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Italian Pages 205 [210] Year 1983
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©1983 Codino editore s.r.l. casella postale 6225 00100 Roma
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Antonio Parisi
IL CINEMA DI GIUSEPPE DE SANTIS TRA PASSIONE E IDEOLOGIA
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Fotocomposizione ed impaginazione : Co/i/Vonrographic, viale Vittorio Emanuele IH, 41 Fondi
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a mio padre
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INDICE SOMMARIO 11
Gli anni di formazione Ciociaria come un 'infanzia. Tra scapigliatura e impegno. Il retroterra realistico.
21
L'esperienza di «Cinema» Tra vecchio e nuovo Continente. Critica e progettualità. Il "formalismo dei rondiani". L'"altro" cinema.
36
Tappe di un apprendistato Tra Ossessione e Desiderio. G.A.P.. Giorni di gloria. Il sole sorge ancora.
47
Temi e stilemi
70
Lotta di classe e utopia rivoluzionaria: la prima trilogia della terra
La terra. Eros e socialità. Il cinema e altri "media". La cultura contadina.
// clima culturale. Le lotte contadine. Tra passione e ideologia. Caccia tragica (1947). Riso amaro (1949). Non c'è pace tra gli ulivi (1950).
105
Tra ricostruzione e restaurazione: gli anni cinquanta
116
La città: mercificazione e catastrofe
Clericalismo e guerra fredda. Profittatori, censori e invasione hollywoodiana. Crepuscolo del neorealismo. Alcuni sogni nel cassetto.
Roma ore 11 (1952). Un marito per Anna Zaccheo (1953). La garsonnière (1960). Un apprezzato professionista di sicuro avvenire (1972).
140
L'etica della "fatica": la seconda trilogia della terra
Giorni d'amore (1954). L'uso del colore: la "consulenza" di Purificato. Uomini e lupi (1956). La strada lunga un anno (1958).
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173 182
Un epilogo
Italiani brava gente (1964).
Le ragioni di un silenzio La svolta degli anni sessanta. Neorealismo e realismo socialista. Proletari vecchi e nuovi. Sud: mito e realtà.
200
Filmografia
205
Bibliografia essenziale
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Ringraziamenti Desidero ringraziare Lino Miccichè, Gaetano Carnevale, Alfredo Antonetti, Antonio Di Fazio, Venanzio Micarelli e Franco Sepe per gli amichevoli suggerimenti che mi hanno dato nella stesura del saggio. E, in particolar modo, il professar Vittorio Stella, ordinario di Estetica presso l'Università di Roma, con cui ho discusso ampiamente il testo, per i suoi preziosi ed autorevoli consigli. Sono molto grato, inoltre, a Peppe De Santis per l'estrema disponi bilità con cui ha assecondato le mie richieste di documentazione e per la ric chissima testimonianza che mi ha fornito, oltre che per avermi permesso di utilizzare senza riserve il suo archivio e la sua collezione fotografica, da cui sono tratte le foto che illustrano il libro. Un grazie anche al professar Do menico Purificato per le puntuali informazioni che mi ha dato sulla storia della rivista «Cinema» e sulla sua collaborazione artistica a "Giorni d'amo re". Ringrazio, inoltre, l'amico editore Lido Chiusa/io per la fiducia che mi ha concesso e per la paziente attenzione con cui ha seguito la mia fatica. Un doveroso ringraziamento, infine, all'Amministrazione Comuna le di Fondi e, in particolare, all'Assessore alla Cultura Arcangelo Rotunno, che hanno permesso la concreta realizzazione di questo lavoro.
A.P.
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Gli anni di formazione «Andando per certe Società cinematografiche capita che s'intoppi troppo sovente in cadaveri che si ostinano a credersi vivi. Sarà toccato ad altri, come a me, di incontrarne, e non li avrà identificati li per lì: perché, quando sono in circolazione, vanno vestiti come me e come voi. Ma quel processo di decomposizione, che è in loro nascostamente in atto, diffonde tuttavia un lezzo di guasto che non sfuggirà più a un naso che sia appena un po' sperimentato. [...] Che i giovani d'oggi, che son tanti e che vengon su nutrendosi, per ora, solo di sana speranza, tuttavia impazienti per tante co se che hanno da dire, si debbano trovare come bastoni tra le ruote, cedesti troppo numerosi cadaveri, ostili e diffidenti, è cosa ben triste. Il loro tempo è finito e loro son rimasti: e non si sa perché. [...] Verrà mai quel giorno so spirato, in cui alle giovani forze del nostro cinema sarà concesso di dire chiaro e tondo: / cadaveri al cimitero? Vedrete come tutti accorreremo, quel giorno, a sollecitare qualche imprudente ritardatario, e ad aiutarlo, con tutti i riguardi (che non s'abbia a far male) a introdurre anche l'altro piede nella fossa». Questa "esortazione", tanto macabra quanto profetica, è, come tutti gli addetti sanno, di Luchino Visconti. Essa appare il 10 giugno del 1941 sulle pagine della rivista «Cinema», e rappresenta una sorta di "manifesto" in cui si riconosce tutta una genera zione di giovani cineasti arrabbiati. Cadaveri, è questo il titolo dell'articolo, anche se porta soltanto la firma di Visconti, è la "dichiarazione di guerra" che la redazione della rivi sta, tutta insieme, concertò contro quello che era il "cinema di papa" di al lora, per la nascita di un cinema totalmente alternativo, antropomorfico, in cui il peso dell'essere umano, la sua presenza, potesse ridare verità alle cose, perché esso è "la sola cosa che veramente colmi il fotogramma". E nel "gruppo" di «Cinema» troviamo, oltre a Visconti, Michelan gelo Antonioni, Domenico Purificato, Gianni, Massimo e Dado Puccini, Mario Alicata, Carlo Lizzani, Pietro Ingrao, Francesco Pasinetti, Antonio Pietrangeli. Tra loro c'è anche Giuseppe De Santis.
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• f come un ,.infanzia
cresce la pietra come rosa, la bella età del giorno si riposa e in ogm zMa è un seme di furore Libero de Libero
De Santis arriva a Roma ancora adolescente. Viene da Fondi, "un lembo di pianura della Ciociaria", una "conca di sole e di boschi d'aranci", come lui stesso la definisce. Cosi ricorda il suo inurbamento: «Mio padre, di professione geometra ma all'occorrenza imprenditore edile, appaltato re di fiumiciattoli e laghetti per lo sfruttamento della pesca di anguille e di capitoni, amministratore di società per la trasformazione di terreni monta ni in terreni agricoli , ci aveva condotti in città sulla scia delle consuete emigrazioni di intellettuali meridionali verso i grandi centri di affari, in cer ca di migliore fortuna e di maggiore spazio professionale. Emigrando, ave vamo portato con noi tutto il peggio della nostra gente: diffidenza, pregiu dizi e caparbia. E avevamo lasciato il meglio, ritenendo che a Roma non dovesse servirci: la gentilezza, l'onore dei sentimenti, la fierezza e la lealtà dei ciociari. In paese, nei giorni inquieti della adolescenza, m'ero cresciuto al sole come una lucertola e nutrito dei fichidindia che crescevano a grap poli lungo i fossi. M'ero innamorato di figlie di contadini e di operai, e in sieme a esse avevo pascolato bufale nella palude, trasportato calce e matto ni per rattoppare case divorate dai secoli e dalla miseria e avevo imparato nelle forge a cambiare i ferri agli zoccoli dei cavalli. Avevo avuto per com pagni barbieri, macellai, fabbri, muratori e calzolai. Una sorta di innata diffidenza mi aveva tenuto sempre lontano dai figli di papa. Con questi m' incontravo soltanto dietro le mura del vecchio camposanto: per fare a caz zotti (1)». Il primo contatto con la cultura e uno dei primi incontri decisivi è ancora al suo paese che avvengono, dove egli torna ogni anno con la fami glia a trascorrere l'estate. Nasce cosi la lunga amicizia con il poeta conter raneo Libero de Libero. La poesia di de Libero era già apprezzata dalla cri tica italiana, dopo che Ungaretti gli aveva pubblicato nel '32 la sua prima raccolta di versi Solstizio, che aveva dato inizio a quella piccola epopea sur realista della Ciociaria, di quella "Italia arcaicissima" di cui parla Gian franco Contini mitica e preistorica, fermata in eterno stupore del senti mento e dei sensi. Racconta lo stesso de Libero: «Un'estate a Fondi, in mezzo al consueto gruppo di amici che mi attendevano, trovai lui, Peppino De Santis, ma quanto mutato, e laconico, fuor di moda, e alla buona, spel lacchiato, in crisi di "crescenza", come ebbi subito a capire, un giovane scontento di sé, inquieto e ansioso di sapere, di guardare, di ascoltare. Ap pariva già emozionato dalla poesia e dall'arte, i luoghi in cui eravamo nati trovavano già in lui una rispondenza amorosissima, ineffabile quando non era passionale [...]. In comitiva andavamo a Sperlonga, andavamo a Santa Anastasia, a Formia, le nostre passeggiate duravano fino a tarda ora, den 12 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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tro quel paesaggio che mi arresta sempre i battiti del cuore quando vi tra scorro, là dove i Lepini si incontrano con gli Aurunci, a picco sulla pianura odorosa di mare e di aranci. E quando finì la stagione dei bagni, dopo aver tribolato chissà quanti giorni, Peppe mi consegnò timidamente, arrossendo non poco, un certo numero di pagine dattiloscritte: era un suo lungo rac conto, forse aveva tentato altre prove, non so, quel racconto si intitolava Paese, era la celeste e accorata storia del nonno, di trama sottile e di scrittu ra delicata che mi stupì; qualche mese dopo P.M. Bardi glielo pubblicò nel suo «Meridiano di Roma» e ne pubblicò altri allo stesso modo singolari, di tono favoloso, quel tono che gli è rimasto nonostante le verità di cui scotta no le sue narrazioni cinematografiche. Gli amici ricordano ancora quella diecina di racconti che io volevo pubblicargli nelle «Edizioni della Cometa». Volevo dire che in quell'epoca io abitavo per molti mesi in campagna; ave vo con me tutti i miei libri, i classici e i moderni, i quadri e i disegni della mia piccola collezione, una terracotta di Mirko. E laggiù veniva Peppe a frugare tra quei libri, a sceglierseli avidamente; e furono letture a capofitto, furono discussioni a perdifiato, discorsi che lasciavano in lui segni indelebi li, decisioni che si precisavano ogni volta che mi riportava un libro e ne sce glieva un altro, e così per tre mesi. Fu allora che il suo amor di pittura prese corpo e curiosità sempre più attiva, un accento e un gesto che gli affinaro no maggiormente l'ottica quando si rafforzò la sua consuetudine con le arti plastiche, a Roma, durante gli anni della "Galleria della Cometa". Ma ciò che più mi legò a lui in quel tempo fu la passione che anche lui portava alla scoperta, alla conoscenza del territorio natale e della gente che ci somiglia: la Ciociaria e i ciociari. Ma era, è una passione non accecata dalla contem plazione o dalla magnificenza di quei luoghi, oppure da un elogio remissivo; essa invece si esercitava storicamente per ricercare le ragioni più segrete che avevano relegato la Ciociaria in seno alle regioni circonvicine nelle quali i passeggeri distratti la confondono, sicché per secoli essa è rimasta fuori della storia con quella bandiera 4i logoro fazzolettone che ogni tanto sven tola sulla rocca di Prosinone (2)». L'incontro con il poeta dei Cantari di Ciociaria rappresenta dunque, per De Santis, una vera e propria iniziazione. E la rivelazione, o la confer ma, di una "passione", anche se ancora incerta tra letteratura e arti figu rative. Attorno a de Libero si costituisce a Fondi, un piccolo ma vivace gruppo di intellettuali, ciascuno dei quali, a suo modo, trarrà dall'amico poeta più adulto insegnamenti di cultura e di vita. «Libero de Libero mi confessa infatti De Santis in una lunga con versazione dell'aprile 1978, cui altre volte farò riferimento nel corso di que sto mio lavoro , è stato un uomo molto importante nella mia vita. E credo non solo nella mja, ma in quella di molti intellettuali fondani (o anche di paesi vicini, come Ingrao, che è di Lenola). Intellettuali appunto come In 13 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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grao, Dante Di Sarra, Domenico Purificato, Guido Ruggiero, Leopoldo Savona. Io ero allora un ragazzo. Avrò avuto diciott'anni, e avendo questi stimoli di cultura, di conoscenza e di crescita, cercai del tutto di fare amici zia con questo mio compaesano, questo poeta di Fondi che era celebrato già dalla critica italiana, un uomo importante nella nostra cultura. De Li bero mi ha insegnato, e non solo a me, a leggere certi testi, ha fatto in modo che avessi una impostazione culturale seria, per chi come me a queir epoca ambiva a fare lo scrittore. In più Libero ha questa grande qualità: che pur essendo un poeta di impronta e di livello europeo, poi personal mente conserva questi caratteri del nostro paese, fondani, nel bene e nel male. Il discorrere, lo stare con lui, il vivere e il crescere con lui per me ha sempre significato in qualche modo crescere insieme con il mio paese, per ché era come se queste lezioni io l'avessi da Fondi stessa. Perché egli lo fa ceva con quella violenza, con quella aggressività, o con quella tenerezza e quella dolcezza, che sono i caratteri tipici della nostra gente, dei nostri compaesani». A Fondi dunque cresce, a contatto con "Peppe" De Santis e de Li bero (peraltro, devo aggiungere, scomparso il 3 luglio 1981: dunque, dopo il mio colloquio con De Santis), anche un altro giovane che comincia a d i pingere i suoi primi paesaggi lussureggianti di aranceti, o addolciti da l u minosità crepuscolari, i suoi contadini alla fatica e le sue "pastore" già assorte in antiche e accorate rimembranze: "Ménico" Purificato. E, in ognuno dei tre, appare già profondo il sentimento verso la propria terra d'origine, che fin d'allora, fissa nella loro memoria gli "stampi immagina tivi", i simboli e i miti dell'infanzia che accompagneranno in futuro, come motivo dominante, i loro rispettivi itinerari poetici. E a tal punto che in essi 'sarà possibile ritrovare, oltre a quella primitiva fonte di ispirazione, anche alcuni segni espressivi unificanti. Quale il rifiuto, soprattutto, di canoni na turalistici, a favore di uno stile spinto sempre al di là della pura e meccanice! riproduzione della realtà, e la ricerca di una dimensione affabulatrice in grado di riportare alla luce ascendenze e sedimentazioni di una c i v i l t à pre storica. La riproposizione, in definitiva, di un "cantare" lirico o epico che sia attraverso cui tessere la memoria collettiva della terra di Ciociaria («La sua storia non rammenta che pastori / guerrieri e idoli» de Libero). Ciociaria come luogo dell'anima, allora; che ricorda una natura pri mitiva e segnata da antichi conflitti, cose e accadimenti immersi in una luce favolosa e mitologica, personaggi dalle passioni elementari in lotta contro un'antichissima inerzia della Storia. E anche come "radici", come memo ria storica, appunto; nelle cui pieghe è necessario addentrarsi per poter rin venire, insieme ai modelli di comportamento, alle ritualità, ai valori della propria gente, anche il mistero della propria identità.
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Tra scapigliatura e impegno
Al Centro Sperimentale di Cinematografia dove si è iscritto senza eccessiva convinzione, poiché la sua vera aspirazione resta quella di fare lo scrittore, De Santis ha i primi incontri decisivi, in un clima in cui il fasci smo non è riuscito a soffocare la voglia di vivere e di conoscere di chi si tro va in quegli anni ad avere vent'anni. Racconta lo stesso De Santis: «Solo da poco avevamo smesso di fre quentare i bigliardi del Mocaino e le sale da ballo di Pichetti al Bufalo e Via Velletri. Adesso eravamo amici di Corrado Cagli e di Mirko, di Guttuso e di Mafai, e passavamo interi pomeriggi in una galleria d'arte diretta da Li bero de Libero che si chiamava La Cometa ed era situata ai piedi del Cam pidoglio, in un'ala del bellissimo palazzo della Contessa PecciBlunt. Di se ra sedevamo ai tavoli di Rosati in Via Veneto ad ascoltare i discorsi dei let terati e scrittori più maturi di noi: Pannunzio, De Benedetti, Talarico, De Feo, Brancati; ma non avevamo smesso di andare a puttane tra gli oscuri viali della vicina Porta Pinciana. Mangiavamo due supplì nelle rosticcerie del centro della città per prolungare la nostra permanenza fuori casa, e spesso, a notte alta, aspettavamo un segnale convenuto, davanti alle case delle nostre compagne di Università che scendevano ad aprirci i portoni di nascosto dei familiari, e lì, nei cortili puzzolenti di gatti, restavamo a stro finarci, abbracciati, sino all'alba. Impegnando al Monte di Pietà una parte delle lenzuola trafugate dal corredo a dodici di nostra madre ci comprava mo le scarpe da ValkHover in Via del Tritone, e nelle librerie antiquarie i primi libri di Antonio Labriola, le cravatte di flanella da Franceschini ed i quaderni della Voce raccolti da Prezzolini. Leggevamo in edizione origina le Proust ed Alain Fournier, i narratori americani tradotti da Pavese e gli ultimi scritti che Benedetto Croce veniva pubblicando da Laterza. In estate ci buttavamo nelle acque del Tevere, circondati da sanguigni pederasti te deschi o da squallidi invertiti dell'aristocrazia vaticana, e alla domenica an davamo alla Messa di mezzogiorno in Piazza Quadrata, per appoggiarci al le natiche delle ragazze di buona famiglia dei Parioli durante l'uscita (3)». A Roma De Santis si ritrova con i compaesani Ingrao (che frequenta con lui il Centro Sperimentale) e Purificato. Sono loro a stabilire i contatti con il gruppo che fa capo a Ruggero Zangrandi, amico personale di Vittorio Mussolini, il cinèfilo figlio del duce, e a Bruno Zevi. Mi dice De Santis: «Mentre gli Ingrao, i Zangrandi, ebbero una vera e propria esperienza di fascismo ed appartenevano a quella frangia che cre deva veramente che il fascismo potesse fare un'operazione di sinistra, per me questo non avvenne. Io non ho mai fatto parte del fascismo, non per 15 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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presa di posizione, ma per superficialità, perché la politica non mi interes sava in quel periodo, perché ero preso nelle nuvole o, come dice il mio ami co Tonino Guerra, ero "nelle bambole", cioè avevo i miei fantasmi lettera ri, inseguivo certi miei miti poetici per cui ero distaccato dalla politica. Ho cominciato ad interessarmi di politica proprio attraverso i rapporti con In grao, Alicata, Trombadori, i Puccini, in ritardo; in ritardo rispetto a loro. E devo dire che ho avuto il compito facilitato, nel senso cioè di trovarmi già di fronte dei giovani che avevano già superato l'esperienza del fascismo ed erano andati più avanti, erano già antifascisti quando io li ho incontrati e mi sono cresciuto alla loro scuola». La prima occasione di incontro con questi suoi coetanei De Santis l'ha avuta grazie ai Littoriali, a cui partecipa con alcuni racconti che narra no storie di gente del suo paese. Ai Littoriali prendono parte quasi t u t t i i giovani intellettuali dell'epoca che li accettano come uno dei momenti più propizi di intervento nella vita culturale che offre il fascismo. Alcuni di essi i più vi partecipano perché aderiscono, convinti. Altri perché li ritengo no una delle poche possibilità di esercitare sia pure nell'ambito del discor so specificamente artisticoletterario da loro svolto quel processo di criti ca tutto all'interno del regime, quella fronda del fascismo "di sinistra", dapprima intessuta quasi esclusivamente di inquietudini culturali, poi, a mano a mano, di insofferenze politiche che ben presto assumeranno forme di vera e propria opposizione. Soprattutto durante la guerra di Spagna; che, per la seconda generazione intellettuale del '900, ha rappresentato, come è stato detto, quello che il Viet Nam è stato per l'ultima generazione del do poguerra. È in questo periodo che lo studio di Guttuso e la casa di Bruno Zevi diventano i luoghi d'incontro del "gruppo romano" del quale sono i n t a n t o entrati a far parte altri giovani: Paolo Alatri, Carlo Salinari, Aldo Natoli, Lucio Lombardo Radice. La consapevolezza antifascista si fa sempre più chiara, specialmente dopo che essi hanno raggiunto la coscienza che certe interpretazioni "di sinistra" del fascismo sono ormai insoddisfacenti e per fino "ripugnanti". Si discute delle ragioni storielle dell'avvento del regime, della sua matrice di classe, e ci si avvicina alle tesi marxiste attraverso la let tura collettiva dei classici di quel pensiero e la discussione sugli avvenimenti politici del momento. È questo per De Santis il periodo della vera matura zione politica, e il primo avvicinamento al Partito Comunista di cui il grup po, ormai in via di assumere un carattere organizzativo e di azione cospira tiva, riconosce la guida politica. Nello stesso periodo comincia la collabo razione di De Santis con Purificato e i Puccini nella redazione di «Cinema». E soprattutto il suo sodalizio con Mario Alicata, il quale avrà un'importan za decisiva nell'itinerario ideologico e nella ricerca di ascendenze culturali del suo progetto cinematografico. Alicata è, nel 1940, uno degli ingegni più vivi e uno dei giovani più brillanti del gruppo. Viene subito notato da Nata
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lino Sapegno di cui diventa assistente alla cattedra di Letteratura italiana all'università di Roma e proprio in quegli anni comincia a collaborare a «Primato», la rivista diretta dall'allora ministro dell'Educazione Naziona le Giuseppe Bottai. «Primato» rappresenta uno dei tentativi più singolari, e ancor oggi più discussi, che il fascismo attua per assicurarsi la collaborazio ne dei migliori intellettuali dell'epoca; un'operazione di scaltra strategia del consenso che nella sua "ortodossia" lascia, spesso, spazi di inusitata spre giudicatezza culturale. Si possono leggere sulla rivista poesie di Pavese, Gadda, Ungaretti e Montale, e articoli di critica letteraria di Giaime Pintor, di Giovanni Macchia, Carlo Muscetta e Galvano Della Volpe. Si può intui re quale apporto di idee Alleata, avendo la possibilità di tali contatti, for nirà al gruppo di «Cinema». E quale influenza eserciterà nella formazione culturale e politica di De Santis.
