Miklós Jancsó. Il cinema tra storia e vita 8831796410, 9788831796415

"Questo libro di Giacomo Gambetti rende finalmente giustizia a Miklós Jancsó". Così Carlo Lizzani definisce la

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Italian Pages 227 [260] Year 2008

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Miklós Jancsó. Il cinema tra storia e vita
 8831796410, 9788831796415

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Giacomo Gambetti

Miklos Jancsó I cinema tra storia e vita prefazione di Carlo Lizzani

Giacomo Gambetti

Miklós Jancsó Il cinema tra storia e vita prefazione di Carlo Lizzani

Marsilio

Cura redazionale: Francesca Culcasi

© 2008 by Marsilio Editori® spa in Venezia

Prima edizione: novembre 2008 ISBN 978-88-317-9641 www.m a rsilioedicori. ir

C'era una volta...

Una volta viaggiavo molto qua e là. Atterravo a Milano per prendere l'aereo per Roma. Le guardie di confine, i doganieri, mi avevano già visto e mi conoscevano. Non frugavano nelle mie valige. A che pro? Se avessi avuto Qualche cosa di valore con me, Tavrei portata nella mia anima (ahahab, suona bene, eh?). Una volta, trovai che le guardie erano cambiate. 1 soldati venivano smo­ bilitati o spostati in un altro posto, chi lo sa? Alla porta ce nerano due molto giovani. L'uno alto, l'altro basso. Non li avevo mai visti prima. Ma anche loro che cosa potevano sapere di me? Cortina di ferro, carri armati russi. I buffi di Stalin, Armageddon. Insomma, tutto quello che la gente semplice, spaventata, veniva a sapere, in quei tempi, su ciò che era diver­ so, sconosciuto, su ciò che veniva dalla Luna. Su quanto è estraneo, non è fra noi, forse non è nemmeno di carne e di sangue. Ma se lo è, per cola­ zione saranno arrostite delle vergini e sarà strappato loro il cuore palpitan­ te. Per essere mangiato crudo. Ancora fresco. I due ragazzi mi guardavano con gli occhi spalancati. Senza una parola additarono la mia borsa a mano. La aprii. C’erano quattro o cinque dischi. Li portavo in regalo ai miei amici di Roma. «Posso toccarli?», chiese uno dei due. Fed cenno di sì con la lesta. Li esaminò tutti, poi li offrì al col­ lega. Li controllò anche lui. E anche lui disse qualcosa: «Che cosa é que­ sto?» Risposi: «Musica; da Budapest; un compositore ungherese». Tutti e due si misero a ridere. Quello alto scuoteva la testa. «In Ungheria ci sono dei compositori?» Prese i dischi sotto braedo, Si avviò, voltandosi indietro. «Si sieda pure», disse. Poco dopo veniva dall'ufficio /'Allegro Barbaro. Ascoltarono tutto il brano, là dentro. Non é lungo. Poi il ragazzo ritornò, ma cera con lui un uffidale. Anche lui giovane. Col disco in mano. «E suo?», chiese. «Lo comprerei». Sorrisi. «Non é da vendere. È un regalo. Ma 7

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se le piace, al mto amia) ne porterò un altro». Ci demmo la mano. Mi avviai verso l aereo per Roma, ma vidi quello alto a>mrmi dietro. «Il sot­ totenente chiede come si chiama il compositore». Risi. «C'é sulla coperti­ na». Ma lo scrissi: Bartók Béla. E dissi anche: «Bartók». Un saluto ai lettori italiani Miklós Jancsó

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PREFAZIONE dì Carlo Lizzani

Questo saggio di Giacomo Gambetti rende finalmente giusti­ zia a Miklós Jancsó. Divenuto, sì, leggenda - c non è poco - per titoli come l disperati di Sandor o L'armata a cavallo, e per i suoi famosi lunghi piani-sequenza, Jancsó è tuttavia lontano dall’essere universalmente riconosciuto come uno dei più fecondi autori europei, attivo nell'arco di decenni e insaziabile nell’esplorazione di tutte le tematiche poste dal Novecento non solo al cinema ma a tutte le arti. Il legame troppo rigido e schematico tra un artista e un «tito­ lo-leggenda» non è solo e sempre imputabile alla pigrizia della cri­ tica e, più in generale, dei media. E stato il destino di tanti cinea­ sti. Rossellini è divenuto sinonimo di Roma città aperta, De Sica è, per il senso comune, Ladri di biciclette, così come De Santis è Riso amaro (c - si parva licet... - il sottoscritto è ancora Achtung! Ban­ diti!). Ma ciò accade - da sempre - anche in letteratura, nelle arti figurative, nella musica. Sàndor Marai, per ricordare un grande compatriota di Jancsó, è Le braci, Picasso è Guernica, Leopardi è Linfinito (e lo Zibaldone?), Cechov è Tre sorelle (e i suoi straor­ dinari racconti?). Gambetti segue Jancsó dai suoi primi passi nel documentario e nei cortometraggi fino al ritorno a questo «genere» in anni recen­ ti. Lo pedina dalle esperienze teatrali (chiavi di lettura per decrit­ tare i suoi piani-sequenza) fino alle incursioni nel grottesco, nella satira, nella commedia. L’attenzione di Gambetti riguardo a questi aspetti meno conosciuti della filmografìa di Jancsó è costante in tutto il libro e non è legata a cadenze cronologiche. 9

CARLO LIZZANI

La strategia di quest'analisi è chiara fin dall’introduzione c operante nel corso di tutto il saggio. Basterà citare queste righe a pag. 70: Come sarà ormai chiaro al lettore, uno dei valori precipui della per­ sonalità artistica di Jancsó è proprio la sua capacità di aderire con estro, originalità, intelligenza alFaspettativa dei tempi e della storia. Negli anni sessanta, sotto il regime di Kadar, la storia era oggetto della più viva atten­ zione da parte di Jancsó ed Hernàdi, perché da vicende legate in qual­ che modo alla storia dell'Ungheria si traevano racconti a cui attribuire il senso di metafore, di allusioni, funzionali a un ripensamento e a una rifles­ sione critica importanti. Con l’avvento del consumismo c la conscguente crisi di valori, Jancsó c stalo capace di rinnovare totalmente il proprio cinema in stile c contenuti.

Già: attraverso la sua opera, il vento impetuoso della storia non ha mai cessato di investirci. Indipendentemente dal territorio (sociale, filosofico, stilistico) di volta in volta esplorato dalla sua macchina da presa. Lo conferma Jancsó stesso nelle numerose e preziose pagine-intervista che occupano buona parte del saggio di Gambetti. Nei film degli anni sessanta non ce mai stata ironia. Ma alla fine ho capito che lottare in via diretta è impossibile, e Fironia c una via d’usci­ ta. Se si può ridere, facciamolo. Prendere sul serio l’intero svolgimento dell'umanità, non soltanto nel nostro Paese, o in Europa, ma dappertut­ to, c impossibile. Comunque i mie bersagli sono sempre gli stessi, i poten­ ti, la gente che comanda; e anche i «nuovi polenti» non sono molto dif­ ferenti (p. 100).

Una tensione etica che non si allenta, dunque, in Jancsó, nem­ meno oggi, a ottantasette anni, e dopo decenni di prove diffìcili. Anche se raggiunge le sue punte più ardimentose nella stagione dello stalinismo, e in quella successiva del tanto sofferto e «limi­ tato» disgelo. Quante voci - in quei tempi fortunatamente oggi lontani - ci sono giunte dall’Est europeo! Una miniera - allora come oggi - di rivelazioni imbarazzanti, di confessioni angosciose. Un repertorio di personaggi, di conflitti che continueranno a vive­ re accanto e dentro di noi anche in futuro. Ne ha tracciato i contorni un altro grande ungherese, lo scrit­ tore Peter Esterhàzy con Harmonia C^lestis, libro che racconta le vicende eroiche (l'opposizione al nazismo prima e al comuniSmo 10

PREFAZIONE

poi) di suo padre, e in Harmonia C# lestis: Li versione corretta, scrit­ to in seguito alla scoperta della puntuale e circostanziata collaborazione di quel padre-mito con i servizi segreti in epoca comunista. La doppiezza come stile di vita che può durare decenni e che ha coinvolto chissà quanti amici. Un ballo in maschera che ha por­ tato in scena, nolenti o volenti, tutti. È su questo palcoscenico che Jancsó c stato costretto a operare. Gli va riconosciuto dunque un posto di tutto rispetto tra i grandi testimoni del Novecento. La sua opera costituisce un richiamo, come scrive Gambetti neirintroduzione, anche per le nuove generazioni: Molti ambiziosi registi - più o meno capaci - del panorama mondia­ le (ma devo confessare che penso soprattutto J cinema italiano) porreb­ bero prendere ancora oggi esempio da questo «giovane» ottantascttenne per allargare i loro orizzonti c andare al di là di una ristretta autobio­ grafìa, di un'analisi rivolta solo al proprio cortile o, al massimo, a quello dei vicini di casa. Del resto, i film di Jancsó ancora una volta ammoni­ scono: arte o - come dice Jancsó non senza civetteria - non arte che sia, il cinema migliore è sempre specchio e contemporaneamente interpreta­ zione e arricchimento della società in cui si vive (p. 11).

Un impegno al quale - come chiaramente si evince dal libro Jancsó ha obbedito non solo nel corso della sua attività cinemato­ grafica, ma anche nelle sue esperienze televisive. Piuttosto che drammatizzare quel conflitto tra cinema c televisione che ha inve­ stito il mondo dell'audiovisivo dagli anni sessanta, Jancsó ha preso atto dclPimportanza comunicativa del nuovo mezzo e delle oppor­ tunità che esso può dare a chi intenda esprimersi attraverso metri­ che diverse (più brevi o più lunghe) da quelle imposte dalla sala cinematografica. Una lezione anche questa - e sempre attuale - che il saggio di Gambetti ha il merito di trasmetterci.

Il

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Un ringraziamento vivissimo va a Giorgio Tinazzi, amico da tanti anni c di molte esperienze (basterebbe ricordare la Biennale Cinema). A lui devo, in particolare, il collegamento con l'editore Marsilio, nelle persone di Susanna Biadene e Fran­ cesca Culcasi. Ma il libro c stato in gestazione così tanto tempo, da avere necessariamente coin­ volto numerose attenzioni e sensibilità. Mi riferisco in primo luogo a quelle unghe­ resi, di cui è perfino difficile stilare un elenco: a parte, ovviamente la paziente e affettuosa disponibilità dello stesso Jancsó (Miki Bacsi come conosciuto in Unghe­ ria c come io non ho mai osato chiamarlo), come tralasciare l'accoglienza fami­ liare e i pasti casalinghi di Zsuzsa Csàkàny jancsó? Voglio ringraziare Judit Pinter, il cui contributo di notizie, dati, testi, traduzioni e soprattutto di correzioni e aggiornamenti di ogni genere, oltre a tanti interven­ ti e scambi telefonici, è stato fondamentale; Gàbor Salasi nszky, senza dimentica­ re il caro e scomparso fratello Miklós, produttore ungherese di O mia dolce terra, che mi fece vedere uno spicchio vivacissimo di Transilvania; Kàroly Gsala. auto­ re generoso di testi rari c importanti; l’imbronciato e vivissimo senso dell'umori­ smo di jànos Kende; il carissimo e «diffidente» scomparso Pista Gaal; la Magyar Filmunió nelle persone di Eva Vcszer, Katalin Vajda, Dorottya Szòrenyi, ricor­ dando anche l’affettuosa collaborazione della scomparsa Katalin Kovàcs; le lun­ ghe chiacchierate con József Marx e con Endre rlóriàn; lo scomparso Istvan Zsugan; Gyozò Szabo, nelle sue funzioni di direttore dcH’Accadcmia d’Ungheria a Roma (e, * prima di lui, nella stessa^ veste, Janos Kelemen), e di tramite, ottimi­ sta ma sfortunato - sfortunato anch'io - con I'amministratore delegato dell’isti­ tuto Luce. Dimentico sicuramente qualcuno e mi scuso sin da ora, invocando a difesa la mia età e il tempo trascorso: ma se ho dimenticato i nomi, non dimentico il lavoro e i consigli. Per quanto riguarda l'Italia, voglio mettere in rilievo l'aiuto semplice ma fondamentale di Donatella Pascucci. Del resto non ho da ricordare che l'attenzione cri­ tica e informata di Paolo Vecchi, anche se non sono riuscito a scalfire alcuni suoi dubbi a proposito dei film più recenti. Per sincera obiettività, voglio sottolineare il filo di arroganza c di presunzione che attraversa alcune nostre istituzioni, centrali e pcrifcricne, che non solo non col laborano, ma tentano di sabotare. G.G

INTRODUZIONE

Questo libro sul regista ungherese contemporaneo Miklós Jan­ csó non può non occuparsi anche del contesto in cui Fautore è cresciuto e in cui ha lavorato più che in ogni altro. E un autore, si badi, assai stimato in Ungheria ma altrettanto discusso, non fosse altro perché - contrariamente a molti suoi colleghi di altri paesi non ha mai rinunciato a un pubblico impegno politico, a prende­ re posizione sui problemi che coinvolgono la società in cui vive. Tuttavia, il pubblico italiano - se si eccettuano gli studi del 1974 del compianto Giovanni Buttafava (Miklós Jancsó, La Nuova Ita­ lia, Firenze, 1974) e, a breve distanza, Il vertice della parabola. Cine­ ma bianconero di Miklós jancsó di Ennio Castaldini (Patron, Bolo­ gna 1976) - non dispone su Miklós Jancsó di null’altro di com­ piuto, neppure in traduzione. Mi rivolgo dunque al lettore cer­ cando di porgergli alcune delle informazioni che ho potuto racco­ gliere nei tanti anni di frequentazione dell'ambiente cinematogra­ fico ungherese. È il cinema di un piccolo paese, orgoglioso, ani­ moso, che a lungo - per circa un quarto di secolo a cavallo degli anni sessanta, settanta e ottanta - è stato qualitativamente all'a­ vanguardia in Europa. Con questa mia affermazione so di violare alcuni luoghi comuni e di andare in certa misura controcorrente, ma credo che il cinema ungherese sia stato realmente all’avan­ guardia, non soltanto in proporzione, data la scarsa quantità della produzione (circa trenta film all’anno), ma spesso in assoluto'. 1 Va precisato, per chiarezza, che se negli anni delta statalizzazione < 1948-1989) il cine­ ma ungherese poteva prescindere dalle regole di mercato, esso era nello stesso tempo quasi

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A Istvan Nemeskiirty, uomo di cultura e di ironia, scrittore, storico, critico, in passato produttore del cinema ungherese non scmpre nelle fila ufficiali del regime (negli ultimi tempi, all’opposto, assai discusso a sinistra) chiesi nel 1987 quale fosse, a suo parere, il motivo di una così lunga e florida condizione espressiva del cine­ ma del suo paese, che nel 1948 aveva accettato malvolentieri la totale nazionalizzazione. Mi rispose: «Credo si possa dire che la fantasia degli ungheresi, anche dei contadini e degli operai, c molto “cinematografica”. Tutti i pastori del mondo, restando a lungo in solitudine, non disegnano col proprio bastone che leste e animali; i pastori ungheresi disegnano per raccontare delle storie, quasi cine­ matograficamente, e le loro storie ricordano, per esempio, quelle della Colonna Troiana. Anche le fiabe popolari sottintendono una fantasia molto visiva: i libri stampati da noi nel periodo barocco sono pieni di immagini simili alle attuali strisce di comics. Kaposvàr, nei primi anni del secolo una cittadina di soli diecimila abi­ tanti, contava già allora ben due sale di proiezione». Molti autori ungheresi, negli anni del cosiddetto «socialismo reale», realizzavano opere di opposizione indiretta o implicita alle istituzioni ufficiali. Per citarne alcuni: Istvan Gaàl con i suoi primi film, bellissimi e anticipatori, Nella corrente (Sodrdsban, 1963) e Anni verdi {Zòldar, 1965) c il suo capolavoro / falchi (Magasisko * la. 1970), Istvàn Szabó, Kàroly Makk, Imre Gyóngyòssy. Il loro era un cinema allusivo, sottile, con almeno due possibili livelli di let­ tura: uno svolgimento apparentemente innocuo dal punto di vista contenutistico e politico, eppure del tutto compiuto e convincen­ te, compatto, umanamente ricco, a cui corrispondeva un significa­ to profondamente polemico, di protesta nei confronti delle costri­ zioni e dei conformismi dominanti. E se Andràs Kovacs e - in alcu­ ni casi - Pài Gàbor, Peter Bacsó c altri affrontavano temi più diret­ tamente politici mantenendo una prospettiva contemporanea, il lavoro di Jancsó andava, invece, a scavare spietatamente nella sto­ ria. Le sue allusioni e metafore erano tutt’uno col racconto» fuse negli avvenimenti e nei personaggi e incontrovertibili. Da qui anche la particolare posizione del cinema di Jancsó, quel­ la sicurezza morale che gli ha consentito una continuità narrativa vii del tulio privo di un vero rapporto col pubblico, anche con quello un^hervM-. hi lai modo l'interesse primario di molti registi - a Ioni volta in accesa rivalità nctipnK.i, ni di là delle

affermazioni ufficiali - era che il proprio film piacesse in primo luogo negli 111ii< i ►inveì nativi.

