Il tempo dell'uomo e il tempo di Dio. Filosofie del tempo in una prospettiva interdisciplinare 9788842062912

Il problema del tempo risulta, nella storia del pensiero occidentale, un problema decisivo, che è stato affrontato elabo

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Italian Pages 170/171 [171] Year 2001

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Il tempo dell'uomo e il tempo di Dio. Filosofie del tempo in una prospettiva interdisciplinare
 9788842062912

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Percorsi 23

© 2001, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2001 Pubblicato con un contributo dai fondi per ricerche di interesse nazionale cofinanziate dal MURST 1998

a cura di Adriano Fabris

Il tempo dell’uomo e il tempo di Dio Filosofie del tempo in una prospettiva interdisciplinare Saggi di M.C. Bartolomei C. Ciancio G. Colzani A. Fabris D. Goldoni M. Pagano F. Papi L.A. Radicati di Brozolo V. Sainati

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2001 da La Fotocromo Emiliana s.r.l., Osteria Grande (Bologna) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-6291-7 ISBN 88-420-6291-X

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Nota del curatore

Ciò che chiamiamo «tempo» diviene molto presto, nella storia della filosofia, un problema decisivo. La difficoltà di elaborare concettualmente questo fenomeno e l’emergere, in relazione ad esso, di particolari aporie spingono infatti molti pensatori, fin dalla Grecia antica, a individuare prospettive differenti capaci di rendere possibile una sua definizione e di garantirne un’effettiva comprensione. Si delineano in tal modo concezioni particolari – come quella che vede nel tempo, platonicamente, «un’immagine mobile dell’eternità», oppure quella che lo considera, aristotelicamente, come «il numero del movimento secondo il prima e il poi» –, le quali incidono in maniera decisiva sulla riflessione filosofica posteriore. Con quest’impostazione filosofica, elaborata nel mondo greco, s’intreccia poi, nella tradizione occidentale, lo specifico modo cristiano di vivere il tempo e di farne esperienza. In un tale contesto, più che i concetti di chronos e (anche) di aion, è il termine kairos a imporsi, venendo a esprimere l’«attimo» in cui può irrompere un evento irriducibile alla mera successione temporale e può attuarsi quella «venuta del Signore» di cui il credente è in attesa. Emerge così la necessità di pensare, attraverso il generale concetto di «tempo», la compresenza di punti di vista interpretativi differenti: che privilegiano, ad esempio, l’idea di continuità oppure quella di discontinuità, che lo considerano come misura del divenire o come figura dell’eterno, che in esso vedono la condizione per determinare eventi verificabili oppure l’occasione per un’attesa di ciò che interromperà il succedersi omogeneo degli istanti. È appunto secondo questi sensi, e in queste molteplici prospettive, che si può parlare, ad esempio nell’ottica di una filosofia della religione, del «tempo dell’uomo» e del «tempo di Dio». I diverV

si contributi che sono qui pubblicati propongono allora, appunto in quest’ottica, alcuni sondaggi sulle molteplici configurazioni del problema del tempo, privilegiando in molti casi lo stretto legame che unisce, nella storia del pensiero, la riflessione filosofica e il cristianesimo. Così, Vittorio Sainati approfondisce, nelle sue linee principali, i vari modi in cui il «tempo filosofico» e il «tempo religioso» cristiano si sono rapportati, discutendo appunto le condizioni di possibilità del loro collegamento, mentre Maria Cristina Bartolomei analizza alcuni aspetti della concezione ebraico-cristiana della temporalità, nello specifico legame in essa istituito fra «tempo» e «libro». Fulvio Papi, poi, conduce un’intensa meditazione su quel tempo di cui la scrittura ha bisogno e che essa mette in opera, fino a giungere sulla soglia dell’invocazione religiosa, mentre, a loro volta, Claudio Ciancio affronta il rapporto fra tempo ed eternità (con particolare riferimento al pensiero di Schelling e a quello di Pareyson) e Maurizio Pagano propone un’attenta analisi della concezione del tempo elaborata da Hegel, specialmente con riguardo alle sue lezioni di filosofia della religione. Ancora, Adriano Fabris mette in luce le peculiari aporie che investono alcune trattazioni filosofiche del tempo e che spingono a ripensare il tempo a partire dal concetto di «inizio», mentre Daniele Goldoni indica un originale itinerario che, da un’analisi dell’«innocenza della natura» e della sua temporalità, sembra aprirsi a nuove immagini del divino. Quelli che vengono proposti in questo libro sono dunque, potremmo dire, dei lineamenti di una «filosofia del tempo» che è sviluppata da prospettive diverse e con particolare interesse alle tematiche elaborate in un ambito religioso. Tale filosofia, però, non può prescindere dal confronto con quelle altre concezioni della temporalità che sono state sviluppate in ulteriori ambiti disciplinari e che con l’impostazione filosofica interagiscono anche con esiti decisamente critici. Mi riferisco soprattutto alla rivoluzionaria trasformazione del concetto di tempo di cui siamo debitori alla fisica teorica del Novecento, che ha messo in questione molte idee tuttora radicate nella mentalità comune, e ai diversi spunti che provengono da molte stimolanti trattazioni presenti nella teologia contemporanea. Di queste ultime fornisce un’ampia e documentata illustrazione il saggio di Gianni Colzani, seguendo soprattutto il filo conduttore della questione escatologica; sull’evoVI

luzione del concetto di tempo in fisica si sofferma invece, in un’esposizione straordinariamente chiara e affascinante, il contributo di Luigi A. Radicati di Brozolo. Questo libro – è bene ribadirlo – non è il frutto delle riflessioni autonome di coloro che vi hanno partecipato con un saggio scritto per l’occasione. Esso invece nasce dalla ricerca comune compiuta da un gruppo di studiosi che hanno privilegiato il tema del tempo come occasione di quel confronto e di quegli approfondimenti teorici che, come segnalato, si sono estesi via via anche al di là dell’ambito filosofico. La ricerca – che si è svolta nell’ambito del progetto nazionale su «Ermeneutica della temporalità: esperienze, teorie e dimensioni del tempo», coordinato da Mario Ruggenini e finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica per il triennio 1998/2000 – ha conosciuto uno dei suoi momenti di proficua elaborazione in un seminario, svoltosi a Pisa dal 3 al 5 aprile del 2000 e organizzato dal locale gruppo di ricerca, che ha visto la qualificata partecipazione di docenti di nove Università italiane (Venezia, Trieste, Milano, Pavia, Piemonte Orientale, Genova, Pisa, Macerata e Palermo). I risultati del seminario e gli approfondimenti che, anche in una prospettiva interdisciplinare, ad esso sono seguiti vengono appunto raccolti in questo libro. Desidero ringraziare Mario Ruggenini, coordinatore nazionale della ricerca su «Ermeneutica della temporalità», Gianfranco Fioravanti, preside della Facoltà pisana di Lettere e Filosofia, e Michele Ciliberto, direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa, per aver sostenuto e incoraggiato la realizzazione del seminario, nonché Guido Bruni per la sua competente e amichevole collaborazione. Un grazie particolare va inoltre ai partecipanti dei gruppi di ricerca locali che, intervenendo attivamente nella discussione, hanno sollecitato i relatori a un produttivo ripensamento delle loro tesi. Ecco perché i testi che compongono questo libro non sono solamente il frutto originale del lavoro e delle competenze di chi li ha scritti, ma, in una qualche misura, risultano lo specchio fedele di una più ampia attività di ricerca collettiva. A.F.

Il tempo dell’uomo e il tempo di Dio

Vittorio Sainati

Tempo filosofico e tempo religioso

1. Chi ben rifletta sul titolo di questo saggio, si accorge agevolmente della rilevanza logica del nesso congiuntivo espresso dalla «e». È infatti in grazia di quel nesso che si costituisce il rapporto tra i due termini categorematici in oggetto come rapporto unitario nella loro necessaria distinzione. Su questa base teorica generale il problema che attualmente ci interessa assume allora la forma seguente: «Il tempo filosofico e il tempo religioso sono il medesimo tempo diversamente qualificato solo per accidens? O non sono piuttosto due qualità di tempo essenzialmente disgiunte o alternative?». Ma, posta la questione in questi termini, si fa subito chiara la necessità di una delimitazione storica della problematica in discussione, che valga nell’atto stesso come vitale semplificazione della sua portata speculativa. Solo così procedendo, per il tramite di una dialettica ascensiva, dal particolare (reale) all’universale (ideale) possiamo in effetti sperare di gettare qualche luce sull’aspro intrigo della tematica prescelta. Diciamo allora in via preliminare: a. La nozione di «tempo filosofico» (ossia, la concezione filosofica del tempo) impegna un ampio capitolo della storia della filosofia pre-critica (cioè, di fatto, della filosofia antica e medievale in versione «occidentale»). A quella storia fa seguito, per la progressiva emergenza del «nuovo spirito scientifico», la vicenda di una filosofia specificamente moderna, tesa a revocare cartesianamente in questione l’ontologismo dogmatico della tradizione precedente e a confrontarsi vantaggiosamente con quest’ultima. b. A sua volta, il «tempo religioso» è qui inteso sostanzialmente come una scansione di kairoi escatologicamente finalizzati a un destino di salvezza. Al centro di questa prospettiva, di origi3

ne ovviamente protocristiana, sta dunque l’idea di una promessa divina, garantita, per la sua realizzazione, dall’azione mediatrice di Gesù Cristo. Così delimitando e distinguendo, abbiamo costretto i due termini categorematici del problema a «guardarsi reciprocamente in faccia», deponendo ogni pretesa di false ricchezze (nella fattispecie, la presunzione di parlare in nome di non ben verificati universi filosofici o religiosi), ed esplorando piuttosto l’effettuale ricchezza della loro rispettiva consistenza teorica. 2. Come è noto, la problematica «filosofica» del tempo ha radici assai antiche, culturalmente greche. Se, infatti, si vuole un nome simbolicamente allusivo, si deve privilegiare quello di Parmenide, per avere costui tentato primariamente la via di una riduzione metodologicamente rigorosa della crono-logia alla onto-logia. E in effetti l’ontologia classica dedusse dal paradigma parmenideo la sua forma storica di pensiero dell’origine e, come tale, fondativo. Dietro quella ontologia non stavano teorie e teoremi «razionali», logicamente filtrati e organizzati: dietro di lei stavano i miti e le teogonie dei poeti, con la loro inconscia presunzione di identificare gli spazi di possibili impegni teorici. E appunto il suo rapporto al mito fu, per quella ontologia, il suo modo specifico di «cominciare da capo». La sua profonda aspirazione era quella di dire al logos ciò che il mito diceva all’immaginazione, in un difficile processo di distacco dal piano del magistero poetico: essa voleva «dire l’Essere» in greco, nel luogo stesso in cui la poesia disponeva i suoi idoli e le sue figurazioni antropomorfiche. Ma «dire l’Essere» in greco equivaleva a introdurre nel tema dell’origine l’idea dell’unità, del Dio-uno: e il Dio-uno è quella «forza unificante e demiurgica», per la quale – al dire di Alessandro di Afrodisia, interprete di Aristotele – «tutto l’esistente è come è». Insomma: dentro le pieghe dell’ontologia urgeva già la teo-logia. Ecco dunque: come modalità primigenia del pensiero dell’origine, la teologia classica «disse Dio» solo consegnando la frastagliata apparenza dell’esistente alla compatta e chiusa «necessità» dell’Essere: a fronte della quale il tempo, come ritmo di passato e futuro, non ha collocazione se non fenomenica e per ciò stesso irreale. Un solo esempio testuale, dedotto da Parmenide: 4

Quale necessità potrebbe averlo spinto, se traesse origine dal nulla, a nascere dopo o prima? È dunque necessario che sia assolutamente o che non sia affatto [...] Come potrebbe l’Essere esistere nel futuro? E come potrebbe essere stato? Infatti, se fu non è, e neppure è se dovrà essere in futuro1.

Una volta inscritta in questa prospettiva, la teologia classica non poté evitare di portare impresso, in tutto ciò che riuscì a pensare e dire, una sorta di sigillo ontologico: i suoi oggetti teorici si consolidarono in cose (essendo cosa Dio stesso), intemporalmente radicate nell’Essere o in questo, addirittura, eleaticamente risolte. E fu, così, il trionfo dell’identico. Una teologia di tal tipo ha bisogno di un Dio immoto e di una realtà in lui raccolta o, comunque, da lui garantita. Essa è, insomma, una vera e propria apofantica dell’Assoluto, capace di eludere tempo e storia per dire, nell’adiaforia esistenziale dei suoi assiomi, le strutture dell’Essere. Non, dunque, «Essere e tempo» è la formula eleaticamente risolutiva del problema in precedenza impostato, ma proprio la sua contraria («Essere senza tempo»): la quale, a disperazione dei suoi critici, sembra paradossalmente suggerire come soluzione del problema l’estremistica soppressione del problema stesso. E, comunque, è chiaro che ogni tentato approccio alla atemporalità dell’Essere è un contingente itinerarium mentis, mero epifenomeno soggettivo, che non tocca la sostanza ontologica delle cose perché non tocca la Cosa. S’intende allora come quella teologia – divenuta, per ragioni storiche complesse, la mentalità filosofico-religiosa dell’Occidente – resistesse (e tuttora in buona misura resista) a ogni tentativo di sovversione e dissoluzione, persino penetrando tacitamente nelle forme di pensiero più refrattarie ad esiti programmaticamente teologici. Il fatto è che la teologia classica, di cui qui si fa discorso, è la formula articolata dell’oggettività ontologica: il soggetto – l’eidos phos – non può che contemplare, in una sorta di adesione distante, l’estranea compattezza dell’Intero, quasi a conferma della cosmica solitudine che preme e stringe il reale da ogni lato. 3. L’eredità eleatica passa idealmente nelle mani di Platone e di Aristotele. Idealmente, dico: ché, a voler determinare con cura filologica il senso di quel «passare», occorrerebbe altra impresa, 5

impossibile in questa sede. Qui basta citare, a prova dell’avvenuto passaggio, alcuni documenti testuali, che riprendono, con motivati aggiornamenti, la tesi parmenidea della nullità esistenziale del non-essere, e, così facendo, introducono nelle loro prospettive teoriche la problematica del tempo. Ecco, dunque, la domanda del Timeo platonico: Che è quello che sempre è e non ha nascimento, e quello che nasce sempre e mai non è?2

Ed ecco la risposta: L’era e il sarà sono forme generate di tempo, che noi inconsapevolmente riferiamo a torto all’eterna essenza. Invero noi diciamo ch’essa era, che è e che sarà, e tuttavia solo l’è le conviene veramente, e l’era e il sarà si devono dire della generazione che procede nel tempo: perché sono movimenti, mentre quello, che è sempre nello stesso modo immobilmente, non conviene che col tempo diventi né più vecchio né più giovane, né che sia stato mai, né che ora sia, né che abbia ad essere nell’avvenire3.

Come si vede, Platone si vale della «distruzione» parmenidea del non-essere per contrarre nell’attuale presenza dell’è quell’era e quel sarà, che dovranno costituirsi in momenti strutturali di un processo serialmente ordinato (passato-presente-futuro). Ma altrettanto bene si vede che proprio la fruizione della critica parmenidea consente a Platone di correggere lo stesso Parmenide su un punto fondamentale: vale a dire sulla pensabilità del tempo, inteso come «un’immagine mobile dell’eternità», in cui ritmicamente si succedono «i giorni e le notti e i mesi e gli anni». E in effetti la correzione risponde a un’esigenza precisa: quella di «possibilizzare» una filosofia della natura che, riscattando il mondo empirico dalla minaccia dell’apparenza, restituisca consistenza esistenziale (ancorché ontologicamente ridotta) al regno della generazione e del movimento. Il fatto è che Platone inscrive la sua «crono-logia» in un contesto culturale denso – oltre che di interessi etico-politici – anche di suggestioni scientifiche e metodologiche a sfondo naturalistico, da lui accolte e soprattutto tradotte nell’epistemica mitologia del Timeo. L’attenzione prestata dal filosofo a questo patrimonio ideale 6

non è certo priva di urgenze speculative: ché egli avverte chiaramente il rischio della «separatezza» del mondo e dei suoi enti e l’ambiguità della chora rispetto all’ordinata pluralità dei modelli, e teme pertanto un sorprendente ritorno di Parmenide sotto le logiche spoglie dell’«identico». Di qui il ricorso alla parallela categoria del «diverso», già nota al Sofista, e destinata ad aprire spazi concettualmente giustificati per una plausibile filosofia della natura. Si tratta insomma, per Platone, di esistenziare la natura, sottraendola all’oscura e confusa irrazionalità della materia informe, e offrendola invece, miticamente, all’azione illuminata di un’Intelligenza ordinatrice e misurante. Ma «esistenziare la natura» significa, a sua volta, esistenziare il movimento e, nel movimento, il tempo. Donde l’ultima domanda: come realmente provare, nella prospettiva del platonismo, l’esistenza del tempo? Ossia: come superare in quella prospettiva l’obiezione «logica» di Parmenide? 4. Della discussione del quesito s’incarica direttamente lo stesso Aristotele quando, per esempio, lo riprende ed espone in questa forma: Che esso [= il tempo] non esista affatto o che la sua esistenza sia oscura e appena riscontrabile, lo si potrebbe sospettare da quanto segue. Una parte di esso è stata e non è più, una parte sta per essere e non è ancora. E di tali parti si compone sia il tempo nella sua infinità sia quello che di volta in volta viene da noi assunto. E sembrerebbe impossibile che esso, componendosi di non-enti, possegga un’essenza reale4.

È evidente, in questa semplificata versione del problema, l’intenzionale aritmetizzazione dei suoi termini. Ma soprattutto è evidente, all’interno di questo quadro teorico, la dichiarata indeducibilità dell’esistenza del tempo da una somma meramente logica di insiemi temporali vuoti. E tuttavia il tempo esiste. Lo assicura espressamente lo stesso Aristotele: Che, dunque, il tempo esiste e che cosa è […] è stato detto5.

Questa asserzione, netta e tagliente, ha un trasparente significato conclusivo, che dev’essere giustificato. Ma giustificarlo non 7

si può senza ricordare la connessione, testé stabilita, tra tempo e movimento. Certo, finché si pretendesse di trattenere il discorso su un piano di astratta generalità dialettica, tra i due termini in questione non si darebbe alcun reale passaggio non potendosi aristotelicamente ipotizzare l’entificazione dei concetti o l’idealizzazione degli enti: Non vi è [...] un movimento al di fuori delle cose; infatti perché vi sia cangiamento, è indispensabile la cosa che cangia [...] né [...] si può trovare alcunché di comune alle cose soggette al cangiamento, senza che esso sia né essenza determinata né quantità né qualità né alcuna delle altre categorie6.

Ma, una volta garantita (contro l’idealismo platonico) la corretta referenza dei termini soggettivi e predicativi (e dunque, nel caso specifico, dei concetti di tempo e movimento), il risultato più suggestivo conseguito dall’analisi aristotelica in ordine alla questione della definizione del tempo è l’avvenuto riconoscimento dello speciale rapporto implicativo che vincola logicamente il tempo al movimento («Il tempo non è movimento, ma non è senza movimento»: Fisica IV 1, 219 a, 1-2): e poiché il movimento è continuo, continuo sarà anche il tempo. Ma si deve avvertire, in questo rapporto del tempo al movimento, la presenza di alcuni elementi problematici, che conferiscono al resoconto aristotelico un esemplare carattere quasi-seminariale ed esoterico: per esempio, la questione dell’istante (to nyn) in quanto limite e misura; le ragioni del movimento circolare; l’ordine successorio degli istanti secondo il prima e il poi; la doppia accezione del numero (come numerato e come numerabile); l’essenza del numero come attualizzazione di una potenza (e dunque come un passare dalla potenza all’atto), ecc. E proprio tra queste pieghe del discorso teorico di Aristotele si incontra la sua ben nota definizione del tempo: Questo, in realtà, è il tempo: il numero del movimento secondo il prima e il poi7.

5. Della su citata definizione della temporalità si è discusso recentemente assai, in previsione dell’ancor più celebre definizione agostiniana, di cui quella aristotelica sarebbe un’anticipazione de8

stinata a un articolato svolgimento. Non è certamente il caso di controllare in questa sede la validità storica delle risultanze emerse da quel dibattito. E ciò non già per diffidenza preconcetta o per spirito di prevaricazione storiografica, ma per la diversità del fine a cui noi tendiamo: fine che è prevalentemente teoretico, almeno nella misura in cui si vuole dare conto degli essenziali elementi problematici e strutturali di un determinato complesso testuale. Muniti di queste avvertenze, ci piace sostare per un momento nell’ideale episcopio di Ippona, per ascoltare, sulla specifica questione del tempo, il messaggio che in quelle stanze ci raggiunge. Al centro del messaggio sta la domanda «aristotelica»: «Quid est ergo tempus?», cui segue immediatamente la famosa risposta «Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio»8. Si tratta, com’è evidente, di espedienti retorici atti a dare il senso della tensione dialettica, che attraversa, in forma di insistita invocazione, l’intera testualità della tematica temporale del libro XI delle Confessioni. E tuttavia dallo stile immaginoso di Agostino emergono alcune indicazioni che giova rilevare (anche in funzione dell’apprezzamento critico del loro rapporto col modello aristotelico). Emerge, per esempio, la questione che si vorrebbe chiamare «delle sporgenze»: ossia, di quei tratti teorico-testuali che, radicati in un determinato documento, trovano rispondenza formale o sostanziale in altro documento, al punto di suggerire un giudizio di (reciproca) convergenza filologico-storica dei testi in discussione (o, almeno, di filiazione indiretta dall’uno all’altro). È, così, un caso di «sporgenza» testuale la tematizzazione dell’anima e del suo rapporto col tempo nel libro IV, capitolo 14, della Fisica aristotelica: tematizzazione che appunto trova riscontro in quei luoghi delle Confessioni che suppongono un certo riferimento all’anima (comunque intesa) come soggetto dell’esperienza temporale. Ed è altresì un caso di sporgenza testuale – anzi, di «sporgenza plurima» – la stessa trasmissione quasi-ereditaria della critica agostiniana del tempo attraverso le figure storiche della filosofia moderna. Esemplificando ulteriormente, si consideri, nel suo ordine standard, la terna dei «momenti» che scandiscono il processo temporale: passato-presente-futuro. Entrato in questa terna per esplorarne il contenuto, Agostino vi scopre una sostanziale ambiguità semantica del secondo termine (il «presente»). Infatti, per un verso, il presente è un elemento della terna in questione; ma 9

per altro verso (ossia per quella vena di attualismo che per Agostino rende funzionale alla soggettività del conoscere l’oggettività dell’essere) il presente è la condizione di sussistenza logica degli altri due momenti del processo temporale (il «passato» e il «futuro»). S’imponeva pertanto ad Agostino la necessità di sciogliere il nodo di questa doppia valenza del «presente»: ciò ch’egli effettivamente fece in Confessioni XI, 20, in termini che innovavano in senso decisamente spiritualistico l’ormai invecchiata impostazione aristotelica della problematica del tempo: Questo adesso è limpido e chiaro: né il futuro né il passato sono, né è corretto dire: i tempi sono tre, passato, presente e futuro, ma forse sarebbe più proprio dire: i tempi sono tre, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Queste tre forme, infatti, sono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro l’attesa9.

Gli esempi non sono stati scelti a caso. Nel loro insieme, infatti, essi disegnano una linea che rende simbolicamente trasparente la progressiva erosione del realismo ontologico di tradizione greca, e apre infine la via alla moderna celebrazione idealistica della soggettività. Questo, naturalmente, in idea: poiché tra l’ipotiposi agostiniana dell’interiorità della coscienza e la crescente esasperazione umanistica degli interessi mondani dell’esistenza corre la vicenda ideologico-religiosa della metafisica medievale, totalitariamente impegnata nella requisizione di ogni schema di rottura eventualmente emergente. Epperò quella metafisica non era un sistema cartaceo da elaborare astrattamente nelle scuole di varia ispirazione (platoniche o aristoteliche, domenicane o francescane, filosofiche o teologiche), perché era, al contrario, il distillato teorico di reali movimenti evolutivi di una civiltà già tendenzialmente europea. C’è solo da rilevare – ma certamente il rilievo non è di poco conto – che quella medievale era, nel suo complesso, una cultura oggettivata e istituzionalizzata, e per ciò stesso bisognosa di conferme trascendenti e di sostegni autoritari. Si spiega così quella progressiva attenuazione dei fervori scritturali di fonte patristica, che trovava compenso in una tecnica speculativa sempre più articolata via via che si offrivano all’attenzione di maestri e dotto10

ri nuove forme di ricezione del pensiero greco-latino. In ogni caso si spiega – per dirla in generale – l’assenza, nella Scolastica medievale, di un problema filosofico del tempo: ché essa, prigioniera dei suoi schemi ontologici e assorbita nella contemplazione di un «divino» metafisicamente reificato, non poté disporre di effettuali alternative a quel mondo culturale senza tempo tinto, che il suo stesso intellettualismo doveva destinare all’esclusività. 6. La metafisica è una modalità di pensiero illiberale: vuole soltanto se stessa e quant’altro si pieghi, sul terreno del sapere, ai suoi pronunciamenti. Perciò essa si lega a un concetto adeguazionistico della verità, che per sua natura esclude – in via di principio, se non di fatto – la «rivedibilità» degli enunciati «veri». Certamente, anche quella verità, non ingiustamente detta «dogmatica», pretende di possedere le sue prove giustificative: ma le giustificazioni da lei a volta a volta esibite cadono fuori degli ambiti teorici di sua stretta competenza, e non entrano a costituire processualmente l’essere dei suoi oggetti: sì che in ogni questione scientifica dogmaticamente impostata, la soluzione prevale sul problema sino al punto di sopprimerlo, rendendolo ulteriormente indiscutibile. E tuttavia, per una sorta di paradosso epistemico, la metafisica non può proporsi, per così dire, allo stato puro, come espressione disciplinare di un sapere assoluto: essa vede infatti insorgere contro di lei le metafisiche concorrenti, destinate a conferire al confronto un carattere di insuperabile precarietà, perché essenzialmente incapaci di progressi teorici effettivi. Perciò la metafisica, in quanto imprime nei suoi enunciati il timbro incancellabile di una pretesa delusa, fugge il tempo: non il tempo oggettivato e astratto delle teorie naturalistiche, in cui prende forma l’idea della misura, ma il tempo soggettivamente vissuto come quel bergsoniano durare che è sintesi progrediente di esperienze immediate e qualitativamente diverse. In effetti, codesta fuga dal tempo «soggettivo» ha variamente tormentato il pensiero moderno, pre-kantiano e post-kantiano. Lo stesso Kant, che pure aveva programmaticamente inteso denunciare il dogmatismo della metafisica tradizionale per la sua presunzione di oltrepassare i limiti dell’esperienza possibile, si è visto costretto a riconoscere (nella «Esposizione metafisica del concetto del tempo») che quello del tempo non è un concetto empirico, ri11

cavato da una esperienza, ma è una rappresentazione necessaria, che sta a base di tutte le intuizioni e, come tale, è dato a priori: con la conseguenza che, mentre i fenomeni sono – almeno in via di principio – sopprimibili, il tempo (come condizione universale della loro possibilità) non può essere soppresso. Ma ciò significa, in ultima istanza, che il «tempo» kantiano, pur tendendo a modellarsi su protocolli psicologico-soggettivistici, di fatto li contraddice col conclamato oggettivismo epistemico della filosofia trascendentale. Si è parlato spesso – in tempi più o meno recenti, ma comunque aperti a suggestioni hegeliane – della scissione tra soggetto e oggetto, intervenuta nell’età cartesiana: ed è notazione assai pertinente, sol che si pensi non tanto all’insistito ricorso di Cartesio al dualismo delle sostanze quanto alla mentalità dualistica, che soltanto la filosofia romantica riuscirà infine a porre in discussione. Al consolidamento di quella mentalità hanno senza dubbio contribuito i progressi metodologici e le tecniche sperimentali delle scienze emergenti, tutte variamente interessate a sorprendere i segreti di una natura ancora riluttante alla curiosità del ricercatore, epperò duramente resistente all’invadenza delle sue soggettive pretese. E vi hanno contribuito altresì i nuovi conflitti politici, le nascenti tensioni di classe, i contrasti religiosi, l’urto insanabile tra economia e morale: insomma, tutto ciò che suona come occasione di contrapposizione o di frattura, e che per ciò stesso definisce un’epoca e ne prepara il superamento. L’emergenza del soggetto, impegnato (specialmente in Inghilterra) a riscattare la problematicità dell’utile dal tradizionale sospetto di egoismo e immoralismo, è solo una delle molte possibili conferme delle prospettive riformatrici della cultura illuministica: e il tempo, già consegnato alla limitata funzione di immoto contenitore dei processi storici, si fa ora partecipe e protagonista di una logica cosmica, alla cui presa nulla sfugge di categorialmente rilevante (tranne la penna del sig. Krug). E in effetti, leggendo Hegel, si ha l’invincibile impressione di esser pervenuti all’acme di una parabola filosofica che, per il suo radicalismo, non soffre concorrenza alcuna. Penetrati, infatti, inizialmente nell’oscurità di un Intiero parmenideo, privo di porte e di finestre e minacciosamente incombente con la sua ontologica compattezza sul nostro disorientato cammino, abbiamo infine compreso che quel blocco compatto era l’Oggetto puro, prigioniero di se stesso e della sua inarticolata identità. Car12

tesio è tuttavia intervenuto a buon punto, e, armato della soggettività del cogito, ha diretto quest’ultimo, come un fascio di luce, sull’Oggetto, provocandolo al confronto. Ne è risultata così una situazione di separatezza intellettuale, su cui la razionalità hegeliana ha poi tramato la sua tela, ricomponendo il circolo dell’Intiero nella forma totalizzata del sistema. In questa prospettiva, visibilmente gravata di forti impegni metafisico-idealistici, il problema del tempo, come problema filosofico, non ha né può avere un’autentica centralità speculativa. Hegel vi ritorna bensì più volte: per esempio, nel capitolo conclusivo della Fenomenologia dello spirito, dedicato al «Sapere assoluto», o nelle varie redazioni dell’Enciclopedia, che inscrivono la trattazione nella parte riservata alla «Filosofia della natura»: ma l’esposizione è parzialmente materiata di astratte formule dialettiche e di temi teorici ereditati dalla tradizione. Non fa dunque meraviglia la scarsa incidenza storica della nozione hegeliana della temporalità, estenuatasi progressivamente nella rarefatta atmosfera di una concettualità funzionale ad altri fini: ed è anzi da dire che, in rapporto alla problematica del tempo maturata tra Ottocento e Novecento in sede epistemologica, la proposta teorica di Hegel rappresenta un dato storico da registrare, ripensare e dimenticare. 7. In realtà, osservato controluce, il modello hegeliano del tempo è l’immagine di un’eternità metastorica, che consente di guardare il mondo con l’occhio di Dio: un «guardare» assoluto, che è sterile di svolgimenti realmente innovativi, perché la matassa dell’Essere è stata già svolta e le innovazioni appartengono ormai al passato dell’Idea. Per questo il tempo hegeliano risulterà infine un tempo consumato: esso è infatti – come si legge nel capitolo conclusivo della Fenomenologia dello spirito – «il concetto medesimo che è là e si presenta alla coscienza come intuizione vuota; perciò lo spirito appare necessariamente nel tempo, ed appare nel tempo fin tanto che non coglie il suo concetto puro, vale a dire finché non elimina il tempo». Ossia: la consumazione del tempo è il guadagno del suo concetto. Kant avrebbe avuto, dinanzi a questa tesi, qualche motivo di soddisfazione. Noi, modesti e tardivi escavatori delle intenzioni hegeliane, no. Chi volesse, per così dire, una prova empirica della 13

crisi strutturale della filosofia post-romantica del tempo, non avrebbe che da sfogliare una qualsiasi storia del pensiero degli ultimi due secoli, per constatare l’avvenuta frammentazione del discorso speculativo sul tempo e la nervosa diaspora tematica dei soggetti interessati. Il fatto è che, di contro alle urgenze teoriche di un sapere in via di forte specializzazione, stava perdendo rapidamente credito il solo modulo filosofico già presuntivamente capace di risposte adeguate: ossia, quel nuovo modulo ontologico la cui pretesa totalitaria avrebbe dovuto surrogare in termini sistematici l’inarrestabile evanescenza della «temporalità» tradizionale. 8. Un sintomo significativo e trasparente della crisi su accennata è la trasfigurazione – in senso (come si dice) intrascientifico – del concetto del tempo. Siamo all’inizio del secolo Ventesimo: Albert Einstein sta lavorando alla strutturazione di una sua teoria fisicomatematica, destinata a gran fortuna (ma anche a non pochi contrasti) nei due momenti fondamentali del suo sviluppo (1905: relatività ristretta; 1916: relatività generale). Senza riesporre la trama teorica dell’opera einsteiniana, che tutti ormai conoscono almeno nelle sue linee generali, basti ai nostri fini sottolineare il carattere critico della teoria della relatività in rapporto, per un lato, alla meccanica galileiana (sostanzialmente ancora ferma alle tesi dell’omogeneità degli istanti e dell’unicità della serie temporale), e, per l’altro lato, all’«Estetica trascendentale» kantiana, fondata sull’indipendenza (e quindi sull’assolutezza) delle due forme intuitive dello spazio e del tempo. Tra le risultanze teoriche delle ricerche einsteiniane, incoraggiate dai sorprendenti esperimenti di Michelson e Morley sulla velocità della luce e dall’ipotesi del «tempo locale» di Lorentz, conviene ricordare almeno: a. la negazione dell’esistenza di un tempo assoluto; b. la reinterpretazione relativistica del concetto di ‘simultaneità’; c. la fusione dello spazio e del tempo in un continuo quadridimensionale. Così, per questa via «scientifica», la problematica del tempo pareva sottrarsi al pallido destino di una ulteriore definizione metafisica per dar prova di nuova vitalità e di più sicura capacità di ripresa. 9. E tuttavia no: anche la filosofia ha inteso contribuire all’instauratio magna di una concezione critica della temporalità. Ma a questo fine essa ha dovuto, per così dire, cambiare pelle: ossia, di14

smettere l’abito analitico che le era stato tradizionalmente familiare; decentrare il suo antico sostanzialismo in un sistema di relazioni aperte e, come tale, razionalmente controllabile; assumere la sua «verità» come opzione e ragione storica di scelta. Un’attenta considerazione delle tre condizioni di movimento del pensare filosofico ci suggerisce il sospetto che la crisi della metafisica, altre volte constatata, sia in realtà, più che una crisi astrattamente metodologica o dottrinaria, un disagio di mentalità, forse bisognoso di un lento ma radicale processo riformatore. Di questa urgenza critica si può avere un’istruttiva riprova, tra le altre possibili, in quello che piacerebbe chiamare «il paradosso della fenomenologia». La storiografia corrente, com’è noto, ritiene solitamente giustificato uno schema evolutivo che, privilegiando Husserl come primo annunciatore del verbo fenomenologico, affida poi a Heidegger il compito di portare a maturazione, in termini di analitica esistenziale, l’insegnamento del Maestro. Ma questo schema sembra appunto un giocoso paradosso nella misura in cui – dimenticando per un verso l’essenzialismo platonizzante di Husserl, carico di intenzioni descrittive, e per l’altro verso l’analitica esistenziale heideggeriana, con la sua veduta della temporalità come senso dell’essere dell’esserci – esaspera di fatto la distanza sussistente tra le due posizioni teoriche, quale almeno si riflette nella divaricazione della fenomenologia del come da quella del che cos’è. Ma, al di là dell’occasionale paradosso, è pur vero che la fenomenologia è una sorta di dissacrazione finale della filosofia precritica: nel senso che, storicamente, essa segna l’esaurimento (o, se si vuole, la «distruzione») della «filosofia» senza aggettivi: ossia, della filosofia che, a prescindere dalle sue presunte specificazioni teoriche, si è proposta come ideale della ragione o mito dell’Assoluto. E proprio dalla notte di quel mito la filosofia sta riemergendo nella forma di un sapere critico sempre meno tentato dalla prospettiva di ricadute costruttivistiche: epperò essa, rinunciando alle tradizionali competenze ontologiche, tende oggi a presentarsi come filosofia di…, o filosofia aggettivata, impegnata in un lavoro ermeneutico che la riconcilia col tempo e con la storia. 10. Una concreta attenzione alla problematica del tempo religioso può fornirci un’occasione di verifica delle risultanze essenziali 15

dell’esposizione precedente. Ma una preliminare avvertenza è necessaria: parlando qui di «tempo religioso», s’intenderà riferirci alla concezione protocristiana del tempo, quale è documentata dagli scritti del Nuovo Testamento. Questa limitazione del discorso è qui imposta sia dall’opportunità metodologica di evitare affrettate, e perciò inefficaci, fughe in avanti, sia da soggettive questioni di preferenza e competenza. Un contributo decisivo alla corretta definizione della prospettiva protocristiana sul tempo è stato offerto sin dal 1946 dal libro di Oscar Cullmann, Cristo e il tempo10. Due, soprattutto, sono le indicazioni utili ai nostri fini, che possiamo dedurre da quel libro. La prima di esse esclude qualsiasi impiego di metafore spaziali (del tipo «quaggiù – al di là») nella rappresentazione e interpretazione protocristiana dell’esperienza di fede (l’immagine ricorrente al riguardo ha infatti un carattere chiaramente temporale: «già-orapoi»). La seconda indicazione ci ricorda che, mentre per la cultura ellenistica la rappresentazione simbolica del tempo ha struttura circolare, per il Cristianesimo primitivo il tempo è lineare. Quale, dunque, il motivo di questa contrapposizione? Per chiarire i termini del problema giova concentrare l’attenzione sull’uso neotestamentario di un vocabolo greco particolarmente interessante: kairos. La parola si riferisce genericamente a qualsiasi momento determinato che sia occasione di iniziative rilevanti: ma, applicata alla storia della salvezza, allude all’oggetto di un decreto divino, elevato a cardine di un disegno imperscrutabile. Ciò peraltro significa che il kairos, inscrivendosi in un rapporto attivo-passivo scandito da una puntuale cronologia soteriologica, si mantiene rigorosamente nella prospettiva di quella linearità che costituisce la sostanza del tempo cristiano primitivo. Ed è certamente un visibile effetto di questa stessa impostazione mentale il sottile processo distorsivo, cui va soggetta nel Nuovo Testamento la semantica della lingua greca. Basti, del resto, sottolineare in proposito – sulle orme, per esempio, del Kittel e dello stesso Cullmann – le costellazioni terminologiche che fanno corona a kairos, e che di kairos prolungano il significativo simbolismo temporale. Una posizione preminente, nel cuore di quelle costellazioni, spetta senza dubbio al termine aion, che, pur risentendo della vicinanza semantico-concettuale di kairos, se ne distingue per essere indicativo di un’estensione tem16

porale limitata o illimitata, combinatoriamente definibile sull’intero spettro della terna temporale (passato-presente-futuro). Sulla base di queste considerazioni non è difficile intendere le ragioni della dichiarata contrapposizione tra la circolarità del tempo greco e la linearità del tempo protocristiano. Il tempo greco è il luogo ideale di ogni determinazione negativa dell’esistenza umana: sì che, per una filosofia incapace di progettare la liberazione dell’uomo nei termini di un intervento divino nel mondo storicotemporale, la salvezza non può realizzarsi altrimenti che nella forma di un transito catartico dal piano dell’esistenza temporale a quello intemporale dell’essenza (Platone insegni). Ben diversamente stanno le cose nella prospettiva protocristiana, che, lungi dall’identificare l’eternità con la semplice intemporalità, determina positivamente la linea del tempo chiudendola tra i due kairoi della creazione e della fine del mondo, e imponendo al relativo intervallo temporale la mediazione, anch’essa temporale, della morte e della resurrezione di Gesù. 11. Si era detto peraltro, all’inizio di questa esposizione, che già il suo titolo ci avrebbe costretto a problematizzare il nesso congiuntivo espresso dalla «e». Come avvio alla discussione del problema, ci eravamo domandati in sostanza quale fosse la possibilità teorica – e dunque il senso – della diversificazione qualitativa del tempo religioso e del tempo filosofico. Per metterci in grado di elaborare una risposta almeno approssimativamente attendibile avevamo idealmente convocato in prima istanza una sorta di simposio storico-filosofico, generosamente disposto a promuovere una articolata dialettica di temi e concetti variamente fruibili ai nostri fini. In realtà ci sosteneva la speranza che il problema si risolvesse facilmente con la decisione di divaricare i due «tempi» in discussione mediante l’esibizione e il confronto delle loro rispettive credenziali speculative. Ma la speranza andò delusa per la constatata irreperibilità di un oggettivo criterio di discriminazione e di scelta. I due «tempi», senza dubbio distinti sul piano funzionale, risultarono infatti strutturalmente omogenei: e ciò perché il cosiddetto «tempo religioso» altro non è che una immanente specificazione del «tempo filosofico». Diremo di più: solo l’esistenza di un «tempo filosofico» – inteso come riserva critica a fronte delle sue stesse presunzioni costruttivistiche e metafisiche 17

– è in grado di garantire in prospettiva lo scioglimento o l’erosione di quei blocchi dogmatici che hanno storicamente reso contorto o frastagliato il cammino della civiltà. Per questo il tempo filosofico è la possibilità del tempo religioso: e per questo la realtà istituzionale, in cui quest’ultimo a volta a volta si oggettiva, vive comunque, soffrendola, l’esperienza passiva del giudizio.