Il retroterra realistico Prima di esaminare il percorso del binomio AlicataDe Santis e la li nea che dal 1941 al 1943 caratterizzerà «Cinema» sulla traccia della loro "battaglia per il realismo", è utile rintracciare gli antecedenti, almeno i più immediati, di quella linea per meglio chiarire certe ascendenze, continuità e diversificazioni che riscontreremo, in seguito, nella filmografia di De San tis. La linea "realista" (ma vedremo come nel cinema di De Santis l'acce zione di realismo sia per molti versi deviante dal tracciato tradizionale) ri prende vigore dal dibattito culturale, e specificamente letterario e concer nente le arti figurative, creato proprio da quella fronda giovanile del "fa scismo di sinistra" cui si è accennato, che, messi da parte i miti nazionalisti e sindacalrivoluzionari, pone attenzione soprattutto alle esigenze sociali. Esigenze che derivano da quel "popolarismo rurale" delle origini del movi mento fascista, che era penetrato nel "selvaggismo" ad esempio di Soffici, Malaparte e Maccari; che si era espresso nella tematica dell'"anticittà" e nell'elogio della campagna di Papini; nell'ideologia "strapaesana" che esaltava i "valori rurali" della provincia italiana con l'equazione: "tutto ciò che è moderno è antiitaliano". La dialettica modernitàindustrialismo / tradizioneruralismo, si chiede giustamente Asor Rosa, è «veramente peculiare del periodo e del re gime fascista, o non rappresenta una costante della vita intellettuale italia na postunitaria [...], il riflesso d'un modo d'essere dell'Italia moderna, an cora divisa tra città e campagna, tra passato e futuro? (4)» Si può agevolmente propendere per la seconda ipotesi. Ed aggiunge re anche che questa dialettica si protrae per tutto il periodo del secondo do 17 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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poguerra e degli anni cinquanta, fino alla soglia dell'industrializzazione e del "miracolo economico". Lo spartiacque che preciserà, o ribalterà il segno politico e culturale della tematica meridionalista e contadina, sarà la Resistenza. Ma vecchie scorie, ambiguità, mitologie ricorreranno, come vedre mo, nella cultura postbellica, e soprattutto nel movimento neorealista. Non ne sarà immune il cinema di De Santis. E, per molti versi, in modo pa radigmatico, per aver ripreso, in tono predominante, il tema della "terra". Da tutte queste suggestioni presenti nella nostra tradizione nasce, anche in campo cinematografico, l'interesse per Verga, di cui De Santis e Alicata si faranno portatori. Già la letteratura degli anni trenta, quella prodotta dagli scrittori più giovani che sono stati il nutrimento della generazione di De Santis ri sente notevolmente degli influssi del verismo italiano. Passando per Tozzi e Cicognani è a Verga che approdano infatti Alvaro, Silone, Bernari, Bilen chi, e poi Vittorini e Pavese. Verga è un punto di riferimento continuo: «Noi giovani si dovrebbero avere idee chiare, ormai, ed alla voce "roman zo" messi in pari con Palazzeschi, fermarsi a Tozzi e a Verga. Con questi contadini e con questi pescatori (Podere e Malavoglia) c'entra aria sana ne' polmoni e ci giova allo spirito»; cosi si esprime Pratolini su « I I Bargello» nel 1935. Quella vocazione popolaresca del fascismo che ama nutrirsi di impe gno sociale, trova in Verga un autore congeniale a tal punto che perfino Bottai, in un saggio su «Verga politico», cosi si esprime: «L'opera di Verga ha nella nostra letteratura contemporanea, una grande importanza, perché avvia la nuova generazione degli italiani ad un'arte più schietta, più umana, più serena [...]. Con Verga rinasce il sano realismo italico e terri geno (5)». Come giudicare questa continuità tematica ed espressiva che percor re internamente la cultura del periodo fascista per poi riemergere, sia pure con caratteri profondamente mutati e di segno ideologico opposto, dopo la Liberazione? Abbastanza convincente ci sembra ancora la risposta che se ne da Asor Rosa: «La parte socialmente impegnata della cultura italiana, che oltretutto, in quanto formata essenzialmente di giovani, non aveva e non voleva avere rapporti con la tradizione culturale dell'età liberale, doveva collocarsi nel seno del fascismo, perché il fascismo, durante il ventennio, era l'unica realtà in cui fosse possibile svolgere (o pensare di svolgere) un' attività politica socialmente impegnata con dimensioni di massa. Perciò è tutt'altro che sorprendente che non solo questi quadri giovanili fascisti sia no divenuti in seguito antifascisti, ma abbiano proprio loro, e non, appun to, gli eredi più diretti della tradizione intellettuale liberale, formato il nu cleo dell'impegno sociale della cultura antifascista (6)». E verso la fine del 18 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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"lungo viaggio" attraverso le illusioni e le mistificazioni del ventennio, quando avranno chiara la natura classista e demagogica delle prospettive sociali e "popolari" propagandate, essi, sappiamo, si ritroveranno a com battere il regime sia culturalmente che politicamente. Ma, giustamente ri prende Asor Rosa: «Non pochi equivoci e difficoltà del neorealismo sono da imputarsi ad un processo troppo rapido di rimozione di questa fase dell' esperienza giovanile fascista, con cui fare i conti in profondità avrebbe si gnificato probabilmente un'elevazione e una maturazione dello stesso im pegno antifascista, se non altro sul piano dei linguaggi e su quello assai poco approfondito, durante tutto questo lungo periodo, del rapporto con il pubblico (7)».
De Santis e Purificato giovanissimi con Libero de Libero (al centro).
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Note (1) Giuseppe De Santis, Ripensando ai tempi di «Cinema» prima serie, in «Cinema Nuovo» n. 201, settembreottobre 1969. (2) Libero de Libero, Ciociaro come la Ciociaria, in «Milano sera», 18 ottobre 1950. (3) Giuseppe De Santis, art. cit. (4) Alberto Asor Rosa, Dall'Unità a oggi. La cultura, in Storia d'Italia, tomo 11, voi. I V , Einaudi, Torino 1975, p. 1500. (5) Giuseppe Bottai, «Studi verghiani», 1, 1929, pp. 316, citato da A. Asor Rosa, op. cit., p.1571. (6) Alberto Asor Rosa, op. cit., pp. 157677. (7) Ibidem.
De Santis con il gruppo di amici di Fondi, ad una mostra di Purificalo alla galleria «La Palma» di Roma, nel 1950. Si riconoscono, da sinistra: Nino Peppe, Guido Ruggiero, Marcelle Di Vito, Purificato, Pietro Ingrao, Dante Di Sarra, Libero de Libero, De Santis, Leopoldo Savona; e due fratelli di Purificato.
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L'esperienza di «Cinema» L'analisi fin qui condotta costituisce un'indicazione di massima del retroterra culturale di De Santis. Esaminiamo ora qual è, specificamente, il retroterra, o meglio, il retrotesto cinematografico che sottende il "proget to realistico" del suo cinema. Esso prende forma attraverso l'individuazio ne, nel cinema che egli si trova a vedere e a recensire prima di passare dietro la macchina da presa, di alcuni modelli stilistici e ideologici e di alcune fi gure tematiche, da riutilizzare e da reinventare poi per suo conto. Alcuni di questi temi e di questi stilemi sono poi divenuti quelli classici nell'accredita mento di certe ascendenze di tutto il cinema neorealista. Certa critica ha vi sto in questo retrotesto la prova della intertestualità tra il neorealismo (e quindi anche il cinema di De Santis) e il cinema soprattutto italiano degli anni trenta, riscontrando dei "ponti ideologicoretorici" col cinema del pe riodo fascista. Il neorealismo visto cioè come la massima utilizzazione dei materiali e delle formule dei vecchi "generi" tradizionali, ricomposti in ag gregazioni inedite e decontestualizzati, fino ali esplosione di un vero e pro prio "disordine semiologico". Paragonabile, per rendere l'idea, come ebbe a dire Bazin, a quello che si verifica ad esempio nell' hot jazz. Ci sembra appropriata questa chiave di interpretazione, a patto però di considerare il neorealismo, come ha efficacemente precisato Carlo Lizzani, non un mo mento di casuale e provvisoria co/7fusione di generi, che subito dopo ri prendono le proprie legittime traiettorie, ma come una aggregazione che non è la somma aritmetica soltanto di tanti elementi preesistenti, ma che «in un certo momento storico [...] abbia prodotto, come avviene in tanti pro cessi chimici, fisici e biologici, quel risultato o processo che la fenomenolo gia definisce evento e che il marxismo scientifico chiama salto di qualità, e che diventa fenomeno nuovo ed autonomo (1)». Anche la ricerca di De Santis sarà tutt'altro che una nostalgica re trospezione a rinvenire materiale di antiquariato filmico da ammodernare, perché, vedremo, proseguirà come un'educazione intellettuale capace di offrire saldi e convincenti punti di riferimento alla sua progettualità. È dalle colonne di «Cinema» che il progetto di De Santis comincia a precisarsi. Ma ricostruiamo per un attimo il clima dell'epoca: qual è l'am biente della rivista e come De Santis riesce a farne, insieme a quelli del suo 21 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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gruppo, la più battagliera pubblicazione cinematografica del momento, «Cinema» è diretta dal figlio del Duce, Vittorio, uno strano diretto re però, quasi mai presente, e noto soprattutto per certi suoi pellegrinaggi in America da dove torna acceso d'entusiasmo per il cinema di Hollywood; e che non da eccessivo fastidio nei riguardi della vivacità che la redazione va già manifestando. Ma lasciamo che continui lo stesso De Santis: «Per me, tutto era cominciato un giorno del 1940. Gianni Puccini a quel tempo si guadagnava da vivere scrivendo per la rivista «Cinema», e quel giorno, uno dei tanti della nostra profonda amicizia, lui, e Francesco Pasinetti, mi dissero: «Vieni, e fai la critica cinematografica per nor; Peppe Isani se ne va, parte come Lettore d'Italiano in Germania, e lascerà il posto. Tu sei scaltro, attento, ciociaro, siamo certi che ti riuscirà». «Non sono né scaltro né attento», risposi, «e come ciociaro, a sentire Anton Giulio Bragaglia che di Ciociaria se ne intende, sono soltanto un ciociaro della Costa, e perciò un mezzo sangue, un ciociaro impuro, un bastardo insomma, se è vero che i miei antenati, generati e cresciuti a pochi chilometri dal mare di Sperlon ga, ebbero il torto di abbandonare le loro donne in pasto alle voglie dei pre doni turchi, arabi e saraceni, sbarcati un po' di secoli addietro da queste parti, per saccheggiare le nostre contrade. 1 ciociari, quelli veri, sono figli di antichi guerrieri, sono alti, fieri, robusti, svelti di coltello, rubaterre e roditori di confini nelle notti di luna e hanno stampato sul volto quella ma linconia immutabile delle mandrie di pecore che la maggioranza di essi por tano a spasso per i monti tutto il giorno. Io, invece, sono piccolo, olivastro, ho il naso a becco, sono ombroso, diffidente, e l'orgoglio e la presunzione mi rodono il fegato tutto l'anno nello sforzo di nascondere meglio quel mi sterioso complesso di inferiorità che colpisce t u t t i i bastardi nelle ore di profonda sincerità. Un tipo cosi, instabile, accidioso, non vi conviene!» «Ma sei vivace, assurdo, polemico. Accetta, non te ne pentirai». E De Santis accetta. «Io sottoponevo continua un film che avessi ritenuto sba gliato alla rabbia dei miei sentimenti feriti e alla violenza del mio impulso giovanile, senza tenere in alcun conto i rigori politici ed i canoni estetici in voga a quei tempi. Era, il mio, un modo arruffato e contadinesco di eserci tare il mestiere di critico, a ben rifletterci. Ma sincero, sino allo spasimo. Credo di essere stato il critico meno obbiettivo che il cinema italiano abbia mai avuto. Riconducevo tutto a me stesso, al mio mondo morale, ai miei amori cinematografici e letterari di quel tempo, e ai miei personali criteri artistici ed estetici che, a dire il vero, erano assai angusti, data la mia scarsa preparazione culturale ed i miei studi universitari compiuti in modo piutto sto disordinati. Avrebbe dovuto essere un disastro. Invece, come spesso ac cade in questi casi, fu un successo [...]. Tutto quanto io venivo scrivendo con le mie critiche era prima ancora che dentro di me, al di fuori di me; era nell'aria, nel clima che a mano a mano, come una macchia d'olio, aveva
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cominciato ad allargarsi conquistando l'anima e la coscienza del cinema italiano più insofferente dello stato di cose dentro il quale tutti vivevano (2)».
Tra vecchio e nuovo Continente II "viaggio" intrapreso da De Santis (all'inizio in compagnia di Ali cata) e narrato in quella specie di reportage filmico che sono le sue critiche su «Cinema», può ritenersi, per più versi, simile a quello che alcuni anni prima hanno compiuto alcuni dei nostri letterati più noti come Cecchi, e più giovani e inquieti come Soldati, Pavese, Vittorini. Almeno se si consi dera il primo Continente in cui sbarcano: l'America della grande depressio ne e poi del New Dea! di Roosevelt; e l'approdo finale di alcuni di essi: il "profondo Sud" dell'Italia e la Sicilia di Verga. Nel cinema, come nella let teratura, ognuno di loro, come è stato detto, fa il giro del mondo per ritor nare a scoprire casa propria. Prima di entrare nella mitologia western, nell'epopea popolare dei Ford e degli Hawks, sappiamo che l'Illinois, il Michigan, il Dakota, il Ne braska, già rappresentano la nuova leggenda dei nostri scrittori. Faulkner, Steinbeck, Caldwell, Hemingway, Dos Passos, Saroyan, per il loro modo del tutto inconsueto di osservare la vita, senza veli e senza schemi, per la lo ro spregiudicata rappresentazione della realtà del proprio paese, aprono il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto, come dirà Pavese, che non t u t to nella cultura del mondo finisca coi fasci. Un'America che non è un paese diverso e lontano, ma "il gigantesco teatro" dove, con maggior franchezza che altrove, viene recitato "il dramma di tutti". Una novella Atlantide che riemerge, come da antichissimi recessi, con la vitalità della sua civilizzazio ne, con il fascino dei suoi territori ancora vergini, squassati da biblici con flitti di razze e di culture, affollati di eroi senza macchia e senza paura e di avventurieri irrequieti, oltre che di disperati dannati di fame e di sesso. Cer tamente una novella terra promessa per un proletariato dilagante da t u t t i i porti d'Europa: tedeschi, svedesi, austriaci, italiani. Ma America anche come condizione dello spirito, dove si persegue il compito di creare "un gu sto, uno stile, un mondo moderno". E America, ancora, come Cinema: as soluto, totalizzante, specchio amplificato e abbacinante di una Babele di clamorosa efficienza, di una eterna odissea, dove le prove che l'eroe, "il campione" affronta e supera come novello protagonista della creazione, sono altrettanto importanti della meta finale. Un mito, insomma. Proietta to in una dimensione fatta di contrasti di assoluti: di coraggio e viltà, amo re e odio, vita e morte; come nella parabola della lotta tra indiani e yankees. Ma dove si ha pure esperienza di un futuro che già è iniziato, e 23 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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dove già si avvertono segni di dissociazione, nuove angosce di non risolti equilibri tra individualismo e massificazione, tra l'ottimismo del "sogno americano" di un Frank Capra, e l'alienazione della "folla solitària" di un King Vidor. Cosi De Santis e Alleata si imbarcano nell'immaginario collettivo del Nuovo Mondo, ricercando nel buio onirico ed esaltante delle sale di proiezione, "le spezie e l'oro" da portare a casa per il loro progetto. Paradossalmente, proprio quel paese, che per la generazione dei De Santis, Ingrao, Trombadori, Lizzani, fra qualche anno diventerà (in una singolare ambivalenza di odioamore) il simbolo dell'imperialismo dalle "fattezze demoniache", il Sistema più antitetico all'Utopia Comunista, co stituì, per gli stessi, uno dei primi nutrimenti intellettuali, e la prima cotta per il Cinema: con la maiuscola, appunto. E proprio grazie alla presenza di una gamma così ampia di idee e di valori, per la consistenza sociale e l'im pietoso realismo che spesso caratterizzavano la fantasia letteraria e la f i n zione filmica elaborate in quel Continente. Dopo aver fatto tesoro delle nuove esperienze del cinema tedesco dei Murnau e dei Fritz Lang e delle loro preziose ricerche tecnicofigurative, i due giovani critici fanno tappa in Francia. Qui, più che subire il fascino un po' letterario del dolente crepuscolarismo dei Prévert, Carnè e Duvivier, delle loro storie immerse in squallide periferie affollate di prostitute, di so gnatori e di sradicati, essi si entusiasmano per i gioiosi fermenti libertari diffusi da Rene Clair e soprattutto per le grandi illusioni democratiche del Fronte Popolare trasmesse da Renoir, dai suoi popolani presi in prestito da Gorkij e da Zola. Ed è proprio in Renoir che, dopo tanto peregrinare, a loro sembra di ritrovare il giusto equilibrio tra arte e socialità, di ravvisare i segni di quel realismo ansiosamente ricercato e di avvertire un clima, una retorica, uno stile, magari già nazionali e popolari. Poi il ritorno a casa, a Roma, tra le quinte di Cinecittà, così soffocante nel suo grigiore provinciale, so prattutto se raffrontato con esperienze cosi moderne ed esaltanti. Un cine ma, il nostro, osservano De Santis e Alleata, che ha come massimi poli di riferimento il dannunzianesimo archeologico di Cabina e le evasioni picco loborghesi dei tabarins di Via Nazionale, e che attinge ispirazione invece che dalla nostra narrativa maggiore, dagli esangui canovacci dei Rovella, Lucio D'Ambra, Luciana Peverelli. Cosi, delusi, essi partono di nuovo, questa volta verso l'interno, verso il nostro profondo Sud e finalmente sbarcano in Sicilia, tra i pescatori di Acilrezza, nella terra "omerica e leg gendaria" di Verga, laddove sia possibile ripensare «cose e falli in un tem po e in uno spazio di reallà», per cui valga la pena di lenlare un'operazione d'arie "rivoluzionaria", ispirata ad una «umanilà che soffre e spera» e ad un linguaggio «vergine, essenziale e violento».