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INTRODUZIONE

grande coerenza. Mentre, infatti, Gaàl, almeno nel lungometraggio, taceva; Kovàcs girava (ottimi) documentari sulla Transilvania; Szabó e Marta Mcszàros realizzavano (grandi) coproduzioni intemaziona­ li; Makk, Sara, Bacsó, Dàrday, Elek, Gazdag, Kézdi-Kovàcs, Koza, Lugossy, Rózsa, Szomjas, Andràs sono da tempo alla ricerca del­ l’antica ispirazione; Huszàrik, Body, Gyòngyòssy - tre autori sul cui spirito anticonformista e la libertà di stile si poteva coniare - sono prematuramente scomparsi; mentre alcuni autori di mezza età cer­ cano con intelligenza e originalità - e con notevoli fatiche produtti­ ve - di rinnovarsi nei temi e nello stile e giovani registi si affaccia­ no sulla scena, pur dovendo ancora consolidare le proprie esperienze con coraggio e qualità, Miklós Jancsó è Punico che sia stato capace di rinnovarsi dall’interno, rivoluzionando il suo modo di lavorare e l’universo narrativo dei suoi film, inventando una via alternativa d’interpretazione della realtà e della storia quotidiana del suo Paese. Molti ambiziosi registi - più o meno capaci - del panorama mondiale (ma devo confessare che penso soprattutto al cinema ita­ liano) potrebbero prendere ancor oggi esempio da questo «giova­ ne» ottantasettenne per allargare i loro orizzonti c andare al di là di una ristretta autobiografia, di un'analisi rivolta solo al proprio cortile o, al massimo, a quello dei vicini di casa. Del resto, i film di Jancsó, ancora una volta ammoniscono: arte o - come dice Jan­ csó, non senza civetteria - non arte che sia, il cinema migliore è sempre specchio c contemporaneamente interpretazione e arric­ chimento della società in cui si vive. E questo il cinema che è parte integrante della storia e della cultura. Ho intitolato il libro Miklós Jancsó. Il cinema tra storia e vita perché in esso c’è - almeno nelle intenzioni di chi scrive, anche se, secondo Zavattini, «l’intenzione rivela conoscenza e riflessione» - il desiderio di fornire un quadro di un’attività, come quella di Jan­ csó, profondamente connessa alle vicende storiche passate e pre­ senti del suo Paese e, anche per questo, assai inconsueta. In un’e­ sistenza che ha attraversato (quasi) l’intero xx secolo lo spazio per la storia è basilare, c in Jancsó esso si accompagna all’interesse per l’etnografìa, il costume popolare, la musica, l’arte figurativa, il tea­ tro, alla necessità di esprimersi per immagini. Quella di Jancsó è una vita che davvero non può fare a meno della storia, e lo si evin­ ce in ogni sua manifestazione.

Non ho alcuna difficoltà ad affermare che una delle tante carcn17

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zc organizzative del cinema italiano - segno della modestia cultu­ rale delle sue strutture - è l’aver sempre fatto molto poco per pro­ muovere in Italia la diffusione della grande maggioranza del cine­ ma mondiale (fra cui ovviamente quello ungherese). Conosciamo in maniera approssimativa soltanto i grandi numeri e - salvo alcu­ ne eccezioni, sempre dovute a ragioni pubblicitarie o occasionali le stesse cinematografìe degli anni trenta, mentre continuiamo a ignorare quelle di interi paesi dei vari continenti: vediamo, ad esem­ pio, cinque o sei cinematografie europee, una del Nord America e altrettanto del Sud America; lo stesso vale pcr la vastissima pro­ duzione giapponese e i nuovi autori di altri paesi asiatici tra cui, ad esempio, Cina e Corca. Ciò si ripercuote ovviamente sul gusto del pubblico, sulle sue preferenze: si crea una sorta di circuito chiu­ so, per cui sappiamo tutto circa le abitudini, l’ambiente, i vestiti e le case nordamericani c, istintivamente, ciò che esula da quest’im­ maginario non rientra nelle nostre simpatie. Così un bellissimo film ungherese, peruviano, armeno o svedese risulta assolutamente estraneo agli spettatori italiani, il cui gusto è modellato dalla con­ suetudine e dalla pubblicità. In un passato ormai lontano ciò era dovuto anche all'effetto della «guerra fredda», ma la frattura e la pigrizia sono rimaste anche dopo il crollo delle barriere fìsiche, diventando una costante e un alibi per gli operatori del settore7. Mi sia concessa, a questo proposito, una piccola vanteria, in parte giustificata e agevolata dalla scarsa eco che la personalità di jancsó, salvo rare eccezioni’, ha avuto in Italia. Desidero sottoli­ neare che la scoperta c il conscguente entusiasmo per i film di Jancsó e di altri autori ungheresi, l'attenzione verso quelle opere e l’originalità del loro stile e dei temi sono sorti in me in maniera diretta, con la prima visione di questi film in Ungheria, all’interno di una saletta in cui i critici italiani si contavano sulle dita di una ' Una volta Jancsó disse: «[...] Noi conosciamo a memoria i grandi classici sovietici degli anni (rema c gli amici italiani padano solo dei vecchi film americani. A Ioni suscita grandi emozioni un film americano che io non conosco mentre quando mi capita di parla­ re di Ciapaiev da pane loro percepisco indifferenza». Hanno buon gioco i ««commercianti» di tutti i livelli a giustificarsi dicendo «è il puh blicu che non vuole cambiare». «è il pubblico che non gradisce i film... non americani». Come se una proiezione ogni tanto potesse incidere su schemi ormai prulondamcntc radi cari nella monte dello spettatore. ‘ Soltanto, alla fine degli anni sessanta, la distribuzione del primo Italncilcggm l ine malografico del caro l ab tìzio Cìabclla (che portò avanti un impegno che und.iv.i lien oltre, per importanza e validità culturale, il suo incarico di capo ulficio stampa) cerco di Ji Ilotide re in Italia, con alcuni dei suoi «classici», la conoscenza «Iella figura ili I atteso.

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INTRODUZIONE

mano, c non tutti erano della stessa opinione. In seguito, grazie all'organizzazione c alla cortesia del cinema ungherese, ho avuto la possibilità di rivedere da solo, in sala di proiezione, gli altri film e documentari di Jancsó, e appassionarmene definitivamente. Il lettore troverà in questo libro informazioni, accostamenti, considerazioni che potranno a volte suonargli del tutto nuovi o quasi, in un procedimento a mosaico con ripetizioni, ridondanze, sovrapposizioni e perfino contraddizioni create ad buc\ da cui potrà comunque ricavare notizie e pareri. Del resto, a poche cose vere in assoluto, immutabili e fisse, è sempre preferibile il confronto, maggiormente prezioso e formativo. E una delle grandi lezioni di Jancsó che dell’apertura di spazi di libertà ha fatto, e continua a fare, una regola di vita.

Alcune delle lunghe conversazioni che ho avuto con Jancsó non sono recentissime, ma i temi affrontati e le relative considerazioni non hanno perduto nulla in termini di importanza, di significato e quindi di attualità. Varie vicissitudini (personali e professionali) mi hanno impedito di realizzare in maniera più tempestiva questo libro e qualcuno ne ha approfittato per tentare - senza riuscirci - di confondere le acque e perfino di incrinare il rapporto fra me e Jancsó. Chiedo scusa a Miklós per quello che è dijx-so da me ma mi sento di garantire che la sostanza del suo pensiero non è mai alte­ rata. In proposito, voglio precisare che - come è mia abitudine nei lavori di questo genere - ho eliminato tutte (o quasi) le mie doman­ de, lasciando scorrere nel modo più libero il pensiero del mio inter­ locutore, rispettandone le correlazioni interne, i ritorni, le (spesso solo apparenti) ripetizioni. Va tenuto presente che Miklós si espri­ meva in una lingua non sua, in italiano, che è più facile da legge­ re c da ascoltare che da parlare, specie per chi, come lui, conosce bene il francese. E non mi sono lasciato troppo influenzare dalla ormai celebre affermazione di Jancsó: «[...] so che e molto diffici­ le fare interviste con me, ma io non sono serio e non posso pren­ dere sul serio il mio lavoro, perché il cinema in se non è una cosa scria... Conosco i miei limiti, non mi prendo sul serio: perché dovrei avere una filosofia sul cinema?». In questo libro non rientrano, volutamente, una cronaca né un'analisi minuziosa condotta film pcr film, così come non si pro­ 19

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cede seguendo una rigida successione cronologica. Ho preferito credere in una continuità di spirito e di tematiche, che ovviamen­ te prescinde da ogni scansione temporale. Ho evitato, inoltre, di affrontare argomenti o di addentrarmi in particolari storici che, pur stando a cuore a Jancsó e a molti critici, risulterebbero lontani dal lettore italiano.

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IL GIOCO DELLA STORIA

Quando, qualche tempo fa, scrissi una monografia sul regista italiano Florestano Vancini', adottando, come in questo libro, il criterio di lascia­ re il più possibile la parola al protagonista, ci fu chi elogiò il lavoro, facen­ do presente, tuttavia, con garbo, l’assenza di un mio specifico giudizio critico. Credo che il mio giudizio critico fosse presente, c in maniera molto chiara, anche se non direttamente espresso: chi ha saputo leggere tra le righe lo ha certamente ritrovato. Memore di quell'esperienza non voglio tacere, in questa sede, alcune considerazioni che mi sembra doveroso pre­ sentare al lettore.

Nato a Vàc, (poco più di tremila abitanti), vicino a Budapest, il 27 settembre 1921, Miklós Jancsó, il minore di tre figli, riesce a studiare a costo di grandi sacrifici familiari. 1 suoi studi si svolgo­ no innanzitutto in un collegio religioso cattolico, durante il gover­ no dell’ammiraglio Ilorthy, a capo di un regime filo-fascista. L’Un­ gheria di quel periodo è un paese in cui, ufficialmente, non si deve nc pensare né agire; un paese - non lo dico io - «da operetta» (che imita molti dei burleschi atteggiamenti in prima pagina nella penisola italiana), dove gli intellettuali (scrittori, poeti, musicisti, pittori) sono emarginati o incompresi, o, se compresi, vengono messi a tacere, per non lasciare spazio a tracce di dissenso. Il cine­ ma muto produce pochissime opere di rilievo; quello sonoro con­ serva come marchio fondamentale l’evasione c si limita alla com­ media cosiddetta «brillante», salvo rarissime eccezioni. Valgono gli indirizzi ufficiali: un militarismo più di apparenza che di forza • G. Gambetti, Fiorentino Venditi. Roma, Grcmcsc Editore. 20U0.

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MIKLÓS JANCSÓ

(anche qui il confronto con l'Italia non è lontano), un clero assai chiuso, una borghesia quantitativamente modesta e senza grandi aspirazioni, una popolazione di operai e soprattutto di contadini scarsamente politicizzata c scolarizzata. Jancsó studia etnografia e diritto all’università di CZluj (Kolozsvàr, in ungherese, nella regione transilvana), laureandosi in legge nel 1944. Proprio a Cluj erano sorti negli anni dieci alcuni fra i primi studi cinematografici ungheresi (ancora alla fine degli anni ottanta io stesso ne ho potuto vedere alcuni resti], teatri in cui hanno lavorato Jenó Janovics, Sàndor (poi Alexander) e gli altri Korda, Mihàly Kertesz (poi Michael Curtiz), ma Jancsó non lo per­ cepisce come un segno del destino. Non riesce a evitare il servizio militare: va in guerra per qualche mese e viene fatto prigioniero dai russi fino alla Liberazione (maggio 1945). Entra a far parte di un gruppo specializzato in balli e canti popolari contadini, grup­ po che già aveva conosciuto in precedenza. Alla fine della guerra, quando gli accordi fra le «grandi poten­ ze» vincitrici assegnarono l’Ungheria all’Unione Sovietica (tutto era già stato deciso a Yalta) provocando uno spostamento dell’asse geo­ politico, l’Ungheria divenne Est europeo; la metà di quello che era stato, nel cuore dell’Europa, l’impero di Francesco Giuseppe si trovò inserita in un sistema politico che non conosceva e che non faceva parte della sua cultura c delle sue tradizioni, salvo la breve e straordinaria parentesi della (utopistica) Repubblica dei Consigli (1919), la cui fine aveva decretato l'esilio per molti intellettuali, scrittori e personalità di sinistra (fra cui Béla Balàzs, il grande teo­ rico del cinema). Róbert Bàn’, storico del cinema e regista, ipotizza che proprio «in un campo di prigionia di guerra Jancsó abbia cominciato a far sua quella visione del mondo che l’avrebbe spinto, al ritorno in patria, a impegnarsi nei movimenti politici del dopoguerra unghe­ rese». Il sottoscritto non ha altrettanta fiducia nelle proprietà tera­ peutiche e pedagogiche della prigionia (sia pure di guerra), ma bisogna dare atto a Ban di aver riconosciuto in questo determina­ to momento della vita di Jancsó l'origine della particolare atmo­ sfera che sarà alla base del suo film Venti lucenti (Fénycs szelek) del 1968, che «rievoca l’epoca dell’euforia della libertà, quando ’ Robert Bàn c autore del capitolo // cammtfM fino a HI mio cani mino). contenuto nel volume collettivo MMit pwwi di «Eludo cinémjtogniphiqiies», n. KM IOH. I\iri>, I Al­ * tre ModerncsMinard, 1975.