Note Fr. 8 DK, vv. 9-11 e 19-20. Platone, Timeo, 27 d (trad. it. di C. Giarratano). 3 Ivi, 37 e 38 a. 4 Aristotele, Fisica IV, 10, 217 b, 32-218 a, 3 (trad. it. di A. Russo). 5 Ivi, IV, 13, 222 b, 27-29. 6 Ivi, III, 1, 200 b, 32-201a, 1. 7 Ivi, IV, 11, 219 b, 1-2. 8 Confessiones XI, 14. 9 Ivi, XI, 20 (trad. it. di G. Chiarini). 10 O. Cullmann, Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel Cristianesimo primitivo (1946), Il Mulino, Bologna 1965. 1 2

Maria Cristina Bartolomei

Il tempo e il libro

1. Introduzione Il libro è stato ed è per più versi al centro dell’interesse filosofico: per l’ermeneutica, innanzitutto, ma anche, al negativo, per le tendenze strutturalistiche1 e decostruzionistiche2, che in diversi modi ne erodono o comunque ne mutano il significato e la stessa consistenza. Più vastamente, il libro ha avuto e ha un evidente ruolo centrale come riferimento culturale e per il prodursi del pensiero: attraverso il genere letterario del commento; attraverso, più in generale, la lettura interpretante, capace di liberare la polisemia del testo. Esso è anche all’origine di una fondamentale metafora, che ormai sostiene ed illumina il nostro rapporto con molteplici dimensioni del reale, vale a dire la leggibilità del mondo3. Il libro ha acquisito il valore di speculum vitae, di «orizzonte», nel senso husserliano. All’interno della tradizione culturale occidentale, ciò è legato in modo eminente alla Bibbia: si applica ad essa e, come si vedrà, da essa ultimamente dipende. A quest’ultima, infatti, un approccio fenomenologico non può non riconoscere una particolare funzione, innanzitutto storica, rispetto al costituirsi della dimensione del libro e della scrittura, e del senso attribuito ad essi. Una funzione non solo, però, iniziale o prototipica. Piuttosto, una funzione archetipale. Giacché quanto di senso può essere attribuito alla scrittura, al libro e alla lettura interpretante trova nella Bibbia un esempio al massimo: tant’è che ad essa è connessa l’idea di una rivelazione dal libro, al quale viene quindi attribuita una capacità rivelatoria, la capacità di essere luogo e tramite di rivelazione. Quest’ultima è certo una affermazione scaturente dal di dentro di una posizione religiosa, la quale attribuisce a quel libro, e solo ad esso, un carattere sacro. Ma ciò non significa che la rile19

vanza di tale attribuzione sia coglibile solo a partire dalla condivisione di tale posizione religiosa, e tanto meno che essa abbia avuto effetto solo all’interno del mondo religioso e biblico. In altri termini, da un lato, la riflessione sulla portata e sulla struttura della grandezza della Bibbia non richiede affatto di essere condotta in una prospettiva confessionalmente teologica, ma si lascia leggere, laicamente, dal vertice di considerazione proprio della fenomenologia religiosa, a condizione che quest’ultimo prenda atto e tenga conto sia di quanto la Bibbia dice di se stessa, sia della comprensione teologica della Bibbia in quanto tale, prima ancora che dei suoi contenuti. D’altro lato, un tale sguardo fenomenologico-religioso sulla Bibbia consente di riconoscere come ciò che il mondo religioso ha attribuito a quel libro sia stato in seguito, ma a partire da ciò, attribuito più in generale al libro, alla scrittura, alla lettura in quanto tali. In particolare, ciò sostiene l’elaborazione teoretica, che mette in evidenza come non solo il libro sia espressione di una ricerca di senso; non solo e tanto esso sia il contenitore di sensi e significati insiti negli scritti che lo costituiscono, ma come l’esserci del libro, in quanto tale, implichi e offra senso e insieme una pista per attingere senso. Per queste caratteristiche, entro la nostra tradizione culturale, il libro è un caso, anzi un luogo rilevante di convergenza e insieme di dialettica tra approccio filosofico ed approccio religioso, tra ermeneutica filosofica ed ermeneutica teologica. Il libro religioso e il libro in quanto tale sono due grandezze che rinviano l’una all’altra e che nel reciproco rinvio dischiudono il loro senso più pieno e si dischiudono alla comprensione. Per cogliere ciò che in tale rinvio si manifesta, occorre collocarsi nel punto mediano tra di essi, come tra due specchi, che nel gioco del reciproco rispecchiamento dilatano indefinitamente la prospettiva. Ma la centralità del libro, per una riflessione che metta a fuoco la peculiarità della temporalità filosofica e di quella religiosa, deriva dal forte e singolare nesso esistente tra il libro e il tempo. Nell’intreccio tra tali ordini di considerazioni, le riflessioni che qui seguono si sviluppano intorno a tre nuclei portanti: a. Il libro come testimonianza della temporalità; b. Il libro come concrezione eminente e modello esemplare di un fenomeno in cui chiasmaticamente e dialetticamente si uniscono prospettiva filosofica 20

e prospettiva religiosa; c. L’orizzonte simbolico come capace di dischiudere tale comprensione del libro. 2. Il libro come testimonianza visibile della temporalità Il libro c’è perché c’è il tempo. È un ponte gettato nel tempo, nella storia, una testimonianza visibile che noi stiamo nel tempo e che siamo tempo. Il libro è una forma di significazione che si rende conto della dimensione del tempo e vi risponde, si relaziona ad essa in maniera dialettica. Da un lato, il libro resiste al tempo, portando attraverso di esso, nonostante esso, la sua significazione come potenzialmente sempre al presente. D’altro lato, esso documenta proprio così la consapevolezza di essere significazione immersa in uno scorrere temporale che è fonte e sostanza del costituirsi del libro. Se il libro in un certo senso coagula lo scorrere del tempo e lo arresta, in un altro senso si palesa strutturato in modo temporale. Il tessuto di cui è fatto è infatti un tessuto ritmico, a cui è legge la successione temporale: il fluire della scrittura, il fluire della lettura si dispiegano nel tempo, sono dispiegarsi del tempo. È il tempo stesso che nel libro si raggruma, assumendo una forma contraria a se stesso, ma non cambiando sostanza, anzi solo così, sotto specie contraria, potendo permanere se stesso, oltre se stesso. Tanto che il libro, che si erge contro il tempo, vive però solo in esso e si comprende solo in relazione all’orizzonte della temporalità. Il libro non solo opera il raccordo tra passato, presente e futuro, ma raccorda anche orizzontalmente, lateralmente – vincendo quella faccia del tempo che è lo spazio – i contemporanei, i quali, anzi, si può dire che divengono effettualmente tali in virtù del libro. Il libro è dunque anzitutto libro del tempo, è uno specchio del tempo e vi si legge tempo. Ma, reciprocamente, si deve anche dire che ciò qualifica il tempo in quanto tempo del libro. E, per la presenza del libro che lo rispecchia, il tempo diviene esso stesso leggibile. Il libro rinvia, «a canocchiale», alla dimensione del testo e a quella della scrittura, ad esso intrinseche, ma che vivono anche al di fuori di esso. Quanto si è fin qui detto del libro vale certo per la scrittura come tale, anche presa nelle sue forme più embrionali e incoative. Anche le immagini rupestri sono scrittura nel e del 21

tempo, e insieme resistenza al tempo che cancellerebbe le forme riprodotte nelle immagini. E ciò vale, ancor più, per il testo4. Temporale è infatti quella forma di interpretazione che trova nel testo la propria forma di concrezione e, coerentemente, solo nella interpretazione, sempre temporale, il testo sprigiona sempre di nuovo il proprio senso, emergente dalla infinità dei sensi possibili. Confrontato con l’aperta plasticità del testo, che, essendo textum, intessuto di un indefinito gioco d’interpretazione, aderisce del tutto alla temporalità, il libro sembrerebbe di primo acchito rispettare e rispecchiare quest’ultima in misura inferiore. Esso sembra essere una chiusura del testo, una concrezione di esso ritagliata in maniera ormai fissa e, in quanto tale, sembra pietrificare il tempo. Il libro, però, non pietrifica il tempo, bensì lo fa durare e lo rende potenzialmente sempre di nuovo attuale nella lettura. Il paratesto5, il peritesto, il contesto, necessari a trasformare un testo in libro, fissano, sì, il testo. Ma, d’altro lato, essi non sono che una testualità in più, aggiuntiva, sono ulteriori movimenti interpretativi il cui esito è il libro come racconto del tempo, capace di far diventare il tempo innanzitutto il tempo del racconto. Il libro istituisce un rapporto tra tempo e senso e per questo esso testimonia e apre l’interpretazione del senso. Quella testualità aggiuntiva che fa del testo un libro non irrigidisce, spegnendolo, il movimento che costituisce la testualità, ma precisa la referenza del testo, impedisce di considerarlo solo struttura. Il «mondo del testo»6, quel mondo che, secondo la definizione di Paul Ricoeur, si apre davanti al testo, che il testo rende possibile ma che sta dietro ad esso, può vivere al meglio nel testo divenuto libro. Infatti, chiudere il testo in libro accresce la determinazione di esso come discorso, come messaggio rivolto a qualcuno, come lettera indirizzata. Riporta questo all’autore, ne reintroduce la presenza rispetto alla distanziazione7 da esso che il testo opera e a partire dalla quale sussiste come tale? Sì e no. L’autore è più assente ancora dal libro che dal testo. Poiché il libro, come taglio operato in e intorno a un testo, dichiara tanto il senso quanto la separazione dall’autore, esso è più autonomo del testo e al tempo stesso meno autoreferenziale. Dal libro, l’autore però non è scomparso, non è reso superfluo: esso ne dichiara infatti l’assenza e insieme dichiara di essere portatore di una intenzione comunicativa che si media, certo, in un senso: aperto, come la testualità com22

porta, a crescere nel libero gioco dell’interpretazione. Dell’autore, inteso come istanza esterna e aggiuntiva, è fortemente presente l’assenza. Ma il libro, paragonabile a una pietra tagliata e incastonata, rispetto a quella grezza del testo, è impensabile senza la referenza all’autore o ai più autori di esso. Esso è anche impensabile senza la referenza al lettore. Ogni testo ha un lettore implicito, ma il libro si può dire che invoca il lettore e lo rende più possibile e più necessario a causa della testualità aggiuntiva, non scritta, che lo costituisce delimitandolo e che acquisisce senso solo in e per chi legge, essendo precisamente una sorta di guida alla lettura. Nel libro è più evidente che il testo non è assoluto, bensì, come formula Francis Jacques8, è un momento nel processo di significazione. Ma questo non come decadimento della testualità, bensì come suo compimento: il lavoro del fuori testo9 nel testo è massimo e massimamente palese nel libro. Proprio per questo è al libro, e non al mero testo, che entro la prospettiva religiosa può essere attribuito un valore sacro, ed è il libro che è sommamente idoneo a contenere, trasmettere e in un certo senso a rappresentare una rivelazione divina. Ciò vale in modo peculiare per la tradizione biblica e, insieme, ciò trae il proprio vigore proprio da tale tradizione. Per indagare quel che sul tempo ci dice il rapporto tra il libro e il tempo, l’oggetto e il fenomeno interrogato sarà qui dunque la Bibbia, presa in considerazione sia, categorialmente, come libro correlativo a un universo religioso, sia come fonte storica e come modello archetipo in cui rinvenire la trama dei rapporti tra scrittura, lettura, interpretazione, testo, libro, colti nel movimento ermeneutico che li lega. Ma se la Bibbia è il fenomeno interrogato, ciò che si cerca è il lumeggiamento del rapporto tra tempo e libro, e ciò che all’interno di tale rapporto si ricerca10 è il rapporto tra tempo, senso e pensiero, nel chiasma tra ermeneutica e temporalità, tra approccio filosofico e discorso religioso. 3. La Bibbia, libro archetipo Le considerazioni fin qui svolte hanno messo in luce aspetti e dimensioni del libro tali da rendere comprensibile il ruolo attribuito al libro stesso entro la prospettiva religiosa e, nella fattispecie, 23

il ruolo attribuito alla Bibbia nella tradizione ebraico-cristiana. Tuttavia vale anche e forse di più la reciproca: quanto diciamo del libro in generale (laddove, beninteso, esso sia un’armonia di testi) non tanto si applica alla Bibbia quanto da essa dipende, in quanto libro archetipo. Dalla Bibbia: e non dal «libro sacro» in generale. Benché la Bibbia sia libro legato a precise tradizioni religiose, applicare ad essa le categorie di libro religioso o di libro sacro e pensare che essa possa essere letta solo dal di dentro di tali determinazioni non è così ovvio né privo di equivoci. Benché di uso corrente, la definizione di libro sacro per la Bibbia dice troppo e soprattutto troppo poco al tempo stesso. È un libro sacro, la Bibbia? La Bibbia non è un libro oracolare, un libro destinato a una lettura magica, un libro fatto di formule. È un vero libro, costituito da testi. E, innanzitutto, come osserva Friedrich Schleiermacher, per riconoscere che dei testi sono sacri occorre averli interpretati11. La Bibbia è quindi in prima istanza un libro come ogni altro. Se l’approccio moderno allo studio biblico ha evidenziato tale aspetto, l’approccio contemporaneo ne sottolinea quello speculare: a partire dalla Bibbia e dalla apertura infinita dell’ermeneutica che si apre entro la storia della sua interpretazione12, ogni libro può essere letto come Bibbia. Non: a partire dalla Bibbia, ogni libro può diventare o essere considerato una Bibbia. Bensì: può essere letto come una Bibbia. La Bibbia è l’occasione privilegiata per esperire il libro e diventare in senso pieno un lettore. Alla lettura laica del libro «religioso» corrisponde una lettura «religiosa» del libro laico. Ma ciò avviene proprio in forza dell’estensione agli altri libri di quanto si è offerto ad essere esperito nell’incontro con il libro archetipo: la Bibbia. Un’ulteriore puntualizzazione è qui opportuna. È la Bibbia un libro religioso? La risposta, benché anch’essa poco usuale, è «no», se per «libro religioso» s’intende quel libro che fonda una «religione del libro». Né l’ebraismo né il cristianesimo sono in senso proprio delle «religioni del libro». In essi infatti non vi è il culto di un libro come sistema chiuso, oracolare o proposizionale. Vi è, al contrario, il riferimento al libro come luogo da cui viene rivolta in modi sempre nuovi, accessibili mediante l’interpretazione, una parola che dischiude senso. Tuttavia è ben vero che costitutivo dell’interno movimento del libro biblico è il riferimento ad Altro, e che ciò che compatta la Bibbia è il fuoritesto della fede. È la fede, 24

infatti, il criterio che fa riconoscere come rivelatori, come spiranti senso (ispirati) quei libri e non altri. In questo senso, è vero che la Bibbia è libro che trae la propria sussistenza da uno sguardo religioso, di fede sulla realtà del mondo e della storia. Questo, nella e per la Bibbia, si lega in modo molteplice, decisivo e peculiare alla temporalità. Vi si lega per lo sguardo di fede che si riflette nella Bibbia e che è un particolare sguardo gettato sul tempo, una particolare lettura della storia. Vi si lega per la costituzione stessa della Bibbia come unico libro, che, di nuovo, riposa non su un fatto bensì su un criterio di temporalità, al quale si richiamano i diversi canoni. Per questo, il pensare13 la Bibbia, come fenomeno, si manifesta come compito di particolare interesse filosofico. Ciò riveste una particolare rilevanza in riferimento al contesto costituito da alcuni dibattiti attuali, vertenti sul rapporto oralità-scrittura e sulle proposte di abbandono del logocentrismo14; sulla questione del senso, nella tensione tra polisemia15 e disseminazione16, sul testo assoluto17, in opposizione al riconoscimento della referenzialità extratestuale del testo, e sulla opposizione tra apertura del testo e chiusura del libro; sulla rilettura del rapporto tra scrittura e scrittore in termini di scritturascrivano; sulla relazione tra testo e autore e tra testo e lettore, individuato, quest’ultimo, non come fruitore, bensì come soggetto di lettura e, così, della vera integrale scrittura18. La modellistica offerta dalla Bibbia consente un fruttuoso attraversamento di molte delle querelles qui richiamate, superandone, mediandone in una sorta di hegeliana Aufhebung, molte polarizzazioni. 3.1. La Bibbia come libro e il canone del tempo. Il libro della Bibbia non è solo una antologia di testi o una biblioteca di libri. Per quanto scritti a distanza di secoli, in lingue diverse, appartenenti a generi letterari diversi, gli scritti che compongono la Bibbia intrattengono, per la maggior parte, degli stretti e costitutivi rapporti reciproci e testimoniano di una crescita del libro biblico attraverso il tempo (il che è già di per sé la negazione del libro sacro inteso come oggetto extramondano ed extrastorico, «caduto» tutto compiuto dal cielo ad opera della divinità), anzi del come il tempo, interpretato, sia un filo essenziale nella tessitura del testo biblico. Quest’ultimo prende inizio da un’interpretazione degli eventi che li mette in rapporto a un disegno e a un intervento di25

vino non solo nel tempo, inteso come luogo e contenitore neutrale, ma attraverso il tempo, all’interno e dall’interno del tempo. I testi frutto di tale interpretazione di fede vengono a loro volta interpretati: la scrittura di tale interpretazione confluisce a formare nuove parti dei libri biblici e nuovi libri biblici. Tale movimento non è occasionale e marginale: è, al contrario, costitutivo dei libri biblici, sia delle Scritture ebraiche (il Primo Testamento, per i cristiani), sia del Nuovo Testamento. Anche scritti non religiosi (si cita sempre come esempio al riguardo il Cantico dei Cantici, nel quale mai ricorre il nome di Dio) vengono riconosciuti come rivelatorii e inseriti nel canone biblico. L’interpretazione di fede non scrive materialmente tali testi ma li «riscrive» iscrivendoli nella Bibbia, attribuendo loro un senso che non è semplicemente quello evidente e letterale. Ed è sempre tale interpretazione che, come paratesto efficace, in un certo senso scrive la Bibbia: in quanto è ad essa che si deve la coesione di quest’ultima come libro unitario. D’altra parte, solo quando i testi della Bibbia sono riuniti a colloquiare tra loro in un unico libro, si dispiega il potere rivelante di quest’ultimo, che appare come un «libro-mondo»19: esso, infatti, offre una serie di modelli esemplari ed archetipici di interpretazione rivelante la presenza divina nella storia, il cui fine non è tanto di additare una serie finita di interventi divini, bensì di far comprendere come in maniera velata la divinità intervenga continuamente nel tempo. La temporalità della lettura biblica della storia non è puntuale e archeologica, bensì va a compimento nella possibilità di sempre nuove applicazioni interpretanti, in un movimento non atemporale bensì transtemporale, che trova riscontro nel criterio, teologico, della lettura biblica secondo l’«analogia della fede»: l’analogia tra eventi lontani e apparentemente disparati, leggibile alla luce degli exempla biblici e in base alla quale essi ricevono luce di rivelazione divina e diventano traslucidi di rivelazione divina20. 3.2. Tra parola e scrittura: «miqrà». La querelle che si riferisce, spesso in modo oppositivo, alla relazione tra parola e scrittura trova nella Bibbia la possibilità di un’impostazione diversa, capace di offrire un’originale prospettiva di soluzione, nel superamento della secca alternatività e in vista di una ricomprensione di entrambe le grandezze in un orizzonte formato dal gioco della loro relazio26

ne. La Scrittura viene chiamata usualmente, in ebraico, miqrà ossia «lettura». Scrittura e, eventualmente, parola sono così prese in considerazione in ragione di quella che aristotelicamente si può chiamare la loro causa finale: la lettura. La lettura, a sua volta, opera la ritrasformazione della lettera sempre uguale del testo scritto in parola nuova, attuale, destinata. Non c’è dubbio che alle spalle della scrittura biblica vi è una parola pronunciata e risuonante, la quale ispira a leggere gli eventi alla sua luce, scoprendone la filigrana nascosta, e a scrivere tale lettura21. Ma è anche vero che solo nel momento della scrittura-lettura va a compimento tale parola ispirante. Essa vuole iscriversi nel tempo: i cristiani la riconoscono incarnata non solo nel libro ma nella persona di Gesù Cristo. Solo nella sua condizione incarnata, iscritta nel tempo, tale parola risuona ed è udibile e ascoltabile, accoglibile, andando così a compimento nella sua intenzione. Tra scrittura e parola vi è, quindi, nell’universo biblico una circolarità che non consente tagli né priorità assolute. Tale parola risuonante ed ispirante, peraltro, non va intesa banalmente. Essa, anzi, viene identificata nei suoi momenti più alti come una parola di silenzio: la «sottile voce di silenzio» (1Re 19, 12) in cui Elia riconosce la presenza di Dio; la parola che si udì da Dio e che, come Stèphane Mosès ha mostrato22 seguendo la tradizione di lettura rabbinica, consisté nella prima lettera della prima parola della prima delle «Dieci parole» (comunemente chiamate «i comandamenti»): la aleph di anochi (l’«io» di «io sono il Signore, Dio tuo»), una lettera muta. Si udì solo un silenzio, quindi, che apriva però lo spazio del senso, di tutti i sensi possibili, a cui si accede mediante la interpretazione, così come l’interpretazione di quella grande iniziale muta voce spettò a Mosé. Dunque non è, quello biblico, un modello banale, in cui la scrittura è la semplice trascrizione in grafemi di un discorso pronunciato e udito già strutturato e definito. La Bibbia conosce anche lo scrivere come un fatto assoluto: in Esodo (in ebraico: Nomi) 24, 3-4 si legge che «Mosè scrisse [tutte le parole del Signore]»: quasi che tali parole andassero a compimento nell’essere scritte, che la scrittura fosse il fine per cui le parole erano state pronunciate, in un certo senso che la scrittura fosse il luogo e il modo di pienezza di presenza di una comunicazione, chiamata nel suo momento fontale «parola». Nella e per la Bibbia, la scrittura non può essere considerata solo come una forma di an27

notazione, come se si trattasse di appuntare le parole. Essa è il luogo di abitazione, il tempio in cui vive e risuona la «Parola». Se il Salmo 119, 130 dice che «La tua parola nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai semplici», il Salmo 73, 17 fa pensare alla Scrittura quando parla del «santuario di Dio», entrando nel quale il semplice che non riesce a comprendere viene illuminato. E l’ingresso in tale santuario è dato dalla lettura. Si applica a questo proposito il monito evangelico: ho anaghinoskon noeito (Mc 13, 14), «chi legge, capisca»23. Chi legge è in contatto con un’intenzione comunicativa, in questo senso con una parola. Frequentemente, infatti, ricorre nella Bibbia la locuzione he graphé leghei: la Scrittura «dice». Ancora una volta siamo dinanzi a un modello di reciproca insidenza e di circolarità tra parola e scrittura, nessuna delle quali può essere sciolta dall’altra, resa assoluta. La tradizione cristiana, che individua in Gesù la piena incarnazione della parola di Dio, ci tramanda anche il fatto che Gesù non scrisse e inaugura in modo solenne l’annuncio su Gesù raccontando (cfr. Lc 4, 16-21) come, entrato un sabato a Nazaret nella sinagoga, egli abbia letto il passo di Is 61, 1-2, commentando: «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». La scrittura viene udita e si compie, contemporaneamente, nella comparsa di Gesù e nell’ascolto dell’annuncio di essa. Il testo scritturistico non è, evidentemente, comprensibile entro una teoria del testo assoluto24: vive in e di una catena di referenze extratestuali, è anzi, in se stesso, una grande rappresentazione della referenza all’Altro. Un Altro che la fede biblica identifica come l’Autore originario del libro biblico e che pure è diverso dallo scrivente. L’autore-scrivente dei diversi libri biblici è oltretutto, anche quando sia dichiarato, spesso molteplice e incerto. L’essenziale per la Bibbia è che l’Autore originario è fuori testo25; tra tutti i contenuti del libro, il più essenziale ed innervante è proprio la fede nell’Autore Assente. Il Libro è qui come rappresentazione del rinvio all’Autore, presente in quanto Assente dal Libro. 3.3. Il tempo nel e del libro biblico. Una prima, importante intersezione tra Bibbia e tempo è data dal canone. Il libro biblico è compaginato dal criterio del canone e per quest’ultimo, tanto nella tradizione ebraica quanto in quella cristiana, vale, anche se non è sufficiente, un criterio di tipo temporale; c’è un terminus ad 28

quem: libri scritti dopo di esso non possono essere annoverati nel canone26. Che poi si trovino di fatto nella Bibbia libri che oggi si può stabilire essere stati scritti dopo il termine canonico, non inficia bensì esalta il carattere temporale del canone stesso. Non si è trattato solo di un dato di fatto, bensì di una scelta, la quale ha individuato nel tempo un elemento di importanza decisiva. Il libro, infatti, si deve chiudere in un tempo per poter racchiudere in sé un tempo determinato e così per poter valere attraverso il tempo: il libro si chiude proprio perché il tempo non si chiude. Ma il tempo è in molte altre modalità individuabile come elemento costitutivo della Bibbia e anzi lievito del suo impasto. Il tempo è intrinseco al testo innanzitutto perché, come si è già ricordato, quest’ultimo si è formato nel tempo, in buona parte come lettura interpretante del tempo. Ma il tempo è base di sviluppo del racconto biblico non solo in quanto questo sia racconto di un passato storico. Il raccontare è in se stesso temporale, in quanto è relazione al tempo27. La Bibbia ha, teologicamente, un carattere cultico: rappresenta un momento di salvezza, un intervento di salvezza, che si attualizza nella lettura (e nell’ascolto). Il racconto biblico è un raccontare un «tempo» salvato e che salva; la lettura/ascolto della Bibbia è un tempo di racconto che salva. Che salva in modo attuale, cioè con tempestiva temporalità. Extra tempus nulla salus: tale parafrasi28 può valere a caratterizzare il racconto ed evento biblico. La salvezza, per la Bibbia, sussiste nella temporalità del testo ed è una salvezza che salva il tempo e nel tempo, non dal tempo. La Bibbia veicola il tempo in se stessa, giacché in e da essa risuona la parola di Dio, «viva ed efficace più di ogni spada a doppio taglio» (Eb 4, 12): la dinamica della parola della scrittura è una dinamica esistenziale e temporale. Il contenuto, poi, della Bibbia pretende di abbracciare tutto l’evento del creato dall’origine al compimento, presentati sotto la veste temporale dell’inizio e della fine. Da dentro il tempo, la Bibbia conferisce senso a quest’ultimo e ne svela il senso. Ma che qualità intrinseca ha il tempo biblico? Lo schema temporale del passato-presente-futuro non è applicabile alla Bibbia. Una prima ragione è di tipo linguistico e vale per le Scritture ebraiche: il verbo ebraico non ha veri tempi e indica piuttosto se l’azione è finita o non finita, dal punto di vista del parlante. Non c’è, in ebraico, 29

neppure una parola che esprima la nostra nozione di tempo. Vi è invece la nozione, qualitativa, di tempo compiuto, pieno. I termini che esprimono il tempo si differenziano per aspetti qualitativi: holam esprime una durata lunga, in un lontano passato o in un lontano futuro; het esprime l’esperienza del frammento di tempo; rega è il termine specifico per intervalli molto brevi. Il Nuovo Testamento presuppone la concezione del tempo propria dell’apocalittica giudaica coeva: il tempo del mondo ha un inizio e una fine e un passaggio, più o meno prossimo, a tale futuro che tutto attrae a sé. L’eone futuro che viene rende l’«adesso» un tempo determinato. I tempi sono collocati nell’orizzonte del futuro aperto da Dio e questo tempo è diventato il tempo finale. Ma, soprattutto, il tempo biblico non è né ciclico né lineare, bensì ritmico (cfr. Gn 8, 22 e il celebre passo di Qohelet 3, 1-8: «C’è un tempo per ogni cosa; [...] c’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante»), segnato dall’intervento di Dio che torna, torna a visitarci in nostro favore, e insieme determinato dalla tensione che lo attraversa, verso il compimento, verso l’eone futuro. Questa concezione si rispecchia nel ciclo ebraico delle feste, assunto, con integrazioni di altra provenienza, anche dal cristianesimo. Una delle modalità in cui Dio torna a visitarci in nostro favore è, per la mentalità biblica, la Bibbia stessa, che accompagna il tempo, favorendone l’avvicinarsi al compimento. E l’esperienza del tempo è un motivo della scrittura (e della lettura) della Bibbia. Il Nuovo Testamento stesso, possiamo osservare ad esempio, è stato scritto perché la storia non è finita, perché continua l’esperienza del tempo, perché la seconda e definitiva venuta di Cristo, la Parusia, attesa inizialmente come imminente non si è verificata. Nell’attesa di una Parusia immediata non si scrive il Libro. Il fatto che esso venga scritto documenta la coscienza del tempo, ed esso stesso, scritto per resistere al tempo, è innanzitutto narrazione e accompagnamento del tempo. Il tempo biblico non è un tempo banale, esterno: è un tempo coscienziale, esistenziale, referenziale. È, innanzitutto, il tempo della coscienza della colpa e della caduta; è tempo di riapertura del futuro; è tempo della possibilità sempre presente. Si tratta della stessa qualità delle tre estasi del tempo, secondo la formulazione heideggeriana29. Ma il tempo della Bibbia è soprattutto il tem30

po «favorevole» della sua lettura. La lettura è occasione anche dell’estasi dal tempo, in quanto chronos, per entrare nel senso del tempo, in un tempo di senso. La capacità della lettura di essere occasione e luogo di rivelazione può essere compresa filosoficamente individuandola come fenomeno speculativo, nel senso hegeliano del termine: un fenomeno di rispecchiamento con dislocazione, in cui si diviene coscienti di una vita30. 4. La struttura simbolica del libro e il tempo I tempi rappresentati nella Bibbia, in quanto narrati da essa, sono fondamentalmente l’origine, il presente, l’eterno. Il futuro non è narrato: è il punto di fuga prospettica, posto fuori dal quadro del libro, ma che tutto compagina ed attrae verso di sé. Le sezioni apocalittiche dei due Testamenti non sono descrizioni del futuro ma presentificazione nel libro – di fronte e di contro ai tempi del libro – del punto di vista del compimento31. Qui è da individuare la massima simbolizzazione e forza rivelativa della Bibbia: un Libro che rappresenta la presenza dell’Assenza dell’origine (l’Autore) e del compimento (la descrizione del futuro), i quali soli, però, compaginano tanto il libro quanto il tempo: che aprono e trascendono, salvandolo dall’autodistruzione. Queste osservazioni poggiano sull’individuazione del libro come struttura simbolica, che può essere qui solo sinteticamente richiamata. Nel libro si lascia rinvenire la filigrana costitutiva del simbolo: la struttura del rinvio ad altro, inattingibile direttamente e costituente come il secondo grado di realtà del simbolo stesso, con cui si entra opacamente, ma in vero contatto, nella mediazione del simbolo32. Per il libro biblico si tratta appunto dell’Autore-origine e del futuro-compimento. L’Autore è presente nello scritto sotto forma di assenza potente a cui, come referente, lo scritto rinvia. Il futuro-compimento è anch’esso presente sotto la forma dell’assenza della sua descrizione e della sua presenza, in quanto motore e punto di fuga del gioco del reciproco rinvio tra i tempi del racconto biblico. La Bibbia rinvia a un radicale «altro» proprio perché rappresenta l’assenza della presenza e disponibilità dell’origine e del compimento, verso i quali tutta la sua potenza metaforica invia33. 31

Per questa struttura di riferimento ad altro, il libro può essere visto come rivelatorio: in quanto manifestazione dell’Origine fungente e attraente verso il compimento, ma non oggettivabile. Ciò ha un preciso riscontro nel come, entro la Bibbia, viene posta in relazione la manifestazione di Dio con la sua assenza: Dio chiama da e in un luogo in cui è presente la sua assenza. La Shekinah, la presenza divina, abita nel vuoto posto tra e sotto le ali dei cherubini che proteggono il coperchio dell’arca della alleanza (Es 25, 22). Il Libro biblico presentifica, con la struttura che gli è propria, il vuoto in cui sotto forma di assenza abita Dio e dal quale Dio chiama. La struttura di rinvio ad altro è propria del libro in quanto tale, anche se l’esempio più eminente di essa può essere rinvenuto nella Bibbia: un libro non «sacro», nel senso della pretesa di oggettivare la divinità o di esprimerla o farla esprimere in modo immediato, al di fuori del tempo, bensì, piuttosto, «ispirato». Richiamare questa nozione non significa e non significhi sigillare la Bibbia con una categoria dogmatica e significativa solo per e dall’interno di un universo religioso. Anche la dichiarazione della ispirazione del libro va portata a pensiero. Importante a questo fine è prendere sul serio la formula che dichiara la Bibbia non un libro che «fu» ispirato, bensì un libro che «è» ispirato34. Laicamente, questo può essere inteso come il fatto che in esso «spira» uno spirito, si offre un senso, che il libro vive, muovendo a infinite interpretazioni. Nell’autocomprensione biblica, la Bibbia stessa appare come il tempo del simbolo, al quale succederà il compimento, la visione «faccia a faccia». La sottolineatura della simbolicità intrinseca alla struttura stessa del libro, e del libro biblico in particolare, non comporta alcuna attenuazione della intrinseca struttura temporale già messa in luce. Il simbolo è, in quanto frutto di un processo di simbolizzazione di una esperienza, legato a determinate situazioni storiche e culturali. Esso viene frainteso quando lo si intenda come una grandezza assoluta e richiede invece, per essere compreso, la sua relativizzazione35, il riconducimento alla storia dal di dentro della quale ha preso forma36. La connotazione storica e temporale del simbolo corrisponde specularmente alla struttura simbolica del tempo che il libro, in questo caso biblico, testimonia. Ma il libro, in forza della struttura 32

che gli è propria, non solo racconta il tempo, bensì lo rappresenta, nella dialettica congiunzione di intensio ed extensio. È una forma di simbolizzazione del tempo, in quanto syn-ballei, tiene insieme più tempi, sotto il segno del differimento e del differire. Il tempo presente nel libro è un tempo differito; il tempo del libro è un tempo differente e che rinvia: all’indietro, al tempo dell’autore e dell’origine del libro; in avanti, al tempo aperto dal racconto e al tempo sempre nuovo del lettore; orizzontalmente, ai diversi tempi dei destinatari. Il libro, come un’arca, trasporta un tempo chiuso, che nella lettura riprende a vivere e a scorrere, a dispiegarsi nelle sue diverse estasi. Lo spartito musicale è un esempio paradossale di scrittura impossibile e necessaria: come fissare il ritmo in segno? Ma come renderlo vivo e sempre di nuovo attuale senza fissarlo? Prima ancora che alla scrittura della musica strumentale, si pensi alla scrittura del «canto della parola»: non al canto sovrapposto, applicato alla parola, ma al canto, al ritmo insito nella parola e di cui il Gregoriano è l’espressione. Fino a quando (epoca carolingica) il canto della parola fu vivo, nessuno pensò a inventare un sistema per fissarlo. Quando la parola latina, classica non cantava più spontaneamente, non risuonava più, vennero elaborati i neumi che, soprattutto nella versione più antica, sono non solo una riproduzione segnica, ma proprio grafica della danza della parola. Non si cantano i neumi: essi sono degli indicatori perché la parola ritrovi il suo canto. Peraltro è anche vero che solo la scrittura neumatica consente di cogliere strutture e corrispondenze nel canto delle parole, delle frasi, dell’intero testo che altrimenti sfuggirebbero. Ogni scrittura, ogni libro è analogabile a uno spartito: la lettura ne è l’esecuzione. Ma non si tratta dell’esecuzione della scrittura, bensì dell’esecuzione di quanto nella scrittura e nel libro è simbolizzato, e che è ritmo, vita, scorrere del senso. Per questo, il libro è in senso forte e pieno simbolo del tempo. 5. Conclusioni Secondo Emmanuel Lévinas, il tempo è articolazione della molteplicità, reversibilità dell’essere nel senso e l’infinito è diverso dall’essere, ed è invece tempo e senso37. Tutto ciò trova un rispecchiamento preciso nella Bibbia, può esserle applicato in modo cal33

zante. Se Lévinas dice, ancora, che il tempo non è solo una dimensione del reale posta in essere dalla creazione, ma significa la stessa produzione della creazione che si rinnova nella realtà38, possiamo dire che di tutto questo la Bibbia è non solo testimonianza, bensì mediazione: in linguaggio teologico si potrebbe dire «sacramento», come infatti affermarono della Scrittura i Padri della Chiesa39. È infatti la Bibbia che mostra come l’Infinito/Altro si medi nel tempo, producendo in esso salvezza, proprio a partire dalla efficacia della parola viva, della parola-realtà (dabar) che la Scrittura attesta, che nella Scrittura viene mostrata all’opera nel racconto e a partire dalla Scrittura letta-interpretata agisce sempre di nuovo. Nella lettura della Bibbia – vale a dire doppiamente nel tempo: tempo della scrittura e tempo della lettura, che ponendosi in relazione aprono un mondo di senso – si produce «altrimenti che essere». Nella Bibbia, il libro, come rivelazione del tempo, si autocomprende, si manifesta e si offre a pensare come tempo della rivelazione, sempre mediata nell’atto temporale e temporalizzante della lettura-interpretazione, in una precisa dialettica40 tra finitezza e infinità. Il libro e, nella fattispecie, il libro biblico, compreso secondo la sua propria autointerpretazione, si mostra come un crocevia: tra temporalità ed ermeneutica, tra pensiero e senso, racchiusi a colloquio nel libro e il cui colloquio è mediato dal libro. La dimensione colloquiale del libro trova di nuovo il suo esempio principe nella Bibbia. Un libro che è al grado massimo colloquio attraverso il tempo, delle e tra le diverse generazioni di redattori e di lettori; colloquio tra le diverse lingue e culture di cui il libro si intesse; tra le diverse traduzioni e le diverse chiavi interpretative41. Un libro che accompagna il tempo, trasformandolo da dispersione in possibile colloquio42: in forza di ciò, in definitiva, capace di dischiudere, rivelare il senso43. Queste considerazioni portano a superare anche l’iniziale prospettiva, pur opportuna e fruttuosa, di una posizione di osservazione tra il libro religioso e il libro in quanto tale, e altresì la dialettica e correlazione tra lettura laica del libro religioso e lettura «religiosa» del libro laico. È vero che, a partire dall’archetipo biblico, seguito nella sua interna dinamica, il libro dischiude il suo segreto di capacità di far pensare sempre di nuovo nel tempo e il tempo. È vero che la lettura laica e quella religiosa si illuminano a 34

vicenda. Ma, per quanto si riferisce alla Bibbia, le due categorie sono troppo restrittive e troppo rigide. La scelta del riferimento alla Bibbia non è solo e principalmente la scelta di un esempio, bensì l’investigazione di un archetipo, il riferimento a un caso specifico e unico di presenza di un libro, nella nostra tradizione culturale, che si offre a essere pensato nella dinamica che lo innerva, indipendentemente dall’assunzione di una posizione laica o religiosa. Il gioco di rinvii, di sensi e di significati che l’universo biblico offre è significativo e stimolante per il pensiero, e per il pensiero del tempo in particolare, prima e al di qua della differenziazione tra lettura laica e lettura religiosa. Nella ricerca del senso nel tempo e nella questione stessa del senso del tempo, ci viene incontro tale libro, che porta con sé una promessa di senso, certo sulla base di una scommessa che vi sia senso. Investigarne, interrogarne la dinamica e farla interagire con la nostra impostazione del problema del tempo è, più che una opzione aggiuntiva, più che un espediente euristico, un passaggio ineludibile, per l’importanza culturale di tale libro e perché, nel confronto con esso, si tratta anche di rendersi consapevoli di radici comunque esistenti e operanti, anche se ormai non più esplicitamente riconosciute e identificate, del nostro questionare. La rappresentazione interpretante del tempo di cui la Bibbia, come libro archetipo, testimonia, apre il tempo dell’interpretazione, che è tempo della esistenza alla ricerca del senso, che è il tempo del senso e che offre il senso del tempo.

Note Cfr. in proposito F. de Saussure, Corso di linguistica generale, trad. it. a cura di T. De Mauro, Laterza, Bari 1972. 2 Cfr. in proposito, in particolare, la posizione di J. Derrida, Della grammatologia, trad. it. a cura di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A.C. Loaldi, Jaca Book, Milano 1969. 3 Cfr. H. Blumenberg, La leggibilità del mondo, trad. it., Il Mulino, Bologna 1986. 4 Sottolinea la coimplicazione tra testo e linguaggio P. Ricoeur, Tempo e racconto, I, trad. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1986, pp. 127 sg. e 241 sgg. 5 Per la nozione di paratesto (e delle sue specificazioni), come ciò per cui un testo si fa libro e si propone come tale ai suoi lettori e, più generalmente, al pubblico, cfr. G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, trad. it., Einaudi, Torino 1989. 1

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6 Cfr. P. Ricoeur, La funzione ermeneutica della distanziazione, in Id., Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, trad. it., Jaca Book, Milano 1989, pp. 97-113; qui, in particolare, p. 107. 7 Cfr. ibid. 8 Cfr. F. Jacques, Le moment du texte, in AA.VV., Le texte comme objet philosophique, Beauchesne, Paris 1987, pp. 15-85. 9 Cfr. ivi, p. 37. 10 Per la distinzione tra ciò che nella domanda è l’interrogato (befragt), ciò che è il cercato (gefragt) e ciò che è il ricercato (erfragt) cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Halle a.d.S. 1927 (Gesamtausgabe, vol. II/1, Klostermann, Frankfurt a.M. 1977), § 2; i termini italiani corrispondenti seguono la traduzione di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970. 11 Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Lo studio della teologia. Breve presentazione, trad. it. a cura di R. Osculati, Queriniana, Brescia 1978, pp. 146-60. 12 Cfr. P.C. Bori, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Il Mulino, Bologna 1987. 13 In direzione diversa ma analoga, dedicato al pensare la Bibbia, nel senso di pensarne i contenuti, in dialogo stretto con l’esegesi, è P. Ricoeur, A. Lacoque, Penser la Bible, Seuil, Paris 1988. 14 Cfr. in proposito W.J. Ong, Oralità e scrittura, Il Mulino, Bologna 1986 e, all’opposto, J. Derrida, Della grammatologia, cit. 15 Cfr. P.C. Bori, L’interpretazione infinita, cit. 16 Cfr. J. Derrida, La scrittura e la differenza, trad. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1982; J. Derrida, La disseminazione, trad. it. a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1989. 17 Cfr. al riguardo le posizioni di Roland Barthes e di Maurice Blanchot. 18 Sulla costitutività dell’atto di lettura, cfr. H.-G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, p. 198; P. Ricoeur, La funzione ermeneutica della distanziazione, cit.; in proposito cfr. anche J. Greisch, Mise en abîme et objeu. Ontologie et textualité, in AA.VV., Le texte comme objet philosophique, cit., pp. 251-77. Sottolinea Greisch come la lettura sia il luogo di convergenza tra il momento della liberazione (dall’intenzione dell’autore) e il momento dell’impegno ontologico (il testo come progetto di mondo): cfr. ivi, p. 257; cfr. ancora P. Ricoeur, Tempo e racconto, I, cit., pp. 241 sgg. 19 È certo per la frequentazione di tale libro che Edmond Jabès ha potuto affermare: «Il mondo esiste perché il libro esiste» (cfr. Il libro delle interrogazioni, trad. it. di A. Rocchi Pullberg e F. Santini, Marietti, Genova 1988, p. 25). 20 In proposito mi permetto di rinviare al mio Intersezioni tra scrittura e interpretazione: la Bibbia, CUEM, Milano 1989. 21 Cfr. ibid. 22 Cfr. S. Mosès, Rivelazione e linguaggio secondo le fonti bibliche, in «Notiziario del centro di studi teologici Germano Pattaro», IX, 1996, n. 4, pp. 1-4. 23 Cfr. in proposito P. Müller, Verstehst du auch, was du liest? Lesen und Verstehen im Neuen Testament, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1994. 24 Cfr. al riguardo P. Ricoeur, La funzione ermeneutica della distanziazione, cit.; Id., Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, in Id., Dal testo all’azione, cit., pp. 115-29; Id., Tempo e racconto, I, cit., pp. 127 sgg.; J. Greisch, Mise en abîme et objeu, cit.

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25 Elabora la nozione di fuori testo G. Jarczyk, Texte et hors-texte, in AA.VV., Le texte comme objet philosophique, cit., pp. 173-82. 26 Il canone delle Scritture ebraiche, la cui chiusura venne fatta risalire al sinodo di Jamnia del 99 d.C., individuò come terminus ad quem l’epoca di Esdra e di Neemia; il canone cristiano, già formato alla fine del II secolo, anche se chiuso formalmente molti secoli dopo, individuò l’epoca degli scritti apostolici. Ciò non significò che tutti gli scritti risalenti a quei periodi venissero riconosciuti come canonici (il canone si formò piuttosto per disconoscimento di scritti pur esistenti e circolanti), ma che il criterio storico venne fatto valere come primo criterio sia di identificazione sia di esclusione. Esso venne non applicato ma riconosciuto come qualità degli scritti accettati. Di fatto, tanto nelle Scritture ebraiche quanto nel Nuovo Testamento rientrano scritti posteriori a tale epoca: proprio tale discrepanza attesta che quello storico fu davvero un criterio scelto e non la semplice registrazione di un fatto. 27 Per questa tematica cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto, III, trad. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1988. 28 L’affermazione originale qui parafrasata è la celebre e molto spesso fraintesa e mal applicata asserzione «extra ecclesiam nulla salus». Tale affermazione risalente a Ireneo di Lione, peraltro, non dovrebbe essere intesa come una rivendicazione di un esclusivo possesso della salvezza contro coloro che non fanno parte della Chiesa; essa, come da più parti è stato recentemente autorevolmente e opportunamente sottolineato, è l’affermazione, tutta teologica e non controversistica, della necessità della esistenza della Chiesa, in quanto corpo di Cristo, come mediazione storica della salvezza. 29 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 65. 30 Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1963, §§ 26, 37 e 51-63 della Prefazione; §§ 3-6 della sez. B [Autocoscienza] della Parte I. 31 Cfr. per questa concezione P. Beauchamp, L’uno e l’altro Testamento. Saggio di lettura, Paideia, Brescia 1985. 32 Per questa concezione del simbolo cfr. P. Ricoeur, Le symbole donne à penser, in «Esprit», 27, 1959, pp. 60-76; Id., Parole et Symbole, in Le Symbole, Colloque de Strasbourg 1974, in «Revue des Sciences religieuses», 49, 1975, pp. 142-61. 33 Per la concezione della metafora cfr. ancora P. Ricoeur, La metafora viva, Jaca Book, Milano 1981, in particolare lo Studio VII: «Metafora e referenza». 34 Cfr. in proposito K. Rahner, Sull’ispirazione della Sacra Scrittura, in Quaestiones disputatae, 1, Herder-Morcelliana, Brescia 1967, che, anche in prospettiva strettamente teologica, profila un concetto di ispirazione non solo non corrivo con una visione fondamentalista e, in senso peggiorativo, «dogmatica», bensì diametralmente opposto a queste. 35 Cfr. E. Salmann, Symbolisches Denken-Denken des Symbols: Mönchstum und Philosophie, in Id., Der geteilte Logos, «Studia Anselmiana», n. 111, Roma 1992, pp. 373-99. 36 I simboli possono essere compresi anche al di fuori della cultura in cui sono sorti e comparati interculturalmente proprio riconducendoli all’esperienza di cui sono simbolizzazione: cfr. A. Voegelin, Equivalence of experience and symbolisation in History, in «Philosophical Studies», 28, 1981, pp. 88-103. 37 Tra i molti luoghi significativi di riflessione sul tema del tempo cfr. parti-

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colarmente E. Lévinas, Totalità e infinito, trad. it. di A. Dall’Asta, Jaca Book, Milano 1990, pp. 225-301; E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. it. a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1991, pp. 33-57. 38 Cfr. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., § 4 delle «Conclusioni». 39 Tale concezione ha trovato recente eco, nella Chiesa cattolica, nella Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, in cui, al cap. VI, § 21, si ricorda come la Scrittura sia stata venerata in modo analogo al corpo stesso del Signore: cfr. Enchiridion Vaticanum, EDB, Bologna 1971, 904. 40 Cfr. H.-G. Gadamer, Verità e metodo, c(t., pp.p419-30.X41 «Il #olloqui: dell’u(anità h avuto 8nizio c*n quest: libro.0In ques0o collopuio tra0un dire0e quell: che gl8 si con0rapponeh trasco2rono mezzi o in eri millenni. Ogni volta prima di una nuova frase del colloquio sta una traduzione [...]. Nessun uomo sa quando il colloquio potrà avere termine; così come nessuno ha mai saputo quando è incominciato» (F. Rosenzweig, Significato storico e universale della Bibbia, in Id., La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, trad. it. a cura di G. Bonola, Città Nuova, Roma 1991, p. 141). 42 Per lo sviluppo del tema, già heideggeriano (cfr. M. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, in Id., In cammino verso il linguaggio, trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1990, pp. 83-125), del colloquio, cfr. M. Ruggenini, Il discorso dell’altro, Il Saggiatore, Milano 1996, pp. 165-77. 43 Il tema della rivelazione è collegato a quello del colloquio da F. Rosenzweig, La stella della redenzione, trad. it. a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1985, parte II, libro II, pp. 167-219.