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E, scartati i banali romanzi d'appendice, si danno ad inseguire, in un paesaggio più libero e fantasioso, i gesti delle creature più primitive e più vere di quello scrittore: «il sentenziare disperato e amaro di padron 'Ntoni Malavoglia, il sacrificio silenzioso e tragico di Luca, quello consa pevole e malinconico di 'Ntoni di padron 'Ntoni, l'innocenza aspra e sel vaggia di Jeli il pastore (3)». L'excursus dei due giovani critici insomma si risolve in una vera e propria inversione di prospettiva e nella messa a punto di una poeticamanifesto: dagli "interni" piccoloborghesi del cinema "se dentario" del ventennio, l'obbiettivo si sposta verso gli "esterni" inesplo rati del paese, con un'attenzione insolita nel suo "nomadismo", per tutto quello che si svolge per le strade, per i campi, nei porti, nelle fabbriche. Il suo itinerario De Santis lo continua poi da solo. E non può che es sere cosi. Con Alleata, cineasta occasionale e soprattutto uomo di lettere e politico, il sodalizio deve per forza limitarsi al rinvenimento di ascendenze ideologicoletterarie. Quello che premerà poi a De Santis sarà soprattutto 1' individuazione di alcune coordinate cinematografiche entro cui muoversi con la macchina da presa.
Critica e progettualità De Santis concepisce il suo "mestiere di critico" non come una fred da e distaccata operazione di analisi, ma soprattutto come un'occasione per formulare quello che a suo modo deve diventare, in quel momento, il cinema. Scende in campo contro ('"esistente cinematografico" perché esso gli sembra pienamente asservito all'esistente culturale e politico, avendone sposato sia i codici espressivi, ormai inerti e ripetitivi, sia l'ideologia domi nante. E combatte anche certi tentativi di "metaforizzare" il dissenso, le gati ad un'estetica che tende a "parlare a bassa voce", o a non parlare di temi obbligati, per sottrarsi appunto alle categorie concettuali in quel mo mento imposte dal fascismo. Ritiene infatti queste operazioni troppo esan gui e sospette nel loro aristocratico estetismo, tanto che preferisce coloro che in qualche modo si sporcano le mani con la propria contemporaneità. Per queste ragioni De Santis finisce per giudicare i film che vede, special mente quelli italiani, non tanto per quello che essi sono, ma soprattutto per quello che non riescono ad essere. È, il suo, forse il primo vero esempio di critica "di tendenza" della nostra storiografia cinematografica. Con tutta la sua efficacia dialettica e "pedagogica". E anche con alcuni rischi del caso, dovuti proprio al suo giacobinismo, come è per certe stroncature che oggi magari appaiono troppo ideologizzate. Ma che allora ebbero l'effetto voluto, da terapia d'urto. 25 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Il valore ancora di questa sua battaglia critica consiste nel fatto che essa non si fonda poi solo su negazioni o rigetti, ma è sempre sorretta da un tracciato progettuale. Tant'è che certi parametri di giudizio diventeranno poi patrimonio comune di tutta una generazione che si avvia a costruire il nuovo cinema italiano. Patrimonio magari fin troppo accreditato ed esclu sivo. Ma che allora era l'unica risorsa; o una delle pochissime. Il gruppo di «Cinema», insomma, guidato da De Santis, per molti versi è stato negli anni quaranta, quello che, negli anni cinquanta sarà l'equi pe dei «Cahiers du Cinema» che darà la nouvelle vague dei Truffaut, Cha brol, Godard. Anche su «Cinema» si comincia a fare attenzione a quelle personalità che maggiormente hanno saputo creare attraverso il linguaggio cinematografico, un clima, uno stile, una visione del mondo. Anche i De Santis, i Lizzani, i Puccini, i Pietrangeli, gli Antonioni, danno origine ad una "politica degli autori", tendendo a personalizzare la "scrittura" cine matografica, fino a concepire la propria militanza critica come un preludio alla regia.
Il "formalismo dei rondiani'
Nella crociata di De Santis guidata da eroici furori, a volte manichei, non c'è spazio per eufemismi, diplomazie, riflessioni chiaroscurate; c'è, prima di ogni altra cosa, la volontà caparbia di cambiare il modo di inten dere e fare cinema, e, sotteso, il sogno di modificare la realtà mediante il ci nema: «Una nuova estetica, oggi, va dispiegandosi, contro i canoni che fi no a ieri sorressero le sorti di un giudizio critico, e affiora alla luce di un preciso momento storico, dichiarando come ancor più di una bella pagina scritta, di un bel quadro dipinto, di una bella sequenza realizzata, sia meri tevole colui che preferisce schierarsi in una chiara linea d'azione, prenden do la sua giusta posizione umana di fronte al proprio lavoro (4)». Egli esor disce cosi attaccando senza reticenze "l'ozio formalisticointellettualepit torico" del giovane cinema di allora, quello dei Castellani, Soldati, Lattua da. Certi nuovi fermenti che pure traspaiono da quelle opere gli sembrano subito smentiti e neutralizzati dagli antichi vizi che puntualmente rispunta no nella nostra cultura: la "retorica" e il "formalismo". Quei film rivela vano sensibilità degli sfondi ambientali, minuta cura dei dettagli, ma in essi «la vera sostanza dell'arte, il sentimento che doveva unire gli uomini a que sti aspetti formali e fare tutt'uno con essi tanto da rivelarsi impastati anche nell'intimo da quelle cose, veniva per sempre a mancare e a risolversi, quin di, in un assoluto dominio della decorazione (5)». A proposito di Malombra 26 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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\1942) di Soldati scrive: «Ecco sorgere ora i rondiani oziosi e accomodanti, con la loro pretesa di prosa d'arte, in testa ai quali possiamo porre Mario Soldati, scortato da una lunga serie di giovani [...]. Malombra è ancora un esempio di questa scuola. Vi partecipa con dovizia quasi tutta la pittura ita liana dell'Ottocento e principio di secolo, da F. Hayez a S. Lega, da De Nittis a F.P. Michetti, da T. Cremona ad A. Mancini, senza equilibrio di scelta. Accanto a Fogazzaro, invece, sono state abilmente riesumate è constatazione d'altronde che non tocca solo Malombra ma in generale tut to il cinema italiano in costume le stravaganti spoglie di una Carolina In vernizio o di un Francesco Mastriani, odorose ancora di Baci della Morte. [...] L'ambizione di esser fedeli al romanzo ha sommerso personaggi ed av venimenti in un inevitabile marasma romantico, ampolloso e pedante. Il racconto va avanti con intoppi frequenti; l'anacoluto sembra, addirittura, il suo termine d'ispirazione poetica. Non un solo personaggio che sappia conservare una linea psicologica chiara e netta e condurla in porto: Marina agisce ora in nome di una sua fredda e calcolata vendetta, ora sotto l'in fluenza della pazzìa [ . . . ] . Gli altri personaggi [...] non sono che degli sche mi di pretesto al servizio di quell'unico nucleo retorico. [...] Il paesaggio è splendido, ma non riesce a tradursi che raramente in funzione espressiva (6)». Né meno drastiche sono le critiche a Sissignora (1942) di Poggioli: «II dramma dei crepuscolari si risolveva, ieri, in una totale individualizzazione dei rapporti umani, nel completo abbandono egoistico ad una natura deca dente che aveva creato la sua fede più grande nell'amore alle piccole cose, nella dedizione assoluta ai propri sentimenti, tentando di riscattare una re torica mentre cadeva essa stessa nella retorica opposta. Se una tale edoni stica e malata concezione della vita era scusabile in uomini d'altri tempi, ri masti semplici spettatori di una storia che si compiva alle loro spalle e non ebbero il coraggio di incatenarla a sé stessi e di ciò fare la propria reale e non fantastica sofferenza, noi siamo fermamente convinti che quei tempi sono trascorsi e mutati e che la nostra storia più recente vada vissuta in al tro modo, con la piena coscienza di certi valori. È questa la massima accusa che noi rivolgiamo al regista Poggioli e massimamente agli sceneggiatori Cecchi e Lattuada, responsabili primi di un tale risultato. [...] Niente ci ap pare più fastidioso di un pittore che dipinge solo con i suoi colori, con la sua pelle, e che per essi trascura di tener presente la sua più importante sof ferenza di uomo, o di un poeta che limita la sua percezione ad una estatica contemplazione dimenticando di tradurla in dramma (7)». Letteralmente stroncato è anche Un colpo di pistola (1941), del de buttante Castellani, accusato di essere un tipico campione di calligrafia, nel rifare il verso ad un "hollywoodiano neoclassicismo da rivista musicale", tradendo totalmente il senso di uno dei più scarni racconti di Puskin, da cui il film è tratto: «laddove Puskin indicava una società malinconica ed altera 27 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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e ad essa scavava una storia toccandola nelle sue più intemperanti manie, essi [Castellani e gli sceneggiatori Soldati, Corrado Pavolini e Mario Bon fantini] hanno opposto un balletto, un pretensioso e smodato arabesco tra cornici di trine, ombrellini, alamari. [...] Chi come noi porta amore, spas sionato e sincero, al cinematografo, ricorderà certo quell'indimenticabile Capriccio spagnolo di Joseph von Sternberg, esempi fra i più preziosi di uno stile che la settima arte abbia saputo dare. Potremmo dimostrare, qua lora lo stesso Colpo di pistola non lo denunciasse cosi apertamente, che le aspirazioni del Castellani erano del tutto rivolte verso quell'unico modello. Ma bisogna dire, cosi stando le cose, che egli conserva, purtroppo, un ma gro ricordo di come quel sottile arabesco, lungi dal dichiararsi fine a se stesso, diventava t u t t ' u n o con la esasperante v e r i t à storica e morale di un paese, la Spagna, fino a racchiuderla in una esaltata, omogenea concretez za poetica. Sono rimasti, invece, nel Castellani, più tangibili, avendo egli mancato, dunque, di rivivere in pieno senso storico e morale questo clima, i segni delle sue scuole più prossime: quella cameriniana e l'altra blasettiana. Ma anche in ciò occorrerà convenire che se della prima gli è sfuggila queir acre punta di amarezza borghese e quel genuino piacere dell'aneddoto che distinse il Camerini della prima maniera, mentre ha preferito conservare quegli insopportabili sentimentalismi all'acqua di mammole e viole, dalla seconda si è lasciato ingannare dal facile giucco oleografico, dal suo chias soso colore di cattiva lega e non ha saputo apprezzare la forza popolana e aspramente polemica di quei lontani, e non mai abbastantemente compian ti nella vena di questo regista, 1860 e Vecchia guardia (8)». E contro i "telefoni bianchi" che ancora imperversano nel nostro cinema, cosi si esprime: «Gli americani costumavano classificare ih Serie, con appellativi pubblicitariamente sgargianti, le loro produzioni. Nacque cosi la famosa Serie d'oro. Ora, quale denominazione daremo noi a tutta questa nostra produzione? Serie dei film che parlano al cuore, ha detto qualcuno. Serie conigli, vorremmo proporre noi, con termine più realisti co, seppure apparentemente meno istruttivo. Infatti la Serie conigli è in piedi da un pezzo, continua e ha l'aria di voler continuare ancora per mol to. [...] Mattoli, Bragaglia, Gallone minacciano di essere i rappresentanti massimi del cinema italiano, visto che le loro opere si inviano anche ali' estero (9)».
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L'"altro" cinema Opposto a questo, per De Santis, c'è però un altro tipo di cinema. Un cinema in cui viene risolta in modo originale quella convergenza tra ideologia e linguaggio da lui ricercata. Le risultanti di questa felice combi nazione sono individuate attraverso alcuni elementi espressivi che possono essere cosi distinti: a) II paesaggio: come spazio del cinema (realisticosimbolico): in rapporto alla Storia e alla socialità; come elemento di drammatizzazione: in rapporto alla interiorità dei personaggi. «Ma come altrimenti sarebbe possibile intendere e interpretare 1' uomo egli afferma infatti se lo si isola dagli elementi nei quali ogni gior no egli vive, con i quali ogni giorno comunica, siano essi ora le mura della sua casa che dovranno recare i segni delle sue mani, del suo gusto, della sua natura in maniera inequivocabile ; ora le strade delle città dove egli si incontra con gli altri uomini. [...] Dovrebbe essere propria del cinema, poi ché più di ogni altra quest'arte parla nello stesso momento a tutti i nostri sensi, la preoccupazione di un'autenticità, sia pure fantastica, dei gesti, del clima, in una parola dei fattori che debbono servire ad esprimere tutto il mondo nel quale gli uomini vivono (10)». Esempi significativi in tal senso sono per lui alcune sequenze dei due maggiori film di Jean Renoir non a caso figlio del grande pittore impressionista Auguste, e dotato di una pro fonda conoscenza pittorica: La grande illusione (1937) e L'angelo del ma le (La bète humaìne) (1938), nei quali, ogni elemento della "ambientazio ne" concorre a determinare il dramma dei protagonisti; dalla componente figurativa, ai volti, alla gestualità degli attori. Renoir nota De Santis sembra avvertire che ci sono dei sentimenti che l'uomo non può esprimere, e allora bisogna servirsi di tutto quello che gli sta attorno: «Cosi il viaggio che i prigionieri francesi compiono da una regione tedesca ad un'altra, nella Grande illusion, è dato dal trasformarsi graduale del paesaggio sotto gli occhi dei prigionieri stessi; e la lite fra due fuggiaschi, affamati, spossati, mentre hanno quasi raggiunto il confine svizzero, diventa più raccapricciante in un paesaggio invernale, arido e de .solato (11)». L'angoscia profonda che dominava la vicenda dei prigionieri non era espressa soltanto dai volti o dai sentimenti degli uomini, ma dalla partecipazione ancora più drammatica di tutti gli elementi complementari: «Non un solo episodio di guerra appariva mai sullo schermo: pure la guer ra stessa impregnava del suo significato ogni fotogramma, grazie ai riferi menti presenti e lontani che senza posa stringevano il racconto (12)». E ne L'Angelo del male: «la crisi in cui cade Jacques Lantier quando vuole stran 29 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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gelare la ragazza sul ciglio della strada ferrata, viene dominata dall'improv viso frastuono di un treno che passa, contro un ciclo burrascoso. Più tardi sono ancora le stazioni nude e deserte del nordovest della Francia, i salici allineati in eleganti filari, come ulivi, lungo la strada che il treno percor re (13)». Come esempio, parecchio infrequente nel nostro cinema, di una si mile funzione del "paesaggio", De Santis cita Piccolo mondo amico (1941) di Soldati (il quale, come si è visto, sarà poi accusato di calligrafismo): «Per la prima volta nel nostro cinema abbiamo visto un paesaggio, non più rarefatto, pacchianopittoresco, ma finalmente rispondente alla umanità dei personaggi sia come elemento emotivo che come indicatore dei loro sen timenti. Penso alla partenza di Franco per Milano, all'alba. Luisa che l'ha accompagnato resta sulla riva mentre egli la vede scomparire, col paesaggio che ondeggia come il movimento della barca che lo trasporta sul lago. Così le sequenze più importanti nel film ci sono apparse, ancora, quelle in cui tutti gli elementi da noi sopra citati erano presenti: il ballo in campagna, nel primo tempo; la morte di Ombretta, l'incontro di Luisa con la marche sa, sotto la pioggia, la corsa per le scale del villaggio delle tre donne che vengono a darle la notizia della disgrazia, nel secondo tempo (14)». Da queste premesse De Santis arriva alla rivalutazione dell'elemento documentaristico che una inveterata mentalità considera estraneo alla crea zione cinematografica, e che invece per lui può costituire uno degli apporti più preziosi per la definizione di un autentico cinema nazionale. E cita Uomi ni sul fondo (1941) del comandante di marina Francesco De Robertis, che narra la storia di un sottomarino affondato nel corso di una esercitazione e interamente interpretato da autentici marinai. Ma ancor più Un pilota ri torna (1942) e L'uomo dalla croce (1943) (che con La nave bianca (1941) compongono la discussa trilogia di Rossellini sulla guerra fascista). In quei due film propagandistici, tipici di quegli anni di guerra. De Santis intuisce quello che, dietro la facciata bellicosa, costituisce, sia pure in modo ancora embrionale, il vero centro di interesse e lo stile di Rossellini: «[...] nessuna meraviglia che il suo mondo [di Rossellini] a prima vista possa apparire, fra tanto chiasso, il più sprovvisto di senso polemico e insieme il più lontano da ogni lotta di tendenza. Ad una critica attenta e minuziosa non devono sfuggire, invece, alcune premesse ideali che sembrano guidare il suo lavoro: ricreare una realtà oeeettiva senza i n u t i l i fronzoli decorativi ed arabeschi (15)». b) La coralità: come "rapporto" individuo /collettività', come epica popolare. I personaggi del cinema italiano di quei tempi, per De Santis, vivono tutti in solitudine, scontando il loro dolore di non essere di carne viva, vuoti di ogni sostanza poetica, accomunati da un parlare da oltretomba 30 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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«come fanno i pazzi tra loro che ognuno racconta la sua». Egli avverte la necessità di rompere con certi claustrofobici interni borghesi dove non si agitano personaggi, ma letterarie e meccaniche marionette: «Sono nudi di sentimenti, nudi di ossessioni: agiscono in un mondo del quale non è mai possibile vedere gli orizzonti, i confini. Mai proiettati in un paesaggio: alle loro spalle o dinnanzi ai loro occhi restano solo stanze fredde, spazi disabi tati (16)». Ancora un bisogno di "spazio", dunque, che si espanda, che si apra alla vita collettiva; un luogo ideale che ricrei il senso di comunità, ma, allo stesso tempo, un luogo fisicamente concreto dove l'uomo viva la sua storia insieme agli altri; e dove sia avvertibile il suo ritmo quotidiano: «[...] vor remmo che anche l'uomo che scantona dietro il vicolo di sfondo avesse la sua importanza, avesse la sua tragedia perché è impossibile che non ce l'ab bia; vorremmo che proprio lui, soprattutto lui, non risultasse un semplice elemento decorativo, ma scaturisse da un bisogno di creare l'umano, di creare il rapporto (17)». In questo caso, è significativo che sia DeSica a soccorrerlo, con Un garibaldino al convento (1942), premonitore di quella accorata elegia dei sentimenti che di lì a poco egli avrebbe avviato con / bambini ci guardano. De Santis considera quel film come «l'unico esempio prodotto in Italia di un cinema corale, intendendo con ciò svalutare una tendenza largamente diffusa nella nostra produzione, secondo la quale si dimostra di non saper creare, mai, un mondo che vada poco più lontano dell'astratto egocentrismo di pochi attori, di pochi personaggi, inevitabil mente chiusi tra quattro mura o irrimediabilmente persi nello sfarzo di son tuosi saloni ducali (18)». E accanto a De Sica, il Blasetti di Quattro passi fra le nuvole (1942), che con la sua quotidianità sommessa porta nel nostro cinema, al di fuori di ogni retorica, i primi disvelamenti dell"'uomo occul to" italiano. De Santis rinnova così la sua stima per il regista di i860 (un film da lui considerato come «una delle più concrete, serie e fondamentali fonti del cinematografo italiano») e accoglie la nuova opera come un felice ritorno ad un lineare linguaggio realistico. Il protagonista, il piccolo com messo viaggiatore, gli appare infatti dipinto «con una sottigliezza psicolo gica perfetta». Egli vi ritrova «una coerenza di gesti e di atteggiamenti che non lasciano dubbi fin dall'inizio sulla sua condizione sociale». La poesia del quotidiano gli appare espressa attraverso un «pacato e dolce essere ano nimo di tutte le cose che si pongono avanti, senza la più piccola affettazio ne, ma come se le incontrassimo per la strada, allo stesso modo che accade nella vita vera (19)». Una verità, dunque, della vita di tutti i giorni, che si accordi però, quando è il momento, con i grandi conflitti della società, come già aveva indicato Renoir ne La Marsigliese (1937). Ma, in questa direzione, è il cine ma sovietico, con il suo progetto di "epicità" volta ad esaltare la dialettica 31 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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di un conflitto rivoluzionario, che affascina De Santis. Un cinema che rap presenta uno degli esempi più alti di quell'accordo tra assunto ideologico e sperimentazione linguistica che egli sembra ricercare: «[...] la Russia cele brava il suo Ottobre rivoluzionario e le sue tragiche giornate di sangue pro letario, celebrava lo spirito degli uomini nuovi affermatosi su quello ora mai corrotto e abbandonato delle pseudocoscienze democratiche, celebra va una storia che non avrebbe mancato di incidere anche sulla civiltà di al tri paesi. Eisenstein, Pudovkin, Dovgenko erano figli diretti di questa rivo luzione, l'avevano vissuta nelle strade e nelle piazze, sulle barricate, ed ora potevano raccontarla con un linguaggio, profetico anch'esso come l'idea che l'aveva promosso, linguaggio che non ammetteva compiacenze, che mirava a toccare diritto nel cuore degli uomini della nuova Repubblica. Fu la nascita di uno stile crudo, secco, incisivo, tutto espressione cinematogra fica: le leggi di un'armonia ritmica venivano sancite definitivamente. Ora il cinema può vantare la sua epica popolare. Si afferma un realismo cinema tografico avido di fratellanza umana, di verità, forte di concetti ed allusio ni ideologiche, mai fine a sé stesso perché ispirato da chi per quella stessa fratellanza e verità aveva rischiato la vita (20)». e) II realismo: come autenticità del reale mediante la "finzione" del cinema. Negli scritti di De Santis ricorrono spesso, come si è visto, termini come realismo e verità, che di per sé, cosi onnicomprensivi ed ambigui qua li sono, non sono sufficienti certo a definire i caratteri del suo cinema. Né legittimerebbero solo per virtù loro, la sua collocazione nel movimento neorealista. Anche perché, come è stato detto, forse un'estetica u n i f i c a n t e il neorealismo non la possiede, essendo stato soprattutto un atteggiamento etico, un modo nuovo di confrontarsi con la sconvolta realtà del dopoguer ra: tanto che si potrebbe affermare che esistono t a n t i neorealismi q u a n t i sono i registi di quella tendenza. Ora, appunto, Tacce/ione che al termine "realismo" De Santis ha cominciato ad a t t r i b u i r e già nelle sue recensioni giovanili, ha indubbie rispondenze tematicoculturali con le poetiche cine matografiche dei suoi futuri compagni di strada ed è prefiguratrice di alcu ne specifiche affinità. Si pensi alla identità della matrice VergaRenoir dal la quale trarrà ispirazione Visconti, e all'avvertimento del "documentari smo" di Rossellini e dell'affettuosa "coralità" di De Sica, di cui si è detto. Ma queste "simpatie", questi elementi unificanti, costituiscono appunto solo una delle coordinate del