237 27 1MB
Italian Pages 248 Year 2008
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biblioteca dell’economia d’azienda
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Mario Minoja
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Responsabilità sociale e strategia Alla ricerca di un’integrazione
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Progetto grafico di copertina: mStudio, Milano Stampa: Selecta, Peschiera Borromeo (MI)
Copyright © 2008 EGEA S.p.A. Viale Isonzo, 25 - 20135 MILANO Tel. 02/5836.5751 - Fax 02/5836.5753 www.egeaonline.it e-mail: [email protected] 1ª edizione: giugno 2008
Tutti i diritti riservati. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, legge 22 aprile 1941, n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO – Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’Ingegno Corso di Porta Romana, 108 – 20122 Milano [email protected] – www. aidro.org
ISBN 978-88-238-4191-8
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A Francesca Romana, Giovanni e Sofia
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Indice
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Introduzione 1
2
3
4
9
Premesse, obiettivi conoscitivi e metodologia 1.1 Posizione del problema: la “domanda” di responsabilità sociale e il ruolo delle imprese 1.2 Gli obiettivi del lavoro 1.3 La metodologia adottata
15 22 22
La letteratura in tema di valori, responsabilità sociale, etica d’impresa: una rassegna critica 2.1 Il contesto teorico di riferimento: un modello a tre livelli 2.2 Premesse di valore, variabili e research questions 2.3 I gap teorici ed empirici da colmare
25 49 69
Le relazioni fra responsabilità sociale e strategia d’impresa: una tipologia 3.1 Le definizioni di strategia e di RSI 3.2 Gli archetipi di relazioni fra RSI e strategia 3.3 Gli archetipi individuati: un quadro sinottico 3.4 I limiti del modello proposto
75 77 117 122
Le relazioni fra vantaggio competitivo, profitto e “socialità” nelle imprese che integrano la RSI nella strategia 4.1 Le ipotesi esplicative delle relazioni fra corporate social performance (CSP) e corporate financial performance (CFP): lo stato dell’arte nella letteratura 4.2 Le relazioni sinergiche fra vantaggio competitivo e “socialità”
125 130
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Indice
4.3 Responsabilità sociale, profitto e valore per gli azionisti
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5
166
Il processo di integrazione della RSI nella strategia: un modello sistemico 5.1 Gli interrogativi di ricerca 173 5.2 Il modello utilizzato 174 5.3 Le variabili-livello 176 5.4 Le variabili-flusso 179 5.5 Le relazioni di causa-effetto che connettono le variabili del modello: quattro circuiti a retroazione 185 5.6 Considerazioni conclusive 217
Conclusioni
221
Bibliografia
227
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Introduzione
Sono passati sette anni da quando la Commissione Europea ha proposto una definizione di responsabilità sociale dell’impresa (d’ora in poi RSI) divenuta ormai riferimento costante sia per gli accademici, sia per coloro che operano nel mondo delle imprese. In questo periodo gli studi, le ricerche e i convegni su tale tema sono proliferati, così come le azioni e le iniziative da parte di imprese e associazioni. Ciò nonostante, si ha l’impressione che un’autentica cultura della responsabilità sociale non si sia ancora adeguatamente sviluppata e diffusa: molte aziende sembrano cavalcare l’onda della moda, altre sfruttano le opportunità offerte dalla responsabilità sociale a fini di comunicazione e di promozione dell’immagine, altre, ancora, vi si accostano per tutelare la propria reputazione e la propria legittimazione sociale. Poche sembrano, fino ad ora, le imprese che l’hanno “fatta propria”, integrandola nella propria funzioneobiettivo, nel proprio modo di essere e di funzionare, nella propria strategia. E’ partendo dall’analisi di queste ultime che gli aziendalisti possono dare un contributo significativo non solo all’avanzamento degli studi e della teoria, ma anche allo sviluppo di “buone pratiche” e, ancor più, alla messa in discussione dei modelli mentali diffusi che, di fatto, spesso impediscono al management di adottare approcci più proattivi, innovativi e quindi più efficaci e incisivi alla responsabilità sociale dell’impresa. Craig Smith, in un articolo del 2003 su California Management Review, sosteneva che non si poneva ormai più la questione “se” fare oppure no responsabilità sociale, ma “come” farla: oggi l’accento andrebbe posto invece sui risultati e sull’impatto che, tramite essa, le imprese hanno prodotto e sono in grado di produrre. Ma se l’obiettivo è l’efficacia – sia essa definita in termini di contributo alla riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali, alla tutela degli ecosistemi, al miglioramento del benessere degli stakeholder –, è necessario che le imprese facciano leva sulle proprie migliori risorse e competenze, quelle, cioè, alla base del loro vantaggio competitivo. D’altro canto, per assolvere la propria missione economico-sociale le imprese devono perseguire costantemente l’obiettivo della funzionalità duratura in condizioni di autonomia, obiettivo il cui raggiungimento è possibile solo attraverso la continua ricerca di un vantaggio competitivo sostenibile. E’ necessario domandarsi, quindi, se e in che modo la responsabilità 9 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
sociale, invece di essere un insieme di pratiche e di iniziative magari in sé lodevoli, ma sganciate dalla strategia, possa essere funzionale a conseguire tale vantaggio. Se le imprese sono chiamate a sviluppare approcci e iniziative alla responsabilità sociale realmente efficaci e incisivi, oltre che a perseguire un vantaggio competitivo sostenibile in un ambiente dinamico quando non discontinuo, la “sfida” per gli studiosi come per il management consiste nell’individuare le modalità e le condizioni per la messa a punto di strategie in grado di perseguire simultaneamente i due obiettivi: ne deriverebbero un utilizzo più estensivo e “produttivo” delle risorse e delle competenze aziendali e, presumibilmente, una riduzione della complessità che il management è chiamato a gestire. Lo studio dei casi esaminati in questo libro suggerisce che la ricerca di relazioni sinergiche fra “competitività” e “socialità” non può prescindere dalla presa di coscienza, da parte degli attori-chiave dell’impresa, della responsabilità sociale come opportunità, né dall’assunzione della “socialità” nella loro funzione-obiettivo, né, infine, da un orientamento appassionato e costante all’innovazione, alla sperimentazione, al cambiamento. E’ in tale dinamismo che, in ultima analisi, è racchiusa l’essenza stessa dell’integrazione della responsabilità sociale nella strategia. Il libro si articola in cinque capitoli. Nel primo ci si propone di mostrare, con l’ausilio di alcuni dati di carattere macroeconomico, l’entità e la rilevanza del problema delle disuguaglianze come determinante ultimo, insieme al consumo di risorse ambientali a ritmi superiori a quelli della loro rigenerazione, dell’istanza di responsabilità sociale rivolta alle imprese. Il secondo capitolo presenta una rassegna critica della vasta letteratura in materia di valori, responsabilità sociale ed etica d’impresa, allo scopo, da un lato, di contribuire a sistematizzare un insieme sterminato di contributi teorici ed empirici, dall’altro, di identificare gli eventuali gap – in termini di interrogativi di ricerca ancora inesplorati, di campi d’indagine, di approcci metodologici –, che gli studiosi e i ricercatori potranno cercare di colmare. Il terzo capitolo si sofferma sulle diverse relazioni che possono intercorrere fra la responsabilità sociale e la strategia d’impresa, in termini sia di “segno” – positivo o negativo –, sia di intensità delle relazioni stesse. L’interrogativo di ricerca sottostante l’identificazione e l’analisi di queste relazioni è, da una parte, in che modo l’assunzione di decisioni e il perseguimento di azioni e di iniziative improntate alla RSI influiscano sul vantaggio competitivo sostenibile, dall’altra, in che modo il vantaggio competitivo impatti a sua volta sulla capacità dell’impresa di soddisfare le attese dei suoi molteplici stakeholder. Una di tali relazioni, ossia l’integrazione della responsabilità sociale nella strategia, è oggetto specifico di analisi degli ultimi due capitoli. Nel quarto ci si sofferma sui processi e sui meccanismi che connettono vantaggio competitivo e “socialità”, oltre che sulle condizioni per la loro attivazione e il loro 10 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
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funzionamento, per concludere con una riflessione sul ruolo del profitto e del valore per gli azionisti nelle imprese che integrano la RSI nella strategia. Nel quinto, infine, ci si interroga sui processi e sulle condizioni che spiegano l’inclusione della responsabilità sociale nella funzione-obiettivo dell’impresa, sui processi e sulle condizioni che conducono un’impresa a integrare la RSI nella propria strategia, nonché sui processi e sulle condizioni che fanno sì che una strategia che integra la responsabilità sociale venga efficacemente realizzata. A tal fine ci si è avvalsi di un modello di analisi della dinamica della strategia fondato sull’analisi dinamica dei sistemi. Sotto il profilo metodologico si è fatto ricorso ad alcuni casi aziendali allo scopo di illustrare le proposizioni di carattere teorico e di trarre spunti utili per la formulazione di nuove ipotesi teoriche. Ringraziamenti Sono davvero molte le persone alle quali desidero esprimere la mia gratitudine per i contributi e per l’aiuto che, a vario titolo, mi hanno offerto e senza i quali non avrei potuto scrivere questo libro. Vorrei iniziare con tre ringraziamenti “speciali”. Il primo al prof. Vittorio Coda, che ha avuto l’intuizione e la lungimiranza di lanciare in Bocconi, ben vent’anni fa, quando ancora ero studente e in Italia si parlava poco di valori e di responsabilità sociale dell’impresa, un modulo di “valori imprenditoriali e comportamento strategico”, nell’ambito del corso di Strategia e politica aziendale. Quel modulo, che valorizzava e diffondeva il lavoro di ricerca che allora si svolgeva all’Istituto di Economia Aziendale Gino Zappa, gettò certamente un seme che ha contribuito alla nascita e alla realizzazione di questo libro. Quattordici anni dopo il prof. Coda mi ha incoraggiato a riprendere e a sviluppare quegli studi, vincendo anche le mie perplessità e le mie resistenze iniziali, che poggiavano sul timore che la responsabilità sociale fosse una moda passeggera, uno strumento di comunicazione e di promozione dell’immagine dell’impresa, sganciato dalla sua strategia e dal suo reale modo di essere e di funzionare. Il prof. Coda mi ha aiutato a comprendere che l’integrazione della responsabilità sociale nella cultura, nella strategia, nel quotidiano funzionamento dell’impresa è la sfida che gli imprenditori e i manager, così come gli studiosi e i ricercatori, sono chiamati a raccogliere. In questa integrazione si realizza la missione stessa dell’impresa come istituto economico-sociale. A Lui devo lo sviluppo di molte delle idee contenute in questo libro, maturate grazie a un dialogo e a un confronto continui. Un grazie di cuore al prof. Coda anche per la pazienza e la cura con le quali ha letto e corretto le bozze di questo libro, delle cui manchevolezze mi assumo naturalmente la piena responsabilità. Un grazie speciale va anche al prof. Maurizio Zollo e a tutto il team della ricerca “Response”, uno dei maggiori progetti di ricerca a livello internazionale sul tema della RSI, alla quale ho avuto l’onore di partecipare per tutto il triennio 11 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
del suo svolgimento. A Maurizio, che quel progetto di ricerca ha diretto con grande passione, va il mio grazie per avermi aiutato a crescere nel mondo della ricerca internazionale, dedicandomi tempo ed energie e offrendomi la possibilità di presentare con lui dei lavori di ricerca all’INSEAD di Fontainebleau e alle conferenze annuali dell’Academy of Management negli Stati Uniti e della European Academy of Business in Society. Fra coloro che hanno contribuito a quella ricerca non posso non menzionare i Colleghi Francesco Perrini, col quale ho condiviso lo studio e le riflessioni sul caso Sabaf, Antonio Tencati, Stefano Pogutz e Alessandro Zollo: un grazie anche a loro per il costante e fecondo scambio di idee, in essere ormai da quattro anni, sui temi della responsabilità sociale. Un altro ringraziamento “speciale” va, infine, agli amici del Dipartimento di Studi Aziendali dell’Università di Pisa, che mi hanno invitato a tenere un corso di Etica e valori aziendali, offrendomi in tal modo una grande opportunità di studio e di riflessione sui temi trattati in questo libro: al prof. Umberto Bertini, che per primo mi ha invitato e accolto; al prof. Silvio Bianchi Martini, per l’amicizia sincera, la stima e l’accoglienza affettuosa e generosa che sempre mi offre; ai colleghi Luca Nannini, Giulia Romano ed Ettore Spadafora, con i quali si è instaurato un dialogo che va oltre la collaborazione nella didattica e nella ricerca. Desidero ringraziare, inoltre, il prof. Mario Molteni per le varie occasioni di confronto, nelle quali ho potuto beneficiare della sua grande esperienza e competenza in tema di responsabilità sociale dell’impresa. Se in questo lavoro ho potuto esaminare alcuni casi aziendali di particolare interesse per i temi trattati lo devo alla disponibilità degli imprenditori e dei manager che mi hanno permesso di analizzare le rispettive imprese, rendendo disponibile molta documentazione e rilasciando interviste: Paolo Marcucci, presidente e amministratore delegato di Kedrion; il presidente Giuseppe Saleri e l’amministratore delegato Angelo Bettinzoli di Sabaf; Alessandro Malvaldi, responsabile dello stabilimento di Rosignano di Solvay Chimica Italia; Alessandro Profumo, amministratore delegato del gruppo UniCredit. Oltre che a loro, il mio più sincero ringraziamento va anche a tutti gli altri manager e ai loro collaboratori che ho avuto la possibilità di incontrare e di intervistare in queste quattro aziende. Un grazie anche agli amici e ai colleghi che hanno creato i contatti: in particolare, al prof. Elio Borgonovi, a Giorgio Carimati e ad Andrea Guidi. Desidero menzionare, infine, tutti i Colleghi dell’Istituto di Strategia e di Economia Aziendale dell’Università Bocconi di Milano e quelli della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Modena e Reggio Emilia, con i quali ho il piacere di lavorare e condividere tempo, esperienze e fecondi scambi di idee. Desidero infine esprimere un ringraziamento particolare, sincero e affettuoso, a mio padre, che, instancabile e paziente, mi offre con generosità il suo supporto ascoltandomi, consigliandomi e aiutandomi anche operativamente in numerose forme e circostanze. 12 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
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Questo libro è dedicato a mia moglie Francesca Romana e ai miei bambini Giovanni e Sofia: un modo certo inadeguato, ma profondamente sentito, per compensarli del tempo e delle energie che ho sottratto loro e per ringraziarli del calore e dell’affetto che quotidianamente e generosamente mi rinnovano.
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1.
Premesse, obiettivi conoscitivi e metodologia
1.1 Posizione del problema: la “domanda” di responsabilità sociale e il ruolo delle imprese Molto si è discusso e scritto in tema di RSI. Nella gran parte dei contributi su tale tema ci si interroga se sia giusto e opportuno che l’impresa, in relazione alla sua natura e ai suoi fini, si adoperi per conseguire finalità di tipo sociale; se sia in grado di farlo; sulle motivazioni che spingono un’impresa ad adottare comportamenti socialmente responsabili; su come promuovere al suo interno tali comportamenti; se la RSI produca o meno, e in che misura, un ritorno in termini di profitti, valore per gli azionisti, competitività; se vi sia – e in caso affermativo, come possa essere determinata – una “soglia”, raggiunta e superata la quale un’impresa possa dirsi socialmente responsabile; e così via. Prima di avanzare ipotesi sul piano teorico o di fornire suggerimenti sul piano manageriale in merito al modo in cui un’impresa dovrebbe agire per dirsi socialmente responsabile, è opportuno domandarsi quali sono i problemi alla cui soluzione le imprese potrebbero – o dovrebbero – essere invitate a contribuire. Solo dopo aver messo a fuoco tali problemi è possibile riflettere su quali soggetti e quali tipologie di organizzazioni, in relazione alle rispettive finalità istituzionali, nonché alle capacità strategiche e operative, siano meglio in grado di contribuire, se non a risolverli, quanto meno a impedirne o a rallentarne l’aggravamento o, se possibile, a prevenirli. La variabile discriminante per valutare se e come un’impresa dovrebbe intraprendere iniziative di responsabilità sociale e per valutarle una volta attuate è dunque la loro efficacia, ossia il loro impatto, potenziale nel primo caso, effettivo nel secondo, sui problemi alla cui soluzione esse sono rivolte. Un tale approccio è tutt’altro che diffuso in letteratura, ma non del tutto trascurato, tant’è che due autori, Margolis e Walsh (2003), lo giudicano imprescindibile se si vuole trattare il tema della responsabilità sociale dell’impresa in modo pragmatico e, soprattutto, orientato all’efficacia. Essi, infatti, affermano che la ricerca dovrebbe innanzi tutto porsi l’obiettivo di 15 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
comprendere quali impatti l’azione dell’impresa produce effettivamente sui mali che affliggono la società. Ma, per fare ciò, è necessario partire dalla messa a fuoco di tali problemi, per poi adottare un approccio descrittivo delle iniziative promosse dalle imprese per farvi fronte e, infine, risalire induttivamente alle condizioni e ai processi che ne rendono efficace l’azione. Ebbene, per delineare un quadro sia pure di prima approssimazione dei problemi sui quali l’impresa socialmente responsabile potrebbe essere chiamata a intervenire, si dovrebbero tenere presenti almeno quattro dimensioni:
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a) b) c) d)
la tipologia; l’ambito geografico di riferimento; l’entità (o la gravità); la dinamica evolutiva (storica e prospettica).
a) Quanto alla tipologia, a un primo livello di analisi due sembrano essere i grandi ordini di problemi dai quali tutti gli altri discendono o di cui sono una specificazione: quello dell’ineguaglianza nella distribuzione delle risorse economiche e quello del deterioramento ambientale. L’approccio definito triple bottom line 1 distingue i problemi di natura economica, quelli di natura sociale e, infine, quelli di carattere ambientale o ecologico. Identificare in modo esaustivo a un livello di maggiore dettaglio i problemi riconducibili alle tre diverse categorie è quanto mai difficile, data la molteplicità di fattispecie riscontrabili nella realtà. Solo a titolo esemplificativo, i problemi di natura economica consistono precipuamente nella povertà e nelle connesse forme di disuguaglianza in termini di occupazione, redditi, ricchezza e accesso alle risorse. Nella sfera sociale rientrano una gamma estremamente vasta di problemi che vanno dall’analfabetismo alla schiavitù 2 , dal terrorismo alla delinquenza, dal lavoro minorile al mancato rispetto del principio delle pari opportunità, dalla diffusione di malattie a elevato costo sociale quali l’AIDS alla corruzione, e così via. I problemi di carattere ambientale attengono, in ultima analisi, alle molteplici forme nelle quali le risorse naturali sono sfruttate a ritmi superiori a quelli ai quali si rigenerano. Va da sé che si tratta di problemi fra loro interconnessi da relazioni molteplici – solo per fare alcuni esempi, l’analfabetismo è in qualche misura conseguenza e causa al tempo stesso di povertà, lo stesso dicasi per la delinquenza, mentre problematiche di carattere ecologico quali l’incontrollato sfruttamento di risorse non rigenerabili possono avere impatti economici di entità potenzialmente elevata anche se incerta –, quando non difficili, in concreto, da attribuire univocamente a una delle tre categorie: la disoccupazione, ad esempio, è un problema che ha una duplice valenza, economica e sociale. Ciò nondimeno, i tre ordini di problemi qui identificati richiedono approcci, 1 L’espressione triple bottom line, coniata da Elkington (1997), indica un approccio alla rendicontazione delle performance aziendali che integra la dimensione economica con quella ambientale e quella sociale. 2 Bales nel 1999 stimava che nel mondo vi fossero ben 27 milioni di persone in condizioni di schiavitù!
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Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
competenze e condizioni diverse per essere affrontati in modo efficace, il che ne giustifica, almeno sul piano concettuale, la distinzione. b) L’ambito geografico nel quale i problemi economici, sociali e ambientali si manifestano non è solo quello globale, o planetario, a cui si fa più spesso riferimento quando si riflette sul tema della sostenibilità: alcuni di essi possono avere, ad evidenza, manifestazione e rilevanza locale. Gli stessi problemi che, per dimensione e impatto potenziale sulla sostenibilità, sono giustamente trattati come globali sono in alcuni casi il risultato della sommatoria o comunque dell’interazione di una molteplicità di azioni e di comportamenti “locali”, in grado di produrre, singolarmente, impatti modesti. Si pensi, ad esempio, al progressivo innalzamento della temperatura terrestre a seguito dell’effetto serra, considerato una grave minaccia per l’ecosistema del Pianeta, alla cui origine sembrano esservi le emissioni inquinanti da parte di una miriade di soggetti. Il problema della povertà e della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e delle risorse non si manifesta soltanto fra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo, ma altresì all’interno dei Paesi economicamente più evoluti: diversi Autori 3 , per esempio, hanno tracciato un quadro della disuguaglianza negli Stati Uniti. In ogni caso, riconoscere che problemi di natura ambientale o sociale possano avere carattere o quanto meno origine locale implica che la responsabilità sociale non possa essere esclusivo appannaggio delle imprese di grandi dimensioni o addirittura delle multinazionali, ma è questione che chiama in causa anche quelle di piccole o di medie dimensioni, nonché le abitudini di consumo di più o meno ampi strati di popolazione. La valutazione della complessità e dell’urgenza di un problema, così come degli approcci e dei soggetti che possono essere chiamati ad affrontarlo, non può prescindere dall’entità e dalla dinamica del problema stesso. c) L’entità (o la gravità) ne esprime la dimensione statica, ovvero riferibile a un dato istante temporale. Il suo corretto apprezzamento dipende, naturalmente, dalla disponibilità di dati e di informazioni, di tecniche e di strumenti di misurazione efficaci e affidabili, oltre che sufficientemente omogenei e uniformi da consentire confronti significativi nel tempo e nello spazio. Per dare un’idea dell’entità del problema della disuguaglianza 4 economica e sociale fra i diversi Paesi, si riportano in tabella 1.1 alcuni dati emblematici tratti dalla banca dati della Banca Mondiale, relativi ai 15 Paesi più popolosi e con l’aggiunta, come termini di confronto, di Francia, Regno Unito, Italia e Spagna. In tali Paesi risiedono oltre quattro miliardi e mezzo di persone, pari al 70% circa della popolazione mondiale. Si tratta, evidentemente, di poche variabili scelte fra le diverse decine contenute in tale banca dati, ma comunque sufficienti a delineare un quadro della disuguaglianza e a far cogliere l’entità e la gravità del fenomeno. Sotto un profilo strettamente economico, il reddito pro capite più elevato, quello degli Si vedano, in particolare, Galbraith (1998), Firebaugh (1999), Mishel, Bernstein e Schmitt (1999), Conley (1999). 4 Per un’analisi storica delle origini della disuguaglianza si veda Landes D. S. (1998), The wealth and poverty of nations: why some are so rich and some are so poor. 3
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Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
Stati Uniti, supera di oltre 99,4 volte il reddito più basso, rilevato in Bangladesh. Divari significativi si osservano anche con riferimento a variabili di carattere sociale (il tasso di analfabetismo) e socio-sanitario (la mortalità infantile), mentre persino eclatante appare il differenziale in termini di consumo di energia elettrica pro capite (107,8:1). Quest’ultima variabile è di particolare interesse in quanto fornisce, simultaneamente, una misura della produzione di ricchezza – la quale è ad evidenza collegata al consumo di energia – e del consumo di risorse, necessarie per la produzione dell’energia elettrica. Tabella 1.1
Alcuni dati emblematici del divario fra Nord e Sud del Mondo.
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Popolazione (milioni di abitanti) (2006)
Reddito pro capite ($ USA corrente) (2006)
Mortalità infantile (sotto i 5 anni) per 1.000 nati vivi (2006)
Tasso di analfabetismo (% della popolazione di 15 anni e oltre) (2004)
Consumo di energia elettrica (Kwh pro capite) (2005)
Cina
1.312
2.000
23,7
9,1
India
1.110
820
76,4
39
481
299
44.710
7,6
n.d.
13.648
Stati Uniti
1.781
Indonesia
223
1.420
33,6
9,6
509
Brasile
189
4.710
20
11,4
2.008
Pakistan
159
800
97,2
50,1
456
Russia
143
5.770
15,8
0,6
5.785
Bangladesh
156
450
69,2
n.d.
136
Nigeria
145
620
191,4
n.d.
127
Giappone
128
38.630
3,6
n.d.
8.233
Messico
104
7.830
35,2
9
1.899
Filippine
86
1.390
31,6
7,4
588
Vietnam
84
700
16,8
9,7
573
Germania
82
36.810
4,5
n.d.
7.111
Egitto
74
1.360
35,3
28,6
1.245
…
…
…
…
…
…
Francia
62
36.560
4,3
n.d.
7.938
Regno Unito
61
40.560
5,7
n.d.
6.254
Italia
59
31.990
4,2
1,6
5.669
Spagna
44
27.340
4,4
n.d.
6.147
99,4
53,2
n.s.
107,8
Rapporto max. / min.
(Fonte: World Bank)
d) La dinamica riguarda invece la direzione e la velocità con la quale un problema evolve nel tempo. La velocità, a sua volta, concorre con la dimensione in un dato momento del problema stesso a determinarne l’urgenza e quindi la necessità di approntare degli interventi.
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Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
Per rimanere in tema di disuguaglianza, la tabella 1.2 mostra la dinamica di medio-lungo periodo della povertà in alcune grandi aree del Mondo, espressa dal numero e dalla percentuale di persone che vivono con meno di due dollari al giorno 5 . Tabella 1.2
La dinamica di medio-lungo periodo della quota di popolazione che vive sotto la soglia di povertà dei 2$ al giorno (a parità di potere d’acquisto 1993) (dati in %). 1981
East Asia & Pacific
1993
1999
2002
2004
84,8
68,5
65,0
49,2
41,7
34,9
98,5
86,3
88,6
72,6
65,1
58,1
di cui Cina (urbana)
47,2
16,5
15,4
7,7
3,4
2,5
Eastern Europe & Central Asia
4,6
3,1
16,5
18,3
12,9
9,8
di cui Cina (rurale)
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1987
Latin America & Caribbean
28,5
29,6
24,1
25,2
24,7
22,5
Middle East & North Africa
29,2
24,3
22,0
23,6
21,1
19,7
South Asia
88,5
86,6
82,2
80,4
79,7
77,3
di cui India (rurale)
92,9
91,5
91,5
89,6
88,6
87,7
di cui India (urbana)
75,7
73,3
67,9
64,5
62,8
61,5
Sub-Saharan Africa
74,5
77,3
76,2
76,0
73,8
72,0
Totale
67,1
60,1
59,4
54,1
50,5
46,8
(Fonte: World Bank)
I dati riportati mostrano che, nell’arco del periodo 1981 – 2004, la quota di persone che vivono con meno di due dollari al giorno si è significativamente ridotta (da 67,1% a 46,8%). Tale evoluzione, per altro, risente di dinamiche molto diverse nelle differenti aree e, soprattutto, della veloce e intensa crescita economica della Cina, dove la quota della popolazione in condizioni di povertà nell’accezione qui considerata si è quasi dimezzata nelle aree rurali e si è quasi annullata nelle aree urbane. Infatti, escludendo dal computo la Cina, si osserva come la quota di popolazione che vive con meno di due dollari al giorno si è sì ridotta, ma in misura significativamente inferiore: dal 58,6% del 1981 al 51% del 2004. In valore assoluto, per altro, il numero di persone che vive in tali condizioni è rimasto sostanzialmente invariato: da 2.339 milioni nel 1981 a oltre 2.309 milioni nel 2004. Inoltre, a fronte del sensibile miglioramento delle condizioni economiche della Cina e dell’Estremo Oriente in generale, si registra un trend non lineare in Europa Orientale e in Asia Centrale e un ulteriore arretramento dei Paesi sub-sahariani. La situazione è migliorata nel Sud dell’Asia – dove oltre due terzi della popolazione appartiene all’India –, ma rimane in assoluto estremamente grave. In India la quota di popolazione in condizioni di povertà si è ridotta in misura molto inferiore rispetto alla Cina: Si tratta di 108 Paesi, la cui popolazione complessiva era di 4.997 milioni nel 2004 e di 3.441 milioni nel 1981. Per un approfondimento sul tema si vedano Chen e Ravaillon (2004). 5
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anche nelle zone urbane, dove la situazione è meno grave che in quelle rurali, oltre tre quinti della popolazione sono al di sotto di tale soglia ancora nel 2004. La dinamica della povertà e della disuguaglianza suggerisce dunque che il problema è particolarmente grave nel Sud dell’Asia e nell’Africa Sub-Sahariana, mentre è velocemente regredito in Cina, grazie al rapido e per certi versi imprevedibile sviluppo economico. Ma proprio quest’ultimo fatto diviene paradossalmente un problema nel momento in cui se ne considerano le implicazioni ambientali: quali sono i costi sotto il profilo ecologico determinati da uno sviluppo così repentino? E’ sostenibile sotto il profilo ecologico una crescita della produzione che potrebbe condurre, al limite, una popolazione di 1,3 miliardi di persone ad allineare i propri consumi a quelli dei Paesi più ricchi? Si tratta di domande la cui risposta esula dagli obiettivi del presente scritto, ma la cui formulazione serve a comprendere come l’intersecarsi di problemi di diverso ordine – economici, sociali e ambientali – accresca notevolmente la complessità da gestire, dal momento che per risolverli o quanto meno alleviarli sarebbero non di rado necessari interventi molto diversi, al limite di segno opposto. La dinamica non riguarda solo il passato, ma anche l’evoluzione futura dei problemi. Ciò conferisce un ulteriore elemento di complessità alla questione, in quanto prevedere come evolveranno taluni fenomeni di carattere sociale e ambientale è estremamente difficile, mentre gli interventi potenzialmente in grado di incidere su di essi hanno talora efficacia ritardata nel tempo, in alcuni casi persino di alcuni decenni. Un esempio eclatante di tale dinamica è quella dell’effetto serra: la situazione attuale è il risultato di un complesso di azioni – emissioni inquinanti, ecc. – realizzate nel passato; vi sono stime divergenti circa la velocità e l’intensità con la quale l’effetto serra inciderà in futuro sul clima e sulla temperatura terrestre, il che rende difficile pianificare e generare consenso su iniziative di respiro planetario che andrebbero decise ora ma che, secondo alcuni, produrrebbero benefici tangibili, arrestando o rallentando l’evoluzione climatica in atto, solo nell’arco di alcuni decenni. Il problema è ulteriormente aggravato dalla riluttanza a decidere mostrata fino ad ora dagli stati nazionali e dagli organismi sovranazionali. Diversi soggetti possono essere chiamati in causa per contribuire a porre rimedio a tali problemi o, quanto meno, per prevenirne l’aggravamento. In questa sede si tralascia ogni riflessione sul ruolo degli stati nazionali, degli organismi sovranazionali e degli altri istituti pubblici per soffermarsi sul ruolo delle imprese. Le assunzioni di fondo dalle quali si parte sono le seguenti. i. Una concezione dei fini e del ruolo dell’impresa fondata sul liberismo puro, in base al quale il fine dell’impresa stessa è di produrre il massimo profitto o valore per i suoi azionisti, assolvendo in tal modo anche una funzione sociale di contributo allo sviluppo e al benessere economico diffusi, pare difficilmente conciliabile con l’obiettivo dello sviluppo sostenibile e, quindi, con quello della gestione – se non della soluzione – dei problemi di natura sociale e ambientali prima sinteticamente delineati. 20 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ii.
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iii.
iv.
v.
D’altra parte, un inasprimento della regolamentazione, che sfoci in un’imposizione “dall’alto” alle imprese di misure e comportamenti atti a promuovere la sostenibilità dello sviluppo, appare una via assai difficile da percorrere. Essa, da un lato, si scontrerebbe con il problema del disallineamento fra la politica, che continua a essere per lo più appannaggio degli stati nazionali, e l’economia, le cui logiche e dinamiche di tipo globale sempre più trascendono e intersecano le realtà nazionali. Dall’altro, un tale approccio presenterebbe il grave rischio di arrestare lo sviluppo economico, nel senso che un modello distributivo delle risorse più equo ma totalmente imposto dall’alto finirebbe con il ridurre fortemente gli incentivi ad accrescere il pool delle risorse complessivamente disponibili. Le istanze di responsabilità sociale rivolte alle imprese nascono proprio dalla consapevolezza dei gravi limiti sia di un modello liberistico puro – per quanto la ricerca del massimo profitto avvenga “nel rispetto della legalità e senza inganno né frode” (Friedman, 1962) – sia di un modello in cui la ricerca della sostenibilità sociale e ambientale avvenga a prezzo di imbrigliare lo sviluppo economico. Le esperienze concrete di responsabilità sociale, per altro, hanno mostrato alcuni limiti importanti. Per quanto non manchino esempi “virtuosi” di imprese in grado di coniugare performance di rilievo sui piani reddituale e competitivo con un’azione efficace e incisiva a favore dei diversi stakeholder, vi sono moltissimi casi di imprese che hanno utilizzato la responsabilità sociale come mero strumento di comunicazione e di marketing, altre hanno adottato un approccio per lo più difensivo, altre, ancora, hanno intrapreso iniziative in sé apprezzabili ma del tutto sganciate dal business e dalla strategia aziendale. Tali approcci alla RSI, in ultima analisi, sono accomunati da un basso livello di efficacia e di incisività, apportando un contributo nella migliore delle ipotesi modesto alla soluzione dei problemi “planetari” prima delineati. L’integrazione della responsabilità sociale nella strategia dell’impresa può essere vista come una via per superare gli inconvenienti di tali approcci, se e nella misura in cui ciò implica che le migliori energie, risorse e competenze aziendali vengono utilizzate anche al servizio del ruolo sociale dell’impresa e, nel contempo, la “socialità” concorre ad alimentarne la competitività e la redditività di lungo periodo. Tale idea dell’integrazione della responsabilità sociale nella strategia, come si avrà modo di dire ampiamente in seguito, non ha ancora trovato un adeguato sviluppo sul piano concettuale nella letteratura esistente, né è stata diffusamente recepita nel modo di essere e di “fare strategia” delle imprese.
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1.2 Gli obiettivi del lavoro L’obiettivo fondamentale del presente lavoro è di proporre una definizione e una concettualizzazione dell’idea di responsabilità sociale integrata nella strategia, avvalendosi anche delle esperienze e degli insegnamenti che si possono trarre da alcuni casi aziendali particolarmente significativi. Tale obiettivo si declina, a sua volta, in alcuni sotto-obiettivi specifici: 1. in primo luogo, ci si propone di mettere a fuoco i gap che emergono dall’esame della copiosa letteratura sul tema della responsabilità sociale e della teoria degli stakeholder. Si analizzeranno, in particolare, i contributi che hanno posto a tema il rapporto fra responsabilità sociale e strategia e ci si domanderà quali siano gli interrogativi di ricerca in tutto o in parte ancora inesplorati; 2. in secondo luogo, s’intende proporre una tipologia di relazioni fra responsabilità sociale e strategia, costruita sulla base sia della letteratura esistente, sia della conoscenza maturata di alcuni casi aziendali; 3. nell’ambito di tale tipologia, si proporrà una definizione del concetto di integrazione della responsabilità sociale nella strategia, condizione preliminare e imprescindibile per qualunque tentativo di concettualizzazione e di riflessione teorica ed empirica su tale tema; 4. inoltre, s’intende riflettere su quali siano i meccanismi e i processi che spiegano le relazioni sinergiche fra risultati reddituali e competitivi, da una parte, risultati sociali, dall’altra, nonché sui meccanismi e sui processi che, invece, sono all’origine di relazioni conflittuali fra i due tipi di risultati; 5. infine, s’intende applicare un modello – fondato sull’analisi dinamica dei sistemi (Forrester, 1961, 1968, Coda e Mollona, 2002) –, che, distinguendo tra variabili-flusso e variabili-livello e permettendo di rappresentare efficacemente i meccanismi di retroazione fra tali variabili, dovrebbe facilitare la comprensione dei processi e delle condizioni che conducono un’impresa a integrare la responsabilità sociale nella propria strategia, a includere la “socialità” nella propria funzione-obiettivo, a realizzare efficacemente una strategia “intenzionale” che integri profili di tipo sociale. 1.3 La metodologia adottata La metodologia di analisi empirica adottata nel presente libro è di carattere qualitativo, essendo imperniata sull’analisi di singoli casi aziendali. Non si tratta di analisi finalizzate a verificare empiricamente una serie di ipotesi: piuttosto, esse sono funzionali o a illustrare proposizioni di carattere teorico, presentando casi esemplificativi, o a formulare nuove, plausibili ipotesi teoriche (Glaser e Strauss, 1967, Yin, 2003). 22 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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I casi analizzati sono in totale nove: cinque di essi sono basati esclusivamente sull’analisi documentale, gli altri quattro si fondano anche su interviste. Ai fini dell’analisi documentale ci si è avvalsi di case history, presentazioni a convegni, libri, articoli pubblicati su riviste accademiche internazionali, articoli pubblicati su quotidiani o su riviste non accademiche, tesi di laurea, siti Internet, bilanci e report sociali. Nei quattro casi in cui sono state effettuate interviste si è avuta la possibilità di combinare differenti metodi di raccolta dei dati – l’analisi documentale e, appunto, le interviste –, ossia di effettuare quella “triangolazione” che, come osserva Eisenhardt (1989), conferisce maggiore robustezza ai costrutti e alle proposizioni di carattere teorico 6 . In tutte e quattro le imprese sono stati intervistati diversi esponenti del top management e in tre di esse anche l’amministratore delegato. In tutti i casi si è cercato dapprima di avere un quadro generale sull’azienda, sulla sua storia e sulla sua strategia, per poi focalizzare l’attenzione sul tema della responsabilità sociale e del suo rapporto con la strategia. Tale percorso logico si è calato, ove possibile, nella scelta e nell’ordine delle persone da intervistare, in modo da convergere progressivamente verso il tema al centro dell’interesse di carattere teorico (Locke, 2001). Nei due casi dove tali figure sono presenti, sono state effettuate interviste alle persone con ruoli specifici nell’ambito della responsabilità sociale e della gestione dell’etica d’impresa. In un caso, infine, alcune interviste a stakeholder esterni all’azienda hanno consentito di effettuare utili comparazioni con il punto di vista del management. Alcuni dei casi presentati sono stati scelti perché emblematici di processi di integrazione della responsabilità sociale nella strategia di particolare successo: essi costituiscono dei “casi estremi” (Eisenhardt, 1989, Pettigrew, 1990), che, come tali, facilitano il processo di costruzione della teoria, in quanto, essendo inusuali, possono “illuminare” sia gli stessi casi inusuali, sia quelli tipici (Patton, 2002). In altri termini, i processi e le dinamiche al centro dell’interesse dei ricercatori sono meglio visibili e analizzabili nei casi estremi che in altri contesti empirici (Perrini e Minoja, 2008). Gli altri casi hanno permesso comunque di illustrare differenti archetipi di relazioni fra responsabilità sociale e strategia o alcuni specifici processi di particolare interesse quali il cambiamento dei modelli mentali e degli obiettivi del vertice aziendale, la realizzazione della strategia intenzionale, l’adozione di un approccio proattivo e innovativo alla salvaguardia dell’ambiente.
“Triangulation made possible by multiple data collection methods provides stronger substantiation of constructs and hypothesis” (Eisenhardt, 1989, p. 538). 6
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2.
La letteratura in tema di valori, responsabilità sociale, etica d’impresa: una rassegna critica
2.1 Il contesto teorico di riferimento: un modello a tre livelli La letteratura in tema di valori, responsabilità sociale ed etica d’impresa si presenta quanto mai ampia e variegata, oltre che in costante e forte crescita, anche a seguito del rinnovato interesse e del dibattito su tali temi innescato dalla pubblicazione, nel corso del 2001, del Libro Verde della Commissione Europea dal titolo “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese” 7 . Si tratta, per altro, di una letteratura le cui origini risalgono a tempi assai meno recenti – il primo scritto in tema di RSI viene attribuito a Bowen ed è del 1953 –, sviluppata sia nella dottrina aziendalistica italiana, sia in ambito internazionale, i cui confini sono tutt’altro che facili da delineare. L’obiettivo del presente capitolo è di compiere una rassegna critica di tale letteratura: a tal fine, ci si propone di identificare i filoni di studio e di ricerca fondamentali, di riconoscere ed esplicitare gli elementi che li accomunano così come le differenze più significative, nonché di analizzarne i molteplici legami con le diverse teorie – economiche e non – alle quali essi fanno variamente riferimento. Dal momento che il presente lavoro è incentrato sulle relazioni che connettono la responsabilità sociale alla strategia d’impresa, nell’esaminare la letteratura rilevante s’intendono esplorare prioritariamente i collegamenti fra le teorie core (in particolare, la RSI) e le teorie al contorno, in primis quelle di matrice economico-aziendale. L’ottica è dunque prevalentemente di tipo “esterno”: collocare le teorie core nel più ampio contesto teorico di riferimento. Al § 2 del Libro Verde della Commissione Europea si osserva come “La maggior parte delle definizioni della responsabilità sociale delle imprese descrivono questo concetto come l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. 7
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Si propone dunque, di seguito, un modello a tre livelli (figura 2.1): - al primo si collocano i filoni ai quali sono riconducibili i numerosissimi contributi in tema di valori, responsabilità sociale ed etica d’impresa (filoni “core”); - il secondo è definito da alcuni filoni fondamentali della letteratura economica ed economico-aziendale ai quali i primi fanno variamente riferimento (filoni “di contesto”); - al terzo, infine, appartengono alcune discipline e filoni fondamentali di matrice non economica dai quali i contributi individuati al primo livello mutuano ipotesi, concetti e modelli: in particolare, l’etica (come parte della filosofia), il cognitivismo (come parte della psicologia) e l’istituzionalismo (come parte della sociologia) (filoni “al contorno”). Documento acquistato da () il 2023/04/12.
Figura 2.1
Filoni di studio in materia di etica, valori e responsabilità sociale dell’impresa e teorie di riferimento: un modello a tre livelli Etica e filosofia morale Teorie dell’impresa Corporate governance
Responsabilità sociale dell’impresa
Business ethics
Psicologia cognitiva
Stakeholder theory
Strategic management (approccio “porteriano” al vantaggio competitivo e resource-based view)
“Eccellenza imprenditoriale”
Teorie dell’organizzazione
Teorie di marketing
Teorie sociologiche (istituzionalismo)
Prima di entrare nel merito di ciascuno dei tre livelli, è necessario esplicitare in base a quali criteri sono stati individuati i contributi che definiscono il livello core, ovvero quali sono gli elementi essenziali che li accomunano: a) il riferimento a variabili di tipo soft, quali valori, obiettivi, assunzioni e convincimenti di fondo, propri degli attori-chiave dell’impresa o riferibili all’impresa in quanto tale, le quali, pur essendo di natura per lo più implicita e tacita, ciò nondimeno impattano significativamente sulle decisioni e sui comportamenti adottati in concreto dalle imprese; 26 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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b) l’interrogarsi, in modo più o meno esplicito, sul ruolo del “profitto” e del “valore per gli azionisti” nella funzione-obiettivo dell’impresa; c) l’interrogarsi su quali siano i soggetti nei confronti dei quali l’impresa ha delle responsabilità e in quale modo vi fa (approccio descrittivo) o dovrebbe (approccio normativo) farvi fronte. I tre paragrafi che seguono sono rispettivamente dedicati all’analisi dei tre livelli che compongono il modello proposto. 2.1.1 I filoni core
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Quattro sono i filoni di studio e di ricerca ai quali possono essere ricondotti gli scritti che compongono la sterminata e variegata letteratura posta al centro dell’attenzione nel presente lavoro. 1) Il filone della responsabilità sociale dell’impresa. L’origine della RSI si suole far risalire al pensiero di Bowen 8 (1953), anche se alcuni studi sul tema erano già stati pubblicati in precedenza 9 . Si tratta di un filone a sua volta variegato al suo interno, sia in relazione al fatto che, a tutt’oggi, non esiste una definizione di RSI universalmente accettata (McWilliams et al., 2006), sia in quanto si possono individuare ulteriori filoni o sottofiloni che in varia misura si rifanno, sia pure con diverse accentuazioni o specificazioni, a quello principale della RSI. Sotto il primo profilo, nonostante il citato Libro Verde della Commissione Europea pubblicato nel 2001 abbia ravvisato nell’elemento della volontarietà, ossia della disponibilità da parte delle imprese a occuparsi delle problematiche sociali e ambientali al di là di quanto prescritto dalla normativa vigente, il denominatore comune a molte definizioni di RSI, alcuni fra i lavori più citati in letteratura propongono definizioni anche radicalmente differenti: si rammenta, solo a titolo esemplificativo, il contributo di Carroll (1979), il quale osserva che una definizione onnicomprensiva delle responsabilità dell’impresa nei confronti della società deve includere le categorie economica, legale, etica e discrezionale 10 . Sotto il secondo profilo, numerosi scritti fanno riferimento ai concetti di sviluppo sostenibile e corporate sustainability 11 (Steurer et al., 2005), corporate La RSI “refers to the obligations of businessman to pursue those policies, to make those decisions, or to follow those lines of action which are desirable in terms of the objectives and values to our society” (Bowen, 1953, p. 6). 9 Si vedano, in particolare, i lavori di Barnard (1938), Clark (1939) e Kreps (1940). 10 “For a definition of social responsibility to fully address the entire range of obligations business has to society, it must embody the economic, legal, ethical, and discretionary categories of business performance” (Carroll, 1979, p. 499). 11 Il concetto di sviluppo sostenibile è definito come “Development that meets the needs of current generations without compromising the ability of future generations to meet their needs and aspirations” (WCED, 1987, p. 43). Il concetto di sostenibilità applicato all’impresa, o corporate sustainability, è definito invece come l’adozione di “business strategies and activities that meet the needs of the enterprise and its stakeholders today while protecting, sustaining and enhancing the human and natural resources that will be needed in the future” (IISF Deloitte and Touche, 8
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social responsiveness 12 (Frederick, 1978), corporate citizenship 13 (Gardberg e Fombrun, 2006), triple bottom line (Elkington, 1997) e via dicendo 14 , dando rilievo ad aspetti, problematiche e implicazioni comunque riconducibili, in ultima analisi, al filone fondamentale della RSI 15 . Non va dimenticato, infine, che il concetto di RSI è in continua evoluzione, anche in relazione all’evolversi delle attese espresse dai diversi stakeholder (Holme e Watts, 2000). Un discorso a parte meritano due filoni che, pur essendo riconducibili, almeno in prima approssimazione, a quello generale della RSI 16 , assumono un rilievo particolare quanto meno per la numerosità dei contributi che ad essi si rifanno: quello della corporate social performance (Carroll, 1979, Jones, 1980) e quello delle strategie sociali. I contributi sulla corporate social performance 17 ruotano attorno ad almeno tre interrogativi di ricerca fondamentali: cosa si debba intendere per performance sociale; come misurarla; il segno e l’intensità di eventuali correlazioni con le performance economiche e finanziarie. All’elaborazione e allo sviluppo del concetto di strategie sociali 18 hanno contribuito soprattutto gli studiosi della scuola aziendalistica italiana 19 , i quali pongono l’accento sulla necessità che gli attori-chiave delle imprese si avvalgano di strumenti e modelli di analisi e di WBCSD, 1992, p. 1). Si vedano anche Dyllick e Hockerts, 2002, p. 131, Catturi (2002), Steurer et al., 2005, p. 274. 12 “Corporate social responsiveness refers to the capacity of a corporation to respond to social pressures. The literal act of responding, or of achieving a generally responsive posture, to society is the focus. (…) One searches the organization for mechanisms, procedures, arrangements, and behavioral patterns that, taken collectively, would mark the organization as more or less capable of responding to social pressures” (Frederick, 1978, p. 6). 13 Il World Economic Forum (2003) definisce la corporate citizenship come “the contribution a company makes to society through its core business activities, its social investment and philanthropy programmes, and its engagement in public policy. The manner in which a company manages its economic, social and environmental relationships, as well as those with different stakeholders, in particular shareholders, employees, customers, business partners, governments and communities determines its impact”. 14 Per una rassegna di tali definizioni e concettualizzazioni si veda, per es., van Marrewijk (2003). La disamina degli elementi comuni e delle differenze fra questi filoni esula tuttavia dagli obiettivi del presente capitolo, il cui scopo precipuo è invece di esplorare i collegamenti tra le teorie core (primo livello del modello proposto) e quelle economico-aziendali, di strategia e di general management (secondo livello). 15 Steurer et al. (2005, p. 274) osservano che la RSI “can easily be interpreted as including almost everyone and everything”. Alcuni fra i più significativi contributi di aziendalisti italiani in tema di RSI sono quelli di Terzani (1984), Caprara (1993), Coda (2004c). 16 Per una riflessione ampia e critica sul tema della RSI si veda, per esempio, Vogel (2005). 17 Al tema della performance sociale si darà ampio spazio nel seguito del presente capitolo. E’ interessante osservare sin d’ora, tuttavia, che Carroll, uno degli autori più significativi in tema di RSI, includa tale concetto in quello di corporate social performance. Quest’ultimo, infatti, dovrebbe includere: “1. A basic definition of social responsibility (…). 2. An enumeration of the issues for which a social responsibility exists (…). 3. A specification of the philosophy of response” (Carroll, 1979, p. 499). 18 Per una rassegna della letteratura sul tema delle strategie sociali si vedano, fra gli altri, Coda (1985) e Chirieleison (2002). 19 Si vedano, in particolare, Coda (1984, 1988a), Matacena (1993), Invernizzi (1999).
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formulazione strategica anche nella definizione delle iniziative e delle azioni intraprese nell’interesse degli stakeholder di natura sociale. 2) La stakeholder theory Si tratta di un filone di studi e di ricerche il cui avvio si suole attribuire al libro pubblicato da Freeman nel 1984, “Strategic Management: A Stakeholder Approach” 20 . L’importanza di tale filone si deve presumibilmente anche al fatto che esso si pone in diretta contrapposizione rispetto all’impostazione concettuale tradizionale, consolidata e a lungo indiscussa, almeno nel mondo anglosassone, posta a fondamento della shareholder theory, secondo la quale il fine dell’impresa è massimizzare il profitto o, nella sua versione più recente, il valore per gli azionisti. L’intensità del dibattito che il lavoro di Freeman ha suscitato è testimoniata dall’elevato numero di contributi sul tema – ben oltre il centinaio 21 – pubblicati a partire dal 1984, una produzione scientifica che a tutt’oggi non accenna a diminuire. La stakeholder theory asserisce che il management di un’impresa deve agire non solo nell’interesse degli azionisti, ma anche di tutti quegli interlocutori che, volontariamente o involontariamente, contribuiscono all’attività e alla capacità di produzione di ricchezza dell’impresa stessa e che, di conseguenza, ne sono i potenziali beneficiari o ne sopportano in varia misura il rischio 22 . Per quanto la numerosità dei lavori renda difficile ricondurli a specifici sottofiloni senza incorrere in semplificazioni eccessive, è possibile identificare almeno tre tipologie di temi e di interrogativi di ricerca: - in primo luogo, alcuni contributi si pongono il problema di definire la stakeholder theory e di delimitarne l’ambito. Donaldson e Preston (1995), per esempio, distinguono fra stakeholder theory descrittiva, normativa e strumentale, mentre Smith (2003) ne coglie solo l’aspetto normativo e osserva che l’elemento discriminante fra shareholder theory e stakeholder theory è costituito dal fatto che quest’ultima richiede che gli interessi di tutti gli stakeholder siano presi in considerazione anche qualora ciò comporti una riduzione della redditività dell’impresa; 20 Chirieleison (2002: pp. 46-47), pur riconoscendo che quella di Freeman è stata la prima teoria organica sull’argomento, mette in evidenza che il concetto di stakeholder è stato teorizzato per la prima volta dallo Stanford Research Institute nel 1963 per indicare tutti coloro che hanno un interesse nell’attività dell’azienda e che è stato utilizzato sia dalla General Electric (oltre trent’anni prima), sia dalla Johnson & Johnson (il cui Presidente, nel 1947, identificò clienti, dipendenti, manager e azionisti come strictly business stakeholders, per poi elaborare il “Credo” dell’azienda). Ricorda, infine, che altri studiosi di management – fra i quali Ansoff (1979) – avevano già proposto tale concetto. 21 Donaldson e Preston, già nel 1995, osservano che dopo il lavoro seminale di Freeman del 1984 sono stati pubblicati una dozzina di libri e oltre cento articoli che pongono in primo piano il concetto di stakeholder. 22 Freeman (1984: p. 46) definisce stakeholder “any group or individual who can affect or is affected by the achievement of the organization’s objective”. Per Post, Preston e Sachs (2002: p. 19) “The stakeholders in a corporation are the individuals and constituencies that contribute, either voluntarily or involuntarily, to its wealth-creating capacity and activities, and are therefore its potential beneficiaries and/or risk bearers”.
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in secondo luogo, si pone il problema di identificare gli stakeholder e di valutarne la rilevanza per l’impresa. Per quanto numerosi autori concordino sul fatto che azionisti, clienti, dipendenti, fornitori e comunità locale siano in ogni caso portatori di interessi rilevanti per l’impresa e quindi il management debba tenerne adeguato conto nell’assumere le proprie decisioni, alcuni contributi propongono modelli e criteri per identificarli “caso per caso”, dando vita, in tal modo, a un approccio contingency. Uno dei lavori più significativi, tant’è che è stato ripreso e rivisitato da altri autori 23 , è quello di Mitchell, Agle e Wood (1997), secondo i quali la rilevanza di un dato stakeholder per l’impresa dipende dal suo livello di potere, nonché dalla legittimità e dall’urgenza delle richieste che esso rivolge all’impresa stessa; - infine, vari lavori si concentrano sullo stakeholder management, ossia sulle modalità più efficaci di interagire con gli stakeholder anche in relazione alle implicazioni in termini di possibilità di sopravvivenza, capacità di produrre ricchezza e successo dell’impresa. In tale ambito di ricerca possono ricomprendersi i contributi che si interrogano sui criteri e sulle modalità per contemperare i differenti interessi e attese, non di rado in contrapposizione fra loro, espressi dai diversi stakeholder 24 . Dalla pur breve sintesi sopra proposta della stakeholder theory ne emerge chiaramente la matrice anglosassone. Ciò nonostante, si può affermare che diversi scritti di autori italiani, esplicitamente o implicitamente, hanno contribuito significativamente alla sua evoluzione sotto tutti e tre i profili appena delineati. Senza alcuna pretesa di farne una rassegna esaustiva, si ricorda il lavoro di Masini (1979), che ha individuato nei conferenti di capitale – risparmio e nei prestatori di lavoro coloro che fanno parte del “soggetto economico” dell’impresa e ha ravvisato nel contemperamento degli interessi il principio fondamentale, unitamente al perseguimento dell’economicità, che deve guidare l’operato di coloro che hanno responsabilità di governo di un’impresa; i diversi contributi di Coda sul tema, uno dei quali è proprio la voce “stakeholder” dell’Enciclopedia di Strategia, che si è posto il problema, fra gli altri, di valutare la criticità delle relazioni impresa – stakeholder nella prospettiva di favorire la sopravvivenza e il successo dell’impresa e il benessere degli stakeholder; l’approccio contingency proposto da Airoldi (1994) allo scopo di individuare i “soggetti primari”, ai quali spetta il diritto-dovere di esercitare le prerogative di governo economico dell’impresa.
Eesley e Lenox (2006), per esempio, affermano che potere, legittimità e urgenza di uno stakeholder derivano dal modo con cui si configurano, in concreto, le relazioni fra tre elementi: lo stakeholder stesso, la richiesta che egli avanza, l’impresa destinataria di tale richiesta. 24 Si veda, in particolare, il contributo di Post, Preston e Sachs (2002). 23
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3) La business ethics Il filone della business ethics, nato e sviluppatosi soprattutto negli Stati Uniti 25 , ruota intorno a tre questioni fondamentali. La prima è la relazione, appunto, fra la dimensione etica e quella del business: per quanto l’appartenenza stessa di un contributo a tale filone implichi un’adesione all’idea di fondo che il business debba sottostare a dei principi di ordine morale, non è affatto scontato quali debbano essere e dove debbano essere collocati i “paletti” che segnano il confine tra ciò che è lecito e ciò che non è lecito sotto un profilo etico. Tale problema si pone sotto molteplici prospettive. Innanzi tutto, occorre domandarsi se sia sufficiente, per definire etico un comportamento, il mero rispetto della normativa vigente, oppure si debba andare oltre e, in questo secondo caso, quali siano gli standard ai quali ci si debba attenere: è sufficiente, in ossequio a una visione convenzionalistica, che un’impresa adotti comportamenti conformi agli standard di moralità comunemente accettati all’interno della comunità in cui opera, oppure è necessario che coloro che sono chiamati a prendere decisioni come membri degli organi di governo e di direzione di un’impresa adottino gli stessi standard etici sui quali si fondano i loro comportamenti individuali 26 ? Ancora: esistono dei principi etici “universali” e, se sì, quali sono? Una risposta a tali interrogativi individua nei valori etici di base – quali l’onestà, la lealtà, la giustizia, il rispetto per la vita umana – i riferimenti ultimi, detti anche metavalori aziendali, ai quali dovrebbero soggiacere le decisioni e i comportamenti adottati nell’ambito di un’impresa 27 . La seconda questione fondamentale, di natura più operativa, attiene alle modalità e ai criteri per la soluzione dei dilemmi etici ai quali gli attori-chiave, ma in qualche misura i dipendenti tutti, di un’impresa possono trovarsi di fronte nel momento in cui sono chiamati ad assumere talune decisioni. Tale problema si pone, in ultima analisi, in quanto si manifestano non di rado dei conflitti fra gli interessi – per altro tutti meritevoli in sé di essere tutelati – dei diversi stakeholder. La loro soluzione risiede, da un lato, nell’adozione di una logica di lungo periodo, la quale, a sua volta, si fonda sull’assunto che il benessere e la prosperità duratura dell’impresa consentano una più efficace tutela dei diversi soggetti detentori di interessi; dall’altro, nel radicamento delle valutazioni di ordine etico nella comprensione profonda della realtà dell’impresa 28 . La terza, e ultima, questione Si veda, solo a titolo esemplificativo, Jones (1982). Fra gli studiosi italiani che si sono occupati di etica d’impresa si vedano Coda (1988b, 1994, 2001, 2004a), Lago (1995), Caselli (1998), Ferrara (1998). Sul rapporto fra economia ed etica si veda Zamagni (1994). 26 Cfr. Chirieleison, op. cit., 2002, p. 21. La stessa Autrice individua cinque differenti visioni della business ethics, in relazione al tipo di standard in base ai quali si definiscono etici i comportamenti di un’impresa. 27 Cfr. Coda, op. cit., 1985. 28 Secondo Coda (1988b, p. 78), la convergenza fra valutazioni etiche e valutazioni economiche dipende da due condizioni: “La prima condizione è che si accolga a fondamento dei giudizi economici non un generico, astratto concetto di profitto, che è quanto di più ambiguo ci possa essere, ma l’economicità duratura dell’impresa, ossia il valore della sopravvivenza e del benessere duraturo della stessa. La seconda condizione, essa pure necessaria, riguarda l’effettuazione delle valutazioni etiche e, precisamente, la necessità che esse si radichino in una comprensione 25
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ha natura essenzialmente organizzativa e riguarda le modalità per diffondere fra il management e le risorse umane tutte all’interno dell’impresa la cultura e la sensibilità nei confronti delle problematiche di ordine etico 29 . 4) Il filone dell’”eccellenza imprenditoriale” Si tratta di un filone che, da un lato, non trova lo stesso riconoscimento dei primi tre nella letteratura accademica, dall’altro, potrebbe apparire a prima vista assai più prossimo alla visione tradizionale della shareholder theory che all’impostazione che, quale che sia la denominazione con la quale la si designa, riconosce il ruolo sociale dell’impresa 30 e quindi la necessità che essa risponda alle attese di un’ampia gamma di portatori di interessi. Si tratta, in concreto, di numerosi scritti incentrati su temi di general management, di strategia aziendale, di organizzazione, ai quali hanno lavorato sia autori italiani 31 , sia autori stranieri, fra i quali Drucker 32 per quanto riguarda la strategia e il management, Selznick e Pfeffer per quanto concerne le tematiche organizzative. In realtà, i contributi riconducibili a tale filone, lungi dal sostenere l’obiettivo di massimizzazione del profitto o del valore per gli azionisti, hanno contribuito in misura rilevante alla riflessione e all’evoluzione della conoscenza sul ruolo sociale dell’impresa in diversi modi: - definendo “eccellente” l’impresa che “con continuità, nel lungo periodo, dimostra di saper rispondere validamente alle sollecitazioni ambientali e di realizzare un superiore livello di prestazioni” (Coda, 1985); - individuando i valori imprenditoriali, distinti da quelli etici o metavalori ai quali devono comunque soggiacere, che ispirano le imprese eccellenti: la qualità, il servizio al cliente, la flessibilità, l’innovazione approfondita della realtà dell’impresa, in tutta la sua complessità. Diversamente, si è indotti a dare dei giudizi morali che, astrattamente parlando, sono condivisibili, ma che non sono integrati e inseriti in una comprensione della natura e dei meccanismi di funzionamento dell’impresa”. 29 Sotto questo profilo un riferimento fondamentale è Frederick (1986), che propone il concetto di corporate social rectitude come terza fase (o CSR3) della corporate social responsibility e individua alcune azioni e iniziative utili ai fini della diffusione della sensibilità etica all’interno delle imprese. 30 Fra i numerosi autori della scuola aziendalista italiana che hanno riconosciuto il ruolo sociale dell’impresa si ricordano, fra gli altri, Vermiglio (1983), Ferrero (1987), Bertini (1990), Catturi (1990), Corticelli (1995). 31 Si ricordano in particolare le ricerche condotte nel corso degli anni ’80 dal gruppo di lavoro dell’Istituto di Economia Aziendale dell’Università Bocconi sul tema “valori imprenditoriali e comportamento strategico dell’impresa”. Tali ricerche sono sfociate nella produzione di approfondite case history, pubblicate dalla Cusl, che sono state oggetto sistematico di dibattiti seminariali (Olivetti, Arthur Andersen ed SGS, a cura di Mario Molteni; Danieli, a cura di Giorgio Invernizzi e Gianfranco Rebora; Alfa Romeo e Costa, a cura di Guido Corbetta; Arca e Porto di Genova, a cura di Pietro Mazzola); di libri (fra i quali, in particolare, L’orientamento strategico dell’impresa, 1988, di Vittorio Coda; La lunga marcia verso il capitalismo democratico, 1989, di Marco Vitale); di numerosi articoli (fra i quali si ricordano “Valori imprenditoriali e successo dell’impresa”, di Vittorio Coda; “Innovazione e imprese”, di Marco Vitale; “Le imprese eccellenti: il caso italiano”, di Gianfranco Rebora). 32 Si veda, per es., Drucker (1954), The Practice of Management.