Fulvio Papi

Tempi della scrittura filosofica e silenzio del divino

Se ascolti la parola «oggi» non lasciarti sedurre per pigrizia da quella medietà dei tempi sociali, sempre più necessaria, a un modo di vivere senza giudizio, che si deposita sul numero arabo del calendario, e spontaneamente vola, con il vento della trascendentalità del linguaggio, verso una proprietà ricca di inganni, verso la informe metafisica pubblica del contenitore universale. Dico metafisica pubblica perché un tempo non era così, la data che il vecchio Hegel leggeva sul giornale quotidiano apparteneva alla temporalizzazione dello spirito universale, e così accadeva che i fatti stampati, se non fossero briciole di un desco sempre esteriore, si componessero come stazioni di un cammino necessariamente glorioso. Leggere voleva dire conoscere il proprio coinvolgimento nell’universale. Nel modo di riflettere che ci ha educato, magari inizialmente riluttanti, «oggi», inteso come contenitore generale, può avere a che fare solo con eventi empiricamente generali, un terremoto, un diluvio o altri, che fanno di noi tutti una umanità temporalmente situata in modo identico, poiché eguali per tutti sono gli effetti della catastrofe. Anche i fantasmi sartriani del giuramento della Pallacorda, evocati nel romantico «gruppo in fusione», non hanno lo stesso tempo dei salauds che si specchiano nei ritratti della presuntuosa galleria del museo civico di una cittadina di provincia. Se abbiamo rinunciato alla educazione dell’umanità – chi è disposto a ricordare un’infanzia in cui l’autocoscienza della classe operaia costituiva la nostra sola possibilità di un’essenza attuale? – ci siamo anche abituati a considerare «oggi» come una parola che conduce qualcuno – oggi per la costituzione di un polo di soggettività – in una qualità simbolica del tempo, e in uno spazio anch’esso configurato temporalmente, anche se in modo disomo39

geneo rispetto al primo, nel senso che lo spazio cela sempre un’eccedenza nel buio del discorso. In una città vi è sempre molto di più, discorsi, progetti, speranze, bellezze che dormono nel pubblico oblio, di quanto comunemente viene detto nella progettualità quotidiana di quella città. Il rispetto del tempo segnato nasce in una dimensione estetica che ha le sue selezioni conservative e le sue retoriche estetiche. Le categorie, quando su questi temi sono state predisposte nella modernità, illuminano, ma limitano, ai margini c’è l’infinita dimenticanza che s’accompagna a ogni progetto di memoria. «Oggi» è un dizionario di qualcuno che offre una possibilità limitata di significati, spesso solamente passivi, tracciati obbligatori, prassi ineludibili, abilità necessarie, simili tutti a vele al vento su una rotta turistica; altri forti, intensi, impositivi, di una volgare monumentalità che hanno la capacità di reinventare una volta di più la sufficienza della natura come caratteristica dell’autobiografia dei grandi poteri. Questi significati ci considerano completamente a loro disposizione, come personaggi educati e rispettosi che, in compenso, hanno il vantaggio di essere nel gioco dei riconoscimenti, dei ruoli, delle reciprocità piene di esprit de sérieux e di evitare di assomigliare ai poveri, ai mendicanti, ai malati di mente, ai bizzarri, ai saltimbanchi del Settecento, e di finire come loro e i loro simili nel perimetro dei manicomi, custodie pubbliche della «disragione»; oggi più dolcemente di essere ospitati nella categoria, inventata dalla psicologia, del disadattato. «Oggi» è una parola scivolosa e ambigua, ma se circoscritta consente persino di classificare (una parola temporale che classifica è veramente strana per ogni tradizione classificatoria da Aristotele a Linneo e ai selvaggi, a loro modo pensanti, di LéviStrauss). «Oggi», nel discorso che segue, ha a che vedere con i destini possibili di scrittori filosofici. Oggi per uno scrittore filosofico è spesso l’appartenenza a una tradizione di pensiero che ormai, come l’ultimo sorriso dell’onda, si deposita sulla riva dell’abitudine, del consenso, della certezza. La filosofia in questi casi c’è sempre stata, in questo «sempre» si è esaurita come una voce e oggi questo «sempre» si incontra con un vuoto. La forma del pensare filosofico finisce dominata dalla qualità insuperabile dell’epoca: della tecnica, della professionalità, del calcolo, dello scambio, dell’efficienza, delle virtù che vi sono immanenti, della riproduzione allargata del capitale, una volontà di potenza del tutto ac40

cettabile perché senza soggetto, che avviene in una combinazione tra produzione e sistemi simbolici che rappresentano le qualità competitive del denaro. Tutte forme di immanenza che proiettano sull’oggi filosofico un’interrogazione pressante di serietà. E tu oggi che cosa fai per adeguarti all’epoca? La domanda quando parte dagli uffici ministeriali è giustificata dalla mancanza di una domanda preliminare sul «che cosa» oggi sia la politica. Ma se nasce da una disposizione anancastica degli scrittori di filosofia, allora trova, senza troppe difficoltà, la strada della mimesi, una specie di equivoco sulle necessità formative della giovinezza, che diventa la qualità del tempo filosofico. C’è una mimesi della scienza, della sua connessione con la produzione, con la forma razionale dei suoi mezzi, con le sue tecniche di giudizio, con l’idea di accumuli progressivi, con la formazione delle comunità di ricerca qualche volta inevitabile se si vuole essere come gli altri e cioè non essere privi di Eigenschaften. Anche se mi chiedo: in quel tempo che conduceva la filosofia dall’orale socratico, alla messa in scena platonica della filosofia, per finire nel codice scolastico di una comunità elevata, quale dose di accettazione emotiva della diversità dovevano avere per esempio i filosofi cinici? Forse non abissalmente lontana da quella di un progetto di individuo, ultimo degli uomini come diceva uno scrittore come Orwell che si domanda a suo modo: tutto questo che senso ha? E io credo che l’anomalia della domanda non derivi certamente dalla considerazione non difficile secondo cui la parola «epoca» trascina con sé, come fantasma, un’idea tenace e forte di unità, o dal fatto che non c’è atteggiamento positivista che, se esce dall’etica professionale (la boria dei dotti?), e da un pragmatismo senza discorso, non corra verso una metafisica molto banale: l’anomalia è altra, consiste nel fatto che sopravviva un individuo – questa straordinaria costruzione della modernità – che si consideri sufficiente non per un patrimonio, e nemmeno per una famiglia e nemmeno per una grazia divina, ma solo per una domanda filosofica, indifferente alla sua identificazione nel ritratto, come soleva. Il ritratto ha sempre una persuasività enfatica. Forse la sua genealogia è nel «borghese sviato» che non è solo del giovane Mann, ma di un modo diffuso nel primo Novecento di rappresentare l’artista: uno scandalo per alcuni, un sovrappiù, una decorazione, l’apparizione dell’anima fuori stagione. In questo caso forse si merita questo personaggio 41

la punizione che gli è inflitta da quegli interpreti dell’oggi che considerano una qualsiasi costruzione di un autore come appartenente al ritmo del consumo dei messaggi, all’entropia feroce di ogni manufatto, al divorzio tra pensiero ed estetica, tra costruzioni di forme e occasioni di suggestione, alle parole come risorse di un arredamento segnato dall’effimero, o da uno spettacolo che si ferma ai confini degli occhi e delle orecchie. In questo caso ogni testo deve produrre la soddisfazione del desiderio d’altro, di un’altra felicità, la dimenticanza non inquieta è nella regola del palinsesto, l’interrogare filosofico riguarda il pubblico che immagina. L’adesso invade, e nell’aria corre un carpe diem che offende, senza volerlo, la prudenza e il riserbo dell’antico poeta. In questa emancipazione che è una metamorfosi si perde certamente la qualità del tempo filosofico, si aprono altre strade, si impara anche in filosofia che non c’è nulla che si conservi da solo, che lo spirito è un modo di dire, il classico un’elevata convenzione, e che lo «scrivere di filosofia» può assomigliare a quei musei che cent’anni fa l’avanguardia di allora, ingiustamente, voleva distruggere. E se dico «ingiustamente» per i musei, sottintendo che lo «scrivere di filosofia» ha una sua fondamentale ragione conservativa. Quello che resta è invece tentare la possibilità di «scrivere filosofia» con immensi rischi, poiché il genere in cui si costruisce la forma filosofica del pensiero è certamente mutevole, quanto alle finalità della sua comunicazione, e molto difficile da trovare in modo congruo; basti pensare alle architetture testuali di classici come Kant e Nietzsche, l’uno dove l’edificio è più casto dei canoni vitruviani poiché il bello è altrove, e nel caso di Nietzsche la fuga imprevedibile degli aforismi come architettura disseminata ed eccentrica. Il genere filosofico risente di tutte le forme e di tutti gli stili, degli ascolti, delle economie della situazione generale della comunicazione e dei suoi mezzi. Illudersi del contrario non aiuta il rigore del pensiero. Solo una metafisica dell’identità, un vizio assurdo, può liberare da questi vincoli sotterranei, disseminati, efficaci conduttori di qualità temporali. Solo una vana simulazione di potenza può risparmiare la filosofia dall’ambiente delle difficoltà immense che sono accadute al contemporaneo comporre musica o figurarsi segni. E pure è solo in questo spazio che si può tentare di «scrivere filosofia» (tutt’altro dallo «scrivere di filosofia»), ed è 42

in questa direzione che si può ritrovare ancora una relazione tra testualizzazione filosofica e temporalità. Scrivere filosofia è lavorare attraverso la scrittura su ogni orizzonte disponibile di linguaggio, al fine di rendere visibili, attraverso nuove forme di significazione, gli spazi di mondo che sono le relazioni dell’esserci ripetute nel linguaggio del «mondo della vita». I modi mutevoli, per considerare l’esempio più semplice, con cui abbiamo guardato al nostro corpo e parlato del nostro corpo sono una delle indefinite relazioni dell’esserci. Se l’invenzione dei concetti e dei significati saprà andare oltre la pietrificazione del linguaggio quotidiano che rende incerte, nebulose, doloranti, ma senza perché, le mutazioni impercettibili del mondo e la forza dei poteri che le reggono, allora il testo filosofico troverà ancora la sua forma di verità, risultato di una contemporaneità subita ed elaborata, e di una tradizione ripresa nel solo modo materialmente possibile, una scrittura che coinvolge il senso dello scrivere, privo di fictions filosofiche che sono gli idola del mestiere. Se vi sarà una buona composizione scritturale dei testi dovrebbe sortire l’immagine composita della figura di soggettività che ci è accaduta di vivere, le qualità del tempo, un testo che, nella tradizione, potrebbe essere indicato simile a una episteme, rispetto a una doxa. Una risposta, attraverso un itinerario della filosofia contemporanea, che ha reso impraticabili tutte le figure della metafisica, alla domanda kantiana intorno al «chi siamo», ricerca di una identità, forte come una passione, sempre incompiuta, per il modo stesso attraverso cui è desiderata e compiuta, il linguaggio, e tuttavia essenziale per la prova che il pensiero filosofico pone a se stesso. Una forma di pensiero, costruita negli spazi possibili del contemporaneo, che conserva nel modo del suo fare scrittura una tensione verso la sua verità che, nella pluralità degli spazi di verità, necessariamente è ancora un’eco della tradizione filosofica. Non imita la scienza e non diviene poesia. Qui non posso sviluppare l’insieme degli elementi costitutivi di questa linea filosofica, posso solo privilegiarne alcuni che hanno una relazione diretta con il tema della temporalità. In generale questa strada stessa ha costruito la sua figura funzionale di autore, forse l’autore di un idioletto più che l’autore di un genere, ma un idioletto in cerca di ulteriori parlanti e quindi di divenire, entro certi limiti, un linguaggio condiviso. L’autore, esperto nel 43

suo compito testuale, è tuttavia persuaso della deperibilità del suo testo, simile a una fragile pergamena, ma non ne fa più oggetto di riflessione, poiché le ragioni plurali che costruiscono la finitudine (non del «soggetto» che è un’ovvietà) ma della scrittura, sono apparizioni quotidiane nel suo orizzonte di lavoro. E invece il suo testo accetta il platonismo spontaneo e implicito dei suoi significati e non collassa nell’effimero, nell’emozionale, nel puro sensibile, non arreda il momento, può persino sorridere se le sue pagine avessero risonanze musicali di una voce leggente (capitava al primo Platone, e un grandissimo narratore contemporaneo José Saramago dice «leggetemi ad alta voce»), ma sempre un minimo trascendente del significato è implicito nella strategia della scrittura. Il luogo dove si dirige la trascendenza del significato è verso la durata di una futuribilità. Questo è il gioco immanente al testo: ogni combinazione semantica conduce contemporaneamente entropia e futuribilità, c’è l’azzardo di una vivente simbolicità. Nella scrittura filosofica vi è una relazione di temporalità nel momento stesso in cui viene costruito uno spazio di discorsività che si presenta pubblicamente. Aprendo in direzione del futuro, rende implicita la virtualità di una comunità temporale. Questa futuribilità, questo invio o questa vocazione testamentaria, con espressioni più riconoscibili all’abitudine filosofica attuale, ma qui reinterpretate, ha una sua norma, quasi segreta, o per lo meno non esplicitamente tematizzata, nella predisposizione della figura del lettore collaborativo. Al quale viene assegnata la decisione di confortare l’implicito invito del testo alla propria durata: è un lettore che rispetto al testo, come è stato detto molto bene, «traina» se stesso, e in questa cura trainante realizza la futuribilità testamentaria della fragilità temporale del testo. Il lettore non è lo scrittore, secondo la moda di trent’anni fa (chi non ricorda con devozione Roland Barthes?). Il lettore è la presenza sensibile della futuribilità del testo. Nei limiti di una scena che ha perduto il classico, la durata, il soggetto, la fusione dei significati, ma certamente non la temporalità contingente, caduca linea spezzata senza norma, del senso. Tutto ciò, tuttavia, è molto tradizionale e non condivide per nulla le euforie dell’ipertesto contemporaneo dove si scontrano solo due metafisiche opposte, la metafisica della scrittura infinita e quella della infinita libertà del soggetto. Sregolatezza sposata a 44

bassa genialità. Il testo che credo di proporre mantiene la sua educata seduzione paterna. Per quanto l’autore lavori sulla scrittura di modo che il suo testo simuli un certo stato del futuro, non fa nessuna ipotesi sul futuro: è un dono privo di qualsiasi regola del dono. Il suo stile filosofico incorpora simulacri di verbi al futuro che pure non ci sono, e non ci possono essere nello stile collettivo dello scrivere filosofico, se mi si concede un «per lo più», al contrario della narrazione di tipo mimetico che scrive sempre al passato. L’autore filosofico ha la pretesa un poco luciferina di tentare il tempo, immaginando il proprio discorso come una rivelazione, mentre rischia di essere interpretato come una testimonianza. Di che cosa una testimonianza non possiamo sapere. Sappiamo solo che il lettore previsto e amato da questo testo filosofico non è il lettore enigmatico cui giungerà l’invio. Il tempo del nostro lavoro è già stato esiliato. Questa analisi intorno alla scrittura filosofica, per quanto riguarda la temporalità, esige l’ingresso nel territorio evocato di un personaggio che può destare qualche stupore o qualche perplessità: «una buona salute». Per «buona salute» non si deve intendere mancanza di patologie (già dai tempi di Canguilhem, normale e patologico avevano confini labili), se mai, per parlare in Spinoza, un’armonia di anima e corpo che conduca al conatus, al desiderio di una forma di scrittura che provochi un effetto di particolare futuribilità: che non sia solo la possibilità casuale di un testo di essere letto in un tempo diverso da quello della scrittura, sottratto al suo sonno, ma che nasconda una fede emotiva su una futuribilità seduttiva del discorso, così che apra spazi di mondo a sguardi che ora sono assenti dalla nostra Umwelt. Spazi che appartengono a quella costruzione d’autore che mostra funzioni differenti, ma è sempre un inoltrarsi nel territorio futuro come luogo del testo. Quale sia la durata, imprevedibile, fa proprio parte della sua progettualità, della sua architettura. L’accadere delle interpretazioni è ovvio, nessuno possiede il testo che ha costruito. Esso è già un’alterità, ci lascia nel momento che c’è, il «ci» stesso è costretto a mutazione, ma è un’alterità che l’autore desidera accada. C’è in tutto questo una tonalità emotiva dicibile, come ho già detto, in una modalità simile a un «quasi ossimoro», una seduzione paterna. Si tratta di una costruzione molto più modesta della cattedrale gotica di Hegel destinata, nei suoi spazi, a ordinare sacralità e 45

mondanità della filosofica religio nei riti di ogni tempo. Non è un corpo negato, piuttosto la parola di un corpo che, riproducendo la sua contingenza nel «nastro» della scrittura, costruisce anche l’interpretazione di se stesso. Non c’è né puro significante, né il lavoro del concetto sulla negatività, per mostrare, contrariamente all’alterità assoluta dell’animale, che pure è una legge profonda dell’inerzialità la fatica di ogni corpo, la gloria della resurrezione dello spirito. Il discorso filosofico non è la Morte pensata, che in questo caso immaginiamo di frequentare, immaginari eroi, come un fondamento e un’origine. Ma piuttosto dobbiamo avere confidenza con quella morte che è già margine del congiunturale, cangiante in molti volti, ma non effimero (che è una sfumatura impositiva del sentimento), possibilità che si danno nella qualità del momento, nello spettro delle domande che consente il forzare le linee estreme del linguaggio che c’è. Non vi sono corpi che risuscitano verso la trasparenza di un sapere classico, ma solo un pensare che appartiene a configurazioni vitali delle quali è impossibile e stolto cercare la causa, l’inizio o l’origine. «Lei non poteva che essere un filosofo» mi disse uno psicanalista, ma parlava del fragile autore «a post» come un episodio della sua – di psicanalista – ragionevole episteme, derivata dalla metapsicologia freudiana. Mi assegnava così un destino che non ho. La «buona salute» forse è la possibilità di iniziare ogni volta da capo a configurare l’orizzonte d’esperienza e la dicibilità del mondo. La «buona salute» è la possibilità di iniziare in ogni momento a configurare l’esperienza e il mondo: alle spalle vi è una sufficiente immaginazione di una storia e di una identità che consentono la fatica di costruire l’autore. Per il contrario c’è il silenzio, l’inettitudine, la caduta d’ogni direzione, il ritorno a parole che suonano come crudeli arbitri di un sé racchiuso in un’ultima stanza senza finestre. La psichiatria fenomenologica ha individuato come radice corrotta la caduta della progettualità temporale. Non mi importa stabilire le ragioni e i sintomi del prima e del dopo di una modalità del Dasein senza orizzonte temporale; importa vedere un’esperienza chiusa in un cerchio, non più perfezione del pensiero, ma figura di una prigionia che ha abolito ogni direzione. L’esperienza dei margini estremi della vita mostra, senza entrare in un dominio intellettuale così difficile, che quivi è completamente alterato il rapporto con la temporalità. Questa è la difficoltà forse insupe46

rabile del discorso con l’altro, chiuso nel suo silenzio, dell’assistenza come dicono i medici, esperti di questa cura senza speranza. Se in questo rapporto ci fosse l’ombra della filosofia sarebbe tutta dalla parte di quello che, cercando di animare il discorso dell’assente, tenta di dare, senza un proposito abituale, uno spazio futuro all’accadere di ogni parola. Invece è in questa esperienza del vuoto e del silenzio (che non dobbiamo rimuovere, perché fa parte della nostra domanda sull’essere, anche se fingiamo di no) che la possibilità del pensiero filosofico deve disconoscere la sua onnipotenza, anche se proprio in questo limite trova la qualità della sua sicura gloria. L’assioma della «buona salute» coinvolge qualsiasi consolatio philosophica. Ma quando parlo di caduta non è solo l’aspettativa singolare della morte, approssimata da segni, purtroppo senza ambiguità. È una caduta, un abbandono, una interruzione – solo la letteratura è un trattenimento senza termine – di quella che era stata la vita. L’abitabilità del mondo si è dissolta, le parole non parlano di un’esperienza che divenga. Tra sensazione e pensiero c’è certamente un transito indispensabile per un riconoscimento di entrambi, ma è un transito che deve essere continuamente ritessuto dal lavoro del pensiero, e può capitare di perdere, nel momento in cui la finitudine è priva d’ogni colore del vivente, e tocca il limite del vuoto. Tra sensibilità e parola si crea un circolo ripetitivo che è il momento della solitudine, il se stesso e l’altro hanno la risorsa crudele di uno specchio rotto. Forse allora la propria voragine richiama, quasi come una risorsa della voce, separata dal pensare, l’esperienza di una possibile residua umbratile figlialità, e trova l’invocazione della preghiera solo in quel povero spazio, privo di pensiero e vuoto di fede: «padre nostro». Vi sono parole che hanno una intensità emotiva che va al di là della loro connessione con un sistema mondano del sapere. Vi rifluiscono testi canonizzati che trovano un minimo frammento di senso. Questa parola segna un’eccedenza irriducibile rispetto alla trama del pensiero. Ma non è lo scacco, l’attesa sadica dell’imperfezione, imputata come colpa, è solo il limite territoriale della filosofia, che abitua anche a riconoscere la forma della sua potenza e della sua legislazione simbolica. Nel suo limite la filosofia trova una specie di creaturalità emotiva che non può essere vista dall’esterno, e categorizzata con un pensiero obiettivizzante, come segno di invisibili trame, ora autorizzate a comparire in un 47

controluce, in fondo parassitario. Forse qualcuno potrebbe insistere, e chiedermi se qui non vi sia l’occasione di una integrazione tra filosofia e religione, o una rinascita del discorso religioso, proprio da quel momento estremo di insicurezza, che non ho voluto escludere per ragione di rigore, e per timore di arbitri inconsapevoli. Desidererei non rispondere. Perché questo tipo di domande mettono ancora in forma, categorizzano, godono così, ingiustamente, del potere del «far vedere» a forza, del «rendere necessario», secondo armonie vuote e strategie vertiginosamente azzardate, restaurano la convenzione di una «buona salute» eterna, giocano il pensiero sulla forza impositiva della sua simulazione. Lasciare incerto l’incerto mi pare proprio di quella saggezza che si accompagna a quella forma particolare del pensare che qui ho cercato di mostrare come propria della filosofia.

Claudio Ciancio

Eternità nel tempo e temporalità nell’eterno

1. Il tempo come immagine dell’eternità Scrive Schelling, nel corso di Erlangen del 1821, che «chi vuole comprendere tempo e eternità, deve andare al di là di tempo ed eternità […] e giungere al punto in cui […] si bilanciano»1. Con ciò vuol dire che non si escludono reciprocamente, aggiungendo che ciò avviene nella misura in cui nell’eternità stessa si trova il principio che pone il tempo2. Per conferire autorità al suo tentativo di pensare tempo ed eternità in un rapporto non di esclusione reciproca, ma piuttosto di compatibilità ed anzi di somiglianza, in più occasioni Schelling si richiama alla concezione platonica del tempo come immagine mobile dell’eternità. È la concezione del Timeo (37 c-38 c), secondo la quale il Demiurgo attribuisce il tempo al mondo affinché questo sia nobilitato: se non può avere direttamente l’eternità, perché questa appartiene all’anima, il mondo come inferiore potrà però averne un’immagine, il tempo appunto. La somiglianza sarà posta nella circolarità del tempo, che il tempo possiede in quanto è misurato dalle orbite dei pianeti (il Timeo dice perciò che è inseparabile dal cielo): la circolarità infatti non ha né inizio né fine, è sempre eguale, proprio come l’eterno. In quanto immagine dell’eterno, e cioè in quanto eternità nella forma discreta della successione, il tempo sarà anche coeterno con l’essere eterno. Esso assume così in Platone due caratteri rilevanti e decisivi per molte concezioni successive: la sua continuità rispetto all’eterno e il suo essere fondato da questo. In Plotino3 il rapporto sarà ancora più stretto e intrinseco, perché in lui il tempo è non solo immagine dell’eternità (immagine mobile dell’eternità, il tempo ha rispetto all’eternità lo stesso rapporto che ha il sensibile rispetto all’intelligibile), ma anche è da 49

essa generato ed anzi diventa condizione della sua manifestazione. Esso infatti è generato, più precisamente, dall’Anima che vuole estrinsecare e distendere l’essere intelligibile (distendere l’uno nel continuo), e in questo modo si temporalizza e temporalizza, generando questo universo sensibile e temporale. Il tempo in Plotino subisce poi, come espressione dell’Anima, un processo di spiritualizzazione, che anticipa Agostino. Il tempo non è infatti fuori dell’Anima, come l’eternità non è fuori dell’Essere; non si può dire che l’Anima sia nel tempo perché essa è la prima che va nel tempo e lo genera, e ogni movimento va riportato al suo movimento. Ma forse, più ancora che in queste concezioni, la somiglianza del tempo con l’eternità si manifesta in quelle in cui il ciclo temporale produce un compimento, porta a una perfezione o la ripristina. È ciò che avviene già in alcuni momenti del pensiero presocratico e in quello stoico. Così Anassimandro, colui che inventò lo gnomone «per conoscere le rivoluzioni del sole, il tempo, le stagioni e gli equinozi»4 e costruì orologi5, scrive che «da dove gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo»6; il circolo fa sì che il male sia vendicato. Pitagora, poi, per il quale «quello che è stato si ripete a intervalli regolari e nulla c’è che sia veramente nuovo»7, vede nei cicli temporali processi di purificazione. Per gli stoici, infine, il mondo è generato dal fuoco e ritorna ad esso, e compie cicli sempre uguali nei quali «tutte le cose saranno di nuovo individualmente identiche»: «poiché gli astri percorreranno di nuovo le stesse traiettorie, si realizzerà immutabilmente ogni cosa che c’era già stata nel precedente periodo. Ci saranno di nuovo Socrate e Platone e ciascuno dei loro contemporanei, amici e concittadini»8. Ma questa ripetizione sempre uguale dei medesimi cicli è sviluppo di un principio divino ed è governata dalla divinità secondo un piano provvidenziale. L’idea di una sostanziale continuità con l’eternità e della perfezione del suo ciclo facilita la comprensione del tempo eliminando quella certa enigmaticità che talvolta anche gli antichi9 gli attribuiscono. Sarà Agostino invece, al di là di ogni presunta contiguità col neoplatonismo, a introdurre una forte discontinuità fra tempo ed eternità10, che poi si ripercuote sull’intelligibilità del 50

tempo. La discontinuità si manifesta in almeno tre aspetti: il primo è il fatto che, appartenendo il tempo alla creazione, non vi fu un tempo prima della creazione stessa, ma perciò non vi è un tempo coeterno con Dio; il secondo è il presentarsi del tempo come non essere11; il terzo è che il tempo viene misurato non più dall’eternità, attraverso il movimento degli astri o attraverso il movimento dell’Anima universale, ma dall’anima individuale: i tempi sono nell’anima12. Venuta meno la rappresentazione di un tempo coeterno e circolare, si accentua, nell’orizzonte cristiano, la dissomiglianza del tempo dall’eterno (allo stesso modo in cui, più in generale, il finito entra in tensione con l’infinito), e di conseguenza si dilata, già agli occhi di Agostino, l’enigmaticità del tempo13. 2. Persistenza del modello della circolarità La concezione antica del rapporto tempo-eternità, peraltro, non scomparirà nel pensiero successivo, ma si troverà intrecciata con la concezione lineare del tempo o profondamente modificata da essa. È quel che avverrà anche in Schelling, il pensatore a cui principalmente farò riferimento per l’illustrazione del nostro tema. Nelle lezioni del 1827/28 egli si richiama alla tesi platonica del tempo come imitazione dell’eternità svolgendola poi però, originalmente, nel senso dell’alterità. Il tempo è infatti pensato come «qualcosa che sta accanto e fuori dell’eternità», «qualcosa di nuovo che si aggiunge», ma come tale è una sorta di eternità relativa e secondaria, che sta «accanto e al di là dell’eternità assoluta», e, in questo senso, ma solo in questo, è un’imitazione dell’eternità. Questo tempo può essere considerato imitazione dell’eternità, perché con esso non s’intende il tempo nel suo scorrere, ma il principio del tempo, un principio di alterità che Dio pone dall’eternità e che costituisce la condizione di possibilità della creazione e del suo tempo14. Su questo punto importantissimo torneremo; per il momento importa sottolineare che è proprio di questa posizione continuare a porre nell’eterno il principio del tempo (come nella prospettiva platonica), ma pensandolo come altro: «il tempo non è omogeneo all’eternità»15; il principio del tempo è considerato come un altro principio, di cui Schelling dice che è «completamente nuovo»16. 51

Dunque la concezione classica della somiglianza del tempo con l’eternità non viene semplicemente abolita, ma piuttosto profondamente trasformata, in quanto non fa più perno sulla forma ciclica. D’altra parte la forma ciclica del tempo, che è quella misurata dalla natura e, nei limiti in cui può essere assimilata ad essa, dalla storia, non viene semplicemente abolita; solo che invece di costituire il raccordo con l’eternità, segna una profonda distanza da essa e una profonda differenza di valore: infatti, alla luce del modello della linearità, la ciclicità diventa una vana ripetizione. La percezione cristiana del tempo avverte infatti non solo un’alterità del tempo, ma ancor più il suo tendere a un compimento mancante; e quando ci si ponga nella prospettiva di un’attesa del compimento la ripetizione dell’identico diventa insensata e vana fatica. Senza questo confronto potrebbe continuare ad essere elevata al rango di imitazione dell’eternità. Il mondo cristiano non perde il senso della ciclicità, ma la percepisce malinconicamente come frustrazione del compimento e quindi semplicemente nel senso della continua creazione e distruzione. È stato Schelling, forse più di ogni altro, a distinguere e a connettere la duplice figura della temporalità. La temporalità circolare è per lui il tempo in cui si è venuta a trovare la creazione; ma essa non è tutto il tempo, è soltanto un tempo intermedio, il secondo dei tempi, all’interno di un processo lineare. Scrive Schelling che il mondo o la creazione […] si sono fermati, arrestati nel secondo tempo. Questo tempo che si è arrestato, che può solo porre sempre se stesso, il cui schema è la serie A+A+A, questo tempo meramente apparente, che non è quello vero – il vero sarebbe posto solo se il presente potesse trapassare nel suo futuro – questo tempo meramente apparente, che, invece di essere il tempo vero, è piuttosto solo una sospensione, una epoche del tempo vero, è il tempo di questo mondo, in cui noi viviamo, del quale solo si parla abitualmente in filosofia, e del quale si ha pienamente ragione di dire che esso non sporge oltre questo mondo; questo tempo apparente, il tempo di questo mondo, dunque, è solo un tempo che sempre si ripete; esso è solo un membro entro il grande sistema dei tempi che si trovava nel disegno divino; di qui l’antico lamento, che sotto il sole, nella creazione cioè, non si produce nulla di nuovo, un giorno è come l’altro, oggi è domani, domani è come oggi, tutto si muove in un triste circolo di fenomeni che uniformemente ri-

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tornano; questo tempo apparente che non ha in sé un vero passato né un vero futuro, non è il vero tempo. Il vero tempo, infatti, non è un tempo che sempre si ripete, ma proprio una successione di tempi17.

Il tempo di questo mondo è per Schelling un tempo che è destinato a diventare passato ma non riesce a diventarlo, e perciò «non ha un vero passato né un vero futuro»18. È dunque un tempo apparente, un tempo circolare che è apparente perché non contiene una reale distinzione di tempi, dal momento che ogni tempo successivo non è qualitativamente diverso dal precedente. Ora questo tempo circolare, il nostro tempo storico, che non riesce a giungere al compimento (al terzo eone), sta sotto il segno della caduta: Dal tempo in cui l’uomo si oppose alle vie di Dio la natura è chiusa nel triste circolo, è una totalità che non procede […]. Tutto è così pieno di fatica e di lavoro ma senza esito, una generazione viene e scompare per lasciare posto a un’altra. […] la creatura è sottoposta alla vanità19.

La caduta priva infatti la natura del suo punto di unità che essa perciò cerca invano (di qui il movimento circolare). C’è una profonda malinconia della natura, come quella di una sposa che ha perduto lo sposo nel giorno delle nozze; e c’è una separazione nell’uomo di spirituale e naturale che dovevano fare unità: il movimento progressivo è solo più nel mondo ideale e spirituale dell’uomo, ma in questo modo è appunto innaturale20. La caduta ha privato il tempo del suo rapporto di somiglianza con l’eternità, rendendolo ontologicamente inconsistente e anche, come detto, enigmatico. E ciò in realtà vale sia che lo si pensi come lineare sia che lo si pensi come circolare. Il tempo lineare è enigmatico, perché da un lato esso esige una distinzione di tempi, un prima e un dopo, ma dall’altro la mancanza in esso di punti stabili rende impossibile quella distinzione. L’incomprensibilità del tempo, di cui parla Agostino quando dice che esso non è mai, può essere svolta in questo senso: il tempo non è mai in quanto il passato finisce nel presente e il presente nel futuro, e cioè in quanto non vi sono differenze reali nel tempo. Nel tempo circolare, quando il circolo produce una perfezione, un compimento, si potrebbe riconoscere una scansione di 53

tempi, cioè uno sviluppo i cui momenti non siano indifferenziati: in quanto compimento la fine si distingue dagli altri momenti del processo e anche dall’inizio, a cui pure si ricongiunge; a differenza di quanto avviene in un tempo lineare puro (separato – ripeto – dall’eterno) dove nessun punto è inizio, nessun punto è mezzo e nessun punto è fine. In realtà, alla luce della sensibilità cristiana, la circolarità non produce nessuna perfezione e diventa un progresso insensato di circoli, una linearità dei circoli. Da questo punto di vista non vi è più differenza sostanziale fra tempo lineare e tempo circolare. Un tempo puramente lineare, che non vada da nessuna parte e che non provenga da nessuna parte, è un tempo che non è segnato da differenze e che ripete sempre la medesima impotenza a produrre il nuovo, la differenza, è ripetitivo come l’indefinita ripetizione di un circolo. Così come, inversamente, un’indefinita ripetizione del circolo diventa linearità dispersiva priva ormai di ogni somiglianza con l’eternità: questa, fra l’altro, è forse la differenza fra l’eterno ritorno degli antichi e quello di Nietzsche, che subisce, nonostante tutto, il carattere della linearità cristiana, dell’insensatezza della semplice linearità che non è più immagine dell’eterno. 3. Gli istanti Quello che il tempo ha perso, soprattutto nella modernità, non è solo la somiglianza con l’eternità, ma anche la stessa qualità di tempo, e ciò in quanto ha perso la possibilità di distinguere i suoi tempi diventando pura dispersione. Ora una vera distinzione di tempi è possibile in una concezione lineare del tempo più che in una concezione circolare (perché in questa i tempi diversi se si distinguono anche si ricongiungono), ma solo se s’introducono nella linea del tempo punti fermi di separazione e di distinzione, punti fermi nel senso di punti di svolta, di rottura della continuità. Questi punti di svolta e di discontinuità non possono appartenere al fluire del tempo, devono essere altro dal tempo, perché appunto lo devono interrompere. Il paradosso del tempo è allora il fatto che ciò che fa il tempo è ciò che in certo modo lo nega, e questa negazione del tempo che costituisce il tempo può essere solo 54

l’eternità, cioè il tempo che non fluisce, che non è mediato e che non media (non tra-scorre). Il rapporto con l’eternità, con un’eternità che divide e articola il tempo, è stato pensato sostanzialmente in due modi: come irruzione dell’eterno nella forma dell’istante, che risale a Kierkegaard ma è stata ripresa dall’esistenzialismo e si ritrova anche in altre forme del pensiero contemporaneo, e come dottrina degli eoni sviluppata soprattutto da Schelling e recentemente ripresa da Pareyson. È nelle Briciole di filosofia, come noto, che Kierkegaard introduce il tema dell’istante, dell’attimo temporale, intendendolo come un presente di novità e di discontinuità assoluta, ciò che per lui è possibile solo alla luce del paradosso cristiano dell’eterno che si unisce al tempo. L’istante è breve e temporale, com’è ogni istante; è transeunte, com’è ogni istante; è passato, com’è ogni istante nell’istante successivo. Eppure esso è l’istante decisivo, eppure esso è riempito dall’eternità. Un momento siffatto deve allora avere un nome speciale: chiamiamolo la pienezza dei tempi21.

È quella presenza dell’eterno nel tempo, che nell’orizzonte cristiano è esperienza della grazia, esperienza di rottura e di svolta, esperienza del passaggio dalla morte alla vita, esperienza che separa e istituisce un passato qualitativamente diverso dal presente ed anche, possiamo aggiungere, prefigura un tempo futuro qualitativamente diverso, quello in cui la grazia non sarà più in lotta con il peccato. Ma il congiungimento di eternità e tempo è paradossale: è infatti «l’eternizzazione della realtà storica e la storicizzazione dell’eternità»22. L’esperienza cristiana del tempo si differenzia allora radicalmente da quella greca. Per il cristiano è l’esperienza di un tempo tagliato dall’eternità e di un’eternità che s’installa nel tempo. Per il greco, per Socrate, invece – scrive Kierkegaard – «i momenti dell’eternità e della storia stanno fra loro separati» e «il momento storico è soltanto occasione»23; nella storia non avviene alcun passaggio all’eternità, perché per Socrate l’eternità è già da sempre posseduta e si tratta solo di ricordarla, ciò che è appunto reso possibile dall’occasione storica. In questo modo non vi è vero con55

giungimento di tempo ed eternità; vi è solo un passaggio dal piano del tempo a quello dell’eternità. Questo passaggio è sì un salto, non però nel tempo, ma invece fuori del tempo. Nel tempo greco non vi è nessun salto qualitativo, e dunque nessuna discontinuità: poiché l’eternità non è presente nel tempo, questo può sì essere specchio e immagine dell’eternità, ma non può essere veramente tempo, in senso forte e pieno, perché non si dà in esso alcuna vera novità né del presente rispetto al passato né del futuro rispetto al presente. Se l’ordine dell’eternità continua a restare semplicemente sovrastante all’ordine della temporalità, allora la temporalità, benché immagine dell’eterno, può indebolirsi fino a perdersi. 4. Gli eoni: Schelling Ancora più stretto è l’intreccio di tempo ed eternità nel pensiero di Schelling. In Kierkegaard resta la dualità dei piani, che consente l’inserzione di quello superiore in quello inferiore e persino costringe a pensare, come si è detto, non solo «l’eternizzazione della realtà storica», ma anche e addirittura «la storicizzazione dell’eternità». Ma quest’ultima va intesa soltanto come entrata dell’eterno nella storia, come un farsi storico dell’eterno, non invece come un’introduzione della temporalità nell’eterno; è l’eterno che entra nel tempo e non viceversa; l’intreccio di tempo ed eternità è visto dalla parte del tempo e non dalla parte dell’eternità. Questo intreccio più ardito l’ha pensato Schelling, per il quale non solo l’eternità diventa costitutiva della temporalità, ma anche la temporalità diventa costitutiva dell’eternità. Un ardito intreccio che viene presentato da Schelling come l’unica soluzione possibile al problema dell’inizio del tempo. L’inizio, infatti, richiede precisamente l’introduzione di una differenza qualitativa, in virtù della quale esso può essere veramente inizio: l’inizio è come tale una differenza assoluta, una differenza che non può sussistere se esso appartiene al tempo di cui è l’inizio, e che, d’altra parte, nemmeno può essere semplicemente l’eternità, dal momento che dalla pura eternità non si vede come si possa uscire. L’inizio può essere allora solo tra l’eternità e il tempo, temporale in quanto dà inizio al tempo, eterno in quanto lo precede. Se fos56

se solo nel tempo, vi sarebbe un altro tempo che lo precede e dunque non sarebbe inizio, se fosse solo fuori del tempo non potrebbe essere il primo movimento del tempo. La geniale soluzione di Schelling consiste nel pensare l’inizio come una temporalizzazione dell’eterno. La tesi è già avanzata nelle lezioni del 1827/28: Ogni inizio presuppone già un passato. Ma questo passato non può essere visto come una parte di questo tempo presente, ma come uno specifico tempo per sé stante, che diventa tempo solo in quanto diventa passato24.

Due punti sono qui essenziali. In primo luogo non vi è tempo senza distinzione di tempi; perciò «l’unico modo di pensare il sorgere del tempo è che insieme – in un solo atto – vengano posti passato, presente, futuro»25. Dunque non vi può essere un tempo iniziale presente che non presupponga già un tempo precedente. In secondo luogo il passato che va presupposto al presente del tempo mondano non solo non può appartenere a questo tempo, ma anche deve essere un tempo che diventa tale solo in virtù dell’introduzione del tempo mondano: L’unico modo possibile perché un inizio del tempo si ponga […] è appunto che qualcosa che prima era non tempo sia posto come tempo, quindi come passato26.

Questo passato, questo tempo non tempo, è il cercato elemento intermedio fra eternità e tempo, è cioè da un lato eternità (in quanto precede il tempo), ma dall’altro possibilità del tempo, e, come tale, distinto dall’eternità assoluta. Insomma l’atto creativo che pone il tempo lo fa costituendo non solo il presente del mondo (l’eone del presente), ma con ciò anche trasformando quell’eternità relativa in passato del mondo (l’eone del passato)27. Più precisamente, con la creazione si distinguono i tre grandi tempi, gli eoni, e cioè: 1. L’eternità prima del tempo, la quale è posta attraverso la creazione come passato; 2. il tempo della creazione stessa, che è il presente; 3. il tempo in cui tutto attraverso la creazione deve essere raggiunto, e che si pone come l’eternità futura28.

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Ora questa visione del tempo implica altri punti importanti. Anzitutto che vi sia tempo soltanto in virtù di una discontinuità qualitativa fra i tempi: così la distinzione tra l’eone presente e quello passato presuppone un atto che «introduce qualcosa di completamente nuovo, di mai stato»29. Il secondo, conseguente al primo, è che la temporalità mondana è pensata da Schelling come abbracciata dall’eternità: la differenza qualitativa comporta che il tempo del mondo creato, che è fluire continuo, abbia un inizio e una conclusione come punti fermi e immutabili, e che perciò i tempi che precedono e seguono siano tempi eterni. Schelling conferma che non si può pensare il tempo se non come intrecciato con l’eternità, altrimenti si dissolve la temporalità stessa, perché viene meno la differenza qualitativa che è costitutiva della distinzione dei tempi. La terza e ulteriore conseguenza è che viene temporalizzata l’eternità. Più precisamente: in Dio un’eternità assoluta viene distinta dalle eternità precedente e seguente al mondo. La prima è definita come sovratemporale30, le seconde sono invece semplicemente prima e dopo il tempo. L’eternità assoluta «non può mai diventare un elemento del tempo, perché non è toccata per nulla dal tempo, anzi non toccata dal tempo resta e persiste immobile attraverso il tempo stesso»31. Ma Dio non è soltanto questa eternità, Dio è libertà, movimento e vita, e proprio per questo anche temporalità. Si badi che questa articolazione di Dio non è conseguenza soltanto della creazione: se così fosse, Dio sarebbe Dio solo in virtù della creazione. Ma invece Schelling pensa a un’articolazione originaria di Dio, secondo la quale a Dio, inteso come puro eterno esistente, si presenta – dall’eternità ma non secondo quell’assoluta eternità – la possibilità della creazione o la creazione come possibile (che egli identifica con la figura biblica della Sapienza), che peraltro non è semplicemente accessoria ma costitutiva dell’essenza divina: l’atto creativo presuppone non solo l’eternità assoluta e pura, ma anche quell’altra eternità, «quella eternità precedente al mondo la quale […] contiene il mondo ancora soltanto come avvenire nella immaginazione o nell’intelletto divino»32. È questa seconda eternità ciò che consente di pensare la vita divina come sviluppo di figure diverse ed esercizio di libertà. Il punto essenziale qui è l’idea di un’alterità intradivina originaria. Il tempo è possibile solo perché Dio non è soltanto pura unità e pura 58

eternità, ma è invece costituito da una pura unità e una pura eternità che si relazionano alla totalità del possibile, cioè alla potenza del mondo. Quest’alterità intradivina consente di pensare insieme la temporalità del mondo e la libertà di Dio, che nella pura immobile eternità non si potrebbe esercitare. Ecco dunque che la temporalità s’intreccia in Schelling non solo con l’eternità, ma anche con la libertà, un intreccio essenziale su cui dovremo tornare. 5. Gli eoni: Pareyson Largamente e consapevolmente influenzato da Schelling è Pareyson, che purtroppo non è giunto ad elaborare compiutamente la sua dottrina della temporalità. Rispetto a Schelling Pareyson accentua il salto, la novità assoluta che segna il passaggio da un’estasi temporale all’altra, accentuazione che risulta dalla tesi che ogni eone è in sé concluso e potrebbe non trapassare nel successivo33; e in secondo luogo la discontinuità è marcata dal fatto, già peraltro riconosciuto da Schelling, che per ogni eone il vero passato e il vero futuro appartengono a un altro ordine temporale, a un altro eone34. Anche per Pareyson la storia temporale si intreccia con l’eternità: «il tempo non si può comprendere, non essendo solo flusso e dispersione, se non facendolo pervadere da una storia eterna»35. Dunque il tempo non è tempo senza intreccio con l’eternità; anzi questa è la condizione perché non vada distrutto: Senza legame con l’eternità, che nella forma più intensa è la presenza dell’eterno nel tempo come Dio stesso incarnato nella storia, e nella sua forma più lieve è l’essere teso fra la protologia e l’escatologia, il tempo di per sé non resisterebbe alla distruttività del male: rientrerebbe nel nulla36.

E come la storia umana ha una dimensione di eternità, così l’eternità ha una dimensione storica. L’eternità, scrive Pareyson, «deve necessariamente scandirsi ‘temporalmente’, perché l’eternità senza tempo è statica, è inerte e non è certo quella del ‘Dio vivente’»37. L’eternità di cui egli parla è quella dell’esperienza religiosa, nella quale essa appare né come «intemporalità di un mondo ideale» né come «totalità puntuale» né come «durata infinita»38, ma 59

invece, appunto, come temporalità dell’eterno. È possibile pensare una storia dell’eternità ponendo una successione di eoni (di cui Pareyson presenta un’articolazione più ampia e diversa rispetto a quella che troviamo in Schelling) fra i quali ci sia distinzione ma non intervallo, una distinzione cioè che non infranga l’eternità39. 6. Eoni e istanti È necessario a questo punto approfondire i caratteri dei due ordini di temporalità e delle loro relazioni. Il primo problema che si presenta è quello di fondare meglio la temporalità della storia temporale-mondana. Ora una condizione necessaria della temporalità mondana è, come abbiamo visto, la sua inserzione nella successione degli eoni, fra la protologia e l’escatologia. Ma questa condizione non mi pare sufficiente, perché ne fa un semplice presente, ben definito, come presente, dalla sua relazione con il passato protologico e con il futuro escatologico, ma privo di articolazioni temporali al suo interno. Soccorre qui la dottrina kierkegaardiana degli istanti, ripresa da Pareyson nel passo poco sopra citato, nel quale distingue proprio due forme di legame fra tempo ed eternità, quella che inserisce il tempo mondano fra gli eoni e quella che pensa l’inserzione dell’eterno nel tempo mondano. Gli istanti sono il presente dell’eternità nel tempo mondano, mentre gli eoni che lo precedono e che lo seguono sono l’eternità che ne definisce l’inizio e la fine. L’inizio del tempo mondano è un tempo dell’eternità, così come lo è la sua conclusione; c’è un passato più passato di ogni passato, c’è un futuro più futuro di ogni futuro. E però c’è anche un presente più presente di ogni presente, l’istante, che taglia il tempo al centro invece che all’inizio e alla fine. Con questo taglio, con questa discontinuità e rottura, l’istante istituisce il passato e il futuro interni alla temporalità mondana e questa diventa allora non solo un eone fra gli eoni, ma essa stessa una vera temporalità articolata nelle tre estasi. L’istante nella prospettiva di Kierkegaard e di Pareyson è quello dell’incarnazione e quello della grazia. È l’istante che separa qualitativamente il prima e il dopo, quello in cui si fa esperienza di una novità radicale, esperienza di conversione, ma anche, più laicamente, di svolta esistenziale. L’istante è anche, prima ancora, quello della nascita e quello della morte. La nascita e la morte dell’uomo sono non sem60

plici eventi del ciclo naturale, ma eventi in cui, potremmo dire, accade un miracolo, cioè rispettivamente s’istituisce o si compie un rapporto con l’eternità (perché l’uomo è rapporto con l’eternità). E si può pensare che ogni nuovo inizio, il primo o quelli successivi, dia l’avvio a una durata, a una successione che svolge quanto nell’inizio è contenuto, senza introdurre vera novità. Nella temporalità mondana allora vi è insieme una temporalità decaduta, svolgimento ripetitivo (e anche dissolutivo) del già posto, e una temporalità autentica, vale a dire un’articolazione in estasi temporali realmente distinte, che ricalcano a livello intramondano l’articolazione degli eoni. Se allora l’eone protologico è il passato più passato di ogni passato storico-mondano e quello escatologico è il futuro più futuro di ogni futuro storico-mondano, anche il secondo passato e il secondo futuro sono però effettivamente e autenticamente passato e futuro; e diremo che sono tali perché ricalcano i primi: sono cioè la presenza dell’eterno passato nel passato mondano e dell’eterno futuro nel futuro mondano, così come l’istante è l’eterno presente nel presente temporale. Occorre tuttavia aggiungere, per completare l’analisi, che, se la dottrina degli eoni non basta da sé sola a fondare la temporalità intramondana, allo stesso modo non bastano da soli gli istanti. Questa insufficienza caratterizza molte concezioni filosofiche contemporanee della temporalità. Fra queste, come esempio, ricordo quella di Lévinas (almeno il Lévinas di Totalità e infinito, perché in seguito la sua posizione sarà in parte diversa). Egli pensa la temporalità come continuo oltrepassamento della morte, discontinuità nella continuità, cioè sempre nuovo inizio. È una sorta di resurrezione, ma pensata secondo la struttura della fecondità, è cioè una «resurrezione nel figlio»40, che è il padre come altro: «la paternità è la relazione con un estraneo che pur essendo altri […] è me»41. Nel tempo discontinuo-continuo della fecondità ricomincia l’avventura dell’esistenza, al di là della vittoria della morte: Il tempo discontinuo della fecondità rende possibile una giovinezza assoluta e un nuovo inizio, pur lasciando al nuovo inizio una relazione con il passato nuovamente iniziato, in un libero ritorno42.