percorso neorealista, quella di carattere etico culturale, cui si accennava. L'altra, quella "estetica", ci fornirà alcuni mo tivichiave utili per iniziare a definire il linguaggio espressivo di De Santis, proprio grazie a certe peculiarità della sua "diversifica/ione". Sono indicative, a riguardo, alcune dichiarazioni di teorica cinema tografica, che egli già propone, anche se senza sistematicità, nelle sue criti che. 32 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Il cinema è per lui un'arte che parla a tutti i nostri sensi, e lo spetta tore è uno che anzitutto vuole vedere; e deve essere proprio del cinema la preoccupazione, come si è visto, di un'autenticità sia pure fantastica, di tutti gli elementi che concorrono ad esprimere il mondo del personaggio: il realismo «non come passivo ossequio ad una statica verità obbiettiva, ma come forza creatrice, nella fantasia, di una storia di eventi e di persone (21)». Realismo, insomma, come piena valorizzazione del mezzo espressivo, co me elaborazione fantastica della realtà. Per questo l'attenzione per la sperimentazione è sempre vigile nelle sue critiche; ed è indicativa la sua ammirazione per il cinema espressionista e del Kammerspiel, per registi come J. Sternberg, Pabst, Murnau, Lang nelle cui opere la sensibilità verso i drammi quotidiani e verso le inquietudi ni sociali della Mitteleuropa del primo dopoguerra, va di pari passo con la ricerca linguistica. E, ancora una volta, la sintesi di tutte queste esperienze è riscontrata nel cinema di Renoir, in cui magicamente riescono a fondersi poesia e realismo. Quel Renoir che, dopo aver visto nel 1924 Femmine folli di Stroheim numerosissime volte, affermava affascinato: «Stroheim ha in segnato un sacco di cose. Il più importante dei suoi insegnamenti è che la realtà non ha valore se non quando è trasfigurata. In altre parole, un arti sta esiste solo se riesce a creare il suo proprio piccolo mondo. Non è a Pari gi, a Vienna, a Montecarlo o ad Atlanta, che i personaggi di Stroheim, di Chaplin, e di Griffith si muovono. È nel mondo di Stroheim, di Chaplin, e di Griffith». De Santis sembra avere perfettamente inteso certi parametri estetici del maestro francese e il valore del suo insegnamento. Scrive infatti ancora a proposito de L'angelo del male: «L'amore di Renoir per una fan tasiosa ricerca della verità umana, confessata fin dai suoi primi film, ha, qui, fatto miracoli. Poche opere .cinematograficlie conosciamo di una cosi potente e schietta aderenza alla vita. Accanto a Charlot, ad Hallelujah! di King Vidor, a Variété di Dupont, alla Corazzata Potemkin di Eisenstein, ad A nous la libertà di Clair, possiamo ben collocare questa nuova conqui sta, senza timore di minorarla. Forse fino ad oggi, nessuno più di Renoir, ha compreso tutto ciò che il cinema con i suoi specifici mezzi espressivi può dare all'Arte: dalla forza poetica che con un sonoro funzionale con il dramma dei personaggi, si ottiene, alla evidenza plastica che con una foto grafia ora piatta, ora suggestiva, ora scevra di ogni pittoricistica intenzio ne, si può offrire al racconto; dalla capacità che uno studiato movimento di macchina possiede per sottolineare psicologicamente l'azione, al forte si gnificato drammatico che una inquadratura con i segni che vi sono conte nuti, può avere. Si ricordi, ad esempio, tutte le volte che gli interpreti del film vengono colti dall'alto, con quei treni nel basso che fumano fra le ro taie o fischiano passando per la stazione. [...] Un lineare e manifesto conte nuto si affaccia presto alla nostra mente: quei valori stanno là ad indicare, di volta in volta, il presentimento di un precipizio nel quale gli uomini ca 33 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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dranno alla fine, o il loro intcriore abbandono, in una vita che indifferente continua il suo corso, o, ancora, la loro sofferente esistenza preda dei mo derni mezzi meccanici (22)». Queste dunque che abbiamo esaminate sono alcune delle coordinate estetiche che sottenderanno il progetto di De Santis. E, inscindibile da esse, c'è la coscienza della necessità di nuovi valori in grado di sostanziare una estetica nuova, che definisca anche il compito che in un momento come questo spetta all'artista. È già forte ormai il presagio della fine di un'epoca e l'urgenza dell'assunzione di nuovi doveri collettivi: «Non si creano una storia e un'estetica, e quindi tutti i fatti che da essa dipendono, con un solo poeta, ma tanto più costui sarà grande se vorrà rappresentare gli interessi spirituali di tutti quanti, anche quando egli non lo crede, a questa forma zione hanno contribuito (23)». «Se alla vera umanità di un paese, e quin di alla sua storia, noi dobbiamo guardare ogni volta che i suoi sentimenti, le sue aspirazioni più manifeste e più nascoste, da un artista vengono con traffatte, ci è lecito rispondere che in questa sede, la più valida oggi, perché la più drammatica, saremo indotti a suddividere la vita dell'uomo, le sue azioni in utili ed inutili, nei riguardi di quella storia e di quella umanità (24)».
De Santis con Gianni Puccini, a Roma, nel 1940.
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Note (l)Carlo Lizzani, Introduzione a Riso amaro, Officina edizioni, Roma 1978, p. 54. (2) Giuseppe DeSantis, Ripensando ai tempi di «Cinema» prima serie, cil.. Ora anche in Giu seppe De Santis, Verso il neorealismo, un crìtico cinematografico degli anni quaranta, a cura di CallistoCosulich, Bulzoni, Roma 1982, pp. 33, 34, 35. (3) Giuseppe De Samis e Mario Alicata, Verità e poesia: \ erga e il cinema italiano, in «Cine ma», n. 127, 10 ottobre 1941 ; e Ancora di Verga e del cinema italiano, in «Cinema», n. 130, 25 novembre 1941; ora anche in Giuseppe De Santis, Verso il neorealismo, cit., pp. 48, 49, 53. (4) Giuseppe De Santis, recensione de La cena delle beffe, in «Cinema», n. 137, 10 marzo 1942, ora anche in op. cit., p. 101. (5) Giuseppe De Santis, recensione di Tragica notte, in «Cinema», n. 141, 10 maggio 1942, ora anche in op. cit., p. 130. (6) Giuseppe De Santis, recensione di Malombra, in «Cinema», n. 158, 25 gennaio 1943, ora anche in op. cit., pp. 155, 156. (7) Giuseppe De Santis, recensione di Sissignore!, in «Cinema», n. 138, 25 marzo 1942, ora an che in op. cit., pp. 107, 108. (8) Giuseppe De Santis, recensione di Un colpo di pistola, in «Cinema», n. 156, 25 dicembre 1942, ora anche in op. cit., pp. 144, 145, 146. (9) Giuseppe De Santis, recensione di Labbra serrale, in «Cinema», n. 162, 25 marzo 1943, ora anche in op. cit., pp. 175, 176. (10) Giuseppe De Santis, Per un paesaggio italiano, in «Cinema», n. 116, 25 aprile 1941, ora anche in op. cit., pp. 4243. (11) Ivi, p. 43. (12) Giuseppe De Santis, recensione di Un pilota ritorna, in «Cinema», n. 140, 25 aprile 1942, ora anche in op. cit., p. 125. (13) Giuseppe De Santis, Per un paesaggio italiano, in op. cit., p. 43. (14) Ivi, pp. 4445. (15) Giuseppe De Santis, recensione de L 'uomo dulia croce, in «Cinema», n. 168, 25 giugno 1943, ora anche in op. cit., p. 2 1 1 . (16) Giuseppe De Santis, // linguaggio dei rapporti, in «Cinema», n. 132, 25 dicembre 1941, ora anche in op. cit., p. 63. ( 17) Ivi, p. 64. (18) Giuseppe De Santis, recensione di Un garibaldino al convento, in «Cinema», n. 139, 10 aprile 1,942, ora anche in op. cit., p. 118. (19) Giuseppe De Santis, recensione di Quattro passi fra le nuvole, in «Cinema», n. 157, 10 gennaio 1943, ora anche inop. cit., p. 152. (20) Giuseppe De Santis (con lo pseudonimo di Pietro Goduti), recensione di Within thè ìaw, in «Cinema», n. 173174, 25 settembre25 ottobre 1943, ora anche in op. cit., p. 234. (21 (Giuseppe De Santis, Per un paesaggio italiano, op. cit., p. 43. (22) Giuseppe De Santis, recensione de L 'angelo del male, in «Cinema», n. 159, 10 febbraio 1943, ora anche inop. cit., p. 165. (23) Giuseppe DeSantis, recensione di Comacchio, in «Cinema», n. 157, lOgennaio 1943, ora anche in op. cit., p. 149. (24) Giuseppe De Santis, recensione di Sissignora, in op. cit., p. 107.
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Tappe di un apprendistato Tra Ossessione e Desiderio «Erano le vacanze di Pasqua del 1940, c'era la guerra in Europa, era finita un anno prima quella di Spagna e poco dopo l'incendio s'era riacceso più vasto ancora. Per il momento, l'Italia era non belligerante, secondo una formula ambigua che, all'ombra delle illusioni lampo, mascherava 1' agguato imminente dello sciacallo fascista. Pure, si viveva; pure, c'erano ancora vacanze. C'erano ancora vacanze, e sul vaporetto di Capri, in un giorno d'aprile prima o dopo che l'Olanda e la Danimarca erano state inva se da Hitler, tra la gente viaggiavano due giovani, uno sui trentaquattro l'altro sui ventitré. Non si conoscevano, ma fecero presto ad attaccare di scorso durante la traversata, prestissimo a sentirsi congeniali e a diventare amici. Non parlarono solo di cinema, parlarono forse soprattutto della guerra e dell'ansia, ed era molto importante per tutt'e due parlarne e capir si. Uno, il più anziano, era alto, bruno, con due occhi magnetici nel mezzo d'un rostro tormentato e cinquecentesco, da monumento equestre, le mani simili a due ali, un passo singolare, pesante e leggero a un tempo, una di quelle andature che svelano un carattere, e qui si capivano forza ponderata, slancio trattenuto, morbida fortezza, l'altro, biondo, l'esiguità della corporatura corretta da una mascella improvvisa e aspra sotto uno sguardo attento e ironico insieme, con una punta perenne di diffidenza sot tile e contadina, un puntino appena nella pupilla. Il primo aveva fatto il bohémien, ribellandosi a un avvenire tracciato e a un presente giudicato monotono, l'allenatore di cavalli, il regista dilettante di teatro, l'assistente cinematografico, sempre cercando febbrile la sua strada; aveva perfino scritto un romanzo, finito poi per sempre in fondo a un cassetto; il secondo inventava racconti pieni di bizzarra malinconia, ambientati in un paesaggio favoloso e larghissimo, e stava per diventare il critico cinematografico che più avrebbe avuto influenza sul cinema italiano d'allora. Si capirono subi to, strinsero un patto di fervido lavoro insieme, a Capri imbastirono e poi a 36 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Roma scrissero, dimenticando tutto, il mare, la gente, le vacanze, una ridu zione del Grand Meaulnes che non diventò mai un film. Così si incontraro no Luchino Visconti e Giuseppe De Santis (1)». È Gianni Puccini che racconta: un po' fantasiosamente (De Santis mi ha confessato che il primo incontro con Visconti avvenne in modo mol to più affrettato e prosaico); ma significativamente, perché sul filo di una memoria già mitizzante. Il che rivela la misura e il significato che Puccini, uno dei protagonisti del "nuovo corso" del cinema italiano, attribuisce a quel sodalizio. Senza il quale non si capirebbe la nascita di Ossessione e quella conversione che doveva condurre Visconti come lui stesso ebbe a dire sulla via di Damasco del disvelamento di quella realtà del "paese rea le", per vent'anni occultata e rimossa dal fascismo. Oltre alla riduzione dell'elegiaco romanzo di AlainFournier, Visconti e De Santis ne scrivono altre, tutte rimaste poi nel limbo dei "sogni nel cassetto": come quelle trat te da Disordine e dolore precoce di Thomas Mann e da Adrienne Mesurat di Julien Green. (E qui si avverte l'eterogeneità di registri e di sensibilità pre senti nelle scelte iniziali di due tipici autori neorealisti). Ai due si aggiungo no poi Ingrao e Puccini e insieme decidono di abbordare Verga. Si rivolgo no al padre di Puccini, che era stato amico dello scrittore siciliano negli ul. timi anni di vita, perché interceda presso il nipote di Verga per l'acquisto dei diritti. Si riescono ad avere quelli de L'amante di Gramigna e di Jeìi il pastore, ma non quelli de I Malavoglia che vengono rifiutati dopo una lun ga trattativa perché per gli eredi di Verga, pare che il nome di Visconti, al lora completamente sconosciuto, non rappresentasse una garanzia suffi ciente. L'amante di Gramigna è la prima sceneggiatura del gruppo, cui si è aggiunto intanto Mario Alicata, al quale è affidato il compito di "sicilia nizzare", insieme a Rosario Assunto, i dialoghi del film scritti in italiano. Quando già le basi del film sono gettate e sono stati fatti i sopralluo ghi tra Fondi e Itri, dove forse per ragioni economiche si pensa di ambien tare il film figurando la Sicilia, e già si fanno i nomi di Luisa Ferida per il ruolo di Peppa e di Massimo Giretti per quello di Gramigna, al Ministero della cultura popolare, di pugno dello stesso ministro Alessandro Pavolini, è annotato sul copione: basta con questi briganti!. Pavolini, nonostante le insistenze di Visconti, non rimuove il veto censorio preventivo e il film non si fa. Il gruppo è disperato. Mesi di lavoro e di entusiasmo buttati via. «Che si poteva fare d'altro? racconta ancora Puccini Renoir, in Francia, aveva prestato una copia dattiloscritta a Luchino del Postino di Cain. La leggemmo tutti, ci parve una materia suggestiva. Luchino entrò in contatto con l'avvocato Franchini, vediamo se si può fare un fi/m di questa storia, gli disse. Franchini ne parlò alla lei, la faccenda si mise bene, e noi comin ciammo a scrivere. Mario Alicata, che ci aveva dato fuggevolmente una 37 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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mano pei dialoghi di Gramigna, entrò stabilmente nel nostro gruppo: noi quattro, Alleata, Visconti, De Santis e io scrivemmo soggetto e sceneggia tura di Palude, poi Ossessione. Lavorammo duro. Poi Solaroli, cui la lei aveva affidato l'organizzazione del film, fu l'uomo che diede la spinta deci siva, ebbe fiducia in Luchino e in noi tutti, un incontro importante per il gruppo di Ossessione; e la sua fiducia seppe autorevolmente trasmettere, determinando così la partenza e la nascita concreta di Ossessione (2)». Con decisione audace Visconti chiede Anna Magnani per il perso naggio della protagonista, Giovanna. L'attrice era allora soprattutto ap prezzata nella rivista, ma in cinema aveva avuto soltanto ruoli di carattere e in teatro qualche successo di critica. Visconti deve lottare parecchio per averla, e quando ha finalmente l'assenso della produzione si reca a trovar la. Ma è un incontro drammatico, perché la Magnani, disperata, gli rivela di essere incinta. E Visconti allora ripiega sulla "riserva" Giara Calamai (che si rivelerà poi una splendida Giovanna). Il film finalmente prende il via e De Santis segue Visconti come aiuto regista. Ma le traversie del "gruppo" non sono terminate; altri "incidenti" scandiscono le tappe della realizzazione di Ossessione. Dopo la morte del padre di Visconti, avvenuta subito prima della lavorazione del film, comin ciano gli arresti, da parte della polizia politica fascista, dei componenti del la cellula comunista romana, di cui fanno parte parecchi dei redattori di «Cinema». Siamo ormai in pieno periodo di guerra. Ha scritto Ruggero Zangrandi nel suo Lungo viaggio attraverso il fascismo che nell'autunno del 1941, mentre la guerra volge a favore della Germania e sembra voglia concludersi con l'imminente vittoria di Hitler, gli uomini liberi sono assillati da cupi presagi e sentono imminente la trage dia già con la scomparsa di compagni caduti in guerra. Si va diffondendo in strati sempre più estesi dell'opinione pubblica, un disagio crescente verso l'ottimismo della propaganda ufficiale del regime e, di giorno in giorno, nuove leve della popolazione sentono che si sta combattendo per una causa persa. 1 giovani frattanto si interrogano febbrilmente sulla situazione del momento, si accorgono che la guerra è un "fatale sbaglio" ed è mossa da scopi ingiusti, e sembrano impazienti di far qualcosa per togliere di mezzo il fascismo. All'inizio, nel 1939 e nel 1940, la "guerra inevitabile" viene propagandata dal regime come un mezzo di difesa dei "paesi giovani e pro letari" contro le vecchie "plutocrazie". Adesso, l'estensione del conflitto, l'invasione di nazioni che non possono certo essere considerate "plutocra tiche", l'eroica resistenza di esse contro la barbarie nazista e la convinzione sempre più ferma che il "nuovo ordine" europeo che il nazismo instaure rebbe si rivela sopraffattore e odioso, produce anche nei meno preparati un senso di diffidenza e di avversione. La guerra mostra sempre più il suo vero 38 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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volto di oppressione impcrialistica voluta e diretta dai tedeschi. Molti par tono e soprattutto tornano senza più nessuna delle passate illusioni. E, an che se spesso in preda allo sconforto, esprimono il convincimento che non c'è ormai altro se non di farla finita con il fascismo (3). I militanti della cellula comunista romana finiscono per buona parte in carcere. Tra il 1939 e il 1940 vengono arrestati Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli e Pietro Amendola. Alla fine del 1942 tocca a Marco Cesarini e ai fratelli Dario e Gianni Puccini. Ecco come ricorda l'episodio Aldo Sca gnetti: «Era accaduto cosi: noi, la notte stessa che avevamo saputo che Gianni e Dario erano stati messi in carcere, ci eravamo presentati in reda zione, mandati da altri amici; io con questa faccia sempre perennemente ingenua, per cui pensavano che fossi il migliore da mandare in redazione. Arrivai e trovai Domenico Purificato e dissi a lui piano la cosa come era avvenuta. Il povero Domenico Purificato cominciò a sfogliare una serie di riviste, che stavano nell'archivio; non sapeva che pesci prendere. Alla fine, mi decisi ed entrai nella stanza di "Vi" [Vittorio Mussolini], il quale, appe na lo seppe, si meravigliò profondamente. Io seguitai a dirgli: «Vi ricorda te, stanno sempre qui dentro, sempre casa e rivista e rivista e casa; come è possibile che possano aver fatto qualche cosa?» Allora lui cominciò a tele fonare, e pensate con quale cuore io assistevo a queste telefonate. Poi Vit torio Mussolini esplose: «Macché casa e rivista e rivista e casa. Gianni Puc cini e Dario Puccini sono due comunisti!» (4) Dopo il loro arresto la discussione tra i redattori di «Cinema» e i collaboratori ed amici che gravitano intorno alla rivista, continua nelle case, specialmente in quelle di Visconti e di De Santis, visto che anche i Cine Guf (i cineclub della gioventù universitaria fascista) sono diventati luoghi sospetti. Ma la polizia vigila e appena qualche settimana dopo l'ar resto dei Puccini, viene preso Mario Alicata. Pietro Ingrao riesce a sfuggire per caso: è fuori Roma, ancora al suo paese, a Lenola; quando torna viene subito avvertito dall'organizzazione del partito e parte per Milano. Intanto la lavorazione di Ossessione è proseguita e De Santis resta accanto a Viscon ti come collaboratore principale, fino al montaggio del film, fatto con Ma rio Serandrei, e all'edizione definitiva. Quando il film viene finalmente proiettato, a Palazzo Braschi, i sospetti dell'OVRA si sono fatti ancora più forti nei confronti dei componenti del gruppo: viene perquisito il Cine Guf di Roma dove vengono trovati molti opuscoli di propaganda comunista portati là da Mario Calzini e Carlo Lizzani. Il locale viene chiuso. Ma il 25 luglio è ormai vicino. Dopo un anno dalla caduta del fascismo, nell'estate del 1944 Visconti verrà catturato dai repubblichini della famigerata banda Koch e riuscirà solo per caso a sfuggire alla condanna a morte. Come si può intuire da questa serie di elementi, il significato che Ossessione acquista nei riguardi del nascente neorealismo, e della fprma 39 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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zione artistica e politica di De Santis, va al di là del testo strettamente filmi co per dilatarsi a comprendere il contesto culturale e storico di quel signifi cativo periodo. Ossessione è stato felicemente definito il "25 luglio del cinema ita liano" e come tale non poteva non lasciare profonde tracce in tutti coloro che concorsero alla nascita di questa vera e propria "operamanifesto", antesignana di quel "cinema antropomorfico" per il quale i giovani di «Cinema», e in special modo De Santis, si erano battuti. Pur nella profon da diversità di temperamento e di stile, vedremo come certi grumi ferali e come certo primordiale vitalismo trascorreranno dall'opera di Visconti in quella di De Santis e quanto Ossessione sia stato prezioso di indicazioni per il regista ciociaro: per quella sorta di metafora trasgressiva dell'ideologia dominante che il film rappresentò e per l'operazione di "azzeramento e di ribaltamento" dell'immaginario cinematografico italiano preesistente che, con esso, Visconti riuscì a compiere. Negli ultimissimi giorni del regime fascista, il 15/16 Luglio del 1943, Rossellini da inizio alla lavorazione di Scalo Merci. Prende con sé come aiuto regista De Santis, che ha inoltre già collaborato con lui alla sceneggia tura del film. L'incontro di Rossellini con i giovani del gruppo di «Cine ma» è stato finora parecchio sottovalutato dalla storiografia neorealistica, oscurato dal sodalizio, certamente più significativo e progettuale, che essi costituirono con Visconti. A ben considerarlo, invece, quell'incontro, an che per l'apporto di recenti testimonianze, appare ugualmente rilevante sia ai fini dell'arricchimento esegetico del movimento neorealista, sia per quel lo che concerne le ragioni di alcune "conversioni" (di Visconti stesso e poi di De Sica/Zavattini) altrimenti incomprensibili, oltre che criticamente in giustificate. I contatti perciò tra il già maturo professionista Rossellini e la generazione molto più giovane legata a «Cinema» dimostra quanto produt tivo sia stato quel lento lavoro di ricerca, di verifica culturale e politica ini ziato all'interno del sistema fascista e poi approdato all'impegno resisten ziale. Anche nei confronti, e forse più indicativamente per questo, di un temperamento come quello di Rossellini, uno dei più alieni dalla diretta mi litanza politica e dall'immediata denuncia sociale, ma uno dei più accorti e sensibili a catturare i segni di nuovi valori e comportamenti. Diventerebbe in tal modo un po' meno "misterioso" e brusco quel suo passaggio così ra pido da un fronte di guerra (quella della retorica fascista di Un pilota ritor na e L'uomo dalla croce) ad un altro opposto (quella della Resistenza). È estremamente significativo che proprio due dei redattori di «Cinema», Mi chelangelo Antonioni e Massimo Mida Puccini, partecipino alfa sceneggia tura di Un pilota ritorna, il cui soggetto era stato scritto, guarda caso, dallo stesso direttore della rivista, quel Vittorio Mussolini che si firma all'occa sione, forse a causa della sua cronica timidezza, Tito Silvio Mursino. E non è di minore rilevanza il fatto che il protagonista del film sia Massimo Girot 40 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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De Santis con Visconti durante la lavorazione di Ossessione. De Santis con Rossellini sul set di Scalo merci (poi Desiderio}.
