella sequenza delle immagini si vede Amatrice come si presentava pochi mesi fa e come è oggi, completamente spianata: un’importante città medievale totalmente scomparsa senza che sui giornali sia trapelata una minima protesta.
Fig. 2 – In alto: Amatrice (RI) dopo il terremoto del 24 agosto 2016. Sul fondo, a sinistra, la torre civica; Amatrice dopo il terremoto del 30 ottobre 2016. In basso: Rimozione delle macerie in corso, gennaio 2018.
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Sono abbastanza anziano per ricordare il terremoto di Tuscania nel 1971, in occasione del quale non si è lontanamente pensato ad una soluzione del genere. Si potrebbe dire che dagli anni Settanta ad oggi siamo andati indietro, crescendo in burocrazia, in bulimia normativa, ma non certamente in sensibilità culturale. Ad Amatrice sono rimasti in piedi la torre civica, conservatasi miracolosamente intatta, e alcuni telai in cemento armato.
Fig. 3 – Amatrice (RI), 29 gennaio 2018.
Certi edifici si erano comunque conservati e molti crolli non sono da attribuirsi all’inefficacia delle murature antiche ma agli errori costruttivi legati ad interventi recenti condotti sulle antiche case (pesanti solai in cemento armato; travi, pilastri e telai cementizi che hanno comportano alterazioni strutturali; opere di vario tipo ecc.) sovente in termini di abuso edilizio. Alcuni bravi studenti della Facoltà di Architettura de “La Sapienza” Università di Roma avevano incominciato a lavorare, per la loro tesi di laurea, sulla città già prima del terremoto e si sono trovati a confrontarsi con l’evento sismico. Il loro lavoro si rivela adesso molto prezioso, in specie dopo le ultime demolizioni. Partendo da una carta catastale del 1908, si è tentato di restituire come fosse Amatrice in un periodo ancora, per essa, di grande bellezza e di equilibrato sviluppo, prima delle negative, pesanti modifiche subite nel corso della seconda metà del No-
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vecento. La mappa catastale è stata poi aggiornata con i nuovi edifici, suddivisa in isolati e studiata attentamente. Ogni elemento catastale è stato individuato e riconosciuto dalle viste di Google Street; si è partiti dalle visioni prospettiche esterne che, trattate con software dedicati e proiettate su una sfera ideale, hanno poi consentito di ottenere prospetti raddrizzati e, quindi, l’intero edificio in tre dimensioni. Con l’ausilio di fotografie storiche, si è potuta riconoscere di ogni edificio la situazione più antica e descriverne le trasformazioni subite, procedendo per ipotesi, naturalmente, ma assai ben fondate. Queste sono state estese anche alla ricerca del ‘colore’ della città operando sui toni di grigio per capire le variazioni cromatiche da edificio a edificio, agganciando poi i risultati ottenuti ai frammenti d’intonaco tinteggiati che sono stati appositamente ricercati e analizzati.
Fig. 4 – Amatrice (RI), prima e dopo il terremoto.
In base a tale processo si è restituita, in scala 1:100, la volumetria della città al 1908 fornendo un prezioso materiale utile per riflettere su come ricostruire. Alla restituzione virtuale si è accompagnata la realizzazione di un plastico lungo circa sei metri esposto prima Roma, nel Museo delle Terme di Diocleziano, e poi ad Amatrice.
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Fig. 5 – Acquisizione fotogrammi da Google Street, simulando una campagna fotografica. Elaborazione delle foto con il Software AutoPano Giga.
Questo lavoro è ancora più importante se si considera che, prima di demolire completamente la città, avrebbe dovuto essere condotto almeno un rilievo speditivo; ma nulla era stato fatto. Il MiBAC, come accennato, aveva anche raccomandato grande attenzione nella rimozione delle macerie, distinguendole in tre classi, tipo A, B e C, da
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trattare in modi diversi. La prima riguarda le pietre lavorate di una certa qualità; la seconda quelle costruttive degli edifici storici; l’ultima i resti moderni, in cemento armato ed altri materiali, privi di valore. Era un tentativo volto a riconoscere e conservare, anche materialmente, le tracce storiche del costruito, ma di esso non si è tenuto alcun conto, per ragioni legate tanto all’ignoranza quanto agli interessi economici delle imprese appaltatrici (che, pagate a metro cubo, nel rimuovere con mezzi meccanici le macerie hanno approfittato anche per demolire i muri rimasti in piedi). Se ci si sposta a Norcia, si può vedere subito che la situazione è diversa. La città ha fornito una buona risposta al sisma, per gli estesi restauri compiuti dopo il terremoto del 1997, ma i danni maggiori li hanno subiti le chiese, naturalmente più vulnerabili per la loro stessa conformazione e dimensione. La basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila ha sofferto come quella di San Francesco ad Assisi, crollando nel punto di contatto fra due corpi caratterizzati da geometrie ed orientamento diversi: la navata e il transetto, ruotato di 90° rispetto alla prima.
Fig. 6 – Collemaggio, dopo il terremoto del 2009.
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Fig. 7 – Norcia, dopo il terremoto del 2016-17.
La chiesa aquilana, inoltre, era stata fortemente alterata dai restauri condotti negli scorsi anni Sessanta e Settanta i quali avevano comportato l’apposizione, sulle sommità murarie, di pesantissimi cordoli in calcestruzzo armato, alti in alcuni casi un metro ed anche più. Questi, col loro stesso peso, hanno peggiorato la situazione strutturale, già scossa in passato da una sequenza quasi ininterrotta di terremoti, a partire dal XIV secolo fino ad oggi. L’edificio da allora ha contato più di dieci fasi costruttive e ricostruttive, ben riconoscibili nei disegni di rilievo e d’interpretazione storica delle murature.
Fig. 8 – L’Aquila, S. Maria di Collemaggio.
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Nella planimetria che qui si presenta ogni colore indica una famiglia di linee fra loro parallele e ortogonali e aiuta a capire come la chiesa sia tutta ‘deformata’, a causa dei terremoti e dei continui, successivi aggiustamenti; come essa rappresenti una realtà non solo geometricamente ma anche strutturalmente complessa.
Fig. 9 – L’Aquila, S. Maria di Collemaggio. Indagine sugli allineamenti della planimetria della Basilica.
Le pareti cambiano sovente di natura e spessore, per cui è necessario individuare le diverse tipologie murarie, possibilmente datandole e identificando i loro reciproci rapporti stratigrafici e di connessione. In particolare, all’Aquila esiste una tipologia muraria che rappresenta proprio un marchio locale, il cosiddetto “apparecchio aquilano”, un modo di costruire tipico del Due e Trecento, significativo nel particolare taglio delle sue pietre, ma anche nel trattamento dei giunti, nella qualità delle malte, ecc.
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Fig. 10 – Dall’alto: L’Aquila, S. Maria di Collemaggio. Identificazione delle soluzioni di continuità murarie. Catalogazione delle tessiture murarie. Mappatura del prospetto Nord.
Il progetto di consolidamento studiato dai colleghi strutturisti delle Università interessate (L’Aquila e Milano Politecnico) ha previsto, in un primo momento, di estendere su tutta la parete settentrionale, quella più libera e quindi più a rischio, il cosiddetto Reticulatus, un sistema che comporta lo scalzamento di tutti i giunti per introdurre una rete di legamenti metallici. Sistema che altera profondamente la natura e l’autenticità del menzionato apparecchio murario. Da qui un serrato confronto, in sede di Commissione Scientifica di supporto al progetto, fra le istanze proprie dell’ingegneria sismica e quelle della conservazione e della storia dell’architettura; da parte di queste ultime si è posta la questione se fosse proprio indispensabile trattare col Reticulatus l’intera parete, richiedendo che fosse affinata l’analisi per ridurre il previsto impatto strutturale, ipotizzando non un intervento su tutta la superficie utile ma condotto per linee orizzontali e verticali o addirittura per punti, passando, in questo caso, dal sistema del Reticulatus all’uso, più tradizionale, di semplici diàtoni. Alla fine, si è optato per il sistema di linee orizzontali e verticali che, grazie all’indagine storico-stratigrafica, la quale ha evidenziato le porzioni di parete già alterate da precedenti, moderni interventi, è stato contenuto nella sua
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invasività. Tale positiva interazione fra culture e sensibilità diverse ha consentito di trovare, con soddisfazione anche della locale Soprintendenza, quella via di compromesso tra conservazione e sicurezza che spesso si dà, erroneamente, per impercorribile. Nella medesima chiesa non sono mancate altre raffinate soluzioni di consolidamento strutturale, come quella relativa al trattamento dei pilastri ottagoni delle navate.
Fig. 11 – L’Aquila. Consolidamento e restauro della Basilica di S. Maria di Collemaggio (2016-2017). Progetto e direzione dei Lavori: MiBAC, Soprintendenza per L’Aquila e Cratere. Intervento finanziato da Eni.
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Questi, costituiti da una serie di conci che erano stati terribilmente scossi e lesionati dal terremoto e poi messi in sicurezza con fasciature di fibre sintetiche, sono stati restaurati sostenendo, a coppie, gli archi che fiancheggiavano ogni pilastro in modo da poterlo liberare dal suo carico e smontare; ciò per recuperarne tutti i pezzi sani, riparare quelli rotti, sostituire quelli inutilizzabili e poi rimettere in opera il pilastro avendo mantenuto il massimo tasso di autenticità possibile. Non tutti i pilastri avevano sofferto in modo uguale, quelli in prossimità delle testate delle navate erano stati colpiti meno duramente; altri pilastri mostravano interessanti tracce di affreschi, quindi l’intervento è stato modulato punto per punto. Accanto ed in relazione agli aspetti strutturali sono stati considerati anche quelli propriamente architettonici e le valenze spaziali della basilica, edificio piuttosto ricco in sé ed espressione, più che d’una cultura locale, di un’alta committenza napoletana ed angioina, riconoscibile nelle chiese simili e coeve di San Pietro a Majella, a Napoli, e del Duomo di Lucera, in Puglia.
Fig. 12 – Da sinistra: Basilica cattedrale di S. Maria Assunta a Lucera (FG) (XIII-XIV sec.); Basilica di S. Pietro a Majella, Napoli.
Esse mostrano in tutta evidenza un alto transetto con copertura lignea che aiuta a capire come potesse essere, all’origine, quello di Collemaggio, probabilmente trasformato più volte e certamente in età barocca oltre che in anni recenti con la ricostruzione in cemento armato di una tarda cupoletta. Giustamente la Soprintendenza, nel definire il restauro, ha rifiutato il banale “come era e dov’era” ed ha orientato la ricostruzione in un senso non imitativo né retrospettivo ma criticamente volto a restituire quella continuità visiva interna, dalla facciata alle absidi, suggerita dalle menzionate chiese napoletane e che le varie trasformazioni susseguitesi nel tempo avevano interrotto.
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Si è visto che si poteva costruire un transetto più semplice, in parte voltato e in parte a struttura lignea; si è scelta quindi una strada di ricomposizione del corpo centrale del transetto (la cosiddetta ‘crociera’) che consentisse di ricollegare visivamente navata ed abside principale, prima separate. Le volte cinquecentesche sui bracci del transetto, in parte crollate, sono state reintegrate, anche per rimettere al loro posto gli stucchi che erano stati recuperati dal crollo e conservati.
Fig. 13 – L’Aquila, S. Maria di Collemaggio. Viste prospettiche.
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Fig. 14 – L’Aquila, S. Maria di Collemaggio. Viste prospettiche.
Il Duomo di Venzone, in Friuli, dopo il terremoto del 1976 aveva subìto una prima operazione di sgombero delle pietre cadute a terra, prontamente scaricate nell’alveo del vicino fiume Tagliamento.
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Fig. 15 – Venzone (UD), Duomo, dopo la scossa del settembre 1976.
Dopo alcuni anni, grazie al lavoro d’un benemerito gruppo di studio interdisciplinare, si è capito che forse era possibile compiere un’opera di attenta anastilosi, non certo di ripristino più o meno in stile ma di accurata restituzione filologicamente fondata. Si sono così recuperate dall’alveo del fiume le pietre, circa novemila, che sono state catalogate e rimesse in ordine facendo un lavoro - cui gli archeologhi ed anche gli architetti restauratori sono abituati - di riconoscimento per colore, forma, tracce di lavorazione, capendo, anche sulla base di vecchie fotografie, quella che poteva essere la loro originaria posizione.
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Fig. 16 – Venzone (UD), Duomo. Rinvenimento e catalogazione delle pietre.
Contro la pratica odierna dell’abbandono o d’una fintamente pietosa ‘eutanasia’, si è scelta la strada di un’amorevole cura volta alla restituzione di ciò che si poteva ricostruire. La chiesa non presenta i caratteri del ripristino falsificatore e storicamente sommario; osservandola con attenzione, specie all’interno, è facile distinguere, senza che si disturbino in alcun modo fra loro, i muri di ricostruzione perfettamente a piombo e quelli antichi, scossi dal terremoto e per questo un po’ inclinati.
Fig. 17 – Venzone (UD), il Duomo dopo la sua ‘anastilosi’.
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Nel rispetto del concetto affermato da Cesare Brandi della ‘leggibilità a vista dell’intervento’, la chiesa è tornata ad essere chiesa, simbolo urbano e segno paesaggistico attraverso un’operazione paziente di autentico restauro. San Salvatore a Campi, presso Norcia, è una chiesa ‘doppia’, dalla storia piuttosto complessa, ricca di magnifici affreschi, colpita duramente dal recente terremoto. Il suo restauro è stato affidato all’IsCR che, operando coi suoi giovani allievi, ha rimosso le macerie in maniera intelligente e selettiva.
Fig. 18 – S. Salvatore a Campi (Norcia, PG), prima del terremoto del 2016-17 e dopo il terremoto del 24 agosto e del 30 ottobre 2016. Recupero ordinato dei frammenti (Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro) – settembre 2017.
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Grazie ad un opportuno lavoro di messa in sicurezza provvisoria, oggi, tolte le macerie interne, si può notare come della chiesa ancora molto sussista e come sia possibile agire in termini di ricucitura e rammendo, con tutte le componenti d’invenzione e creative di cui il restauro può, lecitamente, avvalersi. La differenza col caso di Amatrice è abissale; qui non si è cercato di fare rapidamente ‘piazza pulita’ né certo si pretende che, ad Amatrice, per ogni vecchia casa si debba procedere come nel San Salvatore, ma un minimo di attenzione, che pure il MiBAC aveva raccomandato, poteva ben essere preso in considerazione.
Fig. 19 – Campi di Sotto (Norcia, PG), San Salvatore, dopo la rimozione delle macerie con il controllo del MiBAC, aprile 2018.
Un altro problema che si pone è quello della (sempre presunta) impossibilità di ricostruire ripartendo dai ruderi o almeno inglobandoli nella nuova costruzione. Per diretta esperienza ho visto come l’ingegner Giuseppe Tosti di Perugia sia riuscito, stimolato da esigenze conservative, da lui non rigettate ma prese seriamente in considerazione, a riedificare sui vecchi muri le porzioni da lungo tempo cadute dell’abbazia altomedievale di San Salvatore Maggiore a Concerviano (Rieti), a rifoderare i muri che avevano perso il paramento, a reintegrare le volte parzialmente crollate conservandone ogni possibile traccia materiale e non rifacendole in copia. Grazie alle sue capacità ed alla sua esperienza tutto ciò si è potuto fare anche in una zona fortemente sismica.