E tuttavia Lévinas è consapevole dell’insufficienza di questa soluzione, perché il tempo rende possibile non solo il nuovo ini61

zio, ma anche la «rivincita del male di cui il tempo infinito non impedisce il ritorno»43. Il tempo infinito è infinita apertura (negazione di ogni totalità chiusa) e come tale manifesta la trascendenza, ma dall’altro lato ricade ogni volta nella negazione della trascendenza manifestata. Per questo Lévinas è costretto a recuperare l’escatologia in un senso proprio e ultrastorico (diverso da quello che egli usa abitualmente) dicendo: Il sogno di un’eternità felice […] non è una semplice aberrazione. La verità esige contemporaneamente un tempo infinito e un tempo che potrà chiudere – un tempo compiuto.

Egli lascia però sospesa la possibilità di vedere in questa escatologia una nuova struttura del tempo: Il problema va al di là dei limiti di questo libro44.

Fermandosi sulla soglia del tempo escatologico Lévinas si rifiuta di pensarlo e soprattutto di accordarlo col tempo storico; ma con ciò mostra come non sia pensabile la novità nel tempo – il tempo come discontinuità – se non si pensa a un compimento del tempo, a un suo riconfluire nell’eternità. Senza di ciò, infatti, il tempo è condannato a un’eterna ripetizione che inghiotte tutte le novità che produce (la vittoria del male) e che, proprio per questo, finiscono per non essere più novità ma piuttosto momenti di un ciclo. La temporalità mondana è dunque pensabile solo preservando il suo duplice intreccio con l’eternità. 7. Storia dell’eternità Ancor più difficile e complessa è l’idea di una storia dell’eternità. Il problema peraltro è intrecciato strettamente con quello della relazione fra l’eternità e il tempo mondano, giacché la storicità dell’eterno, la sua vita e la sua libertà, le pensiamo precisamente a causa e a partire dalla sua relazione col mondo. Il problema non è però solo come l’eternità possa essere una storia, ma, più ancora, se non abbia un carattere ciclico, che finisce per negare quella differenza qualitativa fra gli eoni, che costituisce la storicità autentica. 62

Pareyson in effetti pensa la storia eterna proprio come una storia ciclica: Linearità dell’eone storia, ciclicità degli eoni: l’apocatastasi raggiunge (s’immedesima con) l’autooriginazione divina45.

Con la ciclicità egli vuole rendere compatibili storia e immutabilità divina: Dio non può cambiare o, meglio, cambia solo agli occhi dell’uomo; egli è sempre vittoria del bene sul male, lo è certo in modo diverso nella protologia e nell’escatologia, e tuttavia questa differenza pare dipendere esclusivamente dal nostro punto di vista: C’è dunque differenza fra il Dio che ha scelto il bene, che è egli stesso l’irreversibilità della scelta del bene, che è il bene scelto, e la positività finale di Dio che ha annientato il male, dopo che il male ha tentato di trionfare nella storia e di coinvolgere la stessa divinità? Pare di sì, ma è illusione ottica dovuta al fatto che il punto di vista è il tempo46.

Pareyson rifiuta l’idea di un Dio diveniente, di una teogonia, cioè di un processo nel quale Dio si arricchisce47. Ciò significa due cose: primo, che «la storia eterna divina non viene modificata dalla storia temporale umana»48; e, secondo, che nella storia divina i momenti sono certamente distinti ma simultanei: Dio è vittoria sul male sempre, crea sempre, s’incarna, soffre e muore, risorge sempre; l’uomo cade sempre, l’uomo cade ed è redento, dannato e salvato al tempo stesso49.

Come intendere queste difficili tesi, che peraltro Pareyson non ha potuto elaborare compiutamente? Che Dio non divenga significa anzitutto che non ha bisogno degli atti di creazione e redenzione per essere Dio: quegli atti sono espressione della sua libertà e non tappe di un processo di autoformazione. La difficoltà sta nel fatto che non riusciamo a immaginare un esercizio della libertà che non diventi anche processo di autoformazione. Per l’uomo non è così: i suoi atti, benché liberi, non lo lasciano immutato ma lo trasformano. Dunque non basta pensare Dio come libero per negare il processo teogonico. E in effetti Pareyson aggiunge la tesi, più decisiva, della simultaneità dei momenti della storia divina. 63

Tutto accade sempre, non nel senso che si ripete sempre, ma nel senso che è sempre, sì che Dio è immutabile in quanto è sempre la sua storia nella totalità dei suoi momenti: «Dio stesso è questa storia nella sua eternità e nient’altro che questo»50. Ma, ci si può allora chiedere di nuovo, come si può sostenere che la storia umana (in particolare la caduta) sia ininfluente rispetto alla storia divina? Se Dio è costituito dalla totalità dei momenti della storia eterna, allora la caduta, con quel che ne consegue, appartengono essenzialmente alla storia divina, la quale perciò finisce per dipendere dalla storia umana. Hegel ha scelto la strada più facile per accordare le due storie, quella di identificarle. Molto più difficile è tenere la distinzione dei due piani, dell’eternità e del tempo, e insieme il loro intreccio. La soluzione che sembra emergere dal testo di Pareyson è quella di un tempo abbracciato dall’eternità. La storia del mondo è un eone che appartiene anche alla storia eterna. Dal punto di vista divino tutto sta sul piano dell’eternità, tutti i momenti della storia dell’essere, che è insieme divina e umana, si danno simultaneamente. Ma allora anche la storia umana va pensata sub specie aeternitatis. Come è possibile farlo, senza vanificarla come storia? Pensando anche gli atti di libertà costitutivi della storia umana fuori del flusso temporale (giacché eccedono ogni flusso temporale), così come già Kant li ha pensati. Anche la storia umana può allora essere abbracciata dall’eternità, perché ciò che la costituisce come storia, gli atti di libertà non solo divini ma anche umani, sono pensabili come differenti ma simultanei, anche se ci appaiono come successivi. Dio non muta, non perché sia unità indifferenziata e senza relazione col mondo, ma perché sta nella dimensione della simultaneità di momenti distinti. Non seguirei allora fino in fondo Pareyson nel dire che il Dio dell’inizio coincide con quello della fine, un’espressione che sembra contenere un ultimo residuo della ciclicità platonica; e tuttavia quell’espressione la si può interpretare diversamente evitando i rischi della ciclicità, interpretandola cioè nel senso che Dio è il medesimo all’inizio e alla fine perché tutti i momenti sono egualmente costitutivi del suo essere, un essere che si è liberamente costituito.

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8. Alterità nell’eternità Questa visione dell’eternità divina è accettabile solo sul presupposto della fede e della speranza nel compimento della storia umana e, anche filosoficamente, non può valere altrimenti: essa è l’elucidazione filosofica dell’esperienza della fede e della speranza. Due punti infatti vanno sottolineati. Il primo è che restando all’interno dell’eone mondano, il suo passaggio all’eone successivo non può essere visto e perciò il Dio dell’escatologia non può essere affermato con certezza. Il secondo è che, in ogni caso, quel passaggio non è necessario (altrimenti non vi sarebbe differenza di eone) e perciò non possiamo conoscerlo se non dopo che è avvenuto, ma, mentre per noi quel «dopo» significa una distanza incolmabile, per Dio è una differenza che può essere abbracciata. Per noi il passaggio potrebbe non avvenire, perché effettivamente appartiene alla sua natura il poter non avvenire; per Dio è avvenuto (se è avvenuto) perché egli è la storia dell’eternità. Dunque non si può dire che la vicenda storica, collocata nella serie degli eoni (nella storia dell’eternità), sia già decisa. Essa è per sua natura incerta e aperta a qualsiasi esito, noi possiamo soltanto sperare che essa rientri nell’eternità: nemmeno la certezza del suo provenire dall’eternità (ma neppure questa abbiamo) può garantirci su questo esito. Se però entra nell’eternità, allora dobbiamo dire che dal punto di vista di Dio vi è da sempre entrata. Bisogna allora pensare l’eternità come un’articolazione di estasi (gli eoni), una delle quali, la storia mondana, contiene anche differenze e svolgimenti interni, ma fra le quali, invece, vi è un rapporto di alterità, un’alterità che è eterna non meno che l’unità. È opportuno evidenziare qui la distinzione fra differenza e alterità. La prima, che non a caso ha il senso temporale del differire, del protrarre, non introduce nessuna discontinuità: dia-fero significa essere differente ma anche diffondere oppure continuare, portare a termine. La differenziazione è l’espansione temporale dell’istante. Invece l’alterità interrompe l’espansione temporale e introduce le estasi temporali, le vere differenze qualitative. Un’eternità come articolazione di estasi è un’eternità discreta, nella quale ci sono i salti senza la durata e in cui tutto è dato simultaneamente senza che ci si riduca a una pura identità. 65

Quella dell’alterità nell’eternità è, come si è già visto, una grande e decisiva idea di Schelling, che ha pensato l’essere divino articolato in momenti irriducibili all’identità, come costituito da uno scarto interno, in virtù del quale soltanto diventa pensabile la sua libertà (e le sue conseguenze, tra le quali, in primo luogo, i tempi dell’eternità). Per l’ultimo Schelling Dio si pone come alterità, ma non per semplice divisione dell’unità originaria. In qualche modo l’alterità è inscritta anch’essa originariamente nell’essere divino (quella che Schelling pensa come alterità di esistenza ed essenza). Dicevo che questa articolazione dell’essere divino è in funzione della giustificazione della sua libertà, e anche l’aver messo in luce questo nesso di alterità e libertà è un grandissimo merito di Schelling. La libertà in effetti è non solo posizione di sé, ma anche, inseparabilmente, posizione dell’altro; non semplice autoaffermazione (come gran parte dell’idealismo aveva pensato), ma istituzione di uno scarto ontologico, introduzione di una discontinuità: ciò che essa pone lo pone non come espressione del proprio essere (altrimenti si tratterebbe di necessità), ma come innovazione ontologica. Ma perché sia possibile la libertà come posizione dell’altro, si richiede che la possibilità dell’alterità sia già inscritta nella sua originaria costituzione. Si richiede perciò che Dio sia originariamente la sintesi paradossale di identità e alterità. 9. Tempo e libertà Non posso sviluppare qui adeguatamente questo tema, che è il tema dei fondamenti ontologici. Ma posso e debbo toccare ancora un punto essenziale, vale a dire il nesso fra temporalità e libertà. Un nesso che peraltro ho già toccato e che si tratta solo di ribadire. Ribadire, in particolare, che non ci può essere temporalità autentica senza interruzioni e salti qualitativi e che l’unico modo per spiegare questi salti è attribuirli alla libertà. È la libertà, dunque, che istituisce la temporalità. Ma non si dovrà dire che essa istituisce non solo la temporalità divina, ma anche quella mondana? Non è forse l’azione libera che introduce salti nello scorrere del tempo, che decide e innova, che separa aprendo il nuovo? Non è forse la libertà che assegna ad ogni opera e ad ogni evento la qualità temporale? Il suo intervento istituisce un presente che si allontana dal passato o apre un avvenire che chiude con il presen66

te. Ma se è la libertà (e l’alterità conseguente) ciò che consente di distinguere le epoche dell’eternità, non abbiamo forse detto che è invece l’eternità ciò che consente di pensare la temporalità mondana? Come si conciliano le due prospettive? È la libertà o l’eternità ciò che distingue i tempi della nostra storia? L’eternità rappresenta rispetto al tempo mondano, come abbiamo visto, la possibilità di articolare le estasi temporali facendo uscire il tempo dal flusso indistinto o dall’eterna ripetizione. Ma il modo in cui l’eternità entra in rapporto col tempo mondano, sia in quanto lo apre sia in quanto lo chiude sia in quanto lo attraversa, è l’introduzione di un’interruzione e l’istituzione di un’alterità di tempi. Eternità e libertà operano allo stesso modo all’interno della temporalità, e questo dovrà essere più facile da comprendere dopo che abbiamo già pensato l’eternità in termini di libertà e di storia. Certo è necessario ribaltare una lunga tradizione che ha pensato eternità e libertà in completa opposizione. Questo ribaltamento può trovare un prezioso appiglio, come ho già ricordato, in Kant, per il quale la libertà non si può pensare nell’ordine del continuum temporale, che non può produrre nulla di nuovo (nulla che non sia necessitato, direbbe Kant): la libertà appartiene all’ordine noumenico. Se, andando questa volta oltre Kant, ammettiamo la possibilità di una fenomenicità della libertà come tale, di un suo intervento che interrompa il continuum temporale, allora possiamo riconoscere che, attraverso la libertà, è l’eternità a manifestarsi e a intervenire nel tempo. Pensando l’eternità a partire dalla libertà e come libertà possiamo pensare adeguatamente anche il tempo e la sua relazione con l’eternità stessa uscendo dalle aporie in cui il predominio della categoria della necessità aveva cacciato tutta la questione, con il risultato di irrigidire l’eternità, di impoverire la temporalità e di pensare il loro rapporto in termini soltanto di esclusione reciproca. Solo a partire dalla libertà possiamo riguadagnare tutta la ricchezza di problemi e di contenuti che la tradizione metafisica ci ha consegnato senza però consegnarci le categorie adeguate per appropriarci di quella ricchezza.

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Note 1 F.W.J. Schelling, Initia philosophiae universae. Erlanger Vorlesungen WS 1820/21, a cura di H. Fuhrmans, Bouvier, Bonn 1969, p. 115. 2 Ibid. 3 Vedi Enneadi III, 7, 11, 12, 13; e anche V, 1, 4; III, 7, 1. 4 Diels, 12 A 4. 5 Diels, 12 A 1. 6 Diels, 12 B 1. 7 Diels, 14 A 8. 8 Nemesio, De natura hominis, 38, 277. 9 Penso in particolare a Plotino, Enneadi III, 7, 1. 10 Confessiones XI, 11. 11 Cfr. ivi, XI, 13, 14, 30. 12 Vedi ivi, XI, 20, 27, 28. 13 Vedi ivi, XI, 13. 14 System der Weltalter. Münchener Vorlesungen 1827/28 in einer Nachschrift von Ernst von Lasaulx, a cura di S. Peetz, Klostermann, Frankfurt a.M. 1990, p. 204. 15 Ibid. 16 Schelling’s System der Weltalter oder II. Teil der positiven Philosophie, pubblicato insieme a System der positiven Philosophie I. Teil con il titolo Grundlegung der positiven Philosophie, a cura di H. Fuhrmans, Bottega d’Erasmo, Torino 1972, p. 486. 17 F.W.J. Schelling, Sämmtliche Werke, a cura di K.F.A. Schelling, Cotta, Stuttgart-Augsburg 1856-61, XIV, p. 109; trad. it. Filosofia della rivelazione, a cura di A. Bausola, Zanichelli, Bologna 1972, II, pp. 209-10. 18 Schelling’s System der Weltalter oder II. Teil der positiven Philosophie, cit., pp. 88-89. 19 System der Weltalter. Münchener Vorlesungen 1827/28 in einer Nachschrift von Ernst von Lasaulx, cit., p. 210. 20 Vedi ibid.; e F.W.J. Schelling, Einleitung in die Philosophie (Nachschrift di H. Beckers), a cura di W.E. Ehrhardt, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1989, pp. 139-41. 21 S. Kierkegaard, Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p. 209. 22 Ivi, p. 232. 23 Ivi, pp. 231-32. 24 System der Weltalter. Münchener Vorlesungen 1827/28 in einer Nachschrift von Ernst von Lasaulx, cit., p. 208. 25 F.W.J. Schelling, Urfassung der Philosophie der Offenbarung, a cura di W.E. Ehrhardt, Meiner, Hamburg 1992, p. 163. 26 F.W.J. Schelling, Sämmtliche Werke, cit., XIV, p. 109; trad. it. cit., II, p. 209. 27 Cfr. ivi, XIII, pp. 306-308; trad. it. cit., I, pp. 384-86. 28 Cfr. ivi, XIV, p. 109; trad. it. cit., II, p. 209. 29 F.W.J. Schelling, Urfassung der Philosophie der Offenbarung, cit., pp. 163164. 30 Id., Sämmtliche Werke, cit., XIV, p. 108; trad. it. cit., II, p. 209. 31 Ivi, XIII, p. 308; trad. it. cit., I, p. 386.

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Ibid.; cfr. ivi, XIV, p. 108; trad. it. cit., II, p. 209. L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, pp. 300-301, 303-304. 34 Cfr. ivi, p. 304. 35 Ivi, pp. 65-66; cfr. anche p. 323. 36 Ivi, p. 65. 37 Ibid. 38 Ivi, p. 64. 39 Ivi, p. 321. 40 E. Lévinas, Totalité et Infini, Kluwer, Dordrecht 1992, p. 50; trad. it. a cura di A. Dall’Asta, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980, p. 55. 41 Ivi, p. 310; trad. it. cit., p. 286. 42 Ivi, p. 315; trad. it. cit., pp. 292-93. 43 Ivi, p. 318; trad. it. cit., p. 295. 44 Ibid.; cfr. E. Lévinas, Ethique et infini, Fayard, Paris 1982, p. 122. 45 L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 312; cfr. anche p. 303. 46 Ivi, pp. 323-24; cfr. anche pp. 308-309. 47 Ivi, pp. 63, 320. 48 Ivi, pp. 306, 333. 49 Ivi, p. 80. 50 Ivi, p. 320. 32 33

Maurizio Pagano

Tempo ed eternità nella lettura hegeliana della religione

1. Tempo, concetto e spirito Il tempo è il concetto stesso che esiste in modo determinato, e si rappresenta alla coscienza come intuizione vuota; perciò lo spirito appare necessariamente nel tempo, e appare nel tempo fino a che non coglie il suo puro concetto, cioè fino a che non cancella (tilgt) il tempo. Il tempo è il puro Sé esteriore intuito, ma non appreso dal Sé, il concetto soltanto intuito; quando questo coglie se stesso, supera la sua forma temporale, concepisce l’intuire, ed è intuire che è concepito e concepisce. – Il tempo appare quindi come il destino e la necessità dello spirito che non è compiuto in sé, come la necessità [...] di realizzare e di rivelare ciò che in un primo tempo è interiore, cioè di rivendicarlo alla certezza di se stesso1.

Questo passo famoso, che appartiene al capitolo conclusivo della Fenomenologia dello spirito, risulta certo, a una prima lettura, piuttosto arduo e in qualche misura enigmatico; tuttavia esso offre il vantaggio di porre sotto gli occhi, in modo estremamente incisivo, la questione del rapporto tra il tempo e il concetto nonché, in una prospettiva più ampia che svilupperemo più avanti, quella del rapporto tra il tempo e lo spirito. Si vede subito che il rapporto tra tempo e concetto ha una struttura complessa; da una parte v’è un legame, una segreta affinità che si spinge fino a una certa forma di identità, che peraltro viene subito limitata drasticamente: l’identità con il tempo riguarda il concetto solo in quanto esso ha un’esistenza determinata ed è «soltanto intuito». Dall’altra parte emerge una differenza, anzi un’opposizione radicale: il tempo appartiene alla sfera dell’esteriorità, l’esperienza temporale si muove al livello dell’intuizione, e la sua forma alla fine viene soppressa, quando il contenu70

to dell’intuizione viene riportato al concetto. Questo duplice rapporto tra il tempo e il concetto viene pienamente confermato da un passo dell’Enciclopedia, che introduce anche il tema del rapporto tra il tempo e il soggetto: Il tempo è il medesimo principio dell’io=io della pura autocoscienza; ma è il medesimo principio o il semplice concetto ancora nella sua totale esteriorità, il semplice divenire intuito, il puro essere in sé come semplicemente un venir-fuori-di-sé2.

Anche qui l’identità di principio con il concetto viene ribadita, ma si rovescia subito in una dimensione di esteriorità che è di per sé l’opposto della natura del concetto. Ciò che questi passi per ora ci indicano è dunque che il tempo si colloca su un piano che è certamente altro da quello del concetto, ma che al tempo stesso, a questo suo livello, esso intrattiene una relazione essenziale con il concetto. Il tempo, possiamo dire, è coestensivo al concetto3. Il tema del rapporto tra tempo e concetto percorre in effetti tutta la riflessione sistematica di Hegel: preparato nella logica, esso prende forma nella filosofia della natura, si sviluppa lungo tutta la filosofia dello spirito e ha, come vedremo, nella filosofia della religione un nodo di primaria importanza. Se guardiamo questo processo dal punto di partenza, dobbiamo osservare anzitutto che il tempo è, con lo spazio, la prima forma di esteriorizzazione dell’idea. La natura è per Hegel la dimensione dell’esteriorità; in tutte le sue esposizioni Hegel ha presentato spazio e tempo come i primi gradi di questa esteriorizzazione. Lo spazio è la prima forma di questa esteriorità, l’astratto «essere fuori di sé», l’esser «l’uno accanto all’altro» (das Nebeneinander) del tutto ideale, in cui la differenza, la negatività, per quanto presente, non può affermarsi (Enc. A § 197, Enc. C § 254). Questo avviene nel tempo, che è l’emergere della negatività; nello spazio i molti punti coesistono, nel tempo il punto, come ora, esclude ogni altro: così il tempo è «unità negativa dell’esteriorità» (Enc. C § 258). Lo spazio è, per così dire, ecumenico, è la dimensione della coesistenza, in cui più punti o, in concreto, più realtà o più forme naturali, trovano posto insieme. Il tempo invece è selettivo, ogni ora si afferma per sé negando tutti gli altri, per scomparire a sua volta facendo posto a un nuovo ora altrettanto esclusivo e altret71

tanto caduco. Questo carattere selettivo, questo sviluppo della negatività, fa sì che il tempo, già a questo livello naturale, accenni a un rapporto privilegiato con lo spirito. Questo legame trova in effetti una conferma esplicita nell’ambito della filosofia dello spirito: quando, nella introduzione alle sue Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel vuole presentare nella forma più elementare la nozione di spirito, egli ricorre a una contrapposizione con la sfera naturale, e in particolare con la materia, che è «l’assoluto opposto» dello spirito. La caratteristica della materia è la pesantezza: essa è composta di un insieme di parti, esterne le une alle altre, che tendono verso un centro di gravità. Ma proprio per questa esteriorità reciproca essa non può raggiungere mai quell’unità che pure cerca. Anche lo spirito tende verso un centro, ma il suo vantaggio consiste nell’avere il suo centro dentro di sé; o meglio, lo spirito stesso è il suo proprio centro. Lo spirito a differenza della materia ha la sua unità in sé, è «l’esser presso di sé», e qui si radica la sua libertà. La libertà d’altra parte implica l’attività: lo spirito realizza se stesso, e la sua attività consiste proprio nel prodursi, e nel riconoscersi in modo sempre più ricco e profondo nelle sue realizzazioni4. Questa differenza si articola ulteriormente quando Hegel, venendo a illustrare il corso della storia del mondo, si sofferma sul concetto di sviluppo (Entwicklung), contrapponendolo alla nozione, astratta e quantitativa, di progresso. Diversamente dal progresso, lo sviluppo implica che «a fondamento vi sia una determinazione interna, un presupposto sussistente in sé, che si traduca in esistenza» (VG 151, FDS 152). Il fenomeno dello sviluppo si registra egualmente nella natura e nello spirito: anche nella natura l’individuo organico produce se stesso, ma questo percorso è privo di ostacoli e si afferma senza contrasti. Nello spirito invece la realizzazione di sé è mediata da coscienza e volontà; la volontà deve affermarsi lavorando all’interno della vita immediata e naturale; quest’ultima tuttavia, per quanto immediata, è però già una condizione naturale dello spirito, è già animata da lui, ed è quindi in grado di offrire una resistenza infinita e già «spirituale» all’opera della volontà. «Così lo spirito è in se stesso opposto a se stesso, deve superare se medesimo come il vero ostacolo ostile per il raggiungimento del suo fine», sicché lo sviluppo «è nello spirito, ad 72

un tempo, una lotta dura e infinita contro se stesso» (VG 151-152, FDS 153). Questa differenza fa emergere un elemento decisivo per noi. Nella natura lo sviluppo comporta un mutamento, che però ha un andamento ciclico, regolato da una legge per cui la specie si riproduce nell’individuo ogni volta in modo identico. Una gradazione in senso ascendente si può certo constatare se consideriamo la serie delle forme naturali dalla luce su su fino all’uomo: in questa prospettiva ogni nuovo gradino della natura è una trasformazione di quello precedente, che annuncia insieme l’avvento di un principio superiore. Tuttavia proprio qui si manifesta la differenza decisiva: Ma nella natura questi momenti si separano, e tutti i singoli germogli coesistono uno accanto all’altro: il trapasso si manifesta solo allo spirito pensante, che comprende tale nesso (VG 153, FDS 155).

L’elemento davvero caratteristico dello spirito consiste invece nel fatto che la forma superiore è prodotta dall’elaborazione di quella precedente, che quindi viene negata; certo questa elaborazione è una trasformazione, una Aufhebung, sicché la vecchia forma non viene annientata: piuttosto, proprio mentre viene negata nella sua assolutezza e autonomia, viene conservata e integrata all’interno della nuova come un suo momento. Ma proprio questo aspetto è caratteristico dello spirito: esso solo è capace di rendere interno a sé il suo passato, di conservarlo come momento di un tutto; nella natura invece le forme diverse restano inevitabilmente in un rapporto di esteriorità reciproca. Nello sviluppo dello spirito, dunque, la vecchia forma ha cessato di esistere; ed è appunto perché si manifesti questo, cioè il fatto che ogni nuova forma sia la trasfigurazione della precedente, che l’apparire delle forme spirituali cade nel tempo (VG 154, FDS 156).

Il legame segreto che avevamo intravisto tra il tempo e lo spirito comincia a prendere forma: è proprio il carattere selettivo del tempo, la sua capacità di negazione, che lo collega allo spirito: È conforme al concetto dello spirito che lo sviluppo della storia cada nel tempo. Il tempo implica la nota del negativo. Vi è qualcosa, un

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evento, per noi positivo; ma il fatto che possa darsi anche il suo contrario, questa relazione al non-essere, è il tempo: e questa relazione è propriamente tale che noi non solo la pensiamo, ma anche l’intuiamo. Il tempo è questo momento del tutto astratto, sensibile (VG 153, FDS 154-155).

Nello spazio, si è visto, tutte le forme possono coesistere, secondo la vocazione tipica della natura; il carattere selettivo e negativo del tempo apre la strada all’opposizione, alla lotta, al passaggio dall’essere al non-essere, che peraltro non è garantito né scontato, come vorrebbe un’interpretazione convenzionale e superficiale di Hegel. Se torniamo a guardare il nostro percorso, relativo al rapporto del tempo con il concetto e con lo spirito, dal suo punto d’arrivo, possiamo ora dire che il tempo, che ci si era presentato all’inizio come una delle prime forme di esteriorizzazione dell’idea, si afferma adesso come l’elemento del maturare dello spirito: La storia del mondo è così, in generale, il dispiegarsi dello spirito nel tempo, nello stesso modo in cui l’idea si dispiega come natura nello spazio (VG 154, FDS 156).

Il privilegio ben noto che Hegel accorda allo spirito rispetto alla natura si articola qui in un modo che permette di spiegare anche la preferenza, e la particolare attenzione, che egli rivolge al tempo. La natura è com’è, nulla di nuovo si registra in essa; nella sua sfera non v’è spazio per una reale alternativa, per una scelta o per una responsabilità. Lo spirito al contrario è quello che realizza se stesso; certo lo spirito c’è già all’inizio del percorso, all’inizio di ogni avventura umana, altrimenti non potrebbe realizzarsi; ma in questo primo momento del cammino esso è presente come un germe, come una virtualità che richiede di essere sviluppata. Questo sviluppo può realizzarsi oppure no, può dispiegarsi completamente oppure arrestarsi e fallire, come dimostra la storia con innumerevoli esempi; e proprio in questo interviene la libertà e la responsabilità dello spirito. La libertà per Hegel è essenzialmente e prima di tutto libertà positiva, libertà che ha lo spirito di realizzare la propria identità (e in questo compare l’elemento della necessità, giacché lo spirito non può realizzare altro che se stesso); 74

ma questa libertà positiva include anche il momento della scelta e quindi l’elemento della possibilità, giacché ad ogni momento lo spirito si trova dinnanzi all’alternativa se realizzarsi o ricadere nella sua dimensione naturale. Hegel non ama particolarmente la bella dote di natura: la sua sensibilità, prima ancora che la sua filosofia, non è sollecitata da ciò che abbiamo per natura o da ciò che riceviamo come dono gratuito; la sua passione va tutta a ciò che acquistiamo con sforzo e con scelta, e anche nella libertà egli scorge soprattutto il momento della scelta responsabile e dell’autorealizzazione. Egli non è un filosofo della natura o della gratuità, ma piuttosto un pensatore del lavoro, Arbeit, o meglio dell’elaborazione, dell’erarbeiten, del processo e della lotta in cui lo spirito agisce e matura. Se lo spazio indica la dimensione della libera coesistenza naturale, che non impone di scegliere tra le diverse alternative, il tempo è invece proprio questa dimensione dell’elaborare trasformando e dello scegliere, che come abbiamo visto è costitutiva dello spirito. Ma il tempo è ancipite: in esso tutto sorge, ma anche tutto perisce; così esso ci appare come «Chronos che genera tutto e distrugge le sue creature» (Enc. A § 201 A = Enc. C § 258 A), e il suo potere di dissoluzione si manifesta con particolare evidenza nel mondo storico, con la rovina degli Stati e delle creazioni dell’uomo. Il tempo porta dunque con sé la fine dei regni e degli imperi, ma la vera forza che li distrugge, secondo Hegel, è quella del pensiero; quando un popolo giunge a completa maturazione, infatti, esso acquista una piena consapevolezza di sé, ma questa coscienza spirituale a cui perviene si dispiega ormai su un piano ideale, prende le distanze dalla realtà effettiva e alla lunga giunge a negarla. In questo fenomeno storico si manifesta più profondamente l’affinità tra lo spirito e il tempo: «Il tempo è così, certo, l’elemento corrosivo del negativo: ma lo stesso spirito è proprio questo dissolvere ogni contenuto determinato» (VG 178, FDS 184). Il contributo del tempo al farsi dello spirito non è dunque garantito in anticipo: esso ha un immenso potenziale distruttivo, ma al tempo stesso è condizione irrinunciabile di ogni manifestazione positiva dello spirito, se questa è sempre un farsi, un prodursi, che richiede inevitabilmente il tempo. In questo suo carattere ancipite il tempo ci si mostra dunque come la sede dell’esercizio della libertà. 75

Fin qui abbiamo constatato che il tempo è coestensivo al concetto, e poi che esso è il luogo d’elezione dell’autorealizzazione dello spirito. A questo punto è legittimo chiederci se si può determinare più precisamente il rapporto del tempo al concetto, ossia se si può indicare specificamente, all’interno dell’esperienza temporale e della sua struttura, un rimando positivo alla sfera intemporale del concetto, che Hegel qualifica sempre come «eterna». Questo è in effetti un tema capitale, su cui Hegel non cessa di tornare, svolgendolo però con accentuazioni diverse nelle varie fasi del suo pensiero. Negli abbozzi di sistema jenesi del 1804/05 e del 1805/06, particolarmente in quest’ultimo, il rapporto tempo-eternità si colloca all’interno della filosofia della natura. Qui Hegel analizza le tre dimensioni del tempo e mostra il movimento per cui il presente trapassa nel futuro, e questo a sua volta si nega nel passato. Attraverso questo percorso circolare le tre dimensioni del tempo si raccolgono in unità; questa unità va pensata allora come un presente che non è più una dimensione del tempo, ma il tempo come tempo, ossia l’eternità. Nel pensiero maturo di Hegel la questione riceve un’accentuazione diversa. L’Enciclopedia rinuncia ad articolare il rapporto tra le tre dimensioni giacché, come si dichiara esplicitamente (Enc. A § 202A = Enc. C § 259A), nella natura sussiste solo l’ora del presente, mentre passato e futuro trovano posto solo nella nostra rappresentazione soggettiva. I riferimenti all’eternità, che sono ancora piuttosto significativi nella prima edizione heidelberghese, vengono attenuati nelle edizioni berlinesi, dove rimangono soltanto le precisazioni negative, che contrappongono il tempo all’eternità del vero, inteso come idea e come spirito, e dicono soltanto come non si deve intendere l’eternità. Questo però non deve far pensare che il nostro problema venga accantonato; esso piuttosto viene spostato, ed è trattato con diverse e convergenti angolature nei corsi di lezione, dedicati alla filosofia dello spirito. Il rapporto del tempo all’eternità, secondo il pensiero maturo di Hegel, trova la sua sede più adatta non al livello del tempo naturale, ma sul piano dell’esperienza dello spirito5. Possiamo comprendere questo se torniamo a considerare la vicenda storica dello spirito. Questo si realizza, s’è detto, elaborando se stesso, trasformando ogni volta il principio che ha guidato la sua organizzazione precedente. In questa operazione abbiamo 76

considerato soprattutto il lato negativo, ma essa contiene come suo rovescio l’elemento positivo: il principio precedente pretendeva di far valere come assoluta la sua prospettiva; ora essa viene negata, e integrata come elemento particolare in un orizzonte più universale. In questa universalità, che ogni volta si afferma, agisce in positivo proprio la forza dello spirito: esso è la verità, che c’era già prima alla base di tutto il movimento, una verità che è eternamente presente, ma che realizza questa sua presenza efficace proprio ritrovandosi ogni volta in maniera più ampia e profonda6. La verità, l’eternità dello spirito, è sì una forma di presenza, ma solo nel senso di una presenza efficace: essa non è statica, ma è solo in quanto ogni volta si realizza, rendendosi effettuale; così essa riporta sempre di nuovo il passato alla dimensione eterna della verità sempre presente. Il rapporto tra il tempo e l’eterno che così si disegna sul piano dell’esperienza spirituale fa dunque emergere un profondo intreccio tra le due dimensioni, che va ben al di là del semplice parallelismo tra due livelli, distinti e coestensivi, da cui eravamo partiti: il tempo non è, senza la spinta dello spirito a uscire da sé, a negarsi e a progredire; a sua volta l’eterno non è, senza il percorso che lo genera, attraverso la negazione e l’integrazione. 2. Tempo ed eternità nella religione In questa prospettiva è agevole comprendere il ruolo centrale che assume l’esperienza religiosa per lo sviluppo della nostra questione: la religione infatti è la sfera in cui la conciliazione entra nel mondo e viene conosciuta; perciò essa è, in senso eminente, il luogo d’incontro di tempo ed eterno. Questo intreccio di tempo ed eternità si manifesta già nella struttura peculiare della filosofia della religione, che non si ritrova in nessun’altra disciplina del sistema; in tutti i quattro corsi che Hegel tiene a Berlino sulla filosofia della religione, tra il 1821 e il 1831, la materia si articola in tre parti: la prima è il concetto di religione, che fissa il luogo della religione nel percorso complessivo dello spirito e delinea la struttura intemporale dell’esperienza religiosa come rapporto tra umano e divino; la seconda è la «religione determinata», ossia la storia delle religioni finite e la terza è 77

la «religione compiuta», che contiene l’esposizione del cristianesimo. L’intreccio di cui dicevo si annuncia già qui, nella forma di un reciproco rimando: il concetto da un lato regge la storia e guida l’interpretazione di ogni singola religione, dall’altro rinvia all’esperienza storica, anzi la esige, perché solo attraverso di essa lo spirito si realizza e si conosce; da parte sua la storia è sì la realizzazione del concetto, ma non ne è sganciata, non oltrepassa il territorio determinato dal concetto. La prova più evidente di ciò è il fatto che il punto d’arrivo della storia delle religioni, e cioè il cristianesimo, è la «religione compiuta» non perché sia la semplice somma o la totalizzazione delle esperienze storiche, ma perché è la realizzazione adeguata del concetto di religione. In tutte e tre le parti della filosofia della religione è possibile indicare, a mio avviso, un punto nodale intorno a cui Hegel si affatica, anche variando le sue soluzioni da un corso all’altro, e che rinvia in modo più o meno diretto al nesso tra la dimensione storica e temporale dell’esperienza e la sfera eterna del concetto e dello spirito7. Il concetto di religione è la parte a cui Hegel ha dedicato, passando da un corso all’altro, i più profondi rifacimenti. Una delle questioni che qui gli stanno più a cuore è quella di determinare il luogo specifico della sfera religiosa e il suo rapporto al resto dell’esperienza. La religione è «la coscienza del vero in sé e per sé», il punto che segna l’ingresso a pieno titolo della coscienza nella dimensione speculativa dello spirito assoluto. Di contro all’intuizione, che coglie il reale come totalità immediata, e all’intelletto, che lo scinde in un insieme di determinazioni distinte e separate, solo lo sguardo speculativo, che si annuncia in forma rappresentativa nella religione e si compie nel concetto filosofico, coglie il reale come l’unità profonda degli opposti che lo compongono. L’esperienza dello spirito consiste dunque in un percorso di ascesa che, muovendo dai gradi più bassi e immediati, si eleva gradualmente al livello dell’elemento speculativo. Questo viene raggiunto nella religione, che dunque rappresenta la verità del mondo ed è propriamente il risultato di questa ascesa. Al tempo stesso, però, bisogna subito aggiungere che essa può essere questa verità del mondo solo perché è vera in sé e per sé; la religione dunque supera in se stessa questo carattere di risultato e si pone come il primo vero, in cui tutto il resto trova la sua adeguata mediazione. 78

Nasce di qui uno dei compiti principali intorno a cui ruota il lavoro di Hegel in questa parte: se il concetto di religione deve dimostrare in termini generali la verità della religione, occorrerà prima mostrare che essa è un risultato, e poi sviluppare la sua verità in quanto tale; il primo gradino richiede di interpretare il senso complessivo dell’esperienza come un’ascesa verso la dimensione religiosa, il secondo esige di sviluppare questa verità ormai ottenuta. Hegel propone diverse soluzioni per questo problema nei vari corsi; ciò che qui mi preme mettere in rilievo è che in questo intreccio di ascesa e sviluppo vive già in tutta la sua ricchezza la tensione di tempo ed eterno: l’ascesa si muove sul terreno temporale e storico dell’esperienza, lo sviluppo si dispiega sul terreno speculativo, riprende sul piano intemporale del concetto il senso di quel primo cammino. Nel manoscritto redatto per il primo corso (1821) Hegel mostra come l’esperienza temporale viene ripresa e inverata nella vita della Trinità, dove il Figlio è la verità di questo mondo finito; in seguito, a partire dal 1824, lo sviluppo è rappresentato dallo stesso concetto di religione: questo infatti costituisce un nuovo percorso, in cui lo spirito finito muove dal riconoscimento del divino nella natura e, attraverso l’esperienza religiosa e il culto, si congiunge con lo spirito assoluto. Lo sviluppo religioso ripete l’ascesa temporale ma, ponendo Dio come vero inizio, si colloca fin da principio sul terreno della verità. Tutti i corsi di filosofia della religione, del resto, si aprono con una breve considerazione che illustra in forma discorsiva questo punto centrale: la sfera della religione è il fine ultimo e vero di per sé, in cui tutti gli altri fini confluiscono e trovano il loro appagamento e la loro ultima dimensione; la religione è «una vita con e nell’eterno»8, è la coscienza assolutamente libera, in cui lo spirito è scaricato del peso della finitezza. Così in tutti i popoli la religione è vissuta come «la domenica della vita», una domenica che prende sangue e concretezza dall’esperienza degli altri giorni, e insieme conferisce senso alla vita che in essi si conduce. D’altra parte non bisogna pensare che Hegel dimentichi o metta in sordina la dimensione conflittuale dell’esperienza religiosa: in un celebre passo del manoscritto del 1821 egli analizza in termini suggestivi la dimensione individuale dell’esperienza religiosa, mostrando come essa sia tutta intessuta dalla tensione e dal conflitto tra l’elemento universale ed eterno e la realtà con79

creta e temporale dell’individuo. Nella religione io sono presente come io pensante e coscienza universale e al tempo stesso come essere assolutamente individuale e concreto; ciascuno di questi estremi è l’io, e l’io da parte sua è quello che li connette: E il tener insieme, il connettere è esso stesso questo che si combatte in uno, questo che si unisce nella lotta; ovvero io sono la lotta (Ich bin der Kampf ). [...] Io non sono uno dei soggetti coinvolti nella lotta – io sono ambedue i combattenti. [...] Io sono il fuoco e l’acqua che si toccano, e il contatto di elementi ora separati e scissi, ora riconciliati e unificati – unità di ciò che assolutamente si sfugge; e proprio questo contatto è esso stesso questa doppia, contrastante relazione come relazione (R III 121; cfr. FDR I 218-19, trad. modificata).