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imprenditoriale, la creatività, l’informalità e la capacità di comunicazione e di ascolto, ecc. (De Woot, 1984); sottolineando come tali valori debbano essere recepiti all’interno di una cultura aziendale forte, coesiva e alimentata da un processo di apprendimento continuo; valutando il “profitto” non in astratto e a priori, ma in relazione alle modalità con le quali esso è conseguito, alle basi più o meno solide sulle quali si fonda, alla destinazione che ne viene fatta – per alimentare la funzionalità e la competitività durature dell’impresa oppure per consentire agli azionisti, all’imprenditore e alle loro famiglie un tenore di vita “sopra le righe”; distinguendo, in ultima analisi, il profitto “di breve periodo” dal profitto “di lungo periodo”; riconoscendo la centralità dei clienti e dei dipendenti come stakeholder fondamentali, al pari degli azionisti, per l’impresa, in quanto apportatori di risorse e di competenze cruciali per l’economicità e la competitività di lungo periodo dell’impresa stessa 33 ; sostenendo come la socialità debba, in ultima analisi, radicarsi nella strategia e nel business dell’impresa: ciò non solo in quanto i risultati economici, competitivi e sociali si alimentano e si rafforzano vicendevolmente quanto meno nel lungo periodo (Coda, 1984; 1988a), ma anche perché l’efficacia e l’impatto delle iniziative di carattere sociale sono tanto più elevati quanto più esse si radicano nel sistema delle risorse e delle competenze aziendali (Porter e Kramer, 2002; Porter e Kramer, 2006); riconoscendo il ruolo della leadership e del “buon management” come elementi fondanti e costitutivi delle imprese eccellenti: “buon management” che è tale se e nella misura in cui interpreta il potere che gli è assegnato come una responsabilità e svolge una funzione fiduciaria 34 al servizio dei diversi stakeholder che contribuiscono variamente alla vita duratura economica dell’impresa e nei confronti della quale nutrono molteplici attese.
Fra tali filoni esistono significative sovrapposizioni, in aggiunta agli elementi comuni fondamentali sulla base dei quali sono stati identificati gli scritti definiti Pfeffer (1994; 2005b), ad esempio, afferma che una gestione efficace del personale è una condizione fondamentale all’origine del vantaggio competitivo sostenibile: “What these successful firms tend to have in common is that for their sustained advantage, they rely not on technology, patents, or strategic position, but on how they manage their workforce” (2005b, p. 96). 34 Si veda, in proposito, il contributo di M. Vitale: “Il management, la proprietà industriale, la funzione imprenditoriale è sempre una funzione fiduciaria.” (1987, p. 45). Ancora: “L’essenza del buon management non consiste nel dominare questa o quella tecnica (…), ma nella volontà di gestire i problemi (quella che spesso ho chiamato ‘the will to manage’); nella disciplina alla verità; nella consapevolezza di svolgere un’attività fiduciaria volta a far crescere le ‘cose’ che ci vengono affidate e non ad impadronircene.” (1987, p. 59). 33
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core 35 , ma ciascuno di essi presenta alcune rilevanti specificità 36 . Senza alcuna pretesa di esaustività, è il caso di sottolineare i seguenti elementi. - La stakeholder theory 37 pone l’accento sull’opportunità che nelle decisioni e nelle scelte d’impresa si tenga debitamente conto anche degli interessi e delle istanze di soggetti diversi dagli azionisti; il filone della RSI enfatizza la necessità di considerare una gamma di portatori d’interesse più ampia rispetto a quelli tradizionali (azionisti, dipendenti, clienti), rimarcando le responsabilità sociali e ambientali dell’impresa in aggiunta a quelle di natura economica e dando maggior rilievo agli stakeholder secondari 38 . Enfatizza, inoltre, il carattere della volontarietà delle azioni e delle iniziative che si ispirano alla RSI 39 . - Il filone della business ethics si sovrappone parzialmente a quello della RSI, dal momento che: a) è “etico” adottare comportamenti socialmente responsabili, mentre è “unethical management behavior to focus solely in the interest of shareowners and not in the interest of employees and customers” (Donaldson e Preston, 1995, p. 75); b) tuttavia, quelle di tipo etico sono solo una delle possibili ragioni per l’adozione di comportamenti socialmente responsabili o per operare in conformità alla stakeholder theory, in quanto possono esservi anche motivazioni di tipo strumentale; c) inoltre, la business ethics si focalizza specificamente sulla definizione dei criteri che dovrebbero guidare i singoli manager nell’assunzione delle decisioni con implicazioni etiche significative (Coda, 1985), più che sulla responsabilità sociale dell’impresa nel suo complesso (Rusconi, 1997, Chirieleison, 2002); d) infine, come riconosce Chirieleison (2002, pp. 29-30), il riferimento fondamentale per la business ethics è costituito dai principi e dalle regole elaborate dalla filosofia morale, mentre il grado di responsabilità sociale di un’impresa Cfr. supra la parte introduttiva del § 2.1. Lockett et al. (2006), nel loro articolo sui temi ricorrenti negli articoli in tema di RSI nella letteratura manageriale, adottano un’impostazione differente: considerano la RSI come un campo di studio all’interno della disciplina del management e individuano al suo interno quattro tematiche: la business ethics, la responsabilità ambientale, la responsabilità sociale e l’approccio degli stakeholder. 37 Per un’analisi delle differenze fra RSI e stakeholder theory si veda Phillips et al., 2003. 38 Clarkson (1995) distingue fra stakeholder primari, ossia quelli che intrattengono rapporti di tipo contrattuale con l’impresa (tipicamente clienti, fornitori, ecc.), e stakeholder secondari (in particolare collettività, gruppi di pressione, ecc.), che hanno con essa rapporti per lo più di influenza. Hillman e Keim (2001, p. 126) considerano primari gli stakeholder che “’bear some form of risk as a result of having invested some form of capital, human or financial, something of value, in a firm’ (Clarkson, 1994: 5). These stakeholders are those without whose participation the corporation cannot survive (Clarkson, 1995).” Gli stessi Autori riconoscono che “(…) social issue participation may be characterized as pertaining to a more ‘broad’ definition of social responsibility beyond the primary stakeholder exchange (Mitchell et al., 1997) that recognizes companies can be affected by or affect almost anyone” (2001, p. 129). Si veda anche Chirieleison (2002), p. 62. 39 Cfr. supra la nota 1. 35
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si valuta per lo più in relazione alla capacità di soddisfare le attese dei diversi stakeholder. Il filone dell’”eccellenza imprenditoriale” è, per un verso, complementare a quello della RSI, nel senso che, ponendo l’accento sull’economicità e sulla competitività di lungo periodo dell’impresa come condizioni per un migliore soddisfacimento degli interessi dei diversi stakeholder, specifica le condizioni per la sostenibilità e per l’efficacia al tempo stesso della RSI; per altro verso, si contrappone sia alla shareholder theory, sia alla stakeholder theory, o quanto meno a quei lavori, riconducibili all’una o all’altra, che si fondano sull’assunto che fra generazione di profitto o di valore per gli azionisti e soddisfacimento degli interessi degli altri stakeholder vi sia strutturalmente e inesorabilmente conflitto. Anzi, il filone in parola non solo non riscontra contrapposizione alcuna fra profitto di lungo periodo e RSI, ma parte dall’assunto che la produzione di tale profitto sia condizione necessaria perché un’impresa possa dirsi responsabile.
2.1.2 I filoni di contesto Gli scritti identificati come core, quale che sia il filone a cui sono più propriamente riconducibili dei quattro identificati, pongono tutti l’impresa al centro della loro attenzione. Ne deriva che quasi sempre essi fanno riferimento, in modo esplicito o implicito, a teorie consolidate di matrice economicoaziendale 40 : ora rifacendosi ai principi dell’una o dell’altra o, semplicemente, mutuandone i concetti e il linguaggio, ora applicando teorie generali all’ambito specifico dell’etica e della responsabilità sociale, in qualche caso rivisitandole per recepire le evidenze empiriche o le riflessioni teoriche sviluppate nel contesto degli studi core. Ci si sofferma, di seguito, sui cinque macrofiloni teorici ai quali più di frequente si rifanno i lavori passati sinteticamente in rassegna nel precedente paragrafo 41 . a) Teorie dell’impresa (o dei fini dell’impresa). Alle teorie dell’impresa si fa riferimento per legittimare o meno l’idea stessa di responsabilità sociale dell’impresa 42 . La teoria neoclassica, in base alla quale A onor del vero, il riferimento alle teorie di matrice economico-aziendale è più debole, in generale, nel caso della business ethics. 41 Altri Autori hanno cercato di identificare i principali filoni e prospettive teoriche utilizzate negli scritti in tema di RSI. Si richiamano, solo a titolo esemplificativo, quelli individuati da McWilliams et al. (2006) nel loro articolo sulle implicazioni strategiche della RSI – tema ad evidenza attinente a quello trattato in questo libro: teoria dell’agenzia, stakeholder theory, stewardship theory, resource-based view, institutional theory, teoria dell’impresa, teoria dell’impresa in combinazione con la teoria della leadership strategica. 42 Appeals for corporate involvement in ameliorating malnutrition, infant mortality, illiteracy, pollution, pernicious wealth inequality, and other social ills quickly call to mind a long and contentious debate about the theory and purposes of the firm” (Margolis and Walsh, 2003, p. 271). 40
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il fine dell’impresa consiste nella massimizzazione della ricchezza per i suoi azionisti, nega che all’impresa competa di occuparsi di problematiche di natura sociale. Analogamente, la visione dell’impresa come nesso di contratti (Keeley, 1988; Donaldson e Dunfee, 1999) pone in discussione il valore delle iniziative da essa adottate in risposta a tali problemi (Margolis e Walsh, 2003) 43 . In base a un’analisi più approfondita, tuttavia, l’assunto che le teorie neoclassica e contrattualistica, ravvisando nel profitto o nel valore per gli azionisti il fine fondamentale dell’impresa, siano a priori contrarie all’idea che essa debba agire in modo socialmente responsabile si rivela meno scontato di quanto esso non appaia a prima vista. Ciò dipende, in ultima analisi, dal significato stesso che si attribuisce al concetto di responsabilità sociale dell’impresa, dalle assunzioni e dalle qualificazioni sul concetto di profitto, nonché dalle ipotesi in merito a come, in concreto, l’impresa è in grado di contribuire al benessere della società. Su tale questione si tornerà comunque più dettagliatamente in seguito 44 . Anche la teoria dei diritti di proprietà (Coase, 1937, 1960) può essere fatta rientrare fra le teorie dell’impresa alle quali si richiamano alcuni scritti core. Nonostante essa sia tradizionalmente posta a fondamento teorico della dominanza degli interessi degli azionisti rispetto a quelli degli altri portatori di interessi, Donaldson e Preston (1995) vi ricorrono come fondamento in chiave normativa per la stakeholder theory, proponendo una versione pluralistica dei diritti di proprietà 45 . Essi riconoscono infatti, da un lato, che i diritti di proprietà, normalmente attribuiti agli azionisti, non sono diritti assoluti e privi di restrizioni, dall’altro, che, accogliendone una visione allargata, essi possono essere attribuiti ad altri soggetti quali i prestatori di lavoro (in relazione allo sforzo da essi profuso nell’impresa), la comunità locale, i clienti. Di rilievo è il contributo degli aziendalisti italiani alla riflessione sulla teoria dell’impresa e, in particolare, sul finalismo d’impresa. Esso può essere ricondotto, in ultima analisi, a quattro fattispecie fra loro per altro collegate e parzialmente sovrapposte: i) l’aver posto l’accento sull’impresa come istituto economico-sociale 46 , come tale chiamato a contribuire al benessere di una platea di soggetti ben più ampia rispetto a quella dei suoi azionisti; ii) l’aver riconosciuto come in capo all’impresa vi sia un interesse sovraordinato rispetto a “The assumption that the primary, if not sole, purpose of the firm is to maximize wealth for shareholders has come to dominate the curricula of business school and the thinking of future managers, as evidence of business school graduates reveals (Aspen Institute, 2002). (…) The contractarian view of the firm or, to be more accurate, the economic version of contractarianism (…) challenges the legitimacy and value of corporate responses to social misery” (Margolis and Walsh, 2003, p. 271). 44 Cfr. infra § 2.2.1. 45 “We argue that the stakeholder theory can be normatively based on the evolving theory of property” (Donaldson and Preston, 1995, p. 83). 46 Ferraris Franceschi (1995, p. 23), per esempio, osserva come “La funzione di un’impresa non può essere (…) limitata al solo fine economico; questo va considerato congiuntamente ad obiettivi sociali”. Sul rapporto fra etica e fini d’impresa si vedano anche, fra gli altri, Riccaboni (1995) e Sciarelli (1996). 43
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quelli dei singoli stakeholder e come questi ultimi possano trovare maggiore soddisfazione, almeno nel lungo periodo, qualora il primo costituisca la bussola che orienta costantemente il comportamento di coloro che hanno responsabilità di governo e di direzione dell’impresa 47 , fino ad affermare che il fine dell’impresa è in ultima analisi l’impresa stessa (Giannessi, 1969, Bertini, 1990); iii) l’aver costantemente riaffermato l’unitarietà dell’impresa 48 sia sotto un profilo teorico, sia come principio-guida per il management, chiamato a dare risposta a un molteplicità di soggetti e di interessi convergenti nell’impresa stessa, tutti meritevoli di attenzione e di tutela 49 ; iv) l’essersi soffermati sulle complesse interazioni tra fini di tipo economico, competitivo e sociale, per porre l’accento ora sulla parziale concorrenza fra di essi (Mari, 1994), ora sulle relazioni di tipo sinergico (Onida, 1965 50 ) che alimentano una concezione circolare del finalismo d’impresa (Coda, 1988a), ora sull’equilibrio economico come precondizione per la realizzazione di qualunque funzione di tipo sociale (Chirieleison, 2002 51 ). Numerosi sono gli autori che hanno affermato, sia pure utilizzando termini diversi, come vi sia un interesse dell’impresa sovraordinato rispetto a quelli dei singoli stakeholder. Si parla infatti di “realizzazione di massimi simultanei progressivi (Onida, 1965), di “bene comune” (Masini, 1960), di “interesse aziendale”, di “bene inteso interesse aziendale”, di “prosperità e sviluppo duraturo dell’azienda” (Coda, 1988a), di “sviluppo integrale dell’azienda” (Coda, 2006), di sviluppo integrale (Sorci, 2006). Per una sintetica rassegna di tali espressioni si veda Coda V. (2006), il quale sottolinea come, a partire dagli anni Cinquanta, si sia affermata in Italia la critica alla massimizzazione del reddito, per lasciare spazio al concetto di azienda come “istituto economico destinato a perdurare”. “Tale posizione nega l’idea di una funzione obiettivo costruita su un obiettivo singolo (…) e fa coincidere l’obiettivo che deve guidare l’azione di amministratori e manager con la funzionalità duratura dell’azienda, ossia con un obiettivo olistico, che tiene conto della totalità di esigenze da fronteggiare e di obiettivi singoli da perseguire entro un orizzonte temporale lungo, senza identificarsi con nessuno di essi”. Coda V., “Modelli mentali, condizioni di contesto e sviluppo delle aziende”, relazione presentata al Convegno “Lo sviluppo integrale delle aziende”, svoltosi a Palermo presso la Facoltà di Economia il 10 novembre 2006. 48 L’unitarietà dell’impresa si collega strettamente all’unitarietà dell’economia aziendale, idea cara a Gino Zappa, che nelle “Produzioni” (tomo I, p. 3) affermava la sua concezione dell’economia aziendale come “scienza unitaria”, “di vasto contenuto”, che “tende a comporre in un tutto, ordinato generalmente per principi, lo studio dell’economia di azienda nelle sue molteplici e complesse manifestazioni”. 49 In tale prospettiva si può interpretare l’osservazione di Miolo Vitali (1993, p. 744), secondo la quale le valutazioni reddituali, finanziarie e competitive non solo coesistono con quelle eticosociali, ma queste ultime devono adeguatamente essere considerate e integrarsi con le prime: in caso contrario si generano rischi che possono minare profondamente il sistema aziendale. 50 L’impresa non dev’essere orientata alla massimizzazione del reddito di periodo, quanto alla realizzazione di “massimi simultanei, per quanto riguarda salari, dividendi e autofinanziamenti, dinamicamente insieme combinati, anche nelle loro variazioni relative, al fine del loro mutuo rafforzamento” (Onida, 1965, p. 91). 51 “Il raggiungimento dell’equilibrio a valere nel tempo si pone, dunque, quale precondizione indispensabile per qualsiasi considerazione di equità sociale e di etica nel comportamento aziendale ed in particolare nella distribuzione della ricchezza creata tra i vari interlocutori. (…) L’impresa in cui gli obiettivi sociali siano prioritari in assoluto rischia, se danneggia in modo permanente l’economicità, di diventare improduttiva e quindi antisociale” (Chirieleison, 2002, pp. 10-11). 47
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b) Strategic management. Molteplici sono i riferimenti ai vari filoni teorici dello Strategic Management 52 contenuti negli scritti core. Innanzi tutto, il filone sull’eccellenza imprenditoriale è in realtà costituito da contributi, per così dire, di confine: se è vero che essi, stanti il riferimento ai valori, l’enfasi sugli stakeholder diversi dagli azionisti, il frequente richiamo alla necessità dell’integrazione tra fini di natura economica e fini di natura sociale, rientrano a buon diritto nella letteratura al centro dell’interesse del presente lavoro, è altresì vero che costituiscono parte integrante della letteratura sullo strategic management, ovvero un filone di contesto, incentrandosi sulle condizioni che consentono all’impresa di realizzare un ideale di eccellenza “a tutto tondo”. Ciò premesso, due sono i filoni fondamentali ai quali rimandano variamente gli Autori in materia di RSI, business ethics e stakeholder theory: quello “porteriano”, incentrato sul concetto di vantaggio competitivo (Porter, 1980, 1985), e quello della resource–based view (Wernerfelt, 1984, Barney, 1986, 1991 53 ). Al primo sono riconducibili i contributi che vedono nella RSI una fonte di vantaggio competitivo; al secondo quelli che si soffermano sulle relazioni fra RSI, da una parte, e reputazione, capitale sociale o, più in generale, asset intangibili, dall’altra (Hillman e Keim, 2001) 54 . Entrambi sono accomunati dall’idea che i comportamenti responsabili sotto il profilo etico-sociale, così come l’attenzione agli interessi dei diversi stakeholder, possano avere una valenza strumentale rispetto all’obiettivo di accrescimento del profitto o del valore per gli azionisti o, più in generale, siano funzionali all’economicità e alla prosperità duratura dell’impresa (Post, Preston e Sachs, 2002) 55 . Tale assunto, inoltre, soggiace a gran parte dei numerosi lavori che hanno cercato di verificare empiricamente l’ipotesi che le performance economiche dell’impresa crescano al crescere delle performance sociali. Lo sviluppo di relazioni di lungo termine con gli stakeholder primari, improntate alla fiducia e caratterizzate dalla disponibilità a effettuare investimenti specifici, alimenta il capitale reputazionale dell’impresa e genera risorse intangibili che possono accrescere la capacità dell’impresa stessa di Lockett et al. osservano che il maggior numero di citazioni contenute negli articoli esaminati in tema di RSI fanno riferimento ad articoli di management. Tale fatto “could signal that the mainstream management literature itself is able to provide an increasing proportion of the concepts, frameworks and illustrations for such allied fields as CSR (…)” (2006, p. 132). 53 Le risorse in grado di alimentare il vantaggio competitivo sono quelle di valore, rare, non imitabili e tali da richiedere un’organizzazione adeguata per sfruttarle appieno (Barney, 1991). 54 Hillman e Keim si domandano se la gestione degli stakeholder e il contributo alla soluzione di problematiche di natura sociale accrescano o meno il valore che l’impresa produce per gli azionisti e dichiarano che “Our theoretical development draws upon existing literature in social performance and stakeholder management as well as the resource-based view of the firm” (2001, p. 126). 55 “In this article, we integrate all three dimensions – resources, industry structure, and socialpolitical setting – to create a new framework for strategic analysis in the extended enterprise” (Post, Preston e Sachs, 2002: 7). Sui molteplici rapporti fra etica, socialità, valori ed economicità si vedano, fra gli altri, Onida (1961), Gabrovec Mei (1993a), Ferraris Franceschi (2002). 52
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conseguire performance superiori ai concorrenti in termini di creazione di valore nel lungo periodo (Hillman e Keim, 2001). Più controversa appare la relazione fra RSI – la quale implica scelte e comportamenti dell’impresa che vanno oltre la gestione degli stakeholder primari – e creazione di valore per gli azionisti: Hillman e Keim (2001) riscontrano empiricamente una relazione negativa, che si spiegherebbe col fatto che tali scelte e comportamenti 56 , non riguardando gli stakeholder primari quali clienti, fornitori e dipendenti, non intervengono sulle basi di vantaggio competitivo e, quindi, sono facilmente imitabili. Anche i programmi che rientrano nel concetto di “cittadinanza d’impresa” 57 possono essere visti come investimenti strategici alla stregua di quelli in ricerca e sviluppo e in pubblicità, in quanto creano asset intangibili che, a loro volta, aiutano l’impresa a superare le barriere fra un Paese e l’altro, facilitano l’adozione di una strategia globale e permettono di costruire un vantaggio locale. Pertanto, tale forma di responsabilità sociale è un “componente-chiave di un circuito virtuoso mediante il quale le imprese globali creano legittimazione, reputazione e vantaggio competitivo (…)” (Fombrun, 1996). I programmi di cittadinanza d’impresa concorrono pertanto a un vantaggio competitivo di differenziazione, in quanto aiutano l’impresa a costruire la notorietà di marca e la propria reputazione nei diversi mercati locali, aumentando la probabilità di spuntare condizioni contrattuali migliori con i governi locali, di attrarre dipendenti di valore, di conseguire un price premium per i suoi prodotti, di ridurre il costo del capitale (Fombrun, 1996). Si parla, in questi casi, di filantropia strategica (Gardberg e Fombrun, 2006) 58 . Il riferimento al tema delle risorse e competenze è alla base anche degli scritti, numericamente di gran lunga inferiori ma certo non meno significativi, che si soffermano non sulla responsabilità sociale come fonte di risorse e di asset intangibili, ma, viceversa, sul sistema delle risorse e competenze aziendali come condizione per l’efficacia delle politiche e delle iniziative di responsabilità sociale. Si tratta degli scritti che s’interrogano sulle condizioni che accrescono l’efficacia e l’impatto di tali iniziative sugli stakeholder che ne sono destinatari e auspicano che esse si radichino nella strategia dell’impresa (Carroll e Hoy, 1983, Coda, 2004c), nonché nelle attività e nei processi che caratterizzano il business o i business nei quali essa opera (Porter e Kramer, 2002, 2006) 59 .
56 I due Autori citano l’evitare l’energia nucleare, il non intraprendere attività in settori quali quelli delle bevande alcoliche, del tabacco e del gioco d’azzardo, l’evitare relazioni di business con i Paesi accusati di violare i diritti umani, il rifiutarsi di vendere prodotti all’industria militare. 57 Con tale espressione s’intende tradurre quella inglese di corporate citizenship. 58 “(…) strategic philanthropy produces long-term advantages for companies by enhancing the institutional contexts within which they operate and by creating intangible assets” (Gardberg e Fombrun, 2006, p. 330). 59 Un esempio significativo è costituito dagli scritti di Porter e Kramer (2002, 2006) relativi, rispettivamente, alle iniziative filantropiche e alla relazione fra vantaggio competitivo e RSI. “Philanthropic initiatives are typically described in terms of dollars or volunteer hours spent but almost never in terms of impact. Forward-looking commitments to reach explicit performance targets are even rarer.” (2006: 81). Ancora: “Typically, the more closely tied a social issue is to the
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Possono essere ricondotti al filone dello strategic management anche i contributi sul tema delle strategie sociali (Ansoff, 1984, Pastore e Piantoni, 1984) 60 , proprio in quanto applicano alle relazioni fra impresa e stakeholder sociali principi, strumenti e tecniche manageriali mutuati dall’analisi strategica e dalle teorie sulle strategie competitive. c) Corporate governance. L’ampio e articolato apparato concettuale della corporate governance è stato utilizzato nei lavori in tema di RSI e, soprattutto, stakeholder theory allo scopo di individuare modelli e strutture di governance adeguati a rappresentare e a tutelare adeguatamente non solo gli interessi degli azionisti, ma anche quelli di tutti gli altri portatori di interessi che convergono nell’impresa. Si tratta, in ogni caso, di un filone ancora minoritario, nel senso che la maggioranza degli studi sulla corporate governance e, più specificamente, sul ruolo degli incentivi al fine di allineare gli obiettivi hanno come riferimento la creazione di valore per gli azionisti, lasciando in secondo piano gli altri stakeholder. Vi sono per altro un numero non trascurabile di studi, empirici e teorici, nei quali la teoria dei costi di agenzia (Jensen e Meckling, 1976), tradizionalmente applicata al problema dell’allineamento degli obiettivi fra azionisti e management, viene utilizzata anche nell’ambito della stakeholder theory e della RSI. In questa prospettiva, il management è considerato fiduciario non solo degli azionisti, ma anche degli altri stakeholder, il che implica la necessità di valutare eventuali problemi di allineamento di obiettivi fra il management e gli altri stakeholder e, quindi, di individuare forme di incentivi e di remunerazione al management stesso tali da promuoverne scelte e comportamenti ispirati alla responsabilità sociale. Mahoney e Thorn (2005, 2006), per esempio, traendo spunto dal lavoro seminale di McGuire et al. (2003), verificano empiricamente che la componente di stock option nella remunerazione del capo azienda, in quanto maggiormente legata alle performance di lungo termine dell’impresa rispetto alla componente base e ai bonus, è positivamente correlata al livello di RSI 61 . Anche la presenza di investitori istituzionali nella compagine proprietaria, soprattutto se orientati alle performance di medio-lungo periodo, è considerata un fattore in grado di influire sulla RSI, in quanto tali investitori sono in genere particolarmente sensibili ai rischi di passività potenziali derivanti da eventuali comportamenti irresponsabili e quindi inducono le imprese nelle quali hanno investito a operare in conformità ai principi della RSI (Aguilera et al., 2006, Picou e Rubach, 2006, Minoja e Romano, 2006). Sotto un profilo più strettamente teorico, si segnalano, in particolare, i lavori di Hill e Jones (1992), Evan e Freeman (1988) e il già citato lavoro di Donaldson e Preston (1995). Il primo si distingue soprattutto per aver proposto una visione company’s business, the greater the opportunity to leverage the firm’s resources and capabilities, and benefit society” (ibidem, p. 89). 60 Si veda, per una rassegna, Chirieleison, 2002. 61 Si avrà per altro modo di discutere in seguito sui limiti e sui rischi dei programmi di stock option.
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allargata della teoria dei costi di agenzia, integrandola con la stakeholder theory per creare la “stakeholder-agency theory” ed enfatizzare, in questo modo, il ruolo dei manager come “agenti di tutti gli altri stakeholder”. A tale approccio è riconducibile anche il contributo di Sacconi (2006), che definisce la RSI come un modello di corporate governance allargato, nel quale ricomprende le responsabilità e i doveri fiduciari che coloro che governano un’impresa hanno nei confronti dei diversi stakeholder 62 . Nel secondo, in linea con l’approccio al finalismo d’impresa adottato da molti studiosi della scuola aziendalistica italiana 63 , si afferma che il modo migliore per servire gli interessi di una molteplicità di stakeholder è quello di fare il bene dell’impresa in quanto tale, vista come entità astratta al cui benessere deve essere finalizzata l’azione del management 64 . Infine, Donaldson e Preston, come si è già avuto modo di sottolineare, propongono una teoria pluralistica dei diritti di proprietà per fondarvi normativamente la stakeholder theory. In sintesi, mentre i contributi di taglio empirico hanno in prevalenza utilizzato l’apparato concettuale tradizionale degli studi di corporate governance per individuare le condizioni e le variabili di governance più adatte a rappresentare gli interessi dei diversi stakeholder e a favorire comportamenti socialmente responsabili, i lavori teorici più significativi hanno cercato di adattarlo per renderlo coerente con un allargamento della gamma di soggetti i cui interessi sono meritevoli di attenzione, non semplicemente come vincoli all’agire del management. In altri termini, mentre i primi hanno analizzato la corporate governance come determinante o “predittore” della RSI, i secondi hanno inteso integrare i framework teorici della RSI e della stakeholder theory in quello della corporate governance. Ciò ha implicato altresì una messa in discussione del significato e delle cause all’origine della “qualità” della corporate governance 65 : se e nella misura in cui si accoglie l’idea che l’impresa sia un’entità al servizio di una molteplicità di interessi, la qualità della governance deve essere valutata in relazione alla capacità dell’impresa stessa di conoscerli, rappresentarli e, all’occorrenza, contemperarli, non di massimizzare la ricchezza degli azionisti. Inoltre, all’origine di una “buona” corporate governance, nel senso appena delineato, vi sarebbero un sistema di valori e una cultura improntata all’etica (Arjoon, 2006). “Corporate Social Responsibility is a model of extended corporate governance whereby those who run a firm (entrepreneurs, directors and managers) have responsibilities that range from fulfilment of their fiduciary duties towards the owners to fulfilment of analogous fiduciary duties towards all the firm’s stakeholders” (Sacconi, 2006, p. 262). 63 Cfr. supra, punto a) del presente paragrafo. 64 “Management has a duty of safeguarding the welfare of the abstract entity that is the corporation (…). A stakeholder theory of the firm must redefine the purpose of the firm (…). The very purpose of the firm is, in our view, to serve as a vehicle for coordinating stakeholder interest” (Evan e Freeman, 1988, pp. 102-103). 65 “(…) good governance encourage good behaviour. (…) A view must be taken as to what ‘good’ looks like (…). To some extent, the determination of this depends upon the perspective taken of the firm, be it a shareholder perspective (…) or a stakeholder one” (Bender e Moir, 2006, pp. 75-76). 62
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E’ appena il caso di rilevare come lo sviluppo delle teorie core abbia avuto un qualche impatto anche sul concetto di corporate governance adottato da organizzazioni nazionali e internazionali: pur continuando a prevalere un orientamento alla creazione di valore per gli azionisti, non sono infrequenti richiami ai profili etici e agli altri stakeholder, quanto meno in un’ottica strumentale agli interessi degli stessi azionisti 66 . d) Teorie dell’organizzazione Il frequente richiamo alle teorie organizzative nei contributi core si deve, in ultima analisi, a due ragioni: - da un lato, i prestatori di lavoro sono stakeholder dell’impresa. Da ciò discende che il grado di RSI dipende anche dalla misura in cui i valori e i comportamenti degli attori-chiave, nonché i modelli organizzativi adottati, assicurano un’adeguata considerazione delle legittime attese e interessi dei prestatori di lavoro; - dall’altro, i prestatori di lavoro sono “parte attiva” dei comportamenti dell’impresa e quindi hanno un ruolo fondamentale affinché l’impresa nella quale operano si ispiri a principi etici e agisca in modo socialmente responsabile. Sotto il primo profilo, ci si richiama alle ragioni di tipo etico che suggeriscono di adottare modelli organizzativi di tipo partecipativo – ossia un modello di tipo “comunitario” o di tipo “libertario” (Collins, 1997) 67 – e ai contributi che spiegano come il rispetto e la valorizzazione del personale, al di là della valenza etica, hanno una forte valenza strategica, costituendo una base fondamentale del vantaggio competitivo (Pfeffer, 1994, 2005b). Sotto il secondo profilo, il riferimento alle teorie dell’organizzazione è funzionale a identificare le condizioni organizzative atte a promuovere all’interno di un’impresa comportamenti etici e socialmente responsabili. Riflessione teorica e ricerca empirica riconoscono tali condizioni in un sistema di valori 68 e in una cultura organizzativa 69 che valutano positivamente 66 Significativi a questo proposito alcuni passi del commentario che accompagna i “Principi di Corporate Governance” contenuti nel report dell’American Law Institute (1992). Pur ribadendo che l’impresa deve agire al fine di accrescere i profitti per gli azionisti e che la risposta a istanze di tipo etico e sociale torna spesso a vantaggio degli stessi azionisti nel lungo termine, si osserva che “Nevertheless, observation suggests that corporate decisions are not infrequently made on the basis of ethical consideration even when doing so would not enhance corporate profit or shareholder gain. Such behavior is not only appropriate, but desirable (…)” (p. 80). 67 “From an organizational perspective, if companies organized on the basis of communitarian or libertarian policies and structures can be demonstrated to be as successful as authoritarian companies, these alternatives models of organizational relations (…) should be adopted because of ethical considerations. (…) The communitarian and libertarian models are preferable because they are based on the essential goodness of most human beings and aim at encouraging personal liberty as long as the pursuit of liberty is beneficial to the larger community” (Collins, 1997, pp. 503-504). 68 Argandoña (2003, p. 26, nota 25) sottolinea l’ampia letteratura sul ruolo dei valori nelle organizzazioni, che ne influenzano la scelta delle strategie (Guth e Tagiuri, 1965), il comportamento organizzativo (Hofstede, 1976), le performance (Peters e Waterman, 1982).
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l’assunzione di decisioni conformi ai principi etici (Bowen, 2004) e che hanno un marcato carattere partecipativo, in quanto alimentano un contesto più favorevole, rispetto a una cultura di tipo autoritario, alle valutazioni e alle analisi etiche autonome da parte degli “agenti morali” all’interno dell’impresa; in uno stile manageriale e in una “visione del mondo” da parte del management conformi alla “Teoria Y” di McGregor (1960), in quanto creano un ambiente aperto nel quale, ancora una volta, è più elevata la propensione a compiere autonome valutazioni etiche; in sistemi operativi e di gestione del personale che integrino gli obiettivi di carattere etico-sociale, includendoli esplicitamente nei sistemi di assegnazione degli obiettivi, di valutazione delle performance e di incentivazione del management e del personale tutto (Treviño, 1990, Weaver et al., 1999). Ciò significa, in altri termini, far sì che i programmi e le politiche riguardanti l’etica e la RSI siano strettamente collegati alle attività e ai processi organizzativi che si svolgono nel day by day (Cohen, 1993, Metzger et al., 1993, Weber, 1993). Tale ultima condizione, a sua volta, dipende fortemente dai valori e dal commitment etico del top management 70 . Una cultura organizzativa improntata all’etica tende ad autoalimentarsi, in quanto, riflettendosi nella reputazione dell’impresa, costituisce un fattore di attrazione che facilita la selezione e il reclutamento di persone con valori etici forti (Bowen, 2004). A ben guardare, le due ragioni sopra richiamate, che inducono gli studiosi di RSI a fare frequente riferimento alle teorie organizzative, potrebbero ricondursi a una sola, dal momento che – come taluni riconoscono (per es., Masini, 1960, 1979) – le condizioni organizzative e gli stili manageriali più orientati al rispetto, all’autonomia e alla valorizzazione del personale coincidono sostanzialmente con quelle che favoriscono l’adozione di comportamenti e atteggiamenti ispirati all’etica e alla responsabilità sociale da parte del personale stesso. e) Teorie di marketing Già nel 1986 Murray e Montanari concettualizzavano la responsabilità sociale come un “prodotto” implicitamente offerto dall’impresa ai suoi vari “pubblici” 71 e quindi come il focus di un processo di scambio fra l’impresa e la società, inaugurando in tal modo un approccio di marketing all’analisi del management responsabile. Citando Sweeney (1972), essi affermavano che la responsabilità sociale non è un vincolo posto all’azione di marketing, ma un elemento ad esso intrinseco, essendo i processi di marketing funzionali a risolvere i bisogni della società in modo efficace ed efficiente. La maggior parte degli studi in tema di RSI che si rifanno alle teorie di marketing adottano tuttavia una prospettiva meno ampia e pongono al centro “The over-arching commitment to establishing and maintaining favorable relationships with all stakeholder has to become an integral part of the culture of the organization” (Post, Preston and Sachs, 2002: 22). 70 Weaver et al. (1999, p. 547) affermano, anche sulla base dei risultati di una ricerca empirica, che “senior management’s commitment to ethics is an essential part of what drives organizations to proactive, socially responsible performance”. 71 Il termine “pubblici” può essere inteso come sinonimo di stakeholder. 69
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dell’attenzione i consumatori finali secondo due ottiche principali. In base alla prima, i consumatori finali costituiscono una particolare categoria di stakeholder del cui benessere l’impresa deve farsi carico e nei confronti dei quali deve agire in modo etico: rientra in quest’ambito, per esempio, il filone incentrato sul social responsible pricing, visto come condizione necessaria per aumentare l’accesso ai farmaci da parte delle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo (Vachani e Craig Smith, 2004). In base alla seconda ottica s’indagano le reazioni dei consumatori alle iniziative socialmente responsabili delle imprese (per es., Sen e Bhattacharya, 2001, Bhattacharya e Sen, 2004): queste ultime possono trarre vantaggio, sotto il profilo economico, da comportamenti e iniziative all’insegna della responsabilità sociale se sono in grado di identificare e di scegliere come target i segmenti di consumatori ad esse più sensibili. Tale prospettiva è stata adottata, per così dire, anche in negativo, nel senso di studiare le reazioni dei consumatori alle campagne di boicottaggio promosse da organizzazioni non governative per sanzionare ed esercitare pressione su imprese a loro dire irresponsabili (per es., Klein et al., 2004). Alcuni recenti contributi auspicano un’estensione delle teorie e dei modelli consolidati di marketing alla gestione della RSI, nel senso di espandere il focus dai soli consumatori finali all’intera gamma di stakeholder: per esempio, i modelli e gli strumenti utilizzati per identificare le attese e le percezioni dei consumatori potrebbero essere utilizzati anche con riferimento ad altri portatori di interessi, così come la conoscenza sviluppata dalla letteratura di marketing sul modo in cui l’etica influenza le percezioni, i modi di ragionare, i processi decisionali dei marketing manager potrebbe essere utilizzata avendo riguardo al management in generale. Inoltre, gli studi di marketing volti a comprendere il ruolo di specifiche iniziative (quali il boicottaggio) da parte di specifiche categorie di stakeholder (in primis, i consumatori finali) potrebbero essere estesi in modo da individuare le diverse strategie attraverso le quali i vari stakeholder esercitano un potere sulle imprese (Maignan e Ferrell, 2004) 72 . 2.1.3 I filoni al contorno: le teorie di matrice non economica i) Etica e filosofia morale L’etica 73 , che è parte integrante della filosofia, costituisce la disciplina non economica per eccellenza alla quale si rifanno molti dei contributi al centro dell’interesse del presente lavoro, in primo luogo quelli riconducibili al filone
72 “Overall, past studies have rarely considered how marketing thinking and practices can contribute to the development of socially responsible practices throughout the organization” (Maignan and Ferrell, 2004, p. 5). 73 Cfr. Morin E., Etica, 2005, p. 3: “L’etica si manifesta a noi, in maniera imperativa, come esigenza morale. Il suo imperativo nasce da una fonte interna all’individuo che sente nella sua mente l’ingiunzione di un dovere. Proviene anche da una sorgente esterna: la cultura, le credenze, le norme di una comunità”.
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della business ethics. 74 Quella di un ancoraggio all’etica è per altro un’esigenza avvertita non soltanto nell’ambito di tale specifico filone, ma a livello più generale dagli studiosi delle discipline aziendalistiche, tant’è che Evan e Freeman già nel 1988 osservavano come la teoria dell’impresa debba essere riconcettualizzata “along essentially Kantian lines” (p. 97). L’etica è richiamata sotto almeno tre differenti profili, per altro fra loro strettamente connessi: a) come “contenuto” delle azioni e delle scelte dei diversi “attori” dell’impresa; b) come criterio di valutazione e di discernimento per la scelta di corsi di azione alternativi; c) come motivazione all’agire in modo socialmente responsabile. Sotto il primo profilo, vi sono prodotti o servizi 75 , così come comportamenti, che possono definirsi “etici” e altri no; il profitto stesso è giudicato etico o meno in quanto tale, oppure in relazione alla prospettiva temporale con cui viene perseguito – di breve o di lungo periodo – e in relazione alle modalità con le quali è ottenuto e all’utilizzo che ne viene fatto (Coda, 1988b, 2001). La stessa RSI è da taluni vista come etica, nel senso che è etico per un’impresa agire in modo socialmente responsabile, mentre non lo è non adottare iniziative e pratiche ispirate alla RSI. Analogamente, l’agire dell’impresa ispirato alla stakeholder theory è da taluni considerato più etico rispetto a quello motivato dalla ricerca della massimizzazione del profitto o del valore per gli azionisti 76 . Sotto il secondo profilo, l’etica definisce una serie di principi e di criteri che dovrebbero guidare coloro che sono chiamati ad assumere decisioni nell’ambito dell’impresa: l’integrazione della filosofia morale nei processi di strategic management è considerata dagli studiosi di business ethics una condizione per offrire vantaggi e benefici ai diversi stakeholder (Robertson e Crittenden, 2003) 77 . L’approccio normativo della stakeholder theory, che è complementare a quello descrittivo e a quello manageriale, si fonda proprio su principi di ordine morale e filosofico: come riconoscono Donaldson e Preston (1995, p. 72), “a normative theory attempts to interpret the function of, and offer guidance about, the investor-owned corporation on the basis of some underlying moral or philosophical principles”. Come vari studiosi riconoscono, il riferimento a principi e a valori di carattere etico nelle scelte e nelle decisioni nell’ambito di un’impresa può esporre il decisore a due ordini di problemi: i dilemmi etici e il relativismo etico. I primi si pongono allorché i corsi di azione alternativi fra i quali un decisore può scegliere non sono privi di conseguenze indesiderabili. Il secondo si manifesta in modo 74 “The body of knowledge known as moral philosophy provides an important foundation for business ethics research” (Robertson e Crittenden, 2003, p. 386, citando Ferrell, Fraedrich e Ferrell, 2000). 75 Coda (2001) sottolinea “la incompatibilità di certe attività produttive (come, ad esempio, quelle aventi per oggetto la produzione e commercializzazione di materiale pornografico e di droghe) con una concezione etica dell’impresa”. 76 Cfr. Donaldson e Preston, 1995, e supra, § 2.1.1. 77 “Business ethicists believe executives can achieve organizational and stakeholder benefits by effectively integrating moral philosophy into strategic management process (Hosmer, 1994, Singer, 1992)” (Robertson e Crittenden, 2003: 385).
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problematico quando un’impresa – tipicamente multinazionale – si trova a operare in contesti geografici diversi ai quali corrispondono standard etici differenti. I dilemmi etici, a ben guardare, sono non di rado problemi mal posti, in quanto poggiano sull’assunto che valutazioni etiche e valutazioni economiche siano necessariamente antitetiche. Una tale impostazione di pensiero, a sua volta, dipende dal fatto che si adotta un orientamento di breve periodo, trascurando in tal modo come, in una prospettiva temporale più lunga, esse tendenzialmente convergono, oppure dal fatto che si formulano giudizi moralistici, che prescindono cioè da un’adeguata conoscenza delle situazioni concrete 78 e “fanno discendere meccanicamente certe conseguenze operative dalla norma morale senza calarsi in profondità nella situazione del decisore cui incombe tra l’altro il dovere di assicurare la funzionalità e lo sviluppo aziendale” (Coda, 1992). Il relativismo etico, che costituisce parte integrante del relativismo culturale 79 , si fonda sul presupposto che gli standard etici variano da cultura a cultura (Donaldson, 1996): ne discende che taluni comportamenti e pratiche accettati in certi Paesi non lo sono in altri, determinando in tal modo un elemento di complessità che il management di un’impresa multinazionale deve gestire. A tal fine si rendono necessari dei modelli che aiutino a identificare la filosofia morale dominante nei Paesi in cui si opera o ci si appresta ad operare e a comprendere i fattori che plasmano le norme e i valori in essi prevalenti: Robertson e Crittenden (2003) individuano cinque filosofie morali – egoismo, utilitarismo, formalismo, etica della virtù e relativismo morale – a ciascuna delle quali corrispondono peculiari sistemi di valori e di norme etiche. La filosofia morale che caratterizza uno specifico Paese o società dipende, secondo gli Autori, dall’ideologia economica prevalente – che si colloca lungo un continuum compreso fra socialismo e capitalismo – e dalla cultura prevalente (Hofstede, 1980), anch’essa definita all’interno dei due poli “Occidentale” e “Orientale” (Ralston et al., 1997). Infine, è ampiamente consolidata – anche se, come si avrà modo di dire più diffusamente in seguito, per certi versi inadeguata – la distinzione fra motivazioni di carattere strumentale e motivazioni di tipo normativo all’origine dei comportamenti e delle scelte d’impresa socialmente responsabili. Nel primo caso la RSI è guidata da una sorta di enlightened self – interest, ossia è dettata da precise scelte di convenienza, quali la salvaguardia della reputazione dell’impresa, la motivazione e quindi la produttività del personale, il minor “(…) In effetti, un’etica di principio che non può entrare negli ingranaggi della realtà diventa angelismo, ma un realismo politico senza principi che accetta tutti i fatti compiuti diventa cinismo” (Morin, op. cit., 2005, p. 74). 79 Il relativismo si contrappone all’universalismo, che postula l’esistenza di alcuni valori fondamentali, quali ad esempio la libertà, condivisi da tutti gli uomini, a prescindere dalla provenienza geografica (Sen, 1999). Sul piano dinamico, la teoria della convergenza – secondo la quale gli standard e le norme morali tendono a convergere su scala globale – si contrappone a quella della divergenza, in base alla quale gli individui tendono a preservare alcuni valori specifici a prescindere dalle influenze esterne. Per una sintetica rassegna sul tema si vedano Robertson e Crittenden (2003). 78
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rischio e il conseguente minore costo del capitale e via dicendo. Nel secondo caso, i comportamenti socialmente responsabili sono adottati in quanto coerenti con un sistema di valori e di principi di ordine morale, a prescindere dall’impatto che la loro adozione produce sui risultati economici e competitivi dell’impresa. Vi è chi sostiene che l’unica RSI auspicabile è la sua forma più pura, ossia quella che si regge su motivazioni di ordine etico: il più autorevole fautore di tale posizione è Henry Mintzberg, secondo il quale “the more ethical forms of social responsibility become imperative, at least if we are to have a humane society. (…) It is our ethics that keep us from falling any lower. Without them – without the pure form of corporate social responsibility, even such as it is – we would be in serious trouble” (1983, p. 13). ii) Psicologia cognitiva I lavori in tema di RSI, stakeholder theory e business ethics che si rifanno alla psicologia cognitiva non sono, a onor del vero, particolarmente rilevanti sul piano quantitativo. Ciò nonostante, essi offrono alcuni spunti utili a interpretare l’origine di un certo livello di responsabilità sociale di un’impresa e, per tale via, forniscono alcune indicazioni utili ai fini del suo rafforzamento. L’approccio cognitivo, relativamente consolidato in altri ambiti di studio e di ricerca all’interno delle discipline manageriali e organizzative (per es., Huff, 1990, Walsh, 1995, Gavetti e Levinthal, 2000, Porac et al. 1995), sta per altro assumendo, negli ultimi tempi, una rilevanza crescente anche negli studi in tema di RSI. I sentieri di ricerca empirica e di analisi teorica che ricorrono alla psicologia cognitiva sono riconducibili fondamentalmente a tre. Il primo cerca nelle mappe cognitive e nei modelli mentali del management e, in generale, degli attorichiave dell’impresa le radici dei comportamenti più o meno responsabili da essi concretamente adottati. Coda (2004c), per esempio, riconosce che la scarsa diffusione di strategie che si rifanno ad una concezione dell’impresa come public good dipende proprio dai modelli mentali più diffusi e consolidati fra i manager, ovvero modelli basati su concezioni antagonistiche fra gli interessi di cui sono portatori i diversi stakeholder – in particolare azionisti e prestatori di lavoro –, modelli e stili di leadership del tipo “comando e controllo”, come tali scarsamente adatti alla valorizzazione e al coinvolgimento dei collaboratori, modelli basati su un “razionalismo economicista di natura essenzialmente statica”, non compatibile con l’adozione di strategie innovative capaci di coniugare sinergicamente esigenze economiche ed esigenze etico-sociali. Il secondo individua nei gap cognitivi fra attese degli stakeholder e percezione che di esse hanno i decisori all’interno delle imprese uno dei fattori fondamentali che limita il livello di responsabilità sociale delle imprese stesse o, forse meglio, il livello di soddisfazione da parte degli stakeholder. Il terzo, infine, si domanda attraverso quali meccanismi e processi si può accrescere il grado di “consapevolezza sociale” degli attori-chiave delle imprese e, per tale via, l’adozione di comportamenti socialmente responsabili: può trattarsi di processi di apprendimento dei valori e dei modelli mentali funzionali alla formulazione di 47 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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strategie capaci di coniugare sinergicamente gli interessi dei diversi stakeholder (Coda e Mollona, 2002); di processi e routines di knowledge management finalizzati alla raccolta e all’elaborazione di informazioni utili a identificare le attese da parte degli stakeholder e a riconoscerne la dinamica evolutiva; di iniziative di formazione volte ad accrescere il grado di “consapevolezza sociale” da parte dei manager. Si tratta, ad evidenza, di tre sentieri di ricerca di fatto strettamente collegati, nel senso che, implicitamente o esplicitamente, condividono due assunti di fondo: da un lato, l’adozione di pratiche e di comportamenti socialmente responsabili discende in misura rilevante da fattori inerenti la sfera cognitiva dei decisori, siano essi le mappe cognitive, i modelli mentali, il grado di consapevolezza e di coscienza sociale; dall’altro, la modifica dei comportamenti nella direzione di una maggiore eticità e responsabilità richiede interventi che agiscono sulla sfera cognitiva del soggetto decisore, finalizzati dapprima a fargli prendere consapevolezza e poi ad aiutarlo a modificare gli assunti e i modelli mentali attraverso i quali si rappresenta la realtà e agisce di conseguenza. Ciò è vero per quanto riguarda sia i singoli individui, sia le organizzazioni, il cui apprendimento della RSI è analizzato partendo dagli studi di psicologia sociale (Weick, 1979) e di sociologia organizzativa (Nonaka, 1994, Ocasio, 1997). A dimostrazione dell’ipotesi sopra avanzata della crescente importanza della psicologia cognitiva negli studi di RSI sta il fatto che uno dei progetti di ricerca 80 più rilevanti sul tema a livello internazionale, finanziato dalla Commissione Europea e conclusosi ufficialmente il 31 agosto 2007 dopo oltre tre anni di lavoro, utilizza proprio un approccio cognitivo allo scopo sia di interpretare eventuali disallineamenti (gap) fra i comportamenti delle multinazionali e le attese dei rispettivi stakeholder, sia di individuare modalità utili per risolverli o ridurli. Alla base di tale progetto, infatti, sta l’ipotesi che le imprese e i loro leader possano incorrere in problemi di ordine cognitivo nell’interpretazione delle attese da parte della società e, pertanto, sia necessario identificare eventuali gap fra tali attese e il modo in cui le imprese stesse definiscono le proprie responsabilità di ordine sociale. Ciò implica che lo sviluppo di processi di apprendimento e di knowledge management, a livello sia individuale, sia di impresa, è funzionale alla riduzione di tali gap: quanto più evoluti sono i “sensori” messi a punto a tal fine – ossia le routine dedicate alla raccolta di informazioni e le funzioni atte a elaborarle – tanto minori si suppone siano le discrepanze nell’interpretare le attese degli stakeholder e tanto più veloce la loro riduzione. Infine, s’intende sperimentare l’attitudine di alcune tecniche formative e pratiche introspettive ad accrescere il livello di “consapevolezza sociale” dei manager e quindi la loro disponibilità ad adottare comportamenti socialmente responsabili.
Trattasi del progetto “Response”, acronimo del titolo “Understanding and Responding to Societal Demands on Corporate Responsibility”. 80
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iii) Sociologia e istituzionalismo Si rifanno alle teorie sociologiche e, in particolare, all’istituzionalismo i lavori che affrontano il tema della RSI come risposta al problema della legittimazione sociale dell’impresa nel contesto sociale in cui è inserita: Weaver, Treviño e Cochran (1999: 540) osservano che “according to institutional theory (DiMaggio and Powell, 1983, Scott, 1995), pressures for legitimacy 81 may reside in the explicit demands of societal institutions, such as governement agencies (…)”. Le decisioni assunte e le strategie formulate dal top management risentono dunque non soltanto delle pressioni sulle risorse di cui l’impresa necessita, ma anche di quelle di carattere istituzionale, provenienti dallo Stato e dalla società, ad adottare determinati comportamenti e strutture e ad agire in conformità ai valori nei quali la società si riconosce (Selznick, 1957, Narayan Pant e Lachman, 1998). Il contesto istituzionale, con i valori che lo caratterizzano e le valutazioni di ordine morale che ne discendono in merito a quali dovrebbero essere le norme e i valori, i fini e i mezzi delle organizzazioni, costituisce una determinante fondamentale del rischio sociale per l’impresa (Yaziji, 2004). Chirieleison 82 osserva come la mancanza della legittimazione sociale “potrebbe comportare la reazione da parte degli attori del sistema e la rottura di quel «contratto sociale» che lega l’impresa alla comunità in cui opera”, rendendo più difficile per l’impresa l’ottenimento delle risorse e dei consensi di cui ha bisogno. I ricercatori che studiano le cause all’origine dei comportamenti socialmente responsabili delle imprese – raccomandano però Weaver, Treviño e Cochran (1999) – devono prestare attenzione a distinguere il ruolo delle pressioni di ordine sociale e istituzionale dalla discrezionalità manageriale: essi hanno infatti verificato empiricamente che il commitment personale e le motivazioni intrinseche del top management nei confronti dell’etica costituiscono, non meno delle pressioni di ordine sociale, elementi fondamentali che concorrono a determinare il comportamento etico delle organizzazioni. 2.2 Premesse di valore, variabili e research questions Dal momento che l’obiettivo di questo libro è capire come la responsabilità sociale possa essere integrata nella strategia d’impresa, la sterminata letteratura in tema di valori, responsabilità, etica d’impresa non viene qui analizzata tanto sotto il profilo delle dimensioni e delle attività che ne costituiscono i contenuti specifici 83 , quanto piuttosto delle molteplici relazioni che collegano tali temi a “Legitimacy is a generalized perception or assumption that the actions of an entity are desirable, proper, or appropriate within some socially constructed system of norms, values, beliefs, and definitions” (Suchman, 1995, p. 574). 82 Chirieleison, op. cit., 2002, p. 16. L’autrice considera la “legitimacy theory” come un vero e proprio filone (p. 16, nota 68). 83 Possibili approcci alternativi di analisi della letteratura consistono, ad esempio, nel distinguere i diversi contributi in relazione agli specifici filoni affini a quello principale della RSI (corporate citizenship, corporate social responsiveness, ecc.) ai quali si è fatto cenno nel § 2.1.1. Tencati, Perrini e Pogutz (2004) distinguono invece fra attività realizzate per promuovere la RSI 81
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quelli economico-aziendali della strategia e del management, dell’organizzazione, delle performance. In altri termini, il focus dell’analisi è posto sulle relazioni tra i temi core e i principali filoni di studio “di contesto” dell’economia aziendale e del management individuati nel § 2.1. Si propongono pertanto due dimensioni fondamentali lungo le quali analizzare la letteratura in tema di valori, responsabilità sociale, etica d’impresa:
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1) le assunzioni e i convincimenti degli autori in merito al ruolo sociale dell’impresa, ossia se essa debba rispondere o meno, e secondo quali priorità, a istanze espresse da stakeholder diversi dagli azionisti, nonché al modo in cui il management debba comporre a unità le molteplici istanze espresse dai vari stakeholder; 2) i contenuti degli scritti in termini di variabili analizzate, di relazioni fra tali variabili e di research questions. La scelta di tali due dimensioni si giustifica sulla base delle seguenti argomentazioni: - la distinzione proposta ricalca quella fra le assunzioni e i convincimenti di fondo, da una parte, le scelte e le azioni concrete, dall’altra, come livelli fondamentali che concorrono a definire la strategia d’impresa (Coda, 1988a); - la scelta dei temi da trattare, gli interrogativi di ricerca, lo sviluppo delle argomentazioni da parte dei diversi autori possono essere compresi appieno solo alla luce delle assunzioni e dei convincimenti sui quali in ultima analisi si fondano; - le assunzioni e i convincimenti di fondo degli autori possono avere un impatto importante sull’evoluzione dei convincimenti e dei valori dei manager e degli imprenditori, nonché sui profili etici e sociali delle scelte e delle azioni concrete da essi intraprese. Se ciò è vero con riferimento, in generale, sia agli studi sia alle ricerche accademiche in ambito manageriale 84 , a maggior ragione lo è, con ogni probabilità, nel (donazioni, investimenti diretti, sponsorship, adozione di sistemi manageriali, adozione di codici di condotta, programmi di coinvolgimento dei dipendenti, corporate campaigning, partecipazione a programmi di CSR) e dimensioni della CSR (rispetto dei principi etici; codici di condotta, qualità della vita, trasparenza, marketing, selezione di clienti e fornitori, reputazione, iniziative a vantaggio della comunità locale, filantropia, diritti umani, pari opportunità, sicurezza dei dipendenti, protezione dell’ambiente). 84 “I argued that academic research related to the conduct of business and management has had some very significant and negative influence on the practice of management. These influences have been at the level of adoption of a particular theory and more at the incorporation, within the worldview of managers, of a set of ideas and assumptions that have come to dominate much of the management research. More specifically, I suggest that by propagating ideologically inspired amoral theories, business schools have actively freed their students from any sense of moral responsibility”. Ghoshal S., “Bad Management Theories Are Destroying Good Management Practices”, Academy of Management Learning & Education, 2005, vol. 4 (1), p. 76.
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caso specifico della teoria e della ricerca avente per oggetto l’etica e la RSI 85 ; una differente classificazione dei contenuti rispetto a quella proposta nel § 2.1 è opportuna sia perché tra i filoni core sinteticamente illustrati vi sono significative sovrapposizioni, sia, soprattutto, perché essa non dà adeguato rilievo alle molteplici connessioni esistenti fra i contenuti e i processi della strategia aziendale e del management, da una parte, le variabili e le scelte di natura etico-sociale, dall’altra. Si avverte, in altri termini, l’esigenza di rileggere criticamente la vasta letteratura definita core per valutare, da un lato, quali contributi, di ordine sia analiticointerpretativo, sia normativo, essa fornisce nell’ottica di accrescere il grado di responsabilità e di sostenibilità nel tempo delle scelte strategiche operate dal management delle imprese, dall’altro, se e in che misura essa, nel formulare le proprie valutazioni di ordine etico-sociale, recepisce le problematiche tipiche di ordine economico-aziendale, radicando le prime nelle seconde.