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ti, che oltre ad essere già un divo, per avere l'anno prima girato La corona di ferro con Blasetti con grande successo, diviene ora anche uno degli amici del gruppo di «Cinema», con cui stabilirà un vero e proprio sodalizio arti stico, tanto da diventare il Gino di Ossessione e uno degli attori preferiti da De Santis, nonché il protagonista del suo primo film Caccia tragica. Ecco allora come si spiega la presenza, tra gli sceneggiatori del nuovo film di Rossellini, di Giuseppe De Santis. Una presenza che può fornire parecchi elementi nella comprensione del salto di qualità già avvertibile nel soggetto del film. (Non nella realizzazione perché, come vedremo, le riprese saranno ben presto interrotte per il precipitare degli eventi e il film sarà poi conti nuato da Marcelle Pagliero e uscirà completamente trasformato rispetto all'idea originale, con il titolo Rinuncia e infine Desiderio, nel 1946, per dendo c ompletamente l a p aternità d i Rossellini). La storia è tipica di certi film dell'epoca, ispirata alla narrativa d'appendice, in cui la protagonista sedotta e abbandonata incontra il "grande amore" e si trova, al ritorno al paese, ad affrontare tutte le in comprensioni di una mentalità retriva. Ma in questo tessuto convenzionale gli sceneggiatori inseriscono alcuni elementi "trasgressivi": l'imprevisto suicidio della protagonista e la rappresentazione, in ambiente piccolo bor ghese e operaio, di una vischiosa "palude" morale del tutto insolita nel ci nema italiano di allora. Segni, come si può osservare, di quelle diffuse in quietudini che, sepolte da tempo, di lì a poco sarebbero smottate con tutta la loro sgradevole verità. La presenza di De Santis nel gruppo degli autori del testo originario del film, autorizza a ritenere molto probabile il trascor rere di certi cupi umori di dissoluzione e sconfitta, dal set di Ossessione a quello del primitivo Desiderio /Scalo merci. Significativa è questa recente testimonianza di Lizzani: «In anni di fronda, la conversazione, il dialogo, i contatti personali, sono un grande territorio di dibattito, un reticolo for mativo del quale alle generazioni successive resta quasi niente. Nel nostro caso un patrimonio che non è stato consegnato a documenti scritti, ma che ha contato per Rossellini, come per De Sica e Visconti, enormemente. Io ri cordo che noi più giovani avevamo una grandissima fiducia in questa guer riglia culturale condotta attraverso il dialogo e il dibattito privato. Le sera te passate a chiacchierare alla redazione di «Cinema», il sodalizio sul set di Scalo merci [ . . . ] , penso che abbiano dato a quel regista una spinta decisiva (5)». La breve esperienza della lavorazione del film è per De Santis, come naturalmente per Rossellini, parecchio fortunosa. L'ambientazione è pre vista nella zona di San Lorenzo a Roma, dove si trova lo scalo ferroviario, in quanto l'azione si svolge tra ferrovieri, popolane e operai, in esterni dal vero, ih vere case, strade, officine. Ma dopo qualche giorno dall'inizio del film il quartiere e lo scalo vengono completamente distrutti dal ter ribile bombardamento americano del 19 luglio del 1943. Il film è bloccato. Il soggetto per ragioni pratiche viene quindi trasformato e ambientato in 42 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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montagna; ai ferrovieri sono sostituiti dei boscaioli. La troupe si trasferisce allora in Abruzzo. Ma sopraggiunge l'armistizio dell'8 settembre. Rosselli ni rimane con tutta la troupe a Tagliacozzo, vicino alla linea del fronte, bloccato dai bombardamenti e dai rastrellamenti tedeschi. De Santis mi ha dato questa versione di quei momenti: «Nella realtà Rossellini abbandonò la lavorazione a Roma del film perché quando fu bombardato lo scalo di San Lorenzo, egli ritenne che Roma non era più una città sicura. E disse: Qua possono succedere cose molto gravi anche per l'incolumità fisica delle persone che stanno a Roma. E così preferì prende re quel poco di troupe che era disposto a seguirlo e si rifugiò in Abruzzo. Perché si pensava che gli alleati allora sbarcati a Salerno, ad Anzio, potes sero arrivare per prima da quelle parti ed era un'operazione di vero e pro prio salvataggio o comunque di collegamento. Io gli risposi: No. Questo non mi interessa. Oltre al mio lavoro nel cinema ho un'attività che è quella di militante comunista, ho il mio lavoro clandestino nella Resistenza da fare qui a Roma. Lui partì con quel poco di troupe e si rifugiò in Abruzzo dove poi non riusci a girare il film, a completarlo, perché anche l'Abruzzo non era certo molto sicuro. E io rimasi a Roma a fare il mio lavoro di parti giano.»
G.A.P. Sono gli ultimi mesi dell'occupazione di Roma. De Santis, Gianni Puccini (uscito di prigione), Aldo Scagnetti e Mario Socrate si riincontrano a Roma sia per motivi cospirativi che per progettare dei film da fare appena dopo la Liberazione. Scrivono un primo soggetto tratto da Maupassant, un Baule de suif ambientato tra Roma e il retroterra occupato dai tedeschi. Poi, loro quattro più Franco Calamandrei e Antonello Trombadori (che hanno già un ruolo di primo piano nell'organizzazione dei "gappisti" ro mani, i "Gruppi di Azione Patriottica" che operano azioni di guerriglia contro l'esercito tedesco) scrivono il trattamento e la sceneggiatura di G.A.P.. Vi lavorano nell'ufficio del produttore Guarini, marito di Isa Mi randa, che si trovava vicino a via Rasella, dove avverrà l'attentato contro un plotone di soldati tedeschi, al quale farà seguito la feroce rappresaglia delle Fosse Ardeatine. «Il giorno dell'attentato, mi precisa De Santis, fum mo avvisati dal Partito di non recarci in quell'ufficio, senza però che ci fos sero svelate le ragioni». E mi dice ancora a proposito di questa esperienza: «Io avevo partecipato, come ho detto, alla Resistenza, ma non avevo mai fatto parte dei G.A.P.. Ero un commissario politico del settore di piazza Bologna e mi sono occupato solo del lavoro politico, non di quello milita re. È chiaro che la cosa che ci venne in mente di fare lo facemmo già negli 43 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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ultimi mesi della Resistenza fu quella di scrivere qualcosa che riguardasse la Resistenza stessa. E una delle cose che ci sembravano più affascinanti per celebrare l'opera di questi compagni che rischiavano giornalmente la vita nelle formazioni dei G.A.P., fu quella di scrivere un soggetto che li avesse come protagonisti. Fu il primo film concepito sulla Resistenza, pri ma di Roma città aperta. Direi che il film di Rossellini^copiò, non so se vo lontariamente o a caso, perché faceva parte della Resistenza romana, l'epi sodio della donna, della Magnani, uccisa dai tedeschi, che nelle realtà si svolse in viale Giulio Cesare fuori dalla caserma dell'81 e fanteria, ed era uno degli episodi più importanti inseriti in G.A.P.».
Giorni di gloria. Il sole sorge ancora Subito dopo la Liberazione di Roma, De Santis realizza in équipe, con Mario Serandrei, Marcelle Pagliero e Visconti, Giorni di gloria, che rappresenta «il primo contatto del cinema documentario con la materia re sistenziale e la lotta antifascista (6)». Il film racconta, attraverso episodi ri costruiti ed altri girati dal vero, l'estendersi delle azioni partigiane durante l'occupazione nazifascista di Roma, le violente rappresaglie dei tedeschi, la strage delle Fosse Ardeatine, il processo e l'esecuzione dell'ex questore di Roma, Caruso, e del repubblichino Pietro Koch, l'aguzzino della Pensione Jaccarino in cui si trucidavano i partigiani. Quest'ultima parte viene girata da Visconti; mentre De Santis, mi ha precisato, gira un'azione dei G.A.P., completamente ricostruita, ed inoltre tutte le interviste ai parenti delle vit time delle Fosse Ardeatine, fatte un giorno delle commemorazioni. Giorni di gloria, pur nei suoi limiti di un linguaggio in larga misura ancora legato a cadenze e soluzioni tradizionali, mutuate dai cinegiornali degli anni prece denti, rappresenta un prezioso documento della lotta partigiana. «Ci con sente di raccogliere l'entusiasmo nella confusione, e come si configurano e si fanno leggibili questa confusione e questo entusiasmo nel film, in tutto il film, con i suoi pezzi ricostruiti e autentici (7)». L'anno dopo troviamo De Santis accanto a Vergano nella realizza zione de // sole sorge ancora, uno dei film più significativi tra quelli pochi in verità di argomento resistenziale, oltre che il primo sulla Resistenza nel Nord. Racconta Lizzani che subito dopo la Liberazione una colonia di scrit toricineasti, costituita da Vasco Pratolini, De Santis, Massimo Mida Puc cini, Lizzani stesso e Franco Calamandrei si reca a Milano appollaiata su un camioncino pericolante in cerca di lavoro, richiamata dalla rinascente editoria meneghina. È questa l'occasione per un singolare innesto cinema 44 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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tografico nel tessuto industriale milanese. Ed è qui che l'abilità e la spregiu dicatezza operativa di De Santis avrà modo di manifestarsi in pieno nel re cupero di un film che sta per andare a monte, che poi si chiamerà, appunto, II sole sorge ancora. De Santis e gli altri, consultati dal comandante parti giano Giorgio Agliani, il futuro produttore del film (che produrrà poi Cac cia tragica), si oppongono alla scelta come regista del film, di Goffredo Alessandrini, uno dei più compromessi negli ultimi tempi col fascismo, e appoggiano invece la candidatura di Aldo Vergano, allora a Milano con la speranza di poter fare qualcosa di nuovo in una zona cinematograficamen te ancora vergine. Grazie al gruppo, Vergano la spunta; e De Santis e Liz zani, cui si aggiunge intanto Guido Aristarco per la sua esperienza diretta della Resistenza nel Nord insieme allo stesso Vergano scrivono la sceneg giatura del film. De Santis chiama Libero Solaroli, uno dei più lucidi inge gni della nostra industria cinematografica, ad organizzare il film. Ma questi si ammala ed è costretto ad abbandonare la lavorazione. De Santis allora prende su di sé tutto il compito organizzativo, nonché quello di aiuto regi sta del film. «Fu nell'appello a Solaroli, continua Lizzani come in altre operazioni che presiedono alla costruzione di un film (la scelta dei collabo ratori giusti come degli "esterni" giusti) che De Santis dette prova, allora, di poter essere regista, e fu standogli vicino che io imparai a capire le neces sità per fare un film di saper coprire con un arco di esperienze complesse tutta l'area di creazione dell'opera cinematografica, che è fatto appunto, non soltanto artistico, ma condizionato ad una serie di fattori economici, concreti, prosaici che bisogna conoscere per poterli superare e sconfiggere o almeno neutralizzare (8)». È all'atto della sceneggiatura de // sole sorge ancora che De Santis suggerisce a Vergano quel modulo stilistico che sarebbe poi diventato fonda mentale nel suo discorso filmico: quello in cui è risolta la sequenza finale del la fucilazione del prete e del partigiano da parte dei tedeschi «costruita attra verso una successioneaddizione di voci e di immagini (il prete dice le litanie e i contadini rispondono prima uno poi tre dieci, cento, mille "ora prò nobis") che crea un evento visivo e sonoro sconvolgente, trasforma la pre ghiera individuale, via via, in rivolta collettiva e la rivolta in catastrofe (ma anche trionfo morale: i tedeschi infatti sparano per paura) (9)». Siamo nel 1946. De Santis è impaziente di dare consistenza ai suoi temi, di rischiare di persona, di "fare il cinema". Non avrebbe potuto farsi le ossa con uomini migliori di quelli cui è stato vicino. È pronto ormai ad affrontare la regia.
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Note (1) Gianni Puccini, Storia di «Cinema», in // lungo viaggio del cinema italiano, (Antologia di «Cinema» 19361943), a cura di Orio Caldiron, Marsilio, Padova 1965, pp. LXXXI1. (2) Ivi, pp. LXXXIVVVI. (3) Ruggero Zangrandi, // lungo viaggio attraverso il fascismo, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 23739. 4) Aldo Scagnetti, Testimonianza: I fermenti dì "Cinema" e "Bianco e Nero", in // cinema italiano dal fascismo all'antifascismo, a cura di Giorgio Tinazzi, Marsilio, Padova 1966, p. 116. (5) Carlo Lizzani, Introduzione a Riso amaro cit., p. 14. (6) Alfonso Canziani, Gli anni del neorealismo, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 147. (7) Ivi, p. 149. Canziani (e non è il solo) attribuisce erroneamente a De Santis (probabilmente fuorviato dai titoli di testa del film) la parte che descrive la ricostruzione del paese distrutto, che, secondo il critico, pur girata nella memoria del miglior cinema sovietico «non si sottrae all'enfasi retorica e vacua». L'osservazione è del tutto legittima. Ma De Santis non c'entra. (8) Carlo Lizzani, op. cit., p. 22. (9) Ivi, p. 19.
De Santis con Aldo Vergano (ultimo a destra) alla presentazione de // sole sorge ancora alla Mostra di Venezia.
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Temi e stilemi La terra Una delle caratteristiche più importanti del cinema di De Santis sta nell'aver posto al centro del suo interesse, l'universo della "terra". E la sua filmografia appare la più organica e coerente che ci sia, su questo tema, nel cinema italiano del dopoguerra (1). Gli elementi costitutivi di questo suo universo, sono quelli primigeni di ogni civiltà contadina: il lavoro e la sessualità. Nella maggior parte dei suoi film queste due componenti sono indis solubilmente legate, e riproposte nella loro unità originaria. E questo acca de quando egli resta all'interno, appunto, del mondo contadino. Qui il la voro assume il significato di una perenne lotta: nei confronti dell'elemento naturale, simboleggiato di volta in volta in "zolla", "fango" o "roccia". È lotta per il pane e il diritto al lavoro (Riso amaro) o per la sopravvivenza contro la furia delle bestie (Uomini e lupi), o per la conquista di un diritto civile (Giorni d'amore). Ma è anche lotta di classe: contro lo sfruttamento padronale e il lavoro nero (ancora Riso amaro), contro lo strapotere degli agrari e la cri minalità politica (Caccia tragica); contro le prepotenze dei grossi allevatori (Non c'è pace); contro un potere politico asservito ai potenti (La strada lunga un anno). La forza in grado di sostenere questa lotta è individuata da De Santis nell'unità dei lavoratori, come in un classico schema marxiano. Un'unità che i detentori del potere tentano ogni volta di impedire o di spezzare (indicativo in tal senso è in Riso amaro lo scontro tra le mondi ne "regolari" e quelle "clandestine", assoldate senza contratto e strumen talizzate in funzione antisindacale in una vera e propria "guerra di poveri"). I lavoratori sono rappresentati da De Santis come la classe che, pur tra grandi sforzi e contraddizioni, sta acquistando la coscienza di essere il nuovo soggetto storico emergente, in grado di rappresentare gli interessi 47 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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dell'intera società e di porsi a guida di essa. Le storie dei suoi film assumono quindi la forma di "apologhi" (spesso anche troppo didascalici) di questa graduale presa di coscienza col lettiva, della faticosa costituzione di questa unità di classe. Lo si riscontra appunto in ognuno dei suoi film "della terra", dove la risoluzione drammatica è anche la risultanza di quella direttrice ideologi ca. E cioè: solo organizzandosi tutti insieme i contadini del ravennate riusci ranno a sventare il colpo dei banditi assoldati dagli agrari, e a recuperare la somma rubata che serve per la loro cooperativa agricola (preciso elemen to, anche quello cooperativistico, di assunzione di responsabilità diretta dei lavoratori nella produzione del lavoro); solo grazie all'unità dei pastori del la campagna ciociara potrà avere successo la rivolta contro il potente abi geatore; e ancora, solo grazie alla mobilitazione di tutta una comunità nella costruzione della strada, i braccianti de La strada lunga un anno riusciran no a portare a conclusione il loro "sciopero a rovescio" e a vincere l'oppo sizione delle autorità. Ed infine soltanto la ricostituita unità tra "clandesti ne" e "regolari" permetterà alle mondine di continuare a lottare contro il padronato, spingendole a salvare il raccolto dall'allagamento e a recupera re il riso rubato dai banditi, che è qui considerato un prodotto e anche un indispensabile fattore di continuità del proprio lavoro. Questi motivi non hanno però soltanto una matrice ideologica; essi sono da ricercare anche, e forse innanzitutto, nelle "radici" personali di De Santis: nelle sue origini ciociare. È da esse che deriva la quasi fisica ade sione al paesaggio naturale, la partecipazione appassionata al mondo del lavoro, la sua predominante sensibilità per i valori della civiltà contadina, la rappresentazione da "canzone di gesta" delle lotte degli esclusi. E infine la necessità di porre al centro di questo universo conflittuale, la donna, con il suo dirompente erotismo e nel suo discriminato ruolo sociale. I suoi personaggi, essendo quasi sempre di estrazione popolare, so no caratterizzati pertanto secondo una tipologia di immediata decodifica zione. La scelta di alcuni protagonisti maschili (Giretti, Vallone, Mastroian ni, Armendariz, Cucciolla) è indicativa di come essi aspirino ad essere per sonificazioni simboliche (e quindi spontaneamente "divistiche") di quei valori positivi, quando non addirittura "eroici", così rispondenti all'im maginario popolare. Come lo è d'altronde la predilezione per certe presen ze femminili (la Mangano, la Bosè, la Pampanini, la Vlady, la Miletic, la Benussi) sul piano di una più marcata carica erotica. Personaggi (soprattut to gli "eroi" maschili) che hanno ancor più modo di rivelarsi grazie al loro corrispettivo "negativo", incarnato da alcuni "cattivi" classici del cinema di allora, come Folco Lulli, Andrea Checchi, o il Gassman prima maniera. L'altro significativo protagonista del cinema di De Santis, cui è affi data una precisa funzione dialettica, è il Coro: contadini, pastori, militari, 48 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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artigiani, dattilografe, mondine, reduci. Come nei western o nei romanzi popolari, i buoni e i cattivi, i prepotenti e gli oppressi si fronteggiano quali poli di un elementare conflitto di classe. E in queste "favole" si calano poi dichiarati assunti politici. Ispirandosi alle teorie del cinema sovietico post rivoluzionario, De Santis elabora così la sua concezione del cinema come "arte a tesi", come "rappresentazione di un conflitto in un'idea" e crea nel dopoguerra il primo esempio che si riscontri da noi di cinema militante. Con tutto il fascino della sua bruciante presa diretta sulla realtà, ma anche, come si vedrà, con t u t t i i rischi che esso comporta.
Eros e socialità L'altra novità del cinema di De Santis è l'introduzione, nel clima un po' puntano del neorealismo, di un dirompente elemento trasgressivo. L'attenzione al fatto sociale aveva quasi completamente estromesso nel cinema postbellico l'aspetto più privato, e più inquietante, dei suoi pro tagonisti: la sessualità; considerata fino ad allora solo sotto forma di rap porti di sentimenti. (Poche le eccezioni: Ossessione soprattutto, come prima esplosione, nel nostro cinema, distruttiva e anarchica del "desiderio"). La raffigurazione da parte di De Santis dell'eros come sesso, fisicità, in pieno clima postresìstenziale, da una parte irrita e allarma i pontefici della cultura marxista, dall'altra scandalizza i tutori della morale cattolica. Quasi nessu no avverte l'originalità della sua intuizione. Nel suo Ainour Érotisme ci Cinema Ado Kyrou, uno dei più autorevoli studiosi in materia, cosi si espri me: «Per De Santis, il mondo è complesso, continuamente cangiante; gli uomini soffrono e lottano per far cessare questa sofferenza, ma malgrado la loro sventura essi vivono avidamente, ammirando le danze delle donne, o amandole. La vita è una meravigliosa avventura durante la quale t u t t o può accadere, cosi semplicemente come nei romanzi popolari; gli eroi di De Santis però non aspettano per questo che le cose vadano loro incontro, per ché essi stessi vanno incontro alla libertà e all'amore. Le antiche epopee ri propongono i loro fasti sulla penisola italiana. [...] L'universo di De Santis, straordinario e multiforme, [...] riflette l'estrema ricchezza della realtà di oggi, l'amore in ogni sua forma ha un posto dominante, è legato alla realtà sociale, la condiziona o se ne lascia condizionare. [...] Con una purezza tut ta mediterranea, De Santis ha infranto le regole cinematografiche, ha osato fare dei film d'amore che siano allo stesso tempo, e senza dubbio proprio perché sinceramente erotici, dei film di rivendicazione sociale. Ha capito che gli amanti vivono in un mondo che è loro nemico, ha affermato che la 50 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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lotta rivoluzionaria non respinge l'amore come cosa secondaria e senza im portanza, ha congiunto l'uomo che ama e l'uomo che lotta in un solo esse re (2)». L'eros infatti, per De Santis, è spia e detonatore delle contraddizio ni della società; il rapporto tra i sessi ha un preciso riscontro nei rapporti di classe, contrappuntando l'itinerario dei suoi personaggi, nei quali le due sfere, quella del "privato" e quella del "sociale", non sono scisse ma inter feriscono tra loro condizionandosi l'un l'altra. De Santis è uno dei primi autori che tenta di affrancare le proprie creature dall'imperante moralismo repressivo secondo il quale il sesso è legittimato solo nell'ambito di un sof focante familismo, fuori del quale c'è solo "disonore" e "peccato". L'eros viene quindi liberato da queste incrostazioni mortificanti e riportato all'in terno di una comunità (quella contadina e proletaria) che, secondo il regi sta ciociaro, ancora ha la possibilità di viverlo in maniera laica, in una pie nezza di innocenza quasi pagana. Ecco perché i suoi film danno "scandalo", in un periodo in cui il moralismo comunista è perfettamente omologo a quello cattolico. Un po' quello che accade a Moravia, e che accadrà a Paso lini più tardi. In De Santis, infatti, l'etica con cui deve accordarsi l'eros, non è quel la cattolicofamilistica (che nello stesso periodo avvince, ad esempio, in una morsa di "catene" e "tormenti", le madri e le spose di Raffaello Mataraz zo) ma quella che regola i rapporti sociali dei suoi contadini, braccianti, pa stori. Il vero "peccato", in questo suo universo, è trasgredire alla propria natura e alla propria classe. In Caccia tragica, la donna che guida i banditi, Lili Martene (Vivi Gioì), che ricorda nell'abbigliamento e nei tratti mascolinizzati, l'agente del la Gestapo lesbica di Roma città aperta, è caratterizzata all'inizio soprattutto per via della sua ambiguità sessuale. 11 contesto in cui è collocata è quasi sempre carico di feralità e perversione, come a sottolineare uno stretto rap porto tra la sua devianza elica (oltre che una ladra, è stata anche collabora zionista dei tedeschi) e la sua devianza sessuale. E il suo rapporto con la giovane e innocente sposina Carla Del Pog gio, presa in ostaggio per sfuggire alla cattura, è t u t t o intessuto di latente omosessualità. Mentre quello con l'amante Andrea Checchi è fortemente conflittuale fino a raggiungere toni sadomasochisti. Una stretta relazione insomma, già intuita da De Santis, tra ideologie di morte (qui gli ultimi rigurgiti della delinquenza nazifascista) e perversio ne degli istinti; che anticipa il Visconti de La caduta degli dei e la Cavani de II portiere di notte. E, significativamente, la vera identità di Lili Marlene verrà scoperta attraverso il "segno" del suo tradimento, che mostra che è stata "rapata" (come si usava fare con le collaborazioniste), violentata ap punto nejla sua natura, sfregiata nella sua femminilità. 51 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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In Riso amaro invece, l'eros esplode in t u t t a la sua carnalità p r i m i t i va, e viene esaltato nella fisiologica felicità del corpo, fino a marcare lo stesso abbigliamento della protagonista (gli shorts e le lunghe calze nere). Non a caso è il ballo, il boogiewoogie iniziale, che rivela t u t t a la sessualità terrestre e allo stesso tempo mitica di Silvana Mangano sublimata in una sorte di Afrodite delle risaie. Un eros che, anche in questo caso, viene a corrompersi nel momento in cui entra in contatto con una "mitologia" estranea alla sua natura: quel la rappresentata dai nuovi modelli di comportamento diffusi dalla società americana. Avviene allora lo scontro tra la cultura contadinopopolare e la na scente civiltà consumistica. A spingere Silvana sulla strada della "perdizio ne" sarà proprio Vittorio Gassman, un gangster, tipico esempio di "euro peo americanizzato", fuggito dalla città, e che di quella porta t u t t i i segni negativi di disgregazione morale e sociale. E quello tra Silvana e Walter Gassman è un rapporto fatto di attrazione e repulsione insieme, da parte della donna, che arriva, anche qui, ad assumere connotazioni sadomaso chiste (le frustate e lo stupro che subisce sotto la pioggia). La popolana di venta "schiava d'amore" del gangster. Ossessionata e spinta dal "deside rio" ella tradisce le sue compagne e la sua classe. L'eros allora non può che volgersi in autodistruzione, in thanatos. Silvana uccide l'amante e poi si suicida. In Non c'è pace tra gli ulivi invece, il personaggio di Lucia Bosè se gue un percorso ideologico e comportamentale del t u t t o opposto, perché più rappresentativo della condizione della donna nella società contadina. Il suo itinerario sentimentale parte dall'acccttazione del matrimonio con il ricco possidente Folco Lulli, perché costretta a lasciare il giovane pastore Francisco che non ha nemmeno più le sue quattro pecore; una scelta impo sta dalla madre: a riprova che se patriarcale è l'ordinamento socioecono mico di quella società, matriarcale è spesso, invece, il ruolo educativo nella famiglia, responsabile del condizionamento, della subordinazione e della repressione sessuale della donna. Lucia sconta pertanto le contraddizioni e le ambiguità regressive connesse anche a certi costumi della società conta dina. Al "valore" della roba, del buon parlilo, la donna, cosi come in alcu ni strati della società borghese, è legata come un'anima moria, ed è vano tentare di sottrarsi ad una consuetudine cui per retaggio si è destinati. È la devianza sociale dell'eros, subordinato alla proprietà. Questa soggezione verrà spezzata quando Lucia capirà la natura della violenza di cui è vittima ilpastorebrigante Raf Vallone e il significato della "sua" legge (Chi si ri prende la roba sua non è ladro!). Violenza poi dilatata nel privato, dallo stupro che la sorella di Francisco, Maria Grazia, subisce da parte del possi dente Bonfiglio. Lucia diverrà quindi l'amante del bandito, contravverrà alla "norma" di quella società, per essere libera come donna e perché ha .52 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 03/12/2018 Le confidenze, i sogni, il riposo delle mondine, sottolineati dalla intimità dei « corpi ». Silvana Mangano e Doris Dowling in Riso amaro.
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preso coscienza della propria condizione. Maria Grazia, al contrario, schie randosi dalla parte di Bonfiglio, che pure l'ha violentata, si fa, come la Sil vana di Riso amaro, complicevittima del suo carnefice, che alla fine la uc ciderà. Sarà ['"agnello sacrificale" immolato, nel ripetersi di antichi con f l i t t i , come a ricelebrare una pagana Pasqua di sangue. In Giorni d'amore, invece, l'erotismo è t u t t o giocato in chiave allu siva, come un godimento continuamente interrotto ed eluso. La purezza di Angela, Marina Vlady, protratta fino alla soglia del matrimonio, è, an che qui, un atto di difesa nei confronti di una esclusione sociale. È, il suo, un antico bisogno di riconoscimento attraverso la legittimazione istituzio nale dell'eros in una comunità, come quella contadina, che ne riconosce la necessità, non tanto per osservanza verso norme formali, quanto per l'"uti lità" sociale ed economica che il matrimonio possiede, come cellula prima, rivitalizzante di un organismo cui assicurare continuità. L'unità tematica lavoroeros, anche se scossa da anomalie perturba trici, qui riesce ancora a ricomporsi e a ritrovare un suo equilibrio. Allorché invece si avvertono i primi segni di eclisse della civiltà con tadina, essa tende ad essere sostituita da un diverso conflitto, troppo carico questa volta di contrasti e lacerazioni per essere ricomponibile. Esso sorge quando la comunità contadinopopolare di De Santis viene a trapiantarsi e a scontrarsi con la società urbana, a tal punto che i valori positivi di quella, vengono ad essere contaminati, o addirittura sof focati dalla disumanità di questa. Si ripresenta allora, pur se con segni molto più vigili e ideologica mente diversificati, l'antica dialettica cittàcampagna, in cui la città è vista come universo negativo, congestione di masse anonime sradicate dalla pro pria terra. Un'antitesi riproposta però da De Santis secondo rinnovate ra gioni sorte dall'evoluzione della situazione storica italiana: quella che già nel corso degli anni cinquanta vede la sconvolgente trasmigrazione dalle campagne del Sud verso un Nord che sta per essere toccato dal miracolo industriale, e che è rimasta la sola speranza per una gran massa di disoccu pati alla ricerca di un lavoro o di una qualsiasi occasione per sopravvivere. E al regista ciociaro non resta che registrare gli inquietanti segnali premonitori della irreversibile perdita di identità della sua comunità conta dina. Sia dal punto di vista antropologico: come perdita di valori e modifi cazioni di comportamenti; sia da quello ideologico: come arresto della cre scita politica dei suoi lavoratori, compromessa dai veleni della nascente so cietà consumistica, e dal riprodursi di antichi squilibri sociali. La città è da De Santis come sul versante letterario ad esempio lo è per Pavese, e come lo sarà nel cinema, in una dimensione ancora più alie nata e simbolizzata, per Antonioni, Visconti e Fellini già da adesso vista come incapace di operare una sintesi di valori ideali urbanorurali; e quindi 54 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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•SÉ*
II «saltarello» di Lucia. Lucia Bosè in Non c'è pace tra gli ulivi. Angela: la sessualità innocente e pagana della società contadina. Marina Vlady in Giorni d'amore.
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in grado soltanto di disumanizzare l'individuo sia nella sfera sociale del suo lavoro che in quella privata del suo eros. Il passaggio pertanto dalla terra alla città è dato come una "caduta agli inferi"; cosi come, ad esempio, è simbolizzata dal crollo delle scale in Roma ore 11: «Nella collettività contadina il male può essere vinto ed estir pato ovvero espulso dal corpo sociale, nella città il male identificato"con il potere responsabile della catastrofe quel potere invisibile che appunto qui ha la sua sede opprime direttamente la scena e la distrugge. Contro di esso la solidarietà è ormai impossibile, irrappresentabile, perché la città è il luo go maledetto della frammentazione e della detribalizzazione. In questo sen so Roma ore 11 è l'opposto di Roma città aperta (3)». Il distacco'dalla Terra, insomma, come perdita della Madre. E come morte della famiglia comunità: un filo nero che lega la Silvana Melega e le altre ragazze di De Santis al giovane 'Ntoni di padron 'Ntoni Malavoglia, in una ideale conti nuità con il "Rocco" di Visconti dell'Italia delle speranze di ieri, e con i "tre fratelli" di Rosi, di quella disperata di oggi. Secondo De Santis, quindi, anche l'eros ha la possibilità di essere vissuto con pienezza e felicità se la realtà in cui si espande è in accordo con l'individuo. Quando invece viene a collocarsi nella città, che è realtà disgre gante, diventa infelicità, perversione, delitto. In Un marito per Anna Zaccheo, ad esempio, il problema erotico è legato, come in Giorni d'amore, al traguardo sociale del matrimonio. Ma è sintomatico che Anna Zaccheo non sarà in grado di rimuovere e superare felicemente tutti quegli impedimenti che l'ambiente le opporrà ad ogni svolta, tanto che il film terminerà con un fallimento. Il microcosmo picco loborghese cittadino in cui ella agisce concepisce la donna, infatti, come og getto erotico in vendita al migliore offerente e di cui si può approfittare perché essa è socialmente e sessualmente segnata da una inferiorità che nes suno si sogna di mettere in discussione. E quanto più l'eros è prepotente (e la sensuale bellezza della Pampanini è, a ragione, esaltata) tanto più esso si ritorce contro la stessa donna, e, da meraviglioso dono naturale, diventa dannazione sociale e sessuale. La sjessa tematica è al centro de La garsonnière, in cui, già nel titolo, si connota l'eros, attraverso l'ambiente in cui viene vissuto, di mor bosa clandestinità e di inganno dei sentimenti. Qui ['"apprezzato profes sionista" Raf Vallone insegue una impossibile felicità mediante un rappor to adulterino con la giovanissima e crudele nella sua disinibita sessualità Gordana Miletic (la cui conturbante e raffinata bellezza, anche qui, è vi sualizzata con goduta stupefazione). Il sogno naufragherà tra meschini ri catti sentimentali e finanziari cui il protagonista, ormai invischiato in un si stema di vita i cui soli valori sono il danaro e l'onorabilità professionale, non ha più forza di sottrarsi. 56 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 03/12/2018 Lucietta: un giocattolo erotico per una perversa scalata al potere. Femi Benussi in Uà apprezzato professionista di sicuro avvenire.
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La stessa corruzione morale e una identica connotazione di "malat tia" dell'eros sono un decennio dopo al centro di Un apprezzato profes sionista, dove il prezzo pagato dall'avvocato di successo Lino Capolicchio, è ancora più alto, perché più spieiato e cannibalesco è diventato intanto il codice di comportamento di certa borghesia degli anni settanta. Un prezzo rappresentato, questa volta, dall'impotenza, che è reale e metaforica in sieme: un eros che alla fine punisce e castra se stesso, forse anche per un inconscio senso di colpa generazionale (l'avvocato è di umili origini ed è stato educato secondo i sani principi del padre, un onesto ferroviere socia lista). La misura della perversità morale cui arriva il "professionista" è data dall'assassinio del prete suo compagno d'infanzia, di cui egli arriverà a macchiarsi pur di non perdere la "reputazione" alla quale sono legati il suo potere e la sua promozione sociale.
Il cinema e altri "inedia" Si è detto che il neorealismo ha avuto molte "anime". L'elemento che appunto diversifica gli autori che eticamente e cultu ralmente sono riconducibili a quel movimento, è dato dalP"anima", dalla concezione del cinema, cioè, di ognuno di loro. Per quanto riguarda De Santis, ad una prima lettura dei suoi film, considerato il contenuto popolare delle sue storie e il loro trattamento nar rativo, egli potrebbe apparire un regista tutto istinto, se non addirittura "nai'f". Ad un esame corretto, invece, attento alle forme e ai codici espres sivi da lui usati, egli si rivela uno degli autori italiani del dopoguerra tra i più raffinati, oltre che tra i più agguerriti sul piano delle teoriche cinemato grafiche e uno dei più vigili nei riguardi delle possibilità comunicative del "mezzo". Già la sua accezione di "realismo" (preannunciata, come s'è visto, nella sua giovanile attività di critico) è abbastanza indicativa. «La mia po sizione sul realismo ha precisato lui stesso implica una trasfigurazione della realtà. L'arte non è la riproduzione meccanica di semplici documenti. Ac contentandosi di piazzare la macchina da presa nella strada o fra i muri non si può pervenire che ad un realismo del tutto esteriore. Secondo me il realismo non esclude affatto una finzione, né t u t t i i mezzi classicamente ci nematografici». Lo stile di De Santis può essere ancor meglio definito proprio grazie ad alcune diversificazioni rispetto alla triade ViscontiRosselliniDe Sica/Za vattini. Già dall'inizio, infatti, si avverte rispetto a quelli una più marcata 58 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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ideologizzazione, una concettualità più studiata ed un linguaggio più ricco di mediazioni mediologiche. L'esperienza che De Santis percorre con la macchina da presa è op posta, ma anche speculare a quella di Rossellini. Ambedue si pongono costantemente il problema del "medium" e delle sue possibilità di riprodu zione del reale. Rossellini lo risolverà mediante un procedimento di "sot trazione", di scarto progressivo delle regole codificate dell'"ideologia del lo spettacolo", giungendo ad una sorta di spettrografia della realtà, di au topsia (4). Al contrario De Santis si servirà pienamente dello "spettacolo", delle sue tecniche e dei suoi artifici, per arrivare, mediante un processo di "accumulazione", ad una espansione linguistica che sacrifica "l'impres sione di realtà" a vantaggio della "finzione filmica". Lo stile di De Santis è inoltre agli antipodi rispetto a quello perseguito dal massimo teorico del neorealismo, Zavattini, con la sua poetica del "pedinamento" dei perso naggi, della cainerastylo, della macchina da presa cioè da maneggiare libe ra come una stilografica; così come è dissimile dal commosso documento e dal rifiuto pregiudiziale della spettacolarità del De Sica più rigoroso del pri mo periodo neorealista, poiché De Santis tende invece ali''iperbole, a\V a ti pico, al romanzesco. Ed infine l'elaborazione barocca o espressionista cui la sua scrittura sottopone i dati realistici, raggelati, a volte, fino alla stiliz zazione è all'opposto dell'aristocratico rigore del romanzo cinematografi co di Visconti. Il cinema di De Santis appare come una singolare e persona le rilettura, come si è visto, di tutta una cultura cinematografica: francese, tedesca, sovietica, americana; e di alcuni "generi" classici hollywoodiani: il western, la gangster story, il musical, Yavventuroso, il melodramma. Gli stilemi da essi attinti, una volta superate le secche di una certa loro tenden za a porsi come meccanismi puramente spettacolari, riescono a combinarsi in una sintesi delle più audaci ed originali e a dar vita ad una sorta di "neo realismo fantastico", in cui assume un ruolo non secondario la valorizza zione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa. Il gioco allora un po' compiaciuto delle "citazioni" (Eisenstein, Vidor, Renoir, Pabst, Welles) si dissolve e si trasforma nelle mani di uno dei pochi cinèfili di razza del cine ma italiano del dopoguerra, in autonomo e ricchissimo universo cinemato grafico. La scrittura di De Santis è caratterizzata inoltre da alcuni stilemi ti pici, riconoscibili in tutti i suoi film e, in special modo, in quelli di carattere corale. Frequente è l'uso dei movimenti di macchina, in cui "carrellate" e "panoramiche" si combinano a seguire e a sottolineare le azioni dei perso naggi; così come quello della "gru" che, con insolita audacia, è in grado di consentire il passaggio da un volto in primo piano fino ad un ampio totale, spaziando epicamente dall'alto. Ed è costante la ricerca della "profondità di campo" per mettere in risalto t u t t i gli elementi presenti nella scena, da quelli in primo piano fino ai più distanti, in modo da consentire l'applica 59 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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zione del montaggio interno e di un periodare senza l'uso di stacchi, attra verso lunghi "pianisequenza". E questo istintivamente, non essendo ci precedenti stilistici del genere nel nostro cinema e pochissimi in quello straniero (e forse qui ancora una volta è presente il ricordo di Renoir e so prattutto dell'Orson Welles de L'orgoglio degli Amberson, del 1942, parti colarmente ammirato da De Santis). Un uso però del pianosequenza non preziosistico ma funzionale a quella sua ricerca di una dimensione dello spazio più espansa, più vicina alla tridimensionalità, in grado di aggregare i tre elementi costitutivi del suo mondo poetico: individuocoralitàpaesaggio. La messa in scena di questo universo assume, quindi, carattere di forte pla sticità grazie appunto alla moltiplicazione dello spazio in senso orizzontale, sui cui tre piani (campo ravvicinato/medio/lungo) si dispongono in rap porto dialettico eroi/masse/scena; come in una tragedia classica o in una rappresentazione sacra. E qui il dramma viene recitato ogni volta in un di verso contesto realisticosimbolico che rappresenta le varie immagini del suo mondo contadino ("fango", "zolla", "roccia"). E, secondo un antico rituale, i conflitti individuali si accendono e si sciolgono quasi sempre ali' esterno, alla presenza di tutti, in una ideale agorà, legati come sono alle sorti di una intera collettività. A questa classicità di impianto fa riscontro nel cinema di De Santis, e ne costituisce uno degli elementi più affascinanti, tutta una serie, come si è detto, di richiami mediologici di modernissima acquisizione. La tecnologia dell'informazione entra nelle strutture dei suoi film, arricchendole all'interno della presenza di una molteplicità di segni prodot ti appunto dall'uso dei nuovi massmedia. Come la radio, ad esempio, che direttamente o attraverso i microfoni trasmette i messaggi della nuova cul tura di massa: comizi, discorsi ufficiali, canzoni, interviste, cronaca gior nalistica. Oppure si identifica addirittura con la vocenarrante fuori campo dello stesso regista. «Nella orale cultura contadina "in principio era il ver bo", e il narratoreDio. Quale migliore oggettosimbolo che la radio per esprimere l'idea di una cultura orale che si sta tecnologizzando (la radio è la parola tecnologica) (5)». È, inoltre, avvertibile addirittura l'anticipazione del mezzo televisivo, se non proprio come linguaggio, almeno come "pre senza": nelle interviste radiofoniche delle ragazze ferite, all'ospedale, in Roma ore lì, il microfono si trasforma in "occhio" della telecamera e il campo visivo si riduce alle dimensioni di un "monitor", simulando l'attua lità della presa diretta. Oppure, ancora, il mezzo cinematografico si model la su altri media, privilegiandone due che allora godevano di grande diffu sione popolare: il fotoromanzo e il rotocalco. In Riso amaro il fotoroman zo raffigura sia l'universo fantastico in cui sogna di proiettarsi la protago nista, sia lo stesso modello strutturale del film, che rappresenta infatti un' operazione in chiave mimetica, di adattamento del popolare genere lettera 60 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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rio (riproposta poi poco dopo da Fellini, ma in chiave critica, con Lo sceic co bianco). Riso amaro, per questo, è uno dei film più trasgressivi dei cano ni neorealistici e uno dei più carichi di ambiguità semantica, di possibilità di letture, in quanto i dati della sua verità oggettiva, sia storici che psicolo gici, si fondono fino a confondersi con il verosimile di un'altra dimensio ne: ì\ fantastico, altrettanto attendibile per la sua interna necessità e per la sua coerenza formale. (I "sogni" a fumetti di Silvana Mangano preludono ai "fantasmi" di Giulietta degli spiriti'!). Solo apparentemente è più dentro all'ortodossia neorealista un film come Roma ore IL Qui De Santis si è ispirato in maniera rigorosa alla cro naca, preoccupandosi di tenersi stretto ai fatti. Sintomatica, infatti, è la pre senza di Zavattini tra gli sceneggiatori, e tutto zavattiniano è il metodo dell' inchiesta cui il film si rifa, con le sue numerose storie ad incastro. Ma qui, poi, la "cronaca" e l'affettuoso "pedinamento" dei personaggi subiscono un'elaborazione espansiva modellandosi, ancora una volta, su un nuovo medium: il rotocalco. Roma ore 11 diventa allora un'inchiesta "ricostruita" secondo il punto di vista, l'impostazione sociologica e ideologica dell'auto re. Un esempio insomma di cinema "saggistico", strutturato come un cine giornale in cui l'attualità non è più immediata, ma "differita" e dove la "notizia" diventa "romanzo". In definitiva il cinema di De Santis rappresenta uno dei risultati espressivi più stimolanti e più ricchi di senso per la molteplicità dei codici utilizzati che il neorealismo raggiunse nella volontà di fornire un'estetica nuova a quella che era una nuova consapevolezza etica. Ed è anche «uno dei pochi tentativi non già di narrare il punto di vi sta del popolo, ma dal punto di vista del popolo (6)». A questo punto il ri chiamo a Granisci è d'obbligo. Il cinema di De Santis, infatti, si basa sulP applicazione, come già è apparso, di un progetto che stabilisce una stretta re lazione tra artistisocietàpubblico, e che costituisce una evidente e sorpren dente anticipazione di certe proposte da Granisci espresse soprattutto negli scritti poi raccolti in Letteratura e vita nazionale (1950). Con quelle proposte il cineasta fondano registrerà una singolare congenialità, ed esse varranno come una insospettataconferma di certe sue personali intuizioni, e serviranno a sostenere e a chiarire la propria poetica. Pur tenendo conto degli squilibri che si rinverranno nella testualità dei suoi film, De Santis certamente è riuscito a creare, in particolar modo nelle opere in cui è presente il tema della "terra", uno degli esempi più ori ginali ed affascinanti di epica nazionalpopolare del cinema italiano.
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La cultura contadina Nell'attingere alla cultura popolare, De Santis si appropria anche di elementi specifici legati a\ folclore contadino, considerato come il comples so di cognizioni che la sua comunità possiede, scartando gli elementi più decorativi e privilegiando quelli maggiormente rivelatori dei comportamen ti e della mentalità dei suoi personaggi. I suoi film della "terra" sono fortemente caratterizzati da alcuni dei segni più felicemente espressivi di questo patrimonio culturale. Uno di que sti, il più "elementare", è il canto. Esso parla della condizione dei suoi la voratori, esprime la loro v i t a l i t à , o più di frequente, aiuta a sopportare la fatica quotidiana ("canti di lavoro"). Ma può diventare anche mezzo di comunicazione, sostituendosi alla "parola", negata alle classi subalterne. In Riso amaro un'anziana mondina avverte la giovane compagna: «Non si parla sul lavoro. Qui si fa come in carcere: se vuoi dire qualcosa alle tue compagne, si può solo cantare». II canto collettivo infonde allora coraggio nei momenti di sconforto, oppure è usato scherzosamente, "a dispetto". O ancora e questa è la no vità esso ha valore funzionale, soccorre alla dinamica della storia. Come quando serve a nascondere l'aborto nella risaia di una delle ragazze, perché non venga licenziata. Allora diventa espressione di rìtualità collettiva, linguaggio specifi co delle classi subalterne. In momenti come questi, mediante uno stilema ricorrente in De Santis, esso scandisce, in progressione, il diagramma sono rovisivo attraverso il quale sono espressi alcuni conflitti della storia. Così come quando è rappresentato lo scontro tra le mondine "regolari" e le "clandestine": «Una, due, tre, dieci, cento voci secondo un ordito audiovi suale che cresce con regolarità fino a deflagrare in una "catastrofe" che fa emergere, dalla scomposizione violenta che subiscono i gruppi, prima ag gregati in forma rituale, e ora "esplosi", momenti di rivolta, di isteria col lettiva (7)». Anche in Non c'è pace tra gli ulivi il canto accompagna i momenti più lirici o risolve quelli più drammatici della vicenda. Canta Maria Grazia, la sorella del pastore Francisco, quando per la sua famiglia si prepara un altro inverno di fame: Jù cielo è chiuso / e chiusa è la montagna / le foglie morte càden 'a una a una... / e già se coglie l'ulive alla campagna /. Tra la nebbia risona la canzone /. Sempre 'sta nebbia ammore già se coglie / l'uli vo casca e all'albero le foglie... / Mentre i pastori durante la transumanza
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Lo sciopero « a rovescio ». Il lavoro come conquista della solidarietà di classe. Massimo Giretti ne La strada lunga un anno. Il luparo: un eroe che libera la comunità dai « mostri ». Yves Montand in domini e lupi.
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cantano: 'Opecuraro lascia la montagna / sennò l'inverno viene e nun se magna E ancora Maria Grazia, inquieta: Me s'è ficcata 'na spina agliu core / 'Napònto c'è rimasta e mi da guai / e mi da guai da matina a sera / E canta festoso il prepotente abigeatore Bonfiglio, in coro con i suoi servi, per festeggiare il "contratto" di matrimonio con Lucia, sottratta a Francisco, perché povero: E chi la pò compra' questa cavalla / Di tutta la montagna è la più bella! / Bonfiglio se l'è presa e se la tiene. / Nun t'accu sta', cumpa', so' fucilate'! / E se le pecore mo' so' duecento / 'stai tr'anno ce n'avrà tre volte tanto! / Bonfiglio mo' diventa jù cchiù ricco / se ficca tutti quanti dentro al sacco! / E poi all'improvviso la festa si guasta: ap profittando della notte, Francisco si è ripreso le pecore sue. Quando Bonfiglio sfila per le strade del paese, con il corteo dei pa renti, e con Lucia sottobbraccio per andare a sposarsi in chiesa, una voce sconosciuta, come un presagio, ripete il motivo che cantava Maria Grazia: Me s'è ficcata 'na spina agliu core... Ed ecco, subito dopo, la "scenata" che la ragazza fa a Bonfiglio sotto gli occhi della gente, accusandolo pub blicamente di averla sedotta; e il gesto di "rifiuto" di Lucia, che butta ai piedi dell'uomo i gioielli che ha avuto come dono di nozze. Ed infine, quando Bonfiglio scappa dopo aver ucciso Maria Grazia, i pastori che lo incalzano si passano la voce al canto di: Quanno jù pecu raro va alla caccia / scappa la lepre, scappa la lepre! / E mmo ' che la paura fa novanta / scappa la lepre, scappa la lepre! / Jù pecuraro punta jù fucile / scappa la lepre, scappa la lepre!.../ Ugualmente funzionale è la danza. Essa interviene quasi sempre a sciogliere un nodo narrativo: in Riso amaro il boogiewoogie di Silvana serve una volta a mimetizzare la fuga del ladro Gassman, un'altra a scate nare la lite tra lo stesso Gassman e il sergente Raf Vallone. Mentre il salta rello di Lucia Bosè in Non c'è pace consente al pastore braccato di scappare e alla ragazza stessa di raggiungerlo verso i monti, dopo aver distratto i ca rabinieri. È, la danza, «un rito erotico con precise funzioni narrative, an che essa "mithos" che si fa "epos" (8)». Anche un elemento della tradizio ne popolare religiosa, come la processione, sempre in Non c'è pace, non è inserito come semplice supporto scenografico, ma ancora come un inter vento "provvidenziale", questa volta del Coro: i pellegrini che si recano al Santuario della Madonna della Civita, sono il "deus ex machina" che con corre a salvare, anche qui, il pastore dalla cattura da parte dei rappresen tanti di una legge "forestiera". Un altro "rito", quello "sociale" del ma trimonio, diventa in Giorni d'amore, il nucleo stesso del film, scandendo la stessa struttura dell'opera, attraverso i vari "momenti" in cui la tradizione divide quel rito, dal "ratto" della sposa, alla necessità della dote. Anche il concetto di "giustizia" che regola i rapporti comunitari nella terra ciociara di De Santis, è quello appreso dalla tradizione: una giustizia vissuta come 64 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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espressione del diritto popolare, come "diritto vivente". Ed ecco il "pro cesso popolare" promosso da tutta la comunità dei contadini contro il re ducebandito in Caccia tragica, la "condanna" delle mondine nei confron ti di Silvana che le ha tradite, e la sua espulsione; il "legittimo diritto" che il pastore di Fondi rivendica di riprendersi il suo gregge dopo che gli è stato rubato, la "sentenza" dei pastori ciociari contro il ladro Bonfiglio. Com portamenti e codici morali dettati anche dall'antica diffidenza nei confron ti della giustizia "ufficiale" come, in modo esemplare, dimostra il proces so al "brigante" Raf Vallone vista come la "legge", estranea e sospetta, che sta sempre dalla parte di chi sa leggere e scrivere e di chi è ricco. E quin di la decisione di difenderli da sé i propri diritti; non come atto di ribelli smo ideologico negatore in assoluto dell'esistente, ma come affermazione spontanea della propria storia, come gesto simbolico di rifiuto di una con dizione di "diversità" e di "esclusione" cui si è soggetti: come atto di non riconoscimento di una Legge che, nel sostituirsi alla propria Tradizione, non è riuscita a farsi accettare come vera Giustizia. Una forma di rivolta, questa, che è una costante delle lotte contadine (in special modo della "guer ra sociale" del brigantaggio postunitario nel Meridione) e che rappresenta una manifestazione ancora anarchica della lotta di classe. Ed è anche sinto matica di quella sofferta e ostinata difesa della propria identità antropolo gica, che alcuni gruppi sociali sostengono nei primi momenti della nascita di una nazione. Il pastorebandito della Ciociaria potrebbe benissimo rien trare in quella numerosa schiera di "ribelli" individualisti del West, che popolano la leggenda degli albori degli Stati Uniti d'America. Un indivi dualismo però che negli eroi di De Santis è sempre sorretto dalla volontà di coinvolgere un gruppo, una comunità. Anche se poi la raggiunta solidarie tà di classe appare piuttosto come la gratificazione di una visione utopica, che come sbocco di un realistico percorso di affrancamento. Anche il décor, il contesto ambientale dei suoi film della "terra", rappresenta un tipico campionario iconografico della cultura contadina. Dagli elementi più secondari come i costumi: le pelli di pecora, i tabarri, i cappelloni, le "ciocie", le vesti nere delle donne; agli attrezzi da lavoro, agli utensili, ai carri, al bestiame, alle biciclette; ai momenti del lavoro stes so: la pastura, la semina, il raccolto, la mungitura, i lavatoi. E soprattutto agli ambienti, rappresentati nella loro autenticità: i campi, le montagne, le risaie, i borghi; quelli reali in cui si svolgono le vi cende. (Tutti elementi che, per molti versi, richiamano ancora l'iconografia del western. Cosi come lo richiamano alcune situazioni tipiche di quel!' epopea di "terre vergini", .quali il "duello", il "furto del bestiame", la "violenza sulla donna", la presenza del "treno" come simbolo della na scente industrializzazione). Significativa è anche la presenza del "coro", sempre costituito da
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gente del luogo, con una felice scelta dei tipi: in mezzo al quale agiscono in equilibrio tra realismo e fantasia attori di grossa impronta divistica. Questo tipo di recupero della cultura popolare precorre inoltre, a conferma della vitalità che essa possiede, certe opere del cinema nóvo lati noamericano, che se ne servono come di una analoga preziosa materia ispirativa, e che la ripropongono, allo stesso modo, come espressione di una società contadina ancora più arretrata, e dai conflitti di classe ancora più esplosivi. Basti pensare ai drammi epicodidattici del brasiliano Glauber Rocha quali // Dio Nero e il Diavolo Biondo (1964) e Antonio das Mortes (1968) dove i miti del Nordeste si fondono con l'ideologia rivoluzionaria, in un clima di rovente feralità e con un linguaggio di esuberante formalizzazio ne, cosi come in Non c'è pace tra gli ulivi; dove l'eroe solitario Antonio, mata dor de cangaceiros (giustiziere di banditi) è, come Francisco, il pastore del la Ciociaria, il portatore di una coscienza collettiva e di una utopia politica. Allo stesso modo del cileno Miguel Littin: quando narra, alla maniera delle antiche saghe popolari, il cammino della speranza e le lotte dei suoi conta dini per la conquista della Tierra prometida (1973), oppure la rivolta (e l'eccidio) di un villaggio di minatori contro i grossi proprietari e l'esercito in A ctas de Marusia ( 1975). Il termine "popolare" riferito al cinema di De Santis va considerato poi nella sua duplice accezione: esso, infatti, oltre a definire temi e moduli espressivi delle sue opere, sta ad indicare anche la loro destinazione e le possibilità di fruizione di esse. Uno degli apporti più originali e significativi da De Santis forniti al cinema italiano del dopoguerra, è l'intuizione del ci nema come "medium" allora dominante, l'avvertimento dell'espansione che esso andava acquistando a contatto con le nuove e molteplici tecniche della comunicazione di massa. De Santis tenta, infatti, di ridefinire lo spetta colo filmico, e di ritessere il rapporto troppo rigoristicamente rimosso dai registi neorealisti tra chi fa spettacolo e chi, appunto, lo fruisce; e quindi si preoccupa di "formare" un nuovo destinatario con cui avviare un dialo go civile, rinnovato non solo nei contenuti, ma anche nelle forme di rappre sentazione. Proprio perché il "pubblico" cui egli intende rivolgersi non è quello genericamente definito "medio" dai sedicenti esperti del boxoffice, ma è un preciso interlocutore, che coincide con la stessa classe cui appar tengono, in gran misura, i personaggi dei suoi film: quella cioè dei ceti popolari rurali ed urbani. Di essi egli tenta di farsi interprete, di essi media la cultura, ad essi ripropone le opere e i giorni della propria esistenza. De Santis parte, inoltre, da premesse ideologiche dichiarate che lo spingono a concepire le sue opere come delle tesi in cui calare la denuncia delle contraddizioni e delle ingiustizie di una società fondamentalmente an cora divisa, secondo lui, in sfruttati e sfruttatori: ed egli si schiera natural mente dalla parte degli "umiliati e offesi" da sempre vittime della Storia, fedele così ad una tradizione letteraria di stampo ottocentesco che da Victor 66 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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La famiglia. Silvana Pampanini in U» marito pur Anna Zaccheo. Silvana Mangano e Pedro Armendariz in Uomini e lupi.
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Hugo arriva fino alla Morante. In definitiva il suo è un esperimento diparte popolare" che troviamo riproposto ancora oggi nel nostro cinema, con Novecento di Bertolucci, ad esempio, magari con analoghe ambiguità e schematismi, nonostante il "populismo" più acculturato, ma anche con l'identica appassionata volontà di esprimere la "memoria storica" delle classi subalterne. Novecento, infatti, presenta diverse analogie tematiche e strutturali con i "film della terra" di De Santis: dalla impostazione da saga nazionalpopolare, al connubio di "storia" e "finzione", dal recupero del la cultura contadina, alla tematica erotica ad essa legata, e infine alla "ce lebrazione" del lavoro, della terra e della lotta di classe. Quello di De Santis, inoltre, è il primo tentativo di cinema "politico civile" da noi realizzato, che in seguito sarà ripreso da Lizzani, Rosi, Petri, Pontecorvo, Vancini e anche dai Taviani. Un cinema che, anche se non sempre è riuscito a realizzare il necessario accordo tra "ideologia" e "lin guaggio" (perché a volte ne ha registrato solo lo scarto), purtuttavia resta uno dei momenti di più preziosa testimonianza del rapporto tra arte e so cietà civile, che è uno dei semi più apprezzabili lasciati dal neorealismo. I modi, infine, della fruizione dei "messaggi" dei film di De Santis si pongono, oltre che in rapporto dialettico, come si è visto, con quella che è la nuova cultura tecnologica, anche, in alcuni casi, e paradossalmente, in contraddizione con se stessi, producendo perfino singolari germinazioni spontanee. I massmedia infatti non solo operano all'interno dei suoi film, ma addirittura riproducono nuovi modelli da imporre allo spettatore, che vengono immediatamente catturati ed usati ambiguamente dall'industria culturale. I "miti americani", ad esempio, presenti in Riso amaro, gene rano essi stessi nuovi miti: la mondina Silvana Mangano diventa un "sexsymbol" internazionale, ed inoltre l'"american way of life", il model lo di vita americano, sognato dalla protagonista e condannato dal regista invece di essere rigettato, cattura letteralmente il pubblico. «Riso amaro non mette in corto circuito l'industria culturale, piuttosto immette nel cir cuito dell'industria nuovi spettatori, spettatori neorealisti (9)». Insomma, De Santis è l'antesignano, tra i registi italiani del dopo guerra, di quel Cinema, che come una nuova sorte di mostro bifronte (Arte Industria), si riavvia ad essere l'immaginario collettivo per eccellenza della moderna mitologia dello Spettacolo.
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Note (1) Vedi Carlo Lizzani, // neorealismo: quando è finito, quello che resta, in // neorealismo cine matografico italiano, Atti del Convegno della X Mostra Internazionale del Nuovo Cinema (Pesaro), a cura di Lino Miccichè, Marsilio, Padova 1975, p. 99. (2) Ado Kyrou, AmourÉrotisme e Cinema, Eric Losfeld éditeur, Paris 1966, p. 33, mia tra duzione. (3) Andrea Martini e Marco Melani, "De Santis", in // neorealismo cinematografico italiano •cit.,p. 314. (4) Vedi Adriano Apra, Rossellini oltre il neorealismo, in // neorealismo cinematografico cit., pp. 288 e seg. (5) Andrea Martini e Marco Melani, saggio citato, p. 316. (6) Lino Miccichè, Un 'alternativa epica al neorealismo, in «Aut» n. 16, 18 maggio 1975. (7) Carlo Lizzani, Commento a Riso amaro, cit., p. 101. (8) Lino Miccichè, art. cit. (9) Andrea Martini e Marco Melani, saggio cit., p. 312.
Anna: un solare « oggetto del desiderio ». Silvana Pampanini in Un marito per Anna Zaccheo.
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Lotta di classe e utopia rivoluzionaria la prima trilogia della terra II clima culturale La prima "trilogia della terra" (Caccia tragica, Riso amaro, Non c'è pace tra gli ulivi) si inserisce in un arco di tempo (19461950) che coinci de con un momento particolarmente significativo della storia e del dibattito ideologico del nostro dopoguerra. Le tre opere di De Santis riflettono in maniera quasi paradigmatica due "questioni" significative e convergenti di questo arroventato periodo; e cioè: il riacutizzarsi dei c o n f l i t t i sociali nel Mezzogiorno, che vede l'estendersi delle lotte contadine con l'occupazione delle terre; e l'azione politica e culturale della sinistra e in particolare del Partito Comunista nei confronti di questo fenomeno. De Santis si trova ad essere, in questo periodo, il più accreditato esponente del P.C.l. tra i ci neasti italiani del dopoguerra, quello che, con più scoperta combattività, sembra sostenerne la linea di politica culturale; anche attraverso i suoi f i l m . Dal punto di vista culturale, appunto, la questione meridionale è al centro dell'attenzione del Partito Comunista perché rappresenta la tematica di fondo su cui innestare quella "via al realismo" percorsa, come si è visto, fin dagli anni trenta da una nutrita schiera di i n t e l l e t t u a l i . Realismo signifi ca, nel dopoguerra, soprattutto il mondo della terra, la civiltà contadina e, in generale, l'"immagine" del Meridione. E significa, in letteratura, Carlo Levi, Jovine, Alvaro, Rea, Bernari, Prisco, e poi Sotellaro; e, infine, Vitto rini e Pavese; anche per la loro riproposta del "profondo Sud" degli S i a t i Uniti. Ma è nell'arte figurativa che, più che altrove, si possono riscontrare indicazioni più decise e programmatiche, o addirittura vere e proprie di chiarazioni teoretiche a favore dell'"arte realista" e "nazionalpopolare". Già nel 1944, a proposito della mostra organizzata dall"'Unità" (a cui seguiranno delle altre, ciclicamente) sul tema: "L'Arte contro la barba ,rie", si parla di «artisti partigiani di un contenuto determinato, preciso, storicamente definibile come popolare e progressivo»; mentre dalle colon ne di «Rinascita» ci si batterà contro il perdurare del «trantran del manie 70 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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rismo naturalistico», delle «scenografie metafisiche» e del «decorativismo arcaizzante» dell'arte d'avanguardia, per propugnare «l'impegno attivo della libera fantasia creatrice figurativa». Tutte le manifestazioni pittoriche contemporanee erano già state oggetto di critiche impietose da parte di To gliatti e del suo portavoce in campo culturale, Emilie Sereni, i quali le rim proveravano di non riuscire a farsi capire dalla classe lavoratrice, e sostene vano un'arte ispirata ad un sano buonsenso, "facile" e "comprensibile" a tutti. Cosi come già da tempo si praticava nell'Unione Sovietica. Sottrarsi a questi "moniti", non era facile, almeno per chi non vo lesse rompere i rapporti col Partito. Tanto che quel movimento che nel Fronte Nuovo delle Ani, raccoglieva artisti delle più varie tendenze, dai neorealisti, ai cubisti e agli astrattisti, accomunati dalla simpatia politica per il P.C.I. o addirittura iscritti ad esso, non resse all'urto, e, appena dopo un anno dalla sua fondazione (1948), si sciolse. Sarà Guttuso a guidare l'ala del movimento che seguirà una proget tazione di arte realistica e "impegnata" (anche se molto più aperta e "spe rimentale" di quanto i funzionari del Partito si fossero augurati, accoglien do, ad esempio, la rivoluzionaria esperienza di Picasso). Mentre Paolo Ricci e Corrado Maltese, due dei più autorevoli critici d'arte dell'epoca di parte comunista, riproporranno, in alternativa a Picasso e alle nuove tendenze dell'Avanguardia, la lezione della pittura dell'Ottocento napoletano dei Gemito e dei Mancini, aggiungendo il richiamo al "realista" Courbet, il pittore legato alla Rivoluzione della Comune di Parigi del 1848. Nello stesso periodo, ancora su «Rinascita», appaiono degli articoli in cui si considera ormai inevitabile la congiunzione tra via italiana nazio nalpopolare e via sovietica, tracciata da Zdanov, "nazionale per la forma, socialista per il contenuto". Ed infatti gli anni 1946/53 sono per l'Unione Sovietica quelli della battaglia contro il "cosmopolitismo" e le "degenera zioni del decadentismo", e gli anni della diffusione in Occidente dello statuto del realismo socialista. Su questo retroterra culturale e ideologico il P.C.I. organizza il suo intervento di "direzione politica" degli intellettuali. In letteratura, ancora, Carlo Salinari (succeduto poi a Sereni nella direzio ne culturale del Partito) insieme a Luigi Russo, proclamano appelli per un "contatto sentimentale e ideologico" con le masse ed operano la netta di stinzione tra arte "aristocratica" e arte "popolare" (richiamandosi non a caso al Verga de I Malavoglia). Le riviste «Realismo» e «II Contemporaneo» tenteranno di fissare l'equazione addirittura tra realismo e democrazia, at traverso il recupero sia delle tradizioni nazionali che dei dettami del comu nismo internazionale. I pittori della nuova Scuola Romana daranno un contributo fonda mentale e di grande penetrazione pubblica a questo "movimento", attra verso alcune mostre itineranti sui luoghi di lavoro o delle lotte contadine. Guttuso andrà a ritrarre l'occupazione delle terre in Sicilia, Cagli la trage 71 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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dia dell'alluvione del Polesine, Omiccioli il lavoro dei tagliaboschi della Sila, Purificato i contadini della Ciociaria, Vespignani il lavoro degli ope rai romani. E i grandi scioperi di braccianti del 1949 vedono altri come Leoncillo, Attardi, Turcato, in giro a dipingere le loro condizioni. Iniziative che ricordano quel «reclutamento dei lavoratori d'urto nella letteratura» che si era avuto in Unione Sovietica, con visite alle nuove imprese industriali, alle fattorie collettive attraverso il paese, che la RAPP (l'associazione degli artisti proletari dell'URSS) aveva organizzato già negli anni trenta. È in questo clima che si inserisce già qualche autorevole voce di dis senso, come quella che emerge nella polemica tra Togliatti e Vittorini sulla impostazione della rivista «II Politecnico», già in odore di eresia; con Vit torini che dice: «Premere su Guttuso perché dipinga più in un senso che in un altro, non fa invece parte di nessun compito rivoluzionario». Un'affer mazione che dimostra quanto certi intellettuali comincino a diffidare di una politica culturale che pretende di stabilire addirittura le linee obbliga torie di una "estetica comunista". E di una interpretazione di Gramsci che viene "corretta" in funzione di un "ancoraggio storicistico" dove si tenta di far convivere Francesco De Sanctis con Stalin. Tanto che il concetto di intellettuale "organico" finisce per significare la pura e semplice strumen talizzazione degli artisti per un programma stabilito e diretto da una buro crazia di partito, spesso sorda agli stimoli culturali delle nuove discipline e delle nuove tendenze artistiche che, sia pure a fatica, stanno penetrando anche in Italia (1). E per di più soggetta alle direttive "estetiche" del realismo socialista di Zdanov. Era questi come è noto l'addetto di Stalin al settore della cul tura, il quale «avendo scoperto nelle categorie di "irrazionalistico" e di "decadente"1 il grimaldello per entrare in tutte le case delle vittime nate dopo il 1890, non solo ne usò per far strage in casa propria, ma ne rese ob bligatoria l'adozione anche da parte di tutto il movimento comunista inter nazionale. Lo zdanovismo era intriso di una forte vena nazionalistica, che per molti versi sembrava rimandare alla tradizione russa di xenofobia an tioccidentale grandeslava; esso inoltre predicava come contenuti dell'ope ra d'arte l'esaltazione dei "sani valori" della vita, della "patria socialista", dell'"eroismo della classe operaia", i quali finivano per comporre il qua dro di un'estetica (per così dire) ottimistica e autarchica (2)». Un'"estetica", i cui dettami erano più o meno cosi concepiti: «Allo scrittore si chiede di dimenticare e astrarsi dalla propria soggettività per im mergersi nel reale, ma poi, [...] al posto e col nome del reale gli si presenta un concentrato di ideologia elaborata dal partito ad uso e consumo delle masse, negando poi allo scrittore, "per via amministrativa", il diritto e ogni possibilità di denunciare anche il più macroscopico divario tra ideolo 72 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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già e realtà. Allo scrittore viene quindi lasciata tutt'al più la parte di "illu stratore" di verità che non è stato lui a scoprire e a creare, bensì il partito, il quale si attribuisce naturalmente il ruolo di ideologo universale e definitivo [...]; è evidente che per questa teoria non il socialismo è per l'uomo, bensì l'uomo è per il socialismo (3)». Mi dice De Santis in proposito: «Nel realismo socialista ci siamo sta ti tutti dentro. Tutti gli intellettuali comunisti dell'epoca, e non solo comu nisti, ma anche socialisti, e tutto il P.C.I.. Nel momento in cui noi e anche i dirigenti vedevamo ancora nell'Unione Sovietica l'ideale, il modello da rea lizzare e da seguire come sviluppo politico, storico e culturale, identificava mo anche il realismo socialista come l'arte da perseguire. Pochi di noi sono stati così avveduti che quello che si voleva dall'Unione Sovietica era un' operazione dittatoriale, tiranneggiante, di oppressione. Noi, essendo idea listicamente e ideologicamente legati a questo grande paese che aveva realiz zato per primo il socialismo, ne abbiamo subito anche i condizionamenti. Ma nelle mie opere il didascalismo politico non ha niente a che fare col realismo socialista. Era un mio modo di concepire certe strutture, e di con cepire i personaggi psicologicamente all'interno di queste strutture. Io ten devo ad un cinema semplice, chiaro, comprensibile a tutti. Il mio cinema a mio giudizio, anche se può dare questa impressione, non ha niente a che fare col realismo socialista, che è un'esaltazione di certi determinati canoni. All'interno dei miei film non è che trovi l'eroe positivosoltanto; trovi ad esempio in Caccia tragica Girotti che è l'eroe positivo, ma trovi anche An drea Checchi che è il bandito e che è l'eroe negativo che recupero. In Riso amaro trovi sì le mondine, però trovi anche Silvana Mangano che è un per sonaggio estremamente sfumato. In Roma ore 11 direi che le sfumature so no perfino troppe. Ma, comunque, dal realismo socialista siamo stati tutti quanti condizionati».
Le lotte contadine
Nel cinema del dopoguerra, dove prevale l'attenzione soprattutto verso i riflessi della tragedia bellica, in ambienti prevalentemente urbani o provinciali, o verso temi resistenziali, il regista che può considerarsi il più tenace e convinto elaboratore di quella cultura realisticomeridionalista è, appunto, proprio De Santis. E per questo, anche se non fosse stato comuni sta, avrebbe necessariamente dovuto incrociare la politica culturale del P.C.I.. De Santis, abbiamo visto, aderisce al partito inizialmente, spinto più da consonanze culturali e di interesse per certe problematiche sociali, 73 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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che non da convinte scelte ideologiche. Ma, di queste, vedremo, subirà ben presto le suggestioni. «Quello che è alla base del mio lavoro mi dice anco ra , che è la chiave a mio giudizio per penetrare a fondo in t u t t o quello che ho cercato di fare, è il Partito Comunista. Il mio incontro con il P.C.l. è stato determinante nella mia vita. Si dice che si può arrivare al P.C.l. da molte strade. La mia è una strada particolare. Ho incontrato il P.C.l. per ché era il depositario a mio modo di vedere, del mio mondo poetico. Io ho le origini che ho. Vengo da un paese, un paesone, di grossa civiltà contadi na. Ho avuto una vita in mezzo a operai, contadini, che hanno inciso pro fondamente su di me, soprattutto durante il periodo della mia adolescenza e in modo tale da farmi dedicare a questo mondo, che era quello che in qualche modo si era stampato dentro di me in modo così incisivo, la mag gior parte del mio lavoro. Ora cosa succedeva? Di t u t t o il panorama politi co italiano, anche nella clandestinità, l'unico partito che si occupasse di questi personaggi, operai, contadini, l'uomo della strada, il piccolo bor ghese afflitto da disperazioni non esistenziali ma materiali, era il P.C.l. All'interno di questo partito io ritrovavo la difesa di questi personaggi che erano i miei, di questo mio mondo poetico». Gli anni dal 1946 al 1950, l'arco in cui vengono realizzati Caccia tra gica, Riso amaro e Non c'è pace tra gli ulivi, coincidono, si è detto, con uno dei periodi più caldi delle lotte contadine, e questi film sono quelli che nel panorama del cinema italiano del dopoguerra riflettono in maggior mi sura quei clima e quelle lotte. Magari per molti aspetti in forma traslata: sia in ragione degli stilemi espressivi tipici di De Santis, sia, si può agevolmente ritenere, a causa dei condizionamenti del mercato, soggetto a sua volta alla vigilanza politicocensoria della classe dirigente democristiana che sta prendendo in mano il potere. Non riuscendo sempre ad imporre la rappre' sentazione dello scontro frontale, delle lotte per la terra, De Santis "ripiega" sui conflitti (apparentemente) più sfumati, e cerca di narrare le lotte sulla terra. Muovendosi in equilibrio tra la dimensione storica e realistica e quel la metaforica, egli tenta di fornire, riguardo a quell'arroventata questione, delle ragioni e dei ragionamenti. Ed è a questo punto che è difficile separa re cosi come sarebbe una forzatura farla coincidere come un calco ideolo gico la sua visione da quella della politica del Partito Comunista. Ricordiamo un momento, per meglio fissare la drammaticità del cli ma, alcuni dei fatti più caldi svoltisi in quegli anni. Dal 1944 al 1946 in tutto il Centrosud è un crescendo di occupazioni di terre, di assalti alle prefetture, agli uffici comunali, a quelli delle imposte, e, per contro, di una lunga serie di repressioni e di eccidi attuati dalle forze dell'ordine, dagli agrari e dalla mafia. 1944: i contadini tentano di invadere le terre dei Torlonia nel Fucino, dopo che gli agrari si sono rifiutati di rispet tare la legge Cullo sulla concessione delle terre incolte e mal coltivate. 1 74 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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