Il tema del contrasto, della «lotta dura e infinita» dello spirito con se stesso, che avevamo incontrato all’inizio, viene dunque ripreso, in forma intensificata, nella sfera religiosa; e anche qui, come del resto per l’esposizione più generale della Filosofia della storia, bisogna osservare che questa lotta interna allo spirito, questa tensione tra il singolare e l’universale, non si ferma alla compresenza dei due opposti, ma conduce all’affermazione dell’elemento universale del pensiero, il quale tuttavia, specialmente nell’esperienza religiosa, non può mai annullare il riferimento all’elemento singolo. La seconda parte dell’opera, dedicata alla «religione determinata», illustra come s’è detto il modo in cui il concetto si realizza nella storia delle religioni finite. Il concetto guida l’interpretazione delle singole religioni, scandendone la lettura nei tre momenti del concetto generale e implicito di Dio, della rappresentazione come rapporto del soggetto con l’oggetto divino e infine del culto come riunificazione dei due lati. Secondo le ripetute dichiarazioni di Hegel la logica dovrebbe comandare anche l’articolazione del disegno generale della storia delle religioni. In realtà il quadro che emerge da una considerazione comparata dei quattro corsi è assai più complesso e movimentato: il conclamato predominio della logica si può riscontrare in effetti solo nel primo corso. A partire dal 1824 Hegel amplia di molto la sua conoscenza del materiale storico e al tempo stesso elabora schemi più articolati per interpretarlo. Nel secondo corso il molto materiale appena 80

raccolto viene riunito con una certa fatica sotto lo schema di un’elevazione dalla natura allo spirito, e questo itinerario viene illustrato combinando schemi fenomenologici ed elementi logici. Nel 1827 si afferma in modo più coerente il principio-guida dello spirito e del suo percorso di elevazione, che rimanda solo in modo indiretto alla logica, come legge immanente della sua realizzazione. Nel 1831 l’interesse per lo spirito si precisa in uno sguardo più attento al tema dell’incarnazione e quindi al rapporto tra umano e divino. Senza dubbio si può affermare che il nodo intorno a cui ruota il lavoro di Hegel è il nesso tra il concetto e la storia; tuttavia non si tratta di un percorso preordinato, per cui il materiale venga inserito a forza entro schemi determinati a priori, ma piuttosto di uno sforzo sempre rinnovato di connettere la dimensione argomentativa e universale della logica con l’interpretazione dell’elemento storico e concreto. Ciò che così si delinea è un’attenzione sempre più matura e consapevole per la dimensione dello spirito e per l’unità di umano e divino che esso afferma9. Lo spirito è presente e opera fin dall’inizio del cammino storico, ma può realizzarsi solo attraverso l’intero arco della storia. Tuttavia il percorso della religione determinata è ben lontano dal registrare una serie progressiva di successi: esso al contrario si conclude, nella religione di Roma, con un totale fallimento. Hegel offre una descrizione spietata del mondo romano, in cui è scomparso ogni interesse per la verità e per l’idea, lo spirito è ridotto solo al finito, la religione nasce dal bisogno ed è tutta asservita al perseguimento degli scopi finiti dell’uomo. La religione romana rappresenta la completa inversione dell’essenza della religione come libertà: essa contiene tutti i momenti della religione, ma li esprime in forma rovesciata e contraffatta, ed è in questo modo che essa compie la storia delle religioni. La potenza dello Stato romano schiaccia gli spiriti dei singoli popoli, annienta la serena coscienza che si esprimeva nella religione greca; Roma così porta nel mondo l’infinito dolore e induce l’umanità a disperare di trovare soddisfazione nella temporalità e nella finitezza. La riconciliazione di questo dolore richiede che la finitezza sia accolta nell’universale, e che l’universale all’inverso ottenga una realtà presente. L’intuizione dell’universale non può trovarsi nella religione romana della finitezza, ma solo in un popolo che, come quello ebraico, ha mantenuto l’astratto principio orientale dell’uno e ha fatto a sua volta 81

l’esperienza radicale del dolore, che nasce per esso proprio dalla separazione da Dio. Quando il principio orientale dell’uno si congiunge con il principio della finitezza dell’Occidente, il finito può essere accolto, con l’incarnazione cristiana, nell’universale divino. Con questa considerazione, che ci rimanda decisamente alla filosofia della storia, Hegel interpreta il significato dell’espressione biblica secondo cui Dio mandò il suo Figlio «quando il tempo fu compiuto» (Gal. 4,4). Il nodo intorno a cui ruota l’esposizione della «religione compiuta» è il rapporto tra la dimensione eterna di Dio e la sua rivelazione nella storia, tra la Trinità immanente e la Trinità economica. In questo tema confluisce la problematica filosofica del rapporto tra tempo ed eternità; verso questo punto del resto convergono anche le linee portanti che reggono il disegno dell’intera filosofia della religione, il cui asse maggiore è costituito dal rapporto tra il concetto di religione e la sua realizzazione nella storia. Il contenuto del concetto di religione è il rapporto del soggetto umano con l’oggetto divino; questo implica un duplice movimento, per cui il soggetto si eleva dalla natura a Dio, mentre da parte sua il divino si manifesta all’uomo. Questo movimento si realizza progressivamente nella storia delle religioni finite, anche se in esse non trova il suo compimento. Il punto d’arrivo viene raggiunto nel cristianesimo, dove si fa manifesto che Dio non è semplicemente un oggetto astratto per la coscienza, ma è a sua volta soggettività, spirito che si fa oggetto e si comunica a se stesso: il concetto di religione, come rapporto del soggetto con il divino, viene quindi tematizzato esplicitamente dal cristianesimo. Perciò Hegel può dire da una parte che qui la religione conosce finalmente se stessa, il suo concetto, e che d’altra parte in questo punto la coscienza riconosce Dio come la sua propria essenza. La prima tappa dell’esposizione del cristianesimo si muove nell’elemento astratto del pensiero universale, e concerne Dio nella sua eterna idea, considerato per così dire prima e all’infuori della creazione del mondo. Se Dio è spirito, ciò significa che egli è processo, movimento, vita. Così la vita eterna di Dio è un differenziarsi, un porsi in un altro rimanendo in questo altro identico a sé. Questo rapporto è ciò che la religione cristiana esprime con la rappresentazione della generazione eterna del Figlio dal Padre, mentre a questo livello intratrinitario lo Spirito esprime, secondo 82

la lettura di Hegel, l’identità delle due prime persone. Il filosofo si preoccupa di sottolineare che occorre tenere ferma la distinzione del Figlio dal mondo; d’altra parte mette anche in evidenza che questa articolazione eterna della vita divina rimanda alla sua apparizione nel tempo e nella realtà del mondo. Nella seconda sfera l’alterità, che nel primo momento era unita a Dio come Figlio, viene posta nella sua indipendenza, e appare come natura e spirito finito. È su questo terreno che si sviluppa l’autoaffermazione del finito, che giunge fino al male e alla separazione da Dio; essa comporta così l’esperienza del dolore, che come abbiamo visto raggiunge la sua forma estrema nel mondo romano e nel popolo ebraico, suscitando così al tempo stesso il bisogno della piena riconciliazione. Perché questa si adempia, non basta che la coscienza dell’unità della natura umana con quella divina resti sul piano universale del puro pensiero: occorre che essa si manifesti sul piano del finito, si realizzi nell’esistenza temporale. L’elemento universale, il Dio che la logica pensa, appare veramente tale, e capace di illuminare il senso dell’essere, solo se assume il finito fino all’estremo dello svuotamento della sua universalità, fino alla certezza immediata dell’È: solo così esso raggiunge veramente il concreto e lo unisce a sé. Se Dio s’incarnasse in alcuni individui sarebbe solo un’astrazione, sarebbe un concetto che noi potremmo astrarre da queste diverse incarnazioni, mentre soltanto nel senso cristiano si ha questa congiunzione piena e questo scambio tra l’universale e il concreto, sicché quest’ultimo assume veramente una portata e una dimensione universale: «Una volta è tutte le volte», annota Hegel nel suo manoscritto (R V 49, FDR III 119), per ribadire che solo la singolarità dell’evento garantisce la vera universalità. Il tema dell’incarnazione, come unità del divino con l’umano, che come abbiamo visto percorre tutta la storia delle religioni, raggiunge dunque la sua pienezza nel cristianesimo. Nella lettura hegeliana esso culmina nella kénosis, si compie nella morte di Cristo. La morte è il culmine della finitezza e, come morte di Dio, è la più alta alienazione dell’idea divina; ma nella croce di Cristo essa è insieme rinuncia suprema di sé a favore dell’altro: la morte è così il punto di svolta, in cui l’estremo della finitizzazione diviene negazione e superamento della finitezza. Quella disperazione nei confronti del finito che avevamo incontrato nel mondo romano viene 83

dunque ripresa e trasformata nella morte di Cristo. Al tempo stesso quest’ultima mostra che l’alterità, il negativo, la finitezza è un momento della stessa natura divina. Così la storia umana viene posta in Dio, il tempo è assunto nell’eterno e la riconciliazione è compiuta. Ma questa riconciliazione non ha alcun senso, soggiunge Hegel, se Dio non è conosciuto come trino: la Trinità immanente, la natura autodifferenziantesi di Dio, è il presupposto della riconciliazione nella storia; per converso, solo nella storia la verità eterna di questo presupposto ottiene certezza per la coscienza. La terza sfera è il regno dello Spirito. Il percorso che si era svolto fin qui muoveva dalla verità eterna per giungere alla sua apparizione nella realtà storica e temporale; il cammino della fede della comunità procede in ordine inverso: parte dall’intuizione sensibile, che però deve essere cancellata, per giungere alla sua verità eterna, così che la storia dell’uomo Gesù viene compresa come la storia eterna di Dio, il cui significato è l’unità della natura divina e dell’umana. Per il soggetto che compie questo cammino Dio non è più un aldilà, non è più un oggetto, ma è saputo come soggettività infinita, che è presente e agisce in lui. Questa tesi non significa che lo spirito assoluto sia identificato direttamente con la soggettività finita, né tanto meno che esso sia ridotto alla pluralità dei soggetti: il soggetto si sa come momento dello spirito universale proprio in quanto si oppone alla sua naturalità e si eleva al di sopra della propria finitezza; e del resto Hegel ribadisce che non è l’agire della comunità da sola a produrre l’unificazione con l’assoluto: essa lo può fare proprio perché la riconciliazione in sé è già compiuta. In questo esito del regno dello Spirito il cammino della filosofia della religione ottiene dunque un coronamento complesso, che offre anche una veduta assai articolata sul rapporto tra il tempo e l’eternità. Come s’è visto, già il concetto di religione riprende sul piano intemporale della verità il risultato dell’elevazione che si attua sul terreno dell’esperienza finita. A sua volta questo concetto rinvia alla storia, in cui soltanto può cercare la sua realizzazione. D’altra parte bisogna aspettare la religione assoluta per constatare che lì la Trinità immanente offre il vero compimento del concetto di religione, che solo a questo punto diviene tematicamente oggetto di conoscenza; ma di nuovo questa sfera eterna di Dio rinvia alla sua rivelazione nella storia. La sua manifestazione storica 84

ruota tutta intorno alla croce, che è al tempo stesso l’estremo della finitezza e il punto di svolta, che nega questa finitezza e la riporta nell’eterno. La conciliazione ultima che a questo punto si attua nello spirito resta profondamente attraversata dal segno del negativo: l’identità di finito e infinito che in essa si realizza passa attraverso la negazione, è un’identità nella differenza. In questa luce possiamo forse considerare l’incontro tra le due linee del rapporto tempo-eternità che abbiamo seguito nella nostra ricerca: la convergenza del tempo con l’eterno che abbiamo constatato sul piano dell’esperienza storica si compie qui con l’assunzione della temporalità finita nell’eternità dello spirito divino; ma come in quest’ultimo caso la finitezza si nega e si supera nello spirito divino senza che questo ponga fine all’esperienza della finitezza, appunto perché si tratta di un’identità dialettica, così l’inserzione nella sfera eterna della verità ricapitola ma non annulla la dimensione temporale dell’esperienza.

Note G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, a cura di W. Bonsiepen e R. Heede, in Gesammelte Werke, Meiner, Hamburg 1968 sgg., vol. IX (1980), p. 429 (cfr. trad. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 19602, vol. II, p. 298; nel testo peraltro riporto la mia traduzione apparsa in G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di M. Pagano, SEI, Torino 1996, p. 149). 2 G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1817), in Sämtliche Werke. Jubiläumsausgabe, a cura di H. Glockner, vol. 6, Frommans, Stuttgart 1927 (citato d’ora in poi, anche nel testo, con la sigla Enc. A, il numero del paragrafo e l’eventuale indicazione A per le note), § 201 A; trad. it. di F. Biasutti, L. Bignami, F. Chiereghin, G.F. Frigo, G. Granello, F. Menegoni, A. Moretto, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Verifiche, Trento 1987; questo testo si trova identico anche nella terza edizione del 1830, ora in Gesammelte Werke, cit., vol. XX, a cura di W. Bonsiepen e H.-Chr. Lucas, Meiner, Hamburg 1992 (citato d’ora in poi, anche nel testo, con la sigla Enc. C), § 258 A; trad. it. di B. Croce, Laterza, Bari 1967. 3 Cfr. L. Lugarini, Tempo e concetto nella comprensione hegeliana della storia, in «Il Pensiero», 1981, pp. 7-38, in particolare p. 18. 4 G.W.F. Hegel, Die Vernunft in der Geschichte, a cura di J. Hoffmeister, Meiner, Hamburg 1955, pp. 54-56 (citato d’ora in poi, anche nel testo, con la sigla VG); trad. it. di G. Calogero e C. Fatta, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1941, pp. 37-39 (traduzione citata d’ora in poi, anche nel testo, con la sigla FDS). 1

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5 Cfr. M. Monaldi, Hegel e la storia, Guida, Napoli 2000; inoltre W. Bonsiepen, Hegels Raum-Zeit-Lehre. Dargestellt anhand zweier Vorlesungs-Nachschriften, in «Hegel-Studien», XX, 1985, pp. 9-78. 6 Cfr. R. Bodei, Die «Metaphysik der Zeit» in Hegels Geschichte der Philosophie, in Hegels Logik der Philosophie, a cura di D. Henrich e R.-P. Horstmann, Klett-Cotta, Stuttgart 1984, pp. 79-98. Sui temi trattati in questa prima parte ho tenuto particolarmente presenti F. Chiereghin, Tempo e storia in Hegel, in «Verifiche», 1994, pp. 17-56, nonché L. Ruggiu, Tempo e concetto in Hegel, in Filosofia del tempo, a cura di L. Ruggiu, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 145161 e L. Samonà, Tempo, storia, teodicea. Una lettura ermeneutica della «Filosofia della storia» di Hegel, in Forme e linguaggi della filosofia, a cura di N. De Domenico, E. Giambalvo, L. Samonà, Università degli Studi-Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi, Palermo 1999, pp. 299-326. 7 Per lo sfondo di questa lettura della filosofia della religione, come pure per le principali indicazioni bibliografiche e le discussioni relative, rimando al mio volume Hegel. La religione e l’ermeneutica del concetto, ESI, Napoli 1992. 8 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, a cura di W. Jaeschke, nella serie Vorlesungen. Ausgewählte Nachschriften und Manuskripte, voll. III-V, Meiner, Hamburg 1983-85 (citato d’ora in poi con la sigla R); trad. it. di E. Oberti e G. Borruso, Lezioni sulla filosofia della religione, 3 voll., Laterza, Roma-Bari 1983 (traduzione citata d’ora in poi, anche nel testo, con la sigla FDR; questa traduzione, tuttavia, si riferisce alla precedente edizione a cura di G. Lasson); il passo qui citato si trova in R III 4, FDR I 3. 9 Sulla religione determinata rinvio a M. Pagano, La storia delle religioni nell’interpretazione di Hegel, in «Annuario Filosofico», 10, 1994, pp. 325-73, nonché al volume già citato di M. Monaldi e al suo precedente lavoro Storicità e religione in Hegel, ETS, Pisa 1996. Su questa parte, come pure su tutta l’opera, resta fondamentale W. Jaeschke, Die Vernunft in der Religion, FrommannHolzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1986.

Adriano Fabris

Aporie del tempo

1. Percorsi aporetici Il titolo che ho proposto per questo mio saggio può sembrare, come spesso accade per i titoli, tanto scontato quanto oscuro. Scontato: perché segnalare il carattere aporetico del tempo non è certo una novità, dal momento che il problema è avvertito ed elaborato adeguatamente fin dal pensiero greco. Oscuro: perché, appunto tenendo conto di queste difficoltà e dei loro tentativi di soluzione, non si comprende immediatamente che cosa possa significare la riproposizione, oggi, di questo tema. Tanto più di fronte alle trasformazioni che questo concetto ha avuto nell’ambito della riflessione, soprattutto scientifica, del Novecento. Che cosa significa, allora, parlare in questa sede di «aporie del tempo»? Vuol dire forse soffermarsi ancora una volta sui diversi modi in cui una tale aporetica si è configurata, allo scopo di proporre l’ennesima soluzione, più o meno persuasiva, di un tale problema? Vuol dire, in altre parole, riproporre il modello argomentativo proprio di una certa interpretazione della filosofia greca, quello che fa del tempo un ambito a partire dal quale si può giungere, con una serie di giustificati passaggi, alla dimensione atemporale? Niente di tutto questo, va detto subito, è nelle mie intenzioni. Ciò che intendo fare nei riguardi delle aporie, in molti casi ben note, che rivisiterò, non è affatto animato dalla volontà di rendere funzionale una tale rivisitazione al rinvenimento di una via d’uscita dalla situazione aporetica in cui l’indagine filosofica, affrontando il tema del tempo, si trova fin da subito coinvolta. Questo, a ben vedere, è ad esempio il modo di procedere consueto di Aristotele, da lui teorizzato in Metafisica III 1: un’impostazione a cui non sfug87

ge, come sappiamo, neppure la sua trattazione del tempo condotta in Fisica IV. Invece, ciò che propongo è un vero e proprio percorso aporetico: un percorso, cioè, che passa da aporia ad aporia, e che dunque trova, grazie a questo suo passare, non già una soluzione, bensì la possibilità di un suo radicale approfondimento. Sono ben consapevole del carattere ossimorico di una tale espressione, «percorso aporetico»: un andare oltre che non trova uno sbocco definitivo, ma sembra complicare anzi, passo dopo passo, la possibilità di raggiungere una meta stabile. Ma è appunto questo, in conformità fra l’altro con la struttura stessa dell’aporia, il modo in cui può essere schematicamente ricostruita, in una prospettiva ermeneutica, la questione del rapporto fra il «tempo dell’uomo» e il «tempo di Dio». E dunque le tappe del nostro percorso, considerate da un tale punto di vista, riguarderanno nell’ordine (volendo usare espressioni puramente indicative): le aporie nel tempo; le aporie del tempo; le aporie del rapporto fra i tempi. E rispetto ad esse, in conclusione, verrà indicata non tanto una via d’uscita, quanto, piuttosto, un modo specifico di approfondirle, di «andare fino in fondo» con esse: un modo che sarà, diciamolo subito, anch’esso «temporale». 2. Aporie nel tempo Le aporie nel tempo sono quelle che soprattutto la filosofia greca – e la cosiddetta «metafisica classica» che ad essa si riconnette – hanno adeguatamente elaborato. Consideriamole, seppure in breve, secondo la ben nota versione aristotelica. In Fisica IV 10 Aristotele pone due domande fondamentali, rispetto a cui le risposte date dai predecessori denunciano particolari difficoltà: le difficoltà, appunto, alle quali egli darà soluzione nei capitoli seguenti (11-14) dello stesso libro. La prima domanda è: il tempo rientra nell’ambito dell’essente o in quello del non essente? In altre parole: qual è il modo d’essere del tempo? La seconda, invece, suona: che cos’è, appunto, il tempo? Quale ne è la natura? Ben sappiamo che la trattazione di Fisica IV 11-14 è soprattutto volta a rispondere alla seconda domanda e al chiarimento della ben nota definizione del tempo come «numero del movimento secondo il prima e il poi» (219 b, 1). Meno spazio è dato invece a una risposta esplicita alla prima questione: un problema 88

che, propriamente, è alla base delle aporie enucleate in IV 10 e che si ripropone sullo sfondo della successiva trattazione aristotelica dell’«istante» (to nyn: l’«ora»). Prendiamo appunto in esame queste aporie, nella loro struttura di fondo. Il tempo, inteso come un tutto, sembra essere un qualcosa, una ousia, che risulta da parti, i suoi «istanti», i quali propriamente non sono. Gli istanti passati non sono più, quelli futuri non sono ancora. Solo il momento attuale, puntualmente presente, è. Ma esso è davvero? Qual è, propriamente, la consistenza ontologica dell’istante? Esso infatti scorre: non può essere fissato, perché è sempre diverso. D’altra parte, questo carattere comune dei vari istanti temporali, il loro essere tutti sempre differenti, non può essere inteso nel senso della loro simultaneità: giacché, dice Aristotele, nessuna parte che sia sempre diversa può coesistere con un’altra, a meno che [come egli significativamente aggiunge] non si trovino per assurdo nella relazione di contenente-contenuto, come un tempo più breve è contenuto da uno più lungo1.

E dunque, se ogni momento è sempre diverso, dev’essere mantenuta la loro successione temporale, e quindi ogni istante deve trapassare in ogni altro, vale a dire: nessuno di essi è consistente in se stesso. Ma allora siamo di nuovo ricaduti nella difficoltà iniziale, quella di un tempo che è costituito da istanti che non sono. Sappiamo come Aristotele risolve una tale questione: con il riferimento alle nozioni di «limite» e di «continuità», di «potenza» e di «atto», elaborate sempre nei suoi trattati di Fisica. In IV 13 l’istante viene appunto definito, per un verso, «la continuità del tempo», in quanto «collega il tempo trascorso e quello che sarà»; per altro verso, «limite di tempo», perché è «principio dell’uno e fine dell’altro»2. In altre parole, esso divide solo in potenza: e, appunto in quanto divide, è sempre diverso; in quanto collega, invece, è sempre lo stesso. Insomma, l’istante «è il medesimo e la differenziazione e l’unificazione secondo il medesimo, ma il suo essere non è il medesimo»3. Riflettiamo un poco su queste parole. Che tipo di soluzione dell’aporia temporale, dell’aporia nel tempo, viene qui offerta? Si tratta davvero di una via d’uscita che raggiunge un livello ulterio89

re, un piano diverso in cui le problematiche precedenti sono ricomprese? Non sembra proprio. Qui, infatti, la soluzione di Aristotele è appunto quella di sostenere l’aporia, o meglio, di assumerla come sfondo preliminare per la comprensione del problema. L’incognita, per dir così, non va chiarita: va presa come tale al fine di risolvere altre questioni4. In questo quadro, il reciproco rimando di «limite» e di «continuità» nell’istante temporale consente di comprendere che cosa vuol dire, per qualcosa, «essere nel tempo», nonché di chiarire i diversi usi linguistici e il vocabolario stesso della temporalità. Tuttavia, nei capitoli 10-14 del libro IV della Fisica, Aristotele non si ferma qui. Infatti, nel suo reiterato affrontare la questione del tempo da molteplici punti di vista (secondo lo stile di questo trattato), resta per lui un nodo cruciale proprio quanto viene espresso nella precedente citazione di IV 13, 222 a 19-20: il fatto cioè che l’istante temporale «è il medesimo e la differenziazione e l’unificazione secondo il medesimo, ma il suo essere non è il medesimo». E dunque la domanda fondamentale a cui in questi termini era stata data risposta – la domanda, come abbiamo visto, «in che modo il tempo è?» – di fatto si ripropone ancora, sollecitando la ricerca di altri percorsi, spingendo cioè verso ulteriori, possibili soluzioni. Altre due strade, almeno, sono tentate da Aristotele, questa volta per uscire davvero dalla situazione aporetica, e non già per sostenerla. Entrambe sono individuate in IV 14: si tratta, rispettivamente, della questione che coinvolge il rapporto del tempo con l’anima e di quella che emerge dal fatto che il tempo «sembra essere presente in ogni cosa, sia sulla terra, sia nel mare che nel cielo»5. La discussione della prima, sulla quale non possiamo qui soffermarci, definisce un ambito d’indagine che sarà poi più volte riproposto, sempre al fine di risolvere l’aporia di ciò che è nel tempo, all’interno del pensiero occidentale: da Agostino fino a Husserl e a Heidegger6. La trattazione della seconda, che sarà meglio ripresa nel libro VIII, è quella che individua in un tipo di movimento ulteriore, e nella sua specifica temporalità, la soluzione dell’aporia, in cui ci siamo precedentemente imbattuti, della «simultaneità del diverso». È questa, come ora vedremo meglio, la via che anche seguirà la cosiddetta «metafisica classica». Ed è questo il modo in cui, più precisamente, si passa da ciò che abbiamo 90

chiamato le «aporie nel tempo» a ciò che può essere definito, invece, le «aporie del tempo». 3. Aporie del tempo Ricordiamo un passo di Fisica IV 10 che ho in precedenza citato: Nessuna parte che sia sempre diversa può coesistere con un’altra, a meno che non si trovino per assurdo nella relazione di contenentecontenuto, come un tempo più breve è contenuto da uno più lungo7.

Si delinea qui l’ipotesi di un tempo inteso come «contenente» e di un tempo concepito invece come «contenuto». Ebbene, proprio una tale ipotesi, seppure interpretata in un senso particolare, è quella che Aristotele stesso finisce per assumere. Riassumiamo brevemente alcuni aspetti in precedenza emersi della strategia argomentativa aristotelica. Di fronte all’aporia della necessaria fissazione di ciò che, essendo tempo, non può essere fissato, Aristotele finisce per rintracciare nella struttura stessa del movimento, nelle sue differenti configurazioni e secondo l’interpretazione che di questo fenomeno è stata data in altri luoghi, la possibilità di una soluzione. Il movimento, insomma, è l’ambito nel quale si risolve il problema della coesistenza, nell’istante, di continuità e differenziazione. E ciò, appunto, è possibile in virtù dei criteri interpretativi che Aristotele usa per articolare questo fenomeno: la coppia potenza-atto e la permanenza di un sostrato nel mutevole procedere da opposto ad opposto. In questo quadro il tempo diviene dunque la condizione della misurabilità e la numerazione in atto di questo movimento. Ma ciò non basta ancora. Giacché il problema, come abbiamo visto, sta proprio nel pensare la diacronicità, cioè la struttura stessa della differenziazione temporale. Com’è possibile, infatti, cogliere la simultaneità di ciò che è sempre diverso? A tale domanda bisogna appunto rispondere, se si vuole pensare qualcosa come il tempo8. Aristotele, dal canto suo, presenta una soluzione non tanto logica, quanto epistemologica a tale questione. Egli trova collocazione, per il movimento aporetico del mondo sublunare, in un contesto di movimento più ampio e di tipo differente: il movimento circolare del cosmo. Il tempo che caratterizza que91

st’ultimo è infatti quello connesso alla rotazione del cielo; in altre parole, il tempo «contenuto» è salvato nel tempo «contenitore»: proprio la soluzione che, stando alla precedente citazione, Aristotele aveva anticipato nel capitolo 10 e che qui, nel capitolo 14, egli sviluppa in una particolare maniera. Una soluzione analoga, seppure svolta su di un terreno diverso, è quella che all’aporetica temporale sopra esposta è stata offerta nell’ambito della «metafisica classica». Schematizzando molto, possiamo dire che tale soluzione in generale è dovuta – sia per il pensiero greco che per la successiva riflessione metafisica – alla possibilità di ritenere che il tempo sia «qualcosa» che possa essere salvato nella prospettiva dell’eterno. Dove per «eterno», però, si possono intendere due fenomeni diversi: un tempo infinito, che caratterizza il movimento circolare del cosmo, e un’assenza di tempo, quale è costitutiva, ad esempio, degli enti matematici9. In tal modo, dunque, il tempo considerato secondo la metafora del «contenuto» può rinviare a due tipi di «contenente»: uno mobile (sebbene caratterizzato da un movimento infinito) e uno immobile. Esaminiamo più da vicino questa problematica. Se si considera, in un tale contesto, la nozione stessa di «tempo», emerge il fatto che, proprio in essa, viene ad esprimersi la coesistenza di due fenomeni opposti: la mobilità dello scorrere degli eventi e l’immobilità dell’ambito in cui tale scorrere si verifica, e che può essere anch’esso individuato mediante il concetto di «tempo». Emerge qui, nuovamente, quello che risulta un «assioma essenziale» della Fisica aristotelica, vale a dire «l’eternità del divenire e del tempo»10. Ma soprattutto ritornano, a questo proposito, le immagini del «contenuto» e del «contenente»: e sulla base di esse il tempo viene appunto pensato come il contenente immobile di un contenuto che, di per sé, si dà in movimento. Si delinea in tal modo un’aporia che sembra abbastanza agevole risolvere: basta distinguere fra i due livelli individuati (quelli espressi dagli enunciati: «il tempo scorre» e «il tempo è l’ambito in cui si realizzano accadimenti»), e ricondurre ciò che è «mobile» a ciò che, invece, risulta propriamente «immobile»11. Questo, dunque, è uno dei modi in cui la metafisica tradizionale affronta e risolve la questione. Resta però da vedere se, nel caso specifico delle aporie del tempo, la via d’uscita che è stata pro92

posta può effettivamente risultare soddisfacente. Consideriamo di nuovo la soluzione «metafisica» di tali aporie: quella che si basa sulla distinzione di livello tra «temporale» ed «eterno» (nei suoi diversi significati), vale a dire, tra tempo come «contenuto» e tempo come «contenente», e che poggia sul riconducimento o sulla subordinazione del primo al secondo. Una tale distinzione, in verità, nell’ambito della metafisica cristiana si ritrova più precisamente nella forma del rapporto tra «contingente» e «assoluto», ovvero tra «mobile» e «immobile». Abbiamo già visto il perché di questa diversa considerazione dell’«eterno»: si tratta dell’equivocità – caratteristica del pensiero greco e che, peraltro, lo stesso Aristotele puntualmente registra12 – insita nel concetto di aion. A questo proposito ciò che mi preme sottolineare è il fatto che in tutti i casi che abbiamo menzionato – nella differenziazione, cioè, fra il tempo come orizzonte del divenire e il tempo come struttura del divenire stesso, fra eternità e tempo, e anche fra immobile e mobile – emerge la necessità, non solo di individuare la separazione fra i due livelli, ma anche di pensare il loro necessario collegamento. Si ritrova qui, nei diversi casi, la stessa struttura teorica: quella di una relazione che coinvolge due livelli distinti; quella di una distinzione che sembra configurarsi come l’unica modalità del loro rapporto. È su questa aporia del tempo che mi voglio brevemente soffermare. Infatti, nuovi problemi sorgono proprio esaminando una tale relazione fra i due piani che abbiamo distinto. E ciò non tanto a causa della dialetticità che caratterizza un tale rapporto. Qui, infatti, riemerge piuttosto la questione – vera croce filosofica da Platone in poi – di come raccordare fra loro gli ambiti distinti, ad esempio, del «mobile» e dell’«immobile», o del tempo come «contenitore» e del tempo come «contenuto», o, ancora, del «temporale» e dell’«eterno» (nei vari significati di questo termine). E soprattutto si delinea la possibilità che un tale raccordo si presenti, a sua volta, secondo modalità dinamiche, esse stesse «mobili», e non già statiche: tali, dunque, da dover essere pensate a loro volta con un riferimento al tempo. In un tale contesto, perciò, il richiamo a una dimensione «diacronica» non estingue affatto il paradosso, non riesce a risolvere l’aporia, dal momento che è questa dimensione stessa – nella quale si realizza il collegamento fra i due livelli – il luogo appunto in cui possono sorgere nuovi problemi. 93

Vediamo, più precisamente, di che genere di difficoltà si tratta. Essa, si badi bene, non sorge in relazione al fatto che, finora, il tempo è stato configurato sia come il «contenente» immobile di un contenuto temporale, sia come il «contenuto» mobile di questo stesso contenente: perché, come abbiamo visto, è possibile risolvere la questione tenendo distinti i due piani. Tanto distinti, addirittura, da poter anche considerare il «contenitore» eterno non già come caratterizzato da un movimento perenne, ma come assolutamente immobile. Invece, la difficoltà emerge proprio nel momento in cui si cerca di dar conto di come è possibile che si realizzi il collegamento fra i due livelli che abbiamo individuato. Qui, allora, i casi sono due: o questo rapporto risulta già da sempre dato (vale a dire: è a sua volta già da sempre fissato, «eterno», nel senso di immobile), oppure esso stesso, dal canto suo, diviene, si compie, si realizza processualmente. In altre parole: risulta, in un senso specifico del termine, a sua volta «temporale». Nel primo caso, insomma, lo stesso rapporto tra eternità e tempo risulta eterno (ovvero, più precisamente: è immobile lo stesso rapporto tra immobile e mobile). Nel secondo, invece, il tempo risulta essere non solo ciò che scorre, e neppure, unicamente, la dimensione statica in cui si realizzano gli eventi nella loro mobilità e contingenza: esso è piuttosto, in un senso e con una funzione ben precisi, ciò che consente di collegare fra loro, secondo modalità dinamiche, i due livelli precedentemente individuati. La temporalità, qui, interesserebbe dunque e strutturerebbe il legame stesso tra immobile e mobile: tra il tempo come l’ambito in cui il divenire avviene e il tempo che questo stesso divenire, propriamente, caratterizza e articola. Incontriamo in tal modo due forme particolari di reduplicazione concettuale. Se vogliamo chiederci – e una tale domanda, certo, può anche non essere formulata, ma risulta comunque legittima – se vogliamo chiederci, dicevo, come si configura quel rapporto in cui il tempo è in vario modo coinvolto, le due risposte possibili finiscono, lo ripeto, o, da un lato, per riaffermare l’eternità del rapporto con l’eterno, oppure, dall’altro lato, per ribadire la temporalità di questo stesso rapporto. È quindi necessario chiarire come si configura un tale tempo intermedio. Ed è per questa via che c’imbattiamo in una particolare configurazione del tempo religioso. 94

4. Il tempo «fra i tempi» La possibilità che sia anch’esso temporale il legame fra i due sensi di tempo (come «contenitore» e come «contenuto») in precedenza esplicitati, ovvero che risulti specificamente temporale il collegamento tra «eterno» e «temporale», è infatti la possibilità che è stata assunta all’interno della tradizione religiosa ebraicocristiana e che il cristianesimo ha radicalizzato. Volendoci esprimere sempre per schemi argomentativi generali, potremmo dire che in questa tradizione un tale rapporto è pensato, nella sua intrinseca temporalità, come un vero e proprio farsi nel tempo dell’origine stessa del tempo. In questa prospettiva, allora, è possibile trovare proprio nel carattere aporetico del tempo un terreno di confronto fra ciò che abbiamo rispettivamente chiamato – con espressioni un po’ generiche e dunque da precisare ulteriormente – «tempo filosofico» e «tempo religioso». Vediamo come. Abbiamo detto che il pensiero metafisico, nel suo esplicito richiamarsi alla matrice greca, pone quella separazione fra «eterno» e «temporale» all’interno della quale può essere ricompresa anche la distinzione fra i due sensi di tempo in precedenza considerati (il tempo «contenente» e il tempo «contenuto»), nonché, secondo una particolare comprensione dell’«eternità», quella fra «immobile» e «mobile». Una tale separazione, tuttavia, comporta una serie di ben note difficoltà filosofiche, giacché i livelli che è stato necessario distinguere, magari per «salvare» la filosofia, debbono anche essere messi in relazione fra loro. Il Parmenide di Platone – specialmente nella parte in cui Parmenide conduce una sistematica confutazione della dottrina delle idee introdotta da Socrate per risolvere l’antinomia di Zenone13 – può essere letto proprio come l’esemplificazione di quelle difficoltà che non è possibile superare con il ricorso a espressioni ancora vaghe (e a ragione in Metafisica I 9 Aristotele lo rimarcherà) come metechein e metalambanein. Rispetto a ciò, la via d’uscita, come abbiamo già accennato, può essere duplice: o un tale collegamento risulta già da sempre attuato, oppure esso si realizza dinamicamente. In altre parole: o il rapporto è qualcosa, è un «fatto», oppure esso diviene, «si fa». La prima è una soluzione adottata già nell’ambito del pensiero greco (e oggi è stata riproposta all’interno della ripresa e rigorizzazione di esso in chiave neo-parmenidea). La seconda è la con95

cezione elaborata dal pensiero cristiano, a partire dal recupero delle immagini e delle modalità narrative presenti nella Scrittura, e dal riutilizzo e dalla trasformazione, in una nuova prospettiva, dello stesso linguaggio greco. Naturalmente, con tutte le difficoltà e i problemi che, anche per questi motivi, un tale riutilizzo comporta. Consideriamo schematicamente alcuni aspetti caratteristici di quest’ultima soluzione. A ben vedere, proprio la sua struttura intermedia e la situazione di «frammezzo» sono quelli che definiscono l’evento cristiano così come esso è elaborato dalla riflessione teologica. Zwischen den Zeiten, «fra i tempi», è propriamente collocato l’uomo secondo il cristianesimo. Non si tratta soltanto di «epoche», che sotto questo rispetto sono collegate fra loro, ma anche, e soprattutto, di «attimi», di momenti puntuali e improvvisi, nei quali, per un verso, si è compiuta l’incarnazione – come una tangente che tocca il cerchio senza toccarlo, secondo la ben nota immagine barthiana – e, per altro verso, si attuerà la nuova venuta del Signore, che farà irruzione «come un ladro di notte». La stessa incarnazione poi – nozione assolutamente scandalosa per la mentalità greca, come ben si accorse Paolo predicando nell’Areopago di Atene – può configurarsi, se letta in una prospettiva filosofica, nei termini di un «frammezzo», cioè come una figura di mediazione. In una persona, in un prosopon, viene infatti fissata la connessione fra umano e divino, fra assoluto e contingente. E una tale connessione è ulteriormente ribadita e rafforzata, nella dogmatica cristiana, con il ricorso alla nozione di «spirito», all’interno della relazione trinitaria. Infine – o più precisamente dovremmo dire: in principio – tra Dio e mondo si pone – per il cristianesimo, ma, prima ancora, per l’ebraismo – un atto specifico: l’atto di creazione. Un atto con il quale Dio stesso – come mostra Schelling nei Weltalter, ripreso poi da Rosenzweig nello Stern der Erlösung – depone la propria immediata assolutezza, il suo essere «tutto in tutto», e si fa termine di una relazione: di quella relazione che – frutto di un fare spazio ad altro, risultato di una scissione fra un essere assoluto (nascosto) e un essere in rapporto (manifesto) – è appunto Lui a istituire. Redenzione, rivelazione e creazione sono dunque, nell’ordine in cui li abbiamo presentati, i modi in cui si realizza il collegamento, nel cristianesimo, fra assoluto e contingente, fra eterno e 96

temporale, fra immobile e mobile. E tuttavia, come abbiamo già detto, si tratta di un rapporto che non è, ma che si fa. Si tratta, in altre parole, di un rapporto dinamico. E dunque ha anch’esso il suo tempo. Il tempo della creazione, o meglio: il tempo che la creazione stessa è, e che nella creazione si istituisce. Il tempo della rivelazione: quello di un Dio che, mediandosi, entra nel mondo nella figura del Figlio, trasformando già il mondo e il suo tempo. Il tempo della redenzione: il tempo del cammino dell’uomo nella storia, del suo essere attivamente sospeso fra un «già» e un «non ancora». Ecco dunque ciò che sono, in definitiva, questi tempi della creazione, della rivelazione, della stessa redenzione: sono tempo del rapporto, o meglio, sono quel tempo che lo stesso rapporto, propriamente, è. Come si vede, allora, il cristianesimo risolve l’aporia del tempo, la difficoltà cioè di pensare il rapporto tra tempo come «contenente» e tempo come «contenuto», tra «eterno» e «temporale», e addirittura tra «immobile» e «mobile», assumendo un tale rapporto come qualcosa che sempre già si viene a realizzare, e dunque rendendolo dinamico, temporalizzato e temporalizzabile. Potremmo articolare ulteriormente sul versante teologico una tale soluzione. In particolare sarebbe interessante ripensare in questa prospettiva il rapporto fra «trinità immanente» e «trinità economica», nell’ottica di quel rinnovamento delle tematiche della cosiddetta «ontologia trinitaria» al quale oggi assistiamo14. Volendoci invece mantenere su di un versante più propriamente filosofico, potremmo rileggere in questa chiave le strutture e i problemi di fondo che trovano approfondita elaborazione non solamente nel pensiero di Hegel, ma anche nella riflessione ermeneutica di Heidegger, e che si riscontrano altresì, sul versante ebraico, nello stesso tentativo sistematico compiuto da Rosenzweig15. Tuttavia, ciò che soprattutto m’interessa segnalare, ora, è il fatto che in una tale trasformazione dinamica del rapporto tra assoluto e contingente, ripensata e narrata dal cristianesimo nella sua specifica temporalità, emergono ulteriori, sintomatiche aporie. Giacché, pur nella sua interpretazione temporale del rapporto «fra i tempi», il cristianesimo non può risolvere tutto nel tempo del rapporto, pena la trasformazione del suo Dio in un Dio che si realizza pienamente solo venendo assorbito nel mondo. È questa, a ben vedere, la strada seguita da Spinoza, ed è questa, in parte, 97

anche una possibile tentazione che risulta ben viva nella filosofia hegeliana. Ma una tale via può essere percorsa fino in fondo solo se al Dio che si risolve nel mondo corrisponde, del pari, un mondo a sua volta divinizzato, un mondo destinato, dal canto suo, a risolversi in Dio: in tal modo finendo per distruggere quel principio della separazione tra Dio e mondo che solo, nella tradizione ebraico-cristiana, rende possibile il loro effettivo rapportarsi. A mio parere, tuttavia, più fondamentale è un’altra questione. Essa non risulta legata, solamente, al rischio che – ponendo un nesso dinamico fra termini distinti come Dio, uomo e mondo, e dunque introducendo il «tempo del rapporto» – si verifichi un progressivo appiattimento, una tendenziale sovrapposizione di questi termini fra loro separati. I problemi nascono soprattutto quando una tale relazione dinamica, divenuta oggetto di indagine, viene fissata e colta indipendentemente dal suo specifico temporalizzarsi. I problemi sorgono, in altre parole, proprio quando lo stesso rapporto tra Dio, uomo e mondo viene trasformato in un dato di fatto, e quindi risulta, in qualche modo, già da sempre istituito e garantito. Di conseguenza, gli stessi attori coinvolti in questa relazione, invece che esserne responsabili, seppure in modi diversi, finiscono per dipendere da essa. Non posso, in quest’occasione, indagare i motivi che favoriscono, nel corso della riflessione cristiana, l’insorgere di una tale tendenza16. Voglio solo brevemente segnalare il pericolo connesso all’interpretazione atemporale di un rapporto che risulta invece, costitutivamente, temporale e temporalizzabile. Un tale pericolo, lo ripeto, consiste nella trasformazione di quell’atto mediante il quale si realizza una donazione di senso in qualcosa di sussistente e di scontato. Esso consiste, in altri termini, nella messa fra parentesi di quella libertà – in cui, cristianamente, si de-ci-de il rapporto fra Dio e uomo – per lasciar posto a una situazione che invece risulta, in definitiva, «senza un perché». Questa, insomma, è l’aporia di fondo con la quale il pensiero cristiano deve confrontarsi: l’aporia per la quale proprio ciò che è all’origine del senso, nelle modalità stesse in cui realizza la propria donazione di senso, risulta di fatto qualcosa di insensato17.

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5. Alla fine, ricominciare dall’inizio Vari sono stati i tentativi, espliciti o impliciti, per uscire da quest’ultima difficoltà. Menzioniamone due fra tutti: la trasformazione della presunta insensatezza dell’origine del senso nella traccia di un senso nascosto, che solo in ultimo verrà a manifestarsi pienamente; l’individuazione poi, nell’esistenza stessa dell’uomo, della possibilità di un superamento dell’ipotetica insensatezza originaria: la quale consisterebbe nella capacità di «verificare» che quanto s’impone di fatto, senza un perché, può invece avere, proprio nell’uomo e per l’uomo, un senso illuminante. In ambedue i casi, come ben sappiamo dai dibattiti filosofici e teologici del Novecento, il rischio di una riduzione antropologica è altissimo. Da un lato, infatti, si può avanzare il sospetto che quel senso nascosto altro non sia che il risultato di una proiezione delle aspettative e dei bisogni umani; dall’altro, ci si può domandare in che misura, propriamente, il messaggio cristiano possa trovare nell’uomo e nella sua istanza di senso i luoghi autentici della propria verifica. Per evitare dunque di involgerci nuovamente in tutti questi problemi è necessario operare una cesura; è necessario tagliare i nodi da cui siamo stati fin quei avvinti, visto che non siamo in grado di scioglierli (o meglio: visto che il tentare di scioglierli li stringe ancora di più). A ben vedere, una tale decisione appare in contrasto con quanto suggerisce lo stesso Aristotele, in Metafisica III 1, parlando del modo in cui si debbono affrontare le aporie filosofiche. Le aporie, certamente, sono come dei nodi – l’immagine, appunto, è aristotelica –, e colui che si trova in una situazione di dubbio e di incertezza risulta come legato18. Bisogna dunque, per Aristotele, esaminare adeguatamente le difficoltà per poi procedere al loro scioglimento. Ma – domandiamoci – e se ciò non è possibile? Se l’esame delle difficoltà si rivela, come abbiamo avuto modo di vedere, piuttosto un’assunzione dell’aporia che un suo superamento? Rispetto a ciò, forse è opportuno farci discepoli non già di Aristotele, ma di Alessandro Magno: il suo allievo più illustre, certo, ma in alcuni casi (come denuncia ad esempio l’episodio di Gordio) alquanto infedele. Tagliamo dunque il nodo. Ovvero – utilizzando un’altra metafora, pur essa aristotelica, e prima ancora platonica – non cerchiamo più una «via d’uscita» per procedere oltre. Liberiamoci, 99

invece, dei legami che ci avvincono, non tanto per andare avanti, quanto per poter approfondire la situazione stessa in cui ci veniamo a trovare. In altre parole: ricominciamo dall’inizio. Certo, a questo punto, una tale pretesa appare anch’essa aporetica. Come si fa a iniziare proprio quando un determinato discorso – il discorso sulle aporie del tempo – si sta avviando alla sua conclusione? E poi: è possibile poter credere di iniziare davvero, prescindendo da tutti quei passaggi teorici che, seppur schematicamente, abbiamo in precedenza messo in luce? In verità, sono proprio i vari momenti che abbiamo esaminato a richiedere quell’ulteriore approfondimento aporetico che trova la sua realizzazione nella cesura dell’inizio. Anzitutto le aporie che riguardano ciò che è nel tempo, vale a dire l’istante, l’«ora». Aristotele – lo abbiamo visto – mostra in che modo si può dire che esso «è il medesimo e la differenziazione e l’unificazione secondo il medesimo, ma [che] il suo essere non è il medesimo»19. E tuttavia ciò che resta appena toccato, accennato solamente all’interno di uno di quei chiarimenti lessicali che incontriamo spesso nella pagine aristoteliche, è il problema del modo in cui l’istante può venire ad emergere nel suo carattere di cesura: ciò che già Platone aveva chiamato exaiphnes («all’improvviso»: cfr. Parmenide, 156 d-e). Questo termine, per Aristotele, indica «ciò che esce fuori in un tempo impercettibile per la sua piccolezza»; esso esprime cioè il carattere «per natura estatico» del movimento (metabole: cfr. Fisica 222 b 15-16)20. Proprio un tale scaturire improvviso del tempo – lo potremmo chiamare, con un’immagine, la sua «profondità» – è ciò che dev’essere recuperato, in controtendenza rispetto al privilegio aristotelico delle questioni legate, per un verso, alla continuità temporale (intesa come numerabilità potenziale della continuità del divenire) e, per altro verso, a una segmentazione del tempo che si realizza pur sempre nell’orizzonte di una tale continuità. A ciò, infatti, siamo spinti dal modo stesso in cui si sono configurate anche le aporie del tempo: i problemi, cioè, connessi alla necessità di precisare la natura del rapporto fra un «contenitore» e un «contenuto» ambedue pensati con un riferimento temporale. Giacché, se si vuole mantenere la distinzione fra questi due livelli – la distinzione in base alla quale solamente è possibile che si realizzi effettivamente il loro rapporto –, diviene necessario domandarsi in 100

quale tempo una tale relazione scaturisce. E anche se si ritiene che tutto risulti già da sempre salvato, che tutto sia eterno, resterebbe tuttavia da approfondire la differenza (e il rapporto) fra l’eternizzarsi dell’eterno e l’attimo in cui l’eterno s’impone come eterno. Questo nodo cruciale è affrontato dal cristianesimo, come abbiamo visto, introducendo il temporalizzarsi del rapporto fra Dio, uomo e mondo. Ma anche in questa prospettiva è necessario pensare davvero, per Dio e per l’uomo, la scaturigine stessa di questo temporalizzarsi. Ed essa risulta di nuovo temporale. Consiste infatti nell’improvviso volgersi del Dio nascosto alla creazione, alla rivelazione; è data nell’attimo della conversione, nel punto – senza dimensioni ma infinitamente profondo – della decisione umana. Il tempo che qui emerge, propriamente, è il tempo della libertà. Insomma, tempo come «improvviso», tempo come «cesura», tempo come «attimo»: tutte queste sono appunto figure dell’inizio. Un inizio che va davvero assunto nei suoi caratteri aporetici, che già sono emersi, nella sua profondità, nella costitutiva impossibilità di essere fissato al modo di un fatto. Ecco perché, per parlarne, è necessario ripensare le stesse nozioni di «verità», «esperienza», «linguaggio». Iniziando di nuovo, appunto, a filosofare.

Note Aristotele, Fisica IV, 218 a, 12-14. Ivi, 222 a, 10-12. 3 Ivi, 222 a, 19-20. 4 Questo sembra, d’altronde, un procedimento tutt’altro che inconsueto nella storia del pensiero filosofico. Lo sottolinea ad esempio G. Priest nel suo libro Beyond the limits of thought, Cambridge UP, Cambridge 1995. 5 Aristotele, Fisica IV, 223 a, 17-18. 6 Heidegger dedica un’attenta analisi di questa sezione della Fisica aristotelica non solo nel capitolo sesto della seconda sezione di Essere e tempo (1927), trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, ma anche nella seconda parte delle lezioni del semestre estivo del 1927 intitolate I problemi fondamentali della fenomenologia, trad. it. di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 1988. 7 Aristotele, Fisica IV, 218 a, 13-14. 8 La stessa questione, a ben vedere, si può riproporre oggi con riferimento al pensiero di Jacques Derrida. 9 Su questi aspetti si veda il saggio di E. Berti intitolato appunto Tempo ed eternità, in L. Ruggiu (a cura di), Filosofia del tempo, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 12-13. Berti individua tre sensi di «eternità»: oltre a quelli già in1 2

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dicati, vi è un significato di aion (presente in Omero, Esiodo e nei lirici del VII secolo a.C.) come forza vitale, e dunque come durata limitata della vita. Questo aspetto del «tempo della vita» come «tempo dell’eternità» è approfondito e discusso da M. Theunissen nel suo libro Negative Theologie der Zeit, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, pp. 299-317. 10 L. Ruggiu, Saggio introduttivo, in Aristotele, Fisica, Rusconi, Milano 1995, p. LX. 11 Per un’esposizione coinvolgente e serrata, in questa chiave, dell’aporetica del tempo e per la proposta di una «soluzione ontologica generale del rapporto tra mobile e immobile» si veda C. Vigna, Tempo e sapere, in L. Ruggiu (a cura di), Filosofia del tempo, cit., pp. 199-213. 12 Cfr. E. Berti, Tempo ed eternità, cit., pp. 12-13. 13 Cfr. Platone, Parmenide, 130 a-135 c. 14 È a Klaus Hemmerle, soprattutto, che dobbiamo un’adeguata riflessione su questi problemi nella seconda metà del Novecento. Di Hemmerle si vedano soprattutto le Tesi di ontologia trinitaria (1976), trad. it. di T. Franzosi, introduzione di P. Coda, Città Nuova, Roma 1996. In Italia tali questioni costituiscono il centro della riflessione teologica di Piero Coda e di Bruno Forte. Si vedano, ad esempio, del primo, Evento Pasquale. Trinità e storia. Genesi, significato e interpretazione di una prospettiva emergente nella teologia contemporanea. Verso un progetto di ontologia trinitaria, Città Nuova, Roma 1984, e Dio Uno e Trino. Rivelazione, esperienza e teologia del Dio dei cristiani, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo (MI) 1993; del secondo, Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo (MI) 1985, e Trinità per atei, con interventi di M. Cacciari, G. Giorello, V. Vitiello, Cortina, Milano 1996. Un importante inquadramento storico e teorico della tematica è contenuto infine nel volume di A. Milano, La Trinità dei teologi e dei filosofi, Dehoniane, Napoli 1987. 15 Assumendo questa prospettiva, infatti, possono essere ripensati e confrontati fra loro, da un lato, il tentativo heideggeriano di pensare l’essere nella sua Temporalität e come Ereignis, dall’altro, la concezione rosenzweighiana di un «nuovo pensiero» capace di corrispondere narrativamente alla temporalità che lega Dio, mondo e uomo. 16 Una riflessione su questi motivi, certo ancora suscettibile di adeguati approfondimenti, è stata compiuta da Lev Chestov nel suo libro su Atene e Gerusalemme (1937): se ne veda la recente traduzione francese, a cura di B. de Schloezer, Athènes et Jérusalem, Aubier, Paris 1993. 17 Ho toccato questi argomenti nella prima parte del mio volumetto Tre domande su Dio, Laterza, Roma-Bari 1998. 18 Cfr. Aristotele, Metafisica III 1, 995 a, 29 sgg. 19 Fisica IV, 222 a, 19-20. 20 Gli aspetti distruttivi di una tale «estaticità» del divenire sono sottolineati da L. Ruggiu nel Saggio introduttivo alla sua traduzione della Fisica aristotelica, cit.

Daniele Goldoni

Tempo e natura – Dio?

1. Tempo ed esistenza, tempo e mancanza Il tempo si sperimenta nel mutamento, e il mutamento non ci sarebbe se non fossero individuabili un «prima» e un «poi» e una misura del tempo nell’«anima» (vorrei lasciare per ora alla parola «anima» un senso abbastanza vago da comprendere accezioni antiche e moderne). Non c’è tempo senza esistenza. Nell’interpretazione forse più condivisa sembra essere l’attesa, nella sua relazione con il ricordo, ciò che caratterizza l’esperienza esistenziale del tempo. Secondo questa interpretazione il tempo è contrassegnato da una mancanza: il presente manca di qualcosa e rinvia a qualche maggior compiutezza futura o passata. La teologia (Antico e Nuovo Testamento, Esiodo, ecc.) ha interrogato e interpretato simile mancanza come caduta o decadenza da un tempo diverso, e così la filosofia. Nel Simposio Platone ne individua l’inizio in un tempo di privazione, nel segno di «Eros», povero e bisognoso in quanto figlio di Penia (Povertà), ma anche agguerrito cacciatore, grazie al padre Poros (Risorsa), di un tempo migliore: quello del «bello divino» (to theion kalon: Simposio 211 e, 2). Questo accade nell’«attimo» (exaiphnes: Simposio 210 e, 4) non più mancante (Simposio 211 d-e) in cui si rivela il «bello» «che sempre è e si fa vedere in modo unitario secondo se stesso mediante se stesso» (auto kath’auto meth’auto monoeides aei on: Simposio 211 b). La possibilità di un’esperienza del tempo non segnata da mancanza viene indicata dalla «filosofia» di Platone, dalle «teologie» di Esiodo e dell’Antico Testamento, con racconti. Questi racconti non si presentano propriamente come descrizioni storiche, ma alludono alla necessità di interpretare eventi enigmatici. La filo103

sofia moderna ha prevalentemente rifiutato questa enigmaticità, ed ha escluso dai propri temi legittimi la possibilità di un tempo al di là delle attese della coscienza. La Kritik der reinen Vernunft (= KrV) è, sotto questo riguardo, frutto maturo della modernità. La filosofia teoretica «trascendentale» è il pensiero «possibile» per noi umani, in quanto consapevolmente si attesta entro i limiti di un «finito» esteso fra ricordi e attese. Questi limiti sono però anche il sostegno, le «condizioni di possibilità» di pensare e porre questioni sensate. La KrV è però un testo potenzialmente polivoco: proprio l’interpretazione kantiana del tempo, destinata a mostrare che l’esperienza fisica del mondo è definitivamente «mancante», offre elementi di elaborazione che si prestano a uno sviluppo oltre i limiti riconosciuti da Kant. 2. Kant: la presenza è possibile solo grazie all’assenza La tesi della KrV che può essere presa come punto di appoggio per tale sviluppo è che la presenza a sé della coscienza è possibile solo grazie all’assentarsi delle cose nel tempo. Questa tesi è particolarmente leggibile nella prima edizione della KrV. In essa Kant sostiene che per poter percepire (wahrnehmen) qualcosa come qualcosa («sostanza», «causa» o «effetto», o termine di una «azione reciproca»), occorre una «ricognizione» (Rekognition) che la presentifica grazie alla sua «riproduzione» (Reproduktion) nel ricordo. La «riproduzione» è generata dalla Einbildungskraft, facoltà dell’animo umano. Neppure della «sensazione» è possibile per la coscienza una «esperienza effettiva» senza il ricordo: senza di esso non potrebbero essere neppure «intuiti» i concetti puri di spazio e tempo (cfr. KrV A 101-103, 120 nota, 125). Questa tesi ha una implicazione sorprendente che Fichte espliciterà: «Non c’è mai un primo momento della coscienza, ma solo un secondo»1. Vale a dire: la presenza del fenomeno e della sensazione alla coscienza è possibile sempre solo grazie a un ricordare che sprofonda in ciò che non può essere ricordato, e in questo è la ragione profonda della impossibilità di pensare un inizio del mondo. Rispetto ad Agostino e Descartes, in Kant la stabilità dell’animo ha minore autonomia verso il passare del tempo: per loro, in 104

modi diversi, la stabilità dell’animo dipende in ultima istanza dal dono di un Dio trascendente rispetto a questo mondo, mentre per Kant la permanenza della coscienza (KrV B 183, A 144) è possibile grazie alla cooperazione cooriginaria della Einbildungskraft con la «sensibilità» «esterna» e «interna», che è interpretata come essenzialmente impermanente. Così, per Kant, noi possiamo essere presenti a noi stessi solo in quanto qualcosa di «sensibile» passa e si assenta, in modo da poter essere ricordato. Trovo questo pensiero straordinariamente interessante, poiché offre la possibilità di sciogliere la opposizione fra eterno e mutevole e di convertire l’eventuale risentimento contro lo scorrere della vita nella necessità di una sobria accettazione del passare, come condizione della stessa presenza. Occorre però svilupparlo oltre l’interpretazione che Kant stesso ne dà, eliminandovi una concezione della «sensibilità» riduttiva verso la natura2. 3. Limiti della interpretazione kantiana del tempo. Il misconoscimento della natura Kant attribuisce ogni ordine dell’esperienza alla «schematizzazione» della Einbildungskraft e alla attività logico-discorsiva che quella sostiene, in nessun modo alla natura stessa. Perché? Perché pensa che la «materia» della «sensibilità» sia istantanea, «accidentale» e caotica (KrV A 99, 111, 141). Perciò deve farsi la domanda come mai il «rosso» e il «pesante» continuino a presentarsi insieme nel cinabro e come mai il campo estivo pieno di frutti non si copra improvvisamente di neve (cfr. KrV A 100-101), e la sua risposta indica una capacità umana – la Einbildungskraft – di trattenere e ordinare ciò che di per sé sfugge. Credo si debba consentire con Kant che il movimento e l’assentarsi si radicano anche nella stessa fisicità, e che la nostra esperienza si nutre necessariamente anche di ricordi di ciò che non è più presente. Ma la fisicità – Kant dice riduttivamente «sensibilità» – è istantanea e caotica? Si può concedere che un suono molto breve – per esempio il battito del cuore, dell’orologio – possa essere percepito come istantaneo. Ma l’esperienza dei colori, del peso e della consistenza è più frequentemente durevole: il «pesante cinabro» o un campo estivo non si assenteranno di colpo. 105

Altre «sensazioni» sono ancor più durevoli, come l’esperienza del pesare sulla terra con il «mio» corpo. Alla fisicità di questo mondo appartiene anche una permanenza che mi accompagna – nel mio corpo, nell’ambiente – per tutta l’esistenza, e in modo talmente insistente che non saprei immaginarne l’assenza né nel passato né nel futuro. Come arriva Kant ad assegnare alla «sensibilità» stessa una natura istantanea? Riguardo al «sentire interno» la tesi di Kant sembra altrettanto discutibile: un bisogno, un desiderio, un sentimento non sono in genere così istantanei come potrebbe apparire un suono. Forse un’«idea» o un «pensiero» in senso moderno, ossia una immagine a occhi chiusi o una parola detta fra sé interiormente, potrebbero essere così istantanei come un battito del cuore o di un orologio. Il ragionamento di Kant sembra più comprensibile quando egli osserva: Se una certa parola fosse attribuita ora a questa cosa, ora a quella, oppure se la medesima cosa fosse chiamata ora in un modo, ora in un altro, senza che ciò fosse governato da una regola cui fossero già da sé sottomessi i fenomeni, non potrebbe aver luogo alcuna sintesi empirica della riproduzione (KrV A 102).

Kant ci dice qui che l’ordine delle parole è governato dalla stessa regola che organizza i fenomeni. Come interpreta questa «regola»? L’ipotesi che Kant fa poco più avanti è significativa: Ora è chiaro che quando traccio una linea nel pensiero, o penso il tempo da un mezzogiorno all’altro, o anche solamente voglio rappresentarmi un certo numero, anzitutto io devo afferrare una di queste molteplici rappresentazioni una dopo l’altra nel pensiero. Se però io perdessi dal pensiero sempre le rappresentazioni precedenti (la prima parte della linea, le parti precedenti del tempo, oppure le unità rappresentate una dopo l’altra), e se io non le riproducessi nel momento in cui procedo verso le seguenti, non ci sarebbe mai una rappresentazione completa, né alcuno dei pensieri sopra menzionati, anzi: non potrebbero costituirsi neppure le più pure e prime rappresentazioni fondamentali di spazio e tempo (KrV A 102).

Kant rinvia qui al fenomeno dell’ordinare numerando sequenze di immagini «visive» o «acustiche» interiori: ogni «rappresen106

tazione» presente deve passare a «precedente» in quanto è tolta dal fuoco visivo o acustico dell’attenzione, restando però trattenuta sullo sfondo vicino dalla memoria. Questi esempi suggeriscono che Kant interpreta anche il pensare in parole e la sua regola attraverso lo stesso fenomeno: la parola è presente nella voce (esterna o interiore) solo grazie al fatto che nello stesso tempo altre parole si assentano per essere conservate nella memoria come precedenti. Poiché il fenomeno così descritto sembra rispondere effettivamente alle caratteristiche che Kant assegna in generale alla sintesi fra «istantaneità» sensibile e produzione/riproduzione immaginativa, si è portati a pensare che egli ritenga di individuarvi la regola che dà ordine a tutti i fenomeni: questa regola consisterebbe nel «riprodurne» il contenuto sensibile (materialmente istantaneo), grazie alla «produzione» di una continuità temporale immaginativa da parte della «Einbildungskraft», che Kant, per questa ragione, chiama «facoltà di rappresentare un oggetto anche senza la sua presenza nella intuizione» (cfr. KrV B 151). Fino a che punto è persuasivo il ragionamento kantiano? È innegabile che il ricordo e l’immaginazione sono necessari per riconoscere fenomeni che mutano o si assentano nel tempo. Ma che dire dell’esempio del campo estivo? L’esperienza di un «campo» richiede la sua «ricognizione» attraverso il ricordo dei suoi vari modi di essere, nelle diverse stagioni e situazioni: dunque esso esiste grazie al ricordo di possibilità non tutte presenti. In questo senso, l’esperienza del campo richiede che suoi tratti siano passati: similmente, l’esperienza di umanità adulta richiede che l’infanzia sia ricordata come passata. La sua presenza fisica attuale richiede non solo i ricordi, ma anche l’immaginazione di possibili direzioni di movimento: dunque una certa capacità di tracciare linee immaginarie e di ordinare, in qualche misura numerando. Sia i ricordi degli stati passati del campo, sia le possibilità presenti, richiedono una capacità di parlare (anche a se stessi), e questa capacità implica la possibilità di un uso ordinato di sequenze di suoni (interiori o esteriori) e/o segni. L’esercizio di tutte queste capacità comporta una concentrazione dell’attenzione della coscienza e una sua temporalizzazione in una «presenza» a sé (l’«appercezione»), diversa dalla presenza dell’ambiente, che resta sullo sfondo. Questa differenza di piani temporali si sperimenta in una specie di assenza che non è un effetto della scomparsa fisica, 107

ma di una distanza che si apre fra la presenza tematica della cosa, ai «sensi» e nelle immagini e nei suoni delle parole, e ciò che deve restare sullo sfondo. In questo senso il carattere «istantaneo» della «sensibilità» non è un tratto proprio della materia fisica (come altrove Kant afferma: cfr. KrV A 19, B 33, A 111, 114 e cfr. A 128), ma è funzione del procedere di una coscienza: quella distanza, insieme con quella relativa ai ricordi di ciò che non è più, è costitutiva della apertura delle possibilità spazio/temporali del fenomeno. Kant accenna a questa distanza, punto cieco della coscienza inafferrabile da «intuizioni», «immagini», «schemi» o «regole» o «concetti discorsivi», parlando del carattere «nascosto» dell’«arte» «produttiva» della Einbildungskraft (cfr. KrV A 141, B 181). Perché, però, attribuire questa differenza e questa sintesi all’«animo umano» e non alla relazione stessa fra uomo e natura? Secondo quanto abbiamo osservato, la fisicità dell’esperienza non è di per sé piuttosto istantanea che persistente. Non è affatto necessario concludere, come vuole Kant, che il perdurare del campo è un effetto della capacità (Kraft) della immaginazione o della memoria di trattenere gli innumerevoli istanti di percezione tematica. Il campo resta qualcosa di permanente in relazione al movimento ordinato del mio parlare, ricordare, tracciare linee immaginarie, contare, ma non ne è l’effetto, come se quello fosse la causa. Il «fatto» che, camminando in un campo, la memoria e l’immaginazione si attivino in immagini e parole che si susseguono in un ordine temporale non attesta che l’esistenza e la permanenza del campo sia un effetto della loro attività: non più di quanto attesti, viceversa, che immagini e parole siano effetti della cosa stessa. Fra coscienza e mondo la relazione non è di causa-effetto. Più in generale: il «fatto» che nell’immaginazione e nel linguaggio la memoria sia continuamente attiva nel connettere e ordinare fenomeni interni di breve durata acustica o visiva, non porta a concludere che la permanenza delle cose sia solo un effetto dell’immaginazione. Il mio stesso contare e le mie stesse parole «passano» in relazione a un mondo e un ambiente fisico cui non dubito di appartenere e che riconosco avere tratti di relativa maggiore stabilità, sulla quale faccio implicitamente conto quando mi dispongo a riflettere, immaginare e contare. Ambiente, corpo, cose, memoria, immagini e parole sono già sempre insieme prima di ogni presa di coscienza: nella quale di volta in volta accade una determinata re108

lazione fra permanente e mutevole, «sensibile» e «non-sensibile», presente e assente. Non c’è mai un punto-zero per l’io stesso (non c’è mai un primo momento per la coscienza ma sempre solo un secondo!) a partire dal quale contare il tempo e ordinare il mondo: l’«io» sprofonda a se stesso, nel mondo e come il mondo, nell’immemorabile. Quell’immemorabile e inafferrabile che non è più «immaginazione» di quanto sia la «natura», una volta che non venga fraintesa come insieme di cose3: «io» non saprei ricordarmi di me senza le «sensazioni», per esempio, della mia temperatura, della pressione sanguigna, del respirare ecc., nella loro immemoriale connessione con i «sensi» che mi tengono in rapporto con l’«esterno». Questa fisicità è talmente «stabile» e legata a «me», e nello stesso tempo così poco definibile, così distante e spazio/temporalmente aperta, che non potrei pensare «io» (e il «mio» contare, ordinare, dire parole) fuori da questa tensione. Fuori da essa sembra forse meno difficile pensare un «tu» come interlocutore di un discorso astratto dal mondo, eco della propria voce interiore. 4. La voce dell’anima e la «sensazione». Descartes e Agostino L’interpretazione kantiana della natura come sensibilità istantanea ha un antecedente decisivo in Descartes. Egli cerca una stabilità e una unità di misura nella presa dell’«io», che sembra potersi possedere nell’atto di «pensarsi». Così però l’esistenza diventa istantanea: Io sono, io esisto; è certo. Ma per quanto tempo? Invero fintantoché penso (cogito); perché forse potrebbe accadere, se cessassi ogni pensiero, di finire subito completamente di esistere4.

Io posso illudermi di «raccogliere» (cogitare) me stesso in presenza5, con «chiarezza», solo nel momento in cui me lo dico, con la mia voce interiore, e per la brevissima durata di questo suono interiore: «ecco, io sono, io esisto»: Alla fine occorre concludere che questa proposizione (pronuntiatum), Io sono, io esisto, è necessariamente vera ogni volta che viene da me pronunciata (profertur) o concepita nella mente6.

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Ogni verità viene da qui, anche quella della «sensazione»: verità indubitabile del «sentire» è che «mi sembra di vedere, udire, aver caldo»: Ciò non può essere falso; ciò è quanto propriamente in me si chiama sentire; e che, preso precisamente in questo modo, non è nient’altro che pensare7.

La verità della «natura» sembra essere ciò che io posso accertare come esistente solo nell’istante in cui dico a me stesso, interiormente, di «sentirla». Ciò ha una conseguenza riduttiva. Ciò che è accertabile nell’istante della voce interiore non è alcuna cosa o persona nel mondo, i quali rinviano a relazioni mai totalmente presenti alla coscienza osservativa istantanea. Il pezzo di cera sfugge ogni volta che il cogito cerca di afferrarlo nelle «sensazioni», molteplicità istantanee senza continuità significativa con quelle del momento precedente. Così sembra che spetti alla «solius mentis inspectio»8 unire nel tempo e nello spazio ciò che proprio il cogito ha separato. La concezione cartesiana del tempo e della natura ha, a sua volta, un antecedente nella tendenziale sottrazione agostiniana del tempo al mondo naturale, accentuando interiorità e individualità rispetto alla tradizione aristotelica. Per Aristotele la ricerca «fisica» sul tempo ha come suo orizzonte il movimento del mondo, senza prevalenza assoluta del movimento interno all’anima individuale rispetto al movimento esterno. L’anima umana in Aristotele non è mai veramente indipendente dal mondo condiviso con cui è in relazione, nonostante noi possiamo fare qualche esperienza del tempo anche quando «siamo nell’oscurità e non subiamo affezioni per il tramite del corpo»9. La identità della nostra anima è legata anche al luogo in cui si trova, come mostra proprio l’esempio limite di coloro che in Sardegna, secondo la leggenda, dormono presso le tombe degli eroi10. Quando si risvegliano, dice Aristotele, sembra che il tempo non sia passato. La posizione di questo problema è comprensibile se il tempo viene riferito non solo all’assenza di mutamenti nell’animo, ma anche all’apparente assenza di mutamenti nel luogo e nella posizione. C’è una reciprocità fra anima e fisicità nella misura del tempo: la misura del tempo avviene certamente con riferimento anche all’anima indi110

viduale, ma il tempo del ricordo individuale si misura nella relazione reciproca con stato e moto di un mondo «fisico»11. Il «numerare» non è da intendere solo nel senso del contare interiore individuale, ma è sempre una relazione dell’anima con le proprietà delle cose, che appartengono a un mondo condiviso12. L’approccio agostiniano è radicalmente diverso da quello leggibile nella Fisica13. Nell’undicesimo libro delle Confessioni Agostino sembrerebbe voler affrontare la questione del tempo al livello proposto dalla tradizione cosmologica antica, e rispondere a questa con il suo concetto di tempo come «presenza» del presente, del passato e del futuro. Ma la domanda cosmologica sul tempo resta intimamente orientata dalla questione della salvezza, ed elaborata nella modalità linguistica della confessione. Egli cerca il tempo e la sua misura anzitutto in una capacità della «sua» anima (Confessioni XI, 26, 33) di essere «presente» (XI, 15 e 20) a se stessa, nel tempo di una confessione al Tu divino. In questo tempo l’anima, nell’attesa e nell’ascolto della «risposta» di Dio (X, 26), ascolta la propria disposizione e le proprie parole. L’«attenzione» e l’«insistenza» in questo ascolto richiama l’anima via dal «disturbo» delle «affezioni» (XI, 27, 34 e 36). Ogni nuovo atto, con cui la voce interiore riprende nuovamente l’anima dalla distrazione, la libera dall’«affezione» e dalla sua cosa, che non la interessa più. Essa diventa passata. Le cose sensibili appaiono transitorie, e il presente sorge come istantaneo, «inesteso» (XI, 15 e 21). Il «presente» del tempo in cui il mondo può aspirare alla salvezza è, dunque, il tempo di un’anima che parla a se stessa mentre si «confessa» al Tu divino, si sottrae alle affezioni che lascia al passato, attende la risposta di Dio. Questo tempo ha una misura ben diversa da quella di un’anima che si lasci a sua volta misurare da un coinvolgimento nelle «affezioni». Questo tempo ha la sua misura nell’ascolto che l’anima fa della propria voce confessantesi. Qui sembra avvenire il privilegio di una misura acustica «interiore» del tempo. Ne sono sintomo non trascurabile le affermazioni delle Confessioni, per cui le capacità umane di trattenere il suono o la vox che sfugge, di scandire ritmicamente e misurare metricamente il tempo musicale (XI, 27 e cfr. X, 9), proverebbero che l’animo possiede una misura del tempo autonoma dalla natura14. Nelle Confessioni (XI, 26 e 27) Agostino riprende la propria valorizzazione, già del De Musica (VI, 2-6), di una capacità 111

ritmica indipendente sia dai ritmi corporei della respirazione o della pulsazione cardiaca, sia dai ritmi della memoria: dunque indipendente dai ritmi della natura. I ritmi «che si hanno in silenzio [...] sembrano più autonomi [...] di quelli in rapporto al corpo» (De Musica VI, 6.16). Agostino li chiama «ritmi del giudizio» (numeri iudiciales). Si potrebbe obiettare ad Agostino che questo modo metricoritmico non può soddisfare una domanda più ampia intorno al tempo. Un esercizio ritmico, una musica, o il contare fra sé il tempo del movimento di un corpo, per esempio della percorrenza di una strada per raggiungere una meta, sono modalità del contare a loro volta misurate dal «tempo» che è proprio di unità di misura più grandi: dimensioni di esperienza del mondo in cui un certo ritmo musicale o un certo «contare» il tempo possono essere giudicati come «giusti» oppure come segnati da fretta o lentezza. L’unità di misura principale non è mai offerta solo da un contare secondo un metro interno individuale, ma da interpretazioni di contesti vitali cui appartengono una musica, il moto di un corpo, la velocità con cui si va verso il luogo in cui si è attesi. Agostino non nega certamente che la misura del tempo stia più in alto di quella ritmico-acustica: infatti alla fine del De Musica subordina i ritmi del giudizio a quelli della «ragione». Questi sono in relazione con una esperienza della misura più alta, propria della dimensione religiosa culminante nel fuoco della caritas: in questo senso conclude il libro VI del De Musica. Ma nel De Musica il passaggio dai «ritmi del giudizio» a quelli etici e religiosi è una fuga molto veloce, attraverso rapidi cenni a temi neopitagorici e neoplatonici, verso la dimensione speculativa e spirituale della «uguaglianza» dell’animo con se stesso in Dio, contro la curiositas e l’amor actionis (VI, 10, 27; 12, 36; 13, 39-40). Una fuga che lascia poco spazio a una analisi effettiva della temporalità propria delle «virtù» in relazione con l’esistenza nel mondo. E ancora nelle Confessioni il raccoglimento dell’anima nella intentio contro la distentio, e la sua extentio verso il fuoco divino (XI, 29, 39), sono preparati – quasi con una autocitazione dal De Musica mediante il richiamo al verso «Deus creator omnium» (De Musica VI, 17, 57; Confessioni XI, 27, 35) – dalla prova di indipendenza dalla natura che l’anima dà a se stessa, con la capacità di misurare il tempo nel ritmo della voce interiore. La concentrazione sul ritmo inter112

no rivela nell’animo una capacità di resistere all’irruzione delle «affezioni»: la stessa capacità che ha il pensiero (cogito) mediante la memoria, con cui trattiene le cose transeunti «a portata di mano» (tamquam ad manum posita in ipsa memoria) per raccoglierle, per poterle sapere, come adunandole dopo una dispersione: da ciò si dice «cogitare». Infatti cogito è per cogo ciò che agito è per ago, e factito per facio (Confessioni X, 11).

Ma da dove viene la sicurezza di avere «a portata di mano» la stessa «voce» interiore con cui la coscienza può mettersi in ascolto della risposta di Dio? La preghiera che Agostino intreccia alla confessione (cfr. per esempio XI, 31) testimonia che per lui non solo la risposta divina, ma anche la stessa voce interiore non è semplicemente disponibile alla intenzione di un «io». Quando la tarda teologia medievale e la sua ricezione protestante hanno pensato un Dio come volontà assoluta, capace di sottrarsi a ogni misura mondana di comunicazione, l’interpretazione ritmico-acustica del tempo ha però offerto una possibilità di resistenza: secondo lo sviluppo cartesiano di questa interpretazione, l’«anima» individuale può raffigurarsi nell’atto assoluto di afferrarsi nella scansione della voce interiore che dice di sé: «ora esisto». Questa teologia e questa psicologia hanno pagato il prezzo di questa certezza con la perdita della natura. Descartes pensa il «tempo» dell’io come fatto di istanti atomici, in serie; ma così, al fondo, pensa anche Hume, il quale giunge con una certa coerenza a dissolvere un io che venga presentato come «sostanza». Kant pone la sintesi nella dimensione trascendentale soggettiva del tempo nella misura in cui, non tanto diversamente da Hume, pensa la natura come un insieme caotico di sensazioni istantanee (cfr. KrV A 111). Privilegio della «voce» dell’anima o della «coscienza» e riduzione della natura a insieme di oggetti vanno insieme. Una certa interpretazione ritmico-acustica del tempo – originariamente funzionale alla «confessione» verso un «tu» identificato con il Dio della teologia cristiana tardo-antica, poi al raccoglimento nel cogito – sembra un antecedente della oggettivazione della natura, e del corrispondente «soggetto», non meno significativo del privilegio del «vedere» sul quale ha attirato l’attenzione Heidegger15. Sicché la questione nominata come «solipsismo» o privilegio della dimen113

sione «monologica» non riguarda solo il riconoscimento della originarietà del rapporto io-tu o io-altri, ma anche e soprattutto la misura in cui l’alterità del «tu» e dell’«altro» è approfondita: ossia se i «soggetti» riconoscano il proprio debito a una natura da cui provengono e che fondamentalmente non dominano, o se invece assumano come modello, anche del dialogo, una coscienza che presume una precedenza sul mondo. 5. Natura, tempo e linguaggio La tesi di Kant, per cui l’esperienza del tempo avviene nello stesso evento del riconoscere ciò che si presenta grazie a un ricordare e grazie a una distanza non meramente «sensibile», va dunque accolta, ma estesa oltre il fuoco della coscienza presente a se stessa nella voce interiore. Le identificazioni delle cose avvengono secondo modalità e tempi in cui «io», la natura e gli «altri» siamo già da prima in relazione, così che non è possibile privilegiare il tempo della «mia» coscienza rispetto a quello degli avvenimenti interpersonali e naturali. Le mie attese misurano il tempo della natura e del mondo, ma esse sono a loro volta misurate dai tempi imposti dalla natura e dalle vicende del mondo. La filosofia, non meno di altri modi della riflessione, può osservare come nella giovinezza il tempo venga misurato in relazione con le molte forze e la poca esperienza, e come possa cambiare la misura del tempo con l’aumento dell’esperienza e la diminuzione del tempo disponibile, con l’attenuazione delle pulsioni più violente del desiderio; e come tutto questo dipenda anche dalla salute. La filosofia rivendica giustamente, contro il realismo ingenuo, che la fisicità è già sempre interpretata in relazioni di «segni» che indicano e mostrano qualcosa, nel «linguaggio»; ma va altrettanto riconosciuto, reciprocamente, che segni e linguaggio sono fisicità che viene a manifestazione. Natura, cose, persone non sono qualcosa di compiuto in sé, fuori dal loro indicare verso l’apertura dell’esistenza. Reciprocamente, non c’è segno o linguaggio che non siano apertura del mondo fisico. Uomo, animale, pianta, pietra si affacciano ogni volta nell’aperto dell’esistenza come segni di memoria di un passato insieme familiare e immemorabile. Sorgendo da questa profondità, la memoria offre in quei segni passaggi16 verso nuove possibilità o necessità di riprendere posizione. Parole, un disegno 114

o dipinto, un gesto o il volto di una persona o un portamento, l’apparire di un animale, di una pianta, di una cosa, l’odore del cibo e la fame, un cambiamento del tempo, un mutamento di energia, tutto ciò che parla, o fa segno, chiama di volta in volta a determinare la relazione fra i due poli della fisicità: il determinato «questo» o «quello» e lo spazio/tempo aperto del «possibile». Ogni «segno» o «linguaggio» apre un tempo e un luogo per esistere e testimoniare del legame mobile fra condizione vincolante e possibilità liberante. In questo senso, segni eminenti fra gli altri sono: venire alla luce, desiderare, ammalarsi, morire. Non «dati» di fatto, ma occasioni per determinare come abitare la terra. Le differenze umane, individuali e collettive, testimoniano delle differenti possibilità di risposta. La natura trascende tanto la «sensazione» e il «dato» della percezione, quanto la coscienza che ascolta la sua voce interiore. Spazio e tempo non sono dimensioni solo «sensibili» o «immaginative», ma invito e occasione, inizio di ciò che è segno e linguaggio. Perciò essi non possono essere affatto al di sotto dello spirituale o del linguaggio17. 6. Tempo della natura e anima del mondo Ancora Kant è guida possibile per procedere oltre i suoi stessi divieti. Egli mostra che intendere la natura come «dato» impedisce di scorgervi la potenzialità etica: i «dati» possono incontrare solo bisogni particolari e «imperativi ipotetici». Altrimenti esperita, la natura può incontrare l’incondizionato morale: Ritengo che [...] l’avere un interesse immediato per la bellezza della natura [...] è sempre segno di un animo buono; e che se questo interesse è abituale e si unisce volentieri alla contemplazione della natura, indica almeno una disposizione d’animo favorevole al sentimento morale [...]. Chi contempla in solitudine (e senza intenzione di comunicare agli altri le sue osservazioni) la bella forma di un fiore selvaggio, di un uccello, di un insetto ecc. per ammirarla, amarla, sì che non vorrebbe assolutamente che essa mancasse nella natura, anche se dovesse venirgliene un danno, men che mai immaginandosene un vantaggio, questi ha un interesse immediato e intellettuale alla bellezza della natura: ossia gli piace il suo prodotto non solo secondo la sua forma, ma

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anche la sua esistenza, senza che in questo abbia parte una attrattiva sensibile o vi connetta qualche scopo.

Per Kant l’eccedenza «estetica» della natura rispetto agli scopi risveglia una analogia con la autonomia della moralità rispetto a scopi particolari, una analogia con il «piacere del sentimento morale»: Interessa alla ragione che le idee (per le quali essa produce nel sentimento morale un interesse immediato) abbiano anche realtà oggettiva, cioè che la ragione mostri almeno una traccia (Spur), dia un cenno (Wink) di contenere in sé qualche fondamento per ammettere un accordo regolare dei suoi prodotti col nostro piacere indipendente da ogni interesse [...]; colui che prende interesse al bello della natura non ne sarebbe capace se prima non avesse avuto un interesse ben fondato per il bene morale18.

Secondo l’impianto soggettivista della teoria kantiana tutto avverrebbe in un gioco fra le facoltà umane. Tuttavia il fenomeno che Kant segnala si lascia leggere anche altrimenti, oltre i limiti da lui assegnati: nella esperienza della natura come ciò che esiste al di là degli scopi emerge il «cenno», la «traccia» di una possibile esperienza dell’esistenza umana al di là della temporalità determinata e scandita dalla attesa della soddisfazione di bisogni. Sarà Hölderlin a radicalizzare questa possibilità del pensiero kantiano, nella misura in cui ne abbandonerà il soggettivismo: l’essere stesso (Seyn) della natura, del mondo, si fa cogliere appena in un «cenno» (Wink), nella «traccia» (Spur) di un modo di esistenza lontano, da che la natura è stata ridotta a oggetto di bisogno e di calcolo19. Questa traccia illumina ancora una condizione della moralità, reciproca rispetto a quella sola che Kant riconosce: l’apertura morale verso l’altro in quanto «fine» e non solo «mezzo» richiede che egli non sia compreso preliminarmente in base a regole (come Kant tende a fare applicando le massime morali), ma che lo si incontri anzitutto nella sua commovente mancanza di protezione di fronte all’enigma del destino. Solo questa accoglienza preliminare permette di collocare la sua eventuale non condivisione delle «nostre» regole morali al livello di ciò che va interpretato20. In questo senso, una tale esperienza della natura viene prima del bene e del 116

male, è una esperienza di innocenza. Il suo tempo non è misurabile su attese o risentimenti, né sulla voce della propria coscienza. Esso chiede un’anima abbastanza grande e generosa per avervi una misura: né solo dell’io (individuale o intersoggettivo), né del solo «spirito», ma del mondo21. 7. Dio? Si apre così una dimensione «divina», come indicano gli antichi, o si resta in un ateismo sostanziale? Verso questa seconda risposta potrebbe inclinare chi ritenga essenziale alla esperienza religiosa ciò che viene prima e dopo il tempo di questo mondo, se giudichi che questo è un tempo di «mancanza» che richiede integrazione in ciò che lo precede o lo compie. Ma in che senso questo mondo è mancante? L’innocenza della natura si esperisce nella assenza di direzioni di senso, finalizzate a scopi. Questa esperienza sembra difficile da sostenere stabilmente. Tuttavia essa non può essere rifiutata o aggirata. Infatti abbiamo detto come questa assenza – cui concorre anche il movimento dell’assentarsi nella fisicità – si riveli condizione delle possibilità di esistenza, e dello stesso «presente». Essa va perciò accolta positivamente. Invece il tempo concentrato nella presenza acustica della voce interiore – sia che essa parli con un «tu» non naturale, sia che parli con se stessa – sperimenta una mancanza di mondo e di natura di cui soffre in «questo mondo», in modo tale che essi restano proiettati nella attesa di un futuro o nel rimpianto di un passato. Dalla prevalenza storica di quest’ultima interpretazione del tempo sembra venire una ulteriore difficoltà a sostenere stabilmente, in un mondo condiviso, l’esistenza fine a se stessa, al di là delle attese. In questa prospettiva resta una istanza di «compimento» che non riguarda il prima o il dopo rispetto a «questo mondo», ma si articola nella questione: come può diventare stabile e profonda una esperienza gratuita del tempo? In questo modo cambia anche la questione se vi sia del divino e (eventualmente) come sia, poiché si esce dal modo di ragionare per cause ed effetti: se la natura e il vivere umano in essa siano una vicenda terribile o qualcosa di buono che eccede talvolta le stesse aspettative, o un intreccio inestricabile di entrambi, non è già deciso da qualche «ente» né questione che si possa risolvere interrogando 117

stati di cose, ma dipende da una capacità di risposta più o meno aperta. Un «dio» è il volto – crudele o generoso – che la natura prende in relazione a una risposta umana22. Un «dio» generoso, «padre», libero dall’ansia del tempo e perciò «eterno», non può avvenire che grazie a un sacrificio dell’io, del suo «mondo», per gratitudine verso una esistenza non dovuta. Nessuna necessità oggettiva, né sforzo di volontà, possono da soli garantire che questo avvenga: l’evento della gratitudine non dipende solo dal singolo, ma anche dai modi in cui accadono la fisicità, la vita e la parola fra gli uomini. Una «attesa» verso questa possibilità non sembra poter essere segnata da spirito di rivincita verso il presente o da calcolo: come potrebbe la gratitudine incontrare l’uomo che pretenda di comandare al destino? Perciò spesso la parola religiosa, sia biblica che greca, è spaesante verso chi vi cerca fatti o leggi o giustizia troppo umana: la vera colpa di Edipo, l’apparente solutore di enigmi, non è quella di aver voluto portare l’enigma della vita sul piano dell’accertamento delle cause e delle colpe? I miti platonici parlano in modi diversamente aperti, come mostra la storia delle interpretazioni: secondo che del «bello» e dell’«idea» si dia una interpretazione gnoseologica o profondamente etica23. E non si presta a letture ben diverse anche l’invito evangelico a non amare la propria vita «in questo mondo» per averla «nella vita eterna» (Gv 12, 25)? Come interpretare «questo mondo»? E la «vita eterna»?

Note J.G. Fichte, Grundriß des Eigentümlichen der Wissenschaftslehre (1799), in Fichte’s Sämmtliche Werke, a cura di I.H. Fichte, Berlin 1834-46, vol. I, p. 410. 2 Le presenti riflessioni hanno un debito particolare verso l’elaborazione hölderliniana di elementi kantiani tesa a render conto, oltre Kant, dell’esperienza del tempo e della natura al di là della prospettiva dell’«io»: cfr. Das untergehende Vaterland... e Seyn, Urtheil, Modalität, in F. Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe, a cura di M. Knaupp, vol. II, Hanser, München 1992, pp. 72 e 49. Ne ho dato recentemente interpretazione in Hölderlin: «Andenken». Gli enigmi della memoria, in G. Severino (a cura di), Anima, tempo, memoria, Angeli, Milano 2000. 3 Cfr. F. Hölderlin, per il quale l’unità dell’«io» e del «mondo» risulta da un differimento da sé della «natura»: cfr. Hyperion, SW I, pp. 685 sgg. e 759-60. 4 R. Descartes, Meditationes de prima philosophia, Secunda, in Oeuvres, vol. VII, a cura di Ch. Adam e P. Tannery, Vrin, Paris 1964, p. 27. 1

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5 Cfr. Agostino, Confessiones X, 11: «Et cogenda rursus, ut sciri possint, id est velut ex quadam dispersione colligenda, unde dictum est cogitare». 6 R. Descartes, Meditationes de prima philosophia, Secunda, cit., p. 25. 7 Ivi, p. 29. 8 Ivi, p. 31. 9 Aristotele, Fisica IV, 219 a, 4 sgg. 10 Ivi, 218 b, 24 11 Cfr. ivi, 220 b, 15 e 223 b, 15. 12 Cfr. L. Ruggiu, Anima e tempo in Aristotele, in L. Ruggiu (a cura di), Il tempo in questione, Guerini e Associati, Milano 1997, pp. 37-62, in particolare pp. 51-58 e, dello stesso autore, Tempo e anima in Agostino, in L. Perissinotto (a cura di), Agostino e il destino dell’Occidente, Carocci, Roma 2000, pp. 79-118. 13 La trattazione del tempo nella Fisica non esaurisce la riflessione aristotelica sul tempo, che attraversa l’etica, la politica, la «poetica», ecc.; non può essere però sottovalutato il difetto di una corrispondente tematizzazione. 14 Mi mantengo qui all’interno delle accezioni agostiniane di «ritmo» e «metro» (cfr. De Musica III, 1, 2), in effetti riduttive: cfr. J.J. Nattiez, Il discorso musicale, Einaudi, Torino 1987, pp. 113 sgg. 15 Con il consenso di E. Lévinas: cfr. Totalité et infini, Kluwer, Dordrecht 1971, p. 205: «Il est incontestable que l’objectivation se joue d’une façon privilégiée dans le regard». 16 Così «segno» e «linguaggio» in F. Hölderlin, Das untergehende Vaterland..., SW II, p. 72. 17 Diversamente intende E. Lévinas, nella misura in cui pensa il «mondo» (naturale) come «donné» (De l’existence à l’existant, Vrin, Paris 1998, p. 58) e perciò trova la vera trascendenza solo oltre la natura, nella relazione con gli altri nel linguaggio: cfr. Totalité et infini, cit., pp. 207-208 e 212. 18 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, B 166 sgg. (Werke, a cura di W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1983, vol. VIII). Kant qui è vicino a Rousseau (Confessioni XII), che si abbandona in solitudine alla relazione «senza oggetto» con la natura, sull’isola di Saint-Pierre e sulle acque del lago di Bienne. 19 Cfr. F. Hölderlin, Hyperion, Vorletzte Fassung, Vorrede, SW I, p. 558; Seyn, Urtheil, Modalität, cit.; Rousseau, SW I, p. 268, vv. 29-32; Der Weingott, SW I, p. 319, v. 147; Griechenland, terzo abbozzo, SW I, pp. 479-80, vv. 32-35 e cfr. Dichterberuf, prima stesura, SW I, p. 270, vv. 49-56. 20 L’altro non deve essere ricondotto ad altro «io», cosa che avviene (tendenzialmente per esempio nell’idealismo tedesco) quando l’io è ipertrofico. Perché riconosca «te» come altro, è decisivo che «io» stesso riconosca il mio debito verso ciò che non è io, ma natura: da cui nasco e in cui resto. 21 Per una ripresa postmetafisica del concetto di «anima del mondo» cfr. F. Hölderlin, Hyperion, SW I, p. 760, r. 23. 22 Ciò non significa che gli uomini creano Dio, come nell’antropocentrismo moderno e di Feuerbach: questo sarebbe un ragionare per «cause» ed «effetti», mentre qui si sta dicendo che la natura offre occasione, e la risposta umana compie, accogliendo o rifiutando. 23 In questo senso sarà possibile ripetere la verità più ampia dell’«amore» cui il «bello» platonico invita?

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Luigi A. Radicati di Brozolo

L’evoluzione del concetto di tempo in fisica*

Die Zeit, die ist ein sonderbar Ding. H. von Hofmannsthal Der Rosenkavalier

1. Il tempo, afferma Thomas Mann, è «un mistero, un mistero privo di essenza, inafferrabile e potente. Una condizione del mondo delle apparenze, un movimento congiunto e immedesimato all’esistenza del corpo nello spazio e nel suo movimento»1. Più saggiamente Sant’Agostino riconosce la difficoltà di dare una precisa definizione di questo concetto «si nemo a me quaerat scio, si quaerenti explicare velim nescio»2. A dar retta al Vescovo di Ippona dovrei posare la penna e riconoscere anch’io la mia ignoranza. Tuttavia lo scopo di questo mio saggio non è quello di dare una definizione di tempo ma, molto più modestamente, quello di mostrare come il modello che la fisica ha usato per descrivere il tempo e lo spazio sia cambiato e si sia arricchito di nuovi significati nel corso dei secoli. Caratteristica comune di tutte le definizioni che si sono succedute è stata il tentativo di liberare il concetto di tempo da ogni condizionamento psicologico, di renderlo per così dire asettico: il risultato è stato purtroppo di allontanarlo sempre più dall’intuizione comune. Così Newton, nello Scolio che segue la definizione VIII all’inizio dei Principia, si è sforzato di definire in maniera oggettiva e precisa il concetto di tempo e di differenziarlo nettamente da quello di spazio e di materia: 120

Tempus Absolutum, verum et mathematicum, in se et natura sua sine relatione ad externum quodvis, aequabiliter fluet alioque nomine dicitur duratio: Relativum, apparens et vulgare est sensibilis et externa quaevis durationis per mater mensura (seu accurata seu inaequabilis) qua vulgus vice veri tempora utitur; ut Hora, Dies, Mensus Annus3.

Una simile definizione rappresenta chiaramente una schematizzazione eccessiva, in quanto non vi è traccia in essa della caratteristica essenziale che associamo al concetto di tempo, cioè quella di scorrere in una sola direzione, uguale per tutti, dalla nascita alla morte, o per dirla con il linguaggio di oggi, di essere caratterizzato da una freccia diretta verso il futuro. Per Newton passato e futuro sono simmetrici, come mostra il fatto che le equazioni del moto della meccanica newtoniana restano invariate se si inverte il segno del tempo: la direzione del flusso del tempo è decisa unicamente dalle condizioni iniziali stabilite arbitrariamente dal Creatore. Alla maggior parte delle persone può apparire quanto meno inappropriato chiamare tempo una grandezza che non può distinguere il passato dal futuro. Sarà pure inappropriato, ma un tempo senza direzione è stato sufficiente per costruire l’imponente edificio della meccanica classica. Così gli scienziati hanno accettato la definizione newtoniana anche se non molti di essi si sentono di sottoscrivere l’affermazione di Einstein: La distinzione fra passato e futuro è soltanto un’illusione, ancorché si tratti di un’illusione persistente4.

Non credo che gli scienziati del XVIII secolo abbiano notato la simmetria fra passato e futuro implicita nella teoria della gravitazione di Newton e abbiano rilevato l’insufficienza della definizione del concetto di tempo dei Principia: da una parte il concetto di invarianza di una teoria rispetto ad un gruppo di trasformazioni era a quell’epoca ignoto; dall’altra la definizione newtoniana di tempo sembrava ampiamente confermata dagli straordinari successi della meccanica celeste che facevano addirittura dire a D’Alembert che «finalmente è stato scoperto e sviluppato in ogni dettaglio il vero sistema del mondo»5. L’universo della fisica newtoniana era essenzialmente un universo stazionario, dove tutto si ripete eternamente: un universo 121

che, una volta messo in moto dal grande Orologiaio, avrebbe continuato per sempre il suo corso. Un universo eterno senza tempo, senza principio e senza fine, il quale, come dice Alexandre Koyré6, rappresenta la versione matematica della filosofia atomistica di Democrito. 2. Naturalmente Newton sapeva bene che molti fenomeni violano la simmetria fra passato e futuro che caratterizza le equazioni della meccanica celeste: l’ampiezza delle oscillazioni libere di un pendolo decresce col tempo e tende a zero, mentre nessuno ha mai visto un pendolo a riposo mettersi spontaneamente ad oscillare. Del resto la maggior parte dei fenomeni che conosciamo violano l’invarianza rispetto all’inversione del tempo. Tuttavia a quell’epoca non si conosceva – e in molti casi ancor oggi non si conosce – una trattazione matematica rigorosa dei fenomeni irreversibili, cosicché si poteva pensare che tali fenomeni non fossero per così dire fondamentali: le forze di attrito non potevano ispirare la stessa ammirazione della legge di gravitazione universale e perciò la rottura della invarianza rispetto all’inversione temporale poteva essere considerata una caratteristica del nostro imperfetto mondo sublunare, mentre nel campo dei fenomeni fondamentali passato e futuro potevano essere considerati una pura illusione. Il primo passo verso una trattazione matematica dei fenomeni unidirezionali fu compiuto nel 1822 da Jean Baptiste Fourier, che riuscì a dare una precisa descrizione matematica della propagazione del calore. In testa alla sua Théorie Analytique de la chaleur egli scriveva: «Et ignem regunt numeri», mostrando così che persino il calore – o meglio la sua propagazione, che è la causa di molti fenomeni temporalmente asimmetrici – può essere trattato more matematico. Poco dopo Sadi Carnot, nel suo libro Réflexions sur la Puissance Motrice du Feu (1824), formulò il secondo principio della termodinamica, il quale, pur nella sua apparente semplicità, ha un immenso potere predittivo e fornisce un indicatore obbiettivo della direzione del tempo. Senza entrare nei dettagli dell’opera di Carnot, basti dire che il principio della non diminuizione dell’entropia, che è la formulazione matematica (dovuta a Clausius7) della scoperta di Carnot, permette di definire una direzione preferita del fluire del tempo, ossia di distinguere oggettivamente il pas122

sato dal futuro, misurando la variazione dell’entropia, che è una ben definita funzione di stato. Per inciso, vorrei far osservare ai riduzionisti professionali come sarebbe stato difficile prevedere che dallo studio dell’efficienza delle macchine a vapore sarebbe poi nato un concetto così astratto come quello di entropia e addirittura l’indicazione dell’esistenza della freccia del tempo. 3. Restava tuttavia da spiegare come l’esistenza di un indicatore della direzionalità del tempo potesse riconciliarsi con la reversibilità delle leggi fondamentali. Quando, intorno al 1870, Ludwig Boltzmann cominciò ad affrontare questo problema, oltre alla legge della gravitazione erano state scoperte le leggi, altrettanto fondamentali, dell’elettromagnetismo, le quali risultarono anch’esse invarianti per inversione temporale. Le leggi fondamentali microscopiche erano dunque simmetriche rispetto alla trasformazione t  -t e non potevano quindi definire una freccia del tempo, mentre quest’ultima appariva nelle leggi macroscopiche della termodinamica. La dimostrazione della compatibilità fra questi diversi comportamenti fu opera di Maxwell, di Lord Kelvin e, specialmente, di Boltzmann. Il prezzo che si dovette pagare fu, dal punto di vista filosofico, non piccolo: si dovette cioè accettare che una legge così ben stabilita come quella dell’aumento dell’entropia non fosse rigorosamente una legge assoluta come quelle che governano i fenomeni elettromagnetici e gravitazionali, ma soltanto una legge probabilistica. In linea di principio tale legge può essere violata, sebbene la probabilità di una tale violazione sia, per corpi macroscopici (come per esempio le macchine a vapore di Carnot) straordinariamente piccola (dell’ordine di 0, ventiquattro zeri seguiti da 1). Neppure il più spericolato scommettitore accetterebbe di giocare in una situazione così disperata8. Il concetto di probabilità non aveva, fino alla seconda metà dell’Ottocento, pieno diritto di cittadinanza in fisica. Era stato già utilizzato da Daniel Bernoulli per dedurre la legge di Bayle e Mariotte da un modello atomico dei gas, che peraltro a quel tempo (la metà del Settecento) non era ancora stato dimostrato; più tardi Gauss si servì della teoria della probabilità nella trattazione degli errori sperimentali. Nessuno tuttavia aveva pensato di usare un concetto così totalmente estraneo al rigido determinismo della meccanica classica come base per l’interpretazione di un fatto tan123

to fondamentale come l’unidirezionalità del flusso del tempo. La grande scoperta di Boltzmann fu quella di interpretare l’entropia di un sistema in un dato macrostato come misura della probabilità che, fra tutti i possibili microstati, si realizzino con probabilità accettabile solo quelli compatibili con il macrostato in questione. Maggiore è la probabilità, maggiore è l’entropia, cosicché l’evoluzione verso stati di maggiore entropia significa evoluzione verso stati più probabili. Come tutti sappiamo uno stato disordinato è più probabile (e quindi la sua entropia è maggiore) di uno stato ordinato: al passar del tempo il disordine cresce, a meno di uno sforzo deliberato per rimettere ordine. La freccia del tempo è dunque diretta dall’ordine al disordine. 4. Scoprire la freccia del tempo significa introdurre nella scienza della matière brute, per usare la terminologia di Bergson, il concetto di evoluzione. Per una strana coincidenza le ricerche di Maxwell, di Lord Kelvin e di Boltzmann furono di poco successive alla pubblicazione (1859) del famoso libro di Darwin The Origin of Species. A quell’epoca già si sapeva che le stelle sono costituite di materia ordinaria e, poiché irradiano, esse sono necessariamente soggette a un processo di evoluzione. Lord Kelvin cominciò a studiare l’evoluzione stellare nell’intento di dimostrare che tale evoluzione è troppo rapida per essere compatibile con i tempi lunghi richiesti dall’evoluzione darwiniana. A questo scopo egli cominciò ad investigare quale potesse essere la fonte dell’energia stellare e quanto tempo l’emissione di energia potesse durare senza alterare troppo le condizioni climatiche della terra. Dimostrò così che le fonti di energia note a quel tempo, e cioè l’energia gravitazionale e quella elettromagnetica, non erano in grado di mantenere ragionevolmente costante la temperatura della terra per i tempi che l’evoluzione darwiniana sembrava richiedere9. L’argomentazione di Lord Kelvin era rigorosa ed elegante, ma era fondata sull’erronea premessa che le sorgenti energetiche fossero solo quelle note al suo tempo. Forse una più attenta lettura dell’Amleto avrebbe potuto suggerire allo scienziato inglese maggiore cautela; infatti nel nostro secolo sono state scoperte altre fonti di energie e, come oggi sappiamo, l’energia nucleare è sufficiente a mantenere la radiazione del sole (e delle altre stelle) per tempi tanto lunghi quanto quelli richiesti dall’evoluzione biologica. Per 124

tempi lunghi, ma non per sempre: così, anziché confutare l’evoluzione darwiniana, lo studio dell’energia stellare ha invece dimostrato che anche le stelle evolvono. Esse, come oggi sappiamo, nascono, invecchiano e alla fine muoiono: dalle loro ceneri altre stelle si formeranno per effetto della gravitazione e in queste gigantesche fornaci la materia si trasforma generando dall’idrogeno iniziale gli elementi pesanti della nostra chimica. Sembra dunque che si debba davvero abbandonare l’antico dogma della perennità della materia. Vorrei sottolineare che questa concezione dinamica dell’universo non è frutto soltanto di speculazioni teoriche: la nascita di nuove stelle dalle ceneri di stelle precedenti, il loro invecchiamento e la loro spettacolare fine possono oggi essere osservati quasi in tempo reale. Oggi sappiamo che il tempo con la sua freccia entropica estende il suo dominio al cielo e che l’evoluzione è una caratteristica generale della natura, dovuta all’effetto combinato della gravitazione, delle forze elettromagnetiche e delle interazioni (forti e deboli), ignote a Lord Kelvin, alle quali sono dovute la stabilità e le reazioni fra i componenti del nucleo atomico. Sono soltanto i componenti dell’universo – stelle, galassie e nubi di gas – ad evolvere, o è forse la struttura stessa dell’universo nel suo insieme a variare con il tempo? È difficile evitare questa domanda e invero è la stessa legge dell’aumento dell’entropia a suggerire, come aveva osservato Clausius, che lo stato finale dell’universo debba essere quello di massima entropia, cioè di completo disordine, una sorta di grigio, amorfo Wärmetod. Come vedremo il destino ultimo dell’universo è probabilmente più complicato e per ora ignoto. Del resto, un universo che evolve sembra suggerire che esso abbia avuto un inizio, concetto questo ignoto alla fisica newtoniana. Boltzmann immaginava che all’inizio l’entropia dell’universo sia stata molto bassa e che da questo stato estremamente ordinato e improbabile si siano formate, col passar del tempo le attuali strutture con la creazione di un ordine locale compensato da immense quantità di disordine. 5. Con la scoperta che l’entropia fornisce un indicatore obbiettivo della direzione del tempo si potrebbe pensare che l’evoluzione del concetto di tempo sia terminata e che la scienza abbia finalmente ridato al tempo il carattere distintivo di cui la definizione 125

di Newton l’aveva privato. Tuttavia, come Marcel Proust ha dimostrato ad abundantiam10, la ricerca del tempo è una impresa senza fine e il secolo XX ha scoperto che il tempo è un concetto assai più complesso e sottile di quanto avessero pensato i nostri predecessori, e che esso è inestricabilmente connesso a quello di spazio e persino a quello di materia. Forse intuiva questa connessione Proust, per il quale il tempo delle madeleines è inseparabile da Cambrai: intuizione geniale, che tuttavia mal si presta a una formulazione matematica. In maniera meno poetica Hermann Minkowski espresse questa inseparabilità in un famoso discorso al convegno della Società Tedesca per il Progresso delle Scienze: «Nessuno ha mai visto un posto se non a un dato tempo, o un tempo se non in un dato posto»11. Non è questo il luogo per discutere come Einstein sia giunto a scoprire l’intima relazione che esiste fra quei concetti che Newton voleva nettamente distinti. Basterà dire che la separazione fra spazio e tempo sarebbe, secondo Einstein, oggettivamente possibile soltanto se esistessero segnali che si propagano con velocità infinita, ipotesi che, se pure (forse) accettabile al tempo di Newton, è oggi contraddetta da numerose osservazioni sperimentali. Ogni osservatore può naturalmente separare lo spazio dal tempo, ma tale separazione non è la stessa per tutti gli osservatori e non è perciò oggettiva. La dipendenza dall’osservatore di concetti tanto fondamentali come quelli di spazio e di tempo, che Newton aveva tentato di bandire dalla scienza, è inaspettatamente ritornata. Ai celebri versi di Pope: Nature and Nature’s laws lay hid in night: God said, Let Newton be and all was light!

un irriverente poeta moderno ha aggiunto un finale: ‘T was not for long: for Devil, howling. «Ho let Einstein be» restored the status quo12.

Lo status quo è la crescente incomprensibilità, per la maggior parte delle persone, della natura: la geometria dello spazio-tempo quadridimensionale, nella quale si ambienta la fisica einsteiniana, seppure ben più elegante di quella immaginata da Newton, è in126

comprensibile ai più, che vedono spegnersi la luce che il secolo dei lumi aveva creduto di avere acceso per sempre. 6. Man mano che la scienza progredisce, essa scopre relazioni insospettate fra concetti che sembravano del tutto indipendenti. Per quanto ne so Bernhard Riemann13 fu il primo a mettere in dubbio la concezione tradizionale secondo la quale la geometria dello spazio (oggi diremmo spazio-tempo) è data a priori indipendentemente dalla distribuzione della materia14. Certamente quando si pensava che la geometria euclidea fosse l’unica possibile il problema dell’influenza della materia sulla geometria neppure si poneva. Riemann però conosceva l’esistenza di altre, più flessibili, geometrie: egli fu così indotto a pensare che lo spazio (lo spazio-tempo) poteva ben essere (approssimativamente) euclideo nel piccolo senza però esserlo globalmente. Precisamente lo spazio-tempo poteva essere una varietà quadridimensionale, l’analogo in quattro dimensioni di una superficie curva a due dimensioni come quella della terra (che in piccolo appare piatta) o quella di una sella. La geometria di una varietà è determinata dalla distanza fra due punti infinitamente vicini, distanza che può dipendere dal punto della varietà. È questa distanza, la cosiddetta metrica, quella che, secondo Riemann, è determinata dalla materia e che a sua volta determina il moto della materia stessa. Sarebbe fuori luogo discutere come queste idee anticipatrici abbiano trovato la loro precisa formulazione nella teoria della relatività generale di Einstein, nella quale la gravitazione appare come la manifestazione dinamica della curvatura spazio-tempo. Accennerò soltanto che per quanto riguarda il tempo, che è l’argomento principale che qui ci interessa, la teoria della relatività generale rende la distinzione fra il significato delle quattro coordinate che individuano un punto dello spazio-tempo ancora meno intuitiva di quanto non fosse il caso nel quadro della relatività speciale. Infatti in certe regioni dello spazio-tempo, nei cosiddetti buchi neri, il ruolo della coordinata radiale e di quella temporale possono addirittura scambiarsi15: l’unica cosa che resta invariata è la segnatura della metrica. La metrica stessa (cioè la struttura dello spazio-tempo), tuttavia, non è data a priori, ma deve essere determinata dalle equazioni di Einstein. Con sua grande sorpresa questi scoprì che tali equazioni non hanno soluzioni statiche per nessuna ragionevole distribuzione della mate127

ria. Esistono invece, come poco dopo dimostrò Friedmann16, soluzioni in cui la metrica (cioè la distanza fra i punti dello spaziotempo) varia con il tempo, il che significa che l’universo nel suo insieme si espande o si contrae: attualmente, come dimostrarono le osservazioni di Hubble sulla recessione delle galassie17, l’universo si espande. I risultati di Hubble, forse la scoperta più rivoluzionaria del secolo appena trascorso, riportarono all’attenzione degli scienziati l’antico concetto dell’inizio del tempo e ridiedero rispettabilità scientifica alla parola «cosmogonia». Le equazioni di Einstein conducono inevitabilmente ad un modello evolutivo dell’universo: un universo che ha avuto un inizio nel quale sono nati lo spazio e il tempo, è passato attraverso un periodo di attiva morfogenesi quando si sono formate le strutture (galassie ecc.) che osserviamo oggi nell’universo; un universo cioè in continua evoluzione ed espansione. Dunque il cosmo sembra avere in se stesso una sua freccia del tempo intimamente, ma misteriosamente, connessa alla gravitazione. Durerà per sempre questa espansione ovvero essa rallenterà o addirittura si invertirà? Forse presto sapremo la risposta. Nei poco più che trecento anni che ci separano dalla pubblicazione dei Principia di Newton la fisica ha costantemente dovuto rivedere la sua concezione del tempo. Poco per volta il tempo e l’evoluzione hanno conquistato la scienza della matière brute. L’universo, anziché statico, infinito, senza vita come lo immaginava la fisica newtoniana, oggi ci appare come una struttura finita dove tutto, spazio, tempo e materia, continuamente muta. Possiamo dire di aver finalmente trovato il vero significato di questi concetti fondamentali? Mi sembra improbabile, poiché troppe cose ci sono ancora ignote: non sappiamo ancora quale sia la relazione fra la freccia entropica del tempo e quella definita, non sappiamo bene come, dalla gravitazione; non sappiamo se quei misteriosi e strani oggetti, i buchi neri, possano realizzare la famosa «macchina del tempo» immaginata da H.G. Wells18 poco più di cent’anni fa. Forse ancora più proccupante è la nostra ignoranza su come si possa riconciliare il determinismo della relatività generale con l’indeterminazione insita nei fondamenti stessi della meccanica quantistica. Indubbiamente la nozione stessa di spazio-tempo viene meno per intervalli temporali dell’ordine del cosiddetto tempo di Planck, 128

determinato dalla costante gravitazionale G, dalla velocità della luce c, dalla costante di Planck h: un tempo incredibilmente piccolo (0, quarantatré zeri seguiti da 1 secondi) quando lo spazio-tempo era forse assai più complesso di quanto oggi esso ci appaia, con un numero di dimensioni molto maggiori. Queste regioni spaziotemporali sono completamente inaccessibili alla sperimentazione e restano quindi dominio esclusivo della più ardita speculazione, che forse ci rivelerà nuovi e imprevedibili significati del concetto di tempo. Ma forse meglio degli scienziati sono i poeti a svelarci il significato del tacito infinito andar del tempo: Time present and time past are both perhaps present in time future, and time future contained in time past19.

Note * Questo saggio è la traduzione (con alcune modifiche) di un discorso pronunciato alla VI Conferenza Internazionale della Fondazione Carlo Erba e pubblicato nel volume What is time, Milano 1998, edito dalla stessa Fondazione. L’autore ringrazia la Fondazione per avergli concesso di tradurre questo saggio. 1 Cfr. Th. Mann, Der Zauberberg, trad. it. di B. Giacchetti Serteni, Dall’Oglio, Milano 1945. 2 Agostino, Confessiones XI, 14. 3 I. Newton, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, Barillot et Filii, Genevae 1739, p. 12. 4 Cfr. P.C.W. Davies, Stirring up Trouble, in Physical Origins of Time Asymmetry, a cura di J.J. Halliwell, J. Pérez-Mercader e W.H. Zurek, Cambridge UP, Cambridge 1994, p. 114. Vedi anche A. Einstein, Reply to Criticisms, in P.A. Schilpp (a cura di), Albert Einstein Philosopher and Scientist, Tudor, New York 1951, p. 687. 5 J. D’Alembert, Eléments de Philosophie I: Mélange de Littérature, d’Histoire et de Philosophie, Amsterdam 1758, IV. 6 A. Koyré, Du monde clos à l’univers infini, Gallimard, Paris 1973, p. 18. 7 R. Clausius, On the second fundamental Theorem of the mechanical Theory of heat, in «Philosophical Magazine», IV Series, 37, 1868, pp. 405-28. 8 Per una esposizione elementare della relazione fra irreversibilità, entropia e probabilità vedi: R. Feynman, The Character of Physical Law, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1967; D. Ruelle, Hasard et Chaos, Odile Jacob, Paris 1991. È interessante leggere le conferenze semidivulgative di Ludwig Boltzmann sulla relazione fra entropia e probabilità raccolte da E. Breda: L. Boltzmann, Popülare Schriften, Vieweg, Braunschweig 1971; in particolare: Der Zweite Hauptsatz der mechanische Wärmetheorie, p. 26 e Über statische Mechanik. Per una esposizione

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più tecnica si veda J.L. Lebowitz, Time Arrow and Boltzmann’s Entropy in Time Asymmetry, in J.J. Halliwell, J. Pérez-Mercader, W.H. Zurek (a cura di), Physical Origins of Time Asymmetry, p. 131. 9 Lord Kelvin, in «British Association Reports», 1861, Part II, pp. 27-28 e in «Les Mondes», 1863, 3, pp. 473-80. 10 M. Proust, A la recherche du temps perdu, 13 voll., Gallimard, Paris 1925. 11 H. Minkowski, Raum und Zeit, in «Physikalische Zeitschrift», 1908, 9, p. 762, trad. ingl. in The principle of Relativity, Dover, New York 1923. 12 Citato da A. Koyré, Newtonian Studies, trad. it., Studi newtoniani, Einaudi, Torino 1972, p. 20. 13 B. Riemann, Über die Hypothesen welche der Geometrie zu Gründe liegen, in Mathematische Werke, vol. XII, 2. Aufl., Leipzig 1892, p. 272. 14 Cfr. H. Weyl, Raum-Zeit-Materie: Vorlesungen über allgemeine Relativitätstheorie, hrsg. u. erg. von J. Ehlers, Springer, Berlin-Heidelberg 1988, trad. ingl. di H.L. Brose, Space-Time-Matter, Dover, New York 1952, p. 220. 15 Vedi per esempio S.W. Hawking, G.F.R. Ellis, The large scale structure of space-time, Cambridge UP, Cambridge 1973, in particolare i capitoli 6, 7 e 8. 16 A. Friedmann, Über die Krümmung des Raumes, in «Zeitschrift für Physik», 1922, 10, pp. 377-86. 17 E.P. Hubble, A relation between Distance and radial Velocity among Extragalactic Nebulae, in «Proceedings of National Academy of Sciences», 1929, 15, pp. 168-73. 18 H.G. Wells, The time machine, Heinemann, London 1895. 19 T.S. Eliot, Four Quartets, Faber and Faber, London 1944.

Gianni Colzani

Struttura storica ed escatologica della libertà umana. Il rapporto tra Cristo «eschatos» e la storia nella teologia d’oggi 1. Introduzione Uno dei passi più significativi per la concezione cristiana del tempo è l’inizio della lettera agli Ebrei; questa ricorda che Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo1.

Il carattere esortativo del passo non deve fuorviare; in realtà abbiamo qui la sostanza della concezione cristiana della storia, cioè che la sua unità va ricondotta alla volontà divina di rivelarsi, che essa va poi articolata nei due momenti delle «molte volte» e dei «diversi modi» da una parte e nella rivelazione del Figlio «che ha costituito erede di tutte le cose» dall’altra. La decisività della figura e dell’opera di Cristo è rimarcata anche dagli avverbi che le qualificano: Cristo è apparso «una volta sola, nella pienezza dei tempi»2 per annullare il peccato ed a questo scopo «una volta sola»3 ha offerto se stesso. Il carattere unico dell’opera di Cristo è segnalato, in questi passi, dall’uso dell’avverbio «apax», una volta sola; è addirittura rinforzato dall’uso di «ephapax», una volta per tutte4, utilizzato per esprimere l’irrevocabile efficacia della sua opera. La venuta di Cristo assume così un significato fortemente positivo che il collegamento della sua persona alla nozione di «pienezza dei tempi»5 non fa che rimarcare ulteriormente. La figura di Cristo è irriducibile ai sacrifici del Primo Testamento; l’unico sacrificio di Cristo ha una efficacia eterna ed universale che segna profondamente l’«oggi» dei cristiani: 131

Esortatevi a vicenda ogni giorno, finché dura quest’oggi, perché nessuno di voi si indurisca sedotto dal peccato6.

Queste semplici indicazioni bastano a rilevare l’importanza del tempo per la fede cristiana: è una storia prima che una dottrina. È quanto gli esegeti hanno da tempo chiarito. Fin dagli anni Trenta, Ch.H. Dodd lo aveva intuito. Il suo lavoro La predicazione apostolica e il suo sviluppo7 indica la storia di Gesù come l’ambito della venuta del regno e sottolinea come si debba ad alcuni settori della comunità lo sviluppo di questa impostazione fino ad aprirla al tema del futuro ultimo; attraverso questo ampliamento, essi volevano rispondere al perché la storia continui nonostante la venuta del regno. L’autore però che meglio ha affrontato questa tematica è stato O. Cullmann che, nel 1946, darà alle stampe il suo lavoro Cristo e il tempo8. Distinguendo tra chronos e kairos e leggendo quest’ultimo, inteso come tempo propizio per la realizzazione del piano divino di salvezza, sulla base tradizionale dei magnalia Dei, il professore svizzero giungerà ad individuare una storia salvifica. Precisandone la continuità e la irreversibilità9, Cullmann giungerà a porre le basi di una concezione cristiana del tempo; in forza di questi interventi programmati dalla autorità di Dio10, la storia ha un telos, uno scopo, che solo la fede sa riconoscere. Questa storia della salvezza «non è una cornice puramente formale di cui la predicazione cristiana primitiva possa essere spogliata. Essa fa parte, al contrario, della sua stessa essenza»11. Al centro di questa storia di salvezza sta l’evento Cristo; leggendolo come la decisiva rivelazione di Dio, Cullmann riconoscerà «lo spostamento del centro del tempo operato dal cristianesimo primitivo»12; la speranza cristiana guarda alla croce, seguita dalla resurrezione, come alla garanzia che la vittoria decisiva è già avvenuta. «Dopo la Pasqua, il centro non si trova più, per il credente, nell’avvenire»13; pensato in termini storico-salvifici, il tempo ha un costitutivo rapporto con la storia di Gesù: se così non fosse, il cristianesimo rimarrebbe una setta giudaica o si trasformerebbe in una corrente gnostica.

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2. Una volta per tutte: Cristo centro e misura del tempo Anche se Cullmann invita a «pensare nel modo meno filosofico possibile»14, sarebbe ingenuo ritenere che questo basti per entrare automaticamente in sintonia con la concezione biblica del tempo; la stessa opposizione tra tempo ciclico o greco e tempo lineare o biblico, utilizzata da Cullmann15, non offre in realtà il puro pensiero biblico ma, a sua volta, rimanda a qualcosa che presuppone. Brunner indica questo presupposto come la «esperienza primaria del tempo», come ciò per cui lo scorrere del tempo è «inseparabilmente legato alla transitorietà, al passare, al non indugiare, al non-poter-tornare-indietro a ciò che è stato»16; tra l’altro sta proprio qui, in questa ineluttabile transitorietà, una delle radici del dolore del mondo. Questo fluire del tempo non annulla il significato del presente: esso è l’ambito di un vissuto colto in tensione tra il passato ed il futuro. Più che una comprensione del tempo, questa esperienza riconosce che la persona sta dentro il tempo, che vive nel tempo, che la sua esistenza è temporale. Questa concezione rende particolarmente difficile pensare la centralità dell’evento-Cristo. Fino a che il centro del tempo rimandava ad un inizio mitico o ad un futuro escatologico, fino a che il centro del tempo rimandava ad un evento non controllabile, si poteva aderirvi con una relativa facilità; dal momento che la fede rimanda ad un evento ben conosciuto e ad un evento come la croce, si può agevolmente intuire «la stoltezza della predicazione, [...] scandalo per i giudei, follia per i pagani»17. La tentazione di svuotare di significato questa storia scandalosa, la tentazione di passare oltre la storia di Gesù fu la grande tentazione della prima Chiesa: fu il docetismo, lo sforzo di «rendere vana la croce di Cristo»18. Questo scandalo è tuttora ben presente sia nella forma del problema di Lessing sia nella forma di una storia ridotta ad apparenza, al di là della quale cercare una sapienza di vita od una verità eterna. Per questo l’affermazione della centralità di Cristo deve mantenerlo in tensione tra un passato che non c’è più ed un futuro che non è ancora venuto. Questo sforzo costituirà l’originale percorso della fede della comunità cristiana; lungi dal pensare il tempo sulla base ciclica del divenire naturale o su quella filosofica della verità atemporale, la comunità cristiana manterrà Cristo al centro del suo pensiero e penserà il tempo in ordine alla sovranità del suo Signore. 133

In questa luce si tratta per prima cosa di ricomprendere il rapporto tra Cristo, l’evento decisivo, e il passato. L’annullamento di questo rapporto era il cuore della proposta di Marcione che, invitando a rinunciare al Primo Testamento ed a separarsi dalla creazione, intendeva esaltare l’unicità di Cristo; condannandolo, la Chiesa lascerà capire che la centralità di Cristo non cancella il passato. Da qui lo sforzo di elaborarne il senso. La soluzione sarà quella avviata dal mondo giudeo-cristiano che, riconoscendo la storia di Israele fa parte della storia della salvezza, anche se in modo diverso dall’ephapax, ne preciserà il rapporto in termini di «compimento» e di «preparazione»; poiché Cristo non è venuto «per abolire ma per dare compimento»19 e poiché «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio»20 ne verrà che l’intera storia di Israele è orientata a preparare la venuta di Cristo. La stessa creazione viene pensata come un processo dinamico e aperto al Signore Gesù21. In questo modo gli inizi del tempo perdono ogni colore mitico – non sono una età dell’oro, un paradiso poi perduto –, ma ricevono luce dall’evento Cristo. La fede cristiana non comporta un ritorno alle origini, una restitutio in integrum; ciò che è decisivo nella fede cristiana della creazione è che anche l’aspetto cosmologico è ormai decisamente riportato nell’ambito storico, l’ambito della sovranità di Cristo e della libera risposta umana. Allo stesso modo si dovrà ricomprendere anche il rapporto di Cristo con il futuro. Se per il giudaismo era fondamentale l’attesa – attesa del Messia, attesa della fine –, questa perde ogni significato là dove si sostiene che il telos che riempie di senso la storia è già venuto: l’attesa viene sostituita dal compimento. Descritto nei termini giudaici della resurrezione, il compimento rimanda a quel momento in cui «colui che risuscitò Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali, in forza del suo Spirito che inabita in voi»22. La descrizione di questa trasformazione escatologica per opera dello Spirito si amplia progressivamente dai «nostri corpi mortali» a «tutta la creazione che geme e soffre, fino al presente, le doglie del parto»23 e, più ancora, fino a comprendere «ogni principato, potestà e potenza»24 e da ultimo «la morte»25. Anche qui andrà detto che la fine del mondo ed il suo eventuale contenuto non appartengono alla fede cristiana; ciò che importa non è 134

la descrizione millenaristica o apocalittica della nuova creazione, ma la sottolineatura che essa va mantenuta in rapporto con Cristo. Non vi è altro futuro che quello già avvenuto, anche se la sua realizzazione ad opera dello Spirito «che [già] abita in noi» richiede tempo. Si tratta di un tempo che non porta nulla di nuovo, ma manifesta soltanto ciò che è già avvenuto. In questo senso l’intera realtà umana va compresa a partire da quelle realtà decisive avvenute in Cristo; anche il principio e la fine del tempo vanno compresi così, teologicamente, sulla base della pienezza di senso rivelata in Gesù. La sua presenza è la «pienezza del tempo», è l’avvenimento decisivo, è l’eschaton. Abbiamo qui l’originalità della fede cristiana; in forza della presenza di Cristo, quel tempo che è ambito di precarietà e di transitorietà si riempie di un significato particolarissimo, di una profondità e di una pienezza che lo eccedono: il movimento del tempo e la vicenda dell’umanità si incontrano con il telos, con il fine posto da Dio che, proprio perché cristologico, assume, riconosce e fa proprio il valore originario della libertà umana. La storia è ormai impensabile senza eschaton; le sue connotazioni cristologiche indicano inoltre che il dispiegarsi della pienezza della storia non può sospendere o impedire la libertà finita. 3. Pensare escatologicamente la storia: il compito della teologia Il compito della teologia è importante per due buoni motivi. Innanzitutto va ricordato che, fin dai primi secoli, il cristianesimo finì per sciogliere questa tensione tra eschaton e storia, difficile da salvaguardare, in una successione: ne venne una concezione storica in cui l’escatologia viene dopo, sta alla fine della storia come piccola summa delle «cose ultime», narra del mondo che è «aldilà». In maniera caustica Barth parlerà di questo come di un «innocente capitoletto» aggiunto «alla fine della nostra dommatica»26. Di fronte ad un simile stravolgimento «c’è da chiedersi seriamente se un’interpretazione incentrata esclusivamente sull’aldilà o sull’aldiqua possa venir considerata ancora cristiana»27. Da qui il bisogno di tornare a riprendere il dato originario della fede. Si innesta qui il secondo motivo; poiché questo non può avvenire che servendosi di schemi culturali e filosofici, è compito 135

della teologia verificare che il loro uso rimanga teologicamente pertinente. Lo stesso kerygma si serve del linguaggio giudaico-apocalittico della resurrezione. Se ne serve per affermare le proprietà universali ed escatologiche dell’opera di Gesù dato che nessuna delle concezioni del tempo, allora in uso, pareva in grado di esprimere il singolare contenuto della fede. La resurrezione invece ha una valenza personale che supera ogni dualismo tra anima e corpo e, per il suo significato apocalittico, è in grado di portare avanti un discorso sull’intero della storia e dell’umanità; in questo modo lega a Cristo tanto il destino dell’individuo quanto l’intera vicenda umana. Pur vivendo, prima e dopo Pasqua, esperienze tra loro contraddittorie, i discepoli mantengono in ogni caso come decisivo il rapporto con la vita e con la persona di Gesù. Correttamente inteso, questo rimando a Cristo comprende un rimando alla verità di Dio e della sua rivelazione quale verità ultima del creato, un rimando che la Pasqua chiede di considerare come l’inizio della fede cristiana e della sua visione del reale. Pensare teologicamente queste dinamiche è il nostro compito. 3.1. La teologia dialettica: il rifiuto di ogni relazione tra «eschaton» e storia. Vale la pena di richiamare la teologia dialettica; per quanto ci stia ormai alle spalle, l’analisi delle sue riflessioni è comunque istruttiva. Rifiutando ogni mediazione tra rivelazione e cultura, tra fede ed esperienza, questa teologia ottiene il risultato di dare un singolare risalto alla Parola ed alla sola Parola, ma paga questo guadagno con il dar vita ad una teologia autoritaria, per nulla dialogica. Deus dixit: non vi è, per essa, altro oggetto del teologare. Questo intento di fondo ne comanda il metodo: poiché la verità di Dio è al di là di ogni nostro pensiero, l’affermazione su Dio è formulabile solo come negazione, la presenza di Dio come distanza. In particolare non è possibile, per Barth28, «delimitare all’interno della storia dell’umanità una ‘storia sacra’. Al contrario, la rivelazione deve essere pensata come crisi della storia»29. Connettendo questa Parola di autorivelazione con la dottrina della Trinità e con la proclamazione della signoria del regno, Barth elabora una escatologia dove la sovranità di Dio sovrasta lo scorrere del tempo come il suo giudizio; l’eternità dice qualcosa d’al136

tro rispetto al tempo, dice come il tempo ed i suoi limiti mortali vengano afferrati e dominati da Dio30. Altra rispetto alla storia umana, questa escatologia – direbbe Moltmann – è una «epifania dell’eterno presente»31, è costruita in modo che «l’insuperabile differenza qualitativa tra eternità e tempo impone di non cercare l’eschaton in un momento conclusivo della storia mondana ma nell’attimo della fede»32. Ricondotto al kerygma, l’eschaton è percepito dalla fede. Si tratta di un tema che coglie la totalità delle cose, l’intero della storia alla luce di Cristo; l’utilizzo del linguaggio apocalittico, proprio del giudaismo, ha qui il senso di giustificare l’ampliamento dell’orizzonte, ma è contenutisticamente del tutto deviante. In effetti la teologia dialettica mantiene una radicale opposizione tra escatologia ed apocalittica, tra il vangelo di Cristo ed i residui di una concezione giudaica; mentre giustifica la rinascita della escatologia, l’apocalittica con il suo scenario immaginoso è del tutto inadatta a chiarirne il significato33. Questa distinzione tra il Dass e il Was della rivelazione indica il futuro della fede come un futuro assoluto, come un futuro costantemente critico e aldilà di quello umanamente pensabile. L’autore che, più di ogni altro, si impegnerà contro l’apocalittica sarà Rudolf Bultmann. Egli la vede come la traduzione in termini storici della cosmologia dell’eterno ritorno: poiché al destino del mondo è subentrato quello dell’umanità, «la fine dell’antico tempo del mondo si compie nel giudizio che Dio esercita»34. Intesa apocalitticamente, la fine del mondo è la fine dell’eone vecchio e malvagio, è il momento in cui la storia ha termine ma senza che la storia giunga al suo compimento: la fine giunge da fuori, come un giudizio imposto da una decisione divina, ma non scaturisce dal corso della storia. Su questo sfondo va compresa escatologicamente – cioè come giudizio divino – la persona e la missione di Gesù: accade nella storia ma non ne fa realmente parte. «La storia è stata inghiottita dall’escatologia»35. Per Bultmann è Paolo il primo a interpretare teologicamente il rapporto tra questo evento escatologico e la storia; «Paolo ha interpretato la visione della storia propria dell’apocalittica alla luce della propria antropologia»36, legando la fine del vecchio alla comparsa della nuova creatura: peccato e grazia, legge e Spirito, Adamo e Cristo sono le articolazioni di questa antropologia escatologica. La salvez137

za è così impostata sulla persona; per opera dello Spirito, che ne è la primizia, coincide con il suo compimento e la sua libertà. Giovanni ribadirà e confermerà il carattere presentico di una escatologia che si lascia ormai alle spalle l’immaginario apocalittico dei sinottici, sia o non sia parte della predicazione di Gesù; l’immaginario apocalittico di un futuro costruito attorno alla resurrezione dai morti, al giudizio ed alla gloria non ha più un valore centrale. Si comprende allora tanto il programma di demitizzazione, volto a rendere queste realtà comprensibili al mondo moderno, quanto il ruolo attribuito al ritardo della Parusia: in forza di essa la comunità escatologica si è trasformata in una comunità cultuale, con la conseguente importanza attribuita ai sacramenti37. Globalmente parlando, si può dire che questa teologia ha recuperato e difeso l’originalità della escatologia cristiana sia legandola al kerygma sia distinguendola dal materiale apocalittico che anche le altre religioni – ebraismo compreso – utilizzano per parlare della fine. La convinzione che l’uso di questo materiale apocalittico è solo immaginoso e strumentale non permetterà di cogliere «la teleologia che esso attribuisce al tempo nella sua corsa verso una vera fine»38. La netta separazione tra rivelazione e storia non concluderà solo ad una teologia autoritaria, priva di attenzione alla struttura dialogica e incarnatoria della rivelazione, ma finirà per guardare alla storia ed alla sua interpretazione come ad una miniera a cui attingere liberamente in vista del valore e del favore della contemporaneità. 3.2. La rinascita dell’apocalittica. L’apocalittica, vista dalla teologia dialettica come comprensione deteriore e fantasiosa della storia al punto da rappresentare la decadenza dell’autentica escatologia, è da tempo uscita da questo ghetto39. Grossomodo la possiamo definire come una concezione della storia che, di fronte ad un mondo che contende con Dio, riafferma la sua gloria e la sua vittoria e proclama la sua giustizia. All’origine possiamo indicare il pensiero di Käsemann. In due saggi40, questi richiama e valorizza l’esistenza di una pietà entusiasta nella comunità che precede i vangeli; Matteo, in particolare, conosce una concezione della vita cristiana «che si ritiene portatrice di capacità meravigliose, vale a dire della profezia, dell’esorcismo e persino della guarigione miracolosa». Contrapposta ad una co138

munità ordinata secondo le forme di un rabbinato, questo gruppo ritiene «di rappresentare ed amministrare sulla terra, con l’autorità di Cristo, le forze dello Spirito concesso in forma escatologica»41. Passando dal problema ermeneutico a quello storico, Pannenberg coglie qui l’indicazione di un difficile rapporto tra Spirito e vangelo, tra la predicazione teologica di Gesù di un Dio vicino e l’affermazione del mondo nuovo dell’apocalittica; poiché ritiene di non poter mantenere insieme l’attesa del regno e la sua presenza nello Spirito, Käsemann conclude che «la pasqua e la recezione dello Spirito hanno permesso alla cristianità primitiva di rispondere alla predicazione di Gesù sul Dio vicino con un’apocalittica rinnovata, e in un certo modo di rimpiazzare tale predicazione»42. Secondo Käsemann, di conseguenza, l’apocalittica non comprende solo la fine del mondo e il giudizio sull’umanità, ma anche una cristologia escatologica del Figlio dell’Uomo, dove l’ascesa di Cristo al trono di Dio è vista come la rivelazione della giustizia di Dio43. Al centro dell’apocalittica, non sta il giudizio finale, ma l’affermazione della giustizia di Dio e questo diritto riguarda ogni tempo, anche se solo la Parusia lo rivelerà completamente44. Al di là delle polemiche che il suo pensiero susciterà, è evidente che l’anticipazione dei doni escatologici dello Spirito comporta una singolare valorizzazione del diritto di quel Dio che, plasmando il mondo a sua misura, pone in primo piano i temi del futuro e della promessa; la stessa speranza cristiana è modificata rispetto all’apocalittica classica: riguarda, infatti, il ritorno di Gesù in veste di Figlio dell’Uomo celeste e non solo la resurrezione dai morti. Di conseguenza Käsemann dirà che non è l’esigenza di una decisione per il regno a precedere antropologicamente la promessa ma che, piuttosto, «la promessa fonda l’esigenza, la quale in ultima analisi è unica e consiste nella richiesta di accogliere la promessa del Dio vicino e di credervi saldamente»45. Gesù è la «promessa incarnata»46: in questo senso il tema del futuro, il tema della promessa ha finito per imporsi decisamente. A dare forma compiuta a queste intuizioni, costruendo una escatologia alla luce del futuro apocalittico non più centrata sulla storia esistentiva del singolo, sarà un gruppo di autori: W. Kreck, J. Moltmann e G. Sauter. Il primo autore a presentare la promessa come il centro della rivelazione, esaltando così il tema del futuro, sarà – ancora nel 1961 – W. Kreck47, che, però, la leggerà nei 139

termini tradizionali di un incontro tra l’azione divina e le attese o speranze umane. A farne il perno di una organica concezione escatologica della storia sarà Moltmann48, sulle cui posizioni convergerà ben presto anche Sauter49. Il centro del suo lavoro è la concezione della rivelazione come parola di promessa: la rivelazione «non ha il carattere di qualcosa che illumina, in conformità con il logos, la realtà esistente dell’uomo e del mondo; ha invece il carattere costitutivo e fondamentale della promessa». Radicalmente diversa dalla Parola-evento, «la promessa annuncia una realtà che ancora non esiste e che viene dal futuro della verità»50. Moltmann guarda alla promessa apocalitticamente, come al momento della frattura con il presente: la promessa non illumina il «possibile»51, quasi precorrendolo, ma piuttosto svela il suo contrasto con la realtà, totalmente inadeguata, di cui facciamo parte. Questo contrasto tra promessa e realtà ha una funzione positiva: permette di far risalire la promessa a Dio ed a Dio soltanto: la promessa è dono, è grazia. Diversamente da Moltmann, che fa cominciare la Parola di promessa dai profeti con un cenno sulla legge e su Abramo, Sauter cercherà di connettere e di articolare l’agire promissorio di Dio con il suo agire creatore; ne ricaverà la convinzione che tutto il mondo è in statu promissionis, obiettivamente aperto alle promesse di Dio. In qualche modo quindi, almeno per Sauter, la promessa mantiene un qualche rapporto con la storia umana universale, anche se non riceve da essa la sua legittimazione. Va aggiunto ancora che, mentre Kreck vede la dinamica di promessa e compimento concludersi in quel Gesù che è alfa ed omega della storia, Moltmann insiste sul carattere promissorio della stessa resurrezione di Gesù: Non tutto è stato compito con la resurrezione di Gesù. [...] La resurrezione ha messo in movimento un processo storico determinato escatologicamente, la cui meta è la distruzione della morte nella vittoria della vita della risurrezione e che termina in quella giustizia in cui Dio ottiene ragione in tutto e il creato vi trova la propria salvezza52.

Si giunge così ad una universalizzazione della promessa che ha il suo cuore nella signoria di Dio su tutti i popoli. Per Moltmann, quindi, l’escatologia comporta una concezione del tempo che metta al centro il futuro di Dio o il futuro di Cristo53, intendendo con questo termine l’orizzonte escatologico di140

schiuso dalla morte e resurrezione di Cristo. La resurrezione non andrà allora letta né cosmologicamente né esistenzialmente né teologicamente, ma sempre e solo escatologicamente54. La saldatura tra il dato storico e l’elemento escatologico, quale si dà nella Pasqua, intende chiarire che «il punto in cui avviene l’identificazione non si trova in tal caso nella persona di Cristo ma, extra se, nel Dio che crea vita e nuovo essere dal nulla»55. In questo modo il vantaggio di una resurrezione che non si riduce ad un problema personale di Cristo ma si apre a tutta la storia è pagato al prezzo di fare della pasqua non il luogo della salvezza, ma della sua promessa; «la sua (di Gesù) identità nella croce e nella resurrezione indica la direzione e prepara la via agli eventi futuri»56. Solo con Il Dio crocifisso Moltmann offrirà una cristologia migliore. In modo stringato Moltmann concluderà che, «se Gesù è resuscitato dai morti, il Regno di Dio non può essere nulla di meno che una nuova creatio»57. Il carattere apocalittico di una simile impostazione è evidente; concentrata attorno alla categoria del novum58, la rivelazione di Dio nella Pasqua di Gesù non può essere sopportata da questo mondo. La contrapposizione del «futuro di Dio» a questo mondo rende impossibile concepire la rivelazione come una illuminazione, come uno svelamento, sia pure nella forma paradossale del giudizio barthiano, ma esige una totalità nuova. Qui la dialettica hegeliana dello Spirito assoluto è lasciata alle spalle: la novità che sorge dalla resurrezione in contrasto con la storia non ha nulla da spartire con quel progresso nel quale riconoscere il movimento autonomo dello Spirito assoluto. Il progresso, per Moltmann, scaturisce da quella promessa che, nella sua opposizione al reale, tratteggia il possibile e lo mette in moto. Questo novum apocalittico, inteso come motore di un progresso instaurato da fuori, spinge a guardare lo stato del mondo storico come fondato nel futuro che verrà; la speranza si configura come la condizione soggettiva in grado di coglierlo e di avviarlo. Di fronte ad una simile prospettiva è lecito chiedersi quanto questo novum apocalittico rispetti l’Incarnazione e la veda come la legge dell’agire storico di Dio. Rispondendo a queste critiche, Moltmann non menziona l’Incarnazione ma riconosce che tramite la sua morte Gesù è diventato «storico» [historisch]. Tramite il suo risuscitamento egli è diventato escatologicamente «colui che vie-

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ne». Il futuro di Dio dunque, che in sé ha assunto il crocifisso, ha guadagnato, al contrario, tramite il crocifisso, la sua forma reale nel mondo del peccato e della morte, dell’oscurità e del gran freddo59.

Vi è qui l’eco della cristologia luterana – Dio si rivela sub contrario Dei60 – facilmente formulabile come base di una teologia politica; ma vi è un cammino da fare per saldare questa visione con quella di Sauter e con quella cattolica della creazione. Per Moltmann «la croce di Cristo è l’incarnazione della sua resurrezione, la sua passione l’incarnazione della libertà e la sua morte l’incarnazione della vita»61. 3.3. La rivalutazione della storia. Sarà W. Pannenberg62 a riprendere i temi del futuro ed a reimpostarli in termini di rivalutazione della storia, in termini cioè non apocalittici. Deciso a dare rilievo dogmatico al metodo esegetico di G. Von Rad63, il gruppo di teologi che lavora con lui – noto come Heidelberger Kreis – formulerà la tesi della rivelazione indiretta ed approderà ad una storia universale di rivelazione. Ritenendo inaccettabile l’abbandono della storia, proprio della teologia dialettica, e impraticabile la linea apocalittica di una rottura tra Dio e la storia, Pannenberg ritiene di dover ripensare il concetto stesso di rivelazione. A questo scopo accetta l’impostazione hegeliana di una automanifestazione dell’Assoluto, vedendovi il guadagno di una connotazione personale, ma aggiunge che questa manifestazione non è diretta ma è mediata dalla storia. Mentre Cullmann, sullo sfondo dei magnalia Dei, seleziona alcuni fatti che fa risalire a Dio, Pannenberg insiste su una storia che è sotto gli occhi di tutti e, con Von Rad, insiste sulla possibilità di leggerli alla luce della fede così da riconoscervi – solo a questo livello – la presenza di Dio. Una simile prospettiva abbandona sia il principio della sola Scriptura sia la logica di una teologia autoritaria che sta costantemente al riparo dell’autorità della Parola64; al centro non viene la parola ma la notitia accertata e accertabile. In questo modo al centro del suo pensiero viene il rapporto tra l’evidenza storica, che tutti possono accertare, e la coscienza credente: non solo la storia non contraddice la fede, ma è addirittura il luogo del suo esercizio intelligente. Mentre Bultmann, con la demitizzazione, consegna il fatto storico alla ragione illuminista e, 142

pur rivendicando la diversità della coscienza credente, finisce per interpretarla in termini esistenzialisti, Pannenberg lega la razionalità credente alla storia. In questo modo la fede è rimandata alla storia universale ed alla sua fine come al suo momento sintetico e normativo; di conseguenza, l’evento Gesù, altrimenti dequalificato, viene visto come la prolessi escatologica, come l’anticipo della fine65. Dal momento, poi, che questa prolessi è espressa nelle formule giudaiche della resurrezione dai morti, Pannenberg concluderà che anche la storia di Israele appartiene alla fede cristiana: Il carattere escatologico dell’avvenimento di Cristo garantisce che non ci sarà più alcuna ulteriore automanifestazione di Dio superiore a questo avvenimento: anche la fine del mondo attuerà semplicemente in misura cosmica ciò che è già accaduto a Gesù66.

Questo nuovo concetto di Dio come futuro non esclude, come inutile, il concetto di Dio come creatore, che Bloch abbandonava come espressione di una «potenza mitologica del passato»67, ma piuttosto lo rinnova; intendendo Dio come «l’Essere stesso, il fondamento e la potenza di ogni essere e di ogni persona»68, si arriva a dare un fondamento alla potenza di futuro propria di Dio. Questo accostamento tra Dio come futuro storico e Dio come fondamento dell’Essere mi sembra decisivo: solo la loro unità permette di pensare ad un futuro autofondato e sopravveniente in termini non apocalittici, non opposti al mondo. Ovviamente questa impostazione esigerà un rinnovamento della nozione di creazione che andrà letta in termini processuali e dinamici ed un rinnovamento dello stesso modo di pensare Dio. La stessa eternità divina non andrà pensata come la cifra statica della sovranità atemporale di Dio, ma come l’espressione della certezza che Dio non è soltanto il futuro del nostro presente di oggi, ma lo è stato anche di ogni tempo passato, e non nell’inoperosa distanza di una lontananza che sempre di più indietreggia davanti al processo storico, bensì nel senso di ciò che abbiamo appena detto, che egli partecipa ad ogni avvenimento e ad ogni epoca il suo immediato futuro storico che, attraverso la sua realizzazione del relativo futuro storico, lo ha staccato da se stesso come potenza dell’ultimo futuro e si comunica nel proprio futuro escatologico69.

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Anche Moltmann riprenderà questi concetti e, come Pannenberg, insisterà sul rapporto tra Dio come futuro e Dio come fondamento; diversamente da Pannenberg, però, insisterà su Cristo più che su Dio: altrimenti vi sarebbe per lui il rischio di rendere inutile il mediatore. Il suo suggerimento è allora quello di sviluppare la nozione cristologica di prolessi in quella di anticipazione: Il senso del fatto che Dio anticipi il suo futuro del nuovo essere in questo uno, consiste in questo, che il nuovo essere è mediato, tramite questo uno, a tutti coloro che siedono nell’oscurità e nell’ombra della morte70.

Il rapporto tra l’uno ed i tutti, proprio della cristologia, non esercita solo una funzione esemplare ma una vera e propria capacità di rinnovamento; è proprio della rappresentanza, infatti, trasporre la sua sostanza dal rappresentante ai rappresentati: in caso contrario perderebbe la sua vitalità storica per trasformarsi in un alibi per l’umanità rappresentata da Cristo. 4. L’uno e i tutti, l’«eschaton» e la storia In modo perentorio W. Breuning osserverà che «in nessun tempo l’escatologia si è incentrata, in tutte le sue dimensioni e con tanta chiarezza, in Gesù Cristo come nei nuovi tentativi»71. La comunione con Cristo è l’insuperabile radice di ogni concezione escatologica della storia. Riconoscere questa radice ultima del dinamismo escatologico – sostiene Ch. Schütz – significa due cose: da una parte che «una escatologia che pretendesse di ‘sapere’ qualcosa al di fuori di Cristo poggerebbe su speculazioni arbitrarie e quindi si condannerebbe da sé»72 e dall’altra che «l’eschaton non si esaurisce in una pura promessa o futuro, perché si è ormai stabilito un legame talmente stretto con la storia che ‘una’ persona è diventata la sintesi fra ciò che per sua stessa essenza coincide con il futuro e con il passato storico»73. Prendere sul serio questo «compimento personale» significa innanzitutto prendere le distanze da ogni escatologia di stampo fisico, attenta alle «cose ultime», alla fine del mondo, più che a Cristo, ultima e definitiva verità della vita e della storia. In questa luce significa anche interrogarsi se una ampia ed esclusiva concen144

trazione sulla resurrezione non finisca per reintrodurre una escatologia di tipo cosmico; è certo legittimo insistere sulla promessa e sul futuro, ma bisognerà evitare di svilupparli in modo che il futuro del mondo faccia riferimento al Risorto solo in quanto causa efficiente, solo in quanto potenza di futuro. Impegnato ad illuminare il rapporto del mondo con il «compimento personale» realizzato da Dio nel Signore Gesù, Moltmann proporrà di considerare il mondo futuro alla luce della Shekinah, come la gloria di Dio74. Questo coinvolgimento del mondo nella vita di Dio ha un suo senso antiplatonico ma ha anche un sapore millenaristico. In realtà il carattere personale del compimento escatologico implica innanzitutto una connotazione personale di tutto il dialogo che Dio intraprende con il mondo, implica innanzitutto un libero rivolgersi di Dio al mondo; solo poi e solo su questa base andrà precisato che il compimento di «questo» tempo comporta il compimento di una persona che dispone liberamente di sé. 4.1. Verso una teologia della storia. Muovendosi in questo ordine di idee, Rahner ricorda continuamente che «l’escatologia si riferisce all’uomo redento così come egli è adesso»75: dove, ovviamente, l’uomo «così come è adesso» è l’uomo segnato dalla grazia di Cristo ed illuminato dalla fede in lui. Segnato da un presente e orientato ad un futuro, questo credente è segnato da una tensione che non può essere sciolta tramutandola – come è avvenuto – in una successione cronologica di tempo storico; la fede tiene insieme il presente ed il futuro, nel senso che la comunione con il Risorto è una comunione reale ma aperta, è una comunione già presente ma non ancora compiuta. Questa unità dinamica, lungi dall’essere un peso, comporta un dato positivo in grado di mobilitare la vita; spetta alla fede mantenere la comunione con Cristo aperta a quel senso radicale che in lui ci è svelato. In quanto «nuovo Adamo», Cristo trascina l’umanità ed il mondo verso quel futuro che gli appartiene, anche se l’uomo ed il mondo mantengono la loro autonomia e la loro dignità. Di conseguenza la loro storia – è questo il senso positivo della ipotesi di Moltmann – apporta realmente qualcosa di nuovo. Il significato più alto di questo orientamento è la costruzione di una teologia della storia76. Lo sfondo è costituito dai grandi monismi del diciannovesimo secolo che intendevano la storia come 145

un processo irreversibile dalla natura priva di coscienza alla coscienza umana e dalla pluralità delle coscienze ad una loro qualche unità77; la piena corrispondenza tra realtà e ragione, affermata dall’idealismo, porterà ad una filosofia della storia dove la ragione riveste il ruolo della Provvidenza, di modo che l’irrazionale diventa il suo fondamentale compito. Si arriverà così ad un nuovo schema escatologico, quello dello sviluppo dialettico della storia, necessario perché il primato della ragione non sprofondi di fronte al negativo; il superamento del finito, alla luce dell’Aufhebung, comporterà un compimento che sarà, insieme, l’assunzione del finito ed il suo toglimento nella totalità dello Spirito assoluto78. Balthasar indicherà in «Prometeo» il modello di questa pretesa di inglobare l’infinito nel finito e viceversa. Presa da Schelling, questa immagine esalta in Prometeo l’affermazione della ragione e vela sotto il superamento dialettico del negativo l’abbandono del cristianesimo. Se l’ottimismo illuministico della ratio era stato scosso dal terremoto di Lisbona (1756), che aveva riproposto il peso di abissi negativi, l’idealismo ripropone una concezione che mira ad inglobarli in una escatologia immanente e razionale79. Questo schema non sarà senza ricadute teologiche: l’affermazione che la storia va liberata dalle sue contraddizioni costituirà il paradigma logico entro il quale la teologia penserà la sua istanza di salvezza80; la teologia, però, assumerà come propria base la cristologia81: Dal momento che la rivelazione indica nell’uomo-Dio l’obiettivo finale di questa piena integrazione cosmologica e storica verso il quale si dirige la storia nella sua totalità, la sintesi di filosofia e teologia della storia non appare più un’istanza troppo audace e di là da venire, ma piuttosto un fatto compiuto82.

Muovendosi sulla base di un’analogia con la definizione calcedonese, Daniélou ne farà la base per una ulteriore esplicitazione; «la persona di Cristo che unisce le due nature nell’unione ipostatica ci è apparsa come il termine (telos) assoluto nella storia. Ma resta pur vero che essa non ne segna la fine, il peras. Dopo di essa sussiste un’attesa che è la ripercussione dell’opera compiuta da Cristo nella umanità intera. Se il Cristo è la fine dell’Antico Testamento, Egli è anche il Primogenito della nuova creazione»83. 146

Per questa via Daniélou oscillerà non poco tra il riconoscimento del valore positivo della creazione e la sottolineatura di una prospettiva pessimista che accentuerà la decadenza della storia ponendola sotto il giudizio e valorizzerà il battesimo come il sacramento che «riunisce la comunità messianica dei salvati alla vigilia del giudizio»84. Due autori, però, spiccano sopra tutti gli altri. Il primo è sicuramente Balthasar85, che darà ai suoi lavori un’inconfondibile connotazione cristologica. Anche per lui la cristologia è il «nucleo essenziale di una teologia della storia»86, ma, invece di rifarsi a Calcedonia, egli porrà una profonda relazione tra la storia umana e la forma – storica – dell’evento-Gesù. A suo modo di vedere la forma dell’evento cristologico tiene insieme due elementi: L’elemento fattuale che, come tale, è il singolo, il sensibile, il concreto e il contingente, e l’universale-necessario, la cui universalità coincide con la sua astrattezza, con il suo carattere di legge e validità che prescinde dal caso singolo, per dargli norma, trascendendolo87.

In questo senso Gesù è l’archetipo dell’incontro tra la vita trinitaria da una parte e l’obbedienza creaturale dall’altra; nella sua filialità Cristo accoglie tutto ciò che viene dal Padre mentre, nella sua creaturalità, accoglie il tempo e gli dà quella forma che è propria del suo essere aperto alla missione avuta dal Padre. Di conseguenza tutto si risolve nel rapporto tra la temporalità cristologica e la temporalità propria della storia umana: invece di appiattire il ministero della Chiesa sul progresso del mondo, ne viene lo sforzo di ricercare tutto ciò che, nella storia umana, è segno dell’anelito e della misteriosa presenza di Cristo: È opportuno vedere Chiesa e Spirito Santo come il modo duplice e unitario insieme in cui il Cristo asceso, che ha raggiunto per se stesso l’eschaton storico e ne ha superato i limiti, si rende presente secondo la sua promessa nella storia temporale. […] Questo processo, per tramite del quale la verità vera viene portata alla luce attraverso lo Spirito e basandosi sulla Chiesa, costituirà il senso obiettivo della storia88.

Pur rimanendo sempre ancorato a questa prospettiva ecclesiastica, verso la fine della sua vita Balthasar valorizzerà maggiormente l’azione dello Spirito. 147

L’altro autore è A. Darlap89: questi svilupperà la tesi di Rahner90 e, a partire da una piena coscienza della storicità umana, la motiverà con una riflessione trascendentale. Perché l’uomo sia indirizzato ad un evento salvifico e storico occorre pensare trascendentalmente l’uomo come l’essere della storicità salvifica e la storia salvifica come la sua realizzazione. In questo quadro la creazione è la determinazione delle condizioni di possibilità di quanto seguirà: l’uomo riceverà una struttura che, mentre gli fissa un compito ed un futuro, gli ricorda che questo futuro gli sopravviene da fuori e costituisce la ragione della sua esistenza nella libertà e nella responsabilità. In questo accogliersi come capacità di rispondere al mistero divino sta la libertà: «essa non è la facoltà di fare questo o quello, bensì la facoltà di decidere di sé e di fare se stesso»91. La cristologia viene così collocata all’interno di una concezione evolutiva del mondo fino a pensare ogni realtà, in forza di una autotrascendenza attiva, come rivolta ad incontrare il Salvatore assoluto: Questa autotrascendenza del cosmo nell’uomo verso la sua propria totalità e il suo fondamento è giunta realmente e completamente alla sua ultima pienezza solo quando il cosmo nella creatura spirituale – suo fine e suo vertice – non è solo ciò che è stato posto fuori dal suo fondamento, ciò che è stato creato, bensì riceve l’autocomunicazione diretta da parte del suo fondamento stesso. Tale autocomunicazione diretta da parte di Dio alla creatura spirituale avviene in quella che chiamiamo ‘grazia’ (durante il decorso storico di tale autocomunicazione) e ‘gloria’ (nella sua perfezione finale). Dio non solo crea la realtà diversa da sé, bensì le dona se stesso. Il mondo riceve Dio, che è l’infinito e il mistero ineffabile, in maniera tale che lui diventa la sua vita intima92.

Abbiamo qui il senso ultimo della storia; lungi dal ridursi alla pura fatticità, la storia rimanda all’agire di quel Dio che ne fissa il senso definitivo e all’interpretazione di quella fede che ne coglie e ne accetta il senso. 4.2. Storia ed escatologia o compimento. Il dato fondamentale della fede è la connessione del compimento con l’evento-Gesù, ponendolo così dentro la storia. È quanto riconosce espressamente Wiederkehr: 148

La dimensione dell’escatologia, del compimento storico per mezzo di Dio stesso, non è soltanto uno dei temi della predicazione di Gesù: è invece ‘la’ dimensione mediante la quale vengono in se stesse determinate la collocazione e persona di Gesù. […] Il fatto che con lui il futuro di Dio si sia già reso presente nel mondo dipende esclusivamente dal carattere di assolutezza e definitività escatologiche che qualifica la persona di Gesù93.

A me pare che questo debba essere il punto di partenza di ogni riflessione teologica94. Il compimento escatologico rimanda così all’evento di Gesù, alla kenosis, alla auto-estraneazione del Figlio di Dio per la salvezza del mondo. La kenosis, l’occultamento della presenza salvifica, è fondamentale: è l’unica possibilità di giustificare teologicamente quella escatologia secolarizzata che ha sviluppato fino alla scissione la distinzione tra predicazione e persona di Gesù, tra regno di Dio e Dio stesso. Solo la kenosis può permettere una comprensione cristiana di questa storia. Inoltre, ben considerata, la croce «non si profila come un divieto di operare sul piano escatologico, bensì come il suo ‘risultato’ e come esortazione sempre nuova alla speranza e attualizzazione attive della signoria di Dio»95. Solo sviluppando la kenosis fino alla resurrezione, la cristologia si svela capace di fondare una «escatologia compiuta», comprensiva del presente e del futuro, della presenza del regno e della sua attesa. «Condeterminati dal destino escatologico di Gesù», anche i cristiani «sono morti e risorti, […] risorti allo ‘spirito’ ma non all’esistenza terrena»96. Dall’unico mistero di Cristo scaturiscono così due dinamiche escatologiche, quella che riguarda Cristo e quella che riguarda l’umanità post-cristiana, con particolare attenzione per la Chiesa. I due momenti non possono venir separati; il dinamismo escatologico inaugurato da Cristo va sostanzialmente considerato in via di realizzazione, fino a che al Cristo eschatos non corrisponderà una umanità pienamente rinnovata. In questo senso la comunione escatologica con Cristo non è né limitata ai soli credenti né incapace di fondare la speranza; «noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui»97. «Ciò che saremo», «saremo simili a lui» sono termini che non elimina149

no la creaturalità, ma parlano piuttosto di un compimento che la eccede. Intesa su questo sfondo la comunione escatologica con Cristo si svela come un affidarsi, un rimettersi – come Lui e per Lui – a quel Dio che ha rivelato in Gesù il suo favore verso l’umanità. L’escatologia si lega così alla esperienza di Gesù: «è l’espressione della convinzione che la storia è nelle mani di Dio e che la storia del mondo può trovare il suo completamento in Cristo, il quale personifica la promessa di Dio»98. Letto in termini cristologici, l’eschaton non solo non si contrappone al tempo, ma lo chiarisce e lo illumina. In modo splendido, Schütz concluderà che l’escatologia è una dimensione profonda del tempo. In questo senso l’eschaton potrebbe essere definito addirittura come il mistero del tempo. […] Il tempo come tale non ci permette di venir a capo di alcunché fino a quando non ci porremo di fronte al suo mistero, all’escahton in esso nascosto.

Per questo è possibile distinguere ma non è possibile separare il tempo dall’eschaton: «Colui che nell’eschaton riesce a scorgere il mistero del tempo è anche capace di cogliere nella pienezza del momento la struttura di speranza propria del tempo»99. Per questo, con ragione, Greshake100 sosterrà che la fine del mondo non è – in sé e per sé – teologicamente rilevante; il suo significato non può che scaturire dalla cristologia che assume la storia come ambito in cui si dà il rapporto tra il compimento cristologico e la sua realizzazione storico-mondana. Distinguendo tra eschaton e eschatos, tra compimento metastorico e avvenimento di Gesù, Schütz da una parte concluderà al carattere personale dell’eschaton e dall’altra manterrà una reale tensione tra escatologia e soteriologia: il futuro non è solo svelamento del presente ma, anche, suo compimento. Poiché questa lettura cristologica svela il compimento come la libertà e la novità di un amore che ha il contenuto e la forma del dono di sé per tutti, dono filialmente restituito da Gesù al Padre da cui tutto ha origine, si può ben dire che l’eschaton custodisce «il vivo e personale, libero scambio tra le due sfere fino allora separate. In questo movimento dello scambio, egli mostra che le due sfere non sono originariamente estranee, l’una di contro all’altra, 150

perché è stato mandato da Colui, che chiama Padre, in un mondo che al Padre appartiene»101. L’eschaton suppone, in altre parole, una concezione della creazione come storia di libertà; in questo contesto l’innegabile presenza del male è seconda e non può spingersi fino alla rottura apocalittica con questa storia. Pensato come nuova creazione, frutto di quello Spirito che è dono escatologico per eccellenza, l’eschaton si collega da una parte alla prima creazione attraverso la mediazione dell’anima immortale e del corpo, e dall’altra al compimento attraverso la loro glorificazione e trasformazione. Il segreto della storia sta nell’eschaton e questo non può realizzarsi che attraverso di essa; si stabilisce così un rapporto tra creazione ed escatologia, tra proton ed eschaton, che esige di pensare insieme il dono di Dio e la risposta della libertà umana. Contro ogni rinascita del mito dell’eterno ritorno, la fede cristiana fissa nella irreversibilità della storia la custodia della responsabilità della libertà di fronte a Dio ed al mondo. 4.3. Il potere della libertà sulla storia: verso una ermeneutica del futuro. Questa comprensione teologica spiega l’esigenza di saper riconoscere, nella storia, i segni di questo dialogo tra la libertà divina e la nostra. Anche se Taubes102 ha richiamato la scissione tra Dio e il mondo ed ha seguito la linea gnostico-apocalittica di un Dio che «non è ‘al di sopra’ del mondo, quanto piuttosto ‘esistenzialmente’ contro il mondo»103, noi non seguiremo questa logica di discontinuità/giudizio, incombente sul tempo; leggendo la storia come estraneazione del mondo da Dio, egli conclude che «la vita nel mondo è straniera, la patria della vita è aldilà del mondo. L’Aldilà è ‘al di là’ del mondo intero»104. Per noi il futuro non può venire descritto solo come radicale novità o come radicale rottura senza diventare, di conseguenza, del tutto incomprensibile; il futuro è iscrizione della promessa divina dentro il movimento del tempo, fino a mobilitarlo verso una pienezza e non verso un qualche rimando vuoto o nostalgico. Queste diverse rappresentazioni rimandano, in ultima analisi, a due diversi modi di pensare la libertà storica: è potere, autodeterminazione e cammino verso un compimento o, al contrario, è combattimento, interruzione e catastrofe fino a sottrarre alla storia ogni senso. Per questo diventa importante chiarire il senso del «futuro di Dio» e le regole per una sua ermeneutica. Un primo contributo, 151

al riguardo, sarà l’invito di Rahner a distinguere tra futuro assoluto e futuro intramondano105: il primo rimanda ad un futuro autofondato e gratuito che mi viene liberamente incontro come dono, il secondo invece legge il futuro antropologicamente, insistendo così sulle possibilità della persona che lo attende e lo spera, lo favorisce e lo realizza. Su questa base bisognerà badare a non ridurre le promesse escatologiche di Dio ai semplici desideri della persona così come, per altro, bisognerà guardarsi dallo sganciarlo totalmente dalla storia, riservandosi solo la preghiera perché il regno venga. Di conseguenza la determinazione del futuro escatologico non potrà fare a meno di confrontarsi con i paradigmi del futuro propri delle diverse epoche106. In particolare assumerà importanza il modo di pensare la fine della storia; la qualità teologica della fine dovrà riconoscere che l’intera storia umana, in forza della presenza dell’eschaton, è già piena di senso; di conseguenza, l’esperienza di libertà di ciascuno comporta un reale riappropriarsi di questo senso, comporta che ciascuno ricomprenda e si decida in modo assolutamente personale di fronte a quanto è valido per tutti. Tra le diverse visioni vorrei qui ricordare quella di Metz107. Dopo aver denunciato la privatizzazione della fede, con la tesi della «riserva escatologica» ha fatto valere il carattere critico della escatologia e con quella della «memoria sovversiva della fede» le ha affidato un compito costruttivo. Ne verrà una escatologia critico-profetica che, con la memoria passionis et resurrectionis Jesu Christi, intende occupare il ruolo emancipatore rivestito dalla ragione illuminista nelle varie filosofie del progresso. Questa memoria Christi comprende tanto la donazione del senso quanto l’interpellanza della persona, comprende cioè tutto ciò attraverso cui la persona libera accede a se stessa. In questo modo, proprio per il suo carattere escatologico, la fede in Cristo è messa a servizio della salvezza di tutti; anche gli emarginati e gli esclusi sono accolti e portati ad esperienze significativamente affini a quella pienezza che solo il Dio della resurrezione può garantire. Questa prospettiva non può non riprendere i temi propri della scissione: dal persistere della sofferenza alla morte, dai rovesci della storia al male; lo fa, però, a partire da una rinnovata impostazione della teodicea, una impostazione che mette al centro la croce e non l’onnipotenza. Mentre la croce promette a tutti il do152

no della grazia, la resurrezione è garanzia di questa universale vittoria. Spetta ai credenti, di conseguenza, anticipare nella vita i segni di questa trasformazione; la dimensione di speranza, propria della loro fede, si fonda sull’anticipazione prolettica della storia data nella Pasqua. Questa anticipazione non regola la fine a misura dell’andamento storico, come in un processo universale; al contrario, mentre proclama il dono di Dio, illumina la fecondità della libertà umana in ordine ad esso. L’anticipazione del compimento pasquale nella fede ricca di speranza legittima ogni libertà finita in ordine alla sua autoattuazione; lì è la sua origine, la sua struttura e la sua criteriologia. Su questa base la libertà umana non è puro strumento, ma possiede una sua originaria legittimità e capacità di accedere al senso ultimo e di realizzarlo; il rimando escatologico è quindi lo spazio in cui la persona può essere se stessa nella costitutiva unità e differenza dalla umanità, mentre questa ritrova in questo modo il suo reale cammino.

Note Eb 1, 1-2. L’avverbio qui utilizzato è il greco «apax»; «una volta sola, ora, nella pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso» (Eb 9, 26). 3 «Cristo, dopo essersi offerto una volta allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza» (Eb 9, 28). 4 Eb 7, 27; 9, 12; 10, 10. 5 «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4, 4). Inoltre si veda anche il passo già ricordato di Eb 9, 26 che però non usa pleroma tou kronou ma sunteleia ton aionon, compimento dei secoli. 6 Eb 3, 13. 7 Ch.H. Dodd, La predicazione apostolica e il suo sviluppo (1936), Paideia, Brescia 1973. 8 O. Cullmann, Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel Cristianesimo primitivo, Il Mulino, Bologna 1965. 9 «Non tutti i segmenti della linea continua del tempo formano la storia della salvezza propriamente detta, che è costituita invece da questi kairoi, da questi punti presi dall’insieme del tempo» (ivi, pp. 61-62). 10 At 1, 7. 11 O. Cullmann, Cristo e il tempo, cit., p. 143. 1 2

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Ivi, p. 111. Ivi, p. 106. 14 Ivi, p. 88. Si tratta della sua tesi di fondo che considera «un grave malinteso» la sostituzione di un pensiero storico-salvifico con un pensiero filosofico e che invita, di conseguenza, ad abbandonare questa ellenizzazione filosofica del cristianesimo (cfr. ivi, pp. 77-83). 15 Ivi, pp. 74-84. 16 E. Brunner, L’eternità come futuro e tempo presente. Teologia della speranza (1965), Dehoniane, Bologna 1973, p. 60. 17 1Cor 1, 21-23. Anche Gal 5, 11 parla dello «scandalo della croce». 18 1Cor 1, 17. 19 Mt 5, 17-20. 20 Eb 1, 1-2. 21 Col 1, 15-17; Gv 1, 3. 22 Rm 8, 11. 23 Rm 8, 22. 24 1Cor 15, 24. Queste potenze, all’opera nei fenomeni storici del mondo, risalgono in ultima analisi a Cristo nel quale sono state create: Col 1, 16, e al cui servizio sono poste: Ef 3, 10. 25 1Cor 15, 26. 26 K. Barth, L’epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 1974, p. 481. 27 Ch. Schütz, Fondazione generale dell’escatologia, in Mysterium salutis, XI, Queriniana, Brescia 1978, p. 17. 28 Barth si è più volte interessato al nostro tema: si veda in particolare K. Barth, L’epistola ai Romani, cit.; Id., La resurrezione dei morti. Lezioni universitarie su 1 Corinzi 15, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1984, oltre che, naturalmente, la Kirchliche Dogmatik. Sul suo pensiero escatologico si veda J. Moltmann, Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 1970, pp. 47-55; A. Maffeis, «Dio ha tempo per noi» (KD I/2, 50). Tempo ed eternità nella teologia di K. Barth, in La fine del tempo, «Quaderni Teologici del Seminario di Brescia», Morcelliana, Brescia 1998, pp. 89-130; G. Oblau, Gotteszeit und Menschenzeit. Eschatologie in der Kirchlichen Dogmatik von Karl Barth, Neukirchener Verlag, NeukirchenVluyn 1988. 29 A. Maffeis, «Dio ha tempo per noi», cit., p. 95. 30 E. Brunner, un altro dialettico, riconoscerà con chiarezza che «il pensiero biblico dell’eternità è rigorosamente parallelo al pensiero biblico dell’onnipotenza: è dominio di Dio sul tempo» (E. Brunner, L’eternità come futuro, cit., pp. 72-73). 31 J. Moltmann, Teologia della speranza, cit., p. 54. 32 A. Maffeis, «Dio ha tempo per noi», cit., p. 99. 33 È quanto scrive Brunner: «L’aver preso coscienza della differenza tra il fatto stesso della rivelazione e le sue testimonianze scritte ci libera da molta zavorra, che non solo non ha niente a che fare con l’essenza della speranza cristiana, ma, al contrario, la offusca» (E. Brunner, L’eternità come futuro, cit., pp. 38-39). 34 R. Bultmann, Storia ed escatologia, Queriniana, Brescia 1989, p. 40. 35 Ivi, p. 52. 36 Ivi, pp. 56-57. 37 Ivi, pp. 69-70. 12 13

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38 K. Barth, Kirchliche Dogmatik, II/1, p. 716, citato in J. Moltmann, Teologia della speranza, cit., p. 53. 39 C. Theobald, L’apocalyptique dans la théologie contemporaine, in «Nouvelle Revue Théologique», 115, 1993, pp. 848-69; K. Koch, Difficoltà dell’apocalittica. Scritto polemico su d’un settore trascurato della scienza biblica, Paideia, Brescia 1977. 40 E. Käsemann, Gli inizi della teologia cristiana, in Id., Saggi esegetici, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1985, pp. 83-105; Id., Sul tema dell’apocalittica cristiana primitiva, ivi, pp. 106-32. 41 Id., Gli inizi della teologia, cit., pp. 84-85. 42 Ivi, pp. 100-101. 43 Su questo punto, i cenni di Käsemann saranno sviluppati dal suo discepolo P. Stuhlmacher, Gerechtigkeit Gottes bei Paulus, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1965. 44 Da qui la perentoria conclusione di Käsemann che «l’apocalittica è diventata la madre di tutta la teologia cristiana» e l’invito ad interrogarsi «perché la dogmatica non inizi più con il problema escatologico, bensì finisca tradizionalmente con l’apocalittica» (E. Käsemann, Gli inizi della teologia, cit., p. 101). 45 Id., Sul tema dell’apocalittica, cit., p. 118. 46 Ibid. 47 W. Kreck, Die Zukunft des Gekommenen. Grundprobleme der Eschatologie, Kaiser, München 1961. 48 J. Moltmann, Teologia della speranza, cit.; Id., Prospettive della teologia. Saggi, Queriniana, Brescia 1973; Id., Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Queriniana, Brescia 1973; Id., Trinità e regno di Dio. La dottrina su Dio, Queriniana, Brescia 1983; Id., L’avvento di Dio. Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 1998. Sul suo pensiero, per quanto riguarda il nostro tema, si veda J. Niewiadomski, Die Zweideutigkeit von Gott und Welt in J. Moltmanns Theologien, Tyrolia, Innsbruck-Wien 1992; I.U. Dalferth, Der auferweckte Gekreuzigte. Zur Grammatik der Christologie, Mohr, Tübingen 1994; J.-L. Souletie, La croix de Dieu. Eschatologie et histoire dans la perspective christologique de Jürgen Moltmann, Cerf, Paris 1997. 49 G. Sauter, Zukunft und Verheissung. Das Problem der Zukunft in der gegenwärtigen theologischen und philosophischen Diskussion, Zwingli, ZürichStuttgart 1965; Id., Begriff und Aufgabe der Eschatologie. Theologische und philosophischen Überlegungen, in «Neue Zeitschrift für Systematische Theologie und Religionsphilosophie», 30, 1988, pp. 191-208; Id., Einführung in die Eschatologie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1995. 50 J. Moltmann, Teologia della speranza, cit., p. 82. 51 Sarà E. Bloch, Il principio speranza, 3 voll., Garzanti, Milano 1994, a ripensare dinamicamente la materia alla luce della «possibilità» e a considerare questa come il principio del futuro; si veda Id., Gli strati della categoria possibilità, ivi, vol. I, pp. 263-94. 52 J. Moltmann, Teologia della speranza, cit., p. 167. 53 Nella sua risposta alle critiche a Teologia della speranza, Moltmann introdurrà una significativa mutazione di termini a cui, poi, non si atterrà più di tanto: distinguerà tra «futuro» e «avvento», nel senso che il primo è estrapolato dai processi della storia, mentre il secondo può soltanto venire anticipato. In questo caso, l’ad-ventus di Moltmann corrisponde al futuro assoluto di Rahner. Si

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veda J. Moltmann, Risposta alla critica della «Teologia della speranza», in W.D. Marsch (a cura di), Dibattito sulla «Teologia della speranza» di Jürgen Moltmann, Queriniana, Brescia 1973, pp. 278-82. Su questa distinzione e, più in genere, sul tema del futuro, si vedano anche i saggi contenuti nella raccolta di J. Moltmann, Futuro della creazione, Queriniana, Brescia 1980: Il futuro come nuovo paradigma della trascendenza, pp. 7-24; Orientamenti dell’escatologia, pp. 25-51; Metodi dell’escatologia, pp. 52-59. 54 J. Moltmann, Teologia della speranza, cit., p. 196. 55 Ivi, p. 205. 56 Ivi, p. 206. 57 Ivi, p. 226. 58 J. Moltmann, La categoria novità («novum») nella teologia cristiana, in Id., Prospettive della teologia, cit., pp. 203-20. 59 Id., Risposta alla critica, cit., p. 298. 60 Al riguardo si veda W. van Loewenich, Theologia crucis. Visione teologica di Lutero in una prospettiva ecumenica, Dehoniane, Bologna 1975. 61 J. Moltmann, Risposta alla critica, cit., p. 303. 62 W. Pannenberg, Avvenimento di salvezza e storia (1959), in Id., Questioni fondamentali di teologia sistematica, Queriniana, Brescia 1975, pp. 30-93; Id., Rivelazione come storia (1961), Dehoniane, Bologna 1969. Sul suo pensiero si veda H.D. Betz, Das Verständnis der Apokalyptik der Pannenberg, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 65, 1968, pp. 257-70; M. Pagano, Storia ed escatologia nel pensiero di W. Pannenberg, Mursia, Milano 1973; R. Gibellini, Teologia e ragione. Itinerario e opera di W. Pannenberg, Queriniana, Brescia 1980; C.E. Braaten, P. Clayton (a cura di), The Theology of Wolfhart Pannenberg, Augsburg Publishing House, Minneapolis 1988; G.L. Brena, La Teologia di Pannenberg. Cristianesimo e modernità, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1993. 63 La summa del pensiero di questo autore è in G. Von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, 2 voll., Paideia, Brescia 1972. 64 W. Pannenberg, La crisi del principio della Scrittura (1963), in Id., Questioni fondamentali, cit., pp. 17-29. Nella critica a una teologia autoritaria, Pannenberg comprende anche Moltmann che, attraverso la parola di promessa, ritrova la medesima concezione barthiana dell’autorità assoluta della Parola. 65 La sua quarta tesi suona così: «La rivelazione universale della divinità di Dio non è ancora realizzata nella storia di Israele, ma soltanto nella sorte di Gesù di Nazareth, in quanto ivi si realizza anticipatamente la fine di tutti gli avvenimenti» (W. Pannenberg, Rivelazione come storia, cit., p. 179). 66 Ivi, p. 182. 67 Citato in W. Pannenberg, Il Dio della speranza. Dio come futuro (1967), Dehoniane, Bologna 1969, p. 38. 68 Ivi, pp. 27-28. 69 Ivi, p. 38. 70 J. Moltmann, Risposta alla critica, cit., p. 302. 71 W. Breuning, Sviluppo sistematico degli enunciati escatologici, in Mysterium salutis, XI, Queriniana, Brescia 1978, p. 295. 72 Ch. Schütz, Fondazione generale dell’escatologia, cit., p. 141. 73 Ivi, p. 140. 74 J. Moltmann, Cieli nuovi – Terra nuova. Escatologia cosmica, in Id., L’avvento di Dio, cit., pp. 285-348.

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75 K. Rahner, Escatologia, in Sacramentum Mundi, III, Morcelliana, Brescia 1975, p. 537. Le stesse posizioni erano già in K. Rahner, Principi teologici dell’ermeneutica di asserzioni escatologiche (1960), in Id., Saggi sui sacramenti e sull’escatologia, Paoline, Roma 1969, pp. 399-440. 76 J. Daniélou, Saggio sul mistero della storia (1953), Morcelliana, Brescia 1963; Id., Christologie et Eschatologie, in A. Grillmaier, H. Bacht (a cura di), Das Konzil von Chalkedon, III, Echter, Würzburg 1954, pp. 269-86; J. Mouroux, Le mystère du temps. Approche théologique, Aubier, Paris 1962; H. Marrou, Teologia della storia, Jaca Book, Milano 1969; Ch. Journet, L’Église du Verbe Incarné, III, Essai de théologie de l’histoire du salut, Desclée de Brouwer, Bruges 1969 (in particolare il capitolo I: Notions préliminaires: le sens de l’histoire, pp. 13-103; Excursus I: D’une théologie de l’histoire du salut, pp. 103-11); B. Forte, Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l’inizio ed il compimento, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo (AL) 1991. 77 Si veda al riguardo H.U. von Balthasar, Prometheus. Studien zur Geschichte der Deutschen Idealismus, Kerle, Heidelberg 1947; il lavoro è la rielaborazione della sua tesi di dottorato già apparsa come Apokalipse der deutschen Seele. Studien zu einer Lehre von letzten Haltungen, I-III, Pustet, Salzburg-Leipzig 1937-39, e recentemente ripubblicata dalla Johannes Verlag, Einsiedeln 1998. Su questo medesimo tema si vedrà utilmente anche Id., Metafisica dello Spirito, in Gloria, V, Nello spazio della metafisica: l’epoca moderna, Jaca Book, Milano 1978, pp. 405-530. 78 Su Hegel si veda F. Totaro, Interpretazioni recenti del rapporto tra tempo e totalità in Hegel, in G. Ferretti (a cura di), Temporalità ed escatologia. Atti del Primo Colloquio su Filosofia e Religione (Macerata, 10-12 maggio 1984), Marietti, Genova 1986, pp. 153-92. In questo lavoro Totaro si muove oltre l’abituale interpretazione della totalità hegeliana come «totalità chiusa» per rivendicare un continuo superamento. 79 A riguardo si veda la critica di Ferretti là dove nota come la coincidenza di tempo e totalità finisce per dar origine a «una inevitabile confusione tra ambito della contraddizione e ambito del superamento della contraddizione» (G. Ferretti, Filosofia e teologia al di là della totalizzazione e della dispersione, in Id. [a cura di], Temporalità ed escatologia, cit., p. 33). 80 Moltmann, ad esempio, concentrando la storia attorno al regno, sosterrà che «per il teologo non si tratta semplicemente di interpretare in modo diverso il mondo, la storia e la natura umana, bensì di trasformarli nell’attesa di una trasformazione divina» (J. Moltmann, Teologia della speranza, cit., p. 81). Andrà però comunque ricordato che, anche là dove il compimento finale diventa il criterio di comprensione della storia, è necessario mantenere una differenza escatologica tra il compimento come totalità storica e il Signore che vi si rivela. 81 Ad eccezione di Ch. Journet che identificherà storia della salvezza e storia della Chiesa: cfr. il suo L’Église du Verbe Incarné, III, Essai de théologie de l’histoire du salut, cit., cap. I: Notions préliminaires, p. 107. 82 H.U. von Balthasar, Il tutto nel frammento, Jaca Book, Milano 1970, p. 148. 83 J. Daniélou, Saggio sul mistero, cit., p. 214. 84 Ivi, p. 298. 85 H.U. von Balthasar, Teologia della storia. Abbozzo (1950), Morcelliana, Brescia 1964; Id., Il tutto nel frammento, cit.; si vedano poi anche i cinque volumi della Teodrammatica, editi sempre dalla Jaca Book.

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H.U. von Balthasar, Teologia della storia, cit., p. 7. Ivi, p. 9. 88 H.U. von Balthasar, Il tutto nel frammento, cit., p. 102. 89 A. Darlap, I fondamenti d’una teologia della storia della salvezza, in J. Feiner, M. Löhrer (a cura di), Mysterium salutis, I, Teologia fondamentale della storia della salvezza, Queriniana, Brescia 1967, pp. 31-221. 90 K. Rahner, Storia del mondo e storia della salvezza, in Id., Saggi di antropologia soprannaturale, Paoline, Roma 1965, pp. 497-532. 91 Id., Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Paoline, Alba 1977, p. 63. 92 Ivi, p. 252. Si veda tutto il paragrafo La cristologia all’interno di una concezione evolutiva del mondo, ivi, pp. 237-66. 93 D. Wiederkehr, Prospettive dell’escatologia, Queriniana, Brescia 1978, p. 42. 94 Non mi pare teologicamente fondata, di conseguenza, la critica di Moltmann quando questi osserva che «così diventa difficile affermare ancora il futuro di Cristo come futuro universale: esso è soltanto il ‘futuro del compimento’ dei credenti. Inoltre non è chiaro come sia possibile sperimentare l’occultamento della presenza salvifica come segno del futuro e a partire da quale necessità la fede debba tramutarsi in speranza» (J. Moltmann, Orientamenti dell’escatologia, cit., pp. 30-31). 95 D. Wiederkehr, Prospettive dell’escatologia, cit., p. 47. 96 H.U. von Balthasar, Concetto dell’escatologia cristiana, in Id., Teodrammatica, V, L’ultimo atto, Jaca Book, Milano 1986, p. 19. 97 1Gv 3, 2. 98 Ch. Schütz, Fondazione generale dell’escatologia, cit., p. 121. 99 Ivi, p. 179. 100 G. Greshake, Auferstehung der Toten. Ein Beitrag zur gegenwärtigen theologischen Diskussion über die Zukunft der Geschichte, H. Wingen, Essen 1969. 101 H.U. von Balthasar, Lineamenti di escatologia, in Id., Saggi teologici, IV, Lo Spirito e l’istituzione, Morcelliana, Brescia 1979, p. 358. 102 J. Taubes, Escatologia occidentale, Garzanti, Milano 1997. 103 Ivi, p. 65. 104 Ivi, p. 50. 105 K. Rahner, Il problema del futuro, in Id., Nuovi Saggi, IV, Paoline, Roma 1973, pp. 645-71; Id., Il concetto di futuro: considerazioni frammentarie di un teologo, in Id., Nuovi Saggi, III, Paoline, Roma 1969, pp. 619-26; Id., Utopia marxista e avvenire cristiano dell’uomo, in Nuovi Saggi, I, Paoline, Roma 1968, pp. 119-34; Id., Chiesa e Parusia di Cristo, ivi, pp. 479-508. 106 Penso ad esempio a E. Gilson, Les métamorphoses de la cité de Dieu, Vrin-Publications Universitaires de Louvain, Paris-Louvain 1952. A queste metamorfosi classiche si dovranno oggi aggiungere l’idealismo, il marxismo e, anche, il pensiero debole. 107 J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1969; Id., La fede nella storia e nella società. Studi per una teologia fondamentale pratica, Queriniana, Brescia 1978; Id., Al di là della religione borghese. Discorsi sul futuro del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1981; Id., Sul concetto della nuova teologia politica. 1967-1997, Queriniana, Brescia 1998. 86 87

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Gli autori

Maria Cristina Bartolomei è ricercatrice presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Milano. Claudio Ciancio è professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università del Piemonte Orientale. Gianni Colzani è professore di Teologia dogmatica alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale (Firenze). Adriano Fabris è professore associato di Ermeneutica filosofica all’Università di Pisa. Nella stessa Università insegna Filosofia della religione. Daniele Goldoni insegna Estetica presso il Dipartimento di Filosofia e Teoria delle scienze dell’Università di Venezia. Maurizio Pagano è professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Trieste. Fulvio Papi è professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Pavia. Luigi A. Radicati di Brozolo è professore emerito di Fisica teorica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Vittorio Sainati è professore emerito di Filosofia teoretica all’Università di Pisa.

Indice

Nota del curatore

V

Tempo filosofico e tempo religioso di Vittorio Sainati

3

Note, p. 18

Il tempo e il libro di Maria Cristina Bartolomei

19

1. Introduzione, p. 19 - 2. Il libro come testimonianza visibile della temporalità, p. 21 - 3. La Bibbia, libro archetipo, p. 23 - 4. La struttura simbolica del libro e il tempo, p. 31 - 5. Conclusioni, p. 33 - Note, p. 35

Tempi della scrittura filosofica e silenzio del divino di Fulvio Papi

39

Eternità nel tempo e temporalità nell’eterno di Claudio Ciancio

49

1. Il tempo come immagine dell’eternità, p. 49 - 2. Persistenza del modello della circolarità, p. 51 - 3. Gli istanti, p. 54 - 4. Gli eoni: Schelling, p. 56 - 5. Gli eoni: Pareyson, p. 59 - 6. Eoni e istanti, p. 60 - 7. Storia dell’eternità, p. 62 8. Alterità nell’eternità, p. 65 - 9. Tempo e libertà, p. 66 Note, p. 68

Tempo ed eternità nella lettura hegeliana della religione di Maurizio Pagano

70

1. Tempo, concetto e spirito, p. 70 - 2. Tempo ed eternità nella religione, p. 77 - Note, p. 85

Aporie del tempo di Adriano Fabris 1. Percorsi aporetici, p. 87 - 2. Aporie nel tempo, p. 88 - 3. Aporie del tempo, p. 91 - 4. Il tempo «fra i tempi», p. 95 5. Alla fine, ricominciare dall’inizio, p. 99 - Note, p. 101

161

87

Tempo e natura – Dio? di Daniele Goldoni

103

1. Tempo ed esistenza, tempo e mancanza, p. 103 - 2. Kant: la presenza è possibile solo grazie all’assenza, p. 104 - 3. Limiti della interpretazione kantiana del tempo. Il misconoscimento della natura, p. 105 - 4. La voce dell’anima e la «sensazione». Descartes e Agostino, p. 109 - 5. Natura, tempo e linguaggio, p. 114 - 6. Tempo della natura e anima del mondo, p. 115 - 7. Dio?, p. 117 - Note, p. 118

L’evoluzione del concetto di tempo in fisica di Luigi A. Radicati di Brozolo

120

Note, p. 129

Struttura storica ed escatologica della libertà umana. Il rapporto tra Cristo «eschatos» e la storia nella teologia d’oggi di Gianni Colzani

131

1. Introduzione, p. 131 - 2. Una volta per tutte: Cristo centro e misura del tempo, p. 133 - 3. Pensare escatologicamente la storia: il compito della teologia, p. 135 - 4. L’uno e i tutti, l’«eschaton» e la storia, p. 144 - Note, p. 153

Gli autori

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