2.2.1 Le assunzioni e i convincimenti in merito al ruolo sociale dell’impresa Il posizionamento degli studi lungo la dimensione delle assunzioni e dei convincimenti degli autori in merito al ruolo sociale dell’impresa si definisce a quattro differenti livelli. a) A un primo livello, vi sono studi che negano e altri che riconoscono che l’impresa abbia delle responsabilità che vanno oltre la mera massimizzazione del profitto o del valore per gli azionisti. La posizione di coloro che negano l’esistenza di tali responsabilità poggia su due ordini di ragioni (Margolis e Walsh, 2003, Levitt, 1958, Friedman, 1962, 1970, Trabucchi, 1975): i. il funzionamento di una sorta di mano invisibile 86 . Il contributo dell’impresa al benessere sociale è massimizzato se e solo se essa persegue la massimizzazione del profitto per gli azionisti (Friedman, 1970) o del valore di mercato nel lungo termine (Jensen, 2002). Alcuni autori riconducibili a tale impostazione, pur dicendosi convinti dell’efficacia della mano invisibile come meccanismo di allocazione Alcuni Autori (oltre al già citato Ghoshal, si vedano per esempio Pfeffer and Fong, 2004) attribuiscono alle business school una qualche responsabilità di avere contribuito a creare e a diffondere una cultura orientata alla massimizzazione del valore per gli azionisti, la quale, a sua volta, avrebbe indotto non pochi manager a sacrificare anche l’etica pur di raggiungere tale obiettivo. 86 “For a long time it has been presumed that the actions of the firm automatically serve the common good, thanks to the virtues of the market and its famous ‘invisible hand’. Today this link is becoming much less clear”. De Woot P., 2005, p. viii. 85
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delle risorse ed esprimendo diffidenza nei confronti dell’idea che l’impresa compia investimenti sociali, ammettono questi ultimi purché l’impresa ne dia adeguata comunicazione (disclosure), così che i “partecipanti” che non concordano con tale scelta possano preventivamente uscire (Easterbrook e Fischel, 1991); ii. rispondere alle istanze di natura sociale è compito dei pubblici poteri: nel momento in cui l’impresa se ne fa carico viene meno al suo ruolo fondamentale, sottrae indebitamente risorse ai suoi azionisti e invade un campo non suo, per operare nel quale non possiede le competenze necessarie (Friedman, 1970). La posizione di coloro i quali riconoscono che l’impresa abbia anche responsabilità di ordine etico-sociale poggia innanzi tutto su una differente concezione dei fini e del ruolo dell’impresa stessa rispetto a quella propria della teoria neoclassica e della visione contrattualistica, una concezione nella sostanza riconducibile alla stakeholder theory. Una tale concezione dei fini dell’impresa si fonda, a sua volta, su diversi ordini di ragioni: i. in primo luogo, le decisioni e le azioni realizzate dall’impresa hanno conseguenze non solo economiche, ma anche sociali, fra loro strettamente intrecciate (Mintzberg, 1983, De Woot, 2005, Coda, 2004c) 87 . Non si tratta soltanto dell’impatto sociale positivo legato all’assolvimento della missione produttiva propria dell’impresa, ma anche di conseguenze potenzialmente negative – per l’occupazione, l’ambiente, ecc. – che l’impresa è chiamata a prevenire o, nel caso in cui esse si manifestino, a porvi rimedio; ii. inoltre, l’impresa è spesso dotata di risorse e di competenze che la rendono in grado di far fronte efficacemente, secondo una logica proattiva e non meramente allo scopo di rimediare a danni da essa stessa prodotti, a specifici fabbisogni di ordine sociale, ben al di là di quanto prescritto dalla legge (Porter e Kramer, 2002, 2006, Margolis e Walsh, 2003); iii. infine, l’adoperarsi per rispondere alle istanze di stakeholder diversi dagli azionisti non è affatto incompatibile, a certe condizioni, con la generazione di profitti e di valore per gli azionisti stessi (Margolis e Walsh, 2003, Coda, 2004c) 88 . b) A un secondo livello, vi sono autori che, pur ammettendo che l’impresa debba tenere in debita considerazione anche gli interessi e le istanze di soggetti diversi dagli azionisti, riconoscono alla “socialità” un ruolo subordinato e strumentale (o di vincolo) rispetto all’obiettivo di massimizzazione del profitto o 87 “The strategic decision of large organizations inevitably involve social as well as economic consequences, inextricably intertwined. That is what renders the arguments of Friedman, and his echoes from the left, so utterly false” (Mintzberg, 1983, p. 12). 88 Questo punto sarà ripreso e approfondito in seguito a proposito del “terzo livello” al quale si analizzano le assunzioni e i convincimenti degli Autori in merito al ruolo sociale dell’impresa.
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del valore per gli azionisti; altri, invece, ritengono che la “socialità” sia da ricomprendere nel sistema di obiettivi dell’impresa. i. Alla prima corrente di pensiero sono riconducibili i contributi che enfatizzano il ruolo dell’”enlightened self – interest” (Craig Smith, 2003), osservando come la capacità dell’impresa di riconoscere e di rispondere adeguatamente alle istanze di stakeholder diversi dagli azionisti ne rafforzi la legittimazione (Wartick e Cochran, 1985, Wood, 1991), la reputazione, il consenso da parte degli stakeholder; migliori il contesto istituzionale nel quale l’impresa opera e crea asset intangibili (Fombrun, 1996, Fombrun et al., 2000, Godfrey, 2005, Porter e Kramer, 2002); ne riduca il profilo di rischio; aumenti il commitment da parte dei dipendenti (Kotler e Lee, 2005), promuovendo in tal modo la competitività e quindi la redditività dell’impresa stessa; ne aumenti il prezzo di mercato delle azioni riducendo in tal modo il costo del capitale (Mackey et al., 2007). Sono altresì riconducibili a tale corrente di pensiero i numerosissimi lavori che cercano di dimostrare empiricamente come le risposte positive alle istanze dei diversi stakeholder (corporate social performance) impattino positivamente sui risultati economici e finanziari (corporate financial performance): lo scopo ultimo di tali contributi, secondo Margolis e Walsh (2003), è proprio quello di dimostrare che l’adozione di comportamenti socialmente responsabili conviene, in quanto migliora i risultati per gli stessi azionisti. In sintesi, secondo gli autori che si rifanno a tale corrente di pensiero, la responsabilità sociale costituisce una sorta di vincolo per l’impresa, nel senso che se non rispetta certi standard minimali di socialità potrebbero risentirne pericolosamente credibilità e reputazione, o è strumentale all’obiettivo della massimizzazione del profitto o del valore per gli azionisti. ii. Alla seconda corrente di pensiero appartengono gli autori a giudizio dei quali l’impresa debba farsi carico delle istanze di stakeholder diversi dagli azionisti non in relazione all’impatto che tale comportamento potrebbe avere sui risultati economici, ma in ossequio a valori e principi etici, o comunque all’idea che l’impresa, per sua natura, sia al servizio di una molteplicità di stakeholder. Già nel 1983 Mintzberg sottolineava come l’unica forma credibile di responsabilità sociale dell’impresa sia quella fondata su valori etici: “Only in its purest form – as an ethical position – can corporate social responsibility stand by itself” 89 ; “But given the immense power of large corporations (…) the more ethical forms of social responsibility become imperative, at least if we are to have a humane society” 90 . Analogamente, Weaver, Treviño e Cochran 89 90
Mintzberg, 1983, p. 5. Mintzberg, 1983, p. 12.
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(1999) osservano come vi siano top manager il cui rispetto per i principi etici non è dettato da una logica strumentale, ma da un autentico desiderio di agire secondo integrità e di “fare la cosa giusta”. Tale orientamento etico non è in conflitto, ma si accompagna, disciplinandolo al tempo stesso, ai tradizionali obiettivi di ordine strategico, finanziario e operativo 91 . Seguendo la stessa linea di pensiero, Margolis e Walsh (2003) osservano che vi sono ragioni di ordine normativo, riconducibili cioè alla sfera dei valori etici e indipendenti dalle possibili implicazioni positive di ordine finanziario, per rispettare gli stakeholder 92 . L’idea che vi sia un imperativo morale per i manager a “fare la cosa giusta”, a prescindere dalle implicazioni in termini di performance finanziaria dell’impresa, è alla base di quella che Donaldson e Davis (1991) definiscono stewardship theory. De Woot (2005) osserva come il tema dell’impatto e della responsabilità sociale dell’impresa chiama in causa lo scopo, i valori, la cultura dell’impresa, in una parola, la sua ragion d’essere. Coloro che ritengono che la “socialità” sia da ricomprendere nel sistema di obiettivi dell’impresa si fondano, oltre che su motivazioni di ordine strettamente etico, su una concezione d’impresa che si rifà alla stakeholder theory o, meglio, a una parte di essa. Infatti, sebbene vi sia chi sostiene che un approccio non strumentale agli interessi e alle istanze di stakeholder diversi dagli azionisti sia l’elemento discriminante fra shareholder theory e stakeholder theory (Smith, 2003) 93 , in realtà alcuni autori significativi (per es., Donaldson e Preston, 1995, Jones, 1995) 94 riconoscono l’esistenza anche di una stakeholder theory “strumentale”, nel senso che ricomprendono in tale teoria anche i lavori che considerano lo stakeholder management funzionale al conseguimento degli obiettivi di profitto e di creazione di valore per gli azionisti. Si fa invece riferimento qui agli autori che concepiscono l’impresa come un istituto al servizio di una molteplicità di stakeholder, i cui interessi e le cui istanze sono tutti meritevoli di attenzione: si tratta dunque di “concezioni che integrano la responsabilità sociale nella funzione obiettivo dell’impresa”, da cui discendono “strategie che si rifanno alla 91 “In addition to being committed to typical financial, strategic, and operational concerns, top managers may also be committed to ethics for its own sake (…) Such executives express concern for integrity, fair treatment of others, and ‘doing the right thing’ for its own sake, and not merely for instrumental benefits” (Weaver, Treviño e Cochran, 1999, p. 543). 92 “There are normative reasons to respect stakeholders, independent of the ensuing financial benefits” (Margolis e Walsh, 2003, p. 280). 93 “The fundamental distinction is that the stakeholder theory demands that interests of all stakeholders be considered even if it reduces company profitability. In other words, under the shareholder theory, nonshareholders can be viewed as ‘means’ to the ‘ends’ of profitability; under the stakeholder theory, the interests of many nonshareholders are also viewed as ‘ends’” (Smith, 2003, p. 86). 94 “The stakeholder theory is also instrumental” (Donaldson e Preston, 1995, p. 66).
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concezione di impresa come public good” (Coda, 2004c, Sen, 1993). In tale prospettiva s’iscrive la “concezione circolare del finalismo d’impresa” (Coda, 1988a), in base alla quale le relazioni tra i fini di carattere economico, competitivo e sociale non sono necessariamente antagonistiche e strutturate in modo gerarchico-piramidale. Al contrario, in una prospettiva di medio-lungo periodo il perseguimento degli uni può concepirsi in termini da favorire il perseguimento degli altri e viceversa. Per coloro che fanno propria tale concezione, la RSI da vincolo diviene obiettivo (Matacena, 1993). Va da sé che l’impatto positivo della RSI nel lungo periodo sui risultati economici e competitivi dell’impresa si verifica a condizione che essa sia integrata armoniosamente nella funzione obiettivo dell’impresa stessa e non venga a sua volta assolutizzata, nel qual caso si ricadrebbe in una concezione del finalismo aziendale di tipo gerarchico-piramidale (Coda, 1988a, 2001, 2004c). Margolis e Walsh (2003), infine, sostengono che gli obiettivi di carattere sociale possano essere perseguiti anche a prescindere dagli effetti positivi sulle performance economiche e competitive, sempre che ciò non pregiudichi la capacità dell’impresa di realizzare, nel lungo periodo, la sua missione di tipo economico. c) A un terzo livello, vi sono studi che ritengono che gli obiettivi e le attese dei diversi stakeholder siano fra loro in conflitto, altri, invece, che li reputano convergenti. Si tratta per il vero di un continuum, all’interno del quale si rilevano diverse posizioni intermedie: ad esempio, che la convergenza non è sempre realizzata, oppure che essa si realizza solo nel lungo periodo; inoltre, anche gli autori che condividono l’ipotesi della convergenza riconoscono che fra i diversi stakeholder si abbiano fasi o momenti di tensione, divergenze di obiettivi, processi di negoziazione. i.
Fra coloro che reputano conflittuali gli obiettivi economici e gli obiettivi sociali vi sono, in particolare, Margolis e Walsh (2003), che parlano di “tension between economic and broader social objectives” (p. 268), di “competing objectives” (p. 284), di “a sometimes irreducible conflict between humanitarian needs and economic objectives” (p. 290). Tale tensione e tale conflitto fra obiettivi sono a loro dire irriducibili, tant’è che si dissociano dichiaratamente dai diversi autori che hanno cercato di riconciliare la teoria neoclassica dell’impresa con quelle che vedono nell’impresa un soggetto che deve attivarsi per risolvere problemi di carattere sociale (per es., Griffin e Mahon, 1997, Jones e Wicks, 1999). Si tratta di conflitti fra obiettivi talora latenti, ma ai quali si trovano di fronte la maggior parte delle organizzazioni (Cyert e March, 1963) 95 .
“Most organizations most of the time exist and thrive with considerable latent conflict of goals” (Cyert e March, 1963, p. 164). 95
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ii.
Secondo taluni, l’ipotesi della convergenza fra gli interessi dei diversi stakeholder e quindi fra obiettivi di carattere economico e obiettivi di carattere sociale – non di rado avanzata dai difensori della shareholder theory – non è sempre verificata neppure nel lungo periodo (Smith, 2003). Affermare la convergenza fra gli obiettivi e le attese dei diversi stakeholder equivale a ipotizzare un gioco a somma maggiore di zero fra i diversi partecipanti all’impresa. Tale ipotesi, a sua volta, si fonda in ultima analisi su due assunzioni fra loro strettamente collegate: 1) l’impresa è un’entità sovraordinata rispetto ai singoli stakeholder 96 . Il perseguimento dell’economicità duratura permette, nel lungo periodo, di meglio soddisfare i legittimi interessi delle singole categorie di stakeholder 97 ; 2) la strategia aziendale costituisce l’elemento unificante che dovrebbe tradursi “in un insieme coerente di azioni manageriali produttive di positivi risultati sotto ogni aspetto (competitivo, reddituale, sociale e ambientale)” (Coda, 2004c, p. 5, Post et al., 2002) 98 . Tale convergenza, dunque, non è né scontata, né automatica. Perché possa realizzarsi, è necessario che coloro che hanno responsabilità di governo e di direzione dell’impresa agiscano consapevolmente come fiduciari di una vasta gamma di stakeholder e non solo degli azionisti 99 , che adottino una prospettiva di lungo periodo nella produzione dei risultati, che formulino e realizzino strategie innovative, finalizzate a sperimentare e a selezionare soluzioni in grado di generare combinazioni sempre migliori di risultati economici e di risultati sociali.
d) A un quarto livello, gli studiosi che non negano la possibilità, almeno in talune circostanze o nel breve periodo, di aspettative divergenti o conflittuali fra i diversi stakeholder, suggeriscono principi e criteri differenti per gestire tali aspettative e risolvere eventuali conflitti. Tali principi e criteri, che a loro volta risentono delle assunzioni circa il carattere conflittuale o convergente degli
96 Per una sintetica rassegna dei contributi della Scuola aziendalistica italiana che si rifanno all’idea di impresa come entità sovraordinata rispetto ai singoli portatori di interessi si veda supra, § 2.1.2, nota 41. 97 “The management has a duty of safeguarding the welfare of the abstract entity that is the corporation” (Evan and Freeman, 1988: 102-103, citati da Donaldson and Preston, 1995: 79). 98 Post et al. (2002, p. 18), sottolineando come la stakeholder view metta in discussione l’assunto di un gioco a somma zero fra i diversi partecipanti all’impresa (azionisti, dipendenti, clienti, ecc.), ritengono che “organization – wide stakeholder management should lead to the dynamic evolution of positive-sum strategies that give rise to benefits for all or most critical stakeholders over the long run”. 99 “If the unity of corporate body is real, then there is reality and not simply legal fiction in the proposition that the managers of the unit are fiduciaries for it and not merely for its individual members, that they are … trustees for an institution (with multiple constituents) rather than attorneys for the stockholders” (Dodd, 1932, citato da Donaldson e Preston, 1995, p. 65).
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obiettivi e delle attese dei diversi stakeholder discusse al precedente punto c), sono riconducibili a quattro fattispecie: i.
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ii. iii. iv.
allineamento degli obiettivi facendo leva sugli incentivi (Jensen e Meckling, 1976); contemperamento (balancing) degli interessi (Masini, 1979); approccio contingency (pragmatic stance: Margolis e Walsh, 2003); coesione / integrazione dinamica (Coda, 2004c).
L’allineamento degli obiettivi facendo leva sugli incentivi è il metodo originariamente proposto da Jensen e Meckling (1976) per affrontare il problema della divergenza di obiettivi fra gli azionisti – la massimizzazione del profitto – e i manager – la massimizzazione della crescita –. Tali incentivi si pongono quindi l’obiettivo di allineare gli obiettivi dei manager a quelli degli azionisti, ossia di indurre i primi a perseguire la massimizzazione del profitto. I costi di tale allineamento, che possono consistere per esempio nella rinuncia da parte degli azionisti a una quota di utili per assegnarli ai manager così da renderli partecipi dell’utile che essi concorrono a produrre, sono definiti costi di agenzia. Uno strumento per realizzare tale allineamento di obiettivi sviluppatosi e diffusosi in modo massivo in tempi relativamente recenti è costituito dalle stock option, strumento sul quale, per altro, si sono appuntate diverse critiche relative sia ai rischi di manipolazione dei corsi azionari da parte dei manager (Yermack, 1997, Aboody e Kasznik, 2000, Jensen, 2004, Bender e Moir, 2006), sia agli eccessivi divari in termini di remunerazione che si verificherebbero non di rado fra i manager che accedono ai piani di stock option e gli altri dipendenti. Il contemperamento – o bilanciamento – degli interessi è presumibilmente il criterio più diffuso per prevenire o gestire i conflitti fra gli interessi e le aspettative dei diversi stakeholder. Esso è suggerito soprattutto dalla stakeholder theory, secondo la quale il bilanciamento delle attese confliggenti dei diversi stakeholder è un dovere del management (Evan e Freeman, 1988, Smith, 2003) 100 . Non distante da tale prospettiva è anche l’idea di Cyert e March (1963), secondo i quali la soluzione dei conflitti fra obiettivi a cui la maggior parte delle imprese devono far fronte è possibile adottando regole decisionali finalizzate alla ricerca di risultati soddisfacenti invece che ottimali e perseguendo gli obiettivi secondo una logica sequenziale 101 . Nella dottrina italiana uno dei maggiori fautori del principio del contemperamento degli interessi è Masini (1979): tale principio, unitamente a quello dell’economicità, dovrebbe ispirare le scelte di governo dell’impresa per garantirne la sopravvivenza duratura in condizioni di “According to the stakeholder theory, managers are agent of all stakeholders and have two responsibilities: to ensure that the ethical rights are not violated and to balance the legitimate interests of the stakeholders when making decisions. The objective is to balance profit maximization with the long – term ability of a corporation to remain a long concern” (Smith, op. cit., 2003, p. 86). 101 Cfr. Margolis e Walsh, op. cit., 2003, p. 288. 100
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autonomia. La declinazione del principio del contemperamento degli interessi nel concreto divenire della vita aziendale dovrebbe avvenire assumendo decisioni e scelte ispirate alle logiche della partecipazione e del confronto. A tale impostazione vanno riconosciuti diversi pregi: in primo luogo, fa proprio l’assunto che l’impresa debba soddisfare le attese di una platea più ampia di portatori di interessi rispetto ai soli azionisti; in secondo luogo, raccomanda un principio regolatore dei conflitti fondato, in ultima analisi, sulla ricerca dell’equità; infine, riconosce implicitamente che la tensione e i conflitti, soprattutto se mal gestiti, si ripercuotono negativamente sulla stessa capacità dell’impresa di soddisfare le legittime attese degli stakeholder, quando non sulla sua stessa capacità di sopravvivenza. Il suo limite consiste invece nell’assumere, in generale, un gioco a somma zero fra i partecipanti all’impresa. Limite che, come si dirà in seguito, è superato da coloro che adottano il principio dell’integrazione dinamica. Il terzo principio è parte integrante di quello che Margolis e Walsh chiamano “approccio induttivo alla teoria normativa” (2003: 291). In presenza di un problema o di un’istanza di carattere sociale, il dovere dell’impresa di intervenire e di rispondere dovrebbe essere valutato “caso per caso” in relazione alla natura e all’entità del problema o dell’istanza, al ruolo che l’impresa potrebbe aver avuto nel causarlo e alle competenze di cui essa dispone per risolverlo, all’impatto che la risposta dell’impresa potrebbe produrre sul problema. L’intervento dell’impresa assume carattere etico, ossia rientra nella sfera del dovere, nella misura in cui essa ha contribuito a causare il problema e ha le competenze per risolverlo. L’intervento potrebbe, al contrario, essere addirittura “proibito” qualora esso rafforzi anziché ridurre la dipendenza del soggetto destinatario dell’aiuto dall’impresa, oppure rischi di minare la capacità dell’impresa stessa di realizzare la sua funzione nel lungo periodo. Il principio della coesione – o dell’integrazione dinamica - è proposto soprattutto da Coda (2004c). Si tratta di un approccio dinamico, in quanto prevede di “coniugare dinamicamente efficienza ed equità e gli obiettivi che a questi valori si richiamano”; si fonda sull’assunto che la responsabilità sociale debba essere integrata nella funzione obiettivo dell’impresa, in linea con quanto affermato da Carroll e Hoy (1983) 102 ; presuppone altresì che sia possibile una convergenza, nel lungo periodo, fra obiettivi economici, competitivi e sociali, il che equivale a sostenere che la strategia è un “gioco a somma maggiore di zero”; poggia su una concezione dell’impresa come public good (Sen, 1993) e sulla strategia come elemento unificante che indica la direzione di marcia e, al tempo stesso, sprigiona forza trainante la sua realizzazione 103 ; riconosce che l’adesione e la partecipazione dei diversi stakeholder a tale strategia, vista altresì come “This article extends earlier general notions and proposes that social policy be fully integrated into the goal setting and implementation processes of the corporate structure” (Carroll and Hoy, 1983, p. 49). 103 Cfr. sul tema la scuola harvardiana e, in particolare, Andrews (1971). 102
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progetto, non è affatto scontata, ma dipende fortemente dalla qualità del management. Tale qualità si rivela sia nella capacità di concepire e di formulare una strategia “bella”, sia nella capacità di realizzarla, anche attraverso un’attenta gestione delle relazioni con tutti gli stakeholder. Ancora, fa perno sul concetto di innovazione: essa, da un lato, alimenta lo stock di progetti e di soluzioni capaci di accrescere la competitività dell’impresa e, al tempo stesso, la soddisfazione degli stakeholder; dall’altro, è il frutto della coesione e della motivazione dei collaboratori e degli stakeholder tutti intorno a una strategia condivisa. Si tratta, in sintesi, di un approccio che si concentra sull’individuazione di soluzioni in grado di ampliare il pool di risorse disponibili prima che sulla sua ripartizione fra gli stakeholder, affermando il ruolo fondamentale a tal fine della coesione e dell’innovazione.
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2.2.2 I contenuti degli scritti e gli interrogativi di ricerca Nel presente paragrafo ci si pone due obiettivi fondamentali: in primo luogo, proporre una classificazione dei contenuti degli scritti esaminati trasversale rispetto ai filoni “canonici” identificati e sinteticamente illustrati nel § 2.1; in secondo luogo, identificare i principali interrogativi di ricerca ai quali gli studiosi hanno fino ad ora cercato di dare risposta. La classificazione trasversale di seguito proposta, infatti, meglio si presta a rilevare eventuali gap di tipo empirico o teorico emergenti dalla letteratura, gap ai quali sarà dedicato il paragrafo conclusivo del presente capitolo. Il modello presentato in figura 2.2 è incentrato su tre macrovariabili aziendali fondamentali 104 – le variabili soft, strutture, modelli e processi e, infine, i risultati –, ciascuna delle quali si declina in specifici contenuti, e sulle relazioni intercorrenti fra di esse. Tali relazioni, a loro volta, corrispondono ai principali interrogativi di ricerca ai quali gli studiosi hanno cercato di dare risposta. Si tratta delle macrovariabili e dei contenuti specifici di tipo aziendale ai quali sono in varia misura riconducibili i contributi in tema di RSI, etica d’impresa, stakeholder theory. Il modello non esplicita invece, per ragioni di chiarezza, le pur numerose relazioni che collegano gli specifici contenuti nell’ambito di una stessa macrovariabile. Tali relazioni, a loro volta oggetto di indagine teorica o empirica da parte degli studiosi, saranno comunque richiamate, sia pure sinteticamente, in sede di illustrazione dei contenuti. Con il modello presentato in questo paragrafo s’intende proporre un framework concettuale utile a posizionare e a classificare i contenuti e gli interrogativi di ricerca proposti in letteratura, non, invece, compiere una classificazione esaustiva degli innumerevoli contributi.
104 Le tre macrovariabili proposte richiamano i tre livelli che costituiscono i framework di apprendimento organizzativo proposti da Argyris e Schon (1978) – il sistema dei valori, l’azione e i risultati percepiti – livelli che, secondo Wood (1991), si riscontrano anche nella letteratura in tema di corporate social performance: i principi di responsabilità sociale, i processi di ‘social responsiveness’, i risultati del comportamento d’impresa. Si veda anche Gond e Herrbach (2006).
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Figura 2.2
Un modello “trasversale” di analisi dei contenuti e delle research question
Variabili
Strutture, modelli
“soft”
e processi
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• Orientamento strategico di fondo (OSF) • valori • fini / obiettivi • cultura • motivazioni a livello individuale, di impresa e di contesto ambientale
• Di corporate governance • di innovazione imprenditoriale • di management e strategici
– – – –
“buon management” stakeholder management strategie sociali
RSI e vantaggio competitivo • organizzativi • di investimento • di comunicazione e di reporting
Risultati
• Risultati sociali (corporate social performance - CSP)
–
definizione e misurazione;
–
relazione con i risultati economico-finanziari (corporate financial performance - CFP)
1) Le variabili “soft” includono una vasta gamma di concetti accomunati dalla natura per lo più tacita e implicita, ciò non di meno in grado di influire in modo assai rilevante sulle strategie, sulle strutture e sui comportamenti posti concretamente in essere dalle imprese. Tali variabili vengono pertanto descritte e analizzate come fattori che concorrono o meno a determinare i comportamenti etici e socialmente responsabili delle imprese e dei rispettivi attori-chiave, quindi anche come criteri interpretativi di certe scelte e comportamenti concreti. Si tratta, specificamente, dei seguenti concetti, fra loro in varia misura collegati e sovrapposti: -
l’orientamento strategico di fondo (OSF), ossia un insieme di idee, valori, convincimenti e assunzioni, proprie degli attori-chiave, in merito al campo di attività, ai fini, alla filosofia gestionale e organizzativa di un’impresa (Coda, 1988a). L’OSF costituisce la parte “invisibile” della strategia. Ciò non di meno, è proprio sull’OSF che è necessario agire nel momento in cui si rende necessario un cambiamento strategico. E’ l’OSF a essere oggetto dei processi di apprendimento che, partendo dall’osservazione dei risultati raggiunti, agiscono in maggiore profondità sul top management (Coda e Mollona, 2002), quindi sulla sua consapevolezza sociale e sulla sua disponibilità a operare o meno in modo socialmente responsabile;
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i valori, definiti 105 come “standard normativi dai quali gli esseri umani sono influenzati quando devono scegliere fra corsi di azione alternativi” (Jacob et al., 1962, Harrison, 1975). Coda (1985, 2001) distingue i metavalori, o valori etici fondamentali quali onestà, equità, lealtà e trasparenza, dai valori imprenditoriali, ossia i valori-guida nei quali i primi si traducono per informare concretamente il lavoro di manager e imprenditori. I valori sono analizzati in quanto driver di comportamenti socialmente responsabili, tant’è che il miglioramento sotto il profilo della responsabilità sociale da parte di un’impresa passa attraverso il cambiamento dei valori individuali dei singoli manager (Hemingway e Maclagan, 2004). Alcuni lavori si soffermano sulle implicazioni del profilo etico del senior management, il cui “personal commitment to ethics is an essential part of what drives organizations to proactive, socially responsible performance” (Weaver et al., 1999: 547, Jones, 1995, Swanson, 1995); sul ruolo fondamentale del top management, del CEO e degli altri attori-chiave nel definire le norme etiche all’interno dell’organizzazione (Desai e Rittenburg, 1997, Agle et al., 1999); sul middle management, il quale, attraverso comportamenti esemplari ispirati a valori etici ben precisi, è in grado di diffondere atteggiamenti ispirati all’etica all’interno di un’organizzazione (Hemingway e Maclagan, 2004). Argandoña (2003), infine, s’interroga su come i valori individuali e i valori organizzativi possano essere sviluppati all’interno di un’organizzazione; i fini e gli obiettivi, trattati soprattutto nei numerosi scritti in tema di finalismo d’impresa e di stakeholder theory. Senza entrare nuovamente nel dettaglio di questo tema, già ampiamente discusso in precedenza, ci si limita a ricordare che in tali scritti ci si pone soprattutto i seguenti interrogativi: quali siano i fini dell’impresa e quindi se essa debba porsi anche obiettivi di carattere sociale; quali siano le relazioni fra etica e fini dell’impresa (Coda, 1994); se fra tali fini debba esservi una gerarchia; se i diversi obiettivi – economici e sociali in primis – siano fra loro in conflitto oppure no; a quali condizioni e in quale modo si possano armonizzare fini e attese degli stakeholder diversi ed eventualmente confliggenti 106 ; la cultura, analizzata come determinante dei comportamenti etici dell’impresa. Bowen (2004), studiando un’impresa farmaceutica
105 Schwartz e Bilsky (1987), citati da Agle e Caldwell (1999, p. 359), individuano alcuni elementi di fondo comuni a gran parte delle definizioni del concetto di valore: “Values are (a) concepts or beliefs, (b) about desirable end states or behaviors, (c) that trascend specific situations, (d) guide selection or evaluation of behavior or events, and (e) are ordered by relative importance”. Cfr. anche Hemingway e Maclagan, 2004, p. 36. 106 Si vedano, in particolare, supra il § 2.1.2, punto a) e il § 2.2.1, interamente dedicati ad analizzare tali interrogativi.
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“esemplare” sotto il profilo etico, ipotizza che all’origine di tale eticità vi siano, in particolare, una cultura organizzativa che enfatizza il ruolo dell’etica – anche mediante la formazione del personale sui temi dei valori e della missione dell’impresa –, una cultura organizzativa partecipativa e non autoritaria, uno stile manageriale ispirato alla teoria Y di McGregor (1960), la coerenza fra i valori organizzativi e i valori dei singoli manager. Alcuni studi si concentrano sugli aspetti culturali a livello macro, per comprendere se e in che misura le differenze culturali fra Paesi e aree geografiche diverse impattino sugli standard etici diffusi, sulle attese degli stakeholder e quindi sulle pratiche di responsabilità sociale adottati dalle imprese 107 . Robertson e Crittenden (2003: 386), citando Donaldson (1996), richiamano in proposito il relativismo etico e osservano che “ethical relativism, a subset of cultural relativism, infers that ethical standards vary from culture to culture”; le motivazioni, analizzate come fattore all’origine dei comportamenti socialmente responsabili. Gran parte degli autori che hanno scritto di RSI sottolineano che tali motivazioni sono in ultima analisi riconducibili a due fattispecie: quelle etico-valoriali e quelle strumentali. Un interrogativo non ancora adeguatamente esplorato è se le motivazioni impattino o meno sulla qualità della RSI, quindi sulla soddisfazione degli stakeholder e, più in generale, sulla capacità dell’impresa di realizzare la sua missione nel tempo.
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Vale la pena, infine, segnalare alcuni primi tentativi – non ancora, per così dire, codificati in letteratura –, di collegare variabili soft quali quelle di ordine emotivo e cognitivo, per altro assai ben sviluppate e consolidate in psicologia, alla RSI, allo scopo precipuo di esplorare in maggiore profondità le motivazioni per i comportamenti socialmente responsabili e quindi le vie per incentivarli e rafforzarli (Kohlberg, 1969, Schneider et al., 2005). 2) Strutture, modelli e processi costituiscono invece gli elementi concreti e tangibili nei quali si manifestano visibilmente i profili soft esaminati al punto precedente. Si tratta, in particolare, di strutture, modelli e processi: -
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di corporate governance. Le strutture e i processi di corporate governance sono variamente adatti a rappresentare e gestire gli interessi e le istanze dei diversi stakeholder rilevanti, tant’è che essi sono analizzati come fattori che impattano sulle politiche e sulle scelte di responsabilità sociale di un’impresa (Aguilera et al., 2006, Perrini e Minoja, 2008). Rientrano nell’ambito della corporate governance anche gli studi sugli assetti di governo e sui rapporti tra impresa e famiglia
Si vedano, per esempio, Longenecker et al., 2006; Ringov e Zollo, 2007.
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proprietaria più adatti a favorire l’economicità duratura e l’autonomia delle imprese a proprietà familiare (Corbetta, 1995); di innovazione imprenditoriale. Alcuni autori si soffermano sulle condizioni e sulle modalità per l’avvio e la gestione di iniziative imprenditoriali a forte contenuto sociale, comunque in grado di remunerare in misura soddisfacente il capitale di rischio. Ne sono esempi significativi l’articolo di Prahalad e Hammond (2002) sulle imprese sorte per offrire prodotti e servizi a condizioni accessibili alle fasce di popolazione più povere – the bottom of the pyramid – e il lavoro di Christensen et al. (2006) sulle possibilità di conseguire margini di redditività interessanti, anche se non eccelsi, identificando e servendo segmenti o nicchie di mercato costituiti da clienti con disponibilità economiche limitate. Le condizioni che consentono di conseguire buoni risultati reddituali in tali segmenti sono costituite, in primo luogo, dall’originalità e dall’innovatività del modello di business, in secondo luogo dalla scarsa o nulla presenza di imprese concorrenti, le quali tendono a considerarli strutturalmente poco attrattivi; di management e strategici. Sono almeno quattro i grandi temi, fra loro variamente collegati, riconducibili alle disciplina di management e di strategia d’impresa che incorporano concetti e interrogativi di ricerca in tema di RSI, stakeholder theory ed etica d’impresa. In primo luogo, gli studi che s’interrogano su cosa sia il “buon management”: si tratta di un management composto da persone nelle quali convivono un forte orientamento all’efficacia con uno spiccato profilo etico e valoriale (Coda, 2001); che assumono e vivono il potere come responsabilità al servizio di un’ampia gamma di stakeholder (Vitale, 1987 108 ); capaci di rispettare e di valorizzare i collaboratori sia per ragioni etiche, sia in quanto risorsa fondamentale per il successo competitivo duraturo dell’impresa (Drucker, 1954, Coda, 2004b, Pfeffer, 1994, 1998, 2005a, 2005b, Grant, 2008). In secondo luogo, i contributi sullo stakeholder management, che costituiscono quella che Donaldson e Preston (1995) definiscono la componente manageriale, che si aggiunge a quella descrittiva e a quella normativa, della stakeholder theory: essi riconoscono, infatti, che “(…) the stakeholder theory is ‘managerial’ and recommends the attitudes, structures, and practices that, taken together, constitute a stakeholder management philosophy” (p. 87). Lo stakeholder management è dunque parte integrante del management (Evan e Freeman, 1993) e include i processi di identificazione degli stakeholder e di accertamento delle rispettive istanze (Mitchell et al.,
Di particolare interesse sono i frequenti richiami di Marco Vitale (1987) alla dottrina sul potere elaborata dal teologo Romano Guardini e i riferimenti critici al management americano degli anni ’80, a suo dire eccessivamente focalizzato sulla creazione di valore per gli azionisti e orientato alla produzione di risultati nel breve periodo. 108
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1997, Savage et al., 1991), oltre che i processi di comunicazione della RSI (Morsing e Schultz, 2006). Una valida strategia di gestione degli stakeholder, a differenza delle iniziative di tipo sociale tout court quali la filantropia, può impattare positivamente sulle performance economiche dell’impresa, in quanto è difficilmente imitabile dai concorrenti (Hillman e Keim, 2001). In terzo luogo, le strategie sociali 109 , finalizzate ad estendere ai rapporti con gli stakeholder diversi dagli azionisti logiche, modelli e strumenti mutuati dagli studi di strategia. Nel momento in cui si riconosce alla socialità un ruolo centrale nel governo dell’impresa, essa dev’essere gestita strategicamente: ne discende che le politiche e le iniziative di carattere sociale devono innestarsi in una vision di lungo periodo ed essere inserite in un progetto di ampio respiro (Chirieleison, 2002). Ciò deve per altro avvenire in modo tale da contribuire al conseguimento di un vantaggio competitivo sostenibile e nel rispetto dell’equilibrio economico (Husted e Allen, 2000). Infine, vi sono lavori riconducibili all’alveo della strategia competitiva, i cui autori si domandano se e a quali condizioni la responsabilità sociale possa essere all’origine di un vantaggio competitivo sostenibile: la RSI può essere vista come un investimento strategico, in quanto migliora la qualità del contesto competitivo nel quale l’impresa opera (Drucker, 1984), genera e alimenta asset intangibili (Gardberg e Fombrun, 2006) quali la reputazione (Branco e Rodrigues, 2006), o come un elemento di differenziazione del prodotto, come tale all’origine di un price premium (Fombrun e Shanley, 1990, McWilliams et al., 2006); una strategia basata sulla RSI può generare abnormal returns solo se l’impresa è in grado di impedire ai suoi concorrenti di imitarla (Reinhardt, 1998); la stessa RSI può costituire una barriera all’imitazione (Marvel, 1977, McWilliams et al., 2002). Nonostante i contributi in tema di RSI che affondano le proprie radici nelle discipline di management e di strategia siano numerosi, non si può affermare, come si dirà meglio in seguito, che sia stato affrontato in modo adeguato il tema dell’integrazione della responsabilità sociale nella strategia d’impresa (Carroll e Hoy, 1983, Coda, 2004c); organizzativi. Gli interrogativi di ricerca alla base di questi scritti sono riconducibili, in ultima analisi, al seguente: quali sono le strutture e i processi organizzativi in grado di favorire l’adozione di comportamenti ispirati all’etica e alla responsabilità sociale all’interno di un’impresa. Tale interrogativo di fondo si pone sia nei contributi incentrati sul ruolo della cultura organizzativa 110 , sia in quelli che affrontano il tema dei sistemi operativi e delle iniziative ad hoc (Weaver et al., 1999) – di
109 Per una trattazione sistematica sulle strategie sociali si veda Chirieleison, op. cit., 2002, in particolare capp. 2 e 3. 110 Concetto per altro già trattato fra le variabili soft.
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formazione, ecc. – in grado di promuovere comportamenti socialmente responsabili, sia, ancora, in alcuni lavori che, analizzando specificamente il ruolo dei codici etici, ne discutono le valenze organizzative e le condizioni di efficacia (Coda, 1993, Tessitore, 1996); di investimento (Social Responsible Investment o SRI). Vari studi affrontano il tema, in chiave descrittiva o normativa, degli investimenti etici o socialmente responsabili, compiuti cioè per finanziare imprese o progetti che, per oggetto, obiettivi o modalità di realizzazione, presentano valenze eticamente o socialmente positive (Signori, 2006). Un interrogativo di ricerca di particolare rilevanza verte sulle performance finanziarie conseguite dai fondi comuni di investimento che effettuano investimenti socialmente responsabili (Barnett e Salomon, 2006); di comunicazione e reporting. Si tratta degli studi che analizzano i processi e le modalità di rendicontazione agli stakeholder dei risultati conseguiti dall’impresa sotto il profilo etico-sociale. L’ampiezza della gamma di contributi in materia di bilancio e di reporting sociale 111 ne giustifica l’inclusione in un area di studio e di ricerca a sé stante, benché, a ben guardare, essi potrebbero essere considerati parte integrante sia dello stakeholder management, sia della performance sociale. Da un lato, infatti, il sistema di reporting sociale è elemento cardine di un efficace stakeholder management (Perrini, 2006a), dall’altro, adeguati livelli di comunicazione, reporting e disclosure di tipo sociale costituiscono di per sé, a certe condizioni, una forma di attenzione nei confronti degli stakeholder e quindi potrebbero essere considerati come elementi costitutivi della performance sociale. Senza alcuna pretesa di esaustività, la sterminata letteratura sul tema può essere analizzata lungo almeno due dimensioni. La prima ha a che fare con le ragioni sottostanti i processi e i modelli di rendicontazione sociale, i quali, analogamente a quanto avviene per la RSI in generale, possono fondarsi su una visione “democratica” dell’impresa come istituto al servizio di una molteplicità di interessi e di stakeholder ai quali deve rendere conto del proprio operato, oppure, secondo una visione “managerialista”, essere strumentali al perseguimento degli obiettivi “convenzionali” delle imprese (Gray et al., 1995). La seconda dimensione riguarda il focus di tali contributi: a fronte di una chiara prevalenza di quelli incentrati sui contenuti dei sistemi di reporting sociale – spesso allo scopo di individuare delle best practice – ve ne sono altri che si soffermano sui profili organizzativi e di processo, nonché sull’utilizzo che viene fatto di tali sistemi (Gond e Herrbach, 2006).
111 Fra i più significativi autori italiani sul tema si vedano Superti Furga (1977), Vermiglio (1984, 1997), Bandettini (1987), Gabrovec Mei (1987b), Rusconi (1988), Zavani (2000), Hinna (2002, 2005), Perrini (2005).
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3) Quella relativa ai risultati è una macrovariabile trattata e discussa assai diffusamente negli studi teorici ed empirici che qui interessano. I contenuti più significativi ad essa riconducibili sono fondamentalmente due: il concetto e la misurazione della corporate social performance, ossia dei risultati sociali; le relazioni che legano risultati sociali e risultati economico-finanziari (corporate financial performance).
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Alcuni contributi si focalizzano sul problema della definizione della performance sociale (per es., Carroll, 1979, Wood, 1991, Clarkson, 1995). Si tratta, a ben guardare, di un tema strettamente connesso sia a quello della definizione del concetto di RSI, sia a quello della sua misurazione. Una concettualizzazione della performance sociale, infatti, non può prescindere dalla definizione di RSI e, nel contempo, dev’essere tale da permetterne una misurazione affidabile. Uno dei lavori assunti a riferimento in letteratura è quello di Carroll (1979), il quale propone un concetto ampio di performance sociale, includendovi sia la natura delle responsabilità (economiche, legali, etiche e discrezionali) nelle quali ricadono gli obblighi di un’impresa nei confronti della società, sia le problematiche specifiche di ordine sociale (che vanno dalla sicurezza del prodotto alla tutela occupazionale, dalle iniziative contro la discriminazione alla tutela ambientale e così via) di cui essa si fa carico, sia, infine, l’approccio – da reattivo a proattivo – con il quale il management vi si accosta. Wartick e Cochran (1985) riprendono la definizione di performance sociale elaborata da Carroll ed enfatizzano il ruolo delle performance economiche, alle quali viene assegnato un ruolo prioritario all’interno della performance sociale. Per Clarkson (1995) il concetto di corporate social performance coincide con quello di soddisfazione degli stakeholder: se l’impresa non è in grado di garantirla, corre il rischio di perdere i contributi che una o più categorie di stakeholder le assicurano e quindi di vedere minacciata la propria sopravvivenza nel lungo periodo. Per quanto siano stati pubblicati contributi ad hoc sulla misurazione della performance sociale, tale tema è in realtà affrontato, per lo più, in modo accessorio o complementare ad altri temi o interrogativi di ricerca, quali quello della definizione di RSI, di definizione di performance sociale, di rendicontazione sociale, di studio delle correlazioni tra performance sociale e performance economiche. Le categorie di misure di performance sociale proposte e utilizzate dai ricercatori sono riconducibili, in ultima analisi, alle seguenti: le valutazioni assegnate dalle agenzie di rating sociale (Schäfer, 2005); le percezioni di soddisfazione espresse dalle diverse classi di stakeholder a seguito di survey ad hoc (Clarkson, 1995); il conseguimento di certificazioni, che attestano il rispetto di standard prefissati di performance sociale lungo 66
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una o più dimensioni (Tencati et al., 2004); dei set di indicatori, che possono essere di carattere qualitativo, quantitativo o economico ed essere definiti in relazione a diverse categorie di stakeholder (Tencati et al., 2004); l’adozione di strumenti e di processi, quali quelli di reporting sociale, che, aumentando il livello di accountability sociale dell’impresa, costituiscono di per se stessi un’espressione di performance sociale, e così via; un gran numero di studi empirici – ne sono stati censiti ben oltre il centinaio – ricercano eventuali correlazioni tra performance sociali e performance economico-finanziarie. La numerosità di tali studi ha indotto alcuni autori a elaborare dei metastudies (per es., Donaldson e Dunfee, 1999, Jones e Wicks, 1999, McWilliams e Siegel, 2001, Margolis e Walsh, 2003, Orlitsky et al., 2003, Wu Meng-Ling, 2006), nei quali vengono analizzati e classificati gli studi condotti in relazione alle variabili utilizzate per esprimere le performance e alle correlazioni eventualmente riscontrate, in termini di intensità, segno (positivo o negativo) e direzione (possono essere le performance sociali a impattare su quelle economico-finanziarie o viceversa). Diversi autori hanno rivolto osservazioni critiche a tali studi, soprattutto di ordine metodologico (McWilliams et al., 2006). Di particolare rilievo è l’osservazione di Margolis e Walsh (2003) a tale filone di ricerca: gli studi che cercano di dimostrare come la buona performance sociale impatta positivamente su quella finanziaria (ben 109 sui 127 censiti) intendono fornire, in ultima analisi, fondamento empirico all’approccio strumentale alla stakeholder theory, secondo il quale prestare attenzione a istanze diverse da quelle degli azionisti è conveniente per gli stessi azionisti. Il valore di tali lavori si deve, oltre che all’esito dell’analisi statistica applicata ai database di volta in volta utilizzati dai ricercatori, alle ipotesi interpretative dei risultati ottenuti (per es., Waddock e Graves, 1997), che, a loro volta, potrebbero costituire una base di partenza utile alla formulazione di indicazioni operative per il management.
I contenuti e gli interrogativi di ricerca sopra sinteticamente illustrati vengono talora declinati con riferimento a specifici ambiti o contesti definiti, in particolare, dalle dimensioni dell’impresa, dal settore, dall’area geografica. a) Dopo un periodo caratterizzato da un interesse limitato nei confronti della RSI nelle piccole e medie imprese (Spence, 1999), diversi recenti contributi 112 ne hanno messo a fuoco le specificità. Studi e ricerche 112 Per una rassegna della letteratura sul tema della RSI nelle piccole e medie imprese si vedano, in particolare, Spence (1999) e Perrini (2006b). Fra i contributi più significativi si segnalano inoltre Spence et al. (2000), Spence e Lozano (2000), Spence e Rutherfoord (2003), Spence e
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mirate hanno verificato che le imprese di dimensioni piccole e medie, europee e italiane in particolare, i cui imprenditori sono sensibili alla RSI, tendono ad agire in modo responsabile soprattutto nelle aree della soddisfazione dei collaboratori, del sostegno finanziario alle comunità locali e dell’attenzione all’ambiente (Molteni e Lucchini, 2004). Le loro politiche e iniziative di responsabilità sociale sono spesso di una certa consistenza e vitalità, eppure sono per lo più poco sistematiche, poco formalizzate e hanno una limitata visibilità nel contesto esterno (Perrini, 2006b, Perrini et al., 2007) 113 . Dal momento che il “capitale sociale”, composto da asset intangibili quali la reputazione, la fiducia, la legittimità e il consenso (Spence e Schmidpeter, 2003, Spence et al., 2003, Spence et al., 2004), è spesso alla base della sopravvivenza delle piccole e medie imprese nel lungo periodo, soprattutto quelle caratterizzate da un forte radicamento locale, si avverte la necessità che esse sviluppino strumenti manageriali ad hoc per meglio gestire e comunicare all’esterno la RSI (Perrini, 2006b); b) alcuni studiosi si sono soffermati sulle specificità delle istanze e delle politiche di RSI nell’ambito di specifici settori. E’ ormai assodato, infatti, che le istanze e le problematiche di carattere sociale variano in qualche misura da settore a settore 114 : possono essere diversi i rischi di impatto negativo sull’ambiente, le tipologie di istanze rivolte alle imprese, l’intensità della pressione degli stakeholder, i benefici che le stesse imprese, grazie al loro operato e alle loro competenze, possono apportare ai propri interlocutori, il grado di diffusione e di evoluzione delle politiche di RSI. Solo a titolo esemplificativo, i lavori sulla RSI nel settore bancario e dei servizi finanziari si soffermano su problematiche quali la responsabilità sociale indiretta 115 , l’accesso al credito e la trasparenza nei confronti dei clienti (Simpson e Kohers, 2002, O Sallyanne Decker, 2004), quelli sul settore farmaceutico sull’accesso ai farmaci da parte dei Paesi in via di sviluppo e sul pricing responsabile, nonché sulla disponibilità delle imprese a impegnarsi nell’attività di ricerca di farmaci per la cura di malattie rare (Spinello, 1992, Dunfee e Hess, 2000, Vachani e Craig Smith, 2004, Dunfee, 2006);
Schmidpeter, 2003, Thompson e Smith, 1991, Tilley, 2000, Vyakarnam et al., 1997. Per le specificità della RSI nelle imprese familiari si veda, per es., Molteni (2004b). 113 “This approach can be defined as ‘sunken’ in Italy as well as in a broader sense in Europe” (Perrini, 2006b, p. 311). 114 Si veda, per es., Carroll (1979, p. 501): “(…) the (social) issues change and they differ for different industries. (…) Also of interest is the fact that particular social issues are of varying concern to businesses, depending on the industry in which they exist as well as other factors.” 115 Per responsabilità sociale indiretta s’intende la politica di alcuni istituti di credito di non finanziare imprese che producono beni privi di una valenza etica positiva o che non rispettano certi standard di responsabilità sociale.
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c) alcuni studi, infine, s’interrogano sulle implicazioni che le diversità culturali, le quali a loro volta si traducono in differenze nei valori etici diffusi e condivisi, hanno sulla domanda di responsabilità sociale e quindi sulle risposte da parte delle imprese. Tale problematica è avvertita con particolare intensità dalle imprese multinazionali, la cui struttura territoriale fondata sulla presenza in una molteplicità di Paesi diversi le porta a confrontarsi simultaneamente con standard etici e con istanze differenti da parte degli stakeholder, il che accresce il livello di complessità che esse devono gestire 116 . Ancora, i temi sopra richiamati sono affrontati da alcuni Autori in ottica dinamica 117 , per cogliere eventuali costanti nella loro evoluzione temporale. Alla base di questi studi – per altro non particolarmente numerosi – sta l’assunto che le istanze di carattere sociale rivolte all’impresa si modificano nel tempo, nel senso sia che alcune istanze possono venire meno e altre sorgere ex novo, sia che può modificarsi l’intensità di una certa istanza. Ancora, l’atteggiamento con il quale le imprese rispondono a tali istanze può modificarsi nel tempo seguendo fasi e sequenze relativamente diffuse (Zadek, 2004); le modalità di gestione degli stakeholder possono variare in relazione alla fase del ciclo di vita che un’impresa sta attraversando (Jawahar e McLaughlin, 2001); infine, la capacità di un’impresa di rispondere alle istanze degli stakeholder – o corporate social performance – può essere interpretata come il risultato di un processo di apprendimento (Gond e Herrbach, 2006). 2.3 I gap teorici ed empirici da colmare L’analisi effettuata nei precedenti paragrafi dovrebbe aver messo in evidenza la sterminata produzione scientifica in tema di RSI, business ethics e stakeholder theory. Si tratta di una produzione che s’innesta trasversalmente in gran parte, se non in tutti, dei principali filoni degli studi di economia aziendale e di management e che ricorre altresì a teorie e concetti sviluppati nell’ambito di discipline non aziendalistiche quali la filosofia, la psicologia e la sociologia. Dall’analisi della letteratura in parola emergono per altro alcuni gap da colmare, riconducibili, in ultima analisi, a due tipologie: 1) un gap di carattere teorico; 2) un gap di carattere empirico.
116 Sulle differenze sotto il profilo culturale e degli standard etici fra Paesi diversi si veda, infra, il punto sulle variabili soft del modello in esame. 117 N. Churchill osserva che “social responsibility is a moving target” (1974, p. 266).
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Il gap di carattere teorico consiste soprattutto in un gap di “integrazione” della responsabilità sociale nella strategia d’impresa 118 . Esso può essere a sua volta scomposto in due ordini di gap: i.
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ii.
un gap di ordine descrittivo e definitorio, nel senso che, per quanto vari autori auspichino che la RSI sia integrata nella strategia, non è stato ancora chiarito il significato di tale integrazione, né come essa si manifesti in concreto; un gap di ordine esplicativo, nel senso che non appaiono adeguatamente spiegati le ragioni e i processi che conducono a integrare la responsabilità sociale nella strategia, né le implicazioni di tale integrazione per l’impresa e per i suoi diversi stakeholder.
Tale gap è riscontrabile nonostante l’integrazione della responsabilità sociale nella strategia sia non di rado auspicata e tale auspicio abbia origine non recenti; nonostante, secondo alcuni 119 , le concettualizzazioni del tema della RSI abbiano avuto origine soprattutto dalla letteratura di management; nonostante, infine, la definizione di RSI proposta nel Libro Verde dell’Unione Europea sia incentrata proprio sul concetto di integrazione dei profili sociali e ambientali nel business dell’impresa. Già nel 1983 Carroll e Hoy osservavano che “(…) most conceptualizations of strategic management pay scant attention to corporate social policy and its integration into corporate strategy” e che “current practice is generally to treat social responsibility as a residual factor in the environment or as one criterion among many by which to evaluate organizational effectiveness” 120 . Meznar, Chrisman e Carroll (1992, p. 48) rilevano che “(…) la superiorità di una strategia rispetto ad un’altra dipende dalla misura in cui la strategia integra le attività sociali dell’azienda con quelle economiche per ottimizzare il valore aggiunto che l’azienda fornisce alla società”. Un lavoro per certi versi pioneristico è quello di Baron (1995), il quale osserva come il management debba integrare in un’unica strategia le strategie “di mercato” e quelle “non di mercato”: le prime sono “modelli di azione” adottati nei contesti caratterizzati da relazioni di mercato e da accordi privati, come quelle con i clienti e i fornitori, mentre le seconde hanno come controparti il governo, i media, gli stakeholder, le istituzioni pubbliche. La consapevolezza che l’impresa si confronti con interlocutori di diversa natura e che debba sviluppare una Interrogando la banca dati Business Source Premier per individuare gli scritti accademici che trattino di RSI e, simultaneamente, di strategia competitiva, si sono ottenuti solo due contributi, per di più pubblicati su riviste di standing non particolarmente elevato e che trattano aspetti molto specifici. Risultato analogo si è ottenuto incrociando le parole-chiave “stakeholder theory” e “strategia competitiva”: solo tre riferimenti, due dei quali sono atti della conferenza annuale dell’Academy of Management. 119 “Since the 1950s, CSR (e.g., Bowen 1953) along with the related notions of corporate social responsiveness, corporate social responses (e.g., Strand 1983), and corporate social performance (e.g., Carroll 1979; Wood 1991), have been the subject of many conceptualizations originating mainly from the management literature” (Maignan e Ferrell, 2004, p. 5). 120 Carroll e Hoy, op. cit., 1983, p. 56. 118
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strategia integrata per rapportarvisi non sembra però scalfire, nella sostanza, una concezione neoclassica del finalismo dell’impresa, per cui le relazioni con gli stakeholder “non di mercato” sono comunque funzionali, in ultima analisi, alla massimizzazione del profitto per gli azionisti. Un contributo di rilievo nella direzione auspicata è quello di Molteni (2004a, 2007), il quale propone il concetto di sintesi socio-competitiva 121 come espressione concreta dell’integrazione della RSI nella strategia. In sostanza, si comprende la necessità che la responsabilità sociale sia integrata nella strategia d’impresa, sia sul piano teorico, sia su quello manageriale, ma tale auspicio non sembra ancora essersi realizzato concretamente in misura soddisfacente. Tale gap di integrazione non pare colmato neppure dagli studiosi che si sono occupati di “strategie sociali”: queste ultime, infatti, rimangono di fatto tendenzialmente staccate, quasi su un binario parallelo, dalle strategie competitive. Dalla strategia competitiva si mutuano talora linguaggio e strumenti, ma si ragiona, nella sostanza, come se si trattasse di due piani separati. Emblematiche, in proposito, appaiono le seguenti considerazioni: “Se si riconosce alla responsabilità sociale un impatto strategico, quindi, è evidente che essa debba essere – anche nel concreto – gestita strategicamente (…) Anche nell’area sociale è necessaria, dunque, una strategia di risposta che utilizzi un processo analogo a quello della business strategy (…). Si rende quindi necessario elaborare delle strategie sociali ad hoc” (Chirieleison, 2002: 91-93). Si tratta, a onor del vero, di affermazioni condivisibili, in quanto riconoscono la rilevanza della variabile sociale per l’impresa e quindi la necessità che essa venga adeguatamente governata. Tuttavia, esse sembrano porre la questione più su un piano analogico che su quello della reale integrazione fra la sfera sociale e quella competitiva. Per colmare tale gap di integrazione gli studiosi dovrebbero porsi alcuni interrogativi di ricerca ancora non adeguatamente esplorati: quali fattori spingono un’impresa a integrare la RSI nella propria strategia? Attraverso quali processi avviene tale integrazione? Quali vantaggi ne derivano all’impresa e ai suoi stakeholder, rispetto all’adozione di pratiche socialmente responsabili in un’ottica meramente strumentale rispetto all’accrescimento dei profitti e del valore per gli azionisti? A quali condizioni coesione sociale e vantaggio competitivo sostenibile si alimentano e si rafforzano vicendevolmente? Un fatto sintomatico di tale gap di integrazione è legato all’identificazione degli obiettivi e delle motivazioni all’origine dell’adozione di comportamenti socialmente responsabili. Come si è già avuto modo di osservare, in gran parte degli scritti ci si limita a contrapporre motivazioni strumentali a motivazioni di ordine etico, tralasciando l’eventualità che le finalità di tipo sociale siano parte integrante della funzione-obiettivo dell’impresa e dei suoi attori-chiave (De Woot, 1995, Coda, 2004c). In quest’ultimo caso, infatti, la motivazione all’agire socialmente responsabile non è riconducibile né a una logica strumentale – che presuppone una subordinazione degli obiettivi sociali a quelli di redditività o di 121
Il contributo di Molteni sarà ripreso infra nel cap. 3.