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11. GIOCO DELLA STORIA

decine di migliaia di giovani, liberati dalla pressione del fascismo, si impegnano sotto le bandiere dei movimenti di sinistra nella spe­ ranza di trasformare il mondo. (...1 Principali centri di incontro erano i “Collegi popolari”, iniziativa eminentemente ungherese, segno di una notevole apertura, non priva di una vena di roman­ ticismo - scrive ancora Robert Ban" - che offrivano ospitalità e possibilità di studiare a giovani del popolo di buone speranze, c contemporaneamente costituivano un gruppo di lotta, scuola poli­ tica in cui i principi di trasformazione della società si apprende­ vano vivendo a contatto con le reciproche esperienze. Jancsó - pro­ segue Ban - fece parte di un collegio popolare in qualità di capo­ gruppo, segretario dell’ensemble Muharay’, dopo la Liberazione. Diventò direttore del suo Collegio e in tale veste entrò in contat­ to con altri collegiali interessati alle arti figurative, come gli “Horvàthàrpàd”, allievi della nuova Scuola superiore di arte dram­ matica e di cinema»’. Jancsó aderisce, dunque, con passione al movimento: è sicu­ ramente questo il punto più alto del suo impegno politico in senso socialista. Crede fermamente che sia giusto c utile «fare qualcosa» di concreto, anche umanamente, affinché la sua Ungheria possa inserirsi veramente in una corrente democratica, popolare, socialmente aperta, in cui la cultura abbia un posto preminente, a fronte di un livello di sviluppo ancora, per le masse, poco più che elementare. Jancsó, si è già accennato, si occupava di etnografia, di arte figurativa c di teatro: nel 1947 si iscrive alla Scuola di cinema e si diploma in regia nel 1951. La Scuola derivava dalla riforma dell'ex Accademia di arte dram" Se si percepisce una cena dose «li mitizzazione nelle partile di Bin va considerato che egli scrìve in piena epoca kadariana. F.lcmer Muharay I19QI 19601, attore e regista, dal 1931 lavora in diversi teatri di Budapest. Dai 1940 dirige V ensemble (attività teatrali, carni e balli popolari) dell’associa­ zione dei giovani. • Cfr, Ban, Il cammino fino a cit. Il movimento dei Collegi popolari risale al 1939 eJancsó vi fu vicino quasi fin da subi­ to. Solo anni dopo verrà a sapere che anche Hernàdi ne aveva fatto parte. I Collegi popolari mi ricordano, muiatts mutandù, per certi aspetti i patronati scolasti­ ci italiani, per altri i Cineguf (dove guf scava per Gioventù universitaria fascista). Orbene i Cineguf, in Italia, furono spesso centri di formazione c studio, di fermento culturale c di forte rinnovamento cinematografico in senso a-fascista, anzi anti-fascista; per non parlare poi della rivista «Cinema», diretta da Vittorio Mussolini - figlio del capo del fascismo e del governo - che tu in realtà una palestra relazionale per i critici di sinistra (iscritti o forte­ mente simpatizzanti per il partito comunista), e una delle fonti culturali nel nuovo cinema italiano. Orrnsròirc di Visconti nacque proprio nelle stanze di quella redazione nel 1942.

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malica - prima riservata alla formazione dei soli attori - che aveva avviato corsi di regia c di cinema. L’iniziativa era stata promos­ sa da Béla Balazs e da Géza von Radvànyi che ne divenne il primo direttore. Fra i primi allievi spiccano i nomi di Kovacs, Bacsó, Fehér, Makk; Jancsó, benché di alcuni anni più grande, vi arri­ va qualche tempo dopo. Sono questi, per l’Ungheria, anni che chiamare diffìcili è ridut­ tivo; sono anni di inganni, perché da un lato sembrano possibili alcune strutture di nuova e vera apertura democratica (come gli stessi Collegi), dall’altro tutto ciò che esula dal centralismo stata­ lista è - al di là delle forme - non solo mal visto e mal tollerato ma vieppiù fortemente represso. Ancora oggi gli ungheresi fremo­ no di paura, di rabbia, di dolore, al solo sentir pronunciare il nome di Màtyàs Kakosi, il dittatore stalinista («più Stalin di Stalin»), al solo vederne riprodotta l’immagine in fotografia. Repressione su ogni fronte, totale miopia ideologica, reclusione e condanna a morte per gli oppositori veri o presunti (spesso presunti), non di rado comunisti sinceri e democratici, ma anche cattolici, che non ammettevano o non potevano immaginare di essere in realtà total­ mente in balìa di Mosca. Per restare in ambito cinematografico furono imprigionati comunisti come Tamàs Aczél e Jànos Kàdàr, e cattolici come Imre Gyòngyòssy’. In merito a quel periodo Jancsó dirà di sé: «anch’io sono stato uno stalinista convinto per qualche anno, finché ho capito che lo stalinismo era un errore, più che un errore, un crimine» La morte di Stalin, nel 1953, allentò, almeno in parte, la ten­ sione in tutti i paesi sotto la sfera d'influenza sovietica, e l'Ungheria arrivò a credere tanto alla possibilità di nuove prospettive da esplo­ dere, neH’ottobre-novcmbre ’56, sull’esempio dei moti polacchi, nelle giornate di Budapest (di fronte alle quali - va detto per dove­ re di cronaca - oggi Jancsó esprime il dubbio di una «provoca­ zione» a opera dell’estrema destra o del kcb). Dal 1948 (anno della nazionalizzazione del cinema) fino al 1958 (anno del primo lungometraggio a soggetto di Jancsó) i film unghe­ resi di qualche rilievo si elencano in breve: l’«antenato» è del '47. ' L’iinica opposizione a Rakosi è quella portaci avanti >lrenuamvncv ilall’alloRi Mini­ stro degli Interni. Insilò Rajk, che verri processato e condannalo a morte per «iìioìmiio». cioè per deviazione rispetto alla linea ufficiale di Mosca. G. Bultafava, Miktón Janeiri, Il Castoro ('incula, La Nuova Italia, Iircnzc. I97«4.

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IL GIOCO DELLA STORIA

È accaduto in Europa (Valabol Európàban), di Géza von Radvànyi con una sceneggiatura firmata, fra gli altri, da Béla Balàzs e Félix Màriàssy (e Kàroly Makk assistente alla regia, ancora allievo della Scuola), che tanto deve a Sciuscià e a Paisà:, Un palmo di terra di I’rigyes Ban (Talpalatny fold, 1948); Anna Szabó di Félix Màriàssy (Szabóné, 1949); Liliomfi di Kàroly Makk (1954); Segno di vita (Életjel, 1955), Carosello (Korhinta, 1955), Il professor Annibale (Hannibal tanàr tir, 1956) di Zoltàn Fàbri; qualche altro titolo degli stessi autori, torse qualcosa di Fehér, I lerskó e simili. La carriera cinematografica di Jancsó comincia in quegli anni nel campo del documentario e dei cinegiornali già durante il suo ultimo periodo alla Scuola di cinema. E per lui naturale, una volta conseguito il diploma, iniziare a lavorare presso lo Studio del Docu­ mentario; almeno all'inizio, dunque, Jancsó si dimostra realmente ligio ai criteri ufficiali oppure semplicemente preferisce l’anonima­ to. I titoli sono di per sé rivelatori; Keziinkbe vettiik a béke iigyéi (“Abbiamo nelle nostre mani la causa della pace”, 1950), diretto in collaborazione coi colleghi della Scuola, Dczsó Koza e Gyula Mészàros); A szovjet mezógazdasàgi kiildòttség tanitàsai (“Una dele­ gazione agraria sovietica”, 1951) in collaborazione col collega della Scuola, Istvàn Gyòrgy; A fi. szabad Màjus 1 (“L’ottavo 1° Maggio libero", 1952); Valasztàs eló'tt (“Prima delle elezioni”, 1953); Arat az Orosbàzi Dopa (“11 raccolto della cooperativa Dózsa di Oroshàza”, 1953); Ósz Badacsonyban (“Autunno a Badacsony”, 1954); Eltetd Tiszavt'z (“L’acqua vivifica del Tibisco", 1954); Galgamentén (“Lungo il Galga”, 1954); Emberek, ne engedjételt! (“Uomini, non permettetelo!”, 1954); Egy kiàllitàs képei (“Quadri di un’esposi­ zione", 1954); Emlébezz, ifjùsàg! (“Giovani, ricordate!”, 1955); Angyalfóldifiatalok (“Giovani di Angyalfóld”, 1955); A Varsói Vila'gifjósàgi Talàlkozó I, II, III (“Il Festival Intemazionale della Gio­ ventù di Varsavia i, u, in", 1955); Egy délutàn Koppànymonostorban (“Un pomeriggio a Koppànymonostor”, 1955); Móricz Zsig­ mond 1897-1942 (“Zsigmond Móricz 1897-1942”, 1956). Questi ultimi documentari subiscono alcuni attacchi politici e, come rife­ risce Robert Bàn, «Jancsó corse il rischio di essere escluso dai ruoli della regia a favore di quelli della produzione». Nella primavera-estate del ’56 Jancsó viene inviato all’estero: è incaricato, come regista, insieme al direttore della fotografia Félix Bodrossy, di seguire la tournée in Cina del Gruppo artistico del Ministero della Difesa. In occasione di questo viaggio realizza alcu­ 25

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ni documentari: Kina vendégei voltunk (“Siamo staci ospiti della Cina”, 1957); Dél-Kina tàjain (“Nella Cina del Sud’*, 1957); Szinfoltok Kindból (“Schizzi cinesi , ** 1957); Peking Patatai (“Palazzi di Pechino’*, 1957)”. I «documentari» di Jancsó, a ben guardare, non di rado sono dei cortometraggi a soggetto più che veri e propri documentari L’equivoco della denominazione trac origine anche dalla durata che si aggirava intorno ai dicci minuti (una bobina), tipica dell’epoca. La prima fase della produzione jancsiana si conclude nel ’58 con A harangok Rómàba mentek (“Le campane sono andate a Roma”). Su quel periodo lo stesso Jancsó ha avuto occasione di dichiarare: Credo che i cortometraggi che ho realizzato nel corso di una decina d'anni abbiano molti rapporti con i lungometraggi, soprattutto con i mici ultimi. Uno fu realizzato nel medesimo luogo del mio film Sciogliere e noto anche come Cantata 1963). In molti ho fatto degli esperimenti di «macchina da presa libera», un po’ come nc li mio cammino (Igy Jdtfem, 1964). Dopo / disperati di Sdndor (Szegénylegènyek. 1965) ho pensato a un altro lungometraggio; ho cominciato a girare, ma poi ho dovuto interrompere: quello che avevo girato mi è bastato per rea­

legare iOldàs és kotès,

lizzare un cortometraggio, che ho intitolato cui vicenda si svolge ai nostri giorni.

Presenza (Jelenlét,

1965)”, la

' La data del 1957 si riferisce, ovviamente, all'edizione, non alle riprese, questo viaggio, in particolare, fece sì che Jancsó non Fosse presente a Budapest durante le pomate del l'ottobre novembre 1956. Occorre precisare che il termine «documentario» (siamo sempre nellambito della durata di una bobina, circa dicci minuti! non definisce di per sé qualcosa di oggettivamente e «freddamente» disponibile a essere ripreso. Senza addentrarci in discorsi sull’an go lezio­ ne e sulla durata dcll'inquadralura. e senza considerare che la fase del montaggio può con * dizioni! re il significato delle immagini, e proprio il documentario in sé che non comporta ipso facto una macchina da presa di fronte a una situazione da «riprendere» c basta, ma quantomeno una preparazione, un accordo, se non altro - ad esempio - sull'illuminazione, sugli abiti, le posizioni, i movimenti, i gesti e così via. Nel caso di Jancsó, il «cincgiornalismo» che lui praticò all'inizio della sua attività e la stessa «attualità» cinematografica erano - per ragioni politiche - inquinati c «preparati», e in netta contraddizione con la loro primaria essenza di verità c di immediatezza. L'«adatlamento», invece, di cui c sostenitore ad esempio Horestano Vancim (c che è sicuramente la forma prevalente e più diffusa di affrontare questo genere di film) è in fin dei conti lecito - se rimane nei limiti della correttezza -, tale da non travisare ciò che si vuole «riprendere» c documentare. •' «[...J È la storia di due vecchi, i soli ebrei del villaggio in cui vivono, che vogliono seguire i loro riti. Ora, per gli ebrei ortodossi il culto non e possibile - almeno in Unghe­ ria - se non ci sono almeno dieci persone presenti; i vecchi decidono, tuttavia, di praticarlo ugualmente e lo esercitano all'interno di una sinagoga in rovina»

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IL GIOCO DF.I.IA STORIA

Jancsó realizza anche un mcdiomctraggio che confluirà come primo episodio nel film Hàrow csillag (“Tre stelle", I960), firma­ to insieme a Zoltàn Vàrkonyi e Karoly Wiedermann: «si svolge durante l’ultima guerra, in una fabbrica occupata dai tedeschi. Gli ungheresi rifiutano di essere trasferiti in Germania a lavorare e si nascondono in un bosco. Uno di loro è catturato e viene spinto dai soldati a convincere gli altri a riprendere il lavoro. Ma lui inci­ ta i compagni a non cedere perché i Rissi sono ormai vicini e la guerra sta per finire». Io penso che né “Le campane" né “Tre stelle" siano da respin­ gere totalmente, anche se comprendo l’atteggiamento di Miklós che ha le sue buone ragioni, legate alle pressioni subite e ai limiti ideo­ logici imposti e mal digeriti, per ricordare con scarsa simpatia quel­ le opere: «“Le campane" non mi piace perché metà della storia è falsa: mostra l’arrivo delle truppe sovietiche in Ungheria in modo troppo idealista A mio parere, se si mette da parte la realtà storica e si considerano i due film solo per quel che si vede, non si può non riconoscerne gli aspetti positivi: un racconto fluido, figure ben delineate, significati chiari, sentimenti concreti e una fotografia nitida, volta a mettere in evidenza i personaggi. Altri cortometraggi vengono realizzati fra “Tre stelle" e quello che «ufficialmente» Jancsó considera il suo primo vero lungome­ traggio, Sciogliere e legare del 1963. Per Sciogliere e legare - afferma Jancsó - sono partito dalla citazione biblica «Pietro, tu sei pietra e su questa pietra edificherò la mia chiesa I...J tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cicli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cicli». Ho costruito il film su una ballata di Béla Bartók dal titolo Cantata profana. Bartók si era ispirato, a sua volta, a una ballata folkloristics rumena. (...] La vicenda del film si svolge ai nostri giorni. Il personaggio principale è un medico in conflit­ to col mondo. Se ne rende conto e vuole cambiare. Va a trovare suo padre, un anziano contadino ungherese molto rozzo - del genere di quel­ li che si troveranno poi ne I disperati di Sdndor - il quale rifiuta di aiu­ tarlo. Il medico si ritrova allora completamente solo di fronte alla vita. Ho cercato di prendere in considerazione i problemi di due generazioni, e il film ha avuto successo perché il personaggio principale c un intel­ lettuale di origine contadina, il che accade spesso in Ungheria.

Eccoci dunque al primo grande «classico» di Jancsó, per il quale il regista ricorre innanzitutto (quanto «in emergenza»? quanto 27

MIKLÓS JANCSÓ

inconsapevolmente?, è difficile dirio) alla sua primaria, certa, affe­ zionata esperienza teatrale. Sente di avere un’occasione importan­ te, finalmente libero da condizionamenti, finalmente padrone al cento per cento del suo set. È facile individuare le fonti del meto­ do e delle scelte: da un lato il vicino incontro col grande cinema di Antonioni c la scoperta delle possibilità stilistiche del cinema; dall’altro la raggiunta consapevolezza che quella sua cosiddetta «lunga sequenza» poteva coesistere perfettamente con un uso «manovrato» della macchina da presa e quindi con una lunga e attenta preparazione di tipo teatrale, volta a concertare movimen­ ti reciproci fra attori e direttore della fotografia. [...I II risultato plastico dipende dalla scelta degli attori c dai movi menti della macchina da presa. (...) Al mattino so esattamente che cosa voglio girare durante la giornata, c con qualsiasi tempo non interrompo mai le riprese. In generale non guardo il copione. Lo Studio vuole una sceneggiatura, ma io non me ne servo. Costruisco delle inquadrature molto lunghe e non faccio che due o tre ciak. Per 1 disperati di Sandor sono arrivato, una volta, fino a otto ciak, ma è stata un’eccezione. D’al­ tronde finisco con lo scegliere sempre il primo, quando l’attore non si rende ancora conto di recitare. Durante quelli successivi, invece, cerca sempre di «costruire» il suo personaggio e a me questo non piace. Il mio scopo è ottenere una specie di «rilassamento». [,..] Nel film che ho cita­ to gli interpreti dei ruoli principali sono grandi attori, e so che non sono stati particolarmente felici di lavorare con me. Non amano il mio stile e pensano che io non li lasci recitare. Poiché certe inquadrature durano da tre a cinque minuti e io do loro le direttive durante la ripresa, non sanno che cosa stanno per fare prima di iniziare a girare e pensano per questo di non potersi immedesimare pienamente. In Ungheria molli attori di cinema lavorano anche in teatro, e se in teatro possono ripassare la parte fin che vogliono, con i miei film succede piuttosto il contrario.