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Fig. 20 – Abbazia di S. Salvatore Maggiore a Concerviano (RI), restauro.
Seguono alcuni esempi che riguardano ricostruzioni post-belliche. – Sull’Alte Pinakothek di Monaco (Germania), l’architetto Hans Döllgast ha lavorato seguendo, intuitivamente, i principi scientifici e metodologici formulati con grande chiarezza da Cesare Brandi e Paul Philippot, mirando a restituire la ‘struttura formale’ e il ‘ritmo’ dell’edificio neoclassico e non la ‘lettera’ o il ‘dettaglio’ linguistico e decorativo. Egli ha riproposto quanto serviva per ripresentare figurativamente e funzionalmente l’edificio e nulla più.
Fig. 21 – Monaco, Alte Pinakothek, restauro.
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– Liliana Grassi e Ambrogio Annoni, restauratori milanesi, nel loro intervento sul Chiostro della Ghiacciaia nell’Ospedale Maggiore, opera del Filarete, a Milano, hanno dimostrato di saper accettare e dare un senso architettonico e, aggiungerei, poetico al rudere, al frammento. In un’altra parte, dove la perdita era totale, sono intervenuti attraverso un’architettura schiettamente contemporanea ma capace di serbare memoria di quanto perduto.
Fig. 22 – Milano, ex ospedale Maggiore alla Ca’ Granda. Chiostro della Ghiacciaia. XV sec. Restauro A. Annoni, L. Grassi e P. Portaluppi, 1948-1985.
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– La Torre Salomon a Visegrád in Ungheria, risalente al XIII secolo, era stata mozzata nel corso del tempo, poi parzialmente ricostruita in stile negli scorsi anni Venti, sino ad essere ripresa, nei successivi anni Sessanta, da bravi architetti ungheresi che l’hanno completamente reintegrata nel suo volume impiegando una sorta di tecnica del ‘rigatino’, molto diffusa nel campo pittorico ma qui applicata al cemento armato, utilizzando il disegno prodotto dalle impronte delle casseforme.
Fig. 23 – Visegrád (Ungheria), Torre di Salomon, XII-XIII sec. Restauro Janos Sedlmayr, 1963-1966.
La ricostruzione ha un senso perché la torre si trova su un’ansa del Danubio e rappresenta un landmark paesaggistico fondamentale, come il Campanile di San Marco a Venezia. È stata volutamente perseguita la strada della riconoscibilità del nuovo intervento; da lontano è garantito l’effetto di volume unitario; dal basso ed avvicinandosi si notano la diversità dei paramenti murari e il carattere distintivo della moderna reintegrazione; all’interno, un gioco di reti metalliche, poste a suggerire la forma delle perdute volte a crociera ed a reggere le superstiti chiavi di volta, vale come sussidio in termini di ‘anastilosi indiretta’, una modalità museale che dà l’idea dello spazio antico attraverso un’interpretazione moderna, senza ricostruire falsamente quanto si è perduto.
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– Pier Luigi Cervellati lavora al restauro dell’oratorio di San Filippo Neri a Bologna, bombardato e iniziato a ricostruire negli scorsi anni Quaranta a cura del Soprintendente Alfredo Barbacci, il quale realizza alcune strutture in calcestruzzo armato, destinate poi ad essere rivestite in stucco per reintegrare alcune membrature architettoniche perdute. Il caso in esame dimostra come gli edifici danneggiati e ben restaurati possano assumere, al tempo stesso, qualità narrative, storiche e artistiche, antiche e moderne. Cervellati completa la ricostruzione mantenendo inalterata addirittura l’incompleta fase degli anni Quaranta, quale palinsesto e ‘stratificazione’ espressiva della cultura di un’epoca e di un preciso momento storico; ripropone le volte, ma in doghe di legno, assonanti, come nel caso ungherese, ad un ‘rigatino’ pittorico.
Fig. 24 – Bologna, Oratorio di S. Filippo Neri, XVIII sec. Reintegrazione Pier Luigi Cervellati, 1998-99.
Questo esempio dimostra che esiste una sostanziale unità di metodo nel restauro, da declinare poi, ovviamente, secondo le specificità di ogni singola arte, architettura compresa. Si vede bene come sussista un’integrazione e, per così dire, un’omologia fra i ragionamenti del restauro pittorico e scultorio e quelli del restauro architettonico. Inoltre, la volta
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Beni culturali e danni da terremoto
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in legno non spinge, non crea problemi di consolidamento ulteriore a carico delle vecchie murature già scosse dal bombardamento. Sulla stessa linea si riconoscono altre soluzioni analoghe di architetti spagnoli interessanti, come José Ignacio Linazasoro (chiesa di Santa Croce a Medina de Rioseco, in provincia di Valladolid; chiesa delle Scuole Pie di San Ferdinando a Madrid).
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– Il Neues Museum di Berlino è un edificio bombardato e incendiato durante la Seconda Guerra Mondiale, oggi ricostruito dall’architetto inglese David Chipperfield utilizzando, su un ampio fronte reintegrato, mattoni di recupero ma con un’architettura non imitativa, bensì semplificata e creativamente reinterpretata.
Fig. 25 – Berlino, Neues Museum, David Chipperfield Architects, 1997-2009 e ss.
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Essa non ripete pedissequamente i dettagli ma riprende il ritmo ed i valori volumetrici e spaziali originali (secondo la menzionata lezione di Brandi e Philippot) proponendoci un edificio, di grande qualità, antico e nuovo al tempo stesso. È un modo molto ‘italiano’ di affrontare la reintegrazione, arretrando leggermente le superfici delle porzioni rinnovate, semplificando, come detto, le forme, garantendo una garbata distinguibilità a vista: vecchi ma ancor validi criteri che discendono dal restauro archeologico ottocentesco e novecentesco italiano. Si tratta di una soluzione, a mio avviso, splendida anche se non pare sia molto amata dai Tedeschi i quali avrebbero forse preferito una ricostruzione in stile, un finto antico come si sta facendo, appunto, nel caso dello Stadtschloss, sempre a Berlino. Circa i possibili paralleli fra i restauri pertinenti alle varie arti, si osservino i casi seguenti, espressioni anch’essi dell’unità di metodo prima richiamata. – Il dipinto su tavola, raffigurante una Madonna col Bambino, conservato nel Museo Bandini di Fiesole (Firenze), in antico di forma rettangolare e poi tagliato nella sua parte inferiore per ridurlo a un quadro, è stato restaurato alcuni decenni or sono da Umberto Baldini, allora direttore dell’OPD di Firenze, avendo cura di restituire la dimensione originale, il senso di verticalismo del dipinto, riproponendo in maniera indicativa, riconoscibile e reversibile, secondo i principi di autentica filologia letteraria, le parti perdute. Tutto ciò facendo il minimo indispensabile, aggiungendo piuttosto che togliendo, seguendo tutti i criteri del restauro scientifico per ridare il senso più compiuto all’immagine, proprio come richiede l’art. 9 della Carta di Venezia del 1964, quando parla della funzione ‘conservativa’ ma anche ‘rivelativa’ del restauro.
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Fig. 26 – Fiesole, Museo Bandini, Madonna col Bambino, restauro.
– Per i Bronzi di Cartoceto (Pesaro-Urbino), reperti romani risalenti al I sec. d.C. ritrovati alcuni decenni fa da un contadino in una fossa in piena campagna, si è studiato un restauro che, senza limitarsi alla mera conservazione materiale dei frammenti, ricomponendoli accuratamente desse la possibilità di restituire un senso e di rimettere in forma un’opera d’arte, prima completamente illeggibile se non come pura materia.
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Fig. 27 – Cartoceto (PU), bronzi romani, restauro di ricomposizione.
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– Il restauro ideato e condotto dall’architetto Paolo Martellotti del famoso bronzo di Domiziano-Nerva da Capo Miseno, presso Napoli, ha previsto il rimontaggio dei frammenti superstiti, in parte anche deformati. L’intervento esprime visivamente le numerose incertezze interpretative tramite l’impiego di accorgimenti ‘diacritici’, vale a dire atti a distinguere, che sono qui rappresentati dall’impiego del legno e dell’acciaio al posto del bronzo mancante. Ad esempio, nel caso del collo del cavallo o del suo torace, il legno traduce in forma scultorea l’ipotesi critica formulata, sulla quale si è condotta la reintegrazione; anche il fatto che all’interno della statua dell’imperatore ogni pezzo sia montato in maniera assolutamente reversibile e agevolmente modificabile, in caso di nuove e più valide ipotesi o anche della scoperta di ulteriori frammenti, risponde alla medesima logica di seria ed autentica ‘filologia’ artistica.
Fig. 28 – Statua equestre di Domiziano-Nerva, restauro.
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Per dare fondamento ad ogni ipotesi, fra cui la posizione del braccio dell’imperatore nell’atto di scagliare la lancia o del cavallo in quello di impennarsi, si è rivelato indispensabile lo studio storico e archeologico che ha contribuito a far comprendere il tema iconografico della scultura. Il modello di condottiero che aveva in mente l’imperatore Domiziano era Alessandro Magno, quindi si è pensato al famoso gruppo equestre bronzeo, oggi perduto, della Turma di Alessandro nella battaglia del Granico, opera dello scultore Lisippo, e si è subito volta l’attenzione ad un piccolo bronzo di Pompei che rappresenta il re macedone in battaglia, così come Lisippo lo aveva raffigurato. Si è capito così il tema iconografico e si è potuta di conseguenza restituire, pur ipoteticamente ma con una buona dose di sicurezza, la configurazione antica della scultura. I tagli nel busto e nel collo del cavallo sono, come detto, espressioni plastiche di dubbi storico-critici: leciti, esibiti agli occhi dell’osservatore e non nascosti come nel restauro in stile o, peggio, in quello che tanto piace al mercato antiquario, dove vero e falso si mescolano disinvoltamente. Si tratta, come sembra ragionevole, d’un cavallo da battaglia muscoloso ma snello o di uno, dall’ampia groppa, da viaggio, come quello della statua equestre di Marco Aurelio in Roma? Non lo sappiamo con assoluta certezza. I dubbi sono espressi, dunque, attraverso interruzioni del ritmo figurativo, ma la parte in legno si distingue tanto dal bronzo quanto dall’acciaio, verniciato in nero, che costituisce la struttura portante e che cerca di proporre e presentare altre ipotesi, in questo caso relative a come la statua poteva essere vista in antico, nella sua collocazione monumentale. L’insieme è un’opera multidisciplinare di storia dell’arte, archeologia, architettura, restauro del bronzo, museografia ma è anche un’opera d’intelligente ingegneria perché tutto è stato realizzato senza apportare la minima alterazione ai pezzi originali, attraverso elementi che si espandono e lavorano per attrito con materiali sintetici, a formare una sorta di automa modificabile a piacimento.
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Fig. 29 – Baia, Museo Archeologico dei Campi Flegrei Domiziano/Nerva: struttura legno/ferro – struttura braccio/gamba. Restauro P. Martellotti 1987.
Per concludere, il restauro è sempre un’ipotesi critica “non verbale ma tradotta in atto” (come ha scritto Paul Philippot) e in quanto tale può essere revocato in dubbio in qualunque momento. Di conseguenza i lavori di restauro (ma anche di consolidamento) dovranno, per quanto possibile, essere sempre reversibili, rilavorabili e correggibili nel tempo. Il minimo intervento, la reversibilità, la riconoscibilità, la compatibilità fisico-chimica e figurativa, insieme ai criteri filologici menzionati, rappresentano i cardini ed i principi-guida della disciplina da considerare con intelligenza, misura e capacità di interpretare le specifiche situazioni proprie dei diversi casi e tipi di beni culturali: conosciuti anche da chi si troverà a lavorare sugli umili resti dei nostri centri storici scossi dai recenti sismi, beni culturali a tutti gli effetti, anche sotto il profilo storico-urbanistico. Centri che purtroppo vedo sottoposti a gravi rischi non più generati dalla furia del terremoto ma ormai, come sempre più spesso accade, da quella del post-terremoto.
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Monumenti e terremoti: fare o non fare?
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Gianmarco de Felice
Sicurezza e Conservazione, sono questi i due termini ricorrenti nel dibattito che ha seguito gli eventi sismici dell’Italia Centrale nel 2016. Sicurezza e conservazione sono tornati ad essere i baluardi di una contrapposizione tra i paladini del “fare”, spinti dalla necessità di assicurare un livello di sicurezza sismica adeguato al nostro patrimonio, ed i paladini del “non fare” mossi da un’istanza di tutela e conservazione rispetto ad un pressante interventismo irrispettoso degli aspetti materici e costruttivi del patrimonio. Tra chi sostiene che: «alle volte, la conservazione diventa motivazione, ritenuta inattaccabile, per non fare interventi che invece sarebbero indispensabili» e chi al contrario ritiene che «alle volte, la sicurezza diventa motivazione, ritenuta inattaccabile, per sostenere soluzioni progettuali improprie». La complessa armonizzazione tra sicurezza e conservazione ci fa tornare indietro nel tempo a 25 anni fa, quando Antonino Giuffrè nel 1993 pubblicava il libro Sicurezza e conservazione dei centri storici. Il caso Ortigia. Allora, come oggi il dibattito era rivolto a come coniugare la conservazione dei centri storici con la sicurezza sismica delle costruzioni e delle persone che vi abitano. C’era, a Ortigia, una situazione particolare. Era stato approvato da qualche anno il piano particolareggiato, disegnato da Giuseppe Pagnano, che con eccezionale impegno, attraverso un rilievo meticoloso del costruito di Ortigia, prescriveva azioni di tutela e conservazione specifiche e dettagliate sugli elementi architettonici e costruttivi, anche delle case minori. Ma non era semplice intervenire secondo il piano particolareggiato, in un momento in cui il Genio Civile prescriveva la sostituzione degli impalcati in legno con solette rigide di latero-cemento e la sistematica realizzazione di cordoli in c.a. Ecco che, chi operava in ottemperanza al Piano, vedeva spesso bocciato il suo progetto perché non rispondente alle norme sismiche. L’intervento edilizio era divenuto complesso e problematico, nonostante la disponibilità di fondi e l’impulso della comunità di Siracusa verso il recupero delle antiche costruzioni di Ortigia. In questa impasse istituzionale,
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l’Amministrazione comunale chiese ad Antonino Giuffrè di verificare in che misura e con quale tipologia di interventi era possibile garantire la sicurezza sismica delle costruzioni storiche di Ortigia, senza snaturare la loro consistenza materica e costruttiva. Fu quella l’occasione per maturare un approccio diverso di analisi del comportamento sismico basato non sulla modellazione globale e sull’analisi dinamica lineare, ma sull’impiego dei cosiddetti meccanismi di collasso. Fu anche l’occasione per aprire una nuova stagione di studio e di approfondimento dell’efficacia antisismica delle tecnologie tradizionali. Oggi in un contesto più grave, legato ai tanti eventi sismici che hanno interessato il nostro paese e alla necessità di procedere celermente alla riparazione delle costruzioni danneggiate, ci si trova in una condizione analoga. Abbiamo la necessità di capire in che modo coniugare la sicurezza delle costruzioni storiche e delle persone che le abitano con la conservazione del nostro patrimonio. Non bisogna cedere al catastrofismo di quanti affermano l’inadeguatezza delle costruzioni tradizionali, né allinearsi inconsapevolmente a quanti professano la valenza antisismica di tutto quanto è vecchio in quanto ha già superato la prova del tempo. È necessario ripartire dalla costruzione, guardarla con spirito critico, identificare i punti deboli, i traumi subiti, le stratificazioni e le carenze venute alla luce. È poi necessario impiegare metodologie appropriate di analisi strutturale, in modo da pervenire ad una stima affidabile del livello di sicurezza, quale presupposto per la scelta dell’eventuale intervento. Ed è altrettanto necessario selezionare le tecnologie e le tecniche migliori e meno invasive per raggiungere un livello di sicurezza adeguato, nel rispetto dei caratteri materici e costruttivi storici. In questo, sono di ausilio le immagini ed i filmati dei danni causati dagli eventi sismici, con il loro portato di sperimentazione in scala reale della costruzione effettiva. L’osservazione dei danni sismici è la chiave di lettura migliore per comprendere il comportamento delle strutture murarie. Da una semplice ricognizione degli eventi passati, ci si accorge di quello che oggi, in qualche modo, è ormai riconosciuto dalla comunità scientifica: «il sisma non disintegra in modo disordinato le case, ma seleziona le parti strutturali e le soluzioni tecnologiche più deboli. Sono quelle che cedono e provocano danni e collassi mediante meccanismi definibili in anticipo».
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Fig. 1 – La Palazzata di Messina dopo il terremoto del 28 dicembre 1908.
Sono due gli elementi principali che emergono da una rassegna dei danni sismici. Il fatto che il danno sismico è parziale e interessa una delle pareti di facciata che si distacca e collassa senza trascinare con sé le pareti limitrofe. E poi le modalità di collasso: il moto della parete è generalmente governato dalla cinematica dei corpi rigidi e si manifesta con l’attivazione di cerniere cilindriche in un moto di ribaltamento fuori dal piano (Figure 1-3).
Fig. 2 – Immagini dei danni del terremoto di Avezzano del 13 gennaio 1915.
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Fig. 3 – Danni delle costruzioni murarie di Siracusa a seguito del terremoto di Carlentini del 13 dicembre 1990: si nota il distacco della porzione sommitale della facciata dal muro ortogonale, con una lesione in prossimità dell’angolata.
È la mancanza di connessione tra le parti, tra pietra e pietra, tra parete e parete, che consente il verificarsi di collassi parziali. Ricordo, quando ero ancora studente, una relazione in cui il prof. Giorgio Croci illustrava i modi di vibrare del Colosseo, basati appunto sulla dinamica elastica delle strutture murarie. Oggi, a distanza di trent’anni, si è compreso che il comportamento delle strutture storiche è governato dalla dinamica dei corpi rigidi piuttosto che da quella dei mezzi elastici. Nel momento, in cui, complice la mancanza di connessione tra le parti, una parete si distacca, questa risponde con un moto di dondolamento intorno alla base ed il suo comportamento non è più influenzato dal resto del complesso. Il moto di dondolamento non è più governato, come per una struttura elastica, da un periodo proprio di vibrazione, poiché il periodo stesso dipende dall’ampiezza del moto, come in un pendolo (Figura 4).
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Fig. 4 – Differenze e analogie tra il moto di un oscillatore elastico e il moto di dondolamento del corpo rigido. Si veda: N. Makris & D. Konstantinidis (2003) The rocking spectrum and the limitations of practical design methodologies, Earthquake Engineering and structural Dynamics, 32, pp. 265-289
La risposta sismica del fabbricato è locale, non globale: ciò che riguarda un muro, non interessa necessariamente il muro adiacente e, quindi, solo la parte più debole della costruzione cede al sisma senza trascinare con sé le porzioni limitrofe. Questa chiave di lettura è importante soprattutto per fornire una risposta adeguata a chi deve intervenire su queste strutture: se il danno si localizza nelle pareti più deboli è lì che diventa necessario un presidio sismico, senza la necessità di interventi generalizzati a tutto il complesso.
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Fig. 5 – L’Aquila, danni negli edifici murari dopo il terremoto del 6 aprile 2009.
Ecco che, nelle costruzioni murarie, diventano meno rilevanti i concetti di regolarità strutturale, così centrali nel comportamento sismico delle strutture elastiche continue, le quali si comportano come tutt’uno, dove gli effetti dovuti all’eccentricità tra centro di massa e centro di rigidezza, in presenza di impalcati rigidi, amplificano le sollecitazioni sugli elementi perimetrali e dove la crisi di un pilastro può drammaticamente trascinare con sé gli altri elementi fino al collasso degli impalcati. Nelle strutture murarie sono le pareti prive di continuità con i solai che si distaccano dal resto della fabbrica e cedono al sisma (Figura 5). Il problema meccanico non è governato dalla resistenza del materiale: due pareti con resistenza anche molto diversa si comportano allo stesso modo se hanno la medesima geometria. La resistenza sismica alle azioni orizzontali che la trascinano fuori dal piano dipende principalmente dalla geometria della parete e precisamente dal rapporto tra lo spessore e l’altezza. Quanto più la parete è tozza tanto maggiore è l’accelerazione orizzontale necessaria ad innescare il meccanismo di collasso per ribaltamento. Non si tratta di una gran novità, già alla fine del Settecento Rondelet e la gran parte dei trattati di costruzioni dibattevano sullo spessore necessario per la stabilità delle pareti molto più che sulla resistenza dei materiali con cui le pareti erano costruite. C’è dunque una tradizione, una cultura della costruzione, che aveva già correttamente interpretato i fondamenti della meccanica delle costruzioni murarie (Figura 6).
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Fig. 6 – J. Rondelet, tre meccanismi di collasso dei muri.
Con il mio gruppo di ricerca del Dipartimento di Ingegneria dell’Università Roma Tre abbiamo voluto approfondire il comportamento sismico delle pareti murarie attraverso una sperimentazione su tavola vibrante, con la quale riprodurre i meccanismi di collasso delle costruzioni storiche, misurando spostamenti, accelerazioni, in modo da raccogliere una base sperimentale di riferimento per verificare l’attendibilità dei modelli di previsione e delle formule di verifica. La sperimentazione è stata possibile grazie ai finanziamenti della Protezione Civile attraverso il Consorzio ReLuis, che ha avuto un ruolo molto importante di promozione e sviluppo degli studi di ingegneria sismica nell’ultimo decennio in Italia, e con il supporto logistico dell’Enea, che ha messo a disposizione il proprio laboratorio con la tavola vibrante per prove in scala reale. È stato quindi costruito un prototipo composto da tre pareti di muratura in blocchi di tufo, che riproducesse un modulo elementare di una costruzione muraria (Figura 7). L’esperimento è stato progettato facendo in modo che la parete centrale fosse un po’ slegata dal resto, connessa semplicemente con un giunto
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di malta alle due pareti laterali, come succede a volte anche nel tessuto storico dove la nuova costruzione si addossa a quella preesistente senza troppa cura nel realizzare ammorsamenti di sorta. Quale input sismico da attribuire alla tavola vibrante, abbiamo selezionato le registrazioni di alcuni degli eventi sismici italiani più significativi: Irpinia 1980, Umbria-Marche 1997, L’Aquila 2009, Emilia 2012, con valori dell’accelerazione di picco al suolo variabili tra 0,16 e 0,45 g (Figura 8). I medesimi segnali accelerometrici registrati dai sismografi sono stati attribuiti alla tavola vibrante, operando una scalatura dell’ampiezza, in una sequenza crescente di intensità sismica, in modo da analizzare la risposta della struttura a sismi via via più severi.
Fig. 7 – Il prototipo costituito da tre pareti in muratura di tufo sottoposto a prove sperimentali su tavola vibrante nei laboratori ENEA Casaccia. Si veda: O. Al Shawa, G. de Felice, A. Mauro, L. Sorrentino (2012) Out-of-plane seismic behaviour of rocking masonry walls. Earthquake Engineering & Structural Dynamics, 41, pp. 949-968.
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Monumenti e terremoti: fare o non fare?
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Fig. 8 – Caratteristiche degli input sismici selezionati.
La prova sperimentale condotta, per quanto possa sembrare essenziale nelle sue caratteristiche geometriche e non completamente rappresentativa della complessità di una muratura storica, ha permesso di riprodurre la risposta dinamica di un meccanismo di collasso e quindi stimare la resilienza sismica dei meccanismi locali. Le prove hanno evidenziato che esiste un’importante riserva di capacità sismica delle pareti rispetto ai meccanismi locali di collasso. Esiste cioè una grande differenza tra l’azione in grado di provocare il distacco della parete e quindi attivare il meccanismo di ribaltamento, e quella necessaria per causarne il collasso. Non basta che il picco di accelerazione dell’azione sismica al suolo sia pari a quello che attiva il meccanismo, è necessario anche che l’energia trasferita alla struttura sia tale da spingere nella stessa direzione la parete per un tempo sufficiente a raggiungere la condizione di equilibrio instabile e di collasso incipiente. Nel caso di specie, la parete raggiunge la condizione di collasso per ribaltamento solo per un’azione sismica quattro volte superiore a quella in grado di attivare il cinematismo. Altro aspetto importante, la ricaduta in termini di modellazione ed analisi strutturale. Per analizzare il comportamento sismico dei meccanismi locali sono necessari modelli capaci di riprodurre le discontinuità e simulare i distacchi che si verificano sperimentalmente. L’analisi strutturale mediante modelli continui in cinematica infinitesima mostra tutti i suoi limiti all’attivazione del meccanismo e l’incapacità di rappresentare compiutamente i fenomeni d’interazione dinamica della struttura durante il moto. Di qui l’impulso raccolto dalla comunità scientifica nazionale e internazionale all’impiego di approcci basati sull’analisi di strutture a blocchi o mediante modelli a elementi discreti, in grado simulare l’evoluzione dinamica del meccanismo di collasso con la perdita
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e formazione dei contatti tra i blocchi che compongono la parete in cinematica finita, attraverso l’integrazione esplicita delle equazioni del moto nel dominio del tempo. E, infine, il capitolo al centro del dibattito attuale sulle metodologie e le tecniche d’intervento per il rinforzo e miglioramento sismico. Da alcuni anni sono disponibili sul mercato edilizio nuove tecnologie di rinforzo che fanno uso di materiali innovativi provenienti dall’industria aeronautica e automobilistica, con l’impiego di tessuti ad alte prestazioni meccaniche (carbonio, basalto, acciaio UHTSS) che, applicati sul paramento delle murature nello spessore dell’intonaco, possono conferire quella capacità di assorbire azioni di trazione di cui i muri, per loro natura, sono sprovvisti. Nonostante i molti nodi da sciogliere sulle caratteristiche di durabilità, reversibilità e compatibilità di questi sistemi con l’edilizia storica, essi costituiscono un’eccezionale opportunità per la conservazione e il rinforzo strutturale delle costruzioni esistenti. Ma prima ancora di ricorrere a nuove tecnologie, non vanno trascurate le tecnologie tradizionali di miglioramento sismico, innanzitutto l’impiego delle catene metalliche, la cui efficacia e durabilità sono comprovate dal loro costante impiego in tutte le regioni sismiche (Figura 9). Le catene, senza modificare la risposta dinamica, né alterare le rigidezze e le masse della struttura, operano quel grado di vincolo atto ad impedire la formazione dei meccanismi locali, senza introdurre pericolose azioni di disgregazione sulle murature.
Fig. 9 – Le catene quale intervento tradizionale di miglioramento sismico.
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Subito dopo gli eventi sismici dell’Italia centrale si è molto dibattuto sulle tecniche di intervento a basso impatto, tali da poter essere realizzate senza dover richiedere l’evacuazione dei fabbricati. È certo che a parità di risorse, è preferibile un intervento leggero ed economico, da effettuare su una vasta popolazione di edifici, piuttosto che un intervento di adeguamento sismico complesso e costoso da riservare a una popolazione più ridotta. L’intervento più leggero è spesso anche più rispettoso del funzionamento strutturale originario: si aggiunge qualche presidio, si pone rimedio agli elementi spingenti o isolati, senza cedere ad interventi generalizzati o indifferenziati. L’incatenamento delle murature è certamente il presidio sismico più semplice ed efficace: trattenendo le pareti al moto fuori dal piano, ne riporta l’azione su quelle ortogonali che, essendo sollecitate nel proprio piano, contribuiscono in modo determinante alla capacità complessiva sia in termini di accelerazione che di spostamento. Con questo in mente, dopo una prima sessione di prove sul prototipo non rinforzato, si è passati a valutare il contributo delle catene. Sono state installate due catene ai lati della parete centrale direttamente vincolate ai muri di spina laterali (Figura 10). I risultati della campagna sperimentale effettuata con il provino munito di catene testimoniano un incremento della capacità sismica in termini di accelerazione di oltre il 250%: la condizione di collasso della parete non rinforzata si verifica per la registrazione di Calitri (Irpinia) scalata ad un valore del PGA di 0,29g, la condizione di danno grave nella parete rinforzata con catene si raggiunge per un valore di PGA di 0,82g.
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Fig. 10 – Il prototipo rinforzato con catene e testato nuovamente su tavola vibrante.
Tornando agli eventi sismici dell’Italia centrale, tuttavia, si è riaperto un dibattito che si era sopito in seno alla comunità scientifica nazionale. È sufficiente guardare le immagini di Amatrice o di Accumoli per osservare come il livello di distruzione operato dal sisma non sia riservato a pochi edifici o soluzioni tecnologiche più deboli, ma sia generalizzato e tale da investire la gran parte del patrimonio edilizio (Figura 11).
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Fig. 11 – Amatrice subito dopo il terremoto del 24 agosto 2016.
La domanda che nasce spontanea è: «Questi edifici che hanno patito danni e crolli così estesi sono stati tutti costruiti in spregio alla regola dell’arte o, piuttosto la regola dell’arte essa stessa non è stata sufficiente a garantire la sicurezza sismica delle costruzioni?». Il dibattito è cruciale e dà luogo a soluzioni che vanno in direzioni divergenti. In un caso, si tratta di evidenziare e isolare quei casi originariamente carenti, o divenuti vulnerabili per mancanza di manutenzione o a seguito di interventi incongrui che hanno appesantito gli orizzontamenti e incrementato le masse, senza l’accortezza di verificare la tenuta delle antiche strutture murarie. Nell’altro caso, si tratta di riconoscere la debolezza intrinseca delle murature di ampie fasce dell’appennino costruite con pietrame minuto e troppo irregolare, legate con una malta povera di calce che nel tempo ha completamente perso quelle proprietà leganti e che oggi non ne garantisce più la sicurezza rispetto alle azioni sismiche. Si tratta di decifrare, dalla sperimentazione operata dal sisma, se nei piccoli centri dell’Appennino esista o meno una tradizione costruttiva muraria che abbia valenza antisismica e, anche avvalendosi delle immagini comparative che illustrano la situazione dei medesimi edifici prima del terremoto, decifrare le cause della distruzione e dei crolli dei fabbricati di Amatrice e di Accumoli. D’altra parte, non si tratta soltanto della vulnerabilità dell’edilizia minuta, di fabbricati che hanno patito al-
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cune manomissioni e rimaneggiamenti ma anche di chiese e costruzioni monumentali cui il terremoto non ha riservato una sorte migliore. Le immagini dei danni sismici hanno soprattutto evidenziato il difetto di monoliticità delle murature di pietrame che, in molti (troppi) casi, si sono disgregate rovinosamente, con il paramento esterno slegato da quello interno e tale da non consentire l’attivazione dei cinematismi di corpo rigido (Figura 12). Diceva il Donghi, nel suo Manuale dell’Architetto, che il difetto di monoliticità è il principale pregiudizio di una muratura. Così pure, gran parte dei trattati ottocenteschi richiamano l’attenzione del costruttore sulla necessità di realizzare diatoni nello spessore del muro. A Siracusa, ad esempio, i prezziari settecenteschi prescrivevano l’uso di elementi a guisa di parallelepipedi disposti nello spessore della parete tali da legare tra loro i due paramenti.
Fig. 12 – Amatrice: crolli causati della disgregazione delle murature e dal distacco del paramento esterno.
L’intrinseca debolezza di molte murature è stata ulteriormente sollecitata dal rovinoso effetto delle repliche sismiche così importanti nel numero e nell’intensità, le quali hanno colpito i medesimi edifici già fiaccati dalle scosse degli eventi precedenti, in una progressione di danneggiamento che si legge nelle drammatiche immagini che ritraggono
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Monumenti e terremoti: fare o non fare?
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l’aggravarsi del danno mese dopo mese, anche dei monumenti più importanti (Figura 13).
Fig. 13 – Chiesa di S. Agostino ad Amatrice: il progressivo collasso delle murature a seguito delle repliche sismiche del 24 agosto 2016 (in alto a sinistra), 26 ottobre 2016 (in alto a destra), 30 ottobre 2016 (in basso a sinistra), 18 gennaio 2017 (in basso a destra).
Da quanto è stato possibile osservare nei sopralluoghi effettuati nelle aree colpite dal sisma, nonostante la severità del terremoto e le successive repliche, l’edificio ben costruito e manutenuto si è lesionato, anche gravemente, ma non è crollato rovinosamente. Il disastroso esito degli eventi sismici dell’Italia centrale nei centri di Amatrice e di Accumoli è da ricercare prevalentemente nel mancato rispetto della regola dell’arte della costruzione muraria. Muri realizzati con pietrame minuto e irregolare, privi di legature trasversali con malta povera di calce, completamente decoesa e incapace di svolgere quel ruolo di legante che i Romani ci hanno dimostrato essere la chiave della durabilità delle loro costruzioni. A questo si è aggiunta tutta una serie di trasformazioni, addizioni,
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manomissioni, che non hanno giovato alla risposta strutturale. È come se in questi borghi si fosse perduta la memoria del terremoto e fosse venuto meno l’incentivo a investire nella manutenzione delle strutture e nella sicurezza delle case. Anche quando l’intervento era stato concepito per migliorarne il comportamento sismico attraverso la sostituzione degli orizzontamenti con diaframmi in latero-cemento o con l’inserimento di cordoli in cemento armato, i risultati non sono stati migliori. Guardando gli effetti del sisma sulle costruzioni murarie con l’occhio dello sperimentatore, ecco che si rileva una particolare concentrazione di danni e di dissesti proprio in corrispondenza dell’attacco delle cordolature e dei diaframmi rigidi con le murature sottostanti in pietra che hanno ceduto o si sono completamente disgregate (Figura 14).
Fig. 14 – Disgregazione delle murature al disotto dei cordoli in c.a.
I cordoli hanno naturalmente il pregio di legare in sommità la costruzione e contrastare l’attivazione dei meccanismi fuori piano. I diaframmi rigidi operano un’azione di ripartizione delle azioni sismiche tra gli elementi portanti con la conseguente attivazione di una risposta globale del fabbricato. Nonostante la benefica azione di inibizione dei meccanismi locali, dobbiamo tuttavia prendere atto della sostanziale non adeguatezza di cordoli in cemento armato e dei diaframmi in laterocemento su murature di fattura non eccellente. Questi interventi conducono, in generale, ad un incremento delle masse con il conseguente incremento delle forze d’inerzia prodotte dal sisma, che, in presenza di murature deboli come quelle degli Appennini, può risultare rovinoso. Essi comportano inoltre una discontinuità nella rigidezza dell’elemento strutturale che, nella risposta dinamica, provoca l’insorgenza di con-
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centrazioni di tensione sulle porzioni di muratura limitrofe agli inserti in c.a. e la conseguente disgregazione delle murature in quei punti. Gli impalcati rigidi, inoltre, modificano la risposta sismica complessiva, che diventa notevolmente più sensibile alle irregolarità della struttura sia in termini di geometria che di distribuzione delle masse e delle rigidezze, con la nascita di ulteriori fenomeni di concentrazione delle sollecitazioni. Al contrario di quanto succede negli edifici in c.a., dove le masse sono prevalentemente costituite dagli orizzontamenti e quindi il diaframma rigido opera un benefico effetto di ripartizione delle sollecitazioni sismiche tra gli elementi resistenti, nella costruzione muraria le masse sono prevalentemente costituite dai muri, vale a dire dai medesimi elementi resistenti. Qui l’azione di redistribuzione operata dai diaframmi può avere effetti perversi, specie in presenza di irregolarità planimetriche o di bucature, con una sostanziale alterazione della risposta originaria, in cui ogni muro assorbe le azioni che gli competono per effetto della propria massa e di quella dei muri limitrofi chiamati in causa da connessioni e catene, in una più uniforme capacità di dissipazione. Con l’obiettivo di sperimentare l’influenza della tipologia muraria sulla risposta sismica fuori dal piano, grazie ad un finanziamento del Ministero degli Affari Esteri nell’ambito di un programma di ricerca di cooperazione scientifica e tecnologica Italia-USA, abbiamo potuto effettuare una seconda sperimentazione su tavola vibrante. Sono state sottoposte a prova due pareti di fattura diversa: una prima in muratura di pietrame irregolare, rappresentativa di una muratura storica, simile a quella degli appennini, e una seconda in blocchi di tufo rappresentativa di tante costruzioni della seconda metà del Novecento. Le due pareti avevano la medesima geometria e sono state provate simultaneamente, in modo da essere sottoposte alla medesima accelerazione alla base. In questo caso è stato necessario realizzare un telaio di contrasto in acciaio in grado di vincolare nella direzione orizzontale la sommità delle pareti, lasciando libera la componente verticale del moto. In tal modo è stata riprodotta la condizione di vincolo esercitata da un cordolo sommitale, in cui la sommità della parete, attraverso il telaio di contrasto, è vincolata a muoversi con moto sincrono alla base direttamente ancorata alla tavola vibrante (Figura 15).
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Fig. 15 – Schema delle due pareti sottoposte contemporaneamente a prova su tavola vibrante rispetto ad un’azione sismica fuori dal piano in presenza di un vincolo allo spostamento laterale in sommità.
L’obiettivo della sperimentazione era quello di mettere in luce le differenze nella risposta sismica delle due pareti vincolate in testa e poi libere di oscillare con un moto di tipo flessionale, identiche nelle dimensioni e nelle condizioni di vincolo, ma diverse per la tipologia delle murature. Si voleva capire se in ambedue i casi si attivava un moto rigido con la formazione delle cerniere o se, invece, la parete di pietrame irregolare manifestava fenomeni di disgregazione. La sperimentazione è stata anche l’occasione per mettere a punto una nuova tecnologia per realizzare cordoli sommitali, non più in c.a., ma in muratura, in modo da evitare la discontinuità di rigidezza che caratterizza negativamente i cordoli in cemento armato. Sono state quindi realizzate una serie di listature di mattoni, interponendo nei giunti di malta orizzontali tessuti di armatura in microtrefoli di acciaio galvanizzato (Figura 16). L’impiego di muratura invece che calcestruzzo non incrementa la densità di massa né modifica la rigidezza dell’elemento strutturale, mentre il tessuto di armatura conferisce la resistenza a trazione necessaria per svolgere le funzioni di legatura sommitale.
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Fig. 16 – Le fasi di realizzazione del cordolo in muratura di laterizi armato con tessuti in microtrefoli di acciaio galvanizzato nei giunti di malta orizzontali ed i collegamenti con la muratura sottostante mediante connettori verticali colati con malta di calce idraulica naturale.
Fig. 17 – Le pareti, una volta completato il setup di prova con i telai di contrasto atti a vincolare la componente orizzontale del moto alla sommità delle pareti e la griglia di protezione rispetto al collasso fuori dal piano.
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Quale input sismico sono state impiegate le medesime registrazioni già utilizzate per la precedente sperimentazione, con l’aggiunta del terremoto di Amatrice (2016). E quindi sono state applicate alla tavola vibrante la registrazione di Bagnoli Irpino (1980), Nocera Umbra (Umbria – Marche, 1997), L’Aquila (2009), oltre alle registrazioni di Mirandola (Emilia, 2012) e Amatrice (Lazio, 2016). L’azione sismica è stata applicata con ambedue le componenti, orizzontale (fuori dal piano della parete) e verticale dove sono rappresentati gli spettri di risposta di due degli input sismici applicati. Le curve nei diagrammi corrispondono, rispettivamente, allo spettro di risposta registrato dalla stazione accelerometrica e allo spettro di risposta registrato dagli accelerometri posti sulla tavola vibrante. La discordanza tra i due spettri dipende dall’interazione tra la tavola vibrante e la massa del provino ed è in qualche modo fisiologica, ma comunque non tale da alterare i segnali nelle frequenze fondamentali della struttura. L’applicazione della componente verticale del moto sismico, che generalmente viene trascurata, risponde al dibattito in corso sull’influenza che questa componente riveste nella formazione dei meccanismi di collasso delle murature.
Fig. 18 – Spettri di risposta (assegnato e registrato) delle due componenti orizzontale e verticale di due degli input sismici.
Per l’acquisizione della risposta sismica delle pareti, è stato impiegato un sistema ottico composto da più videocamere istallate nel laboratorio Enea, che registrano il campo di spostamenti di marcatori ottici catarifrangenti applicati in numero sufficiente sul paramento dei due provini. Le prove hanno mostrato un comportamento sostanzialmente analogo dei due provini con l’attivazione, al crescere dell’intensità sismica, di un cinematismo di collasso flessionale caratterizzato da una cerniera
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alla base delle pareti ed una cerniera a circa due terzi dell’altezza, tali da formare una catena cinematica di corpi rigidi, come teorizzato da Heyman nei suoi studi di meccanica classica delle strutture murarie.
Fig. 19 – Posizione delle cerniere di rotazione durante le oscillazioni sismiche.
La presenza del carico sommitale, costituito da lastre di acciaio atte a simulare il peso della struttura di copertura, ha impedito l’attivazione di fenomeni di scorrimento al disotto del ritegno sulla sommità dei muri. A questo hanno contributo in modo determinante anche gli spinotti verticali di collegamento tra il cordolo e la muratura. Non si sono verificati fenomeni di distacco del cordolo in laterizi dalla muratura sottostante, a riprova dell’efficienza della soluzione sperimentata. La parete in pietrame irregolare non ha sofferto fenomeni di disgregazione, anche in virtù del suo spessore ridotto, ma ha mostrato un quadro di danneggiamento più severo per valori più bassi dell’intensità sismica. Il cinematismo innescato dall’azione sismica non ha compromesso la stabilità delle pareti e la capacità di rispondere in modo analogo alle repliche successive, seppure con un progressivo decadimento della frequenza principale di oscillazione dovuto al progredire del danneggiamento (Figura 20). Tale
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incremento del periodo proprio di oscillazione delle pareti è riconducibile anche all’incremento dello spostamento massimo esibito dai campioni per effetto della maggiore severità dell’azione sismica applicata.
Fig. 20 – Variazione della frequenza fondamentale della parete in blocchi di tufo durante la sequenza dei test effettuati, misurata mediante gli accelerometri o attraverso gli spostamenti acquisiti mediante il sistema 3D Vision.
L’inviluppo dei campi di spostamento massimi registrati per ciascun input sismico, cresce al crescere del valore dell’accelerazione di picco dell’input sismico, con ampiezze diverse per i diversi segnali, ma senza differenze nel comportamento della parete, il cui moto è sostanzialmente governato dall’attivazione delle medesime cerniere di rotazione. Il campo di spostamento rilevato durante il moto sismico presenta un inviluppo massimo sostanzialmente simmetrico nelle due direzioni, con due profili pressoché lineari relativi ai tratti di parete compresi tra le cerniere, ed uno spostamento massimo crescente al crescere dell’input sismico (Figura 21).
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Monumenti e terremoti: fare o non fare?
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Fig. 21 – Profili dello spostamento massimo rilevati per la parete in blocchi di tufo sottoposta alla registrazione dell’Aquila, al crescere del valore dell’accelerazione di picco (PGA) dal 25% al 125% del PGA effettivo.
Fig. 22 – Storia temporale dello spostamento massimo: confronto tra sperimentazione e simulazione numerica attraverso integrazione esplicita delle equazioni del moto nel dominio del tempo.
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Le prove sperimentali descritte, nella sostanza, dimostrano l’attendibilità dei modelli di corpo rigido quale strumento per l’analisi sismica delle pareti murarie rispetto alle azioni fuori dal piano. L’approccio sperimentale che si è tracciato in queste brevi note, che spazia dall’osservazione del comportamento in occasione degli eventi sismici alla registrazione della risposta strutturale di pareti murarie per effetto di eventi sismici simulati su tavola vibrante, è una delle chiavi per approfondire il comportamento di strutture delle quali abbiamo perduto la consuetudine costruttiva. Strutture che hanno la rinnovata necessità di essere osservate, interpretate, sperimentate e opportunamente modellate, in modo tale da poterle poi conservare. Oggi c’è una comunità di studiosi e ricercatori dediti all’analisi delle strutture murarie storiche, coscienti di tutto quanto ci sia ancora da capire sul loro comportamento sismico, con la consapevolezza che il nostro patrimonio, non debba essere snaturato, ma abbia tutte le potenzialità per essere conservato in sicurezza e tramandato alle generazioni future.
Fig. 23 – Gli studenti del corso di Costruzioni in zona sismica che assistono alle prove sperimentali.
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Discussione e sintesi
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Gianvittorio Rizzano
Quanto mai vivo ed acceso è il dibattito su come intervenire su di un bene monumentale, dibattito ulteriormente alimentato negli ultimi anni dall’emanazione delle nuove Normative Tecniche sulle Costruzioni che hanno introdotto significative modifiche agli approcci e verifiche delle costruzioni esistenti. Le normative tecniche nel definire i possibili interventi strutturali sul costruito effettuano un distinguo in relazione alle tipologie di intervento da applicare nel caso dei beni di interesse culturale. Prima di addentrarci nel dibattito sulla tipologia di intervento più opportuna, appare rilevante definire l’ambito di applicazione delle disposizioni specifiche delle NTC relative ai beni di interesse culturale. Quali sono i beni di interesse culturale? È questo un tema che richiederebbe un generale chiarimento, osservando che intorno all’ampliamento del concetto di monumento si basano i più recenti sviluppi del pensiero sul restauro e la stessa definizione del suo dominio di applicazione. Per Giovanni Carbonara, la parola ‘monumento’, che è una parola antica e per alcuni superata da altre dizioni quali ‘beni culturali’, ‘patrimonio culturale’ ecc., significa letteralmente “documento”. Egli sottolinea che esiste una nota raccolta di testi antichi, diplomi, pergamene e altre testimonianze scritte medievali che s’intitola “Monumenta Germaniae Historica”, vale a dire “Documenti storici della Germania”. La commissione parlamentare Franceschini negli scorsi anni Sessanta, a proposito dei monumenti, parlava di “testimonianze materiali aventi valore di civiltà”. Si deve poi intendere come monumento non solo quello ‘intenzionale’, ad esempio la statua dedicata ad un personaggio famoso o la grande opera d’arte, ma anche quello ‘non intenzionale’ (come ha ben specificato Alois Riegl già ai primi del Novecento), divenuto tale per la sua sola antichità e da noi, oggi, visto come testimonianza di storia e di civiltà. Noi consideriamo monumento, in un certo senso, tanto il sandalo del pescatore romano ritrovato sulla barca affondata a Comacchio, per la sua rarità e per ciò che ci può narrare, quanto la sciabola di Giuseppe Garibaldi perché è legata ad un evento storico, la vicenda dell’Aspro-
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monte; quindi le cose più diverse possono essere per noi testimonianza e ‘monumento’ a motivo della loro antichità, come s’è detto, o anche, indipendentemente dall’età, per la loro qualità estetica e bellezza. L’intervento su un dipinto murale contemporaneo di valore o anche su una recentissima opera, come il cosiddetto ‘muro longobardo’ di Mimmo Paladino nel giardino di Palazzo Citterio a Milano, non si affida, nel primo caso, ad un pur bravo imbianchino e neppure, nel secondo caso, ad un muratore, ma sempre ad un restauratore, che abbia competenze tecniche specifiche e senso storico. Così anche per un vecchio muro romano o medievale, in origine forse opera di secondaria importanza, ma per noi ricca di valore testimoniale, autentico ‘monumento’. Quella moderna è una concezione estesa di monumento, nella quale rientrano non solo i monumenti ‘vincolati’ a norma di legge ma anche tutto il tessuto urbano, l’architettura erroneamente detta ‘minore’ ma, in effetti, di valore corale ed anche paesaggistico. Una concezione aperta, ma sempre di natura storico-critica più che espressamente antropologica, come intendono alcuni, per i quali tutto è monumento, anche le tradizioni, la cucina e il cosiddetto ‘patrimonio immateriale’, creando in tal modo confusione e indebolendo la sostanza della tutela ‘materiale’ che non è sostanzialmente diversa da quella delle biblioteche, degli archivi, dello stesso paesaggio. I monumenti sono quindi testimonianze storiche e artistiche che, attraverso la loro presenza materiale (e quindi anche figurale), ci aiutano a capire noi stessi ed a rafforzare la nostra identità collettiva; la loro conservazione, dunque, è per il futuro e non per il passato o, peggio, per feticismo dell’antico.
Dall’inquadramento dei beni monumentali effettuata da Giovanni Carbonara, emerge quindi un primo problema normativo nella dicotomia tra l’esigenza di tutela e la possibilità di salvaguardia di un bene monumentale, nel senso sopra specificato, e quanto riguarda i beni cosiddetti “vincolati” ai quali nella pratica è possibile applicare le disposizioni sulle cose di interesse culturale. Le normative sulle costruzioni, sia di nuova che di vecchia generazione, indicano quale debba essere la tipologia di intervento sui beni d’interesse culturale in zona sismica, quella del ‘miglioramento sismico’, evidenziando che, trattandosi di beni dei quali occorre preservare la natura e le caratteristiche, non si ha l’obbligo di raggiungere l’adeguamento sismico. In particolare, le nuove NTC 2018 nel classificare gli interventi ribaltano l’ordine delle categorie di intervento, mettendo in primo piano gli interventi di riparazione o locali, poi quelli di miglioramento e infine quelli di adeguamento, evidenziando in generale, per tutto il costruito
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Discussione e sintesi
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esistente e non solo per i beni di interesse culturale, l’attenzione prima di tutto verso opere meno invasive, arrivando all’adeguamento solo come obiettivo finale e più ambizioso. Tuttavia, l’obiettivo prioritario del restauro dei beni culturali è di conservare la memoria storica, quindi intervenire con tecniche non invasive e reversibili, il che può entrare in conflitto con la funzione che spesso è attribuita a tali beni. È il caso dei numerosi edifici storici pubblici utilizzati come municipi, prefetture, caserme, ospedali, scuole, tutte destinazioni per le quali tali edifici sono chiamati ad assolvere funzioni strategiche in occasione di eventi sismici o possono essere soggetti a conseguenze gravi per l’affollamento che li caratterizza. Per tale tipologia di edifici, pur rimanendo in un intervento di miglioramento sismico, le nuove NTC 2018 richiedono un livello minimo di sicurezza, come rapporto tra l’azione sismica massima sopportabile dalla struttura e l’azione sismica massima che si utilizzerebbe nel progetto di una nuova costruzione, pur precisando: «a meno di specifiche situazioni relative ai beni culturali». Risulta evidente che la difficoltà di identificare in maniera oggettiva le specifiche situazioni relative ai beni culturali introduce ulteriori elementi di discussione e dibattito. Sembra, pertanto, che la discussione sul tema dell’intervento più opportuno nel caso di beni monumentali – tra miglioramento, che garantisca un livello di sicurezza minimo, o adeguamento sismico – scaturisca essenzialmente da un problema normativo. Tuttavia, va osservato che nella progettazione sismica degli interventi sul costruito esistente, nella pratica professionale, si agisce quasi sempre sull’analisi e riduzione della “vulnerabilità sismica” degli edifici dimenticando che essa è solo una delle componenti del “rischio sismico”, la cui riduzione rappresenta il vero obiettivo degli interventi sulle costruzioni esistenti. A maggior ragione, per i beni culturali più che per gli edifici ordinari, è opportuno parlare di rischio sismico piuttosto che di sola vulnerabilità sismica. Nel rischio sismico concorrono oltre alla vulnerabilità, che richiede di intervenire materialmente sul bene, anche la pericolosità e l’esposizione. Forse si può pensare ad un primo miglioramento sismico agendo su tali altri due parametri prima di intervenire direttamente sull’edificio. La pericolosità sismica è una caratteristica del sito e rappresenta l’entità del fenomeno sismico atteso in un assegnato periodo di tempo. Per quanto sia un dato caratteristico del sito, la valutazione della pericolosità è un’attività che rientra nella progettazione sismica, per cui appare importante, prima di intervenire, il ruolo che può assumere la diagnostica, ad esempio finalizzata ad un’accurata microzonazione
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sismica, onde evitare una stima erronea delle azioni sismiche attese sulla base di dati troppo approssimati che può condurre ad interventi consistenti ma non necessari, oppure a sottostimarne l’entità. Ma è ancor più importante soffermare l’attenzione sull’altro fattore che concorre a definire il rischio sismico, vale a dire l’esposizione, ovvero l’entità e il valore di persone, beni, attività economiche che possono subire danni in seguito all’evento sismico. Il primo intervento di miglioramento potrebbe essere attuato cambiando la destinazione d’uso dell’immobile nel rispetto delle caratteristiche dello stesso, al fine di ridurne l’esposizione e quindi il rischio sismico. Il quesito che quindi mi pare sia interessante discutere è se le problematiche che emergono nella scelta della tipologia di intervento da applicare ad un bene culturale scaturiscano da un non chiaro quadro normativo o piuttosto da una carenza culturale. Per Giovanni Carbonara, dal punto di vista del restauro, la disponibilità a modificare la funzione, purché sia adeguata alla natura del bene, alleggerendo l’entità degli interventi, è uno strumento valido e fondamentale. Si tratta di modificare il dato ‘immateriale’ per conservare il dato storico ‘materiale’, in piena coerenza con quanto detto sopra; è quindi un problema di capacità gestionale. Anche se il municipio di un piccolo comune è ubicato nel palazzo storico più importante per il suo significato simbolico, cambiarne la destinazione d’uso sarebbe il modo migliore per tutelare quel bene attribuendogli poi una funzione compatibile, di altro tipo ma più leggera. La normativa, nell’indicare prioritariamente l’intervento locale, il miglioramento e poi l’adeguamento, ha sicuramente perfezionato l’approccio verso i beni culturali ma, adottando un livello minimo di sicurezza nel miglioramento, ha introdotto una forma di adeguamento semplificata. Potrebbe anche andar bene per i professionisti, perché un problema che si riscontra nella professione è che aver fatto quanto si riteneva utile per salvare il monumento e metterlo in sicurezza non libera comunque il professionista, seppure coscienzioso, dalle possibili conseguenze giudiziarie in seguito ad un evento calamitoso. Sembra invece necessario produrre una norma chiara per i beni monumentali, la quale stabilisca che, per essi, non si può procedere come nel caso di un edificio qualsiasi ma vadano applicate modalità diverse; una norma che precisi, contestualmente, che la scelta della tipologia dell’intervento (miglioramento o intervento locale) è assunta in capo allo Stato il quale, per interessi superiori, chiede che si facciano opere più contenute e meno invasive. Si eviterebbe così di scaricare ingiustamente la responsabilità sul singolo professionista coscienzioso che, invece di devastare il monumento facendolo diventare un bunker,
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Discussione e sintesi
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cerca di fare il meglio, in scienza e coscienza, per conservarlo e metterlo in sicurezza. Ciò è importante perché oggi avviene che proprio chi è più coscienzioso, più ama il monumento e lo tratta con maggiore cura, si sottopone ad un rischio maggiore. Lo Stato, che produce centinaia di norme, dovrebbe riunire ingegneri, architetti, giuristi e amministrativisti allo scopo di redigere pochi commi che possano chiarire questi aspetti evitando che, per paura o incapacità da parte di alcuni, non si conservi ma si demolisca tutto, magari rifacendolo nuovo-finto antico. Per Gianmarco de Felice le problematiche che emergono nella scelta della tipologia di intervento da applicare ad un bene culturale sono sia di natura normativa che culturale. Di natura normativa, perché quando un professionista progetta un intervento di miglioramento, come è giusto che sia per un bene culturale, in realtà presta il fianco a possibili ripercussioni giudiziarie se il monumento dovesse presentare un problema. In tal caso il progettista e chi è intervenuto sul monumento verrebbe chiamato in causa per non aver tenuto conto di ciò che avrebbe potuto accadere, essendosi limitato a qualche azione di miglioramento e avendo omesso di adeguare l’edificio allo standard di sicurezza oggi richiesto. Questo è un vulnus che va corretto per permettere la conservazione dei nostri monumenti e per consentire ai professionisti di lavorare con serenità. È un problema anche culturale perché nei media non si legge affatto il carattere probabilistico della verifica di sicurezza. È emblematica la sentenza della Corte di Cassazione del Tribunale di Grosseto che ha disposto il sequestro di un plesso scolastico per mancanza dei requisiti di idoneità sismica, essendo risultato un livello di adeguamento sismico pari a 0,985 e cioè inferiore ad 1, con conseguenze e responsabilità penali nei riguardi del sindaco che aveva in precedenza tenuto aperta la scuola. Questo è un problema culturale, di comunicazione, perché il numero che rappresenta il livello di adeguamento sismico cambia a seconda di come si calcola ed è affetto da una serie di incertezze (del modello, delle proprietà meccaniche dei materiali, dell’azione sismica attesa); a quel numero deve essere attribuito il senso appropriato senza dare spazio ad interpretazioni improprie come quella che ha portato alla chiusura della scuola. Occorre quindi, lavorare prima di tutto a livello normativo per tutelare il progettista, soprattutto il progettista strutturale, che si assume grandi responsabilità per il suo operato, e poi a livello di comunicazione per far capire che l’analisi della vulnerabilità, o meglio del rischio sismico, come evidenziato in precedenza, porta ad una quantificazione a cui va dato il giusto peso in un quadro complessivo dove intervengono altri fattori, come quelli legati alla conservazione del monumento e dei nostri edifici storici per le generazioni che verranno.