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creazione di valore per gli azionisti – né, a ben guardare, a una motivazione di tipo esclusivamente etico. Quest’ultima, infatti, consiste nell’adesione a norme morali e ricade nella sfera del “dovere”, mentre la socialità integrata nel sistema di obiettivi implica un’adesione più profonda, convinta, fondata su una componente emozionale e non solo cognitiva o morale all’idea di servire gli interessi dei diversi stakeholder. Si può altresì ipotizzare che un tale tipo di motivazione alla RSI aumenti la credibilità delle iniziative di RSI di fronte agli stakeholder e ne favorisca quindi la coesione e l’adesione alla strategia dell’impresa. Appare dunque necessario approfondire la natura di tale motivazione, che in psicologia viene definita edonica 122 , nonché, soprattutto, analizzarne le implicazioni in termini di rapporto fra RSI e strategia, di relazioni fra impresa e stakeholder e di efficacia e incisività delle iniziative di RSI che originano da essa 123 . Un’ulteriore implicazione – o, meglio, un ulteriore aspetto di tale gap di integrazione – ha a che fare con la concettualizzazione e la valutazione della performance dell’impresa, nonché con l’approccio adottato per valutare le relazioni tra le performance. Si insiste nel cercare conferma empirica all’ipotesi che al crescere della corporate social performance (CSP) migliori anche la corporate financial performance (CFP), il che, se da un lato è sintomatico della prevalente adozione della shareholder theory, dall’altro esprime implicitamente l’assunto che il profitto e financo l’economicità non abbiano anche un valore sociale; tale assunto, a sua volta, si deve al fatto che ben poco spazio è dedicato alla valutazione del profitto in relazione a come viene conseguito e a come viene impiegato, mentre si preferisce un approccio generale che rischia di essere superficiale e fuorviante. Anche in questo caso, la diffusa contrapposizione fra CSP e CFP va in direzione opposta rispetto a quanto avevano affermato e, per certi versi, auspicato, alcuni autori che, quasi trent’anni fa, avevano contribuito a sviluppare i fondamenti teorici della RSI. Merita di essere riportato integralmente, in proposito, il seguente brano di Carroll (1979, p. 503): “(…) social responsibility is not separate and distinct from economic performance but rather is just one part of the total social responsibilities of business”. Coerentemente, lo stesso Carroll propone un modello che “integrates economic concerns into a social performance framework”. A ben guardare, si potrebbero rilevare due ulteriori gap, per altro strettamente collegati a quello di integrazione: i. un gap di unificazione per quanto concerne la gestione delle istanze dei diversi stakeholder dell’impresa. L’interrogativo di ricerca al quale gli Tale aggettivo è utilizzato da Lindenberg (2001), che sviluppa una propria teoria della motivazione. 123 Un primo tentativo in tal senso è compiuto in Minoja M., Zollo M., “Motivation theory and corporate responsibility”, paper presentato al 6th Colloquium 2007 dell’EABIS (“European Academy of Business in Society”). Le motivazioni edoniche e le loro implicazioni per la RSI saranno riprese e sviluppate infra al § 3.2.5. 122
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ii.
studiosi non hanno ancora fornito risposte soddisfacenti è in quale modo i molteplici obiettivi e le molteplici istanze, propri dei vari stakeholder, che il management deve fronteggiare possano comporsi ad unità nella funzione-obiettivo del management stesso. Prevalgono i contributi che, esplicitamente o implicitamente, pongono l’accento sul contemperamento come principio fondamentale per gestire le aspettative e risolvere eventuali conflitti. Tale principio, per quanto sia condivisibile e auspicabile per il fatto di rifarsi a quello dell’equità e di ispirarsi all’obiettivo di ridurre i conflitti fra stakeholder, presenta alcuni limiti: è basato su una logica a somma zero; è un approccio tendenzialmente statico; trascura il potenziale insito nella strategia d’impresa come elemento unificante e fonte di coesione e di motivazione degli stakeholder 124 ; un gap di dinamicità. Innanzi tutto, è necessario comprendere quali siano le relazioni dinamiche di causa-effetto in forza delle quali i diversi obiettivi e risultati (reddituali, competitivi, sociali) si inanellano sinergicamente o, all’opposto, le relazioni dinamiche in forza delle quali il perseguimento di dati obiettivi è di pregiudizio per gli altri. Dovrebbero essere studiati, inoltre, i ritardi temporali con i quali talora si manifestano tali relazioni di causa-effetto: trascurarli significa, in concreto, assumere un’ottica di breve termine e non considerare, per esempio, come le azioni e le iniziative all’insegna della RSI possano ripercuotersi positivamente sulla redditività e sul vantaggio competitivo nel lungo termine. L’analisi dinamica dei sistemi, alla quale ben pochi contributi ricorrono, potrebbe rivelarsi utile per rispondere a tali interrogativi di ricerca e per colmare, almeno in parte, il gap di dinamicità: essa, infatti, distingue fra variabili-livello e variabili-flusso, le collega in relazioni di causa-effetto e in circuiti a retroazione, considera esplicitamente i ritardi temporali. Si rileva, infine, che non vengono adeguatamente spiegati i processi attraverso i quali le attese e le istanze dei diversi stakeholder si evolvono nel corso del tempo, così come la rilevanza delle diverse classi di stakeholder per la singola impresa; i processi mediante i quali l’impresa riconosce e apprende le attese e le istanze dei propri stakeholder; i processi attraverso i quali evolvono nel tempo gli obiettivi, i convincimenti, i valori di fondo degli attori-chiave dell’impresa.
Quali sono le ragioni all’origine di tale gap di integrazione nella letteratura sulla RSI? Esso può essere, almeno in parte, ricondotto a un gap di integrazione osservato nelle strategie concretamente adottate dalle imprese. Secondo 124 Il ruolo della strategia come elemento di unificazione e di coesione degli stakeholder è implicito nel concetto di meaningful strategies, “that emphasize the importance of core values to which employees and other key stakeholders can relate” (Waddock and Graves, 1997: 306).
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Ackerman (1973) esso si deve a due “deterrenti”: in primo luogo, l’idea diffusa che il ruolo sociale dell’impresa sia staccato dalle attività quotidiane relative al business e, pertanto, debba essere trattato come un’”appendice”; il secondo deterrente è l’idea altrettanto diffusa che gli obiettivi sociali rappresentino un costo o un fattore che riduce i profitti. Secondo Coda (2004c), la scarsa diffusione di strategie che integrino la RSI deve ricercarsi nella diffusione di modelli mentali consolidati, che finiscono con l’ostacolare impostazioni manageriali che si discostano dall’impostazione economica tradizionale 125 . L’esistenza di casi 126 aziendali significativi nei quali l’integrazione della RSI nella strategia è realizzata con successo, nonché il ruolo propositivo che gli studi di economia aziendale e di management sono chiamati a svolgere nei confronti delle imprese sono motivi sufficienti per auspicare un avanzamento degli studi e delle ricerche in tale direzione. Si ravvisa, infine, un gap di carattere empirico, per altro collegato a quello di tipo teorico. Esso fa riferimento al numero relativamente ridotto di casi aziendali analizzati seguendo un approccio “clinico”, vale a dire illustrandone “a 360 gradi” i profili di etica e di responsabilità sociale e i molteplici collegamenti con i diversi aspetti della governance, della strategia e dell’organizzazione di impresa. Prevalgono invece studi empirici basati su ampi campioni di imprese, analizzati con tecniche di carattere statistico allo scopo di esplorare aspetti specifici e di rispondere a research questions mirate. Il limitato ricorso a case study e, nel contempo, il contributo che essi fornirebbero alla comprensione dei legami fra RSI e strategia sono implicitamente riconosciuti da McWilliams et al. (2006), i quali osservano come i lavori empirici in tema di RSI utilizzano per lo più due metodologie – quella dello studio di eventi 127 e l’analisi di regressione –, per altro non scevre da problemi di affidabilità (McWilliams e Siegel, 1997, 2000). Lockett et al. (2006) rilevano che solo 12 dei 60 articoli empirici sulla RSI pubblicati nel corso del periodo 1992-2002 sulle sette più autorevoli riviste accademiche di management hanno impiegato una metodologia di carattere qualitativo 128 . La predisposizione di materiale empirico, soprattutto case study, permetterebbe di migliorare significativamente, seguendo una logica induttiva, la conoscenza e la comprensione dei fattori esplicativi e dei processi che conducono un’impresa a integrare la responsabilità sociale nella propria strategia. Cfr. supra, § 2.1.3. Fra coloro che si sono occupati di casi e di iniziative di responsabilità sociale si veda, per esempio, Di Pietra (2002). 127 Lo studio di eventi è una metodologia volta a determinare le variazioni di breve termine nel prezzo delle azioni in conseguenza di eventi collegati alla RSI, quali la chiusura di un impianto, l’annuncio di un programma di licenziamenti, ecc.. 128 “(…) overall there has been a much greater emphasis on quantitative than qualitative empirical research and, if anything, the former is increasing in significance.” (Lockett et al., op. cit., 2006, p. 125). 125
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3.
Le relazioni fra responsabilità sociale e strategia d’impresa: una tipologia
3.1 Le definizioni di strategia e di RSI Prima di entrare nel merito dell’analisi delle relazioni fra responsabilità sociale e strategia d’impresa è necessario riflettere, sia pure brevemente, sulle definizioni dei due concetti. Va da sé che una riflessione approfondita implicherebbe una trattazione articolata che andrebbe ben al di là degli obiettivi del presente lavoro. In esso, infatti, ci s’intende soffermare, più che sui concetti di RSI e di strategia singolarmente considerati, sulle molteplici relazioni che li connettono. Pertanto, ci si limita a pochi cenni sul tema, per poi esplicitare le definizioni adottate nel seguito del libro. Per comprendere quanto quello di strategia sia un concetto articolato e complesso basti considerare che non solo uno studioso della statura di Porter vi ha dedicato un apposito saggio 129 – teso anche a sgombrare il campo da alcuni possibili equivoci – ma anche che sono stati sviluppati dei “metastudi” finalizzati a classificare e a ordinare le definizioni esistenti di strategia. In uno di questi, Mintzberg (1987) le ha ricondotte a quattro accezioni 130 : 1) strategia come piano, concetto che evoca “una predisposizione consapevole di una serie di attività, un pensiero che anticipa l’azione, una guida per affrontare una situazione” 131 ; 2) strategia come modello, evocativo di uno schema di azioni; 3) strategia come posizione, concetto con il quale si vuole esprimere, in ultima analisi, la relazione fra l’impresa e il suo ambiente e, in particolare, il ruolo che essa ha all’interno dell’arena o delle arene competitive nelle quali opera; 4) strategia come prospettiva, termine che intende sottolineare la dimensione più intangibile e meno esplicita della strategia – sia essa definita visione (Normann, 1977, Collis e Montgomery, 1997), missione (Pearce II, 1982), orientamento strategico di fondo (Coda, 1988a), cultura aziendale (Davis, 1984, Schein, 1985) o in altro Porter M. E., 1996, “What is Strategy”, Harvard Business Review, November-December. Si riprende qui per sommi capi il contenuto di Invernizzi (2004), cap. 1, pp. 3-24. 131 Invernizzi, 2004, p. 5. 129
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modo ancora – ma che, ciò non di meno, qualifica l’impostazione strategica ed è all’origine delle decisioni strategiche concrete. Ancora, si distinguono le definizioni di strategia che incorporano i fini fondamentali perseguiti dall’impresa da quelle che, invece, vi includono unicamente le politiche e le decisioni volte a conseguire dei fini definiti a priori (Coda, 1988a) 132 . Ai fini del presente scritto si accoglie la definizione di strategia, proposta da Coda (1988a), come “modello di ricerca del successo imprenditoriale che l’impresa ha adottato o intende adottare” 133 , definizione successivamente per altro ripresa e specificata nella seguente: strategia è “quel sistema di scelte e azioni che determina dinamicamente il posizionamento di equilibrio strutturale e simultaneo dell’azienda a fronte dei suoi diversi interlocutori e mercati” 134 . La scelta di tale definizione è dovuta al fatto che essa pone enfasi sul concetto di successo imprenditoriale senza definirlo a priori 135 , ammettendo quindi implicitamente diverse possibili combinazioni e relazioni tra performance economiche, competitive e sociali nella funzione-obiettivo di un’impresa; inoltre, essa ricomprende sia i fini, sia le politiche adottate per conseguirli. Queste ultime, a loro volta, si declinano in ciò che l’impresa offre, nei destinatari di tale offerta, nel modo in cui essa si organizza per realizzare e proporre tale offerta ai destinatari 136 . Ciascuno di questi tre elementi, a sua volta, può incorporare in vario modo e in varia misura la RSI. Sulle modalità e sulle condizioni di tale “incorporazione” si avrà modo di soffermarsi ampiamente nel seguito del presente lavoro. Anche quello di RSI, come si è avuto modo di dire in precedenza 137 , è un concetto articolato del quale non esiste in letteratura una definizione universalmente accettata (McWilliams et al., 2006). Senza alcuna pretesa di proporne una rassegna sistematica, basti ricordare che vi è chi la fa coincidere con la massimizzazione del profitto per gli azionisti, purché perseguita nel rispetto della legge e delle regole del mercato (Friedman, 1962); chi ne propone un concetto multidimensionale comprensivo delle responsabilità economiche, legali, etiche e discrezionali (Carroll, 1979); chi la fa coincidere, nella sostanza, con il perseguimento degli interessi dei diversi stakeholder (Freeman, 1984); chi, ancora, enfatizza la responsabilità delle imprese, a certe condizioni, di contribuire ad alleviare le “malattie sociali” che affliggono il mondo, quali la Fra i primi si annoverano Chandler (1962) e Andrews (1971), fra i secondi Ansoff (1965) e Hofer-Schendel (1978). 133 Coda, 1988a, p. 24. 134 Si tratta della definizione di strategia emersa dal lavoro svolto dai ricercatori dell’Istituto di Strategia ed Economia Aziendale dell’Università Bocconi e riportata in Invernizzi (a cura di), Strategia e politica aziendale: testi, cap, 1, p. 22, 2005. 135 “Il «successo imprenditoriale» non è definito a priori, ma è parte integrante del modello al cui interno trova definizione”. Ibidem, 1988a, p. 24. 136 Tale “terna” di elementi è posta a fondamento di diversi modelli di rappresentazione della strategia: si ricordano qui, senza alcuna pretesa di esaustività, la Business Idea (Normann, 1977), la Strategic Positioning Map (Abell, 1980), la formula imprenditoriale (Coda, 1984). 137 Cfr. supra § 2.1.1. 132
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povertà, l’analfabetismo, le difficoltà di accesso all’acqua potabile o ai farmaci e via dicendo (Margolis e Walsh, 2003); chi, infine, in linea con la nota definizione elaborata dalla Commissione Europea nel 2001, ravvisa nella volontarietà dei comportamenti e delle azioni socialmente responsabili e nella disponibilità ad andare oltre le prescrizioni di legge gli elementi qualificanti la RSI (fra gli altri, Davis, 1973, Molteni, 2007). Ai fini del presente lavoro si adotta, con due piccole varianti, la definizione di RSI proposta da Molteni (2007): la volontà dell’impresa – e, dunque, in primis dei vertici aziendali – di soddisfare, andando oltre gli obblighi di legge, le legittime attese sociali e ambientali, oltre che economiche, dei vari portatori di interesse (stakeholder) interni ed esterni, mediante lo svolgimento delle proprie attività 138 . Tale definizione riprende, ad evidenza, il concetto di volontarietà contenuto nella definizione proposta dalla Commissione Europea 139 , ma si discosta da quest’ultima per il fatto di non prevedere necessariamente l’integrazione delle preoccupazioni sociali e ambientali nel modo in cui viene gestito il business dell’impresa: si preferisce, infatti, ricondurre all’alveo della RSI anche quelle attività e iniziative (filantropia, donazioni, ecc.) che intendono produrre un qualche beneficio di carattere sociale senza però investire in alcun modo l’operatività di business né, tanto meno, la strategia. L’integrazione nelle attività operative e, ancor più, nella strategia, come si avrà modo di vedere in seguito, costituisce soltanto una modalità – per quanto di gran lunga la più auspicabile – con la quale l’impresa si accosta alla responsabilità sociale. Nel seguito del presente capitolo si propone una tassonomia non della RSI in quanto tale, ma delle diverse relazioni che possono, alternativamente, connetterla alla strategia. 3.2 Gli archetipi di relazioni fra RSI e strategia 3.2.1 Imprese con missione produttiva “antietica” Si tratta di imprese che svolgono attività produttive “incompatibili con una concezione etica dell’impresa” (Coda, 2001, p. 4), anche se legalmente 138 Rispetto alla definizione formulata da Molteni (2007, pp. 351-352) (“Per CSR intendiamo piuttosto la tensione dell’impresa – e, dunque, in primis dei vertici aziendali – a soddisfare in misura crescente, andando oltre gli obblighi di legge, le legittime attese sociali e ambientali, oltre che economiche, dei vari portatori di interesse (stakeholder) interni ed esterni, mediante lo svolgimento delle proprie attività”), si preferisce utilizzare il termine “volontà” invece di quello di “tensione” e non specificare “in misura crescente”. Queste ultime due espressioni, infatti, sembrano evocare di per sé un approccio proattivo alla RSI, approccio che, come si dirà in seguito, non sempre rispecchia l’atteggiamento con il quale le imprese si accostano ai profili sociali e ambientali della propria attività. 139 Si ricorda che la Commissione Europea (2001) definisce la RSI “a concept whereby companies decide voluntarily to contribute to a better society and a cleaner environment” e “a concept whereby companies integrate social and environmental concerns in their business operations and in their interaction with their stakeholders on a voluntary basis”.
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ammesse. Per esempio, produzione e commercializzazione di materiale pornografico, di droghe, di videogiochi violenti, ecc. Esse, infatti, si pongono al servizio di bisogni che non possono definirsi moralmente validi. In questo caso, la “irresponsabilità” è a monte, nella scelta stessa del campo di attività, a prescindere dal modo con il quale viene perseguito il vantaggio competitivo. Si tratta di casi-limite, ma non rari, la cui manifestazione induce a mettere in discussione non soltanto l’orientamento etico degli imprenditori che danno origine e fanno funzionare tali imprese, ma l’adeguatezza dell’impianto normativo che ne consente l’esistenza e l’attività.
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3.2.2
Imprese nelle quali il vantaggio competitivo viene perseguito a scapito della RSI o viceversa
Vi sono imprese nelle quali vi è una sostanziale incompatibilità fra il modo in cui viene perseguito il vantaggio competitivo e la tutela dei legittimi interessi di alcuni stakeholder; in altre, invece, il perseguimento degli interessi di questi ultimi avviene in modo tale da rendere difficile il mantenimento delle condizioni di economicità e di competitività necessarie ad assicurare la funzionalità duratura dell’impresa. Tali casi sono accomunati da una connessione stretta, ma di segno negativo, fra RSI e strategia. Si illustrano di seguito, con l’ausilio di alcuni esempi, ciascuna delle due fattispecie. a. Vantaggio competitivo perseguito a scapito della RSI. Il caso Nike, nell’interpretazione datane da Zadek (2004), è emblematico della prima fattispecie. Nei primi anni Novanta Nike è stata al centro di uno scandalo allorché fu accusata di comportamenti gravemente lesivi dei diritti fondamentali dei lavoratori che operavano alle dipendenze dei subfonitori della stessa Nike in alcuni Paesi dell’Asia 140 . Nonostante la costituzione di un team composto da più di 80 persone deputato a verificare il rispetto dei codici di condotta e di adeguati standard nelle fabbriche asiatiche e l’incarico affidato a professionisti esterni di effettuare degli audit indipendenti presso i suoi circa 900 fornitori, alla fine degli anni Novanta il problema non era ancora stato risolto: nuove violazioni dei diritti fondamentali dei lavoratori continuavano a emergere. La strada giusta verso la soluzione del problema fu intrapresa allorché venne costituito un team di senior manager e di esperti esterni, coordinato dal vicepresidente di Nike per la RSI, i quali si resero conto che i comportamenti irresponsabili nelle fabbriche asiatiche erano un sintomo di un problema di ordine sistemico, che coinvolgeva cioè il modello di business di Nike e le basi sulle quali si fondava la ricerca del vantaggio competitivo. L’obiettivo di Nike di minimizzare i costi e, nel contempo, soddisfare tempestivamente le richieste dei clienti faceva infatti perno su un ben collaudato e affermato processo di acquisto e sul sistema di gestione del magazzino. Quanto al primo, Nike assegnava ai procurement team, ovvero ai Si veda il caso redatto da P. M. Rosenzweig “International Sourcing in Athletic Footwear: Nike and Reebok”, Harvard Business School, 1994. 140
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propri dipendenti incaricati di effettuare gli acquisti, incentivi economici basati sul prezzo, sulla qualità e sui tempi di consegna. Tale sistema di incentivazione produceva l’effetto indesiderato di incoraggiare pratiche di acquisto aggressive, che, a loro volta, favorivano l’adozione di comportamenti gravemente irresponsabili nei confronti dei lavoratori impegnati nella fabbriche delle imprese fornitrici. Quanto al secondo, la politica di forte contenimento delle scorte conduceva a frequenti rotture di stock allorché si verificavano errori di previsione delle vendite: per soddisfare comunque la domanda, i compratori si rivolgevano con urgenza ai terzisti, i quali, pur di soddisfare le richieste di Nike, imponevano condizioni e orari di lavoro che finivano facilmente con l’essere lesive dei diritti fondamentali dei propri dipendenti. Il pur grave impatto reputazionale che l’emergere delle violazioni dei diritti dei lavoratori comportava per Nike e per il suo marchio non aveva alcuna conseguenza negativa, in termini finanziari, per coloro che si occupavano di acquisti e di gestione delle scorte. Il team di senior manager di Nike e di esperti esterni si rese conto che Nike “doveva gestire la responsabilità sociale come un elemento centrale del proprio business” (Zadek, 2004: 130) 141 . Ma se sotto il profilo tecnico il cambiamento del sistema degli incentivi ai responsabili degli acquisti fu relativamente semplice da attuare, assai più difficile fu vincere le resistenze di ordine culturale opposte da quanti vedevano nel ben collaudato sistema di procurement una delle chiavi del successo economico che Nike conseguiva ormai da trent’anni. “Nike’s challenge was to adjust its business model to embrace responsible practices – effectively building tomorrow’s business success without compromising today’s bottom line” (Zadek, 2004: 130). Per ridurre gli svantaggi in termini di costo che tale cambiamento avrebbe comportato, Nike decise di coinvolgere i suoi concorrenti – molti dei quali adottavano modelli di business del tutto analoghi – e i suoi fornitori. Con i primi furono promosse e avviate diverse iniziative multistakeholder finalizzate alla definizione di standard, relativi alle condizioni dei lavoratori, condivisi e praticati da tutti, nonché alla messa a punto di approcci comuni, oltre che credibili, per verificarne l’effettivo rispetto. L’obiettivo di Nike, in questo caso, era di evitare “svantaggi di prima mossa”. Il rapporto con i fornitori cambiò dal momento che l’obiettivo di minimizzare i costi lasciò progressivamente il posto all’esigenza di promuovere forme di produzione “snella” 142 , caratterizzate da elevata flessibilità, in risposta a dinamiche competitive che imponevano una riduzione del tempo intercorrente fra sviluppo e messa sul mercato dei nuovi prodotti. Nike passò quindi da un rapporto con i fornitori fortemente top-down e “mordi e fuggi” ad uno più stabile e che lasciava loro maggiore autonomia di azione; i fornitori, a loro volta, per essere competitivi nei confronti di Nike dovevano permettere ai loro dipendenti di sviluppare nuove competenze e garantire loro migliori condizioni salariali e lavorative. 141
Nike “had to manage corporate responsibility as a core part of the business”. (Zadek, 2004:
130). 142
Con tale termine si traduce l’espressione inglese lean manufacturing.
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L’analisi del caso Nike suggerisce l’ipotesi che il rischio di un certo grado di conflittualità, se non proprio di incompatibilità, fra RSI e vantaggio competitivo è maggiore, a parità di condizioni, quando si ricerca un vantaggio di costo piuttosto che di differenziazione. Nel primo caso, infatti, possono più facilmente verificarsi dei trade-off fra gli interessi in gioco e la ricerca del vantaggio competitivo potrebbe indurre pressioni eccessive e indebite nei confronti di alcune categorie di stakeholder: in primis, dei lavoratori, diretti o indiretti, e dei fornitori. Tali effetti sono aggravati se e nella misura in cui l’adozione di pratiche socialmente irresponsabili per minimizzare i costi si diffonde all’interno di un dato settore. Se ne dovrebbe concludere che la ricerca di un vantaggio competitivo di costo implica di necessità una riduzione del livello di RSI? Certamente no. Tutto dipende da come tale vantaggio è perseguito e come vengono impiegate le risorse che si liberano per effetto del contenimento dei costi. Sotto il primo profilo, il rischio di impatti negativi sugli stakeholder si riduce se e nella misura in cui la riduzione dei costi è il risultato di processi di innovazione e di incremento della produttività che vedono nei lavoratori e nei fornitori dei partner attivi e propositivi; sotto il secondo profilo, una strategia centrata sul contenimento dei costi potrebbe addirittura generare benefici aggiuntivi per gli stakeholder se e nella misura in cui le risorse che si liberano grazie all’innovazione e agli incrementi di produttività sono reinvestite ed equamente ripartite. Ciò può significare, in concreto: incremento degli investimenti in innovazione; riconoscimento del contributo offerto da fornitori e lavoratori attraverso incrementi di remunerazioni e di prezzi, compartecipazione agli investimenti effettuati dai fornitori per incrementare la qualità, la produttività e l’innovatività dei loro prodotti; iniziative di formazione e valorizzazione dei collaboratori; miglioramento delle capacità di accesso al prodotto da parte dei clienti attuali e potenziali mediante l’offerta di soluzioni ritagliate – in relazione al prezzo, alle prestazioni e alle modalità di erogazione – sulle esigenze dei clienti con minori disponibilità economiche. b. Obiettivi sociali perseguiti a scapito della competitività. Non mancano i casi di aziende nelle quali il perseguimento di obiettivi di carattere sociale va a scapito del perseguimento dell’economicità e della competitività, finendo, in tal modo, per mettere a repentaglio, nel medio-lungo periodo, gli interessi di quegli stessi stakeholder che la proprietà o il management intendevano difendere o promuovere. Coda 143 (1988a) richiama, in proposito, i casi Danieli e Graziano, due imprese nelle quali l’attenzione alle attese dei dipendenti da parte di imprenditori socialmente illuminati aveva sì favorito un clima assai collaborativo anche nel contesto socialmente difficile che si era venuto a creare a partire dal 1968, ma aveva altresì indebolito la tensione all’economicità, con la conseguenza di ridurre progressivamente l’autofinanziamento e di accrescere l’indebitamento. Mentre la prima fu 143
Si veda Coda, op. cit., 1988a, pp. 164 e 171.
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ristrutturata dalla figlia dell’imprenditore con l’aiuto di un consulente, la seconda non fu in grado di reggere all’aumento della pressione competitiva e dovette cessare l’attività. La ricerca di obiettivi sociali che rischia di minare le basi del vantaggio competitivo e quindi della sopravvivenza nel medio-lungo periodo si riscontra talora nell’ambito di imprese pubbliche. E’ nota la vicenda delle partecipazioni statali negli anni Sessanta e Settanta, la cui funzione-obiettivo dichiarata era quella della creazione di posti di lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno. L’esito fu la messa in liquidazione di realtà come l’IRI. Emblematico, in tempi recenti, è il caso di molte aziende a proprietà comunale operanti nel settore delle public utilities, nel quale sono in atto – sia pure con differenze significative tra i diversi comparti di cui si compone (distribuzione del gas, vendita del gas, idrico, ecc.) – una progressiva liberalizzazione e apertura dei mercati. Tali imprese operano tradizionalmente sulla base di contratti di servizio negoziati direttamente con il comune-socio (o con i singoli comuni soci), senza che venga indetta una gara d’appalto, con un raggio d’azione in prevalenza locale. La progressiva liberalizzazione dei mercati, promossa dall’Unione Europea e recepita in Italia mediante provvedimenti normativi quali il “decreto Marzano” 144 , determina per i Comuni l’obbligo di indire gare d’appalto, il che, da un lato, espone le aziende locali al rischio di perdere servizi da sempre svolti localmente in condizioni di monopolio, dall’altro, offre loro opportunità di sviluppo in nuovi territori. Ne deriva la necessità, per essere competitivi, di conseguire economie di scala in varie funzioni, di assicurarsi gli approvvigionamenti di gas e di ridurne i costi – per esempio attraverso la partecipazione a consorzi di acquisto o a società proprietarie di siti di stoccaggio del gas naturale – di sviluppare competenze di partecipazione alle gare d’appalto e quindi di gestione finanziaria, di programmazione e controllo e via dicendo. Per realizzare tali condizioni, si rendono opportuni con sempre maggiore frequenza processi di aggregazione di imprese municipalizzate locali, così da raggiungere la massa critica necessaria. Nonostante i mutamenti in atto nel sistema competitivo, che sta diventando via via più complesso e selettivo, alcuni Comuni detentori del capitale e gli amministratori che ne sono espressione tendono non di rado a opporre resistenze al pur necessario cambiamento nelle multiutilities da essi controllate, talora per motivi di bassa politica, talora in nome di una malintesa tutela della funzione pubblica e sociale di tali imprese nei territori di tradizionale operatività. Ne derivano, tipicamente, resistenze a conferire determinate linee di business nell’impresa nata dall’aggregazione di più realtà locali, la tendenza a prelevare in forma di dividendi, da utilizzare poi per coprire vari tipi di spese correnti, la gran parte quando non la totalità degli utili di esercizio, la propensione a influenzare gli amministratori perché scelgano manager di origine locale, mettendo in secondo piano il criterio delle esperienze e delle capacità manageriali, il rifiuto
144 Si tratta della legge del 23 agosto 2004, n. 239, avente per oggetto il “riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia”.
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aprioristico di realizzare qualunque sinergia di costo che possa comportare nel breve termine un qualche sacrificio occupazionale. Il rischio per queste imprese è che il perseguimento di obiettivi di carattere sociale induca a ignorare o a sottovalutare le manifestazioni di dinamicità ambientale: ne conseguono una progressiva perdita delle capacità di adattamento all’ambiente e quindi di competitività, la quale può sfociare, in un orizzonte di medio-lungo periodo, in una ridotta capacità di conseguire quegli stessi obiettivi sociali in nome dei quali le scelte strategiche erano state compiute. Si pone dunque a tema la questione della sostenibilità della RSI o, il che è lo stesso, del perseguimento di obiettivi sociali in un’ottica di medio-lungo periodo. Ciò implica, a sua volta, la necessità che gli attori-chiave di tali imprese maturino la consapevolezza che, se e nella misura in cui un’impresa è inserita in un contesto concorrenziale, la socialità non solo non è in contrasto con la competitività, ma trova in quest’ultima una condizione di realizzabilità e di sostenibilità. In altri termini, essi dovrebbero passare da una concezione statica a una concezione dinamica di socialità. Si tratta, ad evidenza, di un passaggio non facile, in quanto implica la presa di coscienza e la messa in discussione di modelli mentali consolidati, i quali, per di più, sono normalmente rafforzati dal consenso che essi incontrano nel contesto politico di riferimento. La questione di possibili impatti negativi della socialità sulla competitività merita di essere ulteriormente approfondita, innestandola nella letteratura esistente in tema di cambiamento strategico. Essa, infatti, non è riducibile unicamente ai casi, quali quelli sopra esemplificati, di imprese in cui gli obiettivi di carattere sociale vengono perseguiti a scapito di quelli competitivi da imprenditori socialmente illuminati o da amministratori di imprese pubbliche portatori di una concezione statica di socialità. Si vuole qui porre l’accento sul rischio che un “eccesso” di coesione sociale possa costituire un fattore inerziale che previene il cambiamento strategico, mettendo a repentaglio, al limite, la stessa capacità di sopravvivenza dell’impresa nel lungo periodo. Per “coesione sociale” s’intende una condizione di diffuso consenso e commitment da parte degli stakeholder nei confronti dell’impresa e della sua strategia. Tale coesione è, in genere, il frutto non soltanto della responsabilità sociale in senso stretto che informa i comportamenti e le scelte dell’impresa – il rispetto per i lavoratori, la tutela dell’ambiente e via dicendo – ma anche di una strategia alla quale si riconosce di contribuire positivamente all’occupazione, alla crescita e allo sviluppo socio-economico di un territorio o, più in generale, alla soddisfazione dei diversi stakeholder. Si ipotizza che un “eccesso” di coesione sociale, in presenza di buoni risultati economici e competitivi, potrebbe 145 : - ritardare od ostacolare la percezione della necessità di cambiamento strategico; Dei rilevanti impatti positivi della coesione sociale sulla competitività di un’impresa ci si occuperà ampiamente nel capitolo 4. 145
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- ridurre l’incentivo a innovare e accrescere le resistenze al cambiamento. Nel caso in cui, all’opposto, l’azienda si trovi in condizioni di crisi tali da richiedere una ristrutturazione, si può ipotizzare che la coesione sociale faciliti il processo di cambiamento: essa infatti induce presumibilmente i diversi stakeholder – in primis i dipendenti – ad accettare i sacrifici che ogni ristrutturazione inevitabilmente comporta, in quanto i comportamenti responsabili adottati in passato dagli attori-chiave alimentano, di norma, un clima di cooperazione e di fiducia. Pertanto, essi confidano che il processo di ristrutturazione, per quanto doloroso, venga gestito all’insegna dell’attenzione alle persone, minimizzando i sacrifici e comunque nella prospettiva di conseguire nel medio-lungo periodo benefici ripartiti equamente fra i diversi portatori di interessi. Ma la necessità di cambiamento strategico non si presenta solamente in caso di crisi: al contrario, possono verificarsi situazioni nelle quali si deve modificare anche radicalmente l’impostazione imprenditoriale pur in presenza di buoni risultati sia economici, sia competitivi (Coda, 1984). Nell’ipotesi di elevato dinamismo ambientale (Eisenhardt e Brown, 1997) le basi della competizione tendono a modificarsi velocemente, imponendo alle imprese di adattarvisi in tempi rapidi (Gottschalg e Zollo, 2007a). In tali casi, la flessibilità e la capacità di adattamento divengono una precondizione per il mantenimento o il rafforzamento della competitività aziendale. Una forte coesione sociale, proprio in quanto si fonda sul consenso dei diversi stakeholder nei confronti dell’impostazione strategica in essere, potrebbe, in primo luogo, ritardare od ostacolare la percezione della necessità di cambiarla. O, forse meglio, potrebbe rafforzare le tendenze inerziali che un track record di successi economici e competitivi induce nell’impresa anche a prescindere dalla coesione sociale 146 . Tale dinamica è ben illustrata da Grabher (1993), sia pure con riferimento non a una singola impresa ma a un distretto industriale e al di fuori dell’alveo della letteratura sulla RSI. Tale autore s’interroga sui motivi che hanno determinato la crisi del comprensorio 147 siderurgico tedesco della Rhur tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta e riconosce che il consenso diffuso e consolidato – a livello economico, politico e sociale – nei confronti della “missione” produttiva e della strategia delle imprese che ne facevano parte ha prodotto quello che egli definisce un cognitive lock-in 148 : una 146 “The ‘framework’ (…) of assumptions that comprise an organization’s strategy needs less and less attention under these conditions of satisfactory performance. In fact, a smoothly functioning strategy channels managerial perception such that the question of changing strategy is unlikely to arise (…)” (Huff, Huff, e Thomas, 1992, p. 56). 147 Lo stesso Grabher ravvisa in tale sistema economico locale alcuni dei tratti caratterizzanti il distretto industriale marshalliano. 148 Interrogandosi sulle cause della crisi dell'area tedesca della Ruhr, Grabher (1993, pp. 262263) rileva come “Common orientation was reinforced by social processes, such as ‘groupthink’. That is, within the coal, iron, and steel complex a specific world view was developed on the basis of social reinforcement. This world view determined which phenomena were perceived and which phenomena were ignored. Then, when events and signals were perceived, the world view determined how they had to be interpreted”. E ancora: “Personal cohesiveness and well-established
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condizione, cioè, nella quale il consenso e la coesione dei diversi stakeholder hanno fatto sì che al management delle imprese non arrivasse alcun segnale di dissenso o di insoddisfazione, rafforzando di fatto la convinzione che l’impostazione strategica in atto continuasse a essere valida e inducendo a ridurre al minimo l’attività di monitoraggio ambientale (Barr e Huff, 1997) 149 . Un’utile chiave interpretativa di una tale dinamica è offerta dall’approccio istituzionalista (DiMaggio e Powell, 1983, Meyer, 1982): la tendenza dei manager a conformarsi alle norme e alle attese espresse dal contesto sociale e istituzionale in cui l’impresa opera può diventare una forza inerziale che impedisce loro di percepire la necessità di cambiamento (Barr e Huff, 1997) 150 . La soddisfazione e il consenso degli stakeholder nei confronti dell’impostazione strategica in atto possono non solo ritardare la percezione della necessità di cambiamento, ma, quand’anche il management l’avesse percepita, altresì ostacolarne l’attuazione. Ciò si deve essenzialmente al fatto che la strategia in atto ha prodotto e produce benefici per i diversi stakeholder e quindi si teme che un cambiamento ne comporti la perdita o quanto meno una riduzione significativa. Si pensi, ad esempio, a un’ipotesi di cambiamento strategico che implichi l’abbandono di una tecnologia che si è rivelata valida sotto il profilo ecologico, oppure la modifica a un assetto geografico delle attività che ha portato benessere ai territori sui quali l’impresa era insediata. Oppure, ancora, a un’operazione di fusione o di acquisizione che, per sua natura, induce timori circa il mantenimento dell’occupazione, l’integrazione fra due differenti culture, le possibili conseguenze di modifiche negli assetti di potere. Per superare le forze inerziali 151 , il management è chiamato a un intenso sforzo di comunicazione e di condivisione, teso a diffondere la consapevolezza che le dinamiche ambientali in atto sono tali da rendere elevato il rischio di obsolescenza dell’impostazione strategica in essere, nonostante essa produca ancora performance positive, e che, pertanto, il cambiamento si rende necessario per mantenere inalterata la capacità dell’impresa di soddisfare le attese degli stakeholder nel lungo periodo. relations within the coal, iron, and steel complex turned out to be another trap. Intensive internal relations limited the perception of innovation opportunities and left no room for 'bridging relationships'”. 149 “(…) firm strategists must continually monitor the environment and make strategic decisions that keep firm strengths aligned with new opportunities and threats in the environment” (Barr e Huff, 1997, p. 337). 150 “In addition to affecting organizational activities, these organizational forces of inertia are likely to affect the process of noticing and interpretation (…). For example, external institutional norms may blind managers to the need to change by emphasizing conformity to a certain set of accepted interpretations, and structural configurations (Hannan e Freeman, 1984) can exacerbate lack of managerial attention by limiting and biasing available information (…)” (Barr e Huff, 1997, p. 342). 151 “(…) inertia is most succinctly defined as the level of commitment to current strategy, reflecting individual support for a given way of operating, institutional mechanisms used to implement strategy, monetary investments, and social expectations. Absent other forces, inertia describes the tendency to remain with the status quo and the resistance to strategic renewal outside the frame of current strategy” (Huff, Huff e Thomas, 1992, p. 56).
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Le riflessioni e le ipotesi sopra proposte in merito ai possibili impatti negativi della coesione sociale sulla competitività non devono in alcun modo condurre alla conclusione – che sarebbe ad evidenza paradossale – che essa rappresenti una condizione negativa per l’impresa o, peggio, che uno scarso livello di coesione sia preferibile a una forte coesione da parte degli stakeholder. Al contrario, esse sono funzionali a richiamare la necessità di un approccio dinamico e di lungo periodo alla responsabilità sociale, analogamente a quanto si dirà in seguito a proposito del profitto e del valore per gli azionisti 152 . In ogni caso, è opportuno interrogarsi a quali condizioni è possibile evitare che la coesione sociale diventi un fattore inerziale che ostacola il cambiamento strategico, ancorché necessario nell’interesse dell’impresa e dei suoi stakeholder. L’ipotesi è che, per ridurre tale rischio, il management, pur animato da valori etico-sociali forti e positivi, non debba “appiattirsi” sulle istanze degli stakeholder, ma vagliarle criticamente e adoperarsi per soddisfarle in un’ottica di medio-lungo periodo. In altri termini, esso non deve anteporle al bene dell’impresa, che è sovraordinato agli interessi particolari ancorché legittimi dei singoli stakeholder, ma soddisfarle grazie e attraverso la salvaguardia delle condizioni di prosperità duratura dell’impresa. Tale esigenza si pone per almeno tre motivi: - in primo luogo, nel breve termine le attese e le istanze degli stakeholder possono essere in qualche misura in conflitto fra loro, il che implica la necessità per il management di gestirle con equità e lungimiranza, rinunciando all’idea, tanto velleitaria quanto pericolosa, di assecondarle simultaneamente tutte. Il ruolo del management nella gestione di tali conflitti è essenziale, proprio in quanto esso soltanto è in grado di avere la visione d’insieme dei problemi e delle istanze e, quindi, di individuare le alternative di azione più appropriate; - alcune problematiche di ordine sociale e ambientale sono talora molto complesse, il che implica la necessità di competenze particolarmente evolute per risolverle. Non è affatto scontato, in tali casi, che gli stakeholder ne dispongano in misura maggiore rispetto al management dell’impresa 153 ;
Cfr. infra, cap. 4. Un esempio “classico” di tale situazione è costituito dal problema della piattaforma dismessa Brent Spar di Shell nel Nord Atlantico all’inizio del 1995. La decisione di Shell, dopo aver vagliato con l’ausilio di esperti tutti i profili tecnici, legali e politici, fu in un primo tempo di affondare la piattaforma. Gli attivisti di Greenpeace, paventando possibili impatti devastanti sull’ecosistema marino, reagirono con tale veemenza – boicottaggi, bombe contro alcune stazioni di servizio Shell e via dicendo – da indurre i governi coinvolti nella vicenda a togliere il proprio appoggio all’opzione prescelta dalla multinazionale anglo-olandese, che fu costretta a procedere allo smantellamento anziché all’affondamento della piattaforma. Dopo alcuni mesi Greenpeace ammise che le proprie proteste si erano basate su ipotesi errate circa la tossicità dei materiali contenuti nella piattaforma. Si veda Wei-Skillern J., “Sustainable Development at Shell (A)”, Harvard Business School, 2003. 152
153
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non va neppure dato per scontato che le istanze degli stakeholder siano sempre dettate da intendimenti corretti e non possano invece essere ideologicamente distorte o, peggio, al servizio di interessi particolari o di obiettivi di potere di alcuni soggetti, che finiscono così con il danneggiare i legittimi interessi che essi dovrebbero difendere. L’attitudine a vagliare criticamente le istanze in parola dovrebbe, infine, accompagnarsi alla capacità da parte del management di instaurare una relazione di sana dialettica con gli stakeholder, che si sostanzia, fra l’altro, in una comunicazione efficace delle ragioni per le quali esso ritiene necessario un cambiamento di strategia, ancorché l’impresa consegua buoni risultati economici e competitivi e, per di più, la strategia in atto sia ancora in grado di soddisfare adeguatamente le attese dei diversi stakeholder.
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3.2.3 Imprese nelle quali la RSI ha un legame con la strategia debole o assente a. Imprese nelle quali la RSI è assente L’intensificarsi delle istanze degli stakeholder, le dinamiche di globalizzazione da tempo in essere, la diffusione di standard, pratiche e iniziative di responsabilità sociale hanno ridotto di molto, da alcuni anni a questa parte, il numero delle imprese che ignorano o trascurano completamente tale tematica. Ciò non di meno, si può ragionevolmente ipotizzare che esistano tuttora non poche imprese che, di fatto o per scelta consapevole, non intraprendono particolari iniziative ispirate o riconducibili alla RSI. Si tratta, per lo più, di imprese il cui governo è guidato, sia pure con diversi gradi di consapevolezza, dall’assunto che il fine dell’impresa sia di produrre il massimo profitto o valore possibile per i suoi soci o azionisti. Un tale modo di intendere il fine e il ruolo dell’impresa non implica di necessità che essa sia guidata all’insegna dell’irresponsabilità o che incorra in comportamenti contrari all’etica, né, tanto meno, che le basi del vantaggio competitivo siano incompatibili con l’etica e la socialità 154 . Infatti, vi sono imprenditori e manager per i quali la ricerca del massimo profitto o valore per gli azionisti non deve travalicare alcuni solidi “paletti” posti dalla legge e dall’etica, in linea con la concezione di Friedman (1962) secondo la quale la ricerca del profitto deve avvenire “sempre con l’ovvio presupposto del rispetto delle regole del gioco, vale a dire dell’obbligo ad impegnarsi in una aperta e libera competizione, senza inganno o frode” 155 . Altri, ancora, sono rafforzati in tale concezione dell’impresa e dei suoi fini dal convincimento più o meno consapevole – ad evidenza ispirato alla ben nota teoria della mano invisibile di Adam Smith 156 – che, operando alla ricerca del profitto in un contesto di libero In quest’ultimo caso si ricadrebbe, ad evidenza, nelle fattispecie delineate nei due paragrafi precedenti del presente capitolo. 155 Friedman M., Capitalismo e libertà (1962), traduzione di R. Pavetto, cap. 8, p. 207. 156 Si veda il noto lavoro di A. Smith, 1776, The Wealth of Nations, vol. I, capitolo X, parte II (Edizione Cannan, Londra 1950), p. 130. 154
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mercato, l’impresa produca benefici sociali addirittura maggiori che se vi si adoperasse consapevolmente e con iniziative mirate. Ma se è vero che un’impresa gestita all’insegna della ricerca del massimo profitto e che esclude a priori ogni forma quanto meno esplicita di responsabilità sociale può comunque operare in modo legale, conforme all’etica e persino produrre vantaggi per la società, quali sono, allora, i limiti e i rischi di un siffatto modo di concepire il ruolo dell’impresa? In primo luogo, talune problematiche di ordine sociale e ambientale – si pensi, in particolare, al divario socio-economico fra il Nord e il Sud del Mondo e ai cambiamenti climatici dovuti anche all’inquinamento – hanno assunto una rilevanza tale, in termini sia di entità, sia di dinamica di crescita, da non poter essere affrontate efficacemente dai soli soggetti politici a ciò per loro natura deputati. Le imprese non possono, pertanto, chiamarsi fuori, sia perché talora hanno concorso o concorrono alla creazione di tali problemi, sia perché sono non di rado dotate di strumenti, risorse e competenze tali da poter contribuire efficacemente a porvi rimedio. Agire in modo conforme alla legalità e all’etica non è affatto sufficiente, a meno che non si consideri la responsabilità sociale come parte integrante di quest’ultima 157 . Si potrebbe, in un certo senso, ricondurre il modo di agire delle imprese che si esimono dalla responsabilità sociale al comportamento del free rider 158 : taluni problemi di carattere sociale e ambientale sono il risultato dell’azione collettiva di numerosi soggetti indipendenti, per cui risulta difficile, salvo in casi particolari, individuare il contributo dei singoli. In tal modo, le imprese inerti sotto il profilo della RSI possono trarre vantaggio dai contributi positivi alla loro soluzione offerti dalle imprese più sensibili e attive, senza dover sostenere alcun onere. Va da sé che la crescente attenzione da parte degli stakeholder e l’intensificarsi delle istanze che essi rivolgono alle imprese stanno “alzando l’asticella” della RSI, rendendo sempre più difficile mantenere un siffatto atteggiamento. In secondo luogo, le imprese orientate al perseguimento del massimo profitto, per quanto normalmente gestite nel rispetto della legalità e dell’etica, sono più di altre esposte al rischio di “scivolare” verso l’adozione di comportamenti irresponsabili, antietici o, addirittura, illegali allorché l’intensificarsi delle pressioni competitive o altre forme di discontinuità ambientale erodono drasticamente i margini di redditività: non v’è da meravigliarsi, in tale ipotesi, se il ripristino della redditività viene perseguito attraverso drastici tagli di personale, la delocalizzazione o il decentramento produttivo in Paesi a basso costo del lavoro senza troppo badare alle condizioni nelle quali sono costretti a operare i lavoratori, oppure in Paesi nei quali la legislazione a tutela dell’ambiente è particolarmente permissiva. Infine, vi è un terzo aspetto da considerare, ossia il profilo tipico delle strategie adottate dalle imprese nelle quali la RSI è assente e le implicazioni in termini di rapporti con gli stakeholder. Come evidenzia Coda (2004c), la Sulla complessa relazione fra RSI e business ethics si veda supra, § 2.1. Sul tema del free riding si veda, fra gli altri, M. Olson, The logic of collective action, Harvard University Press, 1971. 157
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strategia di tali imprese, proprio in quanto si fonda su un orientamento di fondo a privilegiare gli interessi dei soli azionisti, non è in grado di generare forza coesiva e motivazione negli altri stakeholder. I rapporti con questi ultimi, infatti, sono spesso strumentali all’obiettivo di massimizzazione del profitto; sono gestiti all’insegna del potere contrattuale e su basi negoziali, non della cooperazione e della partecipazione. La comunicazione rivolta agli stakeholder, di conseguenza, assume di frequente connotati strumentali e manipolatori. Ne consegue che l’impresa perde l’opportunità di avvalersi dell’appoggio e del commitment che gli stakeholder sono normalmente capaci di offrire alla realizzazione della strategia, se e nella misura in cui essa si iscrive in un “progetto”, quando non in una “missione”, in grado di contribuire efficacemente alla competitività aziendale e, nello stesso tempo, connotata da valenze sociali forti e positive. b. Imprese che adottano iniziative di RSI ma senza apprezzabile connessione con la strategia Un numero elevato e crescente di imprese, sensibilizzate dalle pressioni degli stakeholder, ma anche dalle iniziative assunte da loro concorrenti, hanno intrapreso iniziative concrete che si iscrivono nel quadro ampio e variegato della RSI: promuovendo iniziative di carattere filantropico, consistenti nella mera erogazione di contributi in denaro oppure in forme più specifiche e collegate all’operatività e al business; improntando alla RSI le relazioni con una o più categorie di stakeholder; integrando la RSI nella scelta delle risorse, dei clienti e dei fornitori (per esempio, rifiutando di ricorrere a fornitori esteri che non provino di rispettare certi standard minimali in termini di condizioni di lavoro nelle loro fabbriche), nei criteri e nelle modalità di esecuzione di alcuni processi, funzioni o attività (per esempio, investendo in impianti e processi produttivi in grado di ridurre le emissioni nocive per l’ambiente). Ciò che accomuna tali imprese è il fatto di intraprendere iniziative di RSI magari numerose e di per sé apprezzabili, sostenendo costi talora non trascurabili e dandone spesso comunicazione mediante un accurato sistema di rendicontazione sociale e ambientale, ma, nella sostanza, sganciate dalla strategia aziendale. In altri termini, queste iniziative possono, almeno in certi casi, determinare un qualche impatto sociale e persino dei cambiamenti nel modo con il quale l’impresa svolge alcune attività della catena del valore, ma non incidono sul vantaggio competitivo, né, per converso, le risorse e le competenze alla base di quest’ultimo vengono sfruttate per accrescere l’efficacia e l’impatto delle attività di RSI. Ma quali sono le motivazioni e gli obiettivi all’origine di un tale modo di intendere la RSI 159 ? Essi possono essere ricondotti, fondamentalmente, a due: l’adesione degli attori-chiave a determinati valori e principi etici; la difesa della legittimazione e della reputazione dell’impresa. In tale modo di intendere la RSI potrebbe ravvisarsi, a ben guardare, un legame, ancorché debole, con la strategia. 159
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Nel primo caso, la motivazione è almeno in parte riconducibile alla teoria del contratto sociale elaborata da Donaldson e Dunfee (1994), che si sostanzia nell’idea secondo la quale l’impresa è tenuta a “ricambiare” la società per il fatto che essa le mette a disposizione il supporto e le risorse di cui ha bisogno per funzionare: spazi fisici, energie, risorse, consensi, nonché un contesto giuridicoistituzionale adeguato. Per “ricambiare”, l’impresa s’impegna per la tutela dell’ambiente, la valorizzazione dei dipendenti, lo sviluppo economico-sociale dei territori sui quali è insediata, l’accesso a certi prodotti da parte delle popolazioni “alla base della piramide” e via dicendo. Ma che cosa impedisce l’integrazione nella strategia di una siffatta RSI, attuata in risposta a valori positivi? In ultima analisi, i fattori di ostacolo possono ricondursi a dei modelli mentali diffusi che equiparano la socialità al sacrificio di una quota di profitti, ciò non di meno doverosa e giusta. La RSI, quindi, è nella sostanza una forma di giustizia, la cui realizzazione determina un costo che l’impresa e i suoi azionisti consapevolmente e spontaneamente si sobbarcano. Nel secondo caso, si assume la RSI come un vincolo al quale l’impresa deve sottostare al fine di mantenere la legittimazione sociale al cospetto dei suoi stakeholder, di preservare la reputazione e quindi di ridurre i rischi e gli impatti potenzialmente negativi che le deriverebbero qualora quest’ultima venisse intaccata. Un tale approccio alla RSI è in qualche misura riconducibile alle teorie istituzionaliste (DiMaggio e Powell, 1983), le quali interpretano diverse scelte e attività delle imprese come la risposta al fabbisogno di legittimazione sociale più che come vie per migliorare le performance economiche e competitive. Non a caso, le scelte e le attività finalizzate alla legittimazione sociale assumono spesso un carattere marcatamente imitativo: in tale prospettiva possono essere interpretate alcune delle iniziative e dei progetti in tema di RSI che si sono diffusi e si stanno diffondendo in molti settori, non ultima la redazione del codice etico. Si tratta di un approccio alla RSI fondamentalmente difensivo, che non mette in discussione il primato degli azionisti e quindi l’obiettivo di massimizzazione del profitto, ma, al contrario, è ad esso funzionale, nel senso che si propone di individuare e di rimuovere tutti i rischi di carattere sociale e reputazionale che potrebbero minacciarne il conseguimento. Ciò non significa che si debba giudicarlo negativamente: esso, infatti, produce non di rado un’effettiva tutela dei diversi stakeholder e dei rispettivi interessi, promuovendo, in primis, la sicurezza dei lavoratori, degli utilizzatori e dell’ambiente; preserva l’impresa nel suo complesso, e non solo gli azionisti, dai rischi reputazionali e da quelli di “derive” illegali o antietiche; in alcuni casi, evolve verso un approccio meno difensivo e più proattivo alla RSI, nel senso che il ripensamento di alcune attività e processi operativi all’insegna della RSI può presentare caratteri di innovatività tali da incidere sul vantaggio competitivo. I due approcci sopra delineati hanno in comune due elementi: da un lato, la consapevolezza che l’adozione di iniziative e di pratiche ispirate alla responsabilità sociale è questione ormai ineludibile per le imprese, sia pure per motivazioni differenti – di ordine valoriale nel primo caso, più “opportunistico” nel secondo –; dall’altro, una connessione debole fra RSI e strategia aziendale. 89 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Nel concreto, le iniziative e i progetti di RSI possono essere guidati, all’interno di una stessa impresa, da entrambe le motivazioni simultaneamente.
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Al fine di meglio delineare i caratteri della RSI di tipo difensivo, si presenta di seguito un caso aziendale di particolare interesse, quello della Kedrion s.p.a.. Prima di illustrarlo, è opportuno premettere che la RSI di tale azienda è assai articolata e non può essere ricondotta esaustivamente a un approccio difensivo, ma, per alcuni tratti, può definirsi strumentale al vantaggio competitivo. In una specifica unità di business, si ravvisano i tratti della RSI integrata nella strategia. Pertanto, tale caso sarà discusso altre due volte nel presente capitolo. L’analisi si è svolta ricorrendo a una pluralità di fonti informative: bilanci, altri documenti messi a disposizione dall’azienda o disponibili sul suo sito Internet, interviste, l’interazione con il management nel corso di una giornata di formazione sul tema del cambiamento strategico 160 . Kedrion nasce nel 2001 a seguito di un processo di ristrutturazione organizzativa e finanziaria che ha condotto a riunire in un’unica azienda alcune società preesistenti di proprietà della stessa famiglia, allo scopo di raggiungere una “massa critica” più elevata, realizzare economie di scala e “fare qualcosa di nuovo rispetto al passato” 161 . Essa produce e distribuisce farmaci derivati dal plasma umano, in parte acquistando la materia prima per poi trasformarla e vendere sul mercato i prodotti finiti, in parte operando “in conto lavoro” per il Servizio Sanitario Nazionale. Una parte del business, per ora ancora minoritaria, deriva dal trasferimento tecnologico. Situata in Garfagnana, in provincia di Lucca, ha conseguito nel 2006 un fatturato consolidato di circa 155 milioni di euro dando lavoro a 647 persone 162 . Il capitale è detenuto per la maggioranza dalla famiglia Marcucci (60%) e per il resto (40%) da un Fondo di investimento. Quest’ultimo, entrato alla fine del 2006, ha sostituito altri Fondi che, a partire dal 2002, detenevano una quota minoritaria del capitale del Gruppo. Il loro ingresso è stato voluto dalla famiglia come strumento di autodisciplina all’interno e come strumento per “operare a un più elevato livello di competizione. Sfida che ci viene posta dal settore di intervento, caratterizzato da forte contenuto di innovazione e da un quadro di competitori di rilevanza internazionale. L’operazione di apertura del capitale ha garantito a Kedrion di acquisire un maturo know-how finanziario e di strutturarsi per consolidare e migliorare le proprie performance”.
160 Il caso Kedrion è stato analizzato nel paper di Minoja e Romano, “Managing turnaround with responsible entrepreneurship: the Kedrion case”, presentato alla conferenza The Social Responsibility of Small and Medium Sized Enterprises - Integration of CSR into SME Business Practice, Copenhagen, 26 ottobre 2006. 161 Si riportano fra virgolette alcune affermazioni del dott. Paolo Marcucci, Presidente e Amministratore Delegato di Kedrion, nel corso di un’intervista rilasciata il 24 luglio 2006. 162 I dati includono quelli della ex controllata Hardis, avente sede in Campania, che nel 2006 era posseduta al 100% dalla Kedrion e nel 2007 è stata da questa incorporata.
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La responsabilità sociale ha avuto un ruolo di rilievo nell’evoluzione di Kedrion dalla nascita ad oggi. La dr.ssa Iaconis, componente dell’Ethics Office dell’azienda toscana, tiene tuttavia a precisare che “in Kedrion si preferisce parlare di ‘gestione dell’etica negli affari’ che di ‘responsabilità sociale’, perché il secondo termine può essere fuorviante ed evocare forme varie di donazione e beneficenza, il che sarebbe limitativo” 163 . Il sistema di RSI – o di gestione etica negli affari – in Kedrion si compone dei seguenti elementi fondamentali: - il codice di condotta etica. Si tratta di un documento lungo (20 pagine), articolato e analitico, al quale deve conformarsi “ogni dirigente, dipendente o collaboratore”, ma contenente altresì alcuni principi e regole ai quali devono attenersi gli organi di amministrazione e di controllo della Società e del Gruppo. Oltre a esplicitare le modalità di applicazione, le modalità di controllo e sanzionatorie, il codice descrive i principi articolandoli in cinque sezioni: i principi generali, i principi inerenti l’organizzazione, i principi applicabili al luogo di lavoro, i principi inerenti il mercato, i principi inerenti la comunità, la società e l’ambiente. I singoli principi, a loro volta, si declinano in diversi puntielenco contenenti elementi di dettaglio e modalità di attuazione. In totale, si tratta di 26 principi articolati complessivamente in 111 puntielenco. Il codice si conclude con alcuni elementi di formazione etica, fra i quali la menzione di frasi che potrebbero costituire dei campanelli di allarme e segnalare “il pericolo di incorrere in una malcondotta etica”. - L’Ethics Officer. Tale ruolo è ricoperto dall’attuale vicepresidente della Kedrion s.p.a., Rodolfo de Dominicis, docente universitario di tecniche quantitative di controllo dei processi industriali, entrato in Kedrion sin dalla sua costituzione come amministratore indipendente 164 . Coadiuvato dalla dr.ssa Iaconis, laureata in Economia e con un master in Etica, l’Ethics Officer è responsabile della “definizione, implementazione, adeguamento e miglioramento continuo del Sistema di Gestione Aziendale per l’Etica negli Affari”, ivi compresa la gestione del codice di condotta etica. - Il Comitato Etico. Composto per la maggioranza da membri esterni e nominato dal Consiglio di Amministrazione, ha soprattutto una funzione consultiva che si esprime nella formulazione di consulenze e pareri motivati su richiesta del Consiglio di Amministrazione o dell’Ethics Officer in merito alla coerenza delle scelte e delle politiche aziendali con i principi e le regole contenute nel sistema aziendale per l’etica negli affari, oltre che all’individuazione di aree di miglioramento di tale sistema. Da un’intervista alla dr.ssa Iaconis, effettuata a Lucca il 29 settembre 2006. L’Ethics Officer ricopre altresì l’incarico di componente unico dell’Organismo di Vigilanza ai sensi del d. lgs. 231/2001 e di responsabile dell’Internal Audit. 163
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La certificazione SA 8000. Si tratta di uno standard internazionale, basato sui principi dell’International Labour Organization (ILO), per la certificazione volontaria della RSI, che stabilisce i requisiti per un comportamento eticamente corretto nei rapporti con i lavoratori e prevede che l’impresa richiedente la certificazione garantisca l’aderenza a tali requisiti anche lungo la filiera di fornitura. Kedrion ha conseguito tale certificazione nel mese di luglio 2004. - Il Modello di Organizzazione e Gestione adottato ai sensi del D. lgs. n. 231/2001 165 . Si tratta di un sistema strutturato e organico di procedure, protocolli e attività di controllo, volto a prevenire la commissione di condotte idonee a integrare i reati contemplati dal Decreto (reati contro la Pubblica Amministrazione, contro la fede pubblica, societari, abusi di mercato, delitti con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico). Esso si inserisce nell’ambiente di controllo preesistente in Kedrion, di cui si citano i seguenti elementi fondamentali: la struttura organizzativa e il sistema delle deleghe, il sistema di pianificazione e controllo delle spese, il sistema di autorizzazione alla spesa, il sistema di monitoraggio delle performance aziendali, il processo di budgeting e di controllo di gestione, la formazione e revisione del bilancio, la conformità ai principi e alle linee guida emanate da Farmindustria in materia di attività di informazione scientifica. - Un Sistema di Gestione Ambientale in linea con standard volontari (ISO 140001 ed EMAS, in base ai quali Kedrion ha conseguito le certificazioni), che fornisce le linee-guida per il rispetto dell’ambiente. Kedrion, inoltre, aderisce ai dieci principi enunciati nel Global Compact delle Nazioni Unite. E’ stato infine avviato un percorso di comunicazione con gli stakeholder: in primo luogo, nel 2005 ne è stata completata la mappatura; nel 2006 è stata inviata per la prima volta una lettera a tutti, con indicazione dei traguardi raggiunti in termini di “gestione dell’etica negli affari” e di obiettivi per il futuro. La pur sintetica descrizione del “sistema di gestione etica” di Kedrion è sufficiente a far intuire come esso sia caratterizzato da un elevato grado di formalizzazione e di articolazione, relativamente insolito per un’impresa di medie dimensioni non quotata, risultato di un processo deliberato e consapevole avviato sin dalla sua costituzione e tuttora in corso. Tale sistema è finalizzato a promuovere la massima disciplina sia all’interno del Gruppo, sia da parte dei fornitori e copre a 360 gradi le tematiche rilevanti per la RSI. La forte caratterizzazione etica, il carattere prescrittivo di molte parti del codice di condotta, l’enfasi sulla prevenzione dei rischi 166 trasmettono l’impressione di un 165 “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’art. 11 della L. 29.9.2000, n. 300”. 166 La parola “rischio” o “rischi” compare 15 volte nel codice di condotta etica.