Sempre a proposito de / disperati di Sdndor, Jancsó ebbe occa­ sione di sostenere la scelta di mantenere le vicende del film nel loro contesto storico: Ci è stato spesso fatto osservare che era possibile trasporre gli avve­ nimenti ai tempi moderni, ma questo non è vero. Lo spettatore pensi ciò che vuole, non è affar mio. Gli elementi di base sono costituiti dalle cro­ nache del tempo, dai verbali dei processi, da immagini; ho perfino uti­ lizzato delle loto dell’epoca per la scena in cui gli uomini si gettano giù dalla torre. Esistono anche delle fotografie di Sàndor; era diventato una

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II. CUOCO 1H.LLA STORIA

specie di eroe popolare. Avevo anche pensato di realizzare un cortome­ traggio a partire da questi documenti fotografici, ma non ne avevo abba­ stanza. Vorrei dunque mantenere 1’ambicntazione del film nel suo conte­ sto. Si svolge nel 1869. Nel ’48 c’era stata la nostra guerra d’indipen­ denza: Lungheria era ancora in regime feudale, i contadini non avevano terre. Vigeva un sistema di corporazioni con regole e leggi molto dure. La guerra non aveva il solo scopo di liberare l’Ungheria dal giogo austria­ co ma anche di cambiare la struttura sociale. Kossuth dovette rifugiarsi all’estero, in Turchia» in Inghilterra» in America, in Italia. In Ungheria si sviluppò intorno alla sua figura un vero e proprio culto. Nello stesso tempo gli austriaci seppero muoversi con abilità: fecero riforme econo­ miche» costruirono linee ferroviarie rispondendo alle attese di certi stra­ ti della popolazione. Per ventanni austriaci e ungheresi vissero in pace, anche se naturalmente sull’Ungheria dominava il monarca austriaco. Gli ungheresi rimasti fedeli a Kossuth diventarono i «senza speranza». La «grande pianura» era in parte paludosa, il luogo ideale in cui poter pra­ ticare la guerriglia e nascondersi. Gli ungheresi e gli austriaci fecero allo­ ra prosciugare le paludi: gli uni per coltivare terre che erano molto fer­ tili; gli altri per stanare i «senza speranza», in un primo tempo con l’ap­ poggio dei contadini. Il conte Kàday, che era stato aiutante di campo di Kossuth durante la Rivoluzione, seppe muoversi con astuzia così che in poco tempo i «senza speranza» furono arrestati. Ràday riuscì, infine, a estorcere loro confessioni sottoponendoli a varie pressioni psicologiche. Bisogna tenere presente che nd mio film ci sono soltanto personaggi ungheresi e che non compare nessun austriaco: questo è molto impor­ rante.

Di un anno precedente a / disperati di Sàndor è 11 mio cammi­ na (1964, trad. lett. “Così arrivai”, per traslato “Come mi sono for­ mato”, ma più noto come II mio cammino), che oggi Jancsó per­ cepisce come ideologicamente condizionato, ma che sul piano espressivo è tutl’altro che da ignorare: Non so con precisione che cosa il personaggio protagonista de II mio rappresenti per me oggi, non ho mai rivisto il film. So che ho cercato di fare un film storico, di dimostrare che la Storia non è così sem­ plice come si può credere. Bisogna riflettere sulla Storia, comprenderla c non accettare tutto quello che dice; bisogna soprattutto coglierne le con­ traddizioni. Per molto tempo gli ungheresi hanno accettato schemi pre­ confezionati. senza un vero rapporto con la realtà storica. Il protagonista

cammino

de II mio cammino vuole mostrare alcuni aspetti della Storia. Lo studen­ te impara a non considerare più i sovietici come dei nemici. Si rende conto che la Storia cammina c «scopre» gli uomini. Le teorie astratte

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molto spesso non si applicano alla realtà. Il titolo ungherese del film vuol dire «sono diventato così, mi sono formato così». Ho realizzato il film prendendo spunto da ricordi della mia adolescenza e gioventù.

Terzo lungometraggio di un regista non più giovanissimo ma pur sempre agli esordi, Il mìo cammino ricevette addirittura due premi (miglior film e miglior regia) al Festival nazionale di Pécs. Da un lato la linea stilistica non è immediatamente coerente con le novità già balenate nel precedente Sciogliere e legare; dall'altro il film si avvale - in maniera massiccia - di apporti autobiografici abbastanza precisi, un percorso che Jancsó non seguirà più. È certo comunque che gli anni sessanta, soprattutto la seconda metà, sono per Jancsó di una ricchezza professionale e narrativa straordinaria, paragonabile ai grandi «cicli» - per rimanere in ambito a noi vici­ no - di De Sica, Fellini, Antonioni. Proprio quell’Antonioni che tanto aveva colpito Jancsó, e che spesso viene da lui citato con pia­ cere fra i suoi «maestri» indiretti, suoi «modelli», insieme a Dreyer, Wajda, Bergman, a volte Godard; quell'Antonioni in parte «respon­ sabile» della predilezione jancsiana per il «piano-sequenza», d'al­ tronde arricchito nel regista ungherese - l’abbiamo già visto - da una straordinaria e personalissima esperienza teatrale. Si parla spesso di «trilogia», ma in realtà da Sciogliere e legare in poi - escludendo, per le suddette ragioni, Il mio cammino - i film di grande e pieno rilievo, fino a Scirocco d'inverno (Sirokkó. 1969) compreso, sono in realtà sei: oltre i due già citati, / dispera­ ti di Sdndor del 1965, L'armata a cavallo (Csillagosok, katondk) del 1967, Silenzio e grido (Csend és kidltds) e Venti lucenti (Fényes szelek) del 1968. E il periodo della piena esplosione del «caso Jan­ csó», caso tanto artistico quanto politico di portata internazionale. Il regime governativo ungherese, infatti, si rese conto per primo che le metafore e le allusioni di Miklós Jancsó e del suo sceneg­ giatore Gyula Hemàdi andavano ben oltre la vicenda raccontata sullo schermo per rivolgersi alle (o contro) le istituzioni ufficiali. Pur tuttavia fingeva di non accorgersene e non voleva toccare l’ar­ gomento: in patria quei film erano poco visti dal pubblico e di non immediata comprensione; i critici molto spesso non ne svelavano i veri significati e d’altronde, la critica era seguita quasi esclusivamente dagli addetti ai lavori (che mollo spesso già sapevano...), non dal pubblico popolare. All'estero... tutti potevano pensare quel che volevano su quei film, non poteva che essere un bene per il 30

II. GIOCO DELLA STORIA

«cinema ungherese», segno della larghezza di vedute e - in fondo - della «libertà di espressione» interna al Paese. Andras Kovacs, uno dei registi ungheresi di maggiore attenzio­ ne dialettica ai problemi politico-culturali della propria cinemato­ grafia, ebbe occasione di osservare, in un dibattito al Festival del cinema ungherese di Pécs, come i primi passi dopo la Liberazio­ ne risentissero in maniera assai evidente e probabilmente inevita­ bile di formule schematiche: protagonista l’uomo lavoratore, l'esi­ genza di autenticità. Formule che corrispondevano a idee, benin­ teso, ma che rischiavano di rimanere sterili, come avvenne in molti casi. I primi film erano semplicistici, ingenui, perseguivano un rea­ lismo primitivo, che soltanto più tardi divenne consapevolezza cri­ tica. «Il cinema - disse Kovàcs - era usato più come strumento di agitazione e di propaganda, che di conoscenza. Attorno al 1953, allentati i lacci e lacciuoli della burocrazia, si avviò un rapporto più aperto con il mondo della letteratura, gli scrittori furono inco­ raggiati ad avvicinarsi al cinema. Ci si allontanò in buona parte dallo schematismo precedente, ma gli ambienti ufficiali - critica compresa - propugnavano l’ottimismo a tutti i costi, erano ferma­ mente contrari a qualsiasi prospettiva critica». Gli autori venivano addirittura accusali di mancanza di origi­ nalità, di seguire troppo pedissequamente i modelli stranieri - tra cui il Neorealismo italiano -, non erano spronati ad andare più a fondo, ma si voleva indurli ad allontanarsi dall’esplorazione della propria realtà. Mentre la diffusione della televisione portava via come ovvio e come stava avvenendo dappertutto - spettatori al cinema c molti ne approfittavano per attaccare il cinema unghere­ se, da destra c da sinistra: gli ambienti piccolo-borghesi accusan­ dolo di eccessiva politicizzazione, gli altri di scarso approfondi­ mento politico o di allontanarsi dall’ortodossia. Anche per questo, nel 1963 Sciogliere e legare di Miklós Jancsó segna un grande momento nel cinema ungherese. Affiorano i temi che saranno pre­ senti in gran parte della produzione successiva di Jancsó, ma soprattutto compaiono in primo piano la problematicità delle psi­ cologie, il confronto e il dilemma tra città e campagna, in una ricer­ ca di stile che diviene ben presto anche un modo di espressione e una via tecnica alla semplificazione del modo di produrre. A sua volta, Kovacs, di cui esce nel 1964 Gli intrattabili (Nehéz emberek, lett. “Uomini diffìcili”) si afferma come un altro perno istituzio­ nale del cinema ungherese: i suoi film sono opere rigorose, auste­ 31

MIKLÓS JANCSÓ

re, che propongono - in tutta tranquillità - problemi di coscienza politica, che non rifuggono da lunghi dialoghi, che non mettono mai in discussione il socialismo ma si sforzano di correggerne limi­ ti e difetti. Caratteristica costante dei migliori film e autori ungheresi è, per l'appunto, la partecipazione a un mondo culturale, sociale, politi­ co di cui non si pensa certo di mutare i caratteri fondamentali. Se messo a confronto con il cinema italiano del Neorealismo, si può notare come anche nel cinema ungherese di questi anni mettere in evidenza difetti e tratti negativi sia un modo per sollecitare una continua attenzione critica (e positiva) verso i problemi contem­ poranci; c in questo senso l'Ungheria è certamente il più avanza­ to tra i paesi socialisti. Dalla varietà delle opere e dalle differenti emozioni e considerazioni degli autori viene fuori una vasta gamma di risultati e di proposte: avendo preso atto di una situazione, ci si ragiona sopra e si cerca di andare avanti. iMentrc nei festival e nelle manifestazioni culturali il cinema ungherese è rinomato, e la qualità delle opere e degli autori è spes­ so riconosciuta da molli giudizi critici, sul piano della diffusione commerciale le cose non vanno altrettanto bene, salvo le ben note eccezioni. Il cinema ungherese ha creduto e continua a credere che la propria lingua sia motivo di difficile comunicazione all'esterno. In effetti l’Ungheria è un’isola linguistica abbastanza misteriosa, nel cuore dell’Europa, il cui idioma è parlato da un numero di per­ sone assai limitato (in patria circa undici milioni, oltre un quinto delle quali risiedono a Budapest) 11 problema va, in realtà, ben oltre la situazione linguistica. E risaputo che la caratteristica fon­ damentale della distribuzione cinematografica, in Italia, è di un'e­ strema rigidità, a vantaggio di radicate, vecchie e probabilmente oggi come oggi - insuperabili supremazie e consuetudini che pri­ vilegiano il cinema nordamericano (in parte anche il cinema fran­ cese, italiano, e quasi mai quello migliore). Si può dire che ciò avvenga in tutto il mondo: dall'Europa all’Asia all’America Latina. '* Nel 1979 la rivista «Livrv bungrois» {pubblicata. scilo in francese c inglese. dall'Unione degli editori e dei distributori librari di Budapest) ha reso noti i risultati di 1111 *1 gran de inchiesta intemazionale sul rapporto tra la letteratura c il rispettivo paese di origine, a seconda de) grado di diffusione della lingua. Un problema che tocca da vicino l’Ungheria, che ha coscienza di avene scrittori e poeti tra i più importanti del secolo, c nello stesso tempo di essere una lingua fra le più isolate d'Luropa c del mondo insieme a danese e slo­ veno. rumeno c svedese. olandese c bulgaro.

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IL GIOCO PELLA STORIA

Non sono dunque i suoi valori o i suoi temi a escludere il cinema ungherese da molti mercati internazionali quanto, piuttosto, la chiusura degli stessi mercati. Il pubblico ungherese non sfugge infatti a questa «dittatura», la stessa che, a suo tempo, in Italia, fece di film, capolavori del Neorealismo e dell’arte cinematografica in generale, degli insuc­ cessi commerciali: basti pensare a Paisà di Rossellini, a Sciuscià e a Umberto D. di De Sica. Non è certamente per inseguire il suc­ cesso al botteghino che il cinema ungherese ha prodotto i film di Jancsó, premiati in tutto il mondo, fondamentali per l’Ungheria e per il cinema. Alla base di queste imprese c’è piuttosto la consa­ pevolezza di realizzare opere utili non al prestigio personale del regista ma, in prospettiva, a quegli stessi spettatori che di primo acchito le rifiutavano. Prova ne sia un notevole ritorno di tali film in Ungheria negli ultimi anni, attraverso la programmazione tele­ visiva, che ha permesso loro di raggiungere il proprio pubblico nel tentativo di mantenere vivo quel clima che aveva caratterizzato un’intera epoca. E anche grazie ai film di Jancsó, con le sue riflessioni sulla sto­ ria recente e passata”, che nella seconda metà degli anni settanta «Li letteratura ungherese c soprattutto In jkksìj lirica ha i suoi Liszt, i suoi &artók, i suoi Kodaly, ma il mondo non conosce i loro nomi (...| il mondo ignora i nostri poeti c i nostri scrittori, mentre noi ungheresi viviamo, respiriamo, pensiamo, lottiamo, amiamo e moriamo con loro. Poiché non leggiamo solamente la letteratura ungherese, ma anche la tedesca, l'inglese. Li spagnola. Li francese, l’italiana e la russa, sappiamo e siamo convinti che la nostra non c inferiore in nulla alle altre letterature. I lettori di lingue a grande dif­ fusione - e gli scrittori c critici che si esprimono in queste lingue - non sanno nulla di tutto questo o. peggio ancora, quello che sanno c falso». (Ivan Boldizsar, Introduzione all'inchie­ sta internazionale Pctih Pay *, grandes letterature^, Budapest. Ed. Le Livre hongrois. 1979). •' È particolarmente calzante una riflessione di Lino Miccichc (dalla presentazione delY Otello di Giuseppe Verdi, Teatro Comunale di Firenze maggio 1980, regia di Miklós Jan csó): «Dietro le apparenze esterne di “astrazione" il cinema jancsiano è caratterizzato dalla costanza di un impegno, la cui intensità e spiegabile soltanto alla luce del profondo colle-gamento con la storia c la realtà nazionali che caratterizza l'intera storia culturale magiara. Da Sandor Pctófi ad Attila lózscf c (più addietro, uuando la “cultura” era di Fano la depo­ sitaria dell'identità nazionale) tramile la difesa dclLi lingua e dcU"ctnosM nazionale, pur compcnctrato dai richiami della cultura europea, in particolare italiana e francese. La sto­ ria culturale ungile rese è una storia di scrittori e poeti “civili "... che identificano senza resi­ dui battaglia culturale c battaglia politica. Nella letteratura magiara non vi sono che spo­ radiche arcadie (Istvan Gyòngyòssy, Làszló Amadc, Ferenc Paludi) e, almeno a partire dal secolo scorso, molti poeti sono morti combattendo; e non coi versi. E fra i tanti temi che dominano la cultura di Budaj>esi nella letteratura e nell'iconografia, il leitmotiv c forse quel­ lo della “terra’ (ovvero i campi, l'irrigazione. la coltivazione, i gesti della semina, le case contadine, gli animali, l'orizzonte sconfinato della grande pianura. Il ffta^ar ngartm). sim bolo per eccellenza della vita c del suo trascorrere, dei sentimenti recuperati ad un'autcnlicilà primigenia, della nostalgia, del rimorso».

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ha avuto inizio il filone dei film di documentazione di Istvàn Dàrday e altri, tra cui Imre Gyòngyòssy e Bama Kabay. Questi film» che si ispirano anche al cinéma-vérité francese oltre che al neorea­ lismo, hanno ricoperto un ruolo molto importante nel cinema e nella società ungheresi a loro contemporanci. Essi propongono allo spettatore - non di rado con spregiudicato anticonformismo - una sorta di continuo esame della realtà, della propria vita, delle rifles­ sioni quotidiane, persino dei propri pensieri più intimi. Il tradi­ zionale rapporto con la letteratura e con la narrazione drammati­ ca, sempre così vitale e importante nel cinema ungherese, viene decisamente superato in queste opere, senza essere comunque del tutto ignorato, ma trasfigurato in una nuova immediatezza narra­ tiva. Alcuni film di Dàrday o Kòrmyii lesti series (t.l. “Leggere lesio­ ni fisiche”, 1983) di Szomjas potrebbero tranquillamente essere riduzioni di testi teatrali o una sorta di rappresentazione di un testo teatrale o letterario: e il momento in cui la letteratura è vitale, diret­ tamente legata all’esistenza dell’uomo. Tutto il cinema di Jancsó, d’altronde, è rivolto alla ricerca di caratteri fondamentali di individualità c di libertà, come lui stesso ebbe occasione di dichiarare in un’intervista al caro amico c col­ lega scomparso Istvàn Zsugàn: Non vorrei essere pretenzioso, ma confesso che il problema che mi appassiona fin dalfinfanzia c di riuscire a capire come sono gli unghere­ si. Un piccolo popolo nel cuore deH’Europa, col suo passato strano e pieno di contraddizioni, prigioniero di stupide nostalgie e desideri irrea­ li che quando io ero ragazzo influenzavano ancora le masse. 11 nostro c stato, nel corso dei secoli, un popolo provinciale che ha vissuto per se stesso c che si è abbandonato a se stesso, lasciando alla loro sorte gli apo­ stoli di un avvenire migliore e lottando poche volte anima e corpo in nome di una causa per cui valesse la pena spendersi. Tuttavia, è con gran­ de entusiasmo ed eroismo che questo popolo ha preso parte al “macel­ * lo delle due guerre mondiali. La domanda alla quale ciascuno dei miei film tenta di trovare risposta è che cosa occorra perché il popolo di que­ sto paese divenga finalmente adulto, perché la pianura ungherese diven­ ga parte integrante dellTuropa. È, ad esempio, il soggetto di Sciogliere e legare, una sorta di esame di coscienza degli intellettuali socialisti appar­ tenenti a una generazione (la nostra) desiderosa di riscoprire su un piano più alto la soluzione dei nostri problemi fondamentali

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Miklós Jancsó" >. inter.

II. GIOCO DELLA STORIA

Va detto che Sciogliere e legare (nel cui personaggio di Ambrus Jàmbor è stato individuato un riflesso autobiografico jancsiano) è in un certo senso una sorpresa per tutto il cinema ungherese e inter­ nazionale. Questa novità si consoliderà con un’estrema coerenza di racconto, di contenuti, di forme in tutti i film successivi, a partire da // mio cammino del 1964. È con questo film, tra l’altro, che ha inizio la collaborazione di Jancsó con lo sceneggiatore di sempre, Gyula I lemàdi. Comincia una meditazione continua, inesorabile spesso tragica e amara, anche quando è manifestata attraverso l'i­ ronia e il divertimento - sui condizionamenti della storia, sui mec­ canismi attraverso cui essa agisce sulla volontà umana. I film suc­ cessivi evocano diversi momenti della storia (nazionale e non), c lutti interrogano il potere, mettono in scena la repressione e il ten­ tativo di isolare la dialettica di libertà lasciata all’individuo o a una collettività. Il cinema di Jancsó non è mai aH’intcmo della storia, ma prende atto della storia attraverso i suoi riflessi sul potere e sulla libertà del singolo e dei paesi. La macchina da presa può indugiare a lungo su uno stesso per­ sonaggio o un gruppo di personaggi avendo come unico limite la lunghezza massima di pellicola contenuta in un rullo (circa dicci minuti per il 35mm); può seguire vari personaggi; ancora può con­ servarne uno ne) proprio mirino e poi catturarne un altro o altri vicini o lontani, i quali possono diventare a loro volta nuovi pro­ tagonisti e nuove fonti di contatto con ulteriori personaggi. Ciò avviene quasi sempre nel caso di riprese in esterni, ma non di rado anche al chiuso, per mettere in evidenza una rete o comunque un susseguirsi di relazioni, rapporti, sentimenti e contatti di ogni gene­ re. È ben lontano il piano-sequenza dall'essere qui soltanto un espe­ diente tecnico per facilitare il lavoro di montaggio (si può arriva­ re a soli quindici/venti «tagli» o poco più). Il metodo di Jancsó manterrà un’estrema essenzialità c grande vigore nei film successi­ vi fino a Salmo rosso (Még kér a nép, 1971).

Scirocco d’inverno (Sirokkó, 1969; il titolo italiano è la tradu­ zione del primo titolo originale ungherese. Téli Sirokkó, appunto “Scirocco invernale”) è il secondo film, dopo Silenzio e grido dclvista, in «Filmviliig», n. 5, 1989 poi in I. Zsugan. Szufyektiv magyar filmtcirtcnet 19Ó4J994 (Strina pertonale/uiggeltiva del cinema ungherese 1964-1994), OsirisSzazadvég, Budapest. 1994. p. 616.

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Tanno precedente, che vede il bravissimo Janos Ken de alla dire­ zione della fotografia, succeduto a Tamas Somló. È una coprodu­ zione francese, i cui due protagonisti, Jacques Charrier e Marina Vlady, risultano, francamente, impacciati c a disagio specialmente se messi a confronto con la grande disinvoltura degli attori unghe­ resi abituati da tempo a lavorare con Jancsó: József Madaras, Istvan Bujtor, Gyorgy Bànffy, Andràs Kozàk. È una questione di capacità di adattamento al metodo di riprese di Jancsó, alla sua pretesa di «spontaneità» da parte dell’attore, al principio del piano-sequen­ za. Rivisto oggi. Scirocco d'inverno, ai pregi espressivi e stilistici uni­ sce una straordinaria lungimiranza a proposito degli sviluppi poli­ tici nei vicini Balcani. Come molti altri film di Jancsó, muove anch esso da circostanze storiche precise e ben documentate per poi reinterpretarle e rimescolarle liberamente e mettere in campo una volta di più le responsabilità di figure para-storiche che si tro­ vano nell'alveo dell'impianto ufficiale. Alla base del film e il dub­ bio che il protagonista si pone, se gli uomini che gli sono vicini che un ceno Potere gli ha messo accanto - siano guardie del corpo a sua difesa o minacciosi sicari pronti a tradire e uccidere. È un punto-chiave che ritorna sovente nelle opere di Jancsó. Il contesto del film è la disgregazione delTimpero austro-unga­ rico c il conseguente sorgere di nuovi stati nazionali e plurinazio­ nali, fra cui la Jugoslavia che raccoglie serbi, croati, sloveni, mon­ tenegrini ecc. Le aspirazioni verso le rispettive indipendenze e auto­ nomie furono subito forti e si tradussero nella nascita di organiz­ zazioni interne politiche e para-militari strutturate secondo un asso­ luto centralismo c improntale all autoritarismo, come gli ustascio croati, simpatizzanti del fascismo italiano. Il film parte dalTattentato di Marsiglia del 9 ottobre 1934, in cui furono assassinati il re Alessandro t di Jugoslavia e il ministro degli Esteri francese Louis Barthou... poi gioca con gli avvenimenti seguendo ispirazione e fan­ tasia. Scopo di Jancsó non è, ovviamente, svolgere un discorso sto­ rico, bensì ragionare e - soprattutto - far ragionare sulle ambiguità della storia e degli uomini che ne sono contemporaneamente pro­ tagonisti e vittime, e a cui il regista molto raramente guarda con simpatia. Risulta sintomatico, a questo riguardo, il finale: Marko Lazar, ex protagonista del movimento, in seguito all’accordo fra i governi jugoslavo e ungherese, è diventato una figura scomoda, se non addirittura pericolosa. A Marko gli ustascia propongono il sui­ cidio ma lui rifiuta e viene ucciso dai compagni, Paradossalmente, 36

IL CIUCO DE1U STORIA

più tardi» ai nuovi adepti scelti per compiere attentati si farà pre­ stare giuramento in nome e alla memoria delT«erqe» Marko Lazar. Il film che chiude questa fase è Agnus Dei (Égi hàràny, 1970, letteralmente “Agnello celeste"), ambientato dopo l’agosto 1919, negli ultimi giorni della Repubblica dei Consigli. LI potere è nelle mani di una sanguinosa controrivoluzione, mentre le forze della Repubblica non hanno il coraggio di esercitare fino in fondo il pro­ prio, ostacolate dagli altri stati dell'Europa centrale che temono la diffusione delle idee della Rivoluzione d’Ottobrc. Il film si apre con la liberazione di un prete fanatico che urla anatemi contro lo Stato, liberazione dettata dalla paura di suscitare col suo arresto, seppur legittimo, le proteste dei contadini cattolici. Sarà proprio il prete, in seguito, a organizzare e capeggiare una repressione impietosa, traendo dalla Bibbia le espressioni per fomentare l’odio. Sul fron­ te opposto, la controrivoluzione si rende conto che, per rafforzare la propria vittoria, necessita di ben altri sistemi: si sbarazza del «pro­ feta» e introduce metodi di repressione «cinici e mondani», ceri­ moniosamente brutali, uccidendo fra musiche e orge scatenate. Jancsó anche in questo caso non punta certamente sulla trama, quanto piuttosto sulTambientazionc storica dell’idea centrale del­ l’opera. /Igwwr Dei, infatti, non ha personaggi principali né presen­ ta avvenimenti in successione, ma si compone di vari episodi dispo­ sti intorno a un nucleo centrale a formare una sorta di affresco. Ai giorni nostri - dichiarò Jancsó al momento dell’uscita del film l’irrazionale si diffonde nel mondo intero in maniera inquietante attra­ verso la religione, i nazionalismi, l’anarchia di destra. La democrazia, con le grandi maggioranze, non ha affatto risolto la questione della parteci­ pazione dei cittadini alle decisioni politiche; di conseguenza essi hanno ancora bisogno di Dio e di tutte quelle forme in cui l’irrazionale si mani­ festa. Nel film ci siamo rivolti verso un’epoca ormai lontana pensando che un fenomeno possa essere analizzato meglio partendo dall’origine, in quel preciso momento storico, infatti, il movimento operaio non dispo­ neva di basi nazionali efficaci, e a partire da questo, è possibile com­ prendere in profondità le tendenze fasciste che si andavano manifestan­ do nell’Europa centrale: un fascismo di carattere semi-feudale, con idea­ li ispirati da una piccola nobiltà declassata, che si va formando, con lievi differenze, in tutta Europa allo scopo di reprimere i movimenti rivolu­ zionari. Da questo punto di vista il film si basa su avvenimenti autentici, cioè su modelli particolari di avvenimenti storici.

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Il 1970 vede l’arrivo di Jancsó in Italia per realizzare il film La pacifista. «Il nostro ultimo film - dichiarò Jancsó a Carlo Di Carlo a proposito de La pacifista'' - è una specie di suite sulla natura del fascismo, del nazismo, della violenza di destra, sui miti della destra, ma non direttamente. Scirocco d'inverno, Agnus Dei e La pacifista costituiscono ciascuno un piccolo squarcio sulla natura del fascismo e devono essere considerati nel loro insieme. In questo film - pro­ seguiva Jancsó - si può avvertire l’oppressione di destra, intesa come violenza eroica. Si vede gente che non ha mai paura di dire che si può assassinare, massacrare. Non c’è una storia. Inizialmente il sog­ getto di Giovanna"1 aveva una storia, ma poi tutti insieme ci siamo accorti che era meglio distruggerla. Non amo le storie c non potrei mai fare un film da un romanzo o da un racconto». Nella produzione de La pacifista c’è un contributo francese e tedesco-occidentale, ma il film è stato girato interamente in Italia, con protagonista Monica Vitti. La fama di Jancsó era già diffusa in campo intemazionale, la sua personalità artistica si era già imposta all’attenzione dei critici di tutto il mondo per le caratteristiche ori­ ginali dello stile c per la linearità dell'ideologia, la sua chiarezza e la sua coerenza. In Italia pochi dei suoi film più importanti e famo­ si erano usciti nelle sale ma, forse anche per questo, il nome di Jancsó incuteva un certo timore reverenziale. I festival intemazio­ nali, le riviste, i pareri dei critici avevano contribuito a promuove­ re il nome di un autore di cui erano comunque pochi, tra pubbli­ co c professionisti, a conoscere da vicino le caratteristiche: il suo rigore e insieme la sua fantasia, la sua inventiva e la sua fedeltà a se stesso e al proprio mondo culturale e ideale, il divertimento e la serietà, il gioco e la storia, il gioco della storia («senza gli amici atto­ ri, senza gli amici collaboratori non posso fare un film»). In questo contesto comincia l’avventura di Jancsó nel nostro paese, con una produzione che ha onestamente creduto, almeno all’inizio, che un'opera coi nomi di Jancsó-Vitti potesse risponde­ re contemporaneamente a necessità di qualità, di spettacolo e, per­ ché no, di aggiornamento mondano-culturale. La trama del film si può brevemente riassumere come segue'": L’intervista è contenuta nel volume lai Paaftshi. di janew, a cura di Curio Di Carlo, Bologna, Cappelli. 1971, pubblicalo netta collana di Renzo Renzi «Dal soggetto al film». '* Giovanna Gagliardo, autrice del soggetto c cvautricv della sceneggiatura insieme a Hemadi c Jancsó. ” La sinossi è traila da Burtafava, Miklós ftinció, cit., p. 95.

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IL GIOCO DEI. I .A MORIA

Milano, Una manifestazione di «gruppuscoli» d’estrema sinistra. Bar­ bara, una giornalista deila televisione, registra discorsi e canti rivoluzio­ nari. Un piccolo gruppo di giovani di estrema destra, ascoltate le regi­ strazioni. dà fuoco alla sua auto. Fra i giovani ce uno Straniero. Acco­ datasi, per forza d’inerzia, in un gruppo di dimostranti. Barbara è di nuovo vittima di un giovane di destra, uno Sconosciuto, che le dà un colpo di karaté sul collo e scappa. Sconvolta, piena di una nuova irra­ zionale paura. Barbara cerca invano conforto da un vecchio amico, Carlo, si fa accompagnare da un tassista in un bar all'aperto (dove si svolge un rito d’iniziazione del gruppo dello Straniero}. E a casa, sola, angosciata: cerca di trattenere un cameriere che le porta la cena, scorge ombre sospet­ te nel giardino intorno a casa. Giunge Piero, un amico. Barbara tenta di convincerlo dell’esistenza di un'organizzazione criminale clandestina. Ricompare lo Sconosciuto a turbarla. Nemmeno un Commissario di poli­ zia le dà credito. Ma Barbara, die vediamo fare un servizio su una sfila­ la di moda, è veramente seguita. Eppure al commissariato, di fronte al giovane Sconosciuto che l'ha percossa, nega di averlo mai incontrato. Il giovane la segue riconoscente, ma viene atterrato con un colpo di karaté da un misterioso individuo. Barbara lo soccorre, lo porta a casa sua. Qui il giovane le confessa di amarla. Lo Sconosciuto c inquieto; ha avuto l’or­ dine di «uccidere qualcuno», ma getta via la pistola. Sul luogo dell'ap­ puntamento criminale Barbara e lo Sconosciuto vedono la vittima desi­ gnata crollare sotto i colpi di un altro. A casa. Barbara si prepara a fug­ gire con lo Sconosciuto, ma sopraggiunge lo Straniero con la sua banda: cita Mussolini, ha una crisi epilettica, compie riti angosciosi, manda Bar­ bara al Commissariato di Polizia. Lo Sconosciuto è abbattuto dai suoi ex camerati. /Mia polizia hanno arrestato un falso colpevole per l'omicidio di poco prima: è un giovane di estrema sinistra. I suoi compagni insce­ nano manifestazioni di protesta. Nessuno crede a Barbara che, scorto lo Straniero nel cortile del commissariato, lo uccide a colpi di pistola. Nuove manifestazioni dei giovani di estrema sinistra.

Ha dichiarato Giovanna Gagliardo: Avevo scritto un soggetto la cui trama era molto esile e disponibile a qualunque risvolto. In sintesi era la storia di una donna che ha paura per­ che è seguita da un uomo e questa presenza è così condizionante che l’af­ fascina rino a non poterne fare a meno, fino a morirne [...]. Via via che le nostre discussioni diventavano più concrete [...] il discorso si approfon­ diva e prendeva una forma sempre più precisa. Intorno alla storia per­ sonale di Barbara, nasceva un contesto sociale c il suo personaggio diven­ tava la vittima di un equivoco ideologico. [...]. La soluzione arrivava per caso, veniva suggerita dalla semplice dinamica dei fatti. Ci sembrò che il colpo di pistola di Barbara allo Straniero fosse la conseguenza logica dello

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sfondo che Jancsó aveva dato alla storia. Barbara non era più spettatrice di quello che accadeva, ma i fatti intorno a lei condizionavano la sua vita al punto tale da costringerla a compromettersi [,..|. Certo dal soggetto al Film s era fatta molta strada, i fatti erano stali cambiali, le trame prece­ denti quasi distrutte.

Jancsó così spiega Involuzione del progetto: [...J I nazionalisti sono sempre stati di destra. Attualmente la nostra paura è che all'interno di tutti i movimenti di contestazione siano pre­ senti componenti di destra e che il mondo possa tornare a volgersi in quella direzione. Di conseguenza, la nostra analisi si è focalizzata su que­ st’aspetto. Il pericolo esiste [...]. Sappiamo bene che il fascismo è stato l’erede di movimenti contestatori precedenti. [...] Come possono coesi­ stere, in un movimento, delle idee di sinistra e delle idee di destra? È una questione di grande attualità, perché oggi i giovani stanno ricomin­ ciando a contestare il potere borghese, a lottare contro le violenze bor­ ghesi. E noi non sappiamo ancora come possa avvenire che si ’’scivoli”, d’un tratto, dall altra parte |..J. I produttori non sono intervenuti fino al momento del doppiaggio. Hanno sempre pensato che grazie a Monica Vitti il film sarebbe stato un grande successo. Quando hanno capito che si trattava di un film ideolo­ gico. di lotta - anche se diverso dai miei precedenti - hanno avuto paura. Monica, in particolare, non se la sentiva di portare a termine un film che andasse contro il gusto del suo pubblico, che ama le sue commedie, i film che fa oggi. [...] Devo dire di essere stato, nell’insieme, debole, ma *è una precisa ragione. Sono sempre violento quando giro i mici film, c ma in quesi’occasione sarebbe stato ingiusto perché era stata proprio Monica a darmi la possibilità di realizzare Ltf pacifista. All'inizio mi sono impegnato a fare un film su di lei c per lei e allora, a un certo punto, c stato necessario scendere a compromessi. Credo però che non ripeterò un’esperienza del genere. Questo mio ultimo film - ha aggiunto Jancsó - non è un grande film, ma certamente prosegue il mio discorso. 1 compromessi sono legati solo al gusto [...]. Bisogna vedere c rivedere ciascun film, non da solo ma insieme agli altri; leggere e rileggere l'opera completa di un autore (...]. Nel mio cinema non cc un film che sia giudicabile in sé. Ce ne sono sci o sette che vanno visti insieme per poter capire qualcosa di me e delle mie idee.

Probabilmente ha influito anche fambicntazionc nell’Italia con­ temporanea, inconsueta nel panorama cinematografico di Jancsó in cui lino ad allora avevano predominato la scenografia delfaperta campagna ungherese e una localizzazione nel passato, anni c decen­ ni indietro - nel determinare le perplessità con cui La pacifista fu 40

IL GIOCO DELI-A STORIA

accolto. Come se non fossero i contenuti a dar corpo alla sceno­ grafìa, come se non ci fosse un legame diretto fra idee e ambien­ te... In questo film, clima politico-ideologico, idee e ambiente sono tutfuno. Sarà, precorrendo i tempi, il primo film a occuparsi del tema ambiguo e contraddittorio del terrorismo in Italia, con un grande merito: aver compreso, se non altro, la coesistenza di mol­ teplici paure c di forze interessate ad alimentarle attraverso la con­ fusione e il gioco delle parti. La pacifista ha subito, non senza para­ dossi, una sorte uguale e contraria a quella di altri film di Jancsó: è rimasto sconosciuto in molti altri paesi e ha dovuto sopportare un giudizio basato esclusivamente sui contenuti, condizionato dalla superficialità di molti osservatori e da un po’ di divismo da parte di un’attrice seppur spontanea e sensibile come la Vitti; un giudi­ zio viziato da troppi confronti. Nel complesso, anche se risente di alcune difficoltà pratiche, Im pacifista è assai meno precario c limi­ tato di come è stato valutato. È un film importante che forse non poteva essere capilo proprio perché in anticipo sui tempi. Subito dopo La pacifista, Jancsó realizza per la rai due telefilm - non diversi in realtà da due normali film -, girali in esterni con mezzi totalmente cinematografici, senza nessun condizionamento tecnico o espressivo. Si tratta di tecnica e il rito (girato in Sar­ degna) del 1971 e di Roma rivuole Cesare del 1975. In entrambi, anche rispetto alle opere più famose, non si fanno concessioni a una prospettiva spettacolare in vista di un contatto col pubblico. La tecnica e il rito c ambientato nel periodo della decadenza deirimpero romano, in un punto imprecisato del confine orientale [...] probabilmente in una zona danubiana. Protagonista, in scena dall'inizio alla fine, c Attila, il re degli Unni, 1...]. Attila è giovane, non ha ancora consolidato il proprio dominio. Adolescente ha studiato a Ravenna, e nella capitale dell’impero Romano d’Occidente, ha assorbito un educazione latina che gli permeile di analizzare con spregiudicatezza e sottigliezza i problemi politici c cultu­ rali che deve affrontare. Manifesta subito una netta superiorità nei con­ fronti dei suoi sudditi e intraprende una serie di riti c cerimonie selvag­ giamente irrazionali per costringerli a una sottomissione incondizionata. Non trova ostacoli né nella saggezza dei filosofi della sua tribù, né nell’u­ nica persona che potrebbe contrastare il suo progetto di dominio, il fra­ tello Bleda, sposato a una principessa italica. Con l'assassinio del fratello,

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Attila dimostra la propria assoluta, spregiudicata volontà d'imperio c con­ quista con una violenza capillare e incombente il potere assoluto sugli Unni.

L'azione di Roma rivuole Cesare si svolge in Numidia, una delle province sottomesse a Cesare. Nella colonia romana, oltre alla ribellione sorda e violenta del popolo, si manifesta anche un forte dissen­ so tra le file degli occupanti, in particolare tra i giovani patrizi che voglio­ no la fine dello strapotere esercitato in nome di Cesare [...] dal suo rap­ presentante, il pro pretore. Un giovane romano, Claudio, leader e ideolo­ go della protesta, è riuscito ad allearsi con i guerriglieri locali, fra i quali spicca, per lucidità c ardore, il giovane Giuba. Durante un’azione, facili­ tata da una spia numida, viene catturato e giustiziato lo stesso propreto­ re. 1 giovani festeggiano la fine del tiranno, ma la loro gioia e breve: all’im­ provviso viene rivelato che il propretore è vivo, che la vittima è in realtà il suo fratello gemello. Claudio allora si traveste con i panni della spia numida che li ha giocati e penetra nel campo avverso, dove sono conflui­ ti pure i suoi amici, fatti prigionieri. C’è anche il barbaro Oxyntas, figlio di Giugurta, ex re di Numidia, «figlio del sole e della luna», dotato di poteri sovrannaturali. Quando Claudio, cogliendo l’occasione propizia, si scaglia contro il propretore, Oxyntas lo dissuade dalTucciderlo, rivelando l’inutilità dei gesto: Cesare è morto, ucciso a Roma da una congiura. Il potere, nella colonia, passa così dalle mani del propretore a quelle di Clau­ dio, eletto capo dai repubblicani. Ma nel momento di decidere la puni­ zione da infliggere al propretore per le sue nefandezze, si rivela una forte spaccatura del fronte dei «ribelli»: da una parte la linea dura di Claudio, dall’altra quella moderata dei patrizi repubblicani e di un giovane patri­ zio, Ottavio, A questo punto giunge un senatore inviato da Roma con un messaggio: Cesare ha nominato Ottavio suo successore ed erede (il gio­ vane che d’ora in poi si chiamerà Caio Giulio Ottaviano è destinato a prendere sulle spalle il destino di Roma). Ottavio inizialmente rifiuta (pro­ vocando il suicidio «eroico» del senatore romano e del propretore, subi­ to risuscitati da Oxyntas, sollecitato da Giuba). La situazione estrema rive­ la, fra i giovani ribelli, insanabili contrasti ideologici e culturali. Si arriva anche a tessere trame e congiure politiche. Claudio, isolato nel suo estre­ mismo anarchico, ha un ultimo colloquio con Ottavio, che si è convinto della possibilità di intervenire positivamente e ha accettato di divenire il nuovo Cesare. Claudio però non si lascia convincere, sogna sempre un mondo senza Cesari e, profondamente deluso, si uccide. Ottavio parte per Roma, mentre accanto al cadavere di Claudio restano Oxyntas e i numi­ di: la loro convinzione è che chi è giusto non muore mai *. *•' Le sinossi di Lj tecnica e il rito e Row rivuole Cesare sono trane da ButtaiavA. Miklóy Jane™, cit., pp W c 104-105.

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Appare evidente come i due film siano simili e complementari: «il fatto di avere più sceneggiature - afferma Jancsó - per noi vuole dire avere storie differenti che esprimono sempre le stesse idee. Per noi fare un film vuol dire far sempre lo stesso film». Il mondo con­ centrico di Jancsó trova» dunque, ancora una volta una splendida conferma culturale, dialettica, stilistica in questi due film che toc­ cano le corde costanti del regista. La linearità e la coerenza di un «autore» cinematografico o sono interne all’autore o si riscontrano nella sua sicurezza tecnica; una terza via - ed è il caso di Jancsó fa coincidere la continuità del mondo interiore con quella della padronanza narrativa. Così Attila è il capo presente, Cesare è il capo assente, ma il loro potere è assoluto in entrambi i casi. Attila sta consolidando il proprio, Cesare lo ha perduto, ma subito un nuovo Cesare sorge, malgrado resistenze e ribellioni. La storia si fa beffe degli uomini, dei loro sacrifici: le sofferenze personali, le morti, i suicidi sono soltanto «giochi» individuali di fronte allo strapotere delle armi e dei dittatori. Dalla morte si risuscita; la violenza è peren­ ne. La storia è continuamente rappresentata e negata, arricchita di ulteriori significati e metafore (Aitila e Bleda come Romolo e Remo; la guerra civile come costante ungherese e romano-italiana; il rito e la tecnica come strumenti di soggezione magico-sacralc-fideistica e altro ancora). 1 due film appaiono perfettamente in linea - come direbbe Jancsó, «sono lo stesso film, il discorso che continua» con la coerenza del suo essere autore. La tecnica e il rito soffre forse dcH’eccessiva presenza di dialoghi; Roma rivuole Cesare riacquista essenzialità ma non ha - specie nella prima parte - la stessa sciol­ tezza del primo: si tratta, in sostanza, di osservazioni marginali e su di un discorso che si giova di una grande sintesi per sostenere, forte di un’inesauribile vena poetica e morale al più alto livello, la pro­ pria condanna del potere corrotto e il dovere di una strenua oppo­ sizione, pena la perdita di ogni libertà. Tra La tecnica e il rito e Roma rivuole Cesa re Jancsó gira Salmo rosso2', che si segnala per l’assoluta libertà stilistica e di emblemi, per essere un «gioco» - come Jancsó stesso ha più volte dichiara­ to -, che non vuole «predicare» nulla, polemizzare o discutere, ma Alin leticra «meg ker a nep * significa «il popolo chiede ancora *, ed c il primo verso di una poesia di Pctóli che prosegue dicendo: «dateglielo (quello che chiede], se no se lo *. prende...

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che entra subito nel vivo della rappresentazione con una felicità creativa e una padronanza da autore maturo. In Salmo rosso c’c il massimo di coerenza e di approfondimento e nello stesso tempo il massimo della «messa in scena» dichiarata, della rappresentazione offerta come tale allo spettatore. L'azione è situata alla fine delFOttocento, nella grande pianura ungherese. Un gruppo di operai agricoli esige per la prima volta il riconoscimento di alcuni diritti. Né una tavola riccamente imban­ dita dagli uomini dei padroni che invitano a mangiare e a ballare, né le minacce dei gendarmi li distolgono dalle loro richieste. Un rogo provocato dai padroni distrugge sacchi di cibo ma porta alla morte proprio un loro uomo. Arrivano i soldati e, quando un gio­ vane ufficiale si rifiuta di sparare, viene a sua volta ucciso. Ma il sangue della mano di una giovane donna si trasforma in fiore e col bacio di una ragazza un soldato risuscita. Gli operai cercano un dialogo coi soldati; altre persone cercano di confondere gli operai con discorsi superficiali, con cui li interpella anche il padrone in persona, il conte Majlàth. che però improvvisamente muore, sim­ bolo di una classe sociale ormai superata. Un prete vorrebbe scac­ ciare il diavolo con delle preghiere, ma gli operai lo cacciano a fru­ state e danno fuoco alla chiesa. La situazione si aggrava, alcuni cedono, ma i più restano, con grande determinazione. Il clima diventa alTimprowiso quello di una festa, l'albero della primavera è circondato da balli e canti, anche i soldati partecipano alla festa. Ma si odono ordini secchi, i soldati si dispongono a circondare la folla c sparano: la festa della fecondità si trasforma in distruzione e morte. Fuori dal cerchio si erge una donna, come l'angelo della vendetta, ha in mano una rivoltella fasciata di un nastro rosso, con la quale abbatte uno dopo Palerò i nemici. Nel sacrificio degli inno­ centi è la fonte della futura vittoria, e il film - che trac ispirazio­ ne da una situazione storica reale - trasfigura più che mai in Janc­ só tale convinzione. D'altronde Jancsó non ha mancato di sottoli­ neare che, nella realtà storica, quei movimenti sociali tra il 1890 e il 1910 sentivano, assieme a un forte anticlericalismo, quasi il biso­ gno di una «religiosità» nuova: «Questo “Padre Nostro” socialista - disse Jancsó - le cui parole, autentiche dell'epoca, si ascoltano nel film, è un esempio assai significativo di questa concezione spe­ cifica, messianica e biblica della rivoluzione». Come nella seconda parte di Agnus Dei, in Salmo rosso risalta­ no metafore c allusioni che sono un mezzo espressivo nuovo per 44

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Jancsó, rispetto al realismo - autentico, anche se tutt’altro che privo di simboli - di Silenzio e grido. L'armata a cavallo. I disperati di Sàndor e dello stesso Scirocco d'inverno. Un’altra considerazione riguarda la figura della donna: «prima io mostravo la nudità delle donne come un'immagine di umiliazione. Le donne non erano che degli oggetti tra le mani degli oppressori, come in Silenzio e grido. In Salmo rosso la nudità è la gioia di vivere. E la donna, rappre­ senta anche la tenerezza». E ancora: «è bello vedere uno scacco trasformarsi in vittoria. J Se ce qualcosa di eterno, qualcosa che dura, che non si potrà mai sradicare, questo è la speranza. Senza la speranza l’umanità si sarebbe già suicidata...». Non mancarono, ovviamente, su Salmo rosso le riserve dei cri­ tici: le più benevoli - ancora una volta - riguardavano la «diffi­ coltà» di comprensione e r«intcllettualismo»; le più severe accu­ savano Jancsó di fuga e di evasione dalla realtà politica c dalla sto­ ria, il che risulta tanto più aberrante se si considera che si tratta di uno dei suoi film più caldi e più concreti. L'alternanza Italia/Ungheria non si esaurisce qui: dopo Roma rivuole Cesare, Jancsó realizza in Ungheria Elettra, amore mio (Szerebnem. Elektra. 1974). A ben vedere, il finale di Salmo rosso è quasi un preludio a Elettra, amore mio, proprio nel legame fra il suo personaggio femminile e quello della protagonista Elettra. È la prima volta che Jancsó trae un film da un soggetto altrui, non tanto Eschilo o Sofocle, quanto piuttosto il dramma di Làszló Gyurkó. Gyurkó, come direttore del teatro Venticinquesimo di Budapest, aveva presentalo un testo di Hernàdi, e in seguito aveva proposto a Jancsó la regia teatrale deH'adattamento scenico esercitato da lui stesso realizzato, dei suoi film Venti lucenti e Salmo rosso. Succes­ sivamente con la sceneggiatura dello stesso Gyurkó e di Hernàdi, Jancsó ha realizzato Elettra. Con un personaggio chiaro, che odia la tirannia, vuole la libertà per sé e per la sua gente; la vicenda segue una linea retta, non ha le azioni parallele di Agnus Dei e di Salmo rosso, anche se non mancano balletto e pantomima. Ma ci sono tutti gli elementi comuni in Jancsó; ci sono le spade, le fru­ ste, i cavalli, le colombe, i corpi femminili. Oreste uccide Egisto, poi lui e Elettra si uccidono, poi resuscitano, mentre come un’im­ mensa libellula un elicottero dipinto di rosa scende sulla pianura c li porta via. Elettra racconta la storia della Fenice, l’uccello di fuoco che spira ogni sera per risorgere più bello al mattino. L’uc­ cello segno di libertà, che dà all’uomo la dignità. «Che tu sia bene­ 45

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detta, Libertà», dice Elettra, mentre il popolo esplode in una danza tumultuosa. Di fronte a Elettra, amore mio occorre più che mai prescinde­ re dai parallelismi immediati (si citano Ady, Petófì e Marx, le spade sono moderne, ce una rivoltella, gli achei cantano canzoni popo­ lari ungheresi, uno scudiero di Oreste è un heat con la chitarra), un insieme di riferimenti - anche soltanto di citazioni, non neces­ sariamente con valore di simbolo - fra i più ampi e liberi che sia dato vedere. Occorrerà a questo punto sgomberare il terreno dalla «necessità» di interpretare e «spiegare» in maniera aritmetica ogni cosa, ogni inquadratura. Nello stesso tempo, il venir meno di una ambientazione rigida e di riferimenti immediati dà al film un respi­ ro più ampio, non disgiunto da quel «divertimento», da quella sot­ tile, svagata e libera ironia che è una costante - ricordiamolo - del cinema di Jancsó, sempre presente tanto più quando non sembra... Fino a giungere aH’elicottero finale, che ha fatto saltar su dalle sedie critici c spettatori, ma che costituisce la più divertente e intel­ ligente variazione «attuale» sul tema del deus ex maehiua che si possa concepire. Un ultimo film che chiameremo «di transizione», prima del defi­ nitivo ritorno in Ungheria, è Vizi privati, pubbliehe virtù (Magdnbundk, kozerkòlcsòki, coproduzione italo-jugoslava del 1975. In molti hanno raccontato il grande amore impossibile fra Rodolfo d’Asburgo e Maria Vetsera, terminato, secondo la versione più dif­ fusa e ufficiale, con un doppio suicidio. Tuttavia libri c racconti si sono esercitati a formulare ipotesi diverse c contraddittorie sulla dinamica della vicenda e le motivazioni sottostanti. Al contrario, il film di Jancsó, pur restando i protagonisti il Delfino di una Corte Imperiale e una certa Mary, non narra una storia d’amore, né tanto meno mette in scena suicidi illustri. Si respira il gusto di un’epo­ ca: i valzer ariosi, le belle uniformi ecc., ma non è certo, questo, un film storico o di costume. Il tema centrale è il malessere di un figlio (il Delfino) nei confronti del padre (rimperatore). Avendo perso ogni possibilità di affermarsi contro il padre sul suo terre­ no, quello del potere, il Delfino sceglie di contestarne resistenza nell’unico modo possibile: mettendo in discussione se stesso, ridi­ colizzando il proprio ruolo ufficiale di figlio, di futuro padre e imperatore, inscenando giochi provocatori che alla fine costringe­ ranno il padre-potere a ucciderlo per soffocare lo scandalo: «hanno speso una vita - riferì Jancsó - ad animare il Castello di giuochi, 46

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a mettere in scena frammenti del loro desiderio, a rivelare sintomi di un inevitabile cambiamento. Questo malessere potrebbe uscire dalle mura c dilagare, contagiare». Su tutti loro calerà il sipario della verità ufficiale consacrata dalla storia. Il titolo, Vizi privati, pubbliche virtù è un’espressione di Dide­ rot: «Fabbiamo utilizzata - ha detto Jancsó - perché il significato è condivisibile, l’atmosfera è storica, ma i personaggi non sono sto­ rici, ci sono soltanto dei riferimenti, delle allusioni - per esempio alla tragedia di Mayerling -, delle simpatie verso la grande rivolu­ zione borghese, la Rivoluzione francese: si canta la Carmagnola, si utilizzano quegli slogan, si amano quelle bandiere e quei miti». Il film andò incontro, in Italia, a gravissime difficoltà di censura e subì addirittura una condanna di carattere penale22. «Che cosa ho voluto rappresentare con questo film?», dichiarò Jancsó mentre attendeva il verdetto dei giudici. Innanzitutto non ho voluto parafrasare Mayerling, pretendendo di rac­ contare la nostra verità sui fatti ignoti che portarono alla morte dell'ere­ de al trono asburgico. Facciamo un esempio pratico. Poniamo che in qua­ lunque Paese, in un'epoca fondata sulla monarchia ereditaria, ci sia un erede al irono che non solo non condivide le idee del padre, ma addi­ rittura mette in discussione il suo futuro ruolo di imperatore. Vale a dire, mette globalmente in ridicolo il suo destino. Nel canovaccio di una fiaba, noi inseriamo un protagonista che si ribella al suo stesso futuro fiabesco. Per dirla con uno slogan: anziché di una favola raccontata ai bambini qui si tratta di una favola che i bambini raccontano ai grandi. 1 figli dell'impero mettono in scena la loro fiaba controclassica: usano il romantico per smentirlo, il luogo comune per sbeffeggiarlo. H saluto ritua­ le all’imperatore finisce con uno sputo nella festa campestre, simbolo di ric­ chezza e di connotazione sociale, si contrappone al «costume d’epoca» la

Come ci ricorda un articolo del quotidiano «La Stampa»» (14 maggio 1977). a firma Claudio Ccrasuolo, il film era stato proiettato per la prima volta in Italia nd comune

  • e Sami, // cinema ungherese di fronte alla "cri si”. in «Ungheria oggi *, luglio • dicembre 1985.

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    n. IO,

    IL GIOCO DELLA STORIA

    Dopo tre anni - intervallo lungo nella filmografia di Jancsó il regista ritorna al racconto cinematografico - anche se con mezzi televisivi - nel 1984» con Faustus doktor boldogsàgps pokoljàràsa (“Il beato cammino verso l’inferno del dottor Faustus”), per la Magyar Televizió, ben nove episodi da 48 * a 60 * l’uno, per un tota­ le di circa sette ore e mezza * Faustus è tratto dal romanzo omo­ nimo di quel Laszló Gyurkó che già aveva dato a Jancsó il testo di Elettra, amore mio e che era allora politicamente vicino ai ver­ tici del potere ungherese H. Faustus. un ottimo racconto di spetta­ ccilo, può essere considerato a buon diritto il film di Jancsó più chiaro ed esplicito dal punto di vista politico-narrativo. L’antefatto vede il Faustus del film - Gyòrgy Szabados'4 junior, appartenente a una tipica famiglia piccolo-borghese - vendere l'a­ nima al Diavolo» forse senza saperlo, per fare carriera politica. Una carriera rapidissima, cominciata per caso (per intervento di Sata­ na?) nel 1944» in apparente contraddizione: pcr un equivoco Gyorgy viene bastonato dalla polizia fascista e ciò gli procura van­ taggi dopo la Liberazione. Durante il periodo ràkosiano (19491953) subisce un processo e viene imprigionalo. Infine supera indenne il ‘56 fino a consolidare definitivamente la propria perso­ nalità nel lavoro, nella politica e nella vita sentimentale... non desi­ derando più nulla e quasi lasciandosi spegnere. A quarantatre anni» in preda alla depressione, si ritira in una piccola città dove diven­ ta presidente del consiglio municipale e ha la possibilità di con­ statare da vicino le contraddizioni economiche e sociali dell’Ungheria dei primi anni settanta. Nulla può restituirgli il vecchio entu­ siasmo rivoluzionario e la spinta verso un impegno concreto. Muore in un incidente sul Balaton nell’estate 1973. Con le dovute differenze - prima tra tutte il taglio dichiaratamente grottesco del racconto, anche se la «morale» non diverge di molto - il filo conduttore del film ricorda da vicino Carte di arranIn precedenza Jancsó aveva realizzalo, sempre per la mtv, un film - cinematografi­ co di 72\ Omega Omega ( 1984), su 11 omonimo gruppo musicale, uno dei primi c più popolari complessi della musica beat ungherese. Si trattava di una sona di documentario girato durante un concerto al Palazzo dello Sport di Budapest, in cui Hernàdi intervista i musicisti tra un brano e l'altro. ° Gyurkó fu aurore proprio in quel periodo del primo libro (forse rimasto, se non hi nicn. uno dei pochi! su Jànos Kàdiir, dal titolo Abbozzo di un ritratto w sfondo Monco \/\rebèf>vdzlat lòrténcbm hdtiérrrh. Szabudoi vuol dire libertino, licenzioso; ma izabad vuol dire libero, ed è nella radice di szabadidg die significa libertà.

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    MIKIjÓS

    jancsó

    giarsi di Luigi Zampa, film del 1955 con Alberto Sordi, l’unico film per il quale Vitaliano Brancati abbia scritto appositamente sogget­ to e sceneggiatura originali. La critica ungherese, per lo più note­ volmente imbarazzata (siamo negli anni ottanta), ha evitato una disanima approfondita del «contenuto» dell’opera limitandosi a ribattere sul ben noto tasto della «diffìcile» comprensibilità del film (?), della non «popolarità» e di eccesso di «intellettualismo» da parte dell’autore. D’altronde il film prende in considerazione un periodo storico talmente «caldo» per gli ungheresi, da giustificare, almeno in parte, questa fuga dei critici dal confronto diretto con le tematiche del film. Nella sostanza, dal punto di vista narrativo, nelle nove puntate di Faustus (che ho potuto vedere per intero a Budapest) non ce mai nessun cedimento; al contrario, la stessa forza e la stessa iro­ nia sono una costante. Non si può comprendere appieno né tanto meno sperare di afferrare l’essenza del cinema di Jancsó, se non si tiene conto del senso dell’ironia e della osservazione critica insito nel suo cinema. I bellissimi tagli fotografici, le immagini, l’impasto del colore, l’inquadratura, l’uso ora del piano-sequenza ora del montaggio breve, l’interpretazione quasi sempre al limite dello straniamento totale, che sono tratti tipici di Jancsó. Probabilmente le migliori sono la prima e le tre-quattro puntate centrali del film, ariose, ricche di motivi stilistici e di prospettiva, ma è il film nel suo insieme a essere importante per Jancsó. Credo di non essere lontano dal vero ncll’affermare che molto probabilmente Jancsó qui ha trasposto, almeno in alcune linee, quell’ultima parte della trilogia — di cui Magyar rapszódia e Allegro barbaro sono rimasti i soli due capitoli — che avrebbe dovuto tracciare un quadro della vita politica ungherese contemporanea. Tramontato il progetto ori­ ginario, il romanzo di Gyurkó e le lunghe misure televisive hanno offerto a Jancsó un'occasione significativa per illustrare alcuni aspetti della politica attuale e per raccontare storie, nell’ambito della propria ricerca sui fatti c sulle psicologie, c di una grande coerenza culturale ed artistica. Lialba (Liaubc, 1985), coproduzione con la Francia, girato pre­ valentemente in Francia, è sceneggiato da Jancsó in collaborazio­ ne con Elie Wiesel, il Premio Nobel di origine transilvano-unghercse c interpretato da Serge Avedikian, Paul Blain, Christine Boisson, Philippe Léotard. Ambientato prima della costituzione dello 58

    IL GIOCO DELLA STORLA

    Stato di Israele, il film prende le mosse dalla cattura di un uffi­ ciale inglese da parte di un gruppo di ebrei della Resistenza. L’uf­ ficiale è destinato a essere giustiziato all'alba, per vendicare un par­ tigiano ebreo ucciso dagli inglesi. Viene lasciato in custodia a un giovane combattente ebreo che ha l’ordine di procedere all’esecu­ zione al momento fissato. Sarà per il soldato una lunga notte in preda ai tormenti e alle perplessità che lo condurranno a prende­ re una decisione. La struttura del film, come è evidente, è alquanto tradizionale, anche se rimane interessante il punto di vista sugli ebrei, raffigu­ rati al momento della nascita del loro Stato, nella condizione di «partigiani», come saranno poi i palestinesi. Jancsó - che fra l’al­ tro ha sempre sottolineato di non sentirsi particolarmente adatto né particolarmente vicino alle indagini psicologiche - si trova alle prese con una materia che non padroneggia appieno: «nei mici film, spero, non c’è posto per la psicologia; in ogni caso non credo abbia molta importanza, perché mi sento allievo dei maestri ame­ ricani che badano più al fatto che all’introspezione. I miei perso­ naggi si realizzano attraverso le immagini, non hanno una psicolo­ gia che li condizioni, fanno, sullo schermo, solo ciò che si vede». Lalba è sostanzialmente un film di transizione, che però non si sottrae al rigore stilistico e narrativo del suo autore. Esso è espres­ sione della rinnovata attenzione di Jancsó per il mondo ebraico che si manifesta in questi anni, come testimoniano alcuni suoi bellissi­ mi documentari. Dopo Inalba Jancsó vive una controversa esperienza teatrale a Kecskemét che va letta sia come uno dei suoi periodici ritorni al palcoscenico sia come un modo di mettersi in discussione ripen­ sando alle proprie scelte e di «ricaricarsi» prendendosi una pausa dal lavoro cinematografico. Quattro film, dal 1987 al ‘91, segnano alcuni notevoli cambia­ menti nel panorama cinematografico jancsiano: La stagione dei mostri (Szdrnyek évadja, 1987), Jézus Krisztus boroszkópja (t. 1. “L'o­ roscopo di Gesù Cristo”, 1989), Isten bàlrafelé megy (t. 1. “Dio cammina all’indietro”, 1990) Kck Duna keringó (t. 1. “Il valzer del Danubio blu”, 1991). Ci sono diversi elementi in comune fra que­ ste opere. Per quanto concerne l’aspetto tecnico (tecnico-espressi­ vo) Jancsó rinuncia al piano-sequenza e utilizza in maniera mas­ siccia Io schermo televisivo tenendolo in campo, davanti alla mac­ china da presa. Il monitor nell’inquadratura è. per così dire, «mul­ 59

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    ti uso». Si rivolge infatti sia ai personaggi in scena - informandoli, stimolandoli, mostrando loro o il «prima» o il «dopo» o eventual­ mente altre fasi delibazione di cui non siano protagonisti - sia allo spettatore, invitandolo a rivedere scene o momenti passati o richia­ mando la sua attenzione su personaggi c situazioni considerati importanti. Ce anche, e non è da trascurare, una componente di diverti­ mento, di gioco, di novità, di ricerca, di sperimentazione che Jancsó mette in campo non di rado, quasi a voler riservare a se stes­ so il ruolo di spettatore incuriosito dalle reazioni del pubblico e, ancor più, della critica (specie di quella ungherese). Anche i titoli dei vari film, slegati dal contesto o con riferimenti superficiali, fanno parte di questo «gioco». Sono del resto gli anni in cui la tec­ nica televisiva c quella dei computer si fanno strada prepotentemente, invadendo le case c le abitudini della gente, spesso con una presenza ossessiva... e, in effetti, una «stagione di mostri» in cui i piani sono volutamente confusi, uno sulfaltro, uno dentro l’altro. Quando ho parlato di un «rinnovamento» parziale di alcuni aspetti del mondo cinematografico di Jancsó, non ho inteso mini­ mamente riferirmi agli aspetti sostanziali che - sia chiaro - riman­ gono fondamentalmente tutti presenti: permane il profondo inte­ resse per la storia, per l’inserimento dell’uomo nella realtà storica del proprio mondo, realtà che, nel momento in cui si attua, e anco­ ra cronaca, ma che ha sempre un sicuro rapporto con entità che vanno oltre il quotidiano e il privato. Forse è in questi film, oltre che in tutti gli altri, che si realizza l’unificazione fra «storia» e «poli­ tica». Agli interrogativi consueti sui film di Jancsó («sono film sto­ rici o film politici? Sono più storici o più politici?») mi sento di rispondere che si tratta nel contempo di film storici e politici insie­ me, in cui la conoscenza e le riflessioni sulla storia sono già ricer­ ca e riflessione sulla politica. In essi Jancsó vuole anche affermare - e come dargli torto? - che la politica riguarda tutti, ogni gior­ no, anche chi si illude di potersene disinteressare e di ignorarla, perchè essa invade e condiziona la nostra vita. Non mi piacciono i film che «dicono tutto», che spiegano tutto a fondo - ebbe a dire Jancsó esprimendo una considerazione tuttora vali­ dissima. Se il regista spiega tutto, lo spettatore non ha spazio per alcuno sforzo intellettuale. Bisogna invece che lo spettatore rifletta. Molti critici ungheresi hanno chiesto che cosa significassero, nei mici lilm, certi per-

    60

    il gioco df.lla storia

    *

    sonaggi. In Ungheria si vogliono sempre delle risposte: è vero che nei miei film ci sono delle doinandCTTìà^afalTO non hanno risposta. Ne // w/b cammino c’è una sequenza in cui si vede continuamente un aereo. Mi è stalo chiesto che cosa volesse dire. Nel tempo in cui il film è ambien­ tato» gli aerei russi volavano a bassa quota per avere il controllo di tutto ciò che succedeva: niente sfuggiva loro c, anche nelle grandi pianure» si aveva l'impressione di essere sorvegliati. Nel film la questione dell'aereo è risolta con una trovata: l'aereo salva una ragazza e questo significa anche

    che la guerra è finita. Questioni del genere si trovano ne / anche altrove.

    disperati di

    Sdndor e

    Lo spazio «libero» per lo spettatore è, in Jancsó» sempre rispet­ tato» sacro e inviolabile. Jancsó non è mai uno di quegli autori che dopo aver realizzato un opera sostengono incontri e dibattiti, rila­ sciano interviste c organizzano conferenze per svelame i significa­ ti. È questa un'abitudine di dubbio gusto e dal significato equivo­ co diffusa tra i registi contemporanci, giovani e meno giovani, che, così facendo, non lasciano spazio alla libertà dello spettatore, mostrano sfiducia nella propria opera e in sostanza dichiarano che essa non è in grado di presentarsi autonomamente e di cammina­ re con le proprie gambe. stagione dei mostri e in questo senso esemplare sia sul piano della vicenda che dei suoi significati. Si apre con un'intervista tele­ visiva al professor Zollai» mentre un elicottero compie evoluzioni concentriche sul Danubio e le sponde del fiume sono tutte pave­ sate a festa. E il 20 agosto, festa della Costituzione e di Santo Ste­ fano e il tempo è radioso. Si ode il suono di un sassofono sopra tutta la città, mentre Zollai è sul balcone di un appartamento di lusso in riva al fiume. Un maggiolino rosso decappottabile attra­ versa sfrecciando la città, preceduto da un’automobile che fa stra­ da: il dottor Bardócz, medico importante, e atteso in un hotel, in un’elegante suite in cui si trova il cadavere del professor Zollai. Questi prima di suicidarsi - almeno così sembra - ha lasciato una lettera per il dottor Bardócz. Nel corridoio, l'ufficiale di polizia incaricato delle indagini, il colonnello Antal, grazie a un sistema televisivo a circuito chiuso, osserva le reazioni del medico davanti al corpo: i tre - Zollai, Bardócz, Antal - sono stati compagni di studi. Gli ex-allievi del professor Kovàcs si incontrano in riunione in una casa solitaria sulla riva di un lago: sulla strada verso la villa compaiono tre ragazze, Kali, Agi e Annabella e si aggiunge un can­ tante. Il professor Kovàcs, che festeggia quel giorno i sessantanni, 61

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    accoglie emozionato i suoi ex-allievi venuti da paesi diversi, c pre­ senta come sua figlia una ragazza con un vestito di cuoio la quale - come anche il Giovane in bianco - sarà soprattutto un’entusia­ sta spettatrice o forse la segreta manovratrice della situazione. L’ul­ timo ad arrivare è il professor Kamondi, e si scherza un po’ su di lui facendogli vedere alla televisione il suo stesso arrivo così come il reportage televisivo che ha riguardato Zoltai. Tra i partecipanti alla festa emergono le figure di Kamondi, che sostiene l’uguaglianza fra gli individui, e Bardócz, che invece giustifica l'esistenza delle élite. Pian piano, verso il crepuscolo, la festa si tramuta sempre più in uno scontro fra i due. Le ragazze un po’ si avvicinano e un po' si allontanano, così come la piccola troupe dei Saltimbanchi, giunti a ravvivare l’atmosfera della serata. Avvengono anche strani e inspiegabili fenomeni. Si sospetta Kamondi di avere ucciso i Sal­ timbanchi e di avere gettato nel lago la sua vettura con dentro i cadaveri. Ben presto i sospetti su di lui decadono: il colonnello Antal, chiamato di rinforzo, arriva proprio mentre una gru sta tirando fuori dall’acqua la carcassa di una vettura della seconda guerra mondiale. Alcuni cadaveri resuscitano, ma il Giovane in bianco mette in mano al dottor Bardócz e a Kamondi un pugna­ le per punire i «cattivi». Nella nebbia si ode di nuovo il lamento del sassofono, i vari personaggi si salutano e si allontanano saltan­ do a bordo di un camion di trasporto per il bestiame. Sul vetro rotto di una finestra batte una pioggia violenta e inarrestabile. La vicenda e - apparentemente - terminata. Un altro bel film ungherese, del 1977, l’esordio nel lungome­ traggio a soggetto di Ferenc Andras, Veri az ordog a feleségét (It‘s Rain and Shine Together, “Il diavolo picchia sua moglie”), era anch’csso ambientato nella giornata del 20 agosto, ma tutto gioca­ to sui toni della commedia, per quanto fortemente satirica e corag­ giosa, aperta e solare. Al contrario, è evidente come l’intrigo sia tra i più (volutamente) complicati, con le contraddizioni e gli imprevisti portali all'estremo, a conferma di quanto precedente­ mente osservato. Su questa scia proseguiranno i film successivi. Il primo, Jézns Krisztus horoszkópja oltre ai consueti colpi di scena, tradimenti, spari, omicidi, suicidi, (veri o apparenti), resur­ rezioni mostra un uso esasperato del «doppio» televisivo, ad ampliare la lunghezza dell’inquadratura, a riproporre un determi­ nato momento di osservazione ad anticipare in primo piano ciò che sta per essere visto - ciò che sta per accadere - in campo 62

    11. GIOCO DF.IJ.A STORIA

    lungo, o viceversa. E il senso dell’ironia è, anche qui, del tutto inte­ riore, del tutto indiretto: ma guai a dimenticarsene. Molto simile è Iste» bàtrafelé megy, che una recensione nordamericana suffi­ cientemente autorevole, quella di «Variety», del 22 luglio 1991, a firma Del, liquida sbrigativamente e non senza altezzosità, pur rite­ nendolo il primo film di Jancsó privo di metafore, come «the same goulash of hypnotic camerawork, political babble and seductive symbols». Il film comincia con la partenza dei russi dall’Ungheria. Vari uomini politici ungheresi spuntano qua e là e rivaleggiano fra loro. Nei televisori diffusi dappertutto nel palazzo si vede Miebai) Gorbaciov, a Mosca, alle prese con qualche guaio... subisce anche un attentato. Mentre i diversi gruppi ungheresi discutono gli uni con (e contro) gli altri, fuori campo si sente il ritorno dell’esercito russo che sottomette ogni cosa. Il coinvolgimento - anche fisico - di Jancsó e Hemàdi stavolta è evidente e completo c in un finale a sorpresa anche loro due sono colpiti da sconosciuti assassini fuori dallo schermo. Al contrario di quanto detto per Jézus Krisztus boroszkópja, «Variety» conclude: «one doesn't need a PhD in political history to decipher this one. It’s a cynical, playful and pensive look at Hun­ garian perfidy and tendenties». Come non di rado succede, il pare­ re di «Variety» rivela una superficialità di giudizio sconfortante: se e vero, infatti, che il film riguarda in primo luogo l’Ungheria, è altrettanto vero che la riflessione c richiesta a ogni spettatore, sul piano dei contenuti, mentre lo stile conduce a comprendere come la «confusione» degli avvenimenti e quella delle immagini siano complementari e risultino chiarissime una volta che lo spettatore abbia compreso la chiave del racconto. Il che non è per nulla dif­ ficile.

    La vicenda produttiva del film successivo, Kék Duna keringó, è ormai nota: un ricco mecenate americano conosce Jancsó alla Harvard University, dove il regista era stato invitato a tenere una serie di lezioni, e si informa, per pura curiosità, su quale fosse il budget di produzione di un suo film recente, non ricordo se Jézus Krisztus boroszkópja o Isten hàtrafelé megy. Sentita da Jancsó una somma e pensando che si trattasse dei soli costi della pubblicità, il ricco signore non può far altro che commissionare a Jancsó la realizzazione di un film che diventerà, appunto, Kék Duna kerin63

    MIKLÓS JANCSÓ

    gó, coproduzione francese. Non lontano dal film precedente, il film mette in scena l'assassinio del Primo ministro ungherese, durante un ricevimento in un lussuoso hotel sul Danubio. Le inda­ gini vengono affidate a un deputato amico della vittima. Natural­ mente sono numerose le sorprese e le deviazioni da questo filo conduttore. Si moltiplicano, inoltre, gli schermi televisivi dissemi­ nati nell’hotel, a mostrare il «durante», il «doppio», un flash-back o un flash-forward, a puntare l’attenzione su un particolare e così via. E «Variety»” tiene a precisare: «idiosyncratic Hungarian director Miklós Jancsó has turned out another dazzling political thriller, this time blurring fantasy with reality as he satirizes post­ communist Hungary. [...] The film isn’t always easy for non-Hungarians to decipher, and as the murders mount late in the film, the line between reality and fantasy becomes increasingly blurred. Jancsó seems to be having a good time making ironic jokes about the post-communist scene»’6. I film del periodo 1988-91 indicano il superamento di una bar­ riera storica e politica fondamentale'7. Nel 1989 viene meno la tota­ le statalizzazione del cinema (che, come già visto, non aveva impe­ dito per ragioni di prestigio internazionale, la produzione di opere di sia pur metaforica dissidenza col regime dominante). L’impresa privata fa dunque il suo ingresso nel cinema ungherese che però ’* 24 febbraio 1992» a firma David Stratton, u 11 senso di «paura» della politica cui si fa riferimento - diciamolo pure - la «paura del comuniSmo», anche in un periodo (1991-92) in cui non si può ceno dire che il comu nismo fosse proprio in auge in Europa e nel mondo, finisce ancora una volta per condi­ zionare, anche inconsciamente, il giudizio dei nordamericani (intellettuali c non), che vedo­ no «rosso» anche laddove alforizzonrc «sembra» esserci non più che un pallido rosa. ’’ La caduta del muro di Berlino (novembre-dicembre 19£9) segna il venir meno di una divisione non soltanto formale, eliminata la quale sono crollali tutti gli ostacoli sulla via della democrazia. Non senza traumi, beninteso, non senza indispensabili aggiustameli ti, ma senza sangue. Il passaggio dei paesi del l’Europa centrale e centro-orientale del cosid­ detto Parto di Varsavia dalla vicinanza (o sottomissione! all'Unione Sovietica verso un pro­ prio asserto democratico è avvenuto, infatti, facendo a meno di particolare violenza se si eccettuano gli avvenimenti della Romania e le tragiche giornate di Mosca, o i casi di alcu­ ne repubbliche ex-sovietiche. Il 16 giugno 19X9 si svolgono a Budapest i solenni, simbolici funerali di Stato di Imre Nagy, Tino al giorno prima vituperato «traditore», ora riconosciuto, insieme ai suoi com­ pagni, vittima della dittatura, martire della libertà. Quasi con un significato simbolico pochi giorni dopo muore Jànos Kiidàr che aveva guidato TI Ungheria succedendo a Nagy, ce rea n do poi con qualche accorgimento di allentare via via la morsa della dittatura c si aprono ì confini liberi fra Austria c Ungheria, avvenimento di sicuro c definir ivo valore storico. Poco dopo, nella primavera del 1990. si svolgono in Ungheria le prime elezioni democratiche.

    M

    IL GIOCO DKI.IA STORLA

    deve contemporaneamente fronteggiare durissime difficoltà di carattere economico, causa non ultima Tinvasione del mercato interno da parte dei film hollywoodiani. Anche Jancsó, come altri, accusa il colpo c avvia un periodo di ricerca. Una qualche incer­ tezza traspare infatti, dai quattro film degli anni 1988-91 che pos­ sono essere considerati a ragione un blocco unitario. Nel 1992 ho avuto la straordinaria occasione - connessa con il mio lavoro alla rai 1 * -, di «produrre» una serie di documentari fir­ mati da registi ungheresi, tra cui uno di Jancsó” E facile imma­ ginare quale soddisfazione la serie mi abbia procurato, come pro­ getto e come risultati finali40. Dopo aver seguito per tanti anni il cinema ungherese, dopo aver organizzato personalmente, già all’i­ nizio degli anni settanta - quando pochi sapevano che sul Danu­ bio c’erano registi -, un ciclo di proiezioni col doppiaggio appo­ sito per alcuni titoli, fra cui il grande I falchi (Magasiskola) di Istvàn Gaàl, controllato e approvato dal regista e con la programmazio­ ne «presentata» dagli autori di alcuni capolavori di quella cine­ matografia, giungeva finalmente qualcosa di mio. Scrisse al riguar­ do su «L’Unità» il critico Alberto Crespi: Ritorna il documentario? Sì, forse, chissà. In realtà la gloriosa tradi­ zione del cinema «non narrativo» non è mai scomparsa, e ora rinasce, ovviamente in tv, dove a volte, nelle pieghe del palinsesto, è possibile fare strani incontri. Chi alle 8.30 di ieri mattina era sveglio; davanti al televisore e sintonizzato su Raitre, avrà avuto la gradita sorpresa di ri­ conoscere il volto ironico e simpatico di Miklós Jancsó, maestro del cine­ ma ungherese c di vedere un suo film: un documentario di poco più di * 30 intitolato O mia dolce terra, prodotto dal Dipartimento Scuola Edu­ cazione in collaborazione con la tv di stato ungherese. Un piccolo film,

    Allepoca ricoprivo ^incarico di Capo Struttura del Dipan intento Scuola Educazio­ ne Idsf.) per i programmi televisivi e radioionici dedicati agli adulti. Sorvolerò sulla fatica necessaria a far varare il progetto in rai. sulle lotte con diret­ tori distratti, incolti e ignari, incerti sul ila farsi anche per via delle - supposte - scarse pro spcitivc commerciali del documentario (disponibili. però. a... inutili viaggi a Budapest). *' Immagini dall'Ungheria prevedeva sette titoli diretri da Marta Mcszàrns. Ferenc Andras. Pài Schiffer. Zsolt IS11.

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