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Appare, quindi, in relazione ai beni di interesse culturale, l’esistenza di problematiche sia normative che culturali: normative, nella esigenza di una più chiara definizione degli ambiti applicativi delle diverse tipologie di intervento, da quello locale all’adeguamento sismico; culturali, nella necessità di una più generale percezione della natura probabilistica del concetto di sicurezza strutturale e di una più profonda conoscenza del comportamento sismico degli edifici sia in ambito professionale che tecnico, con particolare riferimento agli edifici in muratura. La scelta della tecnica di intervento da impiegare, l’entità degli stessi interventi e la loro diffusione sul bene oggetto di interesse sono certamente condizionati dall’obiettivo da raggiungere (se rinforzo locale, miglioramento o adeguamento), ma sono fortemente influenzati dalla reale conoscenza della risposta della struttura alle sollecitazioni sismiche filtrata dal modello meccanico che il progettista adotta. Nella presentazione di Giovanni Carbonara emerge un’immagine della città di Amatrice completamente distrutta che lascia pensare ad una crisi globale dei singoli edifici. Ma dovremmo poter guardare progressivamente il collasso degli edifici per capire il vero meccanismo e di conseguenza anche come intervenire. Spesso si arriva al collasso o crollo totale perché si verificano prima dei meccanismi fuori piano, quindi di natura locale, o combinati per il singolo pannello murario nel piano e fuori piano, con il conseguente crollo dei solai e poi delle pareti. La stessa norma ci indirizza a salvaguardare, prima di tutto, l’edificio nei confronti dei meccanismi fuori piano e poi considerare il comportamento globale con un modello affidabile per la valutazione della risposta sismica globale dell’edificio. Va rilevato che il maggior rischio è che il progettista effettui direttamente la verifica globale, ipotizzando che tutte le murature siano ben ammorsate tra di loro, che i solai siano ben collegati alla muratura, conducendo quindi una verifica che non ha una rispondenza effettiva con il reale comportamento dell’edificio, progettando conseguentemente interventi inadeguati o omettendo interventi necessari e di maggior efficacia per la struttura. C’è da osservare che le costruzioni in muratura rappresentano una tipologia costruttiva quasi completamente abbandonata per le nuove costruzioni già da molti anni, per cui la quasi totalità dei progettisti in attività non ha avuto modo di impiegarla né ha avuto modo di apprenderne adeguatamente il funzionamento, vivendo in un’epoca dominata, in Italia, culturalmente e accademicamente dal cemento armato. Ritorna, a mio avviso, un importante problema culturale nei confronti degli edifici storici in muratura che ha notevoli risvolti anche nella scelta delle
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tecniche di intervento da applicare. In tale ambito il dibattito è molto ampio e, sebbene sia riconosciuta la necessità di interventi sostenibili, reversibili, ben individuabili, quando si interviene su beni di interesse culturale appare interessante valutare, anche dal punto di vista delle soprintendenze, quanto siano idonee le tecniche innovative, quali ad esempio quelle basate sull’impiego dei materiali compositi, rispetto alle tecniche tradizionali. Per Gennaro Miccio, sulla base della sua esperienza, l’atteggiamento delle soprintendenze è sicuramente favorevole alle tecniche innovative che impiegano materiali compositi negli edifici di pregio e vincolati. Frequentemente edifici di maggior pregio sono stati luoghi di sperimentazione di tecniche innovative. Questo è il caso, ad esempio, degli Uffizi, che il Soprintendente Miccio ha seguito per molti anni, dove interventi con fibre di carbonio sulle volte sono stati frequentemente impiegati, così come in tanti altri casi. Va anche considerato che intervenire sugli edifici monumentali mettendo anche in campo tecniche e materiali innovativi facilita il reperimento di fondi e finanziamenti. Diverso è il caso dell’edilizia ordinaria dove decidono i sindaci, le regioni, spesso i magistrati. Per Giovanni Carbonara il problema riguarda anche il Provveditorato alle Opere Pubbliche, ex Genio Civile. Ad esempio, in Roma, nel cosiddetto Tempio di Minerva Medica, un grande edificio poligonale risalente al IV secolo d.C. coperto da una cupola in parte caduta, uno dei piloni portanti che reggeva l’edificio aperto su tutti i suoi lati ha sofferto fin dall’antichità. Nel 1820 circa è stato ricostruito ma poi è crollato nuovamente. Per ridare la necessaria continuità all’intera struttura muraria si è pensato di riedificare questo pilone perduto sì da restituire la geometria originale. L’idea era di rifarlo semplicemente con una struttura in mattoni e nucleo interno in calcestruzzo romano, la quale poteva essere ottimizzata con l’uso di barre in fibre di carbonio. Non è stato possibile perché il Provveditorato non ha considerato l’intervento come un normale restauro di reintegrazione ma ha giudicato il pilone come un comune pezzo di architettura contemporanea che doveva, quindi, rispondere alle norme vigenti. Di conseguenza è stata realizzata una struttura in c.a., iper-resistente e con barre di acciaio, assai meno compatibili di quelle in fibre di carbonio, sacrificando probabilmente l’omogeneità di comportamento complessiva dell’antico monumento. Ciò è particolarmente grave e costituisce la manifestazione d’un problema normativo non ancora risolto. Analogamente per quanto riguarda la sicurezza antincendio. Ad esempio, ci sono alcuni ambienti di un piccolo Museo Garibaldino ospitato nelle Terme di Diocleziano, sempre in Roma, che si raggiungono oggi mediante antiche scale romane. Queste ‘non sono
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a norma’ perché larghe pochi centimetri meno di quanto previsto dalle norme. Di conseguenza i Vigili del Fuoco avrebbero voluto che fosse raschiato e ridotto il muro romano, cosa che i progettisti, ovviamente, si sono rifiutati di fare, rinunciando all’incarico. Episodi come questi indicano una certa debolezza del Ministero dei Beni Culturali e soprattutto una grande confusione normativa. Ci rendiamo schiavi di norme che, in questi casi, non hanno senso. Per Gianmarco de Felice, la tematica dei materiali innovativi è molto delicata. Non c’è dubbio che i nuovi materiali possono rappresentare una grande risorsa per gli interventi sulle strutture esistenti, devono però soddisfare tre requisiti: 1) compatibilità; è inappropriato, ad esempio, applicare materiali polimerici su strutture murarie dalle quali possono facilmente staccarsi; 2) durabilità; i compositi, ad esempio, sono abituati a fare i conti con l’industria automobilistica o aerospaziale, dove le applicazioni hanno una vita utile ben inferiore a quella delle costruzioni e delle infrastrutture civili; 3) rimovibilità; in modo da conservare la facoltà di rimuovere quanto applicato senza pregiudizio per il manufatto. Nel rispetto di tali requisiti, occorre sviluppare nuove tecnologie appropriate alle murature. In questo l’Italia è sicuramente all’avanguardia perché è sede di numerose ricerche da parte delle università, dell’industria, dei produttori, con una grandissima spinta alla sperimentazione di nuovi materiali. Ad esempio, i sistemi denominati FRM (Fabric Reinforced Mortar) o TRM (Textile Reinforced Mortar) o SRG (Steel Reinforced Grout) costituiscono una nuova classe di materiali di rinforzo che si applica sulle superfici murarie attraverso matrici inorganiche, nello spessore degli intonaci. Con queste tecnologie non viene alterata la percezione delle facciate come avviene con gli intonaci armati, dove gli spessori sono molto superiori e gli apparati scultorei sono destinati a risultare sottosquadro. È sufficiente un centimetro di malta di calce con una semplice rete di rinforzo per migliorare le caratteristiche meccaniche e incrementare la sicurezza sismica di questi manufatti. È chiaro che, anche in questo ambito, esiste un problema normativo, poiché i materiali a matrice inorganica non sono classificati per le applicazioni strutturali e non sono contemplati nelle linee guida emanate dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici per la progettazione e la qualificazione. L’augurio è che si provveda rapidamente perché, con le dovute attenzioni e cautele, questi sistemi possono effettivamente rappresentare una grande risorsa per gli interventi di miglioramento sismico delle costruzioni esistenti. Per Maurizio Angelillo, il tema degli interventi sugli edifici esistenti è affetto da una grossa carenza culturale. Andrebbe introdotto nelle scuole di ingegneria l’insegnamento della statica e poi della dinamica delle
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murature fin dai primi anni. Il problema principale è la carenza da parte dei tecnici di una sensibilità verso le murature non acquisita durante gli studi universitari, la carenza di conoscenza, di come è fatta la muratura, come è stata realizzata, come funziona. Sembrerebbe che oggi sia necessario impacchettare tutto, ma in merito agli interventi abbiamo la prova del tempo su costruzioni rinforzate in passato. Le catene, ad esempio, rappresentano un intervento corretto che ha dato buona prova nel tempo. Prima di sostituirle, di cambiare l’approccio, occorrerebbe riflettere.
L’impiego dei materiali compositi nell’ingegneria strutturale nasce essenzialmente nell’ambito di interventi di rinforzo di strutture esistenti in c.a. Di conseguenza, come evidenziato anche nei diversi interventi, l’applicazione di questa tecnologia al caso degli edifici in muratura pone numerose problematiche di natura tecnologica, di compatibilità dei materiali e, nel caso degli edifici di interesse culturale in muratura, anche di compatibilità con la necessità di conservazione delle caratteristiche originarie del bene. Sebbene vada fortemente incentivata la ricerca su tecniche e soluzioni innovative, va comunque sottolineato che le tecniche tradizionali di comprovata efficacia, quali ad esempio l’inserimento di catene e la creazione di diatoni, vanno salvaguardate, valorizzate e non mortificate dal preconcetto della obsolescenza tecnologica. Con riferimento al cemento armato, occorre osservare che esso è un materiale ed una tipologia costruttiva ormai secolare per cui cominciano ad essere sempre più frequenti i casi di edifici di interesse culturale in calcestruzzo armato. Le stesse soprintendenze, come evidenziato da Gennaro Miccio, si apprestano ad emettere un vincolo di interesse culturale a molti edifici in c.a. degli anni Venti e Trenta. Come il restauro si debba porre nei confronti di questa nuova tipologia di beni di interesse culturale è un tema di discussione attuale e di grande interesse. A tal riguardo, per Giovanni Carbonara, manca ancora una diffusa sensibilità nei confronti delle architetture storiche in calcestruzzo armato. Emblematica è una sua personale esperienza in occasione d’un intervento riguardante la Città Universitaria di Roma realizzata dall’architetto Marcello Piacentini ed inaugurata circa 80 anni fa. L’architettura di Piacentini oggi è considerata di grande interesse e, nella Città Universitaria, l’edificio del Rettorato costituisce una delle presenze più rilevanti; davanti ai suoi monumentali propilei si estende un grande scalone che oggi presenta gravi problemi strutturali. Esso è costituito da una gradinata in travertino e da una sottostante struttura originale in c.a., oggi in pessime condizioni. La soluzione iniziale proposta dall’Ufficio Tecnico dell’Università
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era di smontare i gradini, demolire la scala e rifarne una nuova in c.a.; tutto ciò senza per nulla capire su che cosa si stava intervenendo. Fortunatamente, per la sensibilità del Rettore, si è deciso di analizzare più attentamente il da farsi. È chiaro che i problemi sono tanti. La scala si può riparare? I ferri sono corrosi perché l’acqua ha provocato seri danni. La struttura è proprio irrecuperabile? Occorre approfondire la diagnosi per poi decidere quanto veramente sia necessario e opportuno fare. Eventualmente, anche una protesi metallica, a sostegno e rinforzo della vecchia struttura, potrebbe rappresentare una soluzione. Nel restauro quando si procede per ‘aggiunta’ e non per ‘sottrazione’ non si commette quasi mai un errore irreparabile, quindi si potrebbe ben realizzare un elemento aggiuntivo. Ma il problema di fondo è l’apprezzamento o, come scrive Cesare Brandi, il ‘riconoscimento’ o meno dell’opera nel suo valore di testimonianza storica e architettonica quale espressione della tecnica di quegli anni, con tutti i difetti che si possono oggi riscontrare nella granulometria degli inerti del calcestruzzo o nell’uso di ferri lisci. È stata anche esaminata la soluzione di non applicare la protesi esterna ma di ripulire e passivare i vecchi ferri, di rifoderare il calcestruzzo con apposite fasce ecc.; ma in tal modo tutte le originali strutture verrebbero ad assumere una dimensione maggiore, di almeno 2 cm per lato, alterando l’effetto di snellezza originario. Non è un intervento adeguato. La scala diventerebbe un’altra cosa; avrebbe detto John Ruskin “una carcassa” contenuta in un involucro nuovo. In alternativa si potrebbe cercare di conservarne un pezzo così com’è, quale testimonianza archeologica ‘indisturbata’, e realizzare al di sopra un’altra struttura, anche a sostegno e protezione della parte conservata. Ci sono tante possibilità, il problema di fondo è come ci si pone davanti a tale oggetto, se lo si considera meritevole di particolare attenzione conservativa oppure no. Né si tratta di farne semplicisticamente una copia, che è anch’essa un’altra cosa. L’archeometria, la filologia dei materiali, lo studio delle vecchie tecniche e modalità costruttive ci aprono alla comprensione della ‘cultura materiale’ incorporata nei vecchi manufatti e perlopiù non trasmessa dai manuali. Nel medioevo, una malta realizzata con l’inserimento di fibre di paglia la si trova scendendo verso Napoli e il meridione d’Italia, a Roma non era presente. L’impiego, sempre nelle malte, del gesso invece della calce è testimonianza di influenze mediterranee e così via; pagine di storia sociale ed economica, oltre che artistica e d’artigianato, si aprono anche attraverso un semplice pezzetto di malta. In sostanza, l’architettura non è un’arte più sciocca delle altre per cui, come molti asseriscono, si può accettarne la facile demolizione e magari la ricostruzione in copia, mentre per la pittura, la scultura, la paleografia, l’archivistica il rispetto dell’autenticità è indiscusso.
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Discussione e sintesi
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Con riferimento alle strutture di interesse culturale in calcestruzzo armato, Gianmarco de Felice sottolinea l’esistenza di un importante problema normativo. Quando si interviene su un edificio in c.a. si trova subito un calcestruzzo che non ha gli standard dei calcestruzzi che oggi si richiedono. Prelevando delle carote e sottoponendole a prove di compressione, si riscontrano valori di resistenza ben al disotto della minima consentita dalle norme e quindi il calcestruzzo risulta fuori norma. Se esaminiamo poi le barre di armatura, riscontriamo che sono lisce, ma secondo l’attuale norma devono essere ad aderenza migliorata. E quindi è estremamente difficile riuscire a conservare un manufatto che è chiaramente fuori norma, con una norma che è inderogabile. Indubbiamente il problema c’è ed è delicato. Sono molto i casi in cui oggi il problema si presenta. Uno di questi è stato, ad esempio, l’intervento sul Padiglione dei frigoriferi del complesso del Mattatoio di Testaccio a Roma, costruito alla fine dell’800 dall’architetto Gioacchino Ersoch. Qualche anno dopo il suo completamento, nel 1911, il complesso viene integrato con il nuovo edificio del Padiglione dei frigoriferi. È un progetto anonimo ma fatto dalla società FERROBETON che era concessionaria di uno dei due primi brevetti del cemento armato. L’altra grande società che costruiva in cemento armato in quegli anni era Porcheddu, direttamente con il brevetto Hennebique. Viene realizzata una struttura eccellente dal punto di vista della qualità tecnica dove si impiegano pali trivellati completamente in c.a., solai con soletta piena in c.a. e travi incrociate nelle due direzioni. Una struttura che da 20 anni è esposta alle intemperie. È chiaro che bisogna intervenire con un principio di miglioramento e non di adeguamento che risulterebbe impossibile da ottenere. Bisogna avere molta attenzione a capire il valore storico di questo edificio, non tanto per gli aspetti architettonici, ma quale testimonianza materiale e della tecnologia impiegata. Una testimonianza che precorre lo sviluppo della tecnologia del c.a. e che deve essere conservata. Purtroppo, la normativa non ci viene incontro. Non è appropriata una normativa che prescrive in generale moltissimi adempimenti di dettaglio senza tener conto della grande variabilità di casistiche in cui ci si può trovare. Andrebbe semplificata, riscritta, resa più snella, resa prestazionale e non prescrittiva, ma purtroppo le NTC 2018 e la circolare esplicativa sembrano non andare nella direzione della semplificazione.
Dalla interessante discussione che si è sviluppata emerge che in tema di interventi sui beni di interesse culturale intervengono sia problematiche di natura normativa che culturale. In particolare, va sottolineata l’importanza di due aspetti: il primo è il rapporto tra conservazione e fruizione di un bene culturale, il secondo è il rapporto tra restauro ed edilizia storica diffusa, tipica dei nostri centri antichi.
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Il rapporto fra il valore della memoria di un bene, e quindi della conservazione, ed il valore della funzione, e quindi della fruizione, va esaminato e chiarito a livello accademico, professionale e normativo. Se si guarda al bene con lo spirito della conservazione, la sicurezza del bene rappresenta l’obiettivo della progettazione e realizzazione degli interventi; se invece si affida al bene una funzione per cui il bene viene fruito da persone, la sicurezza di queste e la salvaguardia della vita umana non può che rappresentare l’obiettivo prioritario nella definizione del livello di sicurezza richiesto nella progettazione e, quindi, nella definizione degli interventi. È logico accettare un livello di sicurezza più basso per un edificio di interesse culturale rispetto ad un edificio comune, pur svolgendo ambedue la stessa funzione? Una scuola in un edificio storico può avere un livello di sicurezza più basso di una scuola nuova? Manderemmo i nostri figli in una scuola con la consapevolezza di un livello di sicurezza basso? Appare evidente che il livello minimo di sicurezza da raggiungere con gli interventi in relazione alla funzione a cui è destinato un bene di interesse culturale spesso contrasta con la logica del restauro. D’altronde, il concetto di “conservazione integrata” prevede proprio l’uso congiunto delle tecniche del restauro e della ricerca di funzioni appropriate. Pertanto, a livello normativo, per la conservazione dei beni di interesse culturale per prima cosa occorrerebbe imporre il cambio di destinazione d’uso quando si tratta di scuole o edifici strategici, quali municipi, caserme, prefetture, ospedali, con livelli di sicurezza inadeguati. È il modo migliore per evitare a priori interventi eccessivamente invasivi contrastanti con la logica della conservazione. Una volta garantito al bene un livello minimo di “esposizione”, ovvero di persone esposte ad eventuali eventi sismici, risulta appropriato l’approccio dell’attuale normativa che esclude l’obbligo dell’adeguamento prevedendo per i beni di interesse culturale il miglioramento o l’intervento locale. Anche in questo caso significa tollerare livelli di sicurezza diversi per gli edifici di interesse culturale rispetto a quelli nuovi, ma con riferimento all’edilizia residenziale, o comunque non soggetta ad affollamento o strategica, non avrebbe senso imporre l’adeguamento quando, contestualmente, per un significativo patrimonio edilizio degli anni Sessata e Settanta costituito da edifici alti in c.a. – chiaramente inadeguati, con elevata vulnerabilità ed esposizione, frequentemente sottoposti ad interventi di manutenzione straordinaria limitata alle sole finiture senza alcun intervento strutturale – si rinuncia anche ad un pur minimo miglioramento sismico.
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Il secondo aspetto da esaminare è il rapporto tra bene monumentale ed edilizia storica diffusa. È possibile applicare la logica del restauro a tutti gli edifici di un centro storico? Può essere estesa la logica dell’intervento di miglioramento a tutto il centro storico per evitare interventi di adeguamento eccessivamente invasivi che stravolgono tessiture, tipologie costruttive e caratteristiche dei materiali, a prezzo di una maggiore vulnerabilità? A tal riguardo occorre considerare che è molto più frequente ricadere nell’obbligo dell’adeguamento sismico quando si interviene su un edificio in muratura, per la necessità di interventi strutturali significativi dovuti a degradi, inadeguatezze, demolizioni di superfetazioni o ampliamenti per ricostruire volumi crollati, piuttosto che quando si interviene su un edificio in calcestruzzo armato degli anni Sessanta e Settanta. Ma dal punto di vista del rischio sismico, qual è il livello complessivo di rischio sismico degli edifici storici in muratura rispetto a quello degli edifici esistenti in c.a.? Se confrontiamo la volumetria di edifici esistenti in c.a. ricadenti in media e alta vulnerabilità con quella degli edifici in muratura, riscontriamo valori di 30-50 volte superiori. Se si accetta di convivere con il rischio sismico connesso agli edifici degli anni Sessanta - Settanta, perché non estendere il concetto del miglioramento a tutto il centro storico, rinunciando all’adeguamento ma facilitando, così, l’ulteriore riduzione di vulnerabilità? Ciò è immediatamente perseguibile, dichiarando “beni di interesse culturale” gli edifici appartenenti ai centri storici dei comuni. Pertanto, dal punto di vista normativo, con riferimento ai beni di interesse culturale, è auspicabile un ulteriore passo in avanti. Con le NTC 2008, confermate dalle NTC 2018, si è avuto un importante progresso nell’approccio strutturale verso il patrimonio esistente, perché per la prima volta è stato previsto un capitolo esclusivo per gli edifici esistenti, definendo per essi livelli di indagini specifici rispetto agli edifici nuovi, tenendo conto che l’edifico è già presente e definendo corrispondenti specifici requisiti di sicurezza. Gli edifici di interesse culturale sono caratterizzati da una storia, non solo di valore culturale ma anche di valore prestazionale dal punto di vista strutturale, della quale si deve tener conto nel definirne il livello di conoscenza. Pertanto, l’auspicio è di vedere in una futura versione delle NTC un capitolo specifico dedicato ai beni di interesse culturale, caratterizzando per essi i livelli di conoscenza anche sulla base dell’analisi storica delle prestazioni dell’edificio e definendo programmi di indagini, tipologie di intervento e livelli di sicurezza compatibili con l’esigenza di conservazione del bene.
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Sono beni concepiti per azioni statiche ma insistenti quasi sempre in territori fortemente sismici. È evidente che qualunque intervento strutturale antisismico, concettualmente, stravolge l’originaria concezione strutturale dell’edificio che non era pensato per contrastare azioni sismiche. Da questo punto di vista, tra le tecniche innovative proposte per gli edifici storici, potrebbero essere interessanti anche gli interventi di isolamento sismico che, seppure incidenti in maniera significativa sulle strutture di fondazione, lascerebbero la parte in elevazione completamente rispettosa dell’originaria concezione strutturale e, quindi, delle conoscenze e delle tecniche progettuali ed esecutive dell’epoca di realizzazione dell’edificio. Come sempre, nell’evoluzione dei processi costruttivi, le norme sono intervenute storicamente per codificare tecniche costruttive in atto e in forte sviluppo allo scopo di governare il processo costruttivo stesso, migliorarlo ed ampliarne l’impiego, rendendolo fruibile a tutti gli addetti ai lavori. La stessa introduzione del cemento armato, quale nuova tecnica costruttiva alla fine dell’Ottocento in alternativa alle strutture in muratura, è un esempio emblematico di come le norme giungano a regolamentare e a dare un forte impulso, dopo un lungo periodo di ideazione, sperimentazione ed applicazione della nuova tecnica costruttiva. Il restauro “strutturale” dei beni di interesse culturale è ormai praticato da secoli con tecniche tradizionali consolidate e tecniche innovative in forte sviluppo. Una maggiore attenzione alla diffusione della cultura del restauro “strutturale”, a livello accademico nelle scuole di ingegneria ed architettura e a livello professionale, potrebbe consentire di giungere rapidamente ad un ampliamento delle attuali norme tecniche con un’adeguata codifica di norme armonizzate relative ai beni di interesse culturale.
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POSTFAZIONE
Ingegneria delle strutture ed edifici antichi
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Maurizio Angelillo
Le due appassionate e stimolanti relazioni di Giovanni Carbonara e Gianmarco de Felice hanno aperto uno squarcio sul tema del dibattito di questa giornata di studi fornendo, dal punto di vista di due sensibili e riconosciuti esperti del Restauro e della Tecnica delle Costruzioni, due chiavi di lettura, diverse ma tra loro in buona sintonia, del problema della conservazione e dell’adeguamento di strutture murarie di interesse monumentale e storico. Come la recente tragedia del crollo del ponte Morandi ci insegna, la dialettica tra l’esigenza della conservazione e della sicurezza è un tema da affrontare con grande attenzione, che ci impone di riflettere approfonditamente e con obiettività, da una parte, sulla attribuzione della definizione di monumento ad alcune costruzioni e, dall’altra, sulla comprensione dell’effettivo comportamento delle strutture. La vicenda del ponte Morandi getta benzina sul fuoco del dissidio conservazione/sicurezza contribuendo, grazie anche ai nuovi mezzi di comunicazione, a diffondere un generale sentimento di sospetto su tutte quelle strutture che, spesso erroneamente, sono percepite come insicure, quali, ad esempio, le strutture in muratura. Tralasciando le banali considerazioni relative alla difficoltà nei nostri tempi moderni, dominati da Twitter, Facebook, Istragram, Whatsapp ed altri mezzi di confusione di massa, di fare prevalere le ragioni della Scienza su quelle della incoscienza, vorrei concentrarmi in queste note sulle motivazioni più accademiche che rendono deboli, e a volte dannosi, gli argomenti scientifici degli ingegneri delle strutture nell’ambito del restauro e della conservazione delle strutture antiche. Alla base di questa debolezza c’è il fatto, inconfutabile, che l’insegnamento delle tecniche costruttive e del comportamento meccanico delle costruzioni in muratura antiche rientra solo marginalmente nei piani di studio delle scuole di Ingegneria e Architettura.
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96 Postfazione
Non che l’architetto o l’ingegnere non ricevano una formazione più o meno approfondita delle moderne teorie e dei più avanzati metodi di soluzione numerica relativi alle strutture composte da acciaio o calcestruzzo, ma la questione è che il trasferimento di queste competenze alle strutture antiche richiede un grado notevolmente maggiore di studio, consapevolezza e competenza. Cosa hanno di speciale le costruzioni in muratura? Perché i metodi che insegniamo nelle nostre scuole sono insufficienti e spesso fuorvianti? Per cercare di spiegarlo adopererò alcuni degli argomenti utilizzati da un gruppo di studiosi delle murature che fanno riferimento agli insegnamenti di Jacques Heyman, e tra cui spiccano Salvatore Di Pasquale, Giovanni Castellano, Santiago Huerta, Mario Como e John Ochsendorf, dai cui lavori, alcuni dei quali riportati nella bibliografia a margine di queste note, citerò ampiamente, talvolta in modo inconsapevole.
Potenza e debolezza del modello elastico per le costruzioni civili Il modello continuo-elastico per i materiali, inventato da Cauchy e Poisson, sistematizzato da Navier già prima del 1830, si candida, e successivamente nell’era moderna si impone, come il più adatto a rappresentare il comportamento delle costruzioni dell’età industriale. Mentre difficilmente si può sostenere che una costruzione in pietra sia dotata globalmente di comportamento elastico in trazione e compressione, i nuovi materiali sono in grado di sfruttare appieno i due segni delle caratteristiche di rigidezza e resistenza, consentendo l’abbandono del sistema ad arco e a volta in favore di quello a trave e a piastra. Con il modello elastico l’ingegnere, via via, si convince di avere una quanto mai vicina rappresentazione dello stato di sforzo in una costruzione reale, e ciò, se i dati sono noti con un elevato grado di approssimazione, è piuttosto vero per le strutture composte da materiali moderni.
Fig. 1 – Augustine-Luis Cauchy (1789-1857), Siméon Denis Poisson (1781-1840), Claude-Luis Navier (1786-1836).
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Ingegneria delle strutture ed edifici antichi
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Purtroppo, spesso si dimentica di sottolineare che le soluzioni elastiche dipendono, oltre che dai carichi, da ignoti e non conoscibili dati quali i difetti di costruzione, le distorsioni interne e i cedimenti del terreno e delle strutture di appoggio. Tali dati influenzano a tal punto la soluzione da rendere differente la soluzione elastica dalla realtà. È solo attorno alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, che un gruppo di studiosi inglesi di Cambridge, guidati da John Baker, realizza degli esperimenti di laboratorio su telai in acciaio in scala reale, che evidenziano la imbarazzante discrepanza tra la realtà dei fatti e quanto previsto dalla teoria elastica. Anche in forza di questi risultati, il gruppo di Baker (di cui, dalla fine degli anni Quaranta, fa parte anche Jacques Heyman) partecipa convintamente alla sistematizzazione della teoria emergente per le costruzioni fatte di materiali duttili, ovvero il modello plastico e i teoremi dell’Analisi Limite, producendo diversi studi e alcuni manuali che sono tuttora di riferimento per gli studiosi del settore.
Fig. 2 – Il libro di Baker & Heyman sull’analisi limite per i telai; Jacques Heyman al Congresso ESMC2018 di Bologna.
Con il modello plastico, se i difetti geometrici, le distorsioni ed i cedimenti sono sufficientemente piccoli in rapporto alle dimensioni della struttura, essi non hanno alcun effetto sulla capacità portante della struttura stessa, caratteristica che è quella di maggior importanza per i tecnici. Con la fine degli anni Sessanta, lo svilupparsi del calcolo numerico delle strutture con l’ausilio del computer riporta in auge il modello elastico, che si impone come il più adatto ad essere implementato in modo automatico e capace di rendere progressivamente alla portata di tutti il calcolo strutturale. In effetti, è proprio la duttilità dei materiali, la caratteristica trascurata dal materiale elastico, e la possibilità di applicare i teoremi dell’Analisi Limite, a rendere utili e affidabili le soluzioni elastiche che, in ultima ana-
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lisi, sono in grado di produrre in modo automatico uno stato di sforzo equilibrato. Sebbene tali stati di sforzo non siano osservabili in pratica, la loro mera esistenza soddisfa uno dei teoremi fondamentali dell’Analisi Limite: se esiste almeno uno stato di sforzo equilibrato compatibile con i limiti del materiale, allora la struttura non collasserà.
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Duttilità-fragilità e comportamento unilaterale Molte norme sulle costruzioni raccomandano, almeno in principio, la progettazione di strutture composte da materiali duttili, materiali cioè dotati di considerevoli riserve di energia anche dopo che siano stati raggiunti i limiti di resistenza del materiale. L’acciaio ed il calcestruzzo armato, in misura minore, posseggono questa caratteristica. Nel calcestruzzo armato precompresso (il materiale utilizzato per il ponte Morandi a Genova) si utilizza acciaio armonico, un materiale particolarmente sofisticato in grado di aumentare notevolmente la resistenza del materiale a scapito però della duttilità. Con il modello elastico questa caratteristica post-critica del materiale è completamente trascurata, per cui, dal punto di vista elastico, non vi è alcuna differenza tra materiali elastici duttili, poco duttili o fragili, il che è vero sinché gli sforzi all’interno della struttura sono piccoli in rapporto alla resistenza del materiale. Ma, come si è detto, per i problemi riguardanti le strutture civili, a causa degli effetti di imperfezioni geometriche, distorsioni e cedimenti, non vi è alcuna garanzia che localmente gli sforzi non siano prossimi a quelli limite. Se poi il materiale è fragile, esso è ancora più sensibile ad effetti locali di concentrazione di sforzi dovuti a difetti del materiale o di costruzione. Il messaggio finale è quindi quello di evitare, per quanto possibile, l’utilizzo di strutture composte da materiale fragile, nel caso di strutture principali dalla cui sicurezza dipende la vita umana.
Fig. 3 – Una nave Liberty fratturata il giorno dopo il varo (1943) a causa della fragilità del materiale alle basse temperature; effetto di severi cedimenti di fondazione su di una struttura in muratura portante del XVIII secolo.
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Ingegneria delle strutture ed edifici antichi
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E che dire della muratura? In effetti la muratura è un materiale estremamente fragile a trazione e dotato di una, se pur limitata, non irrilevante riserva di energia in compressione. Il fatto è che le strutture in muratura sono progettate in modo tale da lavorare in compressione, senza tenere in alcun conto la resistenza a trazione del materiale. In effetti le strutture in muratura convivono confortevolmente con fratture e distacchi al loro interno, che si producono spontaneamente nei primi anni dopo la costruzione o successivamente a seguito del cambiamento delle condizioni di vincolo al contorno, senza che ciò comporti il rilascio di osservabili o rilevanti quote di energia. Trascurando la resistenza a trazione, si può adottare per le murature il modello unilaterale (NoTension). Tale modello ideale è duttile e per strutture composte da tale materiale sono validi i teoremi dell’Analisi Limite. La fondamentale differenza con i materiali a comportamento bilaterale è che per i materiali unilaterali (e.g. No-Tension) la teoria elastica classica non è di alcuna utilità, essendo indispensabile per la validità delle ipotesi costitutive elastiche che il materiale sia in grado di sfruttare, se pure in un ambito di sforzo ristretto, i due segni delle caratteristiche di rigidezza e resistenza.
Durabilità delle strutture antiche e moderne Moderno è bello e l’infatuazione per le forme nuove ed eleganti delle strutture, consentite dai nuovi materiali a discapito delle forme antiche, è andata per lungo tempo di pari passo con il concetto industriale consumistico dell’usa e getta, un atteggiamento culturale che si è andato a scontrare, già verso la fine del secolo scorso, con la sostenibilità del livello di consumo. Nel terzo millennio una delle parole chiave nella progettazione edilizia è divenuta quindi la durabilità, ovvero l’abilità di una costruzione di restare funzionale, senza eccessivi costi di manutenzione o riparazione, sotto l’effetto delle presumibili e più probabili azioni esterne che la sollecitano lungo la vita di progetto della costruzione stessa.
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100 Postfazione
Fig. 4 – Ponte romano sul Tago ad Alcàntara, Extremadura; Spalling del calcestruzzo dovuto all’ossidazione, ponte Castlewood Canyon in Colorado.
Virtualmente non esistono strutture che non richiedano alcun tipo di manutenzione, ed uno dei problemi che hanno le strutture in muratura è che, insieme alle tecniche costruttive, anche i metodi utilizzati tradizionalmente per la loro manutenzione e riparazione sono stati progressivamente dimenticati. Ma guardando ad uno dei più di 900 ponti romani in muratura ancora funzionanti, a nessuno sfugge come nessun ponte moderno in acciaio o calcestruzzo sia in grado di reggere il confronto con la tradizionale costruzione in muratura, in termini di durabilità. Naturalmente nessun ponte in muratura è in grado di raggiungere le luci di alcuni ponti moderni, ma rimane il fatto che, nella progettazione delle strutture, anche le più ardite, l’aspetto della durabilità, garantita nei ponti ad arco in muratura dal comportamento essenzialmente unilaterale e dal loro stato di esclusiva compressione, debba trovare un suo spazio.
Il modello semplificato unilaterale della muratura Ho parlato in precedenza di alcune caratteristiche peculiari delle murature e del comportamento dei materiali che le compongono, caratteristiche che possono riassumersi in una buona capacità di resistenza alla compressione, nell’assenza di resistenza a trazione, al manifestarsi di fratture all’interno del materiale e alla conseguente apparente duttilità in trazione. Tale comportamento della muratura è dovuto solo in parte alle caratteristiche meccaniche dei blocchi che la compongono e dipende in misura decisiva dal modo particolare e per niente affatto casuale nel quale la muratura è costruita.
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Ingegneria delle strutture ed edifici antichi
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Un modello concettuale semplificato in grado di cogliere gli aspetti del comportamento della muratura appena descritti è il modello NoTension, proposto da Jacques Heyman sin dal 1966 [1]. Il modello di Heyman riconduce il comportamento della muratura ad uno speciale modello plastico consentendo l’applicazione, in una forma del tutto nuova, dei metodi consolidati della teoria della plasticità, del calcolo a rottura e dei teoremi dell’Analisi Limite. La teoria di Heyman è basata su idealizzazioni straordinariamente semplici del comportamento materiale, ma coglie un aspetto, quello della unilateralità e della frattura, che sfuggono al modello elastico classico. Con le parole di Chris Calladine [2] si potrebbe dire che «[…] una delle barriere allo sviluppo della Scienza e dell’Ingegneria, è rappresentato dalla difficoltà di scegliere modelli concettuali appropriati. Questo è uno dei punti in cui l’intelletto è maggiormente messo alla prova; ma una volta trovata, per così dire, la chiave, nuovi campi di conoscenza si aprono ai nostri occhi». La chiave, nel caso delle murature, è il loro comportamento essenzialmente unilaterale. L’essenza del comportamento unilaterale, accoppiato alla elevata resistenza a compressione, si coglie in tre caratteristiche tipiche del comportamento delle strutture in muratura: 1. La cosiddetta resistenza per forma, ovvero la capacità di sostenere i carichi legata prevalentemente alla geometria e solo marginalmente alla resistenza del materiale. 2. La facilità con cui la struttura si adatta a cedimenti di fondazione o alle variazioni geometriche delle strutture adiacenti (evidenziate anche nel semplice modello in scala riportato nella figura seguente) separandosi in parti rigide articolate tra loro. 3. La discreta resistenza al sisma delle costruzioni realizzate in modo corretto ed il verificarsi di collassi parziali delle parti più deboli, che non trascinano con sé le pareti limitrofe.
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102 Postfazione
Fig. 5 – Modello in scala della navata centrale della chiesa di S. Eligio al Mercato in Napoli, soggetto ad un prescritto cedimento dei piloni, realizzato nel corso del laboratorio interdisciplinare dagli studenti del II anno 2017-18 in Ingegneria EdileArchitettura, UNISA; confronto con le previsioni fornite da un calcolo numerico basato sul modello semplificato di Heyman.
Dove è andato a finire il buon senso? La eccezionale stabilità e durabilità delle costruzioni in muratura eseguite secondo le regole dell’arte, testimoniata dalla loro sopravvivenza nei secoli, anche sotto gli insulti e le ferite prodotte dai terremoti che ciclicamente affliggono principalmente le zone appenniniche del nostro paese e dei quali abbiamo una conoscenza storica piuttosto dettagliata da 2000 anni a questa parte [10], è messa in dubbio, in tempi moderni, dagli effetti degli eventi sismici recenti. Apparentemente nessuno si chiede il perché di queste circostanze nuove e straordinarie, come se le costruzioni in muratura fossero apparse repentinamente sulla terra provenienti da un altro pianeta e si sentisse improvvisamente la necessità, trovato un colpevole nella scarsa resistenza a trazione del materiale, di dare loro quella resistenza che ad esse manca, incollando sulla loro superficie materiali compositi dalle proprietà miracolose, quei materiali cui il mio collega ed amico Antonello De Luca si riferisce ironicamente come lo Spar Drapping (sparatrappo in napoletano) magico.
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Il dibattito è complicato da argomenti estranei a quelli tecnici e legati alla comprensibile paura di un evento catastrofico di cui non sappiamo prevedere con sufficiente anticipo il verificarsi, ai fiumi di denaro che la riparazione delle costruzioni in una situazione di emergenza porta con sé, e alla diffusa ignoranza, anche da parte dei tecnici, delle regole base di funzionamento della muratura. La costruzione in muratura, la sua logica costruttiva e le sue più elementari leggi di comportamento sono scomparse, in un brevissimo lasso di tempo, non solo dalle scuole, ma anche da quel sapere collettivo cui diamo il nome di comune buon senso. La lettura di questo passo, preso integralmente dalle pagine del Viaggio in Italia di Goethe, chiarisce meglio di tante parole il senso di questa perdita, che non ha riguardato solo le conoscenze di base del muratore, ma anche quelle del pescatore e, in buona parte, del contadino, un patrimonio inestimabile scomparso improvvisamente nel giro di una cinquantina di anni, a causa dell’abbandono dei metodi tradizionali di costruire, pescare e coltivare i campi. Messina, domenica 13 maggio 1787. Ci siamo svegliati, è vero, con un sole splendido e in un albergo più simpatico, ma ci siam sempre ritrovati in questa sventurata Messina. Nulla di più tetro che lo spettacolo della così detta “Palazzata”, una serie di grandi palazzi a falce di luna, che incorniciano la spiaggia per il tratto d’un quarto d’ora. Erano tutti edifici a quattro piani e costruiti in pietra; di questi, alcune facciate sono rimaste ancora in piedi fino al sommo della cornice, altre son crollate fino al terzo piano, al secondo, al primo; in modo che tutta questa schiera di palazzi, un tempo così superbi, adesso si presenta allo sguardo orribilmente frastagliata e bucherellata, poiché l’azzurro del cielo si vede attraverso quasi tutte le finestre. Nell’interno le abitazioni propriamente dette sono tutte sfasciate. La ragione di questo fenomeno singolare è che, per seguir l’esempio del brillante piano architettonico tracciato dai proprietari più ricchi, i vicini, meno facoltosi, in un’apparente gara di sfarzo, avevano mascherato, dietro alle facciate nuove costruite in pietra viva, le loro vecchie case, murate con ciottoli grandi e piccoli tenuti insieme con molta calce. Una struttura simile, poco sicura di per sé, sfasciata e frantumata dall’orrenda convulsione, non poteva non rovinare completamente. Che poi la cattiva costruzione delle case, dovuta a mancanza di pietre nei dintorni, sia stata la causa precipua della rovina totale di Messina, lo dimostra anche la resistenza opposta dagli edifici più saldi. Il collegio e la chiesa dei Gesuiti, massicce costruzioni in pietra, stanno ancora in piedi, incolumi nella loro originaria solidità.
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Fig. 6 – Copertina di Viaggio in Italia pubblicato in italiano da Mondadori; Johann Wolfgang Goethe (1749-1832).
L’intervento umano Più della metà delle costruzioni esistenti in Italia è realizzata in struttura portante in muratura. Nessuno può negare però che la maggior parte di tali costruzioni abbiano subito nel tempo, in maggiore o minore misura, rimaneggiamenti e modifiche del loro assetto strutturale. Le più evidenti, le sopraelevazioni, specialmente quelle più antiche realizzate in muratura, sono in definitiva le meno nocive rispetto agli sventramenti, all’abbattimento di muri partimentali, o alla sostituzione di muri portanti con telai in calcestruzzo. A seguito del terremoto dell’Irpinia dell’80 ricordo di un periodo di caccia alle streghe verso le strutture spingenti e la demolizione felice di migliaia di volte in muratura del tutto innocenti, che lungi dal minare la statica della costruzione conferivano ad essa quella unitarietà costruttiva tra strutture orizzontali e verticali e quella pacifica massiva stabilità che sono alcuni degli obiettivi del progetto di una buona costruzione. Girando per le strade delle città colpite dal terremoto salta agli occhi la straripante prevalenza di meccanismi fuori piano spesso dovuti a recenti (post-ottocentesche) ristrutturazioni, proprio gli stessi meccanismi che Goethe descriveva lucidamente nel passo riportato poc’anzi. E che
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dire degli innumerevoli tetti realizzati in cemento armato come cappello di povere costruzioni rurali al posto di più tradizionali tetti lignei, che si distaccano o crollano schiacciando i muri sottostanti?
Fig. 7 – Crollo alla Riviera di Chiaia di Napoli provocato dai lavori della metropolitana; crollo sul lungomare di Salerno a seguito dei lavori di ristrutturazione di un appartamento.
Il rimedio tradizionale più efficiente per l’adeguamento di costruzioni murarie realizzate in zona sismica, la realizzazione delle così dette “catene”, messo alla prova dei fatti e collaudato da una storia pluricentenaria, appare oggi ai più insufficiente e demodé. Naturalmente le norme tecniche non aiutano affatto. Seguendole alla lettera in modo cieco, possono perpetrarsi veri e propri crimini ai danni delle strutture murarie, quali la rimozione dei riempimenti delle volte che, secondo sofisticate analisi dinamiche che utilizzano modelli elastici, sarebbero più sicure se alleggerite di questo “inutile” fardello. Pochi si chiedono il motivo per cui esperti muratori, attenti alle spese, abbiano impiegato il loro tempo ed il loro denaro per realizzarli. L’informazione poi certo non aiuta. Crollo di un’ala di un palazzo alla Riviera di Chiaia a Napoli. Crollo di uno spigolo di un palazzo sul lungomare di Salerno. Crollo della volta (sic!) della chiesa di San Giuseppe dei falegnami a Roma. Di chi è la colpa? Della muratura? Se è pur vero che la muratura invecchia e si degrada e che negli ultimi 100 anni la manutenzione delle costruzioni in muratura è divenuta un’attività sconosciuta, in nessuno dei casi menzionati, tanto per fare degli
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esempi (ma esempi simili sono innumerevoli), la colpa è da ascriversi alla insufficiente resistenza della muratura, ma piuttosto alla mano, attiva od omissiva, dell’uomo. Tra l’altro, nel caso della chiesa di Roma non si tratta neanche di una volta ma di un pregevole soffitto a cassettoni lignei sostenuto da travi in legno.
Bibliografia 1. J. Heyman, The stone skeleton, Int. J. Solids and Struct., 2(2):249–279, 1966.
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2. C.R. Calladine, Engineering Plasticity, Pergamon Press, 1969. 3. J. Heyman, The stone skeleton, Cambridge University Press,1995. 4. S. Huerta, Diseño estructural de arcos, bóvedas y cúpulas en España, ca. 1500-1800, Tesis Doctoral en la UPM, Curso 1990/1991. 5. J. A. Ochsendorf, Collapse of masonry structures (Doctoral thesis), 2002. 10.17863/CAM.14048. 6. S. Huerta, Arcos, bóvedas y cúpulas. Geometría y equilibrio en el cálculo tradicional de estructuras de fábrica, Madrid: Instituto Juan de Herrera, 2004. 7. S. Huerta, Geometry and equilibrium: The gothic theory of structural design, Structural Engineer 84: 23–28, 2006. 8. S. Huerta, Galileo was Wrong: The Geometrical Design of Masonry Arches, Nexus Netw. J. 8(2):25-52, 2006. 9. M. Como, Statica delle costruzioni storiche in muratura, Aracne, 2015. 10. M. Locati, R. Camassi, A. Rovida, E. Ercolani, F. Bernardini, V. Castelli, C. H. Caracciolo, A. Tertulliani, A. Rossi, R. Azzaro, S. D’Amico, Database Macrosismico Italiano, versione DBMI15, release 1.5, INGV, 2015.
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Il Tempo nuovo della tradizione vede confrontarsi sui temi dell’arte e del restauro Achille Bonito Oliva, Giovanni Carbonara e Gianmarco de Felice. Con l’apporto anche di altri studiosi ne scaturiscono riflessioni ideali e operative attorno al tema centrale del rapporto tra antico e nuovo, in particolare nel progetto di conservazione del patrimonio culturale. Dopo le drammatiche distruzioni seguite ai più recenti terremoti che hanno scosso la nostra penisola, nella prospettiva di una programmazione più organica e interdisciplinare fondata sulla collaborazione tra ars e techne, il testo mostra come il patrimonio di conoscenze scientifiche e tecniche possa indicare un corretto, nuovo e raffinato approccio allo studio degli edifici in muratura, per orientare gli interventi e garantire la conservazione degli edifici e del tessuto consolidato dei nostri centri storici. Federica Ribera, architetto e PhD, è Professore Associato di Architettura Tecnica presso il Dipartimento di Ingegneria Civile dell’Università degli Studi di Salerno. I suoi interessi di ricerca vertono prevalentemente sulla storia delle costruzioni, sulle tecniche costruttive storiche e moderne e sul recupero del patrimonio edilizio esistente. È autore di numerose pubblicazioni, quali articoli in volume e in riviste specializzate, contributi in convegni e seminari di rilievo nazionale e internazionale e diverse monografie tra cui: Le coloriture dell’edilizia storica napoletana. Metodi e strumenti per il progetto di manutenzione, Napoli 2002; Costruito storico e recupero tra città e periferia, Salerno 2002; Santa Teresa a Massa Lubrense. Un monastero di clausura tra storia e restauro, Napoli 2003; Salerno tra le due guerre. L’edilizia pubblica e le residenze private, Napoli 2010; Recupero e valorizzazione dei serbatoi interrati di Pier Luigi Nervi a Pozzuoli, Napoli 2014.
In copertina: Giotto, La morte del ragazzo in Sessa (affresco) 1310 ca., Basilica Inferiore di Assisi.
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