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approccio difensivo. Una tale impostazione si collega, in parte, al settore nel quale opera l’azienda, dove la materia prima è costituita dal plasma umano e i prodotti finiti sono farmaci salvavita o, comunque, farmaci che impattano significativamente sulla qualità della vita dei pazienti. Ne discende la necessità che i processi di approvvigionamento, conservazione, trasformazione e distribuzione dei prodotti avvengano in condizioni di assoluta sicurezza, sì da prevenire qualsiasi rischio di contaminazione o di alterazione. La prima “responsabilità sociale” per le imprese del settore, quindi, è di garantire tali condizioni. Un’intervista alla dr.ssa Iaconis, collaboratrice dell’Ethics Officer, ha permesso di meglio cogliere la filosofia sottostante a tale impostazione. “Una volta raggiunta una certa soglia dimensionale, è maturata la consapevolezza della necessità di un salto culturale e di pensare in termini di valore economico per gli azionisti, che è un concetto dinamico. Si è quindi posta la domanda ‘come si fa a salvaguardare il valore dell’azienda nel tempo?’ La risposta che l’azienda si è data è stata: ‘gestendo tutte le forme di rischio’. Ciò significa, in concreto, prendere in considerazione sistematicamente, nell’ambito della definizione della politica e delle scelte aziendali, le aspettative legittime di tutti quelli che hanno interesse nell’azienda: per questo l’approccio di Kedrion è definito ‘multistakeholder’. Tale approccio impone di individuare le aspettative degli stakeholder per poi controllare che esse vengano effettivamente prese in considerazione nelle decisioni”. La centralità del valore per gli azionisti è ribadita anche dall’amministratore delegato, dalle cui parole emergono alcuni tratti salienti del suo orientamento strategico di fondo e di come esso si declina in scelte concrete: “L’obiettivo di fondo che il vertice aziendale si è dato è di creare valore per gli azionisti e aumentare il valore dell’azione. La verifica del grado di conseguimento di tale obiettivo si fonda sul confronto con aziende quotate simili, assunte come benchmark, utilizzando il metodo dei multipli, quello dei flussi di cassa scontati e considerando le transazioni realizzate recentemente nel settore (…). La nostra filosofia è non depauperare l’azienda, ricercando in ogni decisione l’approvazione del Consiglio di Amministrazione, nella consapevolezza che in esso vi è rappresentato un Fondo. (…) In ogni cosa ricordiamo che dobbiamo rendere conto a degli azionisti, per cui si è posta enfasi sulla separazione fra proprietà e management e si portano pochi soldi fuori dall’azienda. Oltre a distribuire pochi dividendi, nel caso di transazioni che abbiano come controparte la famiglia si applicano prezzi di mercato. (…). Il cambio di filosofia gestionale ‘a 360 gradi’, il cui embrione risale al periodo 1999-2000, ha investito anche le politiche di indebitamento, che è stato ridotto nella sua entità e modificato nella sua struttura.”
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Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
In sintesi, si può affermare che la RSI di Kedrion – sia che venga intesa come “gestione etica degli affari”, sia come risposta alle istanze dei vari stakeholder – è consapevolmente vissuta e gestita come strumento che concorre a ridurre i rischi di qualsivoglia natura e, per tale via, previene il depauperamento del valore per gli azionisti. Tale ottica, come si è detto, è per lo più difensiva e gli azionisti sembrano collocarsi al vertice della gerarchia degli stakeholder nel modello mentale del top management. Ciò non significa però che a tale approccio si voglia o si debba attribuire una qualche connotazione negativa, soprattutto alla luce delle seguenti considerazioni. In primo luogo, dalle interviste emerge sì un’enfasi sulla creazione di valore per gli azionisti, ma in una prospettiva di lungo periodo e, dunque, di sostenibilità; in secondo luogo, la capacità di creare valore per gli azionisti è vissuta dalla proprietà e dal top management come il risultato di un lungo processo di evoluzione e di maturazione percorso dall’azienda all’insegna della managerializzazione, dell’allentamento del rapporto famiglia-impresa, dell’introduzione di tecniche di gestione evolute, della qualità “a 360 gradi” e, non ultimo, dello sviluppo di un sistema di gestione dell’etica e della RSI. Un processo, per altro, che, come si avrà modo di dire in seguito, non è ancora completato. Una prova di questa evoluzione è la capacità di attrarre dei fondi di investimento, il cui ingresso nel capitale di Kedrion è vissuto con un certo orgoglio dalla proprietà. Ancora, proprio la presenza di un fondo di investimento nel capitale è stato un motore di tale processo e – si può ragionevolmente ipotizzare – concorre a spiegare l’enfasi posta sulla creazione di valore per gli azionisti. Infine, si ribadisce che i tratti sino ad ora delineati non esauriscono la RSI di Kedrion: nel seguito del presente lavoro si metteranno in luce le relazioni fra socialità e vantaggio competitivo, relazioni che, in un certo senso, rappresentano una nuova “frontiera” della RSI dell’azienda toscana. 3.2.4
Imprese nelle quali la RSI è strumentale
a. Imprese nelle quali la RSI è strumentale ad accreditare un’immagine di impresa responsabile non corrispondente al vero In tali imprese la RSI tende a caratterizzarsi per tre elementi essenziali: una buona propensione a effettuare elargizioni e donazioni, in generale a impegnarsi in iniziative filantropiche; un’accurata comunicazione all’interno degli aspetti legati alla RSI e all’etica, ivi inclusa la predisposizione del codice etico; una forte enfasi sulla comunicazione all’esterno delle iniziative di RSI e, più in generale, di tutto ciò che possa in qualche modo essere ad essa ricondotto. Lo scopo ultimo, in questi casi, è di accreditare sia all’interno, sia all’esterno un’immagine di impresa etica e responsabile, così da ottenere il consenso degli stakeholder e assicurarsi più facilmente i contributi critici di cui essi sono portatori. Una tale strumentalità della RSI assume dunque una connotazione negativa, essendo funzionale, in buona sostanza, a “mentire” agli stakeholder. In questi 94 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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casi, infatti, la comunicazione pone enfasi sul valore delle iniziative socialmente responsabili poste in atto – quasi sempre staccate dalla strategia e persino dalle attività operative che caratterizzano il business in cui opera l’impresa –, al fine di nascondere e di sviare l’attenzione da comportamenti antietici quando non illegali che, invece, spesso attengono strettamente al business e alla strategia. Si possono citare, solo a titolo esemplificativo, le iniziative filantropiche e le elargizioni effettuate da diverse banche, che, senza nulla togliere al loro valore intrinseco, si sono rivelate funzionali a distogliere l’attenzione mediatica e degli stessi stakeholder da comportamenti tutt’altro che etici e responsabili nei confronti della clientela. Tali banche, almeno in certe fasi della loro storia, hanno conseguito quote significative dei propri margini offrendo prodotti tanto inadeguati – per i profili di rischio / rendimento – ai fabbisogni dei risparmiatori quanto forieri di lucrose commissioni, oppure vendendo alla clientela corporate prodotti derivati le cui finalità di copertura sono state soppiantate, spesso attraverso ristrutturazioni successive, da finalità speculative, con il risultato di determinare oneri a carico della clientela di gran lunga superiori a quelli che avrebbe dovuto sostenere se non avesse fatto ricorso a tali prodotti. Nei casi più gravi, le iniziative di RSI e quelle comunicazionali ad esse collegate hanno presumibilmente concorso a ritardare l’emersione di alcuni noti scandali finanziari, in Italia e all’Estero. b. Imprese nelle quali la RSI è strumentale al conseguimento del vantaggio competitivo Si tratta, in questo caso, di una strumentalità positiva, in quanto la RSI s’inserisce in una relazione sinergica con le basi del vantaggio competitivo. L’elemento fondamentale che contraddistingue tale approccio rispetto a quello della RSI senza apprezzabile connessione con la strategia 167 è il suo carattere proattivo, che si manifesta nella individuazione e nella realizzazione di progetti e iniziative che hanno una valenza sociale e, nel contempo, concorrono al rafforzamento della competitività; oppure, nello svolgimento di una o più attività della catena del valore (Porter, 1985) sulla base di tecniche o di modalità nuove, socialmente responsabili, le quali si ripercuotono positivamente sul valore per il cliente. Un tale approccio, non di rado, richiede e stimola al tempo stesso doti di creatività e di innovazione. Esso, tuttavia, non arriva a scalfire una concezione gerarchica dei fini dell’impresa, in base alla quale il profitto e la creazione di valore per gli azionisti sono gli obiettivi al vertice della piramide, mentre quelli di natura sociale sono, per l’appunto, subordinati e strumentali rispetto ad essi. Nel caso di Kedrion, gli attori-chiave condividono certamente una visione della RSI come strumento per preservare l’azienda da ogni forma di rischio e difendere per tale via il valore per gli azionisti. Un tale approccio “difensivo”, per quanto dichiarato, non esaurisce tuttavia la logica e la funzione della RSI 167
Tale approccio è stato delineato nel precedente paragrafo.
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dell’azienda toscana. Infatti, la RSI di Kedrion è fortemente integrata nei processi operativi e si misura in termini di qualità e sicurezza della materia prima, dei processi di trasformazione e di conservazione del prodotto finito. Grazie agli ingenti investimenti in tecnologia e in ricerca e ai severi standard di qualità e di sicurezza che si è imposta di raggiungere – comunque ben al di sopra dei pur severi standard definiti dalla normativa di settore 168 – Kedrion ha sviluppato competenze di rilievo e ha conseguito livelli importanti di qualità e sicurezza dei prodotti che, da un lato, denotano un approccio proattivo alla RSI, dall’altro, le sono valsi una reputazione di eccellenza. Quest’ultima, a sua volta, ha concorso all’affermazione e alla crescita che essa ha realizzato in Italia. Pertanto, se si mette in relazione un tale approccio alla RSI con l’obiettivo prioritario dichiarato di creare valore per gli azionisti, si è in presenza di una RSI strumentale al conseguimento del vantaggio competitivo. 3.2.5
Imprese nelle quali la RSI è integrata nella strategia
L’integrazione della RSI nella strategia è il tema focale di questo libro, per cui sarà affrontato in tre diversi momenti. Nel presente capitolo ci si propone, innanzi tutto, di definire che cosa s’intende per RSI integrata nella strategia e porre a confronto tale archetipo di RSI con gli altri qui presentati, delineandone gli elementi qualificanti. Ci si soffermerà, in particolare, sul tema cruciale dell’inclusione dei fini sociali nella funzione-obiettivo dell’impresa e sulle implicazioni che ne derivano in termini di efficacia e di impatto della RSI. Nel capitolo successivo ci si concentrerà sulle molteplici relazioni che connettono il vantaggio competitivo alla coesione sociale nelle imprese che integrano la RSI nella propria strategia, oltre che sulle condizioni per il funzionamento di tali relazioni. Nel quinto capitolo, infine, s’intende riflettere, con l’ausilio di un modello sistemico, sulle condizioni e sui processi che conducono un’impresa a integrare la RSI nella propria strategia. Ai fini del presente lavoro si dice che la RSI è integrata nella strategia quando i fini di carattere sociale sono inclusi nella funzione-obiettivo dell’impresa e il vantaggio competitivo sostenibile e la coesione sociale si alimentano a vicenda nell’ambito di una valida sintesi socio-competitiva. Da tale definizione dovrebbe emergere con chiarezza il carattere pervasivo della RSI integrata nella strategia: essa ne permea, infatti, sia i profili meno visibili – quali i fini o, più in generale, l’orientamento strategico di fondo – sia gli elementi concreti che danno sostanza all’impostazione strategica in atto. La “socialità” costituisce dunque, in tale ipotesi, uno dei perni intorno ai quali ruota la strategia, dal momento che essa concorre ad alimentare e a rafforzare il vantaggio competitivo e, nel contempo, trae da esso – oltre che dai fini, dalle 168 La funzione di “Quality Assurance” di Kedrion è strutturata e opera in conformità alle best practice americane, imponendo il rispetto di regole più stringenti di quelle previste dalla normativa italiana, che pure è considerata fra le più severe a livello internazionale.
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motivazioni e dai valori degli attori-chiave dell’impresa – le condizioni di sostenibilità e di efficacia. Ma procediamo con ordine, esaminando ad uno ad uno i tratti qualificanti della definizione sopra proposta. I) L’inclusione dei fini sociali nella funzione-obiettivo dell’impresa (Coda, 2004c) è coerente, sotto il profilo teorico, con una concezione della strategia inclusiva dei fini e non solo delle decisioni e delle azioni intraprese per realizzarli 169 . Questo modo di intendere la strategia è in linea con quello che considera l’orientamento strategico di fondo – ossia un insieme di idee-guida, valori, convincimenti, fini e via dicendo – una variabile che, da un lato, è parte integrante della strategia, dall’altro, spiega e determina le decisioni e le azioni nelle quali la strategia stessa si manifesta concretamente (Coda, 1988a) 170 . Sempre sotto il profilo teorico, l’idea dell’inclusione dei fini sociali nella funzione-obiettivo dell’impresa si propone di superare una dicotomia tanto consolidata quanto inadeguata nella letteratura in tema di RSI, in base alla quale all’origine dei comportamenti socialmente responsabili vi sarebbero o motivazioni strumentali (“the business case for CSR”) o motivazioni etiche (“the normative case for CSR”) 171 . Tale valutazione di inadeguatezza – o, sarebbe forse meglio dire, di incompletezza – di questa dicotomia si fonda sull’assunto che essa non solo non considera l’intera gamma delle motivazioni che la psicologia riconosce in grado di indurre l’uomo ad agire, ma neppure appare adeguata a spiegare l’approccio alla responsabilità sociale in concreto adottato da alcune imprese. Mentre le motivazioni strumentali attengono ai vantaggi che la RSI produce in termini di reputazione, legittimazione (Wood, 1991), riduzione del rischio, vantaggio competitivo, profitto e valore per gli azionisti, le motivazioni di ordine normativo ricomprendono, invece, quelle di tipo etico e valoriale. In questo secondo caso, i comportamenti socialmente responsabili sono guidati da principi o norme, ovvero da standard normativi che orientano nella scelta dei corsi di azione alternativi (Jacob et al., 1962, Harrison, 1975, Hemingway e Maclagan, 2004). Quali sono, allora, le motivazioni per la RSI che tale dicotomia non cattura? Si tratta, essenzialmente, di quella che Lindenberg (2001) definisce motivazione edonica (o enjoyment-based) 172 : il fattore motivazionale è costituito in questo “There can be no strategy without objectives, simply because there can be no means without ends”. Freeman, Gilbert e Hartman, 1988, p. 827. 170 Cfr. anche supra, § 3.1. 171 Va per altro osservato che alcuni autori assumono che la RSI sia in ogni caso dettata da qualche motivazione egoistica. Hemingway e Maclagan (2004), citando Moon (2001), osservano che “It could be argued that the motivation for engaging in CSR is always driven by some kind of self-interest” e riportano l’osservazione di Rollinson (2002, p. 44), secondo il quale “it is always difficult to tell whether behaving ethically towards external stakeholders is prompted by altruism or self-preservation”. 172 “Enjoyment can be conceptualized as an emotion tied to improvement of one’s condition (especially direct improvement)”, S. Lindenberg, 2001, p. 331. 169
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caso dall’emozione positiva che deriva dallo svolgimento di una certa attività. Più precisamente, ciò che motiva a svolgere una certa azione possono essere le sue caratteristiche intrinseche, in quanto percepite come desiderabili e piacevoli, la libertà di azione consistente nella possibilità di decidere in autonomia in quale modo svolgerla, il potenziale di sviluppo personale che deriva dall’esecuzione di quell’attività. In questo modo, Lindenberg intende superare la classificazione dicotomica di Deci (1975), che distingue fra motivazioni estrinseche e intrinseche, proponendone una a tre classi: egli, infatti, considera, analogamente a Deci, le motivazioni di ordine estrinseco, ossia orientate al conseguimento di una qualche ricompensa tangibile esterna come vantaggi economici, potere, riconoscimento. Tuttavia, nell’ambito delle motivazioni di ordine intrinseco distingue quelle normative, ossia basate su obligations, e quelle, appunto, edoniche o enjoyment-based. Nel primo caso, il comportamento è guidato dall’obiettivo di conformarsi alle regole, norme o principi 173 che il soggetto percepisce essere accettati nell’ambito della comunità sociale nella quale si identifica. Nel secondo, invece, sono le emozioni positive quali la gioia e la soddisfazione che si provano a svolgere una certa attività che inducono a intraprenderla (tabella 3.1). S’intende, pertanto, avanzare l’ipotesi che per alcuni manager e imprenditori agire nell’interesse dei diversi stakeholder e produrre benefici sociali tramite le risorse, le iniziative e le attività dell’impresa non è dettato solo da ragioni di convenienza economica (ovvero, da motivazioni estrinseche) o etico-valoriali (motivazioni intrinseche normative), ma anche dalla gioia e dalla soddisfazione che ne derivano (motivazioni intrinseche edoniche). In altri termini, si ipotizza che gli attori-chiave possano improntare il governo e la gestione dell’impresa alla responsabilità sociale sulla base di una profonda adesione interiore, che fa sì che la loro personale soddisfazione e realizzazione dipendano dal fatto che l’impresa riesca ad attuare la propria missione non solo economica, ma anche sociale. Considerando l’inclusione dei fini sociali nella funzione-obiettivo dell’impresa come parte integrante della definizione stessa di integrazione della RSI nella strategia s’intende dunque, da un lato, affermare che tale integrazione non possa realizzarsi appieno se non si manifesta anche sul piano dell’orientamento strategico di fondo, dall’altro, associare tale integrazione sul piano dei fini a un’adesione profonda, di natura emozionale prima che cognitiva o etico-valoriale, degli attori-chiave al ruolo e alle finalità sociali dell’impresa 174 . Gottschalg e Zollo (2007b) spiegano nel modo seguente il carattere intrinseco delle motivazioni di ordine normativo nella teoria elaborata da Lindenberg: “The key point is that the motivator here is not related to any reaction of the outside community to their behavior but the satisfaction that they perceive from the sheer identification and integration with the community they feel they belong to. The intensity of normative intrinsic motivation further depends on the degree to which individuals care about norm-compliance” (pag. 7). 174 A onor del vero, la definizione di RSI integrata nella strategia fa riferimento all’inclusione dei fini sociali nella funzione-obiettivo dell’impresa, mentre la teoria di Lindenberg è incentrata sulla motivazione dei singoli individui. Non si ritiene opportuno, in questa sede, soffermarsi sulla questione della relazione fra motivazioni, valori e fini individuali, da una parte, valori, fini e 173
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Tabella 3.1
I tipi di motivazione secondo Lindenberg (2001)
Tipo di motivazione
Driver della motivazione
Motivazione per la RSI
Estrinseca
Ricompense esterne tangibili (vantaggi economici) o intangibili (riconoscimento, potere)
Strumentale (the business case for CSR)
Intrinseca normativa
Conformità alle norme e ai valori della comunità sociale di riferimento (obligation-based)
Normativa / etico-valoriale (the normative case for CSR)
Intrinseca edonica
Piacere e soddisfazione (enjoyment) che si provano nel compiere una certa attività; libertà di decidere come svolgerla; potenziale di sviluppo personale che ne deriva
Profonda adesione interiore; soddisfazione che si prova nel produrre impatti sociali positivi
A conforto dell’assunto secondo il quale è necessario considerare, oltre alle motivazioni strumentali e a quelle etico-valoriali, motivazioni per la RSI legate alla sfera del piacere e della gratificazione intrinseca derivante dall’agire a beneficio di una vasta gamma di stakeholder si possono considerare, per analogia, anche i contributi che vengono dalla teoria psicoanalitica e dalla teologia cattolica. Sotto il primo profilo, la teoria freudiana ha messo in luce come le decisioni dell’uomo che poi vengono realmente ed efficacemente realizzate non sono tanto quelle che trovano origine nel super-io – ossia la sede dei precetti e dei divieti di ordine morale – quanto, piuttosto, quelle che traggono forza dalla libido, ossia dall’ambito nel quale risiedono le pulsioni vitali più profonde 175 . In altri termini, le decisioni e le scelte coerenti con i principi etici si realizzano e permangono nel tempo se e nella misura in cui esse traggono origine e forza da un’energia positiva, piuttosto che da un precetto o da un divieto di carattere morale che non coinvolge la sfera emozionale e delle pulsioni vitali. Sotto il secondo profilo, Thévenot (1995), richiamandosi ad alcuni testi paolini, osserva come “(…) esistono decisioni fasulle e decisioni autentiche. Le prime vengono prese sotto l’effetto mortifero di un attaccamento legalistico alle esigenze etiche della Scrittura”. Le seconde, invece, sono quelle di chi si lascia
cultura dell’impresa, dall’altra. Ci si limita ad assumere che l’inclusione dei fini sociali nella funzione-obiettivo di un’impresa non può che essere il risultato delle motivazioni, dei valori e del commitment sociale da parte di uno o più attori-chiave dell’impresa, che sono stati in grado, grazie alla loro leadership, di far sì che tali valori divenissero patrimonio e forza trainante per l’impresa nel suo complesso. Basti richiamare, a sostegno di tale assunto, l’affermazione di Maclagan (1999, p. 44), secondo il quale la responsabilità nelle organizzazioni non può essere compresa se non si considerano i valori, le motivazioni e le scelte di coloro che hanno la responsabilità di formulare le strategie. 175 “Se è vero che ci sono molti tipi di decisione, uno solo è efficace: quello che attinge la sua forza in una potente corrente di libido (…). La decisione proveniente dal super-io è spesso impotente quanto quella di rinunciare a bere dell’alcolista inveterato”, in de Mijolla, Shentoub, Pour une psychanalyse de l’alcolisme, Payot, Paris, 1973, p. 395.
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guidare dallo Spirito, “dalla corrente dell’abbandono gioioso di chi sa di essere salvato e animato dall’amore di un padre amante, la cui legge è beneficante” 176 . In sintesi, il rapporto fra libido e super-io della teoria psicanalitica e freudiana è, sia pure su piani differenti, confrontabile per analogia con quello fra amore e legge nella teologia cattolica. Fatte le debite proporzioni e contestualizzazioni, un rapporto analogo si pone fra le motivazioni di coloro che praticano la RSI a seguito di una profonda adesione interiore ed emozionale alle finalità sociali dell’impresa e alla loro integrazione con quelle di tipo economico e le motivazioni di chi invece pratica la RSI in ossequio ai principi etici accettati dalla comunità di riferimento. Ciò non significa affatto – si badi bene – né attribuire una connotazione negativa alla RSI basata su motivazioni etiche, né che le tre diverse motivazioni per la RSI si escludano a vicenda: al contrario, l’inclusione dei fini sociali nella funzione-obiettivo dell’impresa, sia a livello individuale, sia a livello d’impresa nel suo complesso, può ben accompagnarsi non solo al riconoscimento del valore etico della RSI, ma anche alla consapevolezza che la RSI può costituire, a certe condizioni, una fonte di vantaggio competitivo. Si tratta ora di riflettere sulle implicazioni che derivano dall’inclusione dei fini sociali nella funzione-obiettivo dell’impresa in termini di approccio alla RSI e di efficacia dei comportamenti e delle iniziative che ad essa si ispirano, e quindi di soddisfazione degli stakeholder. Tali implicazioni sono compendiate nella seguente ipotesi. L’inclusione dei fini sociali nella funzione-obiettivo dell’impresa, a parità di iniziative di RSI intraprese, implica superiori livelli di soddisfazione, consenso e coesione da parte degli stakeholder rispetto al caso in cui la RSI è unicamente strumentale al conseguimento di fini di tipo reddituale e competitivo. Ciò si verifica per due ragioni fondamentali, la prima legata al tipo di relazioni che si instaurano con gli stakeholder, la seconda ai risultati e quindi all’impatto generato dalle iniziative e dai comportamenti ispirati alla RSI (figura 3.1). a) Sotto il primo profilo, si assume che gli stakeholder percepiscano e apprezzino quando le iniziative e i comportamenti ispirati alla RSI sono attuate in risposta a un’adesione profonda, da parte degli attori-chiave, al ruolo sociale, oltre che economico, dell’impresa. Lo percepiscono attraverso gli atteggiamenti e le relazioni che essa instaura con loro, con ogni probabilità assai più coesive e partecipative rispetto a quanto normalmente avviene se la RSI ha un ruolo solo strumentale (Coda, 2004c). Ciò non significa affatto un’adesione acritica alle loro istanze, la quale finirebbe con il mettere a repentaglio, alla lunga, la funzionalità e la vitalità economica dell’impresa: al contrario, essa non solo è ben attenta alla compatibilità economica nel lungo periodo di ogni iniziativa 176
89.
Thévenot X., Avanza su acque profonde, 1995, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, pp. 83-
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socialmente responsabile, ma dall’interazione con gli stakeholder trae altresì stimoli per l’innovazione e per il rafforzamento della propria competitività. La RSI realizzata sulla base di un’adesione convinta al ruolo sociale dell’impresa è percepita dagli stakeholder come più credibile, il che, a sua volta, rafforza il commitment, il consenso e la coesione di questi ultimi nei confronti dell’impresa stessa e della sua strategia. Una “socialità” convinta tende anche ad essere più stabile nel tempo e quindi alimenta negli stakeholder la fiducia 177 che l’impresa continuerà anche in futuro ad agire nei loro confronti in modo responsabile. Una conferma empirica di tale assunto, sia pure in un contesto teorico non direttamente connesso al tema della RSI e con specifico riferimento alla relazione fra banca e piccole imprese clienti, è fornita da Saparito, Chen e Sapienza (2004): essi dimostrano che i clienti sono in grado di riconoscere quando i comportamenti e gli atteggiamenti di una banca positivamente orientati nei loro confronti sono dettati da una autentica identificazione con il cliente e da una reale partecipazione ai suoi problemi e alle sue istanze rispetto a quando sono meramente strumentali ed “egoistici”. Nel primo caso, l’orientamento al cliente alimenta una “fiducia relazionale” 178 , la quale riduce la probabilità che egli cessi il proprio rapporto con la banca. Tale effetto rimane statisticamente significativo anche quando nel modello si tiene conto dell’orientamento al cliente di tipo strumentale ed “egoistico”. b) Sotto il secondo profilo, si assume che una RSI finalizzata a conseguire fini sociali in un’ottica non esclusivamente strumentale è maggiormente proattiva (Carroll, 1979) e radicata nel sistema di risorse e competenze dell’impresa, il che implica, presumibilmente, una maggiore efficacia delle diverse iniziative che ad essa si ispirano e un maggiore impatto positivo sugli stakeholder. In tale ipotesi, infatti, gli attori-chiave non sono orientati, prioritariamente, a prevenire o a ridurre i danni che l’impresa può arrecare agli stakeholder, così da preservarne la reputazione e la legittimazione sociale, ma a sfruttare a vantaggio degli stakeholder quelle stesse risorse e competenze che essa ha sviluppato nel proprio business: ne derivano, presumibilmente, non solo una maggiore efficacia, ma anche una maggiore efficienza e un minore costo degli interventi. In sintesi, nel presente paragrafo si è formulata, in primo luogo, l’ipotesi che le motivazioni per la RSI possano essere non solo di tipo strumentale o normativo, ma anche di tipo edonico, ossia basate sul piacere e la soddisfazione Rousseau et al. (1998, p. 395), citati da Sapienza et al. (2004), definiscono la fiducia (trust) come “Party A’s willingness to be vulnerable based on its positive expectations that party B intends to perform an action beneficial to party A”. 178 “Relational trust refers to a ‘trustor’s’ confident belief that a ‘trustee’ will act beneficially because the trustee cares about the trustor’s welfare” (Saparito et al., 2004, p. 400). “In this view, types of trust can be differentiated on the basis of attributions about the cause of the expected beneficial actions. Scholars have used one of two designators for positive expectations based on self-interest attributions: deterrence-based trust, which identifies the costs of trust violations (…) or a broader term, calculus-based trust, which identifies both cost and benefit attributes of meeting or failing to meet expectations (…). In contrast, to the extent that social attachment of meeting or failing to meet expectations, trust has been labelled affect-based or identification-based.” (Ibidem, 2004, p. 401). 177
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intrinseci che derivano dal produrre impatti sociali positivi; in secondo luogo, si è ipotizzato che l’efficacia della RSI sia maggiore se la si pratica non solo perché conviene o perché la si ritiene giusta, ma anche e soprattutto perché è fonte di un’intima soddisfazione; infine, si è associato questo terzo tipo di motivazione al concetto di RSI integrata nella strategia 179 . Un’ultima osservazione: l’enfasi posta sulle motivazioni di tipo intrinseco-edonico non implica affatto una sottovalutazione del ruolo dei valori, sui quali si sofferma molta letteratura in tema di RSI. Al contrario, si suppone che gli attori-chiave delle imprese che integrano la RSI nella propria strategia non solo siano portatori di principi e di valori etici forti e positivi, ma che li abbiano interiorizzati a livello profondo, emozionale e non solo cognitivo.
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Figura 3.1
Le implicazioni dell’inclusione dei fini sociali nella funzione-obiettivo dell’impresa Relazioni Credibilità delle iniziative con gli stakeholder di RSI / fiducia da parte stabilmente coesive degli stakeholder e partecipative Qualità delle relazioni
Inclusione dei fini sociali nella funzione-obiettivo dell’impresa
Approccio
Soddisfazione, coesione e consenso da parte degli stakeholder
Impatto della RSI
proattivo alla RSI
Maggiore efficacia / impatto della RSI
Radicamento della RSI nelle risorse e nelle competenze dell’impresa
II) La molteplicità e la complessità delle relazioni che connettono il vantaggio competitivo alla RSI e alla coesione sociale suggeriscono, come detto in precedenza, di dedicarvi un capitolo ad hoc. In esso saranno analizzate le relazioni e i processi che, da una parte, fanno sì che l’impegno sul fronte della RSI alimenti o rafforzi il vantaggio competitivo, dall’altra, che le condizioni alla base del vantaggio competitivo possano accrescere la capacità dell’impresa di soddisfare le attese degli stakeholder, favorendone in tal modo la coesione.
179 Per un primo tentativo di trattazione sistematica dei collegamenti fra RSI e motivazione si veda Minoja M., Zollo M., “Motivation theory and corporate responsibility”, paper presentato al 6th Colloquium EABiS, Barcellona, 20 settembre 2007.
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III) Il concetto di “sintesi socio – competitiva” è mutuato, sia pure con alcune differenze, da Molteni (2007) 180 . Con tale concetto s’intende fare riferimento a una formula imprenditoriale (Coda, 1984), a livello di impresa nel suo insieme o di singola unità di business, caratterizzata da rilevanti sinergie fra le performance economiche e competitive e quelle sociali. S’intende, inoltre, porre enfasi sui profili di unitarietà e di coerenza che devono caratterizzarne gli elementi costitutivi, ossia i prodotti e i servizi offerti, i clienti e i mercati serviti, gli aspetti strutturali, organizzativi e operativi, i diversi stakeholder e le proposte e i vantaggi che l’azienda offre loro. Più specificamente, tali elementi devono: - essere fra loro coerenti (Coda, 1984); - essere riconducibili a un obiettivo di fondo, quasi una sorta di “missione” (Pearce II, 1982) 181 , chiaro e ben definito, che ne costituisce il tessuto connettivo ed è facilmente esplicitabile in un apposito statement; - comporre un sistema unitario che trova la sua ragion d’essere in una cultura aziendale e in un sistema di valori forti e positivi. Tale sintesi socio-competitiva, infine, deve ruotare intorno al valore per il cliente, nel senso che la RSI deve concorrere, direttamente o indirettamente, ad accrescere l’appetibilità del sistema di prodotto (o dei sistemi di prodotto, in caso di impresa multibusiness) offerto dall’impresa: in caso contrario, infatti, non avrebbe senso collegare il concetto di RSI e di coesione sociale a quello di vantaggio competitivo 182 . Il concetto di sintesi socio-competitiva appena delineato presenta diversi elementi in comune con altri concetti analoghi proposti in letteratura: oltre a quello già richiamato di formula imprenditoriale, vale la pena menzionare lo strategic intent di Hamel e Prahalad (1989) e il purpose di Bartlett e Ghoshal (1994). Lo strategic intent, a ben guardare, non ha nulla a che vedere con la dimensione sociale; ciò non di meno, con riferimento alla sola dimensione competitiva, richiama l’idea di una visione, di un “tema-guida”, di un’“ossessione” verso il raggiungimento di una posizione di leadership a cui tutte le azioni manageriali si riconducono stabilmente secondo relazioni di
180 Molteni definisce sintesi socio-competitiva “un’innovazione aziendale – la quale può riguardare il livello centrale, un business, una specifica funzione o un singolo processo – che consente di rispondere alle attese di una o più classi di interlocutori al di là di quanto previsto dalla normativa vigente e dalle consuetudini del tempo, contribuendo nello stesso tempo a sostenere le performance aziendali” (2007, p. 368). 181 Pearce II (1982, p. 15) definisce la missione aziendale “un enunciato definito in termini ampi e duraturi dello scopo che contraddistingue l’impresa (…) che non solo incorpora la filosofia di business della leadership strategica, ma rivela altresì l’immagine che l’impresa cerca di proiettare”. Cfr. anche Invernizzi G. (a cura di), 2004. In realtà, il concetto di sintesi socio-competitiva qui proposto si discosta dall’idea di “missione” alla quale si farà riferimento nel paragrafo successivo per il fatto di includere esplicitamente, per l’appunto, anche finalità di tipo competitivo e di non essere riducibile a una “pura” missione di carattere sociale. 182 Per un’analisi approfondita delle molteplici connessioni fra RSI e vantaggio competitivo si veda infra, cap. 4.
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unitarietà e di coerenza 183 . Il concetto di purpose sottolinea invece con forza la necessità che un’impresa, se vuole coinvolgere e motivare i propri collaboratori a impegnarsi per il conseguimento di traguardi importanti, specifichi in modo chiaro la filosofia, i valori, gli obiettivi di fondo – in una parola, il senso –, alla base della propria strategia e del proprio operare. Tale purpose dev’essere specificato in uno statement che non sia asettico, ma trasmetta forza trainante 184 . Il riferimento a valori e a obiettivi di carattere sociale, in particolare, facilita la creazione di un forte legame emozionale fra i collaboratori e l’impresa per la quale lavorano: ciò in quanto i manager, secondo quanto ha osservato un vicepresidente esecutivo del gruppo ABB, “non sono fedeli a uno specifico capo o a una specifica azienda, ma a un insieme di valori nei quali credono” 185 . Ebbene, diverse sono le ragioni per le quali le imprese che intendono integrare la RSI nella propria strategia devono ricondurre le proprie azioni e processi manageriali a una “sintesi socio-competitiva” così definita. Quest’ultima, infatti: - diviene un riferimento, un leit-motive fondamentale che facilita la convergenza degli sforzi e delle iniziative di tutti verso un obiettivo unitario, riducendo i rischi di dispersione, e, nel contempo, dà senso a tali sforzi e iniziative. A tal fine, occorre curare attentamente la coerenza delle singole azioni e processi manageriali rispetto ad esso, a cominciare dai sistemi di misurazione e di valutazione delle performance 186 . L’importanza del “senso” comunicato da una strategia è efficacemente espressa dal concetto di meaningful strategies, “that emphasize the importance of core values to which employees and other key stakeholders can relate. Sometimes this ‘meaning-making’ is called strategic intent (e.g. Hamel and Prahalad, 1989). Others term it purpose (Bartlett and Ghoshal, 1994) or enterprise strategy, which is explicit about what the corporation ‘stands for’ in the linkages between its values and strategy (Freeman and Gilbert, 1988)” 187 ; - facilita la coesione, il consenso e quindi la motivazione da parte di tutta la struttura aziendale, in quanto orienta l’azione di tutti verso un “Companies that have risen to global leadership (…) created an obsession with winning at all levels of the organization (…). We term this obsession ‘strategic intent’” (Hamel e Prahalad, 1989, p. 64). Ancora: “(…) only NEC made convergence the guiding theme for subsequent strategic decisions by adopting ‘computing and communications’ as its intent. For Coca-Cola, strategic intent has been to put a Coke within ‘arm’s reach’ of every consumer in the world”. (Ibidem, p. 64). 184 Bartlett e Ghoshal sottolineano come Bob Allen, capo azienda della AT&T, abbia accuratamente evitato di esprimere gli obiettivi dell’azienda in termini meramente analiticorazionali, preferendovi parole dalla forte carica umana ed emozionale. Egli, infatti, specificò che AT&T era “dedicated to becoming the world’s best at bringing people together – giving them easy access to each other and to the information and services they want and need – anytime, anywhere.” (1994, p. 82). 185 Tale dichiarazione è riportata in Bartlett e Ghoshal, 1994, p. 84. 186 “There are few more powerful signals of what a company stands for than the ways it defines and measures performance” (Bartlett e Ghoshal, 1994, p. 84). 187 Waddock and Graves, 1997, p. 306. 183
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obiettivo percepito come intrinsecamente buono, sfidante ma non irraggiungibile 188 , e produce senso di identificazione 189 e di orgoglio; facilita il governo della complessità, che tende normalmente a crescere quando a un unico obiettivo – sia esso il profitto o la socialità – si sostituisce un insieme di obiettivi in relazione fra loro non gerarchica.
Il caso MAS Holdings 190 , la più grande impresa tessile dello Sri-Lanka, è di particolare interesse in quanto il suo successo si fonda proprio su una valida sintesi socio-competitiva. Fondata nel 1986 dalla famiglia Amalean, è sempre rimasta a proprietà familiare e ha raggiunto nel 2005 un fatturato di circa 570 milioni di dollari, al termine di un periodo quinquennale nel corso del quale è cresciuta a un tasso medio annuo del 20%. Articolata in diverse aree di business, produce soprattutto biancheria intima, tessuti e articoli tessili a elevata componente tecnica per lo sport. Fin dalla sua fondazione ha operato per conto terzi per grandi marche quali Victoria’s Secret, di cui è il più grande fornitore di articoli di biancheria intima, e Marks & Spencer: ora sta valutando di entrare direttamente in alcuni mercati finali – quali quello indiano e del Sud-Est asiatico – con il proprio marchio “MAS Women Go Beyond”. Tale marchio, evocativo della particolare attenzione che l’azienda rivolge al personale di sesso femminile, è stato coniato e fino ad ora utilizzato per identificare un insieme di pratiche e di iniziative di responsabilità sociale relative soprattutto alle condizioni di lavoro degli oltre 34.000 dipendenti e ai rapporti con le comunità locali, nell’ottica di renderle uniformi in tutti i 21 impianti di MAS dislocati in 10 diversi Paesi. Le iniziative e i programmi di RSI di MAS sono concentrati soprattutto sulle relazioni con i dipendenti – il 92% del personale di fabbrica è di sesso femminile – e con le comunità locali. Tutti gli stabilimenti produttivi aderiscono ai dieci principi del Global Compact delle Nazioni Unite, oltre che agli standard interni stabiliti dall’azienda. Per evitare di costringere le proprie dipendenti a lasciare le rispettive famiglie per recarsi in città, MAS ha deciso di costruire gli stabilimenti nei villaggi rurali. Lo stabilimento di Bodyline per la produzione di reggiseni assicura, all’occorrenza, il trasporto sul luogo di lavoro con propri autobus; 188 “The concept (di strategic intent, n.d.r.) also encompasses an active management process that includes: (…) sustaining enthousiasm by providing new operational definitions as circumstances change, and using intent consistently to guide resource allocations” (Hamel e Prahalad, 1989, op. cit., p. 64); “Strategic intent sets a target that deserves personal effort and commitment” (ibidem, p. 66). 189 “(…) But strategies can engender strong, enduring emotional attachments only when they are embedded in a broader organizational sense. This means creating an organization with which members can identify, in which they share a sense of pride, and to which they are willing to commit.” (Bartlett e Ghoshal, op. cit., 1994, p. 81). 190 Tutte le informazioni qui riportate sulla MAS Holding sono tratte da “MAS Holdings: Strategic Corporate Social Responsibility in the Apparel Industry”, caso scritto da N. Watson e J. Story, INSEAD, 2006. Tale caso è stato presentato nel corso dello workshop di ricerca “Corporate Strategy and Social Responsibility”, INSEAD, Fontainebleau, 21 maggio 2007.
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all’arrivo in azienda, viene offerta la colazione a tutte le dipendenti, nessuna delle quali ha meno di 18 anni. I locali in cui si trovano le linee di assemblaggio sono ben illuminati e dotati di aria condizionata. Le dipendenti, nel caso ne avvertano la necessità, sono incoraggiate a contattare il proprio supervisore e a interrompere il lavoro sulla linea. Al termine del turno di lavoro, possono pranzare o, all’occorrenza, rivolgersi all’infermeria dello stabilimento per visite mediche, per poi ritornare alle proprie abitazioni con l’autobus aziendale. Grazie alla propria politica delle risorse umane, MAS è riuscita ad attrarre i migliori lavoratori e i migliori talenti manageriali dello Sri Lanka. Prima di riuscirvi, però, ha dovuto vincere le resistenze e i timori di coloro che associavano al settore tessile lo sfruttamento dei lavoratori all’interno di fabbriche diffusamente designate con il termine sweatshop. A tal fine, ha offerto e offre ai propri dipendenti opportunità di carriera e di crescita, numerose iniziative di formazione (corsi di inglese, di leadership, ecc.), assistenza medica, programmi di igiene personale e vaccinazioni. In questo modo MAS è riuscita ad attrarre talenti che altrimenti avrebbero trovato facilmente impiego all’Estero. Non vi sono privilegi per i membri della famiglia proprietaria: i familiari che entrano a lavorare nell’impresa iniziano la carriera dalla fabbrica e ricevono compensi commisurati alla propria posizione e alla propria responsabilità, al pari di tutti gli altri dipendenti. L’azienda effettua numerose elargizioni alle comunità locali nelle quali sono insediati i propri impianti, contribuendo in modo particolare alle scuole e agli ospedali. In alcuni casi i manager hanno donato denaro di tasca propria per far sì che i bambini dei villaggi potessero usufruire di borse di studio per il college. Dopo lo tsunami del 2004, numerosi dipendenti hanno raccolto denaro e hanno dedicato dei fine-settimana per aiutare le persone rimaste senza casa. Pur nella consapevolezza che tali programmi di RSI incrementano i costi del 3-4%, la famiglia Amalean, proprietaria di MAS, ha potuto appurare, con l’aiuto del direttore finanziario, che essi portano benefici ben maggiori: un delta di costo del 3% genera incrementi di efficienza e di produttività pari al 5%. Ma le implicazioni e i vantaggi della RSI non si fermano ai miglioramenti di efficienza: essi si ripercuotono significativamente sulla competitività anche in altri modi. In un periodo in cui si sta ponendo con forza il problema di come affrontare la crescente concorrenza delle imprese cinesi e indiane 191 , in grado di eguagliare MAS per volumi e qualità dei prodotti, l’azienda dello Sri-Lanka è alla costante ricerca di leve per differenziare la propria offerta. A tal fine, essa fa largo uso delle tecnologie elettroniche per migliorare il servizio alla clientela, controllare i costi, offrire supporto ai dipendenti. Le aziende clienti, come Mark & Spencer, inviano giornalmente in MAS le informazioni sulle vendite, effettuano gli ordini, possono conoscere in tempo reale lo stato degli ordini già effettuati. In questo modo, MAS è in grado di andare incontro alle esigenze di molti grandi clienti, quali H&M e Zara, di accorciare sempre di più il tradizionale “ciclo della moda” e ridurre il magazzino. Inoltre, i supervisori delle La concorrenza cinese, in particolare, ha tratto vantaggio dal venir meno, nel 2004, dell’accordo multifibre. 191
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linee di produzione inviano in tempo reale, tramite palmari, i dati di efficienza e produttività al database centrale; infine, le lavoratrici possono conoscere, mediante dei punti informativi elettronici, il salario maturato e le ore di straordinario lavorate fino a quel momento. Ma sono soprattutto le politiche di RSI a essersi rivelate una leva di differenziazione importante: molte aziende clienti si sono rivolte a MAS proprio in quanto hanno compreso che i propri marchi e la propria reputazione sarebbero stati al riparo dalle accuse di sfruttamento delle lavoratrici nelle fabbriche dei terzisti. Consapevoli della crescente sensibilità a tali aspetti promossa da movimenti anti-globalizzazione, sindacati, organizzazioni non governative e gruppi a difesa dei diritti umani, le aziende tessili dei Paesi Occidentali stanno diventando sempre più selettive nella scelta dei propri fornitori nei Paesi in via di sviluppo. Premesso che non è mai semplice accertare con un ragionevole grado di certezza se sussistano le condizioni qualificanti la RSI integrata nella strategia, e che ciò è vero a maggior ragione quando non si hanno contatti diretti con l’impresa, nel caso MAS sembrano potersi ravvisare almeno alcune di tali condizioni. Innanzi tutto, essa ha adottato, sin dalle origini, un approccio proattivo alla RSI, che l’ha condotta a eccellere su tale piano rispetto ai concorrenti dello Sri Lanka e non solo 192 . Le iniziative e i programmi di RSI, poi, sembrano essere all’origine di un vantaggio competitivo di differenziazione o, quanto meno, concorrervi: da un lato, infatti, sono funzionali ad attrarre le migliori risorse professionali e, dall’altro, sono sempre più parte integrante della value proposition per i clienti. Ma anche la competitività e i processi di crescita sono funzionali a produrre ulteriori, positivi impatti sociali: infatti, l’ingresso in altri comparti del settore tessile e l’avvio di nuovi stabilimenti rappresentano non solo nuove opportunità di business, ma anche di diffusione e di replicazione del proprio modello di RSI e quindi di incremento del numero di persone che possono trarne vantaggio. Ne è prova il fatto che MAS abbia identificato e associato al proprio marchio “MAS Women Go Beyond” quattro “pilastri”, ai quali tutti gli stabilimenti sono invitati a uniformarsi: avanzamento di carriera, bilanciamento di lavoro e vita familiare, riconoscimento dell’eccellenza e promozione della comunità 193 . Gli elementi sinteticamente descritti sembrano dunque non solo comporre una valida sintesi socio-competitiva, ma richiamano altresì quella che Markides (1997) definisce una innovazione strategica, della quale la RSI appare un’asse portante. Infatti, gli elevati standard di sicurezza e di confort per i lavoratori a cui devono attenersi tutti gli stabilimenti rappresentano un elemento di novità se non di rottura nel contesto geografico-settoriale di MAS; inoltre, mentre la MAS è stata insignita dell’American Apparel and Footwear Association’s Excellence in Social Responsibility Award, oltre che di innumerevoli premi internazionali per la produttività e la sicurezza. 193 Con tali termini s’intendono tradurre, rispettivamente, le espressioni inglesi “Career Advancement”, “Work-Life Balance”, “Rewarding Excellence”, “Community Activation”. Si veda Watson e Story, op. cit., 2006, p. 13. 192
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maggior parte dei concorrenti si attrezza per soddisfare le istanze di contenimento dei costi dei clienti-committenti, MAS risponde alla esigenza di tutela del marchio e della reputazione che molti clienti esprimono in misura crescente. Si potrebbe dunque ipotizzare che MAS abbia per prima identificato un gap nel settore, ossia un divario fra la domanda espressa da un nuovo segmento di clientela e la risposta offerta dai concorrenti in esso operanti, e che con la formula imprenditoriale messa a punto per colmarlo sia in grado di cambiare le regole del gioco nel settore 194 . La sostenibilità del vantaggio competitivo 195 di MAS andrebbe per altro verificata in relazione alla capacità dei concorrenti di riconoscere e di imitare i fattori che ne compongono la strategia e, soprattutto, le interconnessioni che ne accrescono la complessità (Rivkin, 2000). Che cosa si può dire in merito ai valori e alle motivazioni che hanno indotto la famiglia Amalean a fare della RSI un elemento qualificante della propria iniziativa imprenditoriale? Si può affermare che i fini sociali sono inclusi nella funzione-obiettivo dell’impresa? Una risposta ben argomentata a tali interrogativi richiederebbe, a onor del vero, una conoscenza diretta e profonda dell’impresa e dei suoi attori-chiave, condizione non verificata nel caso in esame. Nel testo del case study, tuttavia, sono riportate alcune informazioni che, di per se stesse, sono segnaletiche di un commitment etico-sociale del top management, composto in gran parte da membri della famiglia proprietaria. In primo luogo, il testo riferisce che i tre fratelli Amalean reagirono con un certo disagio allorché la società di pubblicità ingaggiata come consulente presentò in consiglio di amministrazione il marchio “MAS Women Go Beyond”: essi, infatti, “strongly felt that ‘we did it from the heart’ and they didn’t want to institutionalize or commercialize their company culture. They were afraid that they would be seen as trying to lure new customers or win more awards” 196 . In secondo luogo, MAS era orgogliosa di aver adottato standard evoluti relativi alle condizioni di lavoro dei propri dipendenti e di non essere uno sweatshop, in Si veda Markides, 1997, p. 10: “The common element in all the successful attacks is strategic innovation. Significant shifts in market share and fortunes occur not because companies try to play the game better than the competition but because they change the rules of the game.”. E ancora, a pag. 11: “How to break the rules depends on the business that the firm is in as well as the firm’s strengths and weaknesses. (…) The basic criteria for deciding whether to adopt a particular tactic are customer needs or wants and company strengths and weaknesses”. Sull’identificazione di gap e di vie per il loro superamento come tratto qualificante gli innovatori strategici si veda altresì Larsen, Markides e Gary: “If, as our model suggests, industries contain pockets of unexploited profitability, then companies that identify and explore these unexploited territories (e.g. new customer segments/new customer needs/new delivery methods) will achieve significant profits and will possibly rejuvenate an industry that looked mature and uninteresting. Strategic innovators tend to be the first to identify these gaps and go after them. Our simulation suggests that one reason why such gaps exist in the first place is because existing competitors are too preoccupied with existing customers and existing strategies to notice the gaps” (2002, p. 4). 195 Il caso, a onor del vero, non contiene informazioni specifiche ed esplicite che documentino il vantaggio competitivo di MAS. Tuttavia, lo si può desumere indirettamente dal fatto che l’impresa, nel periodo 2000 – 2005, è cresciuta a tassi significativamente superiori a quelli del settore dell’abbigliamento e dell’intimo, i cui dati sono riportati nell’allegato 8 al caso. 196 Watson e Story, op. cit., 2006, p. 14. 194
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quanto gli Amalean credevano nella dignità dei lavoratori 197 . Infine, può essere interpretata in tal senso la già richiamata concezione del rapporto famigliaimpresa da parte dei proprietari: l’impresa non è vissuta e trattata alla stregua di una cassa per la famiglia e vige un regime di pari trattamento e di pari opportunità tra dipendenti familiari e non familiari. Si è detto che una valida sintesi socio-competitiva, nella quale si manifesta concretamente l’integrazione della RSI nella strategia, può definirsi e realizzarsi a livello di impresa nel suo insieme oppure di singola unità di business. Questo secondo caso necessita di alcune specificazioni. Esso postula, infatti, che l’integrazione della RSI nella strategia possa avvenire in una parte soltanto dell’impresa, per quanto rilevante e normalmente dotata di un certo grado di autonomia. Tuttavia, non pare corretto parlare di integrazione se almeno una qualche propensione alla socialità, oltre che un forte orientamento alla legalità e all’eticità, non pervade tutta quanta l’impresa. In caso contrario, una tale sintesi socio-competitiva potrebbe, nell’ipotesi migliore, ricondursi a una logica strumentale, di enlightened self interest (Craig Smith, 2003), funzionale a sostenere la reputazione aziendale e, in ultima analisi, il valore per gli azionisti o, nell’ipotesi peggiore, a distogliere l’attenzione da altre unità di business o attività dell’impresa condotte secondo logiche e finalità ben lontane dalla RSI. Nelle imprese gestite all’insegna della legalità e dell’eticità, una sintesi sociocompetitiva a livello di singola unità di business può rappresentare invece una fase di un processo di apprendimento e di evoluzione in corso verso un’integrazione più pervasiva della RSI nella strategia; talora essa assume i caratteri tipici di un esperimento strategico (Corbetta, 2000). Il caso Kedrion è stato in precedenza illustrato come esempio di un approccio difensivo e, per certi versi, strumentale alla RSI. Ciò non di meno, vi sono alcuni elementi sintomatici dell’emergere di una valida sintesi socio-competitiva che denota un processo di integrazione in atto della RSI nella strategia. Tale integrazione si sta delineando nell’area di business relativa al trasferimento tecnologico e alla produzione di plasmaderivati in “conto lavoro” nei Paesi in via di sviluppo. Kedrion ha rilevanti competenze che possono essere utilmente sfruttate all’Estero: tecnologiche, inerenti i processi di conservazione e di trasformazione del plasma; di logistica, per assicurare la disponibilità del prodotto nei tempi stabiliti e nelle migliori condizioni di sicurezza e di conservazione; di raccolta del sangue e del plasma, che si traducono in indicazioni fornite ai centri trasfusionali e ai centri di donazione; know-how relativo al conseguimento delle autorizzazioni, fatte salve le specificità di ciascun Paese, e via dicendo. Tali competenze possono essere messe utilmente al servizio dei Paesi in via di sviluppo, così da facilitarne l’autosufficienza 198 negli approvvigionamenti di Ibidem, p. 1 e p. 5. L’autosufficienza è definita dalla dr.ssa Iaconis, collaboratrice dell’Ethics Officer di Kedrion, come la condizione tale per cui “non si deve dipendere dalle regole del mercato”. 197
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plasma e quindi l’accesso ai plasmaderivati da parte della popolazione e, nel contempo, aprire nuove possibilità di business per la stessa Kedrion. Infatti, secondo il Presidente e Amministratore Delegato dell’azienda toscana, “ci sono grandi spazi di crescita in ‘Eurasia’: le malattie che i farmaci prodotti da Kedrion curano hanno un’incidenza uniforme in tutto il mondo, ma i consumi attuali in tale area sono decisamente inferiori alla media europea” 199 . Grazie al technology transfer di Kedrion, sarà costruito il primo impianto a standard internazionale a Kirov, in Russia: vi lavoreranno oltre 250 addetti altamente qualificati e avrà una capacità di lavorazione di 300.000 litri di plasma all’anno, espandibile fino a 600.000. L’Azienda sta inoltre operando per la stipula di altri contratti di cessione di tecnologia sempre in Russia. Tali contratti genereranno tre tipi di ricavi per Kedrion: a “stato avanzamento lavori” per il know-how e la formazione della forza lavoro; royalties; ricavi per il servizio di supporto manageriale che, presumibilmente, dovrà essere fornito per la gestione di tali impianti. L’azienda italiana intende operare altresì come partner strategico dei sistemi sanitari di Paesi che stentano a raggiungere l’autosufficienza e nei quali l’offerta di plasmaderivati di qualità è inferiore alla domanda: a tal fine intende sviluppare il conto lavoro all’Estero, per il quale ha già firmato un contratto con l’Iran. Quali elementi suggeriscono l’ipotesi che il technology transfer di Kedrion nei Paesi con problemi di autosufficienza nell’approvvigionamento di plasma costituisca una sintesi socio-competitiva nella quale la RSI si integra nella strategia? In primo luogo, si è in presenza di un’unità di business a sé stante, per quanto ancora molto contenuta in termini di incidenza sul fatturato complessivo dell’impresa e che è nata grazie al know-how di valore che Kedrion ha sviluppato nei due business tradizionali della produzione e vendita di plasmaderivati e del conto lavoro in Italia. In secondo luogo, nonostante, come si è avuto modo di osservare in precedenza 200 , la RSI sembri per lo più funzionale alla creazione di valore nel lungo periodo per gli azionisti, vi sono alcuni chiari segnali di interiorizzazione dei fini di tipo sociale. In un’intervista rilasciata a un periodico sul tema del trasferimento tecnologico, l’Amministratore Delegato di Kedrion ha dichiarato 201 : “Quando si producono farmaci considerati di rilievo strategico, quando si producono emoderivati, assieme al valore economico, all’accrescimento del valore per l’azionista, alla standardizzazione e al miglioramento continuo delle procedure per la sicurezza e per la qualità del prodotto di livello internazionale, è una responsabilità sociale dell’impresa considerare anche un altro obiettivo: quello di assistere i diversi territori nel raggiungimento di standard elevati di produzione e nel difficile e lungo cammino verso l’autosufficienza”.
Da un’intervista rilasciata allo scrivente in data 26 gennaio 2007. Cfr. supra §§ 3.2.3 e 3.2.4. 201 Da un’intervista rilasciata dall’allora amministratore delegato di Kedrion, fratello di quello attuale, alla testata Specchio Economico, febbraio 2006. 199
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In linea con tale orientamento, nell’ultima versione del Codice di condotta etica si riconosce “la responsabilità etica di reperire Donatori e del nostro impegno nel soddisfare il fabbisogno mondiale di prodotti di derivazione plasmatica ad uso terapeutico, essenziali per salvare la vita di molte persone o per influire in modo decisivo sul loro benessere”. Al riconoscimento della valenza etica insita nel promuovere l’accesso ai plasmaderivati fa seguito un’affermazione ancora più forte e incisiva: “Il fine ultimo dell’attività delle aziende del gruppo è servire il paziente” 202 . Ancora, attraverso lo sviluppo del technology transfer le competenze che hanno permesso a Kedrion di conseguire la leadership del settore in Italia vengono messe al servizio di una “missione” di ordine sociale, che consiste nell’aumentare l’accesso ai plasmaderivati – prodotti salvavita o comunque in grado di incidere significativamente sulla qualità della vita – da parte delle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo o con problemi di autosufficienza. A sua volta, l’ingresso in questi Paesi, tramite il technology transfer e il conto lavoro, permetterà presumibilmente a Kedrion di accumulare esperienza in tali Paesi, di accrescere progressivamente la propria visibilità e la propria reputazione, di diventare un partner “attrattivo” per diversi Governi locali. In sintesi, si ravvisano le condizioni per lo sviluppo di un business, al momento ancora in fase iniziale, nel quale vantaggio competitivo e soddisfazione degli stakeholder si alimentano a vicenda. 3.2.6
L’”impresa-missione”
Si tratta di imprese che nascono e operano al servizio di una ben definita missione di tipo sociale – per esempio, favorire l’accesso ai farmaci da parte delle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, sottrarre le donne dalla schiavitù dell’usura e della miseria –, perseguita in modo sinergico, o quanto meno compatibile, rispetto a obiettivi di profitto. Tali imprese, pertanto, devono attrezzarsi per “stare sul mercato”, perseguendo quelle condizioni di competitività e di efficienza che consentano loro, oltre che di realizzare la missione sociale per la quale sono state costituite, di remunerare un capitale di rischio. Una fattispecie di tali imprese è costituita da quelli che Christensen et al. (2006) definiscono gli innovatori catalitici: imprese che hanno come obiettivo prioritario il cambiamento sociale, spesso su scala nazionale, offrendo soluzioni semplici e più convenienti ai clienti che non hanno accesso ai prodotti e ai servizi esistenti 203 .
202 Codice di Condotta Etica di Kedrion, revisione del 14 maggio 2007, principio 10.4 “Pazienti e Donatori”. 203 Christensen et al. (2006) riportano esempi di innovatori catalitici sia for profit, sia non profit.
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Il noto caso della Banca Grameen 204 costituisce un esempio emblematico di come missione sociale e remunerazione del capitale di rischio possano coniugarsi sinergicamente. Essa nacque ufficialmente in Bangladesh 205 nel 1977 per iniziativa di un docente universitario di economia, Muhammad Yunus 206 , bengalese, reduce da un’esperienza di insegnamento e di ricerca negli Stati Uniti. La missione era definita con chiarezza fin dall’inizio: praticare il microcredito senza garanzie per sottrarre dal giogo dell’usura e della miseria senza speranze le donne del Bangladesh. Erogando prestiti di importo unitario di pochi dollari, la Banca si proponeva di aiutare le donne più povere del Paese ad avviare una propria attività agricola o artigianale – piccole lavorazioni tessili, produzione di ceste o di altri manufatti –, così da metterle nelle condizioni di provvedere autonomamente al sostentamento proprio e dei propri figli. Nel 1997, a vent’anni dalla nascita, la Banca dava lavoro a oltre 12.000 dipendenti dislocati in 1.086 agenzie, i quali visitavano settimanalmente più di due milioni di clienti. I prestiti erogati mensilmente, sempre in valuta del Bangladesh, ammontavano complessivamente a oltre 35 milioni di dollari. Alla fine del 2005 aveva 5,6 milioni di clienti sparsi in circa 60.000 villaggi del Bangladesh. In trent’anni di attività ha prestato denaro per un ammontare complessivo superiore ai 5,2 miliardi di dollari 207 . Grameen intende “favorire non solo dei cambiamenti economici, ma anche dei cambiamenti sociali”; per essa, “i bisogni e il benessere della gente vengono al primo posto. Tutto il resto non è che un mezzo per far avanzare il nostro obiettivo, che è quello di trasformare la vita dei nostri membri e delle persone che dipendono da loro” 208 . Ciò nonostante, essa si proponeva sin dall’inizio di conseguire dei profitti e di remunerare i propri clienti-azionisti 209 , in un primo tempo in natura – sotto forma di alloggi o di miglioramento del tenore di vita –, in prospettiva in denaro: “Ci è stato detto – osserva Yunus 210 – che Grameen non avrebbe mai raggiunto una solidità finanziaria tale da potersi svincolare dai sussidi. Oggi le nostre filiali sono produttrici di reddito e operano esclusivamente alle condizioni di mercato avvalendosi di prestiti presso le banche commerciali. Grameen è attualmente l’istituto finanziario più sano del Bangladesh”. Ancora: “La cosa più importante che l’esperienza di Grameen ha dimostrato è che i poveri sono solvibili, che si può prestare loro del denaro in un’ottica commerciale, cioè ricavandone un profitto. Le banche potrebbero e 204 Le informazioni sulla Banca Grameen sono interamente tratte dal volume Il banchiere dei poveri, di M. Yunus, Universale Economica Feltrinelli, Milano, nona edizione, ottobre 2006. (Ed. originale, Vers un monde sans pauvreté, Éditions Jean-Claude Lattès, 1997). 205 Il Bangladesh ha circa 120 milioni di abitanti ed è fra i Paesi più poveri del Mondo. 206 Il successo della Banca Grameen è valso a Yunus il premio Nobel per la pace nel 2006. 207 I dati aggiornati al 2005 sono tratti da Christensen et al., 2006, p. 99. 208 M. Yunus, op. cit., pp. 116-118. 209 Il capitale della Banca Grameen è detenuto per il 93% dai propri clienti, per il 5% dal Governo del Bangladesh e per il 2% da altre banche private del Bangladesh. 210 M. Yunus, op. cit., p. 35.
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dovrebbero servire i diseredati, non solo per altruismo, ma per interesse commerciale” 211 . Le imprese-missione non hanno, ad evidenza, il problema di integrare la RSI nella propria strategia, proprio in quanto nascono per compiere una missione di tipo sociale, sia pure servendosi di uno “strumento” – l’impresa – che ha per sua natura anche l’obiettivo di produrre un profitto. Quali insegnamenti possono allora trarne le imprese che non nascono con una ragion d’essere di tipo sociale e che solo successivamente, nel corso della loro vita, si propongono di integrare la socialità nella propria strategia? A ben guardare, le une e le altre sono accomunate dalla ricerca di valide sintesi socio-competitive. Ne discende che possono trovarsi ad affrontare problemi e sfide simili. Dall’analisi del caso della Grameen Bank emergono, infatti, alcuni tratti significativi che possono ispirare le imprese che intendono realizzare o migliorare l’integrazione della RSI nella propria strategia 212 . - Innanzi tutto, un’“interpretazione” originale del profitto 213 : perseguito nel lungo periodo, ossia solo dopo che l’impresa ha messo a punto, sperimentato e consolidato la “formula” che le permette di realizzare la missione sociale che si è data; ricercato non certo in un’ottica massimizzante, ma come condizione di autonomia e di sostenibilità di tale missione nel tempo; perseguito, infine, in una logica anche educativa e “disciplinante” nei confronti dei collaboratori, perché siano indotti a tenere realisticamente conto del vincolo della scarsità delle risorse e siano incentivati ad agire con efficienza e spirito imprenditoriale; - in secondo luogo, un ribaltamento dei modelli mentali e delle logiche competitive diffuse e consolidate nel settore. Nel caso di Grameen, ciò si manifesta soprattutto nel superamento della diffusa diffidenza delle banche nei confronti dei debitori e nell’assumere invece che essi siano onesti 214 e, in secondo luogo, nell’assumere che i poveri siano solvibili. Ne discende che il rapporto con il debitore è costruito sulla fiducia, non invece, come fanno le banche tradizionali, sulla garanzia. Se così non fosse, ai poveri non potrebbe essere erogato alcun prestito, proprio in quanto non hanno nulla da offrire in garanzia 215 . Alla prova dei fatti, si è M. Yunus, op. cit., p. 31. Va da sé che sarebbe opportuno valutare, con l’ausilio di altri casi, se e in che misura i tratti salienti della Grameen Bank siano generalizzabili alle altre imprese-missione. 213 Christensen et al., op. cit., 2006 riferiscono che la Grameen Bank ha sempre conseguito un profitto, salvo che nei primi tre anni dopo la sua costituzione. 214 “La parola ‘credito’ significa propriamente fiducia. Nel sistema bancario tradizionale, tuttavia, vige soltanto la diffidenza reciproca. Al giorno d’oggi le banche tendono a sospettare ogni debitore di voler scappare con il denaro; lo tengono quindi legato con clausole di ogni genere, studiate attentamente dagli avvocati”. Yunus, op. cit., p. 108. 215 “I banchieri continuano a ripetermi che la garanzia è indispensabile. In realtà la garanzia non serve affatto a tutelare gli interessi della banca, serve a tenere lontana la povera gente”. Yunus, op. cit., p. 118. 211 212
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appurato che la restituzione dei prestiti senza garanzia (98%) è molto più sicura di quando i prestiti sono altamente garantiti, in quanto “i poveri sanno che quella è la loro unica occasione, al di là della quale non ci sono alternative” 216 ; infine, l’innovazione come motore fondamentale che rende possibile un gioco a somma maggiore di zero tra obiettivi di tipo economico e competitivo e obiettivi di ordine sociale. Tale innovazione si manifesta a tre livelli fondamentali: o quello del disegno strategico, che si concretizza in una formula imprenditoriale coerente e innovativa per tipo di prodotto offerto – il microcredito senza garanzie –, clienti serviti – le donne che versano nella povertà più totale, in un Paese, il Bangladesh, nel quale le donne sono in condizione di totale subordinazione agli uomini –, strutture e processi organizzativi – imperniati sulla figura del dipendente che non rimane in ufficio, ma lavora visitando continuamente i clienti attuali e potenziali –; o quello del processo realizzativo della strategia, al quale viene prestata una cura “maniacale”, nella consapevolezza, da un lato, che anche le decisioni e le scelte operative più minute devono essere pienamente coerenti con il disegno complessivo, dall’altro, che l’innovatività della strategia fa sì che non vi siano benchmark a cui fare riferimento e che ogni singola azione o iniziativa s’inserisca in un cammino di sperimentazione. Tutto ciò si traduce, nel caso di Grameen, in una serie di processi e di routines fortemente innovative, attentamente studiate e affinate col tempo: la costituzione di gruppi di potenziali clienti, per infondere sicurezza ai singoli, e poi di centri composti da più gruppi; un programma di istruzione impartita ai potenziali clienti, che sono tenuti a superare un esame finale; un fondo di riserva per aiutare i clienti in caso di emergenza; visite domiciliari settimanali o mensili per verificare lo stato di salute finanziaria dei clienti; cadenze di rimborso settimanali; l’assenza di atti giuridici fra banca e cliente, a testimonianza di un legame che poggia unicamente sulla fiducia; una particolare procedura per l’apertura di una nuova filiale, che prevede la possibilità per gli abitanti del villaggio in cui si insedia di rifiutarla. Tali routines sono state messe a punto sulla base di una fine analisi delle dinamiche psicologiche della donna-cliente-povera; o quello dei criteri e delle misure di valutazione delle performance: coerentemente con la missione che si è data,
Yunus, op. cit., p. 81.
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Grameen valuta la propria performance innanzi tutto sulla base del numero di persone che riesce a togliere dall’indigenza 217 . Come si può spiegare il fatto che un’impresa-missione sia in grado, oltre che di realizzare la propria missione di ordine sociale, di operare alle condizioni di mercato e di produrre anche una remunerazione del capitale investito? L’ipotesi che qui si avanza è che ciò dipenda, in primo luogo, dalla sua capacità di individuare una nicchia o un segmento di mercato lasciato scoperto dalla concorrenza, sulla base dell’assunto che esso non sia per nulla redditizio e quindi attrattivo, e di servirlo con una proposta innovativa; successivamente, attraverso un lungo processo di apprendimento, di affinamento e, nel contempo, di replicazione della formula imprenditoriale in nuovi segmenti 218 , si realizza un processo di crescita – di norma graduale e controllata – che, a sua volta, permette di conseguire la massa critica e il livello di efficienza necessari a rendere remunerativa l’attività. Ancora, la consapevolezza di contribuire alla realizzazione di una missione dalla forte valenza sociale e il riferimento a dei valori forti e positivi induce nei collaboratori, con ogni probabilità, una grande spinta motivazionale, passione e coesione, che, a loro volta, impattano positivamente sulla produttività e sull’efficacia del loro operato 219 . Si può affermare che il successo economico e sociale di queste impresemissione sia sostenibile nel tempo? Quali elementi possono minacciarlo? In linea generale, si può affermare che il mercato potenziale, se è vero che tali imprese si rivolgono alle fasce più povere della popolazione – come tali con gravi problemi di accesso a molti tipi di beni e di servizi – e che tali fasce costituiscono la parte preponderante della popolazione mondiale (Prahalad e Hammond, 2002) 220 , è di dimensioni così grandi e ancora così poco servito da permettere l’ingresso di molte imprese senza che ciò determini un forte inasprimento della concorrenza. Un’ulteriore considerazione riguarda l’atteggiamento delle imprese multinazionali: da un lato, esse sembrano prigioniere di modelli mentali che le portano a giudicare scarsamente redditizi e attrattivi i segmenti di mercato più poveri e con problemi di accesso; dall’altra, vi sono ormai significativi esempi di multinazionali che, liberatesi da tale percezione, hanno compreso il potenziale di questi mercati e hanno sperimentato business model innovativi in grado di contribuire a risolvere problemi di accesso e, nel contempo, di assicurare una “Per valutare se abbiamo assolto al nostro compito non guardiamo ai calcoli delle morosità o alle percentuali di rimborso, che ovviamente registriamo per i conteggi interni della banca, ma piuttosto al fatto che le vite difficili e sventurate dei nostri membri siano diventate un po’ meno difficili, meno sventurate”. Yunus, op. cit., p. 117. 218 Analogamente, gli “innovatori catalitici” – come li definiscono Christensen et al. – “create social change through scaling and replication” (2006, p. 96). 219 “Many employees want to work on projects that have the potential to make a real difference in improving the lives of the poor”. Prahalad e Hammond, op. cit., 2002, p. 55. 220 Prahalad e Hammond, dopo aver ricordato che la parte della popolazione mondiale che guadagna meno di 2.000 dollari all’anno (the “bottom of the pyramid”) ammonta a circa quattro miliardi di persone, osservano che “the enormous economic potential that lies at the bottom of the pyramid becomes clear” e che “the aggregate buying power of poor communities is actually quite large” (2002, p. 49). 217
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soddisfacente redditività del capitale investito (Prahalad e Hammond, 2002, Christensen et al., 2006, Porter e Kramer, 2006). Tali imprese “pioniere” potrebbero quindi fungere da apripista per molte altre multinazionali nei Paesi in via di sviluppo. Una terza considerazione riguarda la possibilità per le impresemissione che per prime hanno saputo individuare e soddisfare economicamente un determinato bisogno delle fasce più povere di godere di un vantaggio di prima mossa (Suarez e Lanzolla, 2007). Ciò dipende, in ultima analisi, dal tipo di risorse, capacità e competenze che hanno sviluppato e dai “meccanismi di isolamento” (Rumelt, 1987, Lieberman e Montgomery, 1988) che le proteggono dai nuovi entranti. E’ difficile, a onor del vero, formulare ipotesi di carattere generale. Ciò non di meno, il caso della Banca Grameen suggerisce che vi siano dei processi di apprendimento che hanno permesso l’accumulo di esperienza proprietaria di valore e non appropriabile da terzi, oltre che una reputazione legata al fatto stesso di essere entrati per primi in un dato segmento e di occuparvi una posizione di leadership (Day e Freeman, 1990). Ancora, lo sviluppo di relazioni privilegiate di conoscenza, di fiducia e di cooperazione con la Banca Mondiale, con la Banca Centrale del Bangladesh, con alcune banche “tradizionali” e via dicendo fa pensare che il primo entrante possa avere accesso a risorse di valore e, al tempo stesso, scarse e difficilmente accessibili ai follower (Barney, 1991). La formula imprenditoriale messa a punto dal nuovo entrante potrebbe essere di difficile limitabilità. D’altro canto, la forte caratterizzazione sociale di tali imprese-missione e, nel contempo, il divario ancora molto grande fra domanda e offerta di “accesso” alla base della piramide suggerisce l’ipotesi che un nuovo entrante possa essere vissuto come un potenziale partner prima che come un concorrente, nella prospettiva di condividere il know-how sviluppato e promuovere un’azione più efficace, proprio in quanto congiunta, per ridurre tale divario. Lo stesso Yunus, fondatore della Grameen Bank, in un libro di recentissima pubblicazione (2008) ha ravvisato nel business sociale, o “impresa con finalità sociali”, uno strumento potenzialmente in grado di ridurre significativamente, se non di debellare, la povertà nel mondo. Si tratta di un’impresa a tutti gli effetti, ma con due particolarità: in primo luogo, nasce con una funzione sociale ben precisa da assolvere, per esempio la produzione e vendita di beni alimentari a basso prezzo destinati ai bambini poveri e malnutriti; in secondo luogo, può produrre ma non distribuire un profitto. Gli investitori hanno diritto al rimborso, in un lasso di tempo definito, di una somma equivalente al capitale originariamente conferito, non alla sua remunerazione. Tale tipo di impresa si differenzia dalle organizzazioni non profit perché non ricorre ad alcuna forma di donazione o di carità, ma punta alla copertura di tutti i costi grazie ai ricavi che consegue vendendo sul mercato i propri prodotti; si differenzia altresì dall’impresa “capitalistica”, proprio in quanto non ha come obiettivo la
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produzione di profitti per remunerare il capitale, ma il “vantaggio sociale”, ovvero il “massimo rendimento sul piano sociale dell’investimento” 221 . E’ possibile ravvisare in tale forma di impresa gli elementi che caratterizzano l’”impresa-missione”, nonostante non possa distribuire gli eventuali profitti per remunerare il capitale investito? Oppure, al contrario, tale vincolo rende il business sociale una fattispecie assimilabile a un istituto non profit e quindi estraneo all’ambito di interesse di questo libro? Si propende per la prima ipotesi, in considerazione del fatto che l’“impresa con finalità sociali” deve attrezzarsi per “stare sul mercato”, ovvero affrontare la concorrenza, ricercare e conseguire un vantaggio competitivo sostenibile, realizzare obiettivi di efficienza. Proprio tali elementi, che sono fra quelli qualificanti il sistema capitalistico, sono visti come funzionali alla realizzazione della missione sociale che l’impresa si è data: “qui sta uno dei grandi punti di forza del business sociale – osserva Yunus –: estendere gli aspetti positivi della libera concorrenza sul mercato al campo del miglioramento delle condizioni sociali” 222 . Lo stesso dicasi per il profitto, in quanto strumentale alla crescita e all’efficacia del business sociale. Inoltre, Yunus considera anche una seconda fattispecie di impresa con finalità sociali: una società per azioni orientata al profitto ma posseduta da persone povere e disagiate: in questo caso, “i dividendi e l’incremento della capitalizzazione vanno direttamente a beneficio dei poveri riducendo il loro disagio e rendendo possibile il superamento della loro condizione” 223 . Infine, la costituzione o la partecipazione a un business sociale può costituire un’iniziativa di responsabilità sociale per un’impresa for profit, che in tal modo può mettere le sue competenze di business al servizio dell’efficacia e dell’impatto prodotto da un’”impresa con finalità sociali”: ne è un esempio la Grameen Danone, partnership fra la Grameen Bank e la multinazionale alimentare francese, creata allo scopo di alleviare il problema della malnutrizione infantile in Bangladesh. 3.3 Gli archetipi individuati: un quadro sinottico L’analisi svolta nel § 3.2 ha permesso di individuare alcuni archetipi di relazioni fra la RSI e la strategia d’impresa e i rispettivi elementi qualificanti. Tali relazioni si possono compendiare in un modello a due livelli (figura 3.2): 1. al primo si collocano i tratti salienti, o core, che qualificano nella sua essenza la relazione fra RSI e strategia; 2. al secondo si collocano invece le variabili che permettono di riconoscere a quale (o a quali) fattispecie è riconducibile, in concreto, la relazione fra RSI e strategia in una determinata impresa. Yunus M., Un mondo senza povertà, 2008, p. 41. Yunus M., op. cit., 2008, p. 41. 223 Yunus M., op. cit., 2008, p. 43. 221
222
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1. I tratti salienti che caratterizzano una relazione fra RSI e strategia sono riconducibili a due: l’intensità e il “segno”. L’intensità della relazione esprime il grado di connessione fra la dimensione competitiva e quella sociale: esso è nullo allorché le risorse dedicate alla RSI sono del tutto a-specifiche e non idiosincratiche; in sostanza, la RSI è riconducibile alle forme più generali di filantropia (donazioni e contribuzioni in denaro), del tutto sganciate non solo dalla strategia, ma anche dall’operatività di business dell’impresa. Al contrario, il grado di connessione è forte quando la RSI non solo impatta sul modo in cui l’impresa realizza attività e processi, ma si riflette anche sul vantaggio competitivo, nonché quando si avvale delle risorse e delle competenze legate al business. Il “segno”, positivo o negativo, esprime il fatto che fra RSI e strategia prevalga un rapporto sinergico o antisinergico, ossia se il perseguimento della soddisfazione e della coesione dei diversi stakeholder favorisca oppure ostacoli il conseguimento del vantaggio competitivo e se, per converso, il perseguimento del vantaggio competitivo vada a scapito oppure, al contrario, concorra ad accrescere i benefici per gli stakeholder. Figura 3.2
Le relazioni fra RSI e strategia: un modello di sintesi Motivazione per la RSI Strumentali
Fini della RSI Fini sociali in rapporto ai fini di profitto e di creazione di valore per gli azionisti
Normative Edoniche
Modelli mentali degli attorichiave Fini e ruolo dell’impresa nella società Ruolo del profitto
Tipi di fini sociali
Ruolo della “socialità”
Relazioni fra RSI e strategia Tipo di RSI Filantropia (generica o specifica)
Convergenza / conflittualità fra profitto e “socialità”
Intensità “Segno”
Integrata nelle risorse, nei processi e nelle attività di business
Approccio alla RSI Reattivo / difensivo Proattivo
Integrata nelle determinanti del vantaggio competitivo
2. Le variabili in base alle quali è possibile valutare e qualificare la relazione fra RSI e strategia nel singolo caso sono in ultima analisi cinque. Esse non sono 118 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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del tutto indipendenti fra loro, ciò non di meno ciascuna fornisce uno specifico contributo alla comprensione di tale relazione. Tre di esse sono di natura soft, nel senso che hanno natura per lo più intangibile e implicita, mentre le altre due attengono specificamente alle attività nelle quali si sostanzia la RSI e al tipo di approccio con la quale essa viene perseguita. Le tre variabili di natura soft sono le seguenti:
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i.
ii.
iii.
i fini della RSI e, in particolare, la relazione tra fini sociali e fini di tipo economico-competitivo. I fini sociali possono essere subordinati a quelli di profitto e di creazione di valore per gli azionisti, oppure, al contrario, essere dominanti; oppure, ancora, possono essere integrati in modo non gerarchico nella funzione-obiettivo dell’impresa (Coda, 1988a). Ancora, i fini sociali possono consistere nel prevenire i danni che l’impresa potrebbe arrecare agli stakeholder con la sua attività, nel generare vantaggi e benefici per gli stakeholder, oppure nel concorrere al “cambiamento sociale”; le motivazioni per la RSI possono a loro volta ricondursi ai tre tipi delineati da Lindenberg (2001): estrinseche (ossia strumentali); normative (ossia di ordine etico e valoriale); edoniche (ossia basate sulla soddisfazione intrinseca che si prova nell’impegnarsi per produrre benefici sociali); i modelli mentali (Coda, 2006), infine, sono le assunzioni fatte proprie dagli attori-chiave dell’impresa in merito al ruolo e ai fini dell’impresa, alla “socialità”, al profitto, nonché alla possibilità o meno che fra la dimensione sociale e quella economico-competitiva si instaurino relazioni sinergiche o quanto meno non conflittuali.
Le due variabili di carattere tangibile ed esplicito sono invece le seguenti: iv.
v.
il tipo di RSI praticata. Può trattarsi di attività e di iniziative specifiche, quali la filantropia, la quale, a sua volta, può concretizzarsi nell’erogazione di contributi in denaro oppure assumere forme più articolate variamente collegate al tipo di attività e di business in cui l’impresa è impegnata (Porter e Kramer, 2002). Oppure, può essere incorporata nel tipo di risorse utilizzate o nei processi e attività operative svolte dall’impresa; oppure, ancora, può entrare, direttamente o indirettamente, nella value proposition al cliente e quindi nelle determinanti del vantaggio competitivo; infine, l’approccio alla RSI, che può essere di tipo reattivo e difensivo o, all’opposto, proattivo (Carroll, 1979).
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Nella tabella 3.2 si presenta un quadro sinottico nel quale gli archetipi di relazioni fra RSI e strategia individuati nel presente capitolo sono classificati lungo le variabili sopra individuate. Tabella 3.2
Le relazioni fra responsabilità sociale e strategia d’impresa: un quadro sinottico (parte prima) Intensità della relazione fra RSI e strategia
Segno della relazione fra RSI e strategia
Tipo di RSI
Approccio alla RSI
Forte
Negativo
Nessuna o, al più, filantropia
Nessuno
a) vantaggio competitivo perseguito a scapito della RSI
Forte
Negativo
Nessuna o, al più, filantropia
Nessuno
b) obiettivi sociali perseguiti a scapito della competitività
Forte
Negativo
Coincide con la ragion d’essere dell’impresa
Proattivo
a)… in cui la RSI è assente
Assenza di relazione
Nessuno
Nessuna; al più, rispetto di principi etici
Nessuno
b) … che adottano iniziative di RSI ma senza apprezzabile connessione con la strategia
Debole
Positivo
Filantropia e/o RSI integrata nei processi operativi
Reattivo / difensivo
a) … ad accreditare un’immagine di impresa responsabile non corrispondente al vero
Debole
Negativo
Filantropia
Proattivo (a livello di comunicazione)
b) … al conseguimento del vantaggio competitivo
Medio-forte
Positivo
Entra nelle determinanti del vantaggio competitivo
Proattivo
5) … in cui la RSI è integrata nella strategia
Forte
Positivo
Entra nelle determinanti del vantaggio competitivo e ne è alimentata
Proattivo
6) ”impresa-missione”
Forte
Positivo
Coincide con la ragion d’essere dell’impresa
Proattivo
Imprese … 1)… con missione produttiva “antietica”
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2) … in cui il vantaggio competitivo è perseguito a scapito della RSI o viceversa
3) … in cui la RSI ha un legame con la strategia debole o assente
4) … nelle quali la RSI è strumentale …
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Tabella 3.2
Le relazioni fra responsabilità sociale e strategia d’impresa: un quadro sinottico (parte seconda) Fini della RSI
Motivazioni principali per la RSI
Assunzioni / modelli mentali degli attori-chiave
Se attuata, di “window224 dressing”
Inesistenti
“Business is business”
a) vantaggio competitivo perseguito a scapito della RSI
Se attuata, di “windowdressing”
Inesistenti o estrinseche
“Business is business”
b) obiettivi sociali perseguiti a scapito della competitività
Fini sociali dominanti: tutelare gli interessi di stakeholder diversi dagli azionisti
Intrinseche: normative e/o edoniche
Concezione statica della socialità. Talora valenza negativa attribuita al profitto
a)… in cui la RSI è assente
Non rilevanti
Inesistenti
RSI come fonte di costi e come “appropriazione indebita” di risorse spettanti agli azionisti
b) … che adottano iniziative di RSI ma senza apprezzabile connessione con la strategia
A seconda dei casi: - recare benefici alla comunità locale;
Estrinseche o intrinseche normative
RSI come sacrificio “dovuto” di una quota di profitti
Imprese … 1)… con missione produttiva “antietica”
225
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2) … in cui il vantaggio competitivo è perseguito a scapito della RSI o viceversa
3) … in cui la RSI ha un legame con la strategia debole o assente
- non arrecare danni agli stakeholder; - difendere la legittimazione e la reputazione dell’impresa
4) … nelle quali la RSI è strumentale a) … in cui la RSI è strumentale ad accreditare un’immagine di impresa responsabile non corrispondente al vero
“window-dressing”
Inesistenti o estrinseche
“Business is business”
b) … in cui la RSI è strumentale al conseguimento del vantaggio competitivo
RSI strumentale al vantaggio competitivo e alla creazione di valore per gli azionisti
Estrinseche
Istanze di vari stakeholder da soddisfare, ma subordinatamente a quelle degli azionisti
Con tale espressione si allude all’obiettivo di utilizzare specifiche attività di RSI per sviare l’attenzione degli stakeholder da comportamenti irresponsabili o illegali adottati dagli attori-chiave dell’impresa. Cfr. Weaver et al., 1999. 225 Chirieleison, op. cit., 2002, p. 20. 224
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Tabella 3.2
Le relazioni fra responsabilità sociale e strategia d’impresa: un quadro sinottico (parte terza) Fini della RSI
Motivazioni principali per la RSI
Assunzioni / modelli mentali degli attori-chiave
5) … in cui la RSI è integrata nella strategia
Fini sociali integrati nella funzione-obiettivo dell’impresa: vantaggio competitivo + impatti sociali e ambientali positivi
Intrinseche edoniche
Impresa come istituto economico-sociale; obiettivi dei diversi stakeholder convergenti e sinergici nel medio-lungo periodo
6) ”impresa-missione”
Fini sociali dominanti: cambiamento sociale
Intrinseche edoniche
Obiettivi di cambiamento sociale compatibili con la remunerazione di un capitale di rischio
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Imprese …
3.4 I limiti del modello proposto Il modello proposto nel presente capitolo individua alcuni archetipi di relazioni fra RSI e strategia d’impresa, soffermandosi, in particolare, sulle dimensioni di analisi e sulle variabili in base alle quali è possibile stabilire a quale archetipo è riconducibile la relazione fra RSI e strategia concretamente in atto in una specifica impresa. Esso, quindi, ha una valenza soprattutto descrittiva e offre uno schema di riferimento per valutare il modo in cui un’impresa interpreta, in concreto, il suo ruolo sociale. Esso ha altresì una qualche valenza interpretativa, nel senso che analizza il rapporto fra RSI e strategia a due livelli, quello soft dei fini, delle motivazioni e dei modelli mentali e quello hard delle azioni e delle scelte concrete, ricercando al primo livello almeno alcune delle ragioni che spiegano il modo in cui si declinano le scelte concrete inerenti la RSI e il suo rapporto con le risorse, le attività, i processi e il vantaggio competitivo dell’impresa. Ciò non di meno, esso presenta alcuni limiti: - in primo luogo, non è affatto facile, in concreto, ricondurre una specifica impresa all’uno o all’altro archetipo, proprio in quanto ciò richiede di analizzare e di valutare correttamente variabili “soft” e difficili da rilevare quali i fini, i valori, i modelli mentali. Per di più, gli archetipi proposti cercano di “catturare” alcuni idealtipi di relazioni fra RSI e strategia che, in realtà, si sviluppano lungo un continuum; - in secondo luogo, si tratta di un modello statico, che, come tale, “fotografa” una relazione per sua natura in continuo divenire. L’avvicendarsi della proprietà e del management, le dinamiche in atto nell’arena o nelle arene competitive in cui l’impresa è impegnata, l’evoluzione della composizione e delle istanze degli stakeholder e via dicendo implicano infatti una rimodulazione nel continuo – quando non un cambiamento radicale – del modo in cui l’impresa interpreta il suo 122 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
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ruolo economico-sociale, del modo in cui pratica – o non pratica – la RSI e quindi della relazione fra RSI e strategia. Nel prosieguo del lavoro si cercherà di porre rimedio a tali limiti, sia pure con riferimento a uno specifico archetipo di relazione: quello della RSI integrata nella strategia. Dapprima, nel capitolo 4, si esploreranno le molteplici connessioni che collegano la RSI alla strategia, il vantaggio competitivo alla coesione sociale, nonché le condizioni necessarie per la loro attivazione e per il loro funzionamento. Infine, nel quinto capitolo si cercherà di comprendere, con l’ausilio di un modello sistemico, quali fattori, condizioni e processi possono indurre un’impresa a integrare la RSI nella propria strategia.
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4.
Le relazioni fra vantaggio competitivo, profitto e “socialità” nelle imprese che integrano la RSI nella strategia
Nel capitolo precedente si è presentata l’integrazione come uno degli archetipi di relazioni fra RSI e strategia. Ci si è poi soffermati su due dei tre tratti qualificanti della definizione proposta di RSI integrata nella strategia. In primo luogo, l’inclusione della socialità nella funzione-obiettivo dell’impresa; in secondo luogo, il concetto di sintesi socio-competitiva, nella quale – si è detto – devono confluire le relazioni sinergiche fra RSI e vantaggio competitivo. Nel presente capitolo ci si concentra invece proprio su tali relazioni, che costituiscono il terzo “asse portante” di tale definizione. L’interrogativo fondamentale di ricerca al quale s’intende rispondere è quali siano i meccanismi e i processi attraverso i quali il vantaggio competitivo e la “socialità” si alimentano e si rafforzano vicendevolmente, nonché a quali condizioni essi si attivino. Il capitolo è strutturato nel modo seguente. Nel primo paragrafo si presenta sinteticamente lo stato dell’arte della letteratura per quanto riguarda le ipotesi esplicative delle relazioni fra corporate social performance (CSP) e corporate financial performance (CFP). Nel secondo paragrafo ci si concentra sui processi e sui meccanismi che connettono vantaggio competitivo e “socialità”, oltre che sulle condizioni per la loro attivazione e il loro funzionamento, illustrando altresì due casi aziendali che offrono evidenza concreta di alcuni di tali processi e meccanismi. Nel terzo e ultimo paragrafo, infine, si riflette sul ruolo del profitto e del valore per gli azionisti nelle imprese che integrano la RSI nella strategia. 4.1 Le ipotesi esplicative delle relazioni fra corporate social performance (CSP) e corporate financial performance (CFP): lo stato dell’arte della letteratura Una grande mole di studi hanno cercato di verificare empiricamente se un’elevata CSP si ripercuota positivamente sulla CFP. Un minor numero di 125 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
ricerche si sono concentrate invece sulla relazione inversa. Non s’intende tuttavia, in questa sede, ripercorrere, neppure sinteticamente, i risultati di questi lavori 226 , limitandoci a ricordare come i casi di correlazione positiva superino in modo abbastanza netto quelli di correlazione negativa o di assenza di correlazione e, soprattutto, come un numero significativo di studiosi abbia espresso critiche anche sostanziali all’impianto logico e metodologico alla base di gran parte di questi lavori 227 . Ciò che qui interessa in modo particolare è, dapprima, ripercorrere le ipotesi formulate in alcuni studi di carattere teorico circa le relazioni fra CSP e CFP, poi richiamare sinteticamente le ipotesi che i numerosi ricercatori che hanno esplorato empiricamente tali relazioni hanno proposto per interpretare, ex post, i risultati ottenuti 228 . S’intende, infine, riflettere su alcuni gap lasciati aperti da questi studi e sui primi tentativi di colmarli. Sotto il profilo meramente teorico, alcuni studiosi hanno ipotizzato che la RSI, interpretata per lo più nel quadro della stakeholder theory e quindi come attività svolte in modo da soddisfare le attese dei diversi portatori di interessi, si ripercuota positivamente sulle performance economico-finanziarie dell’impresa, fondando le proprie argomentazioni, a seconda dei casi, nell’economia dei costi di transazione (Williamson, 1975), nella teoria della dipendenza dalle risorse (Pfeffer e Salancik, 1978), nella resource-based view (Penrose, 1959, Wernerfelt, 1984, Barney, 1991), nella teoria del posizionamento competitivo (Porter, 1985) – le ultime due in quanto teorie esplicative della genesi del vantaggio competitivo –, in qualche caso in più di una delle teorie richiamate. Si tratta, per lo più, dei lavori nei quali sono stati sviluppati i fondamenti teorici del business case for CSR o della instrumental stakeholder theory. Jones (1995), ad esempio, ha osservato che l’attenzione alle istanze dei diversi stakeholder favorisce lo sviluppo di relazioni improntate alla fiducia e alla cooperazione, le quali, a loro volta, implicano minori costi di agenzia e di transazione allorché l’impresa instaura con loro rapporti di tipo contrattuale. Ne conseguono una migliore CFP e un vantaggio competitivo nei confronti delle imprese che instaurano le relazioni con i rispettivi stakeholder su basi differenti. Il riferimento alla teoria della dipendenza dalle risorse serve a Mitchell et al. (1997) per identificare gli stakeholder che realmente “contano”: infatti, coloro che controllano le risorse di cui un’impresa ha bisogno hanno per ciò stesso un potere maggiore su di essa, il che li rende importanti per i manager. Soddisfarne prioritariamente le istanze diviene pertanto una condizione fondamentale per avere accesso a tali risorse e quindi per conseguire buone CFP. Molti sono gli autori che si rifanno alla resource-based view per argomentare le loro ipotesi relative alle ripercussioni positive della CSP sulla CFP: la RSI concorre ad alimentare risorse e asset fondamentali come la reputazione (Fombrun, 1996, 226 Si veda supra il § 2.2.2 per una sintetica introduzione alla logica e agli assunti soggiacenti a tale importante filone di studi empirici, nonché per i riferimenti ai principali metastudies che ne riportano i risultati. 227 Si veda, in particolare, Margolis e Walsh, op. cit., 2003. 228 Per una review delle evidenze empiriche della relazione fra CSP e CFP, nonché delle ipotesi interpretative e delle teorie esplicative si veda Chirieleison, 2002, op. cit., cap. 3.
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2001), la capacità di attrarre o di trattenere i collaboratori (Greening e Turban, 2000), la fiducia da parte degli stakeholder in generale 229 . Risorse e competenze di valore, a loro volta, implicano risparmi di costo oppure incrementi di ricavi (Russo e Fouts, 1997). Esse possono concorrere a migliorare la posizione di costo dell’impresa (King e Lenox, 2000), oppure a creare un vantaggio di differenziazione e quindi a conseguire dei price premium (Fombrun et al., 2000, Porter, 1991, Porter e van der Linde, 1995, Barnett, 2007). Argomentazioni almeno in parte analoghe sono utilizzate da vari autori per interpretare i risultati di analisi empiriche che rivelano un impatto positivo della CSP sulla CFP. Oltre a rifarsi alle diverse ragioni, sopra sinteticamente richiamate, per le quali le risposte positive alle istanze anche degli stakeholder diversi dagli azionisti si riverberano positivamente sulla CFP (per es., Preston e O’Bannon, 1997), alcuni osservano come l’adozione di comportamenti irresponsabili, che di per sé farebbero risparmiare i costi che si devono sostenere ad esempio per migliorare la qualità del prodotto e la sicurezza, accresce invece i costi quali gli interessi da corrispondere ai detentori di titoli obbligazionari dell’impresa (Waddock e Graves, 1997). Inoltre, i costi derivanti dall’offrire certi benefici ai dipendenti sarebbero compensati da incrementi più che proporzionali di produttività, così come i costi sostenuti per promuovere iniziative a favore delle comunità indurrebbero i governi e le autorità locali a concedere agevolazioni fiscali e a imporre regimi autorizzativi meno onerosi. Ancora, il “buon management” è in grado, in quanto tale, di produrre simultaneamente buone CFP e buone CSP: ciò implica che la CSP sia al tempo stesso un predittore (variabile indipendente) e una conseguenza (variabile dipendente) della CFP (McGuire et al., 1988, McGuire et al., 1990, Waddock e Graves, 1997). Viceversa, in presenza di elevate CFP, è maggiormente probabile che l’impresa disponga di risorse eccedenti (slack resources) che possono essere utilizzate per accrescere il livello di RSI e quindi incrementare la CSP (Waddock e Graves, 1997, Preston e O’Bannon, 1997, Simpson e Kohers, 2002). Coloro che, invece, hanno riscontrato empiricamente una correlazione negativa fra CSP e CFP la interpretano per lo più come una conseguenza dei maggiori costi che le imprese responsabili sosterrebbero rispetto alle altre, senza che ciò determini in contropartita benefici apprezzabili: ne deriverebbe quindi uno svantaggio competitivo (per es., Aupperle et al., 1985). Ebbene, quali sono i principali gap lasciati aperti da questo pur vastissimo filone di ricerca? Quali sentieri è opportuno percorrere per cercare di colmarli? Un contributo importante al fine di rispondere a tali interrogativi viene dal recente lavoro di Barnett (2007): egli osserva che la gran parte degli autori che si sono cimentati fino ad ora nell’esplorare la relazione fra CSP e CFP hanno cercato, di fatto, di pervenire a delle conclusioni generali, trascurando invece di capire in quali casi e a quali condizioni le imprese possano conseguire ritorni positivi dalla RSI. Ciò è avvenuto nonostante alcuni abbiano riconosciuto impercorribile, sotto il profilo teorico, la strada della ricerca di una Per una riflessione specifica sul rapporto fra resource-based view e RSI si veda Branco e Rodrigues, 2006. 229
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legittimazione o di una condanna universale del business case for CSR (Rowley e Berman, 2000, Barnett, 2007) 230 . Si auspica, dunque, un approccio contingency, alla ricerca di una più profonda comprensione “of the underlying drivers of whether and when particular firms may earn positive financial returns from CSR – in short, to make the business case firm specific, not universal” 231 . A tal fine si può procedere, in concreto, in due modi complementari e convergenti: sviluppando una teoria esplicativa delle condizioni in presenza delle quali fra RSI e CFP vi sono relazioni sinergiche – è questa la strada percorsa dallo stesso Barnett nel recente lavoro sopra richiamato – oppure studiando in profondità, con un approccio “clinico”, le imprese nelle quali tali sinergie sono realizzate, al fine di identificare le condizioni e i processi che le hanno rese possibili. Un secondo gap ravvisabile in tale filone di studi consiste nell’inadeguata considerazione del carattere intrinsecamente dinamico dell’impresa e dell’ambiente nel quale è essa inserita sia sotto il profilo competitivo, sia sotto il profilo della socialità, sia, infine, della relazione fra queste due dimensioni. In generale, le ricerche empiriche sino ad ora svolte si sono limitate a ricercare eventuali correlazioni fra CSP e CFP astraendo, per lo più, dalla variabile tempo. Per cercare di colmare tale gap è necessario non solo tenere presente che le attese e le istanze degli stakeholder evolvono nel tempo, al pari dei gusti e delle attese dei clienti, ma anche che: - le iniziative di RSI, così come le decisioni e le azioni ad essa improntate, producono effetti, in termini sia di soddisfazione, consenso e coesione degli stakeholder, sia di vantaggio competitivo, non di rado dilazionati nel tempo; - gli effetti prodotti dalle iniziative, dalle decisioni e dalle azioni socialmente responsabili compiute in un certo momento dipendono, oltre che dalle motivazioni e dalle finalità che ne sono all’origine 232 , anche dal livello di responsabilità delle iniziative e delle azioni compiute in passato. Queste ultime, infatti, hanno concorso a determinare un certo livello di credibilità e di fiducia – si potrebbe dire una certa apertura di credito – da parte degli stakeholder nei confronti dell’impresa, il quale, a sua volta, impatta sulla percezione e sulla reazione da parte degli stessi stakeholder a seguito di una nuova iniziativa all’insegna della RSI 233 . Si tratta, in altri termini, di uno degli aspetti di quella che Barnett (2007: 812) definisce la path dependence della RSI; - la capacità e l’attitudine di un’impresa a riconoscere e a sfruttare una certa opportunità di RSI dipende anche dal suo track record di RSI, in quanto esso ha concorso a formare un’identità – si potrebbe dire un 230 “Thus, efforts to universally legitimize or condemn the business case are ‘theoretically untenable’ (Rowley e Bermann, 2000, p. 406). Si veda altresì Ullmann, 1985. 231 Barnett, 2007, p. 795. 232 Cfr. supra, § 3.2.5. 233 Barnett (2007, p. 805) ipotizza che ciascuno stakeholder si ponga la domanda “Given how this firm has behaved (most socially) in the past (…), can I trust it in the future?”
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DNA – che plasma l’approccio alla RSI presente e futuro dei suoi attorichiave e dei collaboratori tutti. Si tratta – come rileva ancora acutamente Barnett – di una dinamica analoga a quella dell’absorptive capacity (Cohen e Levinthal, 1990), in base alla quale lo stock di conoscenza che un’impresa possiede in un dato momento condiziona la capacità e le possibilità di apprendimento, ossia i flussi di nuova conoscenza; - vi sono effetti di ritorno (feedback), non necessariamente positivi 234 , che connettono dinamicamente azioni all’insegna della RSI, soddisfazione e coesione degli stakeholder, propensione all’innovazione e al cambiamento, vantaggio competitivo; - i processi di ricerca, l’attivazione e il funzionamento di valide sintesi socio-competitive, nelle quali trovano senso e logica unitaria le relazioni sinergiche fra socialità e vantaggio competitivo, dipendono da una serie di variabili che attengono alla storia e alle esperienze passate degli attori-chiave dell’impresa, agli assetti di governance e organizzativi, nonché ai risultati economici, competitivi e sociali conseguiti. Tali processi, a loro volta, plasmano la cultura e gli assetti organizzativi e di governance dell’impresa e impattano sui suoi risultati futuri. Al fine di contribuire a colmare tali gap, nel seguito del lavoro si procederà nel modo seguente: - si distinguerà, nell’ambito del più generale concetto di “socialità”, fra la RSI, che attiene alle azioni e alle iniziative che impattano sul livello di soddisfazione degli stakeholder, e la coesione sociale, che può essere invece interpretata come il risultato di tali azioni e iniziative; - si cercherà altresì di riflettere sugli effetti di ritorno – o di feedback – di un dato livello di coesione sociale nei confronti della propensione dell’impresa a operare e, in particolare, a innovare e a investire per migliorare ulteriormente la sua posizione competitiva e il livello di soddisfazione degli stakeholder; - si analizzeranno alcuni casi di aziende che integrano la RSI nella strategia, o quanto meno hanno compiuto passi significativi in tale direzione, allo scopo di identificare i processi e i meccanismi attraverso i quali tale integrazione si realizza; - infine, nel quinto e ultimo capitolo, si proporrà un modello sistemico utile a riflettere sulle condizioni che conducono un’impresa a integrare la RSI nella propria strategia.
234
Cfr. supra § 3.2.2 e infra § 4.2.1.
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4.2 Le relazioni sinergiche fra vantaggio competitivo e “socialità” Prima di entrare nel merito dei meccanismi e dei processi esplicativi delle relazioni sinergiche fra vantaggio competitivo e “socialità” sono necessarie due premesse. La prima è che nelle imprese che integrano la RSI nella propria strategia – a onor del vero, sino ad ora non molte (Coda, 2004c), ma significative e comunque in numero crescente – la dimensione competitiva e quella sociale sono così fortemente integrate da rendere non di rado difficile identificare e spiegare le relazioni di causa-effetto all’origine del funzionamento sinergico. Si potrebbe invero affermare che una valida sintesi socio-competitiva è tale proprio se e nella misura in cui si caratterizza per una certa ambiguità causale, dal momento che quest’ultima costituisce una condizione necessaria perché una risorsa o una competenza dell’impresa impatti positivamente sul vantaggio competitivo (Barney, 1991), perché aumenti il grado di complessità di una strategia e quindi si riduca la sua imitabilità da parte di un concorrente (Rivkin, 2000), perché, infine, un’impresa innovativa possa godere di un vantaggio di prima mossa (Lippman e Rumelt, 1982, Reed e DeFilippi, 1990, Suarez e Lanzolla, 2007). Ciò non di meno, è ragionevole supporre che uno sforzo interpretativo per cercare di ricostruire tali relazioni possa essere di qualche utilità, anche nell’ottica di far comprendere concretamente in che modo l’impresa possa adempiere la sua missione economica e sociale e stimolare in tale direzione l’iniziativa dei manager e degli stessi stakeholder. La seconda premessa consiste nello specificare che cosa s’intende per “vantaggio competitivo” e per “socialità”, che costituiscono i due “poli” intorno ai quali si snodano le relazioni sinergiche che s’intendono analizzare e spiegare. Il vantaggio competitivo è definito e concettualizzato in diversi modi (Rumelt, 2003): ai fini del presente scritto lo si definisce come la condizione nella quale un’impresa consegue tassi di rendimento superiori rispetto alla media dei concorrenti (Besanko et al., 1999, Mazzola, 2002, Gottschalg e Zollo, 2007a) 235 . Il concetto di “socialità” sarà invece declinato, nel seguito del capitolo, distinguendo fra RSI 236 e coesione sociale. Quest’ultima è intesa ai fini del presente lavoro come l’impegno e la volontà degli stakeholder di cooperare fra loro e con l’impresa al raggiungimento dei suoi obiettivi. Se è vero, in linea di principio, che la prima determina la seconda, ciò non di meno tale distinzione consente di specificare in modo più preciso i processi e i meccanismi alla base delle relazioni sinergiche – e, in qualche caso, antisinergiche – fra le due dimensioni della competitività e della socialità. “Quando un’impresa (o un’unità operativa nell’ambito di un’impresa molto diversificata) consegue un tasso di profitto più elevato della media dei concorrenti che operano nello stesso mercato, essa gode di un vantaggio competitivo in quel mercato” (Besanko et al., 1999, p. 433). In tal senso si veda, fra gli altri, anche Mazzola (2002, p. 67): “Ora, per apprezzare la competitività di un’impresa in una data ASA (…) si può utilmente fare ricorso al confronto fra le performance dell’impresa e quelle dei principali competitori: solo la presenza di qualche vantaggio nei confronti dei concorrenti, infatti, porta a risultati competitivi ed economici di eccellenza e viceversa”. 236 Sul concetto di RSI adottato ai fini del presente lavoro si veda supra § 3.1. 235
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Figura 4.1
Le relazioni di causa-effetto che collegano RSI e coesione sociale
Coesione sociale effettiva
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RSI
Variabile-flusso
Gap di coesione sociale
Coesione sociale desiderata
Variabile-stock
Il simbolo = significa che la relazione di causa-effetto è contraddistinta da ritardi temporali.
Infatti, la RSI – a prescindere dal fatto che si concretizzi in azioni o iniziative ad hoc a beneficio degli stakeholder, sia radicata nelle attività e nei processi di business, oppure, ancora, sia integrata nella strategia – può essere vista, utilizzando il linguaggio dell’analisi dinamica dei sistemi (Forrester, 1961, 1968, Coda e Mollona, 2002), come una variabile-flusso, che alimenta la soddisfazione e la coesione da parte dei diversi stakeholder, che costituiscono invece una variabile-stock. Il livello di soddisfazione e di coesione sociale “effettiva” viene posto a confronto con il livello desiderato da parte degli attori-chiave dell’impresa. Da tale confronto scaturisce, per differenza, un gap di coesione sociale che, a sua volta, impatta sulle iniziative, sulle attività e sui processi all’insegna della RSI (figura 4.1), oltre che, come si dirà in seguito, su alcune delle condizioni all’origine del vantaggio competitivo. Quanto più ampio è tale gap, tanto più elevata sarà la propensione dell’impresa a modificare non solo l’entità del proprio impegno in termini di RSI, ma anche, a certe condizioni, il modello stesso di RSI e della sua relazione con la strategia. Si tratta, in sintesi, di un circuito di feedback, che rappresenta le relazioni di causa-effetto che connettono dinamicamente RSI e coesione sociale 237 . La seconda può essere interpretata Naturalmente, il modello potrebbe essere reso più preciso e completo inserendo ulteriori variabili e relazioni di causa-effetto: per esempio, i valori e gli obiettivi del top management, che impattano sulla coesione sociale desiderata; i valori e la cultura organizzativa in essere in un dato momento, che dipendono dalla RSI e, nel contempo, la influenzano; ancora, il livello di fiducia 237
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altresì come una variabile espressiva della performance sociale dell’impresa (CSP) in un dato momento, risultato delle scelte e delle azioni di, o improntate a, RSI.
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4.2.1 L’impatto della “socialità” sul vantaggio competitivo Gli impatti positivi della “socialità” sul vantaggio competitivo sono riconducibili, in ultima analisi, a tre tipologie: le prime due attengono specificamente alle implicazioni delle iniziative all’insegna della RSI, vista come variabile-flusso, la terza si riferisce invece ai vantaggi derivanti dalla coesione sociale, in quanto variabile-stock. La RSI produce vantaggi sotto il profilo della creazione o del rafforzamento del vantaggio competitivo se e nella misura in cui: a) è parte integrante della proposta di valore (o value proposition) ai clienti; b) favorisce l’accesso, da parte dell’impresa, a risorse di valore, rare, difficili da imitare (Barney, 1991). Si esaminano di seguito ciascuna delle due relazioni ipotizzate fra RSI e vantaggio competitivo. a) La RSI come parte integrante della proposta di valore (o value proposition) ai clienti. Dall’esame sia della letteratura, sia di alcuni casi aziendali significativi emerge chiaramente come nelle imprese che integrano la RSI nella propria strategia i clienti costituiscono spesso l’anello fondamentale della catena che connette sinergicamente socialità e competitività. Ciò si realizza allorché la RSI genera valore per il cliente e quindi la competitività dell’impresa trae beneficio dal rafforzamento delle azioni e delle iniziative ispirate alla RSI. Prima di illustrare come ciò possa in concreto avvenire, è opportuno specificare meglio, con l’ausilio di alcuni riferimenti alla letteratura di strategia, il concetto di “proposta di valore” rivolta al cliente nelle sue connessioni con i concetti di sistema di prodotto, prezzo e competitività. L’impostazione che ruota intorno al concetto di value proposition si fonda sull’assunto che l’apprezzamento del cliente nei confronti di un certo sistema di prodotto dipende dal beneficio netto 238 che ne ricava, a sua volta espresso dalla
degli stakeholder nei confronti dell’impresa, la quale – come osserva Barnett (2007) – è il risultato della RSI passata e modera la relazione fra RSI attuale e percezioni e reazioni degli stakeholder. In questa sede, tuttavia, ci si limita alle relazioni dirette, allo scopo precipuo di chiarire la differenza fra RSI e coesione sociale. Per un modello sistemico più completo, finalizzato a illustrare le ragioni e le condizioni che conducono all’integrazione della RSI nella strategia, si veda infra il cap. 5. 238 Nella letteratura di marketing si parla anche di delivered value. Si veda per es., Kotler (1991).
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differenza fra il valore che egli vi attribuisce (o valore percepito) 239 e il prezzo richiestogli. Quest’ultimo determina altresì la quota parte del valore dell’output che l’impresa attribuisce al cliente e, per differenza, la quota parte che invece trattiene per remunerare in misura congrua i fattori produttivi impiegati (Mazzola, 2002). Ne discende che la competitività di un’impresa dipende dalla sua capacità di offrire ai clienti un beneficio netto più elevato rispetto a quello offerto dai concorrenti o un superiore rapporto 240 fra valore per il cliente e prezzo di vendita. In termini differenziali, un incremento del valore dell’output offerto rispetto a quello medio di settore superiore all’incremento di prezzo comporta presumibilmente tassi di crescita del fatturato superiori a quelli dei concorrenti e quindi un aumento della quota di mercato 241 . Va da sé che, se si amplia l’impostazione per valutare, oltre alle implicazioni in termini di quota di mercato, anche quelle in termini di redditività, è necessario stimare gli eventuali maggiori costi che si devono sostenere per modificare il sistema di prodotto al fine di aumentare il valore percepito dal cliente 242 . In tale prospettiva l’impresa è chiamata a intraprendere quelle iniziative in grado di allargare la forbice tra il valore di un determinato output per il cliente e i costi per produrlo (Besanko et al., 1999): quanto più ampia è tale forbice, tanto maggiori sono i gradi di libertà di cui l’impresa gode per fissare il prezzo a un livello tale da assicurare un beneficio netto elevato per il cliente e, nel contempo, offrire remunerazioni soddisfacenti ai propri azionisti. Secondo tale impostazione, infatti, la differenza tra valore del prodotto per il cliente e costo di produzione (ossia il valore degli input utilizzati e convertiti nel prodotto finito) costituisce il valore creato, la cui ripartizione fra beneficio netto per il cliente e profitto del produttore dipende dal prezzo di vendita del bene (Besanko et al., 1999). La RSI come parte integrante della proposta di valore ai clienti implica che questi ultimi traggano direttamente vantaggio dalla RSI oppure che gli attributi socialmente responsabili del prodotto, del processo produttivo o, meglio, dell’impresa nel suo complesso, pur non generando vantaggi tangibili per i clienti, ne incontrano il favore per il fatto di rispondere positivamente ai valori e alle istanze etico-sociali di cui essi sono portatori. In entrambi i casi, la RSI costituisce un elemento del sistema di prodotto decisivo ai fini dell’apprezzamento da parte del cliente, aumentandone la propensione all’acquisto o la disponibilità a pagare un prezzo più elevato (price premium). Nella prima ipotesi, il cliente può trarre vantaggio per due ragioni fondamentali. 239 Si tratta, in questo caso, del valore per il cliente senza considerare il prezzo del prodotto o servizio. 240 Il rapporto fra valore dell’output per il cliente e il prezzo di vendita è definito value for money. Cfr. Mazzola, op. cit., 2002, pp. 113-114. 241 Per approfondimenti in merito a tale impostazione si vedano per esempio, oltre a Mazzola (2002, § 3.2), Forbis e Metha, 1981, e Ghemawat, 1991. 242 Si tralascia in questa sede la questione del possibile divario fra valore effettivo e valore percepito e quindi della necessità di comunicare in modo efficace il valore effettivamente creato.
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i.
ii.
243
Per alcune caratteristiche che rendono il prodotto dell’impresa socialmente responsabile migliore rispetto a quello offerto dai concorrenti. Può trattarsi di caratteristiche intrinseche al prodotto, quali la salubrità e la sicurezza, che avvantaggiano direttamente l’utilizzatore; oppure, di proprietà socialmente responsabili che, oltre a produrre effetti benefici su altri stakeholder, generano vantaggi altresì per l’acquirente: ciò si verifica, ad esempio, nel caso di un’automobile in grado di contenere le emissioni nell’ambiente e, nel contempo, ridurre i consumi e quindi i costi di carburante; ancora – e ciò vale nel caso in cui i clienti siano a loro volta imprese – può trattarsi di prodotti che, a prescindere dalle caratteristiche intrinseche, sono realizzati con processi socialmente responsabili e quindi diventano appetibili per le imprese-clienti che desiderino o debbano dimostrare ai rispettivi clienti di operare nell’ambito di filiere interamente composte da imprese socialmente responsabili. E’ questo il caso, ad esempio, delle aziende subfornitrici 243 di imprese tessili o di confezioni il cui marchio rischierebbe di perdere una parte significativa del valore qualora emergesse il ricorso a fornitori che sfruttano il lavoro minorile o comunque non rispettano standard accettabili di tutela dei lavoratori. In quest’ultimo caso non si tratta (o comunque non si tratta necessariamente) di una particolare sensibilità etico-sociale a indurre le imprese clienti a rivolgersi a fornitori socialmente responsabili, quanto la convenienza che vi ravvisano in relazione al tipo di preferenze e di domanda espresse dai loro clienti. Per il fatto stesso di aver accesso a un prodotto che combina una valenza sociale intrinseca con una scarsa disponibilità in assoluto o comunque a prezzi accessibili. Ciò si verifica allorché un’impresa, modulando e combinando attentamente le caratteristiche che compongono il proprio sistema di prodotto e ricorrendo a scelte mirate e innovative sotto il profilo tecnologico, logistico e distributivo, riesce a migliorare sensibilmente tale accesso, facendone, al limite, l’elemento qualificante della propria sintesi socio-competitiva quando non della propria missione. Sono esempi tipici di tale fattispecie i prodotti farmaceutici e i servizi finanziari, la cui valenza sociale intrinseca rende i clienti attuali e potenziali stakeholder di primaria importanza per le imprese del settore e pone la questione dell’accesso e dell’esclusione in cima alle priorità della RSI. La capacità di servire segmenti di clientela quali le fasce più povere della popolazione dei Paesi in via di sviluppo o gli immigrati
E’ questo il caso della MAS Holding, presentato supra nel § 3.2.5.
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nel rispetto delle condizioni di economicità può costituire un’opportunità di crescita e una fonte di vantaggio competitivo. Nella seconda ipotesi, il cliente privilegia il prodotto dell’impresa socialmente responsabile in quanto rispondente ai propri valori etico-sociali. Possono rientrare in tale fattispecie un’ampia varietà di casi, che vanno dalla preferenza per i fondi d’investimento etici a quella per i prodotti realizzati attraverso filiere interamente composte da imprese socialmente responsabili. Alcuni caveat sono però necessari prima di affermare che, in quest’ultimo caso, la RSI nella value proposition al cliente è fonte di vantaggio competitivo. In primo luogo, occorre valutare se la percezione da parte dei consumatori di un elevato livello di RSI non sia il frutto di un’efficace politica comunicazionale, alla quale non corrisponde un reale impegno da parte dell’impresa: in questo caso, pur ammettendo la rilevanza del “percepito”, il vantaggio potrebbe rivelarsi effimero. In secondo luogo, occorre valutare attentamente, caso per caso, se un gap positivo di RSI rispetto ai concorrenti non sia colmabile facilmente e in breve tempo, anche in considerazione del fatto che, secondo alcuni autori, la maggioranza dei consumatori preferisce acquistare da imprese socialmente responsabili (Mohr, Webb e Harris, 2001), il che genera nei concorrenti la pressione ad adeguare celermente i rispettivi standard di comportamento all’impresa che ha incrementato il proprio livello di RSI (Barnett, 2007) 244 . Si può avanzare l’ipotesi che un differenziale positivo di socialità, se reale e correttamente percepito dai clienti, concorra in misura maggiore al vantaggio competitivo nei settori nei quali la complessità del prodotto, l’asimmetria informativa e, nel contempo, la difficoltà a conoscere ex ante la qualità di un prodotto o di una prestazione rendano particolarmente apprezzati dai clienti tutti quei segnali e quegli elementi atti ad alimentare la fiducia nei confronti dell’impresa. In quali modi e attraverso quali meccanismi la RSI nella proposta di valore ai clienti può costituire una fonte di vantaggio competitivo per l’impresa, ossia contribuire ad accrescere la sua redditività rispetto alla media dei concorrenti? Ciò può verificarsi fondamentalmente in due modi, per altro fra loro complementari e spesso atti a rafforzarsi reciprocamente: i. ii.
allargando la forbice fra valore per il cliente e costi di produzione (Besanko et al., 1999); allargando la propria base di clientela e quindi realizzando nuove opportunità di business e di crescita del fatturato in misura maggiore rispetto ai concorrenti.
244 When a firm increases its CSR activities, its rivals feel pressure to increase theirs as well, since, all else being equal, most consumers prefer to buy from the most socially responsible firm” (Barnett, 2007, op. cit., p. 806).
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i) Nel primo caso la RSI arricchisce il sistema di prodotto a quindi aumenta il valore per il cliente. Ciò, normalmente, è costoso e può richiedere investimenti anche ingenti, ma, quanto meno nel lungo periodo, tale secondo effetto è più che compensato dal primo. Si tratta, nella sostanza, di una strategia di differenziazione basata sulla RSI: il cliente è disponibile a pagare un price premium, il quale deve collocarsi a un livello intermedio fra incremento del valore per il cliente e incremento dei costi di produzione. ii) Nel secondo, invece, l’impresa propone un sistema di prodotto spesso “impoverito”, nel senso che il prodotto o servizio offerto viene sfrondato da tutti quegli elementi accessori che non solo non ne intaccano la funzione essenziale, ma mantengono comunque la value proposition al di sopra della soglia di accettabilità 245 . Tale “impoverimento” del sistema di prodotto, a sua volta, consente una sensibile riduzione dei costi di produzione. Anche in questo caso, il prezzo di vendita dev’essere collocato al di sotto del valore per il cliente – altrimenti il prodotto non potrebbe essere venduto – e, nel contempo, al di sopra dei costi di produzione – in caso contrario l’impresa subirebbe ovviamente delle perdite. Tale dinamica che coinvolge valore per il cliente, prezzo di vendita e costo di produzione è quella che rende praticabili sotto il profilo economico le strategie volte a migliorare l’accesso a un prodotto o servizio, al quale è normalmente associato un certo valore sociale, da parte di fasce di popolazione caratterizzate da reddito e potere d’acquisto relativamente bassi. Il principale vantaggio per l’impresa consiste in un allargamento della propria base di clientela e in una crescita del fatturato grazie all’individuazione e allo sfruttamento di nuove, e per certi versi impensate, opportunità di business. Seguendo l’impostazione di Kim e Mauborgne (2005a, 2005b), è possibile in questo modo trasformare dei “non utilizzatori” in utilizzatori di un certo prodotto, il che, a sua volta, offre all’impresa l’opportunità di ridefinire un settore o comunque di individuare nuovi e inesplorati “oceani blu”, nei quali può significativamente migliorare le proprie performance rispetto ai concorrenti senza doverli affrontare frontalmente. Nel contempo, si tratta, ad evidenza, di strategie che integrano la responsabilità sociale. A questo punto è necessario porsi due interrogativi fra loro collegati. Quali sono le condizioni per la sostenibilità e il successo economico di tali strategie? Quale livello di profitto un’impresa può conseguire sviluppandosi nei mercati più poveri o addirittura at 245 Si tratta, per altro, di una soglia soggetta a rilevanti modifiche nel corso del tempo – in relazione all’evoluzione dei gusti dei consumatori, del loro potere di acquisto e così via –, che, come tale, dev’essere attentamente monitorata dalle imprese che intraprendono una strategia di questo genere. Emblematico, al riguardo, è il noto caso della Ford negli Stati Uniti degli anni Venti, che aveva adottato tale strategia con grande successo impiegando le tecnologie, allora innovative, della produzione di massa con automazione rigida. La Ford “modello T” si presentava come un’auto molto impoverita e, benché la funzione essenziale di mezzo di trasporto non fosse intaccata, da un certo momento in poi era andata al di sotto della soglia di accettabilità e a nulla valsero i price discount per contrastare l’avanzata della General Motors, che conquistò la leadership di mercato adottando una strategia di differenziazione basata sul confort, sul colore e sul design.
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the bottom of the pyramid (Prahalad e Hammond, 2002), relativamente a quello ottenibile mediante un’ulteriore espansione nei mercati “tradizionali”? Come si è detto in precedenza 246 e come si dirà più approfonditamente in seguito proponendo alcuni esempi, il successo e prima ancora la fattibilità di tali strategie richiedono una combinazione di grande capacità innovativa e di spinta motivazionale a sfruttarla per dare luogo a innovazioni che si manifestano in primo luogo a livello di visione (Normann, 1977), per poi declinarsi nella concezione del modello di business (London e Hart, 2004) 247 e via via a livello di singole funzioni e attività – produttive, distributive, logistiche, ecc. –, accomunate dallo sfruttamento intensivo e creativo al tempo stesso delle opportunità offerte dalle tecnologie più recenti. Si tratta, in altri termini, di prendere coscienza del fatto che servire tali mercati equivale spesso a entrare in un’area di affari totalmente nuova, caratterizzata da fattori critici di successo del tutto diversi rispetto ai mercati tradizionali e che quindi bisogna attrezzarsi a servire bisogni diversi con prodotti ad hoc e dotandosi di strutture, ma anche sviluppando risorse e competenze, almeno in parte specifiche. E’ per queste ragioni che diversi contributi della letteratura (si vedano, per esempio, London e Hart, 2004, Seelos e Mair, 2007) enfatizzano l’opportunità che le imprese “occidentali” entrino nei mercati dei Paesi poveri mediante la stipula di alleanze con imprese locali, con le quali possono dar vita a nuove realtà di recente analizzate nell’ambito del filone di studio e di ricerca dell’”imprenditorialità sociale” 248 . Quanto al secondo interrogativo – ossia quali siano le condizioni per la sostenibilità e il successo economico di tali strategie –, è ragionevole ipotizzare che non esista una risposta univoca: in alcuni casi la redditività conseguibile nei mercati caratterizzati da problemi di accesso, per quanto positiva, è presumibilmente inferiore, almeno nel breve periodo, rispetto a quella normalmente ottenibile nei mercati tradizionali; in altri casi, invece, potrebbe essere vero il contrario. Senza voler entrare, almeno in questa sede, nel merito della questione se sia opportuno o meno che un’impresa investa in un’area di business caratterizzata da una forte valenza sociale ma meno redditizia rispetto ad altre nelle quali potrebbe crescere o diversificare il proprio portafoglio 249 , è utile proporre quattro ordini di considerazioni. - In primo luogo, l’innovazione che l’impresa è in grado di sviluppare per rendere sostenibile nel tempo l’operatività in un mercato caratterizzato da difficoltà di accesso ne determina altresì la redditività. In altri termini, si può argomentare che il livello di innovazione talora necessario per operare in economicità in certi mercati normalmente trascurati dai Si veda supra il § 3.2.6, dedicato alle “imprese-missione”. “Successful pursuit of low-income markets requires MNCs to fundamental rethink their business models”. London e Hart, 2004, p. 376. 248 Sul tema dell’imprenditorialità sociale si vedano, per esempio, Seelos e Mair (2005), Seelos et al. (2006) in Mair et al. (Eds.), Perrini (a cura di), 2007. 249 Su questo punto alcune considerazioni illuminanti sono contenute in Margolis and Walsh, 2003, op. cit., sulle quali si tornerà infra al § 4.5.2. 246
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concorrenti è tale da rendere inattendibile qualunque ipotesi formulata ex ante e in astratto – ossia senza fare riferimento al modo con il quale una specifica impresa vi entra e decide di operarvi – circa la redditività potenziale e quindi l’attrattività di quel mercato. Non vi sono regole del gioco predefinite, né modelli di business già testati con successo: è l’impresa che, per prima, decide di entrarvi che mette a punto, sperimenta, affina ed eventualmente corregge il suo modo di essere presente e di operare. Dalla qualità e dalla velocità di tale processo di apprendimento dipenderanno, in ultima analisi, sia la redditività, sia il numero di potenziali clienti che avranno effettivamente la possibilità di accedere al prodotto. In secondo luogo, è stato accertato che in molti di questi mercati è possibile conseguire livelli di redditività interessanti, ma solo dopo periodi di tempo relativamente lunghi. Sono i tempi necessari per conoscere e comprendere contesti sociali spesso diversi da quelli nei quali un’impresa è solita operare, per farsi conoscere e accettare, per mettere a punto e sperimentare una formula imprenditoriale adatta. Tempi lunghi sono necessari, soprattutto, per sviluppare risorse e competenze ad hoc (Seelos e Mair, 2007): il contenimento dei tempi per produrle causerebbe, infatti, quelle che Dierickx e Cool (1989) definiscono diseconomie di compressione temporale 250 . E’ questo, per esempio, il caso degli impianti di trasformazione del plasma in emoderivati nei Paesi in via di sviluppo: il presidente e amministratore delegato di Kedrion 251 ha in proposito dichiarato che molti di questi Paesi offrono prospettive interessanti, ma che occorrono alcuni anni anche solo per arrivare a break even. In questi casi, quindi, un orientamento alla redditività di lungo periodo costituisce una precondizione per operare con successo nei mercati poveri. Ancora, come osservano Prahalad e Hammond (2002), la metrica con la quale si deve misurare la redditività sui mercati “alla base della piramide” dev’essere diversa da quella utilizzata nei mercati tradizionali 252 . Ciò significa guardare non tanto ai margini unitari, normalmente assai contenuti, quanto all’efficienza nell’utilizzo del capitale. In altri termini, mentre nel caso in cui la RSI sia una leva di
250 “Building new resources and capabilities, as has been suggested by BOP (bottom of the pyramid, n.d.r.) research, is challenged by time compression diseconomies (Dierickx e Cool, 1989), which push the point of expected value creation further into the future”. Seelos e Mair, 2007, p. 52. 251 Il caso della Kedrion è stato oggetto di analisi supra nei §§ 3.2.3, 3.2.4 e 3.2.5. 252 “In terms of finance, to operate successfully in BOP (bottom of the pyramid, n.d.r.) markets, managers must also rethink their business metrics – specifically, the traditional focus on high gross margins. In developing markets, the profit margin on individual units will always be low. What really counts is capital efficiency – getting the highest possible returns on capital employed (ROCE).” Prahalad e Hammond, 2002, op. cit., p. 53.
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differenziazione la redditività del capitale cresce per lo più grazie a margini unitari – e dunque a una redditività delle vendite – più elevati, nel caso in cui ci si rivolga alle fasce di popolazione più povere è necessario puntare soprattutto alla rotazione del capitale investito attraverso il contenimento del circolante, l’esternalizzazione estensiva delle attività manifatturiere a livello locale, l’utilizzo intensivo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Si tratta, a ben guardare, di una differenza nella composizione e nel modo di pervenire alla redditività: non viene messa in discussione la redditività come uno degli elementi-cardine della performance dell’impresa 253 . Infine, occorre in ogni caso tenere presenti e attentamente stimare gli effetti della “fertilizzazione incrociata” (cross fertilization) tra l’operare nei mercati tradizionali e quelli caratterizzati da problemi di accesso. Si tratta, in sostanza, di sinergie che si manifestano nella possibilità di godere di vantaggi economici in un tipo di mercato grazie al fatto di operare e di aver accumulato esperienza nell’altro. Da una parte, le risorse e le competenze – tecnologiche, produttive, distributive, logistiche, ecc. – sviluppate nei mercati tradizionali, per quanto non sufficienti, si rivelano spesso fondamentali per entrare e operare con successo nei Paesi e nei mercati poveri (Wright et al., 2005). Dall’altra, le soluzioni innovative sperimentate sui mercati poveri per contenere i costi possono essere talora sfruttate anche nei mercati tradizionali, con conseguenti significativi recuperi di efficienza e di redditività anche in questi ultimi 254 . La possibilità di conseguire sinergie invita, ad evidenza, a guardare all’impresa in un’ottica sistemica, ossia alle complesse interrelazioni che connettono fra loro parti anche dotate di un certo grado di autonomia. Da ultimo occorre considerare che i Paesi poveri possono a un certo punto incamminarsi con successo su un percorso di sviluppo – è questo il caso, in particolare, della Cina e dell’India – e quindi i loro mercati, o segmenti di mercato, possono diventare attrattivi in una prospettiva temporale più o meno lunga. Rimane sempre, però, un “low end” povero del mercato, che è in qualche misura trascurato dagli incumbent e che può diventare interessante se accostato in modo innovativo sotto il profilo imprenditoriale.
“Company performance is measured by financial metrics, and this is no different in BOP (bottom of the pyramid, n.d.r.) markets”. Seelos e Mair, op. cit., 2007, p. 51. 254 “The competitive necessity of maintaining a low cost structure in these areas can push companies to discover creative ways to configure their products, finances, and supply chains to enhance productivity. And these discoveries can often be incorporated back into their existing operations in developed markets”. Prahalad e Hammond, 2002, op. cit., p. 52. 253
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b) La RSI può favorire l’accesso dell’impresa a risorse di valore, rare, difficili da imitare 255 (Branco e Rodrigues, 2006). In questo caso la RSI non è – o comunque non lo è necessariamente – parte integrante della value proposition al cliente, ma facilita l’accesso a risorse e competenze in grado di migliorare la posizione dell’impresa nel contesto competitivo (o nei contesti competitivi) nei quali opera. Senza pretesa di farne una rassegna esaustiva, si presentano di seguito i tipi di risorse alle quali un’impresa, sulla base della letteratura esistente nonché dell’analisi di alcuni casi concreti, può avere più facilmente accesso grazie al suo operare socialmente responsabile, nonché i principali meccanismi esplicativi della relazione fra RSI e accesso. – Le risorse umane e le competenze professionali. Mentre le risorse tangibili sono tipicamente imitabili e pertanto è relativamente difficile che siano fonte di vantaggio competitivo sostenibile, le risorse umane sono spesso caratterizzate da scarsità, elevata specializzazione e conoscenza tacita, il che le rende difficili da imitare 256 e quindi utili ai fini della costruzione o del rafforzamento del vantaggio competitivo (Coff, 1997) 257 . E’ ragionevole ipotizzare che le imprese socialmente responsabili siano maggiormente in grado di attrarre, trattenere, motivare i collaboratori più validi 258 . Ciò avviene non solo e non necessariamente nei casi in cui un’impresa adotti delle politiche di gestione delle risorse umane particolarmente attente e illuminate (Pfeffer, 1994, 1998, O’Reilly e Pfeffer, 2000, Coda, 2004b), ma anche quando eccelle sul piano della responsabilità sociale in altri ambiti e nei confronti di altri stakeholder. O, ancor più, quando la RSI è così radicata nella strategia da rendere quest’ultima evocatrice di un sistema di valori e di una cultura aziendale forte e positiva, in grado di contribuire efficacemente alla competitività e alla redditività di lungo periodo, ma anche al servizio di una missione percepita come positiva. Si tratta, in altri termini, di quelle che Coda (2004a) definisce “strategie lungimiranti (…), 255 Vale la pena ricordare come, nella prospettiva della resource-based view (Wernerfelt, 1984, Barney, 1991), non tutte le risorse, ma solo quelle caratterizzate da elevato valore, rarità e scarsa imitabilità possono contribuire alla costruzione o al rafforzamento del vantaggio competitivo. 256 Dall’esame della letteratura sulla resource-based view si evince che le risorse sono difficili da imitare quando: sono “path dependent”, ossia hanno una storia passata che si lega indissolubilmente a quella dell’impresa nella quale si sono sviluppate; presentano ambiguità causale; sono socialmente complesse, ossia, come nel caso della reputazione o della cultura d’impresa, sono difficili da modificare nel breve termine (Barney, 1999, Bowman e Ambrosini, 2003, Branco e Rodrigues, 2006). 257 “Human assets are often hard to imitate due to scarcity, specialization, and tacit knowledge”. Coff, 1997, p. 374. 258 In letteratura vi è chi osserva che la RSI può contribuire al vantaggio competitivo anche attraverso la riduzione del costo del lavoro, grazie al più basso livello di turnover del personale, a sua volta reso possibile da relazioni di lavoro basate sulla fiducia (Greening e Turban, 2000).
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indirizzate a creare valore per tutti gli stakeholder e perciò capaci di sprigionare forza coesiva” 259 . Va da sé che le stesse relazioni di causaeffetto che spiegano la capacità di attrarre e trattenere le migliori competenze professionali spiegano anche perché nelle imprese socialmente responsabili i collaboratori tendano a dare il meglio di sé in termini di impegno, efficienza, produttività. Il capitale. Premesso che, in quanto risorsa scarsa, il capitale può concorrere alla costruzione o al rafforzamento del vantaggio competitivo, si tratta di valutare se e come la RSI possa facilitarvi l’accesso da parte dell’impresa. In altri termini, l’interrogativo di ricerca è se e a quali condizioni un incremento del livello di responsabilità sociale possa generare un incremento del valore delle azioni, ovvero una diminuzione del costo del capitale di rischio, a parità di altre condizioni quali la redditività dell’impresa e la sua crescita attesa. Sulla base della vasta letteratura esistente in materia di finanza, perché ciò si verifichi sarebbe necessario che un incremento del livello di RSI produca un aumento dei flussi di cassa futuri attesi per gli azionisti (Copeland, Murrin e Koller, 1994). Mackey et al. (2007), in un recente lavoro, affermano invece che un aumento della RSI, anche se conduce a una diminuzione dei flussi di cassa attesi, è in grado di produrre un incremento del valore delle azioni se e nella misura in cui la domanda di RSI da parte degli investitori è superiore all’offerta. Altri contributi della letteratura postulano, a contrariis, come le azioni socialmente irresponsabili accrescano i costi espliciti – in primis quello del capitale di prestito – che l’impresa deve sostenere (Waddock e Graves, 1997). Si può dunque affermare che il segno della relazione fra RSI e accesso al capitale dipende dalla domanda di RSI da parte degli investitori, la quale, a sua volta, dipende da due fattori: la riduzione del livello di rischio d’impresa – legale, reputazionale e via dicendo – associato a un più elevato livello di RSI; una preferenza individuale, connessa per lo più a motivi di ordine valoriale, nei confronti delle imprese socialmente responsabili, che induce a privilegiare queste ultime nelle scelte di allocazione e impiego del capitale. Consenso e “capitale sociale” (Adler e Kwon, 2002). Una tale risorsa, che in linea di principio può e deve essere ottenuta in varia misura da tutti gli stakeholder, è sovente associata al rapporto con le comunità locali, intese nei loro diversi profili sociali e istituzionali. Agire in modo socialmente responsabile, soprattutto attraverso politiche di “cittadinanza sociale” (Gardberg e Fombrun, 2006), crea localmente consenso intorno all’impresa, il che ne facilita l’integrazione nei contesti
259 Coda V., “Etica e Gestione delle Risorse Umane”, presentazione svolta alla conferenza internazionale Economy, Society & Justice. Free Markets: Means or End?, USI, Università della Svizzera Italiana, Lugano, 5-6 febbraio 2004.
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locali oltre che il conseguimento delle autorizzazioni necessarie a insediarsi e a operare nei diversi territori. Ciò è particolarmente importante per le imprese che si espandono geograficamente entrando in nuovi Paesi e, ancor più, per quelle che vi insediano attività o impianti ai quali si associano normalmente timori di impatti negativi sull’ambiente. Fiducia e reputazione. Si tratta di due fattori la cui importanza ai fini del conseguimento del vantaggio competitivo deriva dal fatto che non possono essere acquisiti sul “mercato dei fattori strategici” (Dierickx e Cool, 1989, Barney, 1986), ma devono essere costruiti nel corso del tempo attraverso una serie di investimenti. Fiducia e reputazione sono “alimentate” dalla RSI passata e concorrono a determinare come gli stakeholder reagiscano di fronte a nuove azioni e iniziative ispirate alla RSI 260 . La reputazione, infatti, è definita come “la rappresentazione collettiva delle azioni passate di un’impresa e delle sue prospettive future, che descrive come i fornitori delle risorse-chiave interpretano le iniziative di un’impresa e valutano la sua capacità di offrire risultati di valore” (Fombrun, 2001: p. 293). Si tratta, dunque, di una risorsa intangibile (Fombrun, 1996) il cui valore ai fini del vantaggio competitivo deriva non solo dalla difficoltà di imitazione e dalla impossibilità di acquisizione sul mercato, ma anche dal fatto che è funzionale al conseguimento delle altre risorse-chiave di cui l’impresa ha bisogno dai diversi “fornitori”, oltre che per essere apprezzata dagli stessi clienti.
Vi è infine una terza relazione che connette la “socialità” al vantaggio competitivo. In questo caso la “socialità” è intesa come coesione sociale, ossia una variabile-stock, anziché come RSI, che può essere invece rappresentata come variabile-flusso. L’ipotesi qui proposta è che un elevato livello di coesione sociale faciliti l’adozione di quelle strategie che mirano al conseguimento o al recupero del vantaggio competitivo richiedendo agli stakeholder dei sacrifici o dei trade-off. Non sono rari, infatti, i casi in cui il conseguimento di un vantaggio competitivo sostenibile non può prescindere da interventi variamente incisivi sulla formula imprenditoriale, al limite di ristrutturazione aziendale, al fine di raggiungere adeguati livelli di efficienza e di produttività. Tali iniziative implicano, il più delle volte, rilevanti tagli ai costi – per esempio attraverso la chiusura o il trasferimento di impianti produttivi in Paesi o aree a più basso costo del lavoro – che, a loro volta, impongono sacrifici importanti a una o più categorie di stakeholder, in primis i prestatori di lavoro. Ebbene, in tali casi, un elevato livello di coesione degli stakeholder, che è normalmente frutto di decisioni e azioni passate improntate alla responsabilità sociale, comporta spesso una maggiore disponibilità degli stakeholder stessi ad accettare tali sacrifici, in 260 Fiducia e reputazione sono, in altri termini, tipiche variabili-stock a lento accumulo nel tempo, frutto di comportamenti coerenti tesi a costruire su di esse e attenti a respingere la tentazione di approfittarsene. Cfr. Coda (1990).
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quanto confidano che il management chiamato a gestire il processo di ristrutturazione saprà e vorrà farlo in modo responsabile. L’aspettativa è che esso presterà la massima attenzione a contenere i sacrifici e che, nel contempo, quelli necessari saranno sopportati equamente dai diversi stakeholder, così come saranno equamente ripartiti i benefici futuri una volta che il processo sarà portato a termine con successo. In altri termini, il track record di RSI alimenta la fiducia e la coesione sociale, la quale, a sua volta, comporta una maggiore “apertura di credito” da parte degli stakeholder nei confronti del management. Una tale apertura, infine, facilita il processo di ristrutturazione e ne aumenta le probabilità di successo. E’ opportuno, in conclusione di paragrafo, riflettere sulle condizioni che fanno sì che la “socialità”, intesa ora come RSI, ora come coesione sociale, impatti positivamente sul vantaggio competitivo. La prima condizione è che esistano dei segmenti sufficientemente ampi di domanda di RSI, sia da parte dei clienti (finali e intermedi), sia da parte dei fornitori di input. La domanda da parte dei clienti aumenta le possibilità che la RSI entri nella proposta di valore rivolta agli stessi clienti e quindi costituisca la base di un vantaggio competitivo di differenziazione. Deve cioè esserci un numero sufficientemente elevato, in rapporto alle dimensioni dell’impresa, di consumatori sensibili ai valori etico-sociali, oppure di clienti intermedi per i quali la reputazione o comunque l’affermazione sui rispettivi mercati di sbocco dipende in misura significativa dal fatto di acquisire i fattori produttivi da una filiera di imprese socialmente responsabili. Oppure, ancora, di clienti per i quali, a prescindere dalla sensibilità etico-sociale, gli attributi socialmente responsabili del prodotto o del processo produttivo sono fattori critici di successo 261 . Tale condizione deve valere anche sul mercato dei fattori produttivi, perché solo in tale ipotesi la RSI può realmente costituire una via d’accesso preferenziale. Ne è un esempio significativo quello sopra richiamato del capitale di rischio, nel senso che le imprese che migliorano la propria performance nella direzione della responsabilità sociale possono accedervi a costo inferiore se e nella misura in cui vi sono segmenti di investitori sensibili alla RSI non soddisfatti dall’offerta esistente di RSI (Mackey et al., 2007). Va da sé che l’esistenza di segmenti di domanda di RSI deve accompagnarsi all’adozione, da parte dell’impresa, di criteri di segmentazione dei mercati di sbocco e di approvvigionamento basati sulla RSI (Perrini e Minoja, 2008). Ancora, un siffatto impegno nell’identificazione e nello sfruttamento – talora persino nella creazione – di segmenti di mercato sensibili alla RSI dipende a sua volta dal commitment dell’impresa e dei suoi attori-chiave a integrare la RSI nella strategia, e quindi, in ultima analisi, dall’inclusione della “socialità” nella funzione-obiettivo dell’impresa stessa.
261 Si pensi, per esempio, al già citato caso di un modello di automobile particolarmente richiesto dagli utilizzatori per i consumi contenuti, caratteristica, quest’ultima, resa possibile da una progettazione attenta a ridurre al massimo le emissioni nocive nell’ambiente.
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La seconda condizione è che la RSI costituisca un mezzo efficace per rafforzare le barriere all’imitazione. In altri termini, la RSI genera – o quanto meno concorre a generare – un vantaggio competitivo sostenibile se essa rende più difficile per i concorrenti imitare la strategia. Ciò si verifica, ad esempio, se la RSI costituisce un fattore che aumenta la complessità strategica dell’impresa (Rivkin, 2000), oppure accresce l’ambiguità causale, nel senso che rende più difficile per i concorrenti ricostruire il tessuto di relazioni di causa-effetto alla base del successo competitivo. La terza, e più importante condizione, pone in primo piano il ruolo dell’innovazione e, più specificamente, il rapporto fra coesione sociale e innovazione. Tale tema è stato per altro già toccato in precedenza nel corso del presente lavoro 262 , ma, data la sua importanza, viene qui ripreso e sviluppato in maggiore dettaglio, per poi essere ulteriormente richiamato nel corso dell’analisi di due casi empirici nella parte successiva del presente capitolo. L’ipotesi che s’intende avanzare in questa sede è duplice: a) l’innovazione costituisce una condizione imprescindibile perché possano effettivamente realizzarsi le sinergie potenziali fra socialità e competitività, ossia perché la prima possa alimentare il vantaggio competitivo sostenibile e viceversa; b) la relazione fra coesione sociale e innovazione non è lineare, ma assume una forma a “U rovesciata” 263 . L’innovazione costituisce “motore” e “segno di riconoscimento” al tempo stesso dello sforzo di integrazione della RSI nella strategia: la messa a punto di strategie che permettano all’impresa di compiere progressi significativi nella duplice direzione di soddisfare i clienti e gli altri stakeholder in misura maggiore rispetto ai concorrenti e, ancor più, di far sì che i due obiettivi si alimentino vicendevolmente richiede infatti una forte propensione a innovare sotto i molteplici profili del modello di business, della tecnologia, dei prodotti, dei processi produttivi, dei sistemi operativi e via dicendo. Prima ancora, dei modelli mentali del management 264 . Il perseguimento di un duplice ordine di obiettivi, competitivi e sociali, impone infatti ai manager abituati ad agire nell’interesse esclusivo o prioritario degli azionisti un cambiamento di prospettiva spesso radicale, che, almeno in prima battuta, li pone di fronte a un più elevato livello di complessità da gestire. Una volta entrati in tale nuovo “ordine di idee”, essi devono rendersi conto che innovazione e creatività sono necessari non solo per gestire tale complessità, ma anche – e qui sta il “passaggio” decisivo verso una reale ed efficace integrazione della RSI nella strategia – per trasformare in opportunità quello che appariva soprattutto un problema o un vincolo. Ma quali sono le condizioni o, meglio, i fattori propulsivi o, al contrario, inibitori Si veda, in particolare, infra il § 3.2.2, laddove si è avanzata l’ipotesi che un “eccesso” di coesione sociale possa inibire la propensione all’innovazione e al cambiamento, in quanto riduce l’attitudine a percepirne la necessità e genera inerzia e resistenza al cambiamento stesso. 263 Tale ipotesi è stata avanzata in Coda V., Minoja M., Zollo M., “Towards an integrated model of firm strategy: stakeholder cohesion and market competitiveness”, paper presentato alla conferenza annuale dell’EURAM (European Academy of Management), Ljubljana, 14-17 maggio 2008. 264 A ben guardare, la stessa propensione a innovare può essere vista come un “modello mentale”. 262
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dell’innovazione e della creatività? L’ipotesi è che la spinta venga dalla percezione di un “moderato” divario fra una situazione desiderata e una situazione effettiva, sia sul fronte del vantaggio competitivo, sia su quello della soddisfazione e della coesione degli stakeholder. La propensione a innovare, indotta dalla percezione di tale gap, è a sua volta orientata a colmarlo o quanto meno a ridurlo (figura 4.2). Non ci si sofferma, in questa sede, tanto sul gap sul fronte competitivo, quanto su quello relativo alla coesione sociale. In presenza di un divario molto ampio fra coesione sociale desiderata e attesa – forte conflittualità sindacale, percezione diffusa di scarsa sensibilità ai problemi di ordine sociale, accuse di danni all’ambiente, ecc. –, è ragionevole ipotizzare che il management difficilmente possa ottenere dagli stakeholder il consenso e il supporto necessari all’innovazione e al cambiamento. Inoltre, potrebbero esservi conflitti fra gli stessi stakeholder in merito alla direzione di marcia da assumere o appoggiare. In questi casi, vi è non di rado il rischio che l’impresa possa avviarsi in una spirale di crisi senza ritorno, soprattutto se alle forti tensioni di ordine sociale si accompagnano tensioni anche sul fronte competitivo e reddituale. L’inversione di rotta richiede un tempo spesso lungo perché il top management possa prima prendere piena coscienza della situazione, comprenderne le cause, avviare le azioni correttive e perché gli stakeholder percepiscano e reputino credibile il cambiamento in atto. Va da sé che un tale percorso può avviarsi e concludersi con successo se il management conserva ancora un qualche “residuo di legittimità”, che in genere poggia sui buoni risultati sul fronte economico e competitivo 265 . Nei casi più gravi, come nelle imprese protagoniste di “scandali finanziari”, il salvataggio dell’impresa, quando è possibile, avviene in modo traumatico e passa inesorabilmente attraverso un cambio radicale del management e spesso della proprietà. All’opposto, nei casi di coesione sociale molto elevata 266 , e quindi di gap basso o nullo, possono essere facilitate, come si è detto in precedenza, le strategie che implicano un qualche sacrificio o trade-off per gli stakeholder, finalizzate a recuperare efficienza e produttività. Quando, invece, si è in presenza di risultati reddituali e competitivi particolarmente positivi, la spinta all’innovazione e al cambiamento può essere inibita dall’elevato livello di soddisfazione e di apprezzamento diffusi nei confronti dell’impresa e del suo management. All’origine di tale “inibizione” vi sono, come si è osservato nel 265 In tale fattispecie potrebbe rientrare il già citato caso della Nike, che a metà degli anni Novanta è stata investita da uno scandalo per le presunte violazioni dei diritti dei lavoratori negli stabilimenti dei terzisti nei Paesi in via di sviluppo. Cfr. supra § 3.2.2. 266 E’ interessante l’osservazione di Barnett (2007) secondo la quale un’impresa può migliorare le relazioni con gli stakeholder e quindi il livello di coesione sociale anche adottando tattiche di influenza diretta, che si distinguono dalla RSI per il fatto di non essere orientate al benessere sociale. Si tratta, in ultima analisi, di iniziative finalizzate a una sorta di “captatio benevolentiae” degli stakeholder, includendo “political lobbying and campaign donations, the establishment of contractual relationships, and other means of directly influencing or ‘capturing’ regulators, legislators, nongovernmental organizations (NGOs), and other stakeholders who can affect the discretion and performance of a firm.” (op. cit., 2007, p. 799).
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precedente capitolo, minori stimoli al monitoraggio attento e sistematico dell’ambiente, il che rende difficile riconoscere la necessità di innovazione e di cambiamento, e fattori inerziali che ne rendono comunque difficile la realizzazione. Il rischio, pertanto, è che il vantaggio competitivo si eroda rapidamente, soprattutto nel caso di ambiente dinamico o discontinuo (Eisenhardt e Brown, 1997). Figura 4.2
Innovazione, vantaggio competitivo e coesione sociale
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Vantaggio competitivo effettivo
Gap di vantaggio competitivo
Vantaggio competitivo perseguito
Coesione sociale effettiva
Propensione all’innovazione
Variabile-flusso
Gap di coesione sociale
Coesione sociale desiderata
Variabile-stock
Quando, invece, vi è un gap di coesione sociale di ampiezza moderata, si produce il massimo stimolo all’innovazione 267 . Il management è continuamente “pungolato” a migliorare il livello di soddisfazione degli stakeholder e, nel contempo, gode della credibilità e della fiducia necessari per provvedervi. I risultati che esso produce sono poi sistematicamente valutati in modo obiettivo e corretto dagli stessi stakeholder. Un tale contesto produce un “sano” livello di tensione, che a sua volta fornisce adeguati incentivi a cogliere o a creare opportunità di innovazione o di cambiamento. In alcuni settori il divario di coesione sociale non è mai completamente colmato. Ciò avviene soprattutto nei settori in cui l’attività dell’impresa è percepita come intrinsecamente rischiosa 267 Coda e Mollona (2002), sia pure senza fare specifico riferimento al ruolo della coesione sociale, sottolineano la necessità di un certo livello di tensione come fonte di stimolo al cambiamento e all’innovazione: “L’innovazione, insomma, non può prodursi né in una situazione e contesti organizzativi di equilibrio confortevole, privi di stimoli e tensione a produrre innovazioni che non siano orientate a mantenere lo status quo, né in ambienti caotici in cui si hanno forti tensioni al cambiamento e all’innovazione, ma che non riescono a canalizzarsi in modo costruttivo” (p. 15).
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sotto il profilo ambientale 268 , oppure, all’opposto, in quelli nei quali la valenza sociale del prodotto spinge diversi stakeholder – come alcune organizzazioni non governative – a chiedere alle imprese di impegnarsi per migliorare l’accesso al prodotto anche da parte delle fasce di popolazioni meno abbienti. E’ interessante osservare che la possibilità di un impatto negativo della coesione sociale sul vantaggio competitivo, che si manifesta inibendo la spinta all’innovazione e al cambiamento, rende omeostatico il modello rappresentato in figura 4.2. Ciò significa che esso non segue una dinamica sempre accrescitiva, secondo la quale un rafforzamento del vantaggio competitivo aumenta necessariamente il livello di coesione sociale e viceversa, ma può tendere verso od oscillare intorno a posizioni di equilibrio 269 .
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4.2.2 L’impatto del vantaggio competitivo sulla “socialità” Il vantaggio competitivo, inteso come il conseguimento di tassi di rendimento superiori rispetto alla media dei concorrenti, può influire positivamente sulla RSI e sulla coesione sociale soprattutto in tre modi: a) attraverso il più elevato volume di risorse finanziarie disponibili per essere impiegate in RSI; b) mediante l’utilizzo e la valorizzazione a fini sociali delle risorse e delle competenze di valore che sono alla base dello stesso vantaggio competitivo; c) attraverso il senso di identità e di appartenenza da parte dei dipendenti e, in qualche misura, degli stakeholder tutti nei confronti di un’azienda “di successo”. a) La maggiore disponibilità di risorse finanziarie da impiegare in attività di RSI costituisce una delle spiegazioni “classiche” dell’impatto positivo della CFP sulla CSP. Un’impresa che consegue buone performance economiche, infatti, ha a disposizione risorse finanziarie eccedenti (slack resources) da impiegare in donazioni o in altre iniziative a favore degli stakeholder. Una tale impostazione, per altro, appare limitativa, nel senso che si fonda sull’assunto implicito che la RSI costituisca un costo e quindi un sacrificio per gli azionisti, che rinunciano a una pur piccola quota di utili. Se ci si pone invece nell’ottica dell’integrazione della RSI nella strategia, il vantaggio competitivo e la maggiore disponibilità di risorse che ne consegue implicano per l’impresa la possibilità di effettuare ulteriori investimenti e di esplorare nuove soluzioni capaci di coniugare dinamicamente e sinergicamente competitività e socialità. Aumentano le possibilità, in concreto, di investire nella ricerca e sviluppo di tecnologie capaci di migliorare la produttività e, nel contempo, la compatibilità ambientale, di valorizzare i dipendenti con iniziative di formazione che ne accrescano il livello di specializzazione e via dicendo. b) Un vantaggio competitivo sostenibile si fonda, nella prospettiva della resource-based view, su un insieme di risorse e competenze di valore. Tali risorse e competenze possono essere impiegate anche per generare un impatto sociale assai più incisivo proprio in quanto non è genericamente legato alla 268 Un caso interessante sotto questo profilo è quello della Solvay, che sarà esaminato in seguito. 269 Su questo tema si veda nuovamente Coda V., Minoja M., Zollo M., op. cit., 2008.
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disponibilità di risorse finanziarie eccedenti, ma è, per così dire, idiosincratico, ossia fondato su ciò che è specifico di una determinata impresa, su ciò che di meglio essa sa fare, in una parola, sul suo “DNA”. E’ questo il caso, per esempio, di Kedrion 270 , che potrà contribuire a migliorare sensibilmente l’accesso ai plasmaderivati da parte delle popolazioni di alcuni Paesi in via di sviluppo proprio grazie alle competenze di valore sviluppate in Italia e in altri Paesi Occidentali, mettendo a disposizione il proprio know-how tecnologico, di conservazione e lavorazione del plasma, di logistica. Tale radicamento della RSI nel sistema di risorse e competenze conferisce all’impresa un ruolo proattivo e non reattivo nel dare risposta alle istanze degli stakeholder (Porter e Kramer, 2006) ed è in grado di “fare la differenza” in termini di impatto della RSI. Diventa possibile, in altri termini, creare valore condiviso 271 , nel senso che produce benefici sia per la società, sia per la stessa impresa. La sintesi più efficace del valore e delle opportunità offerte dallo sfruttamento di risorse e competenze come anello di collegamento fra competitività e socialità è compiuta da Porter e Kramer, i quali riconoscono che quanto più una problematica sociale è strettamente collegata al business di un’impresa, tanto maggiore è l’opportunità di far leva sulle risorse e sulle capacità dell’impresa stessa e di recare benefici alla società 272 . Il radicamento nel sistema di risorse e competenze è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per l’integrazione della RSI nella strategia: tale radicamento, infatti, potrebbe essere funzionale anche a un’attività filantropica più efficace e incisiva (Porter e Kramer, 2002), che però non si iscrive necessariamente in una valida sintesi socio-competitiva. Un vantaggio competitivo sostenibile può produrre anche un terzo impatto sulla coesione sociale, considerato soprattutto nella letteratura sulle imprese a cultura forte e coesiva e sull’eccellenza imprenditoriale. L’affermazione di un’azienda nell’arena competitiva nella quale ha deciso di misurarsi favorisce, a parità di altre condizioni, la nascita o il rafforzamento di un senso di identità e di appartenenza da parte dei dipendenti e, in qualche misura, degli stakeholder tutti. E’ ragionevole ipotizzare che tutti avvertano di aver in qualche misura contribuito a tale successo e, nel contempo, lo vivano come una condizione promettente per ottenerne benefici futuri. Ciò non dipende solamente dalla maggiore disponibilità di risorse finanziarie, ma anche dal fatto che quel successo poggia, se è sostenibile, su una unicità che è fonte di identificazione e di orgoglio. Ancora, lavorare per – o comunque intrattenere relazioni con – un’impresa di successo e “unica” costituisce di per sé un vantaggio per gli stakeholder: è fonte di prestigio per i dipendenti, rappresenta una “referenza” per
Il caso Kedrion è stato trattato in più parti del capitolo 3. “The essential test that should guide CSR is not whether a cause is worthy but whether it presents an opportunity to create shared value – that is, a meaningful benefit for society that is also valuable to the business”. Porter e Kramer, 2006, p. 84. 272 “(…) the more closely tied a social issue is to the company business, the greater the opportunity to leverage the firm’s resources and capabilities, and benefit society”. Porter e Kramer, 2006: 89. 270 271
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le aziende fornitrici, può costituire elemento di rassicurazione per gli stessi clienti in merito alla qualità e all’affidabilità del bene o servizio che acquistano. L’impatto positivo del vantaggio competitivo sulla RSI e sulla coesione sociale è tutt’altro che automatico. La sua effettiva e piena manifestazione dipende, in ultima analisi, dalla disponibilità degli attori-chiave dell’impresa a “dividere la torta”, e quindi anche gli aumenti di dimensioni che essa subisce in concomitanza con l’incremento di competitività, in modo tale che la ripartizione del valore creato sia percepita come equa dagli stakeholder. Ciò si può manifestare in forme varie – reinvestimento di profitti, disponibilità a sostenere costi per la formazione del personale, avvio di progetti tesi a promuovere l’accesso ai prodotti da parte delle fasce di popolazione “alla base della piramide”, investimenti nella ricerca e nello sviluppo di processi produttivi sempre più compatibili con l’ambiente, e via dicendo – le quali, se da un lato producono o produrranno in futuro benefici concreti di tipo sociale o ambientale, dall’altro segnalano il commitment del vertice a ripartire equamente il valore creato fra una platea ampia di soggetti, in ossequio a una visione dell’impresa come bene sociale. Oppure, forse meglio, l’impatto positivo del vantaggio competitivo sulla RSI e sulla coesione sociale dipende dalla funzionalità percepita della strategia a uno sviluppo duraturo, ovvero dalla coerenza con una strategia lungimirante di crescita redditizia nell’interesse di tutti. Tale ipotesi si pone per altro in contrasto con quella di recente proposta da Barnett (2007), secondo il quale performance economiche molto elevate comportano di per se stesse un peggioramento delle relazioni con gli stakeholder, i quali tenderebbero a interpretare tali risultati come un segnale di scarsa propensione alla responsabilità sociale. A nulla varrebbero, secondo Barnett, eventuali iniziative di RSI, le quali anzi potrebbero rivelarsi controproducenti, dal momento che gli stakeholder le valuterebbero a priori insufficienti e inadeguate rispetto agli utili conseguiti e alle risorse finanziarie di cui l’impresa dispone 273 . Il limite implicito nell’impostazione di Barnett consiste nel fatto che egli considera come variabile indipendente la CFP, in buona sostanza l’entità dei profitti conseguiti, senza porsi il problema della loro qualità. In altri termini, sembra implicitamente assumere che profitti molto elevati siano, come tali, percepiti negativamente in termini di qualità. Nel presente paragrafo, invece, si fa riferimento a quei profitti che derivano da un vantaggio competitivo sostenibile. Non possono, pertanto, essere “per definizione” dei profitti da “mietitura”, intesa come assenza di investimenti e di innovazione, e neppure da sfruttamento, ossia ottenuti a scapito delle legittime istanze di una o più categorie di stakeholder. Va da sé che, se così non fosse, l’ipotesi “pessimistica” di Barnett sarebbe condivisibile. Un’ulteriore condizione, a ben guardare, dovrebbe verificarsi perché il vantaggio competitivo produca effettivamente un impatto positivo sulla coesione sociale: la focalizzazione su specifici stakeholder o su specifiche istanze sociali, “Anecdotal evidence suggests that if a firm does particularly well (CFP), its efforts at doing good (CSR) may be perceived negatively”. Barnett, 2007, op. cit., p. 808. 273
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al fine di evitare dispersioni di risorse e il loro impiego in ambiti nei quali non si dispone di conoscenze e competenze adeguate (Porter e Kramer, 2006) 274 . Ciò non significa affatto trascurare le attese di alcuni stakeholder a vantaggio di altri, né, tanto meno, ammettere la possibilità di taluni comportamenti antietici: si tratta, invece, di definire con cura in quali ambiti sociali l’impresa è in grado di produrre un impatto positivo differenziale rispetto ai concorrenti o, se si preferisce, a servizio di quale “missione” essa intende operare. Nella figura 4.3 sono sinteticamente rappresentate le relazioni sinergiche che collegano socialità e vantaggio competitivo nelle due direzioni rispettivamente illustrate nei §§ 4.2.1 e 4.2.2.
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Figura 4.3
Le relazioni sinergiche tra vantaggio competitivo e socialità
RSI nella value proposition al cliente
RSI come “chiave di accesso” a risorse di valore Coesione sociale come condizione per accettare sacrifici e trade-off
Vantaggio competitivo
“Socialità”
Risorse finanziarie da investire in RSI
Risorse e competenze di valore da valorizzare anche a fini sociali
Vantaggio competitivo e “unicità” come fonte di orgoglio e identificazione per gli stakeholder
4.2.3 Un caso emblematico di relazioni sinergiche fra vantaggio competitivo e socialità: SABAF s.p.a. Sabaf è un’impresa a proprietà familiare quotata in Borsa. Situata a Ospitaletto, in provincia di Brescia, produce componenti per cucine a gas – valvole, bruciatori e rubinetti – che vende ai produttori di cucine per il 50% in Italia e per il 50% nei mercati di tutti e cinque i continenti, realizzando un fatturato pari a circa 158 milioni di euro a livello consolidato nel 2007. Dà “Strategy is always about making choices, and success in corporate social responsibility is no different. It is about choosing which social issues to focus on. (…) Companies are called on to address hundreds of social issues, but only a few represent opportunities to make a real difference to society or to confer a competitive advantage”. Porter e Kramer, op. cit., 2006, p. 91. 274
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lavoro a circa 600 dipendenti. Sulla base della quotazione del titolo alla fine del 2007, ha una capitalizzazione che si aggira intorno ai 250 milioni di euro. Consegue performance positive sotto i profili competitivo, reddituale e sociale. Sul piano competitivo, è leader a livello internazionale con il 12% di quota di mercato mondiale nel proprio segmento. Nel corso del decennio 1996 – 2005 ha conseguito un tasso medio annuo di crescita dei ricavi del 14,1% e dell’utile netto del 18,6%. Nel 2006 l’utile netto è cresciuto ulteriormente da 14 a 16 milioni di euro, dato confermato nell’esercizio 2007. Il reddito operativo si mantiene intorno al 20% del fatturato. Il prezzo dell’azione è a sua volta cresciuto dai 6,97 euro al momento della quotazione, avvenuta nel 1998, agli attuali 22 euro circa. La performance sociale è documentata dal secondo rating più elevato attribuito a Sabaf dalla più importante agenzia di rating sociale italiana all’interno di un campione di 91 imprese italiane e di 145 imprese quotate del Sud Europa. Inoltre, l’azienda bresciana ha conseguito la certificazione SA8000 (Social Accountability 8000) per la prima volta nel 2005, al termine di un percorso iniziato nel 1993 con il conseguimento della prima certificazione ISO 9001. Sempre nel 2005 ha pubblicato la prima edizione dell’Annual Report integrato, che racchiude in un unico documento sia il bilancio e le altre informazioni obbligatorie di carattere economico e finanziario, sia le performance sociali e ambientali. La responsabilità sociale di Sabaf 275 si concentra sulla tutela ambientale, sulla sicurezza dei prodotti, sull’adozione di politiche e di iniziative “illuminate” nei confronti dei dipendenti, che vengono replicate negli stabilimenti che l’azienda bresciana ha avviato in altri Paesi. i) La concezione di RSI in Sabaf La concezione di RSI è esplicitata nei documenti ufficiali della Società, in primis l’Annual Report integrato, e traspare chiaramente dalle interviste agli attori-chiave. L’amministratore delegato Angelo Bettinzoli, entrato in azienda nel 1969, nella lettera agli azionisti e ai lettori con la quale si apre l’Annual Report del 2006 sottolinea come Sabaf punti a traguardi di lungo periodo: “per questo pensiamo alla riduzione dei consumi energetici, delle materie prime, al miglioramento della qualità globale. La competizione è una sfida di durata, non uno sprint di breve respiro. Non c’è domani se il guadagno dell’oggi non si accompagna alla capacità di progettare il futuro, non soltanto il nostro, ma quello dell’intera comunità cui ciascuna impresa deve fare riferimento”. La sostenibilità, l’orientamento al lungo periodo, l’impresa come “bene sociale” sono leit-motiv ricorrenti nelle interviste ai vertici dell’azienda.
Il caso Sabaf è oggetto di analisi nel paper di Perrini e Minoja “Strategizing corporate social responsibility: evidence from an Italian medium-sized, family-owned company”, pubblicato in Business Ethics: A European Review, 17(1), 2008. Al caso Sabaf si farà ulteriore riferimento infra, nel capitolo 5, dove ci si soffermerà sul ruolo della storia e delle esperienze personali dell’imprenditore, oltre che della corporate governance, come fattori propulsivi dell’integrazione della RSI nella strategia. 275
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“Non è concepibile una responsabilità sociale senza un modello di business sostenibile nel lungo periodo 276 . Per noi CSR significa sostenibilità nel medio – lungo periodo, oltre il profitto immediato” 277 . Giuseppe Saleri, settantaseienne Presidente e socio di maggioranza, osserva che in Sabaf “è l’impresa, non il denaro, al primo posto. Ciò significa dare priorità ai dipendenti e alle loro famiglie: se hai come obiettivo il denaro, non sarai mai un buon imprenditore. Ai miei figli dico sempre: a voi per ora non manca niente, e così sarà – penso – per molti anni. Quindi a me adesso interessano di più le 600 persone che hanno scelto di lavorare qui. Avrei gran dispiacere se sapessi che qualcuno di loro finisse sulla strada”. Una tale concezione di RSI è vissuta non in contrasto, ma, al contrario, come sinergica rispetto alla soddisfazione delle attese di redditività da parte degli investitori. Secondo il direttore finanziario, il mercato non inibisce, ma incentiva la RSI e l’orientamento alla redditività di lungo periodo: “L’impresa deve aprirsi al mercato. Difficilmente si vede l’impresa come un bene sociale, crocevia di interessi molteplici. E’ difficile che un’impresa diventi socialmente responsabile senza i vincoli e il pungolo del mercato. Avere la leadership mondiale in un certo segmento ci facilita nella CSR. Noi abbiamo una logica di sviluppo e continuiamo a investire: nessun analista ci ha obiettato che investendo di meno avremmo conseguito più profitti, ma tutti hanno sposato la nostra logica di sviluppo nel lungo periodo”. Da tale dichiarazione si desume, altresì, che Sabaf ha compiuto una scelta di posizionamento sul mercato borsistico, proponendosi soprattutto agli investitori con un orientamento al medio-lungo periodo. Se da un lato vi è consapevolezza che la RSI è funzionale alla competitività e viceversa, dall’altro dalle interviste effettuate emergono con chiarezza alcuni tratti di quelle che, nel capitolo precedente 278 , si sono definite motivazioni edoniche per la RSI (Lindenberg, 2001). La ricerca quasi ossessiva di soluzioni di processo e di prodotto sempre più compatibili con l’ambiente, la costante attenzione al benessere degli stakeholder in generale e dei collaboratori in particolare, oltre che la messa a punto di componenti sempre più confacenti ai fabbisogni e alle richieste dei produttori di cucine sembrano generare delle “emozioni positive”, che costituiscono fattori motivazionali di grande efficacia. Vale la pena di ricordare che questo tipo di motivazione per la RSI è normalmente presente laddove la socialità è inclusa nella funzione-obiettivo dell’impresa, condizione, quest’ultima, che concorre alla definizione stessa di RSI integrata nella strategia. L’Amministratore Delegato di Sabaf afferma infatti che “Noi siamo contro la mentalità di basso profilo, che non sollecita l’intelligenza emotiva: occorre sollecitare entusiasmo, meccanismi di condivisione. Il leader ha una responsabilità grande, perché proietta un progetto da irradiare in tutta la Dall’intervista all’Amministratore delegato Angelo Bettinzoli, 31 maggio 2006. Dall’intervista al dr. Alberto Bartoli, direttore amministrativo e finanziario nonché componente del Consiglio di Amministrazione, entrato in Sabaf nel 1993. 278 Si veda supra, § 3.2.5. 276
277
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struttura. (…) La responsabilità sociale è la corretta interpretazione di tutte le conoscenze che concorrono alla sostenibilità di lungo periodo. Non c’entra la filantropia, ma il mutuo riconoscimento dei diversi ruoli dei diversi attori. Occorre trovare un progetto che riesca a coagulare e a catalizzare le volontà, ad accendere l’intelligenza emotiva: per questo ci vogliono coerenza, attenzione, ma i benefici sono superiori ai costi. L’uomo non deve usare le braccia, ma solo la parte migliore della sua intelligenza, quella emotiva. Ciò che è funzionale al benessere dell’uomo è funzionale anche al risultato economico”. ii) La RSI nella proposta di valore al cliente Sabaf ha scelto di concentrarsi sui componenti per le cucine a gas, ritenute per diverse ragioni preferibili a quelle elettriche. Secondo gli esponenti dell’azienda, la cottura a gas è, in generale, ecologicamente migliore rispetto a quella elettrica, almeno se l’energia elettrica è ottenuta bruciando gas. Infatti, il livello di efficienza, espresso dal rapporto output / input, è del 20% nel caso delle cucine elettriche, almeno del 52% nel caso delle cucine a gas. L’ulteriore problema è che, qualora tutti cucinassero con cucine elettriche, vi sarebbero problemi dovuti al picco nei consumi di energia elettrica all’ora dei pasti. Ancora, gli incidenti dovuti a shock elettrici sono superiori a quelli dovuti a fughe di gas. La ricerca e lo sviluppo di prodotti che riducano le emissioni legate alla cottura e siano nel contempo più sicuri sono un elemento focale della RSI dell’azienda e, nel contempo, all’origine del suo vantaggio competitivo. I clienti produttori di cucine, infatti, sono normalmente disposti a riconoscere un price premium per i componenti di Sabaf, la quale, per altro, è alla costante ricerca di soluzioni in grado di migliorare le prestazioni e di contenere nel contempo i costi. “Per noi ambiente e natura sono uno stakeholder importante – sottolinea Bettinzoli – il punto è come ascoltare le istanze che vengono da tale stakeholder. Sabaf cerca di concepire prodotti che permettano di consumare meno gas e di emettere meno prodotti di combustione e che necessitino di meno energia per produrli. Noi guardiamo al bilancio energetico su tutto il ciclo produttivo”. Le istanze di tutela ambientali sono vissute come un incentivo costante al miglioramento e alla ricerca: “Siamo stati costretti a produrre un bruciatore di successo (per il quale Sabaf ha vinto il premio Intel, n.d.r.): cresce infatti la pressione sull’ambiente, che rende sempre più necessario adoperarsi per tutelarlo; ciò fa diffondere anche la percezione nelle coscienze”. L’azienda bresciana ha di recente studiato un bruciatore di nuova generazione (“serie 3”) che raggiunge il 65% di efficienza costando solo il 5% in più, permettendo un minore consumo di gas e minori emissioni di monossido di carbonio e di anidride carbonica. Inoltre, sta lavorando a una nuova generazione di rubinetti basati su una lega di alluminio, caratterizzati da un contenuto energetico assai inferiore 279 , un peso inferiore, minore quantitativo di materia prima. Inoltre, l’utilizzo dell’alluminio fa venire meno il problema dello stampaggio dell’ottone. I risparmi di costo resi possibili dal concorso di tali fattori vengono 279
Nel senso che serve meno energia per costruirli.
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in misura significativa ribaltati sui clienti in termini di minori prezzi dei componenti. Per Sabaf è il prodotto del futuro. Un problema avvertito da Sabaf riguarda la sensibilizzazione dell’utilizzatore finale, dal momento che i suoi clienti sono esclusivamente aziende industriali. Per questo motivo sta cercando clienti sensibili disposti a fare marketing sul consumatore enfatizzando il problema dei consumi e delle emissioni. La sensibilità di Sabaf alla responsabilità sociale è in quanto tale parte integrante della value proposition ai clienti che, per scelta o in quanto a loro volta obbligati dai propri clienti, intendono operare all’interno di filiere interamente composte da imprese socialmente responsabili. In tal senso la RSI costituisce un’opportunità di sviluppo e di crescita del fatturato. La commessa che l’azienda bresciana ha ottenuto da Whirlpool ne è un esempio significativo. La multinazionale americana ha stipulato un contratto quinquennale in esclusiva con Ikea per la fornitura di cucine: Ikea, azienda svedese particolarmente sensibile alla responsabilità sociale, impone ai suoi fornitori il rispetto di alcuni standard di RSI, che verifica puntualmente inviando ispettori, sia interni, sia indipendenti, a controllare le condizioni dei lavoratori negli stabilimenti dei propri fornitori. Whirlpool ha stipulato un contratto triennale in base al quale Sabaf fornisce bruciatori per tutte le cucine prodotte da Whirlpool in Europa, nei due stabilimenti situati rispettivamente in Italia e in Polonia 280 . I vertici di Sabaf sono consapevoli 281 che la RSI, che si concretizza nella ricerca di processi e di prodotti sempre più ecologicamente compatibili e meno costosi anche grazie all’utilizzo delle tecnologie più evolute, costituisce una leva fondamentale per innalzare le barriere all’ingresso nel settore e per “innalzare l’asticella” di fronte ai concorrenti esistenti. Inoltre, la declinazione della RSI come leva di vantaggio competitivo è il risultato di un processo di segmentazione del mercato che si basa sulla sensibilità dei clienti alla RSI, ovvero a quei profili di sicurezza, di contenimento dei consumi energetici e di materia prima, oltre che di tutela dell’ambiente, che costituiscono il fulcro dell’impegno sociale e ambientale di Sabaf. L’azienda bresciana ha scelto di vendere i propri componenti solo a quei produttori di cucine che si collocano al di sopra di una certa soglia di sensibilità e di attenzione a tali problematiche, come si evince dalla seguente dichiarazione del responsabile commerciale Luca Salvi. “Sabaf ha rinunciato a vendere a certi produttori del Sud del Brasile perché volevano un prodotto che, assemblato nelle cucine come volevano fare loro, sarebbe stato un’arma! In Brasile sono ammessi i rubinetti in zama, una lega di zinco che si presso fonde a temperature basse, ma va facilmente in corrosione Le informazioni relative alla commessa di Whirlpool sono state fornite dal dr. Luca Salvi, responsabile commerciale di Sabaf. 281 Lo ha confermato nel corso di un’intervista, svoltasi il 21 aprile 2006, il dr. Gianluca Beschi, investor relations manager di Sabaf. 280
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qualora si associ a impurità di rame: in tal caso, vi sarebbero rischi di fughe di gas. Noi ci rifiutiamo di produrli, anche se saremmo tranquillamente in grado di farli, per due ragioni: 1) sicurezza; 2) scarsa competitività di Sabaf, data la sua struttura molto pesante, per un prodotto molto semplice. Noi non operiamo in certe combinazioni prodotto / mercato / cliente: evitiamo i mercati dove i clienti realizzano cucine che riteniamo pericolose o assemblano il nostro prodotto in maniera selvaggia; evitiamo, per inopportunità strategica di lungo termine, i prodotti pericolosi o per i quali non siamo competitivi in termini di costo; evitiamo i mercati dove non c’è la normativa o non sono richiesti standard minimi tali per cui il nostro prodotto possa avere un uno sbocco adeguato”. La scelta di operare in tali segmenti di mercato ha origini che risalgono agli anni Settanta, allorché i produttori di cucina avviarono una progressiva esternalizzazione della produzione dei componenti per concentrarsi sulle attività di styling, marketing e vendite. Alcuni dei dodici produttori di componenti che nacquero allora in Europa scelsero di focalizzarsi sui costi, ricorrendo a utensili generici. I problemi di qualità e di sicurezza che via via emersero, oltre all’intensificazione della competizione sul prezzo che coinvolse tali produttori, premiarono invece quelle aziende che, come Sabaf, scelsero una strategia imperniata sulla qualità e sulla specializzazione. Sabaf ne adottò una versione, per così dire, estrema, imperniata su integrazione verticale, specializzazione, tecnologia: all’origine vi era una vera e propria passione per la ricerca, la sperimentazione e la conoscenza, che ancora oggi alimentano un flusso elevato di investimenti. Ne è testimone ancora una volta l’Amministratore Delegato: “La nostra è ancora oggi una delle società che hanno la più elevata incidenza degli investimenti sul fatturato: in media, il 12-14% negli ultimi 8-10 anni. Abbiamo un enorme cash-flow che ci consente di alimentare un grande flusso di investimenti”. Ancora: “Se queste tecnologie non puoi comprarle, devi fare le macchine all’interno. Per questo motivo Sabaf ha una grande integrazione verticale: facciamo investimenti in macchinari per produrre i macchinari. Progettiamo e realizziamo internamente stampi, macchine speciali e utensili speciali”. Cinquanta persone sono complessivamente impiegate nell’esecuzione dei prototipi, CAM, progettazione e produzione di stampi e macchine speciali. Una ventina di queste sono dedicate a studi e ricerche. La realizzazione delle parti non core degli stampi è affidata a un produttore esterno che lavora su progetto di Sabaf e solo dopo aver firmato un “patto di vincolo”, in base al quale egli non può lavorare in alcun modo per aziende concorrenti della stessa Sabaf. Grazie alla leadership raggiunta e agli elevati volumi prodotti (25 milioni di pezzi all’anno), Sabaf può permettersi un software ad hoc per simulare il comportamento degli stampi, macchine specializzate, prove su archi di tempo lunghi, con importanti ricadute a livello di progettazione.
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iii) La RSI come condizione per trattenere i collaboratori di valore. Molti collaboratori di Sabaf sono depositari di competenze specialistiche di valore, tant’è che l’elevato grado di integrazione verticale era ed è dettato anche dall’esigenza di trattenerle e di presidiarle. Il problema si è posto soprattutto quando, nel 2002, la sede e lo stabilimento sono stati trasferiti da Lumezzane a Ospitaletto. I due Paesi distano solo trenta chilometri l’uno dall’altro, ma si temeva che il distretto meccanico di cui Lumezzane è il comune principale avrebbe permesso ai dipendenti meno propensi al trasferimento di trovare immediatamente valide alternative di impiego. Inoltre, uscire dal territorio per trovare lavoro era al di fuori della cultura del Lumezzanese. D’altra parte, la densità industriale di Lumezzane aveva raggiunto livelli tali da rendere problematico qualunque ampliamento dello stabilimento. Sabaf si trovava in centro al Paese e necessitava di spazi, infrastrutture e di un layout di fabbrica diverso da quello esistente. Per espandersi in loco avrebbe dovuto realizzare una fabbrica su due livelli. C’erano poi seri problemi di comunicazione e di distanza dai nodi stradali. La decisione di trasferirsi a Ospitaletto è stata assunta nel 1999 e realizzata all’inizio del 2002: nel frattempo sono stati individuati strumenti che mitigassero il rischio di perdere personale e di dover gestire il turnover. Si avviò fin da subito un processo all’insegna della massima trasparenza nella comunicazione e di condivisione con le rappresentanze sindacali. Qualche dipendente ha iniziato immediatamente a guardarsi in giro e a cambiare lavoro; le nuove assunzioni dopo il 1999 sono state fatte per lo più a Ospitaletto. Sono stati definiti accordi che prevedevano per i dipendenti incentivi e garanzie legate al trasferimento. Il beneficio maggiore era forse quello meno “spendibile”: lavorare in un ambiente più confortevole e sicuro. L’unico svantaggio rispetto a Lumezzane era il maggior caldo, per cui sono stati installati dei raffrescatori in fabbrica. Dei 300 dipendenti trasferiti a Ospitaletto ne rimangono oggi 282 180. Il turnover è stato graduale e gestito, anche grazie ad alcuni incentivi. a) Assegnazione di azioni gratuite ai dipendenti che fossero rimasti per almeno sei mesi dopo il trasferimento (lock-up): 500, 1000 o 1500 azioni a seconda del livello, per cui il valore minimo dell’incentivo era di 40005000 euro. In totale sono state assegnate circa 200.000 azioni, il che ha comportato un effetto diluitivo pari al 2% del capitale. Già prima e a prescindere dall’ipotesi di trasferimento, al momento della quotazione era stata data ai dipendenti la possibilità di acquistare le azioni con uno sconto del 10% sul prezzo, eventualmente utilizzando il fondo T.F.R., al fine di incentivarne coinvolgimento e partecipazione. L’assegnazione di azioni ai dipendenti ha incontrato alcune resistenze, di tipo culturale, da parte della FIOM, il sindacato metalmeccanici della CGIL: nel 2004 si è opposta, in sede di contrattazione collettiva, all’ipotesi di assegnare azioni ai dipendenti al posto di una parte dell’incremento retributivo. “A La data di riferimento è il 21 aprile 2006, data dell’intervista all’investor relations manager di Sabaf dr. Beschi. 282
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conti fatti, ci avrebbero guadagnato – sottolinea Beschi –, visto che la quotazione del titolo è passata nel frattempo da 14 a 24 euro”. b) Trasporto gratuito garantito per quattro anni (2002, 2003, 2004 e 2005) a tutti i dipendenti per tutti e tre i turni. Tale incentivo è terminato il 31 dicembre 2005, ma la società ha deciso di accollarsi volontariamente il 50% delle spese di trasporto anche per il 2006 e per il 2007. c) Acquisto e costruzione di case per i dipendenti a Ospitaletto. Ciò ha comportato per Sabaf un investimento pari a circa due milioni di euro per l’acquisto di una ventina di appartamenti poi affittati o venduti ai dipendenti con uno sconto del 20-25% sui prezzi di mercato. Alcuni dipendenti hanno prima avuto la casa in affitto e in un secondo momento l’hanno acquistata. Visto il successo dell’iniziativa, sono stati fatti costruire altri 40 nuovi appartamenti con prezzi riservati ai dipendenti, con un investimento di altri sei milioni di euro. Inoltre, Sabaf ha stipulato convenzioni con il Banco di Brescia (ora parte del gruppo UBI) per la concessione ai dipendenti di mutui prima casa agevolati – a tassi più bassi di quelli di mercato, con copertura del 100% dell’importo o di durata trentennale –, concedendo anche una propria fideiussione. La convenzione prevede anche la possibilità di prestiti al consumo, in ogni caso con riserva di gradimento da parte dell’azienda. Le iniziative illustrate evocano, a prima vista, l’idea di una RSI meramente strumentale a trattenere competenze specialistiche fondamentali per la competitività dell’azienda. In base a un’analisi più approfondita, tuttavia, si può affermare che tale motivazione per la RSI si accompagna a motivazioni etiche e a motivazioni edoniche, che si evincono dalle affermazioni dei vertici aziendali sia nei documenti ufficiali, sia nel corso delle interviste rilasciate. Se, da un lato, essi riconoscono la convenienza di tali iniziative per l’azienda, dall’altro le inquadrano in un sistema di valori e di obiettivi aziendali che recepiscono la “socialità” o, più precisamente, riconoscono la centralità dei collaboratori come stakeholder. Significativa in tal senso è l’affermazione del Presidente Giuseppe Saleri: “Nel nostro modo di agire abbiamo delle convenienze, sia all’interno che all’esterno. Cerchiamo di dare cultura alle maestranze, per aiutarle a dare quello che sono in grado di dare. Li aiutiamo a diventare proprietari di case. Ciò che esce dalla finestra rientra dalla porta principale!”. L’attenzione riservata ai dipendenti si è manifestata e si manifesta anche in altre circostanze, come quando è stata offerta loro la possibilità di acquistare azioni della società a prezzo scontato al momento della quotazione e quindi un anno prima della decisione di trasferire la sede e lo stabilimento a Ospitaletto; la replica del modello di RSI negli stabilimenti e nei Paesi nei quali Sabaf ha iniziato la propria internazionalizzazione produttiva: i dipendenti brasiliani, per esempio, godono di condizioni, in termini di ambiente, sicurezza e regole, del tutto allineate a quelle vigenti nello stabilimento italiano, condizioni superiori rispetto
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agli standard richiesti localmente e, soprattutto, a quelli di fatto correntemente applicati. In conclusione, si può ragionevolmente affermare che Sabaf deve il suo successo sotto il profilo economico a una valida sintesi socio-competitiva: l’azienda bresciana ha raggiunto una posizione di leadership a livello mondiale, sia pure in un segmento di piccole dimensioni 283 , grazie al fatto di essere riuscita a far coincidere gli “assi portanti” della propria responsabilità sociale – sicurezza, tutela dell’ambiente, riduzione dell’utilizzo delle materie prime – con i fattori critici di successo per i propri clienti. Coerentemente, le stesse capacità e competenze distintive di Sabaf sono funzionali sia alla messa a punto di un sistema di prodotto apprezzato dai clienti, sia all’offerta di contributi e prospettive più “attrattivi” per gli altri stakeholder rispetto a quelli offerti dai concorrenti (Coda, 1984). La RSI, in particolare, è una leva utilizzata per attrarre e trattenere le competenze specialistiche di cui sono depositari i collaboratori: il conseguimento di tale obiettivo si deve, presumibilmente, anche alla credibilità che i vertici dell’azienda hanno saputo guadagnarsi grazie al track record di attenzioni ai dipendenti e, non ultimi, a una certa sobrietà di vita e all’atteggiamento dei proprietari 284 . Prima della quotazione Sabaf non ha mai distribuito dividendi e, per volontà del Presidente Giuseppe Saleri, vi è una completa separazione fra proprietà e management 285 . In sostanza, l’autonomia dell’azienda dalla famiglia proprietaria (Corbetta, 1995) potrebbe aver contribuito significativamente alla credibilità degli stessi proprietari e del management al cospetto dei dipendenti e degli stakeholder in generale. Ancora, l’orientamento al profitto di lungo periodo e l’integrazione della RSI nella funzione-obiettivo dell’impresa sembrano assicurare quella “marcia in più” che si manifesta, in ultima analisi, nella ricerca di spostare continuamente in avanti la frontiera dell’innovazione e che dà luogo a performance superiori rispetto ai concorrenti. Tali risultati, infine, rendono credibile la strategia di Sabaf anche al cospetto degli investitori, che non esercitano nei confronti dei suoi vertici alcuna pressione a ricercare profitti di breve periodo. 4.2.4 Le istanze degli stakeholder e la loro dinamica come stimolo all’innovazione e all’imprenditorialità: il caso della Solvay di Rosignano 286 Quello di Rosignano è uno dei sei impianti per la realizzazione di prodotti chimici con cui il gruppo Solvay 287 è presente in Italia. Appartenente alla società Il segmento di mercato di Sabaf vale circa un miliardo di euro a livello mondiale. Senza voler sovraccaricare di significato singoli fatti o episodi, vale la pena di sottolineare che il Presidente Giuseppe Saleri e il top management di Sabaf sono soliti pranzare alla mensa aziendale insieme agli altri dipendenti. 285 Su questo importante aspetto si tornerà, come si è detto, nel capitolo 5. 286 Le informazioni presentate in questo paragrafo sono tratte da Minoja M., Spadafora E., Il caso “Stabilimento Solvay di Rosignano”, Università degli Studi di Pisa, 2007. 283
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Solvay Chimica Italia, interamente controllata dalla Holding belga, dà lavoro a oltre 700 persone e realizza un fatturato di circa 300 milioni di euro dalla vendita di un elevato numero di prodotti, fra i quali spiccano carbonato e bicarbonato di sodio, cloruro di calcio, acqua ossigenata, percarbonato di sodio, soda caustica e prodotti clorati. E’ opportuno premettere che il pur rilevante impegno di Solvay sul fronte della RSI non sembra configurare un caso “di scuola” di integrazione della RSI stessa nella strategia, nel senso che essa non pare un elemento-cardine alla base del vantaggio competitivo 288 . O, meglio, lo è per alcuni specifici progetti avviati all’interno dell’azienda. Ciò non di meno, dallo studio del caso Solvay, sia pure limitatamente allo stabilimento toscano di Rosignano, si evincono alcuni spunti di grande interesse per la comprensione di una delle dinamiche fondamentali alla base del processo di integrazione della RSI nella strategia: il ruolo delle istanze degli stakeholder come stimolo all’innovazione e alla ricerca di soluzioni sempre più capaci di coniugare competitività e socialità. Inoltre, la RSI in Solvay, se anche non è incardinata in una vera e propria sintesi socio-competitiva, è fortemente impressa nelle singole attività della catena del valore o, meglio ancora, nel sistema del valore che include le attività svolte nelle aziende fornitrici e nelle aziende clienti. Per comprendere il ruolo e l’evoluzione della RSI in Solvay è necessario tenere presenti due condizioni di contesto fondamentali: in primo luogo, il connubio molto stretto – si potrebbe dire quasi osmotico – fra l’azienda e la comunità di Rosignano; in secondo luogo, il cambiamento radicale del tipo di istanze che tale comunità ha rivolto all’azienda dall’anno del suo insediamento, il 1912, ad oggi. i) Solvay e Rosignano: dalle istanze di occupazione e sviluppo economico a quelle di tutela dell’ambiente. Quando la multinazionale belga vi si è insediata, a Rosignano 289 c’erano soltanto una palude, la ferrovia e una strada sterrata. Il primo edificio Solvay a Rosignano è stata una fornace per costruire mattoni, poi, in rapida successione, Il gruppo Solvay, fondato nel 1861 da Ernest Solvay, ha il proprio quartier generale a Bruxelles, è quotato nella capitale belga, a New York e a Tokyo, è presente in oltre 50 Paesi con 400 sedi e stabilimenti, circa 30.000 dipendenti e 160.000 clienti. Nel 2006 ha realizzato un volume d’affari di 9,4 miliardi di euro e ha conseguito un utile netto di 817 milioni. Opera nei settori chimico, farmaceutico e delle materie plastiche. 288 Lo stesso direttore dello stabilimento di Rosignano, ing. Malvaldi, ha osservato che non vi è una connessione diretta fra responsabilità sociale e competitività di Solvay, dal momento che, a suo dire, i prodotti sono destinati all’industria e non ai consumatori finali e la loro valutazione da parte dei clienti avviene sulla base della qualità e del prezzo. Il vantaggio competitivo del Gruppo Solvay nella maggior parte dei sistemi competitivi di cui fa parte è comunque testimoniato dal fatto che l’85% del fatturato deriva dalla vendita di prodotti nei quali il Gruppo detiene una posizione di leadership o di co-leadership a livello mondiale. 289 La scelta di Rosignano per l’insediamento in Italia fu dettata da una serie di ragioni fra le quali spicca la prossimità ai giacimenti delle materie prime necessarie alla produzione di soda e di soda caustica. 287
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sono state costruite, oltre alla fabbrica, tutte le infrastrutture: la scuola, l’ospedale, il teatro e le case per i dipendenti. Tutte sono tuttora funzionanti, anche l’ospedale, che da qualche anno è stato trasformato in un centro diagnostico dell’ASL e fino ad alcuni anni fa era ancora gestito da personale Solvay. Nei primi decenni di presenza a Rosignano, l’azienda ricopriva un fondamentale ruolo sociale, che si estendeva ben oltre il perimetro del proprio business. Agli abitanti del territorio di Rosignano venivano offerti lavoro e dopolavoro: Solvay non era solo la fabbrica, ma anche la vita sociale esterna allo stabilimento; vendeva persino i generi alimentari attraverso lo spaccio aziendale. Negli anni Sessanta la presenza di Solvay manifestava le proprie ricadute economiche positive nello sviluppo di attività artigianali, commerciali e turistiche da parte dei dipendenti, i quali, grazie all’elevato livello salariale, potevano avviare delle attività in proprio. Tale differenziale retributivo rispetto alle altre aziende del settore si è protratto nel tempo: Stefano Piccoli – per 20 anni responsabile del personale, prima a Ferrara e poi a Rosignano 290 – ricorda che in sede di rinnovo dei contratti aziendali le concessioni di Solvay ai sindacati mettevano in difficoltà le associazioni degli industriali, in quanto consideravano le condizioni offerte da Solvay un benchmark per le altre aziende del settore. Il rapporto con la comunità di Rosignano, ispirato fin dall’inizio a quello che oggi si definirebbe un modello di “cittadinanza d’impresa”, non era un caso isolato, ma era sostanzialmente identico al modo di essere e di rapportarsi degli stabilimenti Solvay di tutto il mondo con le rispettive comunità locali. Ernest Solvay, infatti, svolgeva l’attività imprenditoriale ispirandosi a due principi fondamentali: offrire ai propri dipendenti le migliori condizioni possibili e restituire alla comunità una parte dei propri guadagni, costruendo infrastrutture e opere pubbliche come il teatro e l’ospedale. Oggi la comunità di Rosignano gode di un benessere diffuso: assenza di delinquenza abituale, servizi pubblici – asili, trasporti, scuole, infrastrutture per il tempo libero e lo sport – di qualità. Anche il fatto che non vi siano mai stati prolungati periodi drammatici sul piano sociale, dovuti a licenziamenti, disoccupazione, conflitti sindacali, ha favorito la vivibilità della zona. Il ruolo di Solvay è stato senza dubbio importante, considerato il contributo fornito a livello occupazionale e infrastrutturale e, più in generale, allo sviluppo economico. Nel corso degli anni, tuttavia, il contesto locale è stato attraversato da una profonda evoluzione economica, che ha inciso inevitabilmente sul rapporto con la Solvay. Lo sviluppo di attività economiche non manifatturiere, quali il turismo e il terziario in generale, oltre alla più tradizionale agricoltura, ha posto il problema del contemperamento di esigenze differenti. Le maggiori alternative lavorative offerte agli abitanti di Rosignano e lo sviluppo del turismo hanno modificato le istanze provenienti dagli stakeholder locali e, di conseguenza, la domanda di responsabilità sociale: le richieste di rispetto e di tutela dell’ambiente si sono fatte via via più pressanti, anche a Attualmente il dr. Piccoli ricopre l’incarico di responsabile Relazioni Esterne, Sviluppo Industriale e Comunicazione di Solvay Chimica Italia. 290
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seguito del contributo da tempo decrescente, per quanto in assoluto sempre rilevante, fornito dall’azienda chimica all’occupazione locale: inizialmente lavoravano in Solvay oltre 1.700 persone, numero che è poi aumentato fino a 4.000 nel secondo dopoguerra, in seguito la progressiva meccanizzazione del lavoro e l’adozione di tecnologie sempre più evolute hanno comportato la riduzione dell’organico alle attuali 750 persone. “Tale processo – tiene a sottolineare Riccardo Sacchi 291 , responsabile del personale presso lo stabilimento di Rosignano – è sempre avvenuto sulla base di accordi sindacali e nell’ambito di leggi che prevedevano ammortizzatori sociali, quali prepensionamenti e mobilità lunga, che Solvay ha integrato con fondi propri. In caso di mobilità lunga, che implica per il lavoratore un lungo periodo di inattività prima della pensione, Solvay integrava il sussidio previsto per legge. Il risultato era che il lavoratore percepiva in totale un importo pari alla pensione. Solvay ha sempre gestito con molta attenzione e rispetto per le persone le riduzioni di personale e il territorio lo ha riconosciuto. Si è anche riusciti a non arrestare mai del tutto il turnover, facendo entrare giovani con gradi di scolarità via via più elevati e in grado di gestire attività complesse come una sala controlli”. ii) Istanze ambientali e stimoli all’innovazione e all’imprenditorialità La crescente sensibilità al problema ecologico, la percezione diffusa che l’industria chimica sia “intrinsecamente” inquinante, il timore che la presenza di un grande stabilimento chimico potesse frenare lo sviluppo del turismo nella zona costiera di Rosignano hanno reso sempre più pressanti le istanze, quando non le proteste, della comunità e delle istituzioni locali nei confronti della Solvay. Istanze e pressioni che hanno messo a dura prova i vertici dello stabilimento, ma sono state anche fonte di stimoli e di nuove idee, com’è evidenziato dall’ing. Malvaldi, direttore dello stabilimento 292 . “L’impegno nella responsabilità sociale per noi è indispensabile per mantenere l’accettabilità della nostra presenza industriale sul territorio. Un impegno che implica più sfida e passione che dolore e sofferenza. A dire il vero, una parte degli interventi volti a migliorare il nostro livello di responsabilità sociale non sono compresi e questo ci causa sofferenza, perché non tutto quanto ci è richiesto ha un fondamento tecnico. Però si tratta di una parte minoritaria. Quella preponderante è vissuta come una sfida, vissuta con orgoglio anche perché il nostro personale risiede tutto in zona. Le nostre iniziative sono apprezzate dagli stakeholder interni, ossia i nostri collaboratori e anche i sindacati; da parte degli stakeholder esterni il ritorno lascia un po’ a desiderare. In Italia prevale spesso, all’esterno, una cultura anti-industriale, che finisce con il produrre danni e con l’alimentare idee distorte. Il nostro sogno è evitare drammatizzazioni tipo Marghera: vorremmo che venisse riconosciuto il Da un’intervista al dr. Sacchi effettuata il 7 febbraio 2007. L’ing. Malvaldi ha rilasciato questa intervista il 22 settembre 2006. Nel corso del 2007 è stato chiamato a dirigere un importante stabilimento Solvay in Francia ed è stato sostituito nel ruolo di direttore dello stabilimento di Rosignano dall’ing. Michèle Huart. 291 292
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nostro sforzo di miglioramento sul piano ambientale. In Italia, nella migliore delle ipotesi si può godere di una sorta di quiete, non del riconoscimento degli sforzi fatti. Si tende a fare polemica distruttiva; costruire è molto più difficile. In ogni caso, dagli ambientalisti ci giungono delle sfide e delle opportunità di miglioramento e di crescita”. E’ proprio da tale gap fra coesione sociale desiderata e coesione sociale effettiva che – si può ipotizzare – sono derivati molti stimoli alle innovazioni e alle iniziative imprenditoriali che Solvay ha intrapreso negli anni recenti e sta tuttora sviluppando. Da tale gap, infatti, è scaturita una tensione che, anche grazie ai valori di cui i vertici dello stabilimento e dell’intero Gruppo sono portatori, è stata incanalata positivamente alla ricerca di iniziative e di soluzioni innovative capaci di dare risposte sempre più soddisfacenti alle istanze di tutela dell’ambiente e, nel contempo, economicamente sostenibili. Si illustrano di seguito, senza alcuna pretesa di farne una presentazione esaustiva, alcune delle iniziative a maggior contenuto di innovazione o di imprenditorialità promosse da Solvay, non solo sul piano tecnico-produttivo, ma anche organizzativo e relazionale 293 . a) Solvay come “laboratorio” di innovazione e imprenditorialità ambientale. Fra i numerosi progetti che Solvay ha in cantiere, alcuni sono particolarmente emblematici della propensione all’innovazione e all’imprenditorialità ambientale dell’azienda di Rosignano. Un primo progetto si è concretizzato mediante la costituzione di un’azienda ad hoc, la Solval, con la funzione di ritirare i sali dagli inceneritori provenienti dall’abbattimento dei fumi acidi mediante tecnologie Solvay e di reimmetterli nel ciclo produttivo. In questo modo si evita di mandare in discarica quantità elevate di prodotti di scarto potenzialmente inquinanti. Il ritorno di tali iniziative
Una delle istanze più pressanti rivolte a Solvay riguarda il processo produttivo basato sulla tecnologia dell’elettrolisi al mercurio, in quanto ritenuta altamente inquinante. Si tratta per altro di una problematica che tutte le aziende del settore a livello mondiale hanno dovuto affrontare. La sostituzione di tale tecnologia implica investimenti ingenti, tant’è che le aziende hanno ottenuto di potervi provvedere in modo graduale. Solvay si è data un programma di sostituzione più veloce della media del settore, impegnandosi a completarla entro il 2007. Tale impegno, previsto nel Progetto Leonardo, rientra nell’Accordo di Programma stipulato nel 2003: dei circa 81 milioni di euro di investimenti previsti nel quadriennio 2004-2007, 48 sono destinati al progressivo abbandono della tecnologia a mercurio a favore di quella a membrana. Tale iniziativa è stata con ogni probabilità la più impegnativa sul piano economico per Solvay; si tratta, inoltre, di un’innovazione radicale sotto il profilo tecnologico. Ciò nonostante, si preferisce non annoverarla fra quelle più significative in termini di innovazione e imprenditorialità perché è stata adottata da tutte le imprese del settore. Solvay si è per altro distinta per la rapidità e per la capacità di rispettare il programma di sostituzione, che le sono valsi alcuni significativi riconoscimenti da parte degli stakeholder: Legambiente ha promosso la campagna “Zero Mercury”, citando Solvay come esempio da imitare sulla strada del superamento della tecnologia al mercurio. Il Ministero dell’Ambiente ha riconosciuto a Solvay di costituire un benchmark per il settore chimico, soprattutto dopo che è stata la prima a firmare un accordo di programma. 293
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non è solo economico, ma anche reputazionale, per Solvay e per la chimica in generale. Un secondo progetto ha a che fare con la logistica e il trasporto. I grandi volumi di calcare e di soda trasportati per lunghe tratte su camion diretti o provenienti dallo stabilimento di Rosignano hanno indotto Solvay a cercare soluzioni in grado di contenere l’impatto ambientale derivante dalle emissioni dei mezzi pesanti e i rischi e i disagi dovuti al traffico che essi generano. Nel 2003 è stato avviato il Progetto SANDS (Soda Ash New Distribution System) 294 , con l’obiettivo di modificare, secondo il concetto della intermodalità, il sistema di distribuzione del carbonato di sodio sul mercato italiano. Solvay movimenta ogni anno circa 1,2 milioni di tonnellate di calcare (materia prima) e altrettanti di soda (prodotto finito) in Italia. A tre anni dall’avvio del progetto la percentuale di trasporto ferroviario del prodotto finito è raddoppiata, dal 7% al 14%, grazie all’attuazione del progetto, per un totale di oltre 200.000 tonnellate trasportate su una percorrenza media di circa 400-600 chilometri. Si stima, sulla base di calcoli di prima approssimazione, che la percorrenza dei camion sulle strade si sia ridotta di 10 milioni di chilometri, comprendendo anche i percorsi dei vettori “a vuoto”, corrispondenti a 60 camion per giorno lavorativo, per un totale di 13.500 camion all’anno. Per conseguire l’obiettivo di portare su ferrovia 200.000 tonnellate di soda, Solvay ha progettato e sviluppato delle casse mobili ad hoc per il trasporto di prodotti chimici sui treni. I vagoni verdi con la scritta Cargo Chemicals, dal nome della società del gruppo Trenitalia che gestisce i trasporti di prodotti chimici, fino ad ora hanno viaggiato trasportando solo soda Solvay. In prospettiva potranno essere utilizzati anche per altri prodotti. Un progetto simile è in essere anche per il PVC, importante prodotto Solvay. Tommaso Castellazzi 295 , Total Quality & e-business Manager di Solvay Italia, osserva che “Questo è un esempio significativo che dimostra come l’impatto del nostro approccio responsabile si estende al di là dei confini dello stabilimento Solvay. Da un punto di vista strettamente economico già oggi ricorrere al treno invece che ai camion è conveniente e lo sarà ancora di più in futuro”. Il progetto collegato “San Carlo 2003”, che prevede la costruzione di un raccordo ferroviario fra la stazione ferroviaria di San Vincenzo e la cava di calcare di San Carlo, comporterà il trasporto integrale su rotaia di questa materia prima verso lo stabilimento, con notevoli benefici sotto il profilo ambientale. Il progetto è stato ufficialmente avviato nel giugno 2006 e diventerà completamente operativo nel corso del 2008.
294 Il progetto SANDS ha partecipato al concorso nazionale “Ambiente è Sviluppo 2006”, indetto dal Ministero dell’Ambiente, ottenendo il secondo premio della sezione “Imprese private e pubbliche”, con il titolo “Trasferimento su rotaia dei trasporti di carbonato di sodio”. Il riconoscimento è stato consegnato a Roma nell’aprile del 2006 nel corso di una cerimonia ufficiale presieduta dal Ministro dell’Ambiente. 295 Il dr. Tommaso Castellazzi è stato intervistato nella sede di Milano di Solvay Italia in data 1 febbraio 2007.
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Infine, Solvay ha deciso di adottare una logica estensiva di sfruttamento delle soluzioni e delle tecnologie che essa ha sviluppato e sperimentato con successo per contenere l’impatto ambientale della propria attività, mettendole a disposizione di altre aziende: ne sono esempi la tecnologia “Neutrec” per la depurazione dei fumi degli inceneritori, Novosol per l’inertizzazione di fanghi per la bonifica di fossi e fiumi, Bicarjet per ripulire i muri dai graffiti. Le royalties ottenute presentano un’incidenza modesta sul fatturato, ma “in questo caso il driver non è il business, bensì la possibilità di offrire alla comunità un contributo sociale basato sulle nostre competenze” 296 . b) Le routine organizzative come incentivo alla responsabilità e all’innovazione. Un importante ruolo ai fini del costante miglioramento del livello di RSI, intesa sia come salvaguardia dell’ambiente, sia come sicurezza sui luoghi di lavoro, è svolto da alcune specifiche routine organizzative 297 , che vanno nella duplice direzione di promuovere la RSI lungo tutta la filiera di cui fa parte Solvay e di favorire lo sviluppo di innovazioni. Sotto il primo profilo, un esempio di particolare interesse riguarda i premi ai fornitori che hanno conseguito le migliori performance in termini di infortunistica 298 . Tale performance è espressa da due indici: l’indice TF0, che misura la frequenza degli infortuni con o senza abbandono del lavoro, e l’indice TF1, che misura quella dei soli infortuni con abbandono del lavoro. Solvay ha ideato due tipi di premi. Il primo tiene conto della performance infortunistica con riferimento all’intero anno: non è di carattere monetario, ha valore soprattutto simbolico e viene assegnato nel corso di un evento annuale ai fornitori, suddivisi per categoria, che si sono distinti per il basso numero o per l’assenza di infortuni sul lavoro. Esso non solo garantisce una grande visibilità al fornitore, ma, soprattutto, implica continuità e solidità di rapporto con Solvay. Un secondo tipo di premio fa invece riferimento al singolo appalto: anche in questo caso si tratta di un riconoscimento alla bassa frequenza o all’assenza di infortuni, ma in forma di bonus economico, erogato al fornitore a fine appalto. Ancora, nell’ottica di incentivare i fornitori in tema di infortunistica, Solvay ha ideato il “tasso di frequenza di infortuni integrato”, che esprime in modo unitario la performance di Solvay e dei suoi fornitori: in questo modo, le imprese fornitrici sono impegnate in uno sforzo volto a conseguire un risultato comune. Sotto il secondo profilo, merita di essere segnalato il “box delle idee”. Esso viene collocato in ogni stabilimento allo scopo di favorire lo sviluppo e la Dall’intervista a Tommaso Castellazzi. Per routine s’intendono “stable patterns of behavior that characterize organizational reactions to variegated, internal or external stimuli” (Zollo e Winter, 2002, p. 340). Sono frutto delle “capacità dinamiche” (dynamic capabilities) sviluppate dall’impresa o di specifici processi di apprendimento: “routines reflect experiential wisdom in that they are the outcome of trial and error learning and the selection and retention of past behaviors” (Gavetti e Levinthal, 2000, p. 113). 298 Il sistema di incentivi ai fornitori basato sulla performance in termini di infortunistica è stato illustrato dal dr. Sergio Donalisio, responsabile acquisti di Solvay Chimica Italia, nel corso di un’intervista rilasciata il 22 settembre 2006. 296 297
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circolazione delle idee: la Società si è assunta l’impegno formale di valutarle tutte. c) La partnership come modello organizzativo e imprenditoriale per la tutela dell’ambiente. Solvay ha promosso e gestisce diverse iniziative finalizzate alla tutela dell’ambiente e alla riduzione dell’utilizzo di risorse non rinnovabili attraverso varie forme di partnership con aziende private ed enti pubblici. Se ne illustrano di seguito alcuni fra gli esempi più significativi. Per ridurre i prelievi delle acque sotterranee della zona costiera della Bassa Val di Cecina, Solvay ha dato vita al Consorzio Aretusa insieme ad ASA (Agenzia Servizi Ambientali) e Termomeccanica. Tale consorzio ha avviato nel 2005 gli impianti che permetteranno il recupero e l’impiego industriale delle acque in uscita dai depuratori comunali di Cecina e Rosignano e la messa a disposizione della collettività di circa quattro milioni di metri cubi all’anno di acqua di falda, pari al 60% del consumo attuale. Con la stessa ASA Solvay ha costituito anche il Consorzio IDROS per realizzare un nuovo progetto relativo all’attività estrattiva del sale, mirante ad azzerare i prelievi di acqua di falda nel periodo estivo. Un’ulteriore iniziativa gestita in partnership è il Comitato Trasporti, costituito da Solvay e dalle imprese di autotrasporto per esaminare e definire azioni concrete per rendere il trasporto sempre più sicuro e orientato alle esigenze dei clienti. In quest’ottica vengono eseguite verifiche presso le aziende di autotrasporto per definire e condividere procedure e metodologie di gestione della sicurezza nelle due accezioni di safety e security. L’utilizzo della partnership come modalità organizzativa mediante la quale promuovere iniziative di tutela dell’ambiente costituisce in se stessa una forma di innovazione e di imprenditorialità, la quale genera per Solvay una serie di vantaggi: condivisione di costi; possibilità di sfruttamento delle risorse e delle competenze apportate dai partner; corresponsabilizzazione dei partner alla RSI; miglioramento del consenso da parte della comunità e delle istituzioni locali. In sintesi, il caso dello stabilimento Solvay di Rosignano non può annoverarsi fra quelli di piena integrazione della RSI nella strategia, in quanto la RSI non pare essere strettamente funzionale al vantaggio competitivo. Per certi versi, si potrebbe affermare che il “consenso sociale” sia piuttosto una “condizione di esistenza” nel business. Ciò nonostante, esso presenta alcuni elementi di interesse ai fini del presente studio. Esso testimonia, infatti, come la presenza di stakeholder che continuamente sollecitano l’azienda a migliorare le proprie performance sociali e ambientali favorisca lo sviluppo di un’elevata propensione all’innovazione e all’imprenditorialità. Nel caso della Solvay, tale propensione si manifesta soprattutto nella capacità di identificare e di cogliere le opportunità che via via si presentano di migliorare la salvaguardia dell’ambiente e la sicurezza sui luoghi di lavoro. Non di rado è la stessa Solvay a creare tali opportunità e a proporle a terzi per aumentare, sfruttando una sorta di effettoleva, l’impatto sociale e ambientale che ne può derivare. Non si tratta di 165 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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innovazioni radicali, ma di un flusso sistematico di innovazioni incrementali. Un tale atteggiamento imprenditoriale è altresì indizio di un’interiorizzazione della RSI che, almeno sotto questo profilo, avvicina Solvay alle imprese nelle quali la RSI è integrata nella strategia. Infine, una tale propensione all’innovazione e all’imprenditorialità può essere considerata un vero e proprio asset che, prima o poi, potrebbe dar luogo anche a significativi vantaggi economici e competitivi.
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4.3 Responsabilità sociale, profitto e valore per gli azionisti Nella letteratura internazionale vantaggio competitivo è sinonimo di generazione di profitti superiori a quelli dei concorrenti. Da tale definizione, alla quale per altro si è fatto riferimento nel presente capitolo, discenderebbe che i due concetti sono sostanzialmente intercambiabili. In realtà, ciò è vero se e solamente se si fa riferimento al vantaggio competitivo sostenibile e al profitto di lungo periodo. Infatti, un profitto di breve termine può derivare anche dallo sfruttamento di opportunità temporanee – quali una domanda in forte crescita – oppure da una scarsa propensione a effettuare investimenti: nel primo caso, esso non si fonda sul vantaggio competitivo e nel secondo caso non lo alimenta (Coda, 1988a). Ancora, un vantaggio competitivo testimoniato dall’apprezzamento e dall’affermazione del sistema di prodotto sul mercato di sbocco potrebbe anche non tradursi in profitti elevati se manca il giusto livello di tensione verso l’efficienza e il contenimento dei costi, la struttura aziendale non è ben dimensionata, oppure se il prezzo richiesto è inferiore a quello che i clienti sarebbero disposti a pagare (Coda, 1984). Va da sé che un tale vantaggio competitivo non è sostenibile, a meno che l’impresa non acquisisca tempestivamente consapevolezza del problema e non intervenga per rimuovere gli ostacoli che impediscono al vantaggio competitivo di generare adeguati flussi di profitti. Un’autonoma considerazione del concetto di profitto rispetto a quello di vantaggio competitivo si fonda anche su una seconda ragione. Gli studi empirici sulla relazione fra CFP e CSP, com’è noto oggetto in letteratura di uno sterminato, anche se criticato, filone di ricerca, fanno riferimento non tanto al vantaggio competitivo, quanto a misure contabili – qual è appunto il profitto – o di mercato – quali il valore azionario – di corporate financial performance. E che tali ricerche non considerino necessariamente il profitto di lungo periodo è testimoniato dal fatto che esse utilizzano non di rado dati relativi a uno specifico esercizio. Ancora, il dibattito sul ruolo sociale dell’impresa e sul modo in cui essa concretamente lo interpreta difficilmente ruota intorno al concetto di vantaggio competitivo – la qual cosa, invece, gioverebbe alla qualità del dibattito stesso – ma a quello di profitto o, tutt’al più, di valore per gli azionisti. Nel presente paragrafo, pertanto, si cercherà di affinare la comprensione dei meccanismi e dei processi posti in atto dalle imprese che integrano la RSI nella loro strategia distinguendo: – il profitto dal vantaggio competitivo; 166 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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fra diversi tipi di profitto in relazione all’orizzonte temporale di riferimento, al modo in cui viene conseguito e al modo in cui viene impiegato; il profitto dal valore per gli azionisti.
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4.3.1 La ricerca del profitto di lungo periodo come condizione di sostenibilità di una valida sintesi socio–competitiva L’interrogativo fondamentale di ricerca è quale tipo di profitto sia necessario per alimentare una relazione sinergica fra vantaggio competitivo e coesione sociale, nonché quale tipo di profitto ne discenda. L’assunto dal quale si parte è che la mera considerazione del profitto tout court, ossia senza entrare nel merito di come esso venga prodotto e di come venga impiegato (Coda, 1988a) 299 , è non solo inadeguata, ma persino pericolosa, nel senso che, venendo meno alcuni punti di riferimento fondamentali per una disamina approfondita e radicata in una comprensione profonda della realtà delle imprese, il dibattito sulle relazioni fra profitto, socialità e vantaggio competitivo rischia di degenerare in un confronto ideologico e fondato in ultima analisi su pregiudizi e modelli mentali rigidi. Ebbene, se si vuole comprendere in modo non superficiale il ruolo del profitto in rapporto al vantaggio competitivo e alla coesione sociale, è necessario analizzarne a fondo i seguenti caratteri, per altro fra loro strettamente interconnessi: origine, destinazione, entità, orizzonte temporale. Per quanto riguarda l’origine, il profitto è in grado di alimentare la coesione sociale solo se è stato conseguito in modo etico, nel pieno rispetto della legalità e senza sacrificio sistematico delle attese di una o più categorie di stakeholder. In caso contrario, il management perde credibilità al cospetto degli stakeholder e, soprattutto, gli vengono a mancare quei consensi e quei supporti di cui ha bisogno in sede di formulazione e poi di realizzazione della strategia. Nei casi più gravi, la conflittualità e il malcontento – quando non le vicende giudiziarie – possono minare la sopravvivenza stessa dell’impresa. Quanto alla destinazione, un profitto che non viene reinvestito in misura adeguata finisce con il compromettere sia la competitività, perché viene intaccata la capacità innovativa e di adattamento alle dinamiche ambientali, sia la coesione sociale, dal momento che gli stakeholder percepiscono un’iniqua distribuzione del valore creato, e dunque con il minare le stesse basi della continuità duratura dell’impresa in condizioni di autonomia, ossia l’economicità. Ciò è tanto più vero quanto più l’ambiente è dinamico (Eisenhardt e Brown, 1997), nel senso che mutano rapidamente le basi della competizione 300 e cambiano o si intensificano le “(…) il fine di reddito è ben lungi dal poter essere definito in termini univoci, ma si qualifica per ciò da cui gli utili scaturiscono e per ciò cui essi sono in via prioritaria destinati”. Coda V., op. cit., 1988a, p. 166. 300 In un contesto statico, invece, la sostenibilità del vantaggio competitivo è assicurata dalla presenza di “meccanismi di isolamento” che limitano la capacità di imitazione o di sostituzione dei concorrenti (Barney, 1986, Lippman e Rumelt, 1982, Gottschalg e Zollo, 2007a). 299
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richieste da parte degli stakeholder. Origine e destinazione del profitto convergono, per così dire, nell’orizzonte temporale quando si riflette sulle relazioni fra il profitto stesso e il vantaggio competitivo. Origine e destinazione del profitto sono, in ultima analisi, tutt’uno con il suo orizzonte temporale: “il profitto di breve tipicamente scaturisce da opportunità semplici e contingenti di fare profitti, dallo sfruttamento di posizioni di rendita (tecnologica o di altra natura), dalla rinuncia ad investimenti che non abbiano un ritorno immediato ed alimenta processi di arricchimento individuale o di accumulazione capitalistica in seno all’impresa che non si risolvono in una crescita della competitività e della forza coesiva della stessa. Per contro, il profitto di lungo periodo tipicamente scaturisce da una forte capacità competitiva ed è prioritariamente destinato a mantenerla” (Coda, 1988a: 167). Qualche considerazione a parte merita l’entità del profitto. Si è in precedenza espresso disaccordo rispetto alla posizione di Barnett (2007), secondo il quale livelli molto elevati di profitto generano in quanto tali una percezione e una reazione negativa da parte degli stakeholder. Si assume invece che sia proprio la qualità percepita del profitto, ossia la sua origine e la sua destinazione, a determinare prioritariamente il modo in cui gli stakeholder vi reagiscono. Si ipotizza inoltre che livelli bassi di profitto, soprattutto se riflessi nei corsi azionari, possano indurre i vertici aziendali a intraprendere azioni e iniziative volte a recuperare redditività in tempi brevi, ma con il rischio di intaccare le relazioni con gli stakeholder e di pregiudicare la redditività a più lungo termine. Tale rischio, naturalmente, è tanto più elevato quanto meno il management è animato da valori etico-sociali forti e positivi. Si pensi, per esempio, al caso di una banca che, in presenza di una riduzione degli spread che comprime il margine di interesse, promuove la vendita di prodotti finanziari a elevato rischio incurante del livello di consapevolezza, delle competenze e del fabbisogno dei clienti, allo scopo di accrescere i margini commissionali. In questo modo il recupero di redditività nel breve termine, oltre a contravvenire ad alcuni principi etici fondamentali, va con ogni probabilità a scapito della soddisfazione dei clienti, della reputazione della banca e quindi della sua redditività nel lungo periodo. Oppure, il tentativo di un veloce ripristino di livelli ritenuti adeguati di redditività potrebbe avvenire impiegando il capitale in iniziative che presentano sì un margine elevato, in termini di basis point, ma anche un livello di rischio altrettanto elevato, con l’ulteriore conseguenza di aumentare l’assorbimento di capitale, di ridurre la flessibilità degli impieghi e quindi di mettere a repentaglio il circuito virtuoso sviluppo della banca – sviluppo dei territori. Nei casi peggiori, le difficoltà sul piano reddituale e finanziario, magari a seguito di una scelta di investimento rivelatasi sbagliata, potrebbero indurre i vertici aziendali privi di solide basi etico-sociali a intraprendere comportamenti illegali e scelte manageriali infelici che, alla lunga, trascinano l’impresa in una spirale irreversibile di perdite e di deterioramento delle relazioni con gli stakeholder. In sintesi, dunque, livelli bassi di profitto, se e nella misura in cui si protraggono per tempi lunghi, minacciano in vario modo sia la capacità di un’impresa di creare e di ricreare costantemente le condizioni per la sua 168 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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competitività, sia di stabilire o di mantenere relazioni costruttive e coesive con i suoi stakeholder. In tal senso, quindi, la ricerca di adeguati livelli di profitto, purché in un’ottica di lungo periodo, non va contro la RSI, ma ne costituisce un presupposto. Come osserva Corticelli (1995, p. 37), in assenza di “un equilibrio durevole ed evolutivo tra costi e ricavi”, l’impresa non è neppure in grado di assolvere la sua funzione sociale (Kaku, 1997). La ricerca del profitto di lungo periodo è dunque parte integrante della responsabilità dell’impresa. Vi è poi un ulteriore elemento. La ricerca di un profitto dalle solide basi impone ai vertici e all’intera struttura aziendale una sana disciplina, che si estrinseca nel dover continuamente far fronte al vincolo della scarsità delle risorse e quindi a farne un utilizzo oculato. Tale vincolo, per di più, induce una certa tensione a ricercare idee e soluzioni nuove per impiegare proficuamente le risorse disponibili e generare ulteriori risorse. Al contrario, nelle imprese in cui le perdite della gestione vengono sistematicamente coperte, magari in modo indiretto, tramite sussidi pubblici 301 , ma anche nelle imprese private nelle quali i vertici non esitano a intraprendere iniziative spregiudicate o comunque di corto respiro per sostenere la redditività, tale preziosa funzione “educativa” svolta dalla ricerca di un profitto di lungo periodo viene pericolosamente a mancare. Ne consegue una perdita di tonicità e di vitalità imprenditoriale, che non può che riflettersi negativamente anche sul fronte della ricerca del vantaggio competitivo e della soddisfazione degli stakeholder. In tali imprese, inoltre, non è raro riscontrare vere e proprie patologie organizzative, che alimentano e nel contempo discendono da una cultura aziendale distorta: i dipendenti sono premiati non in relazione al loro effettivo contributo ai risultati di lungo periodo, ma alla loro disponibilità ad appoggiare e a seguire i manager “forti”, talora persino a esserne complici; il consenso degli stakeholder è ricercato soprattutto attraverso azioni di lobbying, scambi di favori e forme di RSI window-dressing, tese cioè ad accreditare un’immagine di responsabilità e di socialità non corrispondente al vero. In sintesi, la ricerca e il conseguimento di un profitto di lungo periodo, ossia dalle solide basi e quindi sostenibile, sono condizioni necessarie per la messa a punto e il funzionamento di quelle valide “sintesi socio-competitive” (Molteni, 2007) nelle quali sole l’integrazione della RSI nella strategia si manifesta concretamente. Un tale profitto, infatti, alimenta la credibilità dell’impresa e la fiducia da parte degli stakeholder, oltre che gli investimenti necessari ad assicurare la competitività. Un tale profitto infonde disciplina nella struttura aziendale e, nel contempo, incentiva l’innovazione. Un tale profitto, infine, è spesso l’unico che può scaturire da iniziative imprenditoriali che si pongono realmente al servizio della funzione sociale, oltre che economica, dell’impresa.
I vincoli imposti dall’Unione Europea hanno certamente ridimensionato, ma non eliminato, tale prassi. 301
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4.3.2 L’integrazione della RSI nella strategia e il livello dei profitti Per andare ancora più a fondo nella comprensione del rapporto fra RSI integrata nella strategia e profitto, è opportuno porsi due ulteriori interrogativi. Il primo è se le imprese che integrano la RSI nella loro strategia conseguano profitti più elevati oppure inferiori rispetto a quelle che non adottano tale impostazione. E’ ragionevole ipotizzare che non esista una risposta univoca a tale interrogativo. Gli studiosi, nonostante gli ingenti sforzi di ricerca empirica, non hanno saputo dare una risposta convincente; per di più, hanno indagato le relazioni fra profitto e RSI genericamente intesa, senza soffermarsi specificamente, se non in pochissimi casi, sulle imprese che hanno saputo concepire e mettere a punto delle valide sintesi socio-competitive. Ci si limita, di seguito, a proporre qualche argomentazione al fine, più che di dare risposte, di contribuire a mettere meglio a fuoco il problema. In primo luogo, si può ipotizzare, in linea con quanto già scritto nel presente capitolo, che il profitto conseguito dalle imprese che integrano la RSI nella loro strategia non può che essere un profitto di lungo periodo. Ciò in quanto, da un lato, la messa a punto di formule imprenditoriali capaci simultaneamente di offrire ai clienti un sistema di prodotto caratterizzato da un vantaggio competitivo sostenibile e agli altri stakeholder una “proposta progettuale” più attrattiva rispetto a quella offerta loro dai concorrenti richiede di norma un surplus di investimento, creatività, innovazione. Dall’altro, come si è potuto constatare dall’analisi di alcuni casi, il conseguimento di profitti, ma spesso anche solo il raggiungimento del punto di pareggio, richiede tempi lunghi. In secondo luogo, alcune delle sintesi socio-competitive nelle quali si manifesta in concreto l’integrazione della RSI nella strategia implicano l’ingresso e lo sviluppo in segmenti di mercato nei quali la concorrenza è inesistente o comunque assai poco intensa, proprio in quanto i potenziali concorrenti li reputano a bassa redditività e quindi poco attrattivi. Ne sono esempi significativi quelli composti da fasce di popolazione “alla base della piramide”, descritti da Prahalad e Hammond (2002), oppure il caso MinuteClinics illustrato da Christensen et al. (2006): quest’ultima è una realtà for profit, con quartier generale a Minneapolis negli Stati Uniti, composta da 87 cliniche la cui missione è quella di raggiungere una popolazione ampia e con difficoltà di accesso ai servizi sanitari a prezzo elevato comunemente offerti sul mercato 302 . Ebbene, in questi casi, proprio l’assenza di concorrenti e la necessità di mettere a punto modelli di business innovativi rendono problematico stimare a priori la redditività potenzialmente ottenibile 303 . 302 “MinuteClinics may offer ‘lesser’ health services than a doctor’s office would, but this reduced scope amounts to a good-enough service that’s attractive to a large, underserved population. (…) MinuteClinics also provide services that many incumbent health providers resist offering because the services generate limited profits and result in little professional satisfaction”. Christensen et al., 2006, p. 97. 303 Si riprendono qui sinteticamente alcune considerazioni svolte supra, nel § 4.2.1, a proposito della RSI nella proposta di valore al cliente.
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E’ ragionevole ipotizzare, invece, che le imprese che hanno saputo identificare e servire i segmenti di clientela per i quali la RSI è un fattore critico di successo e sono pertanto disponibili a pagare un price premium possano conseguire livelli di profitto superiori rispetto ai concorrenti. L’entità di tale profitto dipende, naturalmente, dall’ampiezza di tali segmenti e dalla capacità delle imprese di erigere barriere alla mobilità (Porter, 1985) che rendano problematico l’ingresso per i concorrenti. Ciò dipende, ancora una volta, dal fatto che le risorse e le competenze necessarie per operarvi con successo presentino i caratteri – essere cioè di valore, rare, difficili da imitare – delineati dalla resource-based view. Il secondo interrogativo è se sia giusto che un’impresa consegua livelli di profitto inferiori a seguito dell’adozione di una strategia che integra la RSI. Giusto, s’intende, in relazione al ruolo dell’impresa nella società e al perseguimento dell’obiettivo della funzionalità duratura. Sotto il primo profilo, si può affermare che, in linea di principio, ciò è compatibile con una funzione-obiettivo dell’impresa che include la “socialità” e non è imperniata sulla ricerca della massimizzazione del profitto. Ma qual è il “limite” al sacrificio dei profitti che un’impresa potrebbe accettare in vista di produrre un superiore impatto sociale positivo? Una possibile risposta, che si reputa condivisibile, è quella proposta da Margolis e Walsh (2003): ciò che non si deve in ogni caso mettere a repentaglio è la capacità dell’impresa di svolgere la sua funzione fondamentale, che è quella di produrre beni e servizi e, in tal modo, generare ricchezza 304 . E’ ammissibile, secondo i due Autori, una minore profittabilità o anche una minore produttività se all’origine vi è un valido contributo a ridurre le “miserie” del mondo, non lo è, invece, se le iniziative in tale direzione indeboliscono la capacità dell’impresa di essere profittevole e produttiva in futuro. Tale criterio, a ben guardare, coincide nella sostanza con quello della ricerca della redditività di lungo periodo come condizione e conseguenza al tempo stesso di una RSI integrata nella strategia. 4.3.3 Il disaccoppiamento del profitto dal valore per gli azionisti Un ulteriore aspetto che merita di essere quanto meno accennato è la relazione fra profitto e valore per gli azionisti, espresso, quest’ultimo, dal prezzo di mercato delle azioni. L’ipotesi che qui si propone è che la RSI possa, a certe condizioni, determinare un disaccoppiamento del profitto dal valore per gli azionisti. In altri termini, nelle imprese che integrano la RSI nella loro strategia – ma anche, a ben guardare, nelle imprese socialmente responsabili tout court – a minori profitti o a minori flussi di cassa a seguito della RSI potrebbero “If a primary function of a business organization is to produce goods and services and, in so doing, generate wealth, then the firm’s capacity to perform that function receives special protection. (…) To be clear, it is the capacity of the firm to perform one of its central functions that cannot be sacrificed, not actual performance of the function itself. If a company reduces its profitability or productivity in order to ameliorate misery, that is more likely to lie within the permissible boundary, whereas efforts to ameliorate misery that impair the company’s capacity to be profitable or productive would more likely be prohibited”. Margolis e Walsh, 2003, pp. 295296. 304
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corrispondere incrementi del valore azionario. Ciò si verifica in presenza di una o di entrambe le seguenti condizioni. - La RSI viene percepita dagli investitori come un fattore di riduzione del rischio (Miolo Vitali, 1993) 305 , il che implica un minore costo del capitale ke e un maggiore rapporto Price/Earnings (P/E). Non si tratta solamente di scontare i rischi legali e reputazionali conseguenti a comportamenti non responsabili, ma, più in generale, i rischi connessi a un management inadeguato, di cui la mancanza di responsabilità sociale è un indizio. Chirieleison (2002, pp. 89-90), rifacendosi ai contributi di Bowman e Haire (1975) e di Richardson et al. (1999), osserva come “gli stakeholder – e in particolare gli azionisti e i potenziali investitori – possano vedere la CSR come un indicatore degli skill del management e quindi considerare un’impresa scarsamente responsabile come un investimento ad elevato rischio, valutando che la qualità del suo management sia bassa, con un impatto significativo sulla possibilità (e, soprattutto, sul costo) di ottenere capitale di rischio”; - vi è una domanda di RSI superiore all’offerta, per cui gli investitori sono disposti a pagare di più le azioni di un’impresa che investe in responsabilità sociale: è questa l’ipotesi formulata nel più volte citato contributo di Mackey et al. (2007). In linea di principio, la domanda di RSI potrebbe dipendere anche dalla ricerca di imprese meno rischiose e quindi rientrare nella prima condizione: qui si fa tuttavia specifico riferimento alla domanda di RSI che si fonda sull’adesione degli investitori a valori etico-sociali. Quali sono le implicazioni di un tale disaccoppiamento? E’ evidente che l’incentivo per le imprese ad agire in modo socialmente responsabile sarà tanto maggiore quanto più gli investitori “domandano” RSI. Ne consegue che eventuali iniziative da parte degli stakeholder volte a promuovere pratiche di responsabilità sociale potrebbero utilmente avere come destinatari la domanda e non solo l’offerta di RSI. Le imprese quotate, a loro volta, se e nella misura in cui hanno interiorizzato la cultura della RSI, potrebbero trarre vantaggio da un’opera di comunicazione e di sensibilizzazione all’esterno volta a diffondere fra i propri azionisti attuali e potenziali la consapevolezza delle implicazioni della RSI in termini di contenimento dei rischi legali e reputazionali, nonché a promuovere una cultura d’impresa che recepisca non solo il valore della socialità, ma anche il potenziale sinergico che scaturisce dalla sua integrazione nella strategia.
305 “Nell’azienda non solo è possibile che le valutazioni reddituali, finanziarie e competitive coesistano con quelle etico-sociali, (…) ma che queste ultime, quando non vengano adeguatamente considerate e integrate con le prime, originano una classe di rischi, diversi da un nucleo produttivo all’altro, che se non opportunamente fronteggiati possono minare profondamente il sistema aziendale”. Miolo Vitali, 1993, pag. 744, citata anche da Chirieleison, 2002, p. 12.
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5.
Il processo di integrazione della RSI nella strategia: un modello sistemico
5.1 Gli interrogativi di ricerca Nel capitolo precedente ci si è soffermati sulle relazioni sinergiche fra RSI e vantaggio competitivo, relazioni che spiegano il funzionamento delle sintesi socio-competitive messe a punto dalle imprese che integrano la responsabilità sociale nella loro strategia. Nel presente capitolo ci si concentra invece sui processi e sulle condizioni che conducono a tale integrazione. In maggiore dettaglio, gli interrogativi ai quali si cerca di dare risposta si possono ricondurre ai seguenti. • Quali processi e condizioni spiegano l’inclusione della RSI nella funzione – obiettivo dell’impresa? • Quali processi e condizioni conducono un’impresa a integrare la RSI nella propria strategia, ovvero a formulare valide “sintesi sociocompetitive”? • Quali processi e condizioni fanno sì che una strategia che integra la RSI venga efficacemente realizzata? Tali interrogativi richiamano, ad evidenza, il carattere di pervasività che caratterizza la RSI integrata nella strategia: essa, infatti, deve informare sia il livello soft, che attiene a variabili per lo più implicite ma di grande rilievo quali gli obiettivi, i valori e la cultura, sia il livello hard, che attiene invece alle strategie nelle quali le variabili soft si manifestano concretamente. Tali strategie, a loro volta, devono essere esaminate sotto il duplice profilo della formulazione, che conduce all’identificazione di sintesi socio-competitive, e della loro effettiva realizzazione. In altri termini, non è possibile parlare di integrazione della RSI nella strategia se la “socialità” non entra simultaneamente nella funzioneobiettivo dell’impresa e nelle basi del vantaggio competitivo che un’impresa intende perseguire e se non si creano le condizioni operative e organizzative funzionali al dispiegarsi del potenziale di socialità e di competitività insito nella strategia formulata. 173 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Per cercare di dare risposta a tali interrogativi si applicherà un modello dinamico di formazione della strategia messo a punto da Coda e Mollona (2002). Tale modello, ricorrendo all’analisi dinamica dei sistemi, che ha avuto in Forrester uno dei principali artefici, si fonda sull’identificazione dei principali processi e sottoprocessi nei quali si articolano la formulazione e la realizzazione della strategia e si propone di offrire al management uno schema di riferimento utile a governare tali processi sia quando si tratta di gestire efficacemente l’impostazione strategica in atto, sia quando è opportuna una revisione in logica incrementale, sia, ancora, quando si tratta di modificarla radicalmente. Il paragrafo successivo (§ 5.2) sarà dedicato a una sintetica illustrazione del modello di Coda e Mollona. Successivamente si cercherà di adattare e, nel contempo, di applicare tale modello per spiegare i processi che conducono all’integrazione della RSI nella strategia. Nel far ciò, si illustreranno dapprima le variabili-livello (§ 5.3) e le variabili-flusso (§ 5.4), per poi soffermarsi sulle relazioni di causa-effetto che le connettono, componendo quattro circuiti a retroazione che spiegano, a diversi livelli, l’inclusione della “socialità” nella strategia di un’impresa (§ 5.5). Il § 5.6, infine, conterrà alcune considerazioni conclusive. 5.2 Il modello utilizzato Il modello di Coda e Mollona nasce dalla constatazione che nella vasta letteratura sui processi di gestione strategica permangono alcune ambiguità derivanti, in ultima analisi, dalla mancata distinzione fra processi e variabili di stato, ossia i risultati di tali processi. La strategia deliberata (Mintzberg, 1985) – osservano i due Autori – potrebbe essere intesa, di per sé, come “un risultato osservabile di processi deliberatamente volti a realizzare le intenzioni strategiche”, oppure come “il susseguirsi di azioni manageriali realizzative, deliberatamente volte a mettere in atto le intenzioni strategiche”. Si tratta, ad evidenza, di un’ambiguità che la distinzione esplicita fra variabili-flusso (ossia i processi) e variabili-livello (ossia i risultati di tali processi) permette di superare, nella consapevolezza che essa “(…) è un necessario punto di partenza per una descrizione accurata dei meccanismi di gestione strategica nelle aziende”. Il ricorso alla system dynamics, che affonda le proprie radici non solo nell’impostazione di Forrester, ma anche nella scuola aziendalistica italiana (Zappa, 1957) 306 , ha soprattutto il pregio di rappresentare le relazioni di causaeffetto e i circuiti a retroazione (feedback) che informano i processi di governo strategico delle aziende, enfatizzando il ruolo-cardine dell’osservazione dei risultati raggiunti e dell’apprendimento come fattori fondamentali della dinamica della strategia. Coda e Mollona (2002) osservano come Zappa (1957, II Tomo: 930-931), a proposito della rappresentazione del dinamismo dei fenomeni economici e produttivi, affermasse la necessità di definire tempi e durate per descrivere i processi nell’”unità di tempo”, a ciò non bastando la descrizione del movimento come una “successione di stati”. 306
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Il modello in questione si compone di quattro circuiti a retroazione (figura 5.1), di seguito brevemente illustrati. 1. Il primo circuito, quello del controllo strategico, fa perno sul divario (gap) fra strategia intenzionale e strategia deliberata. Da un lato, tale divario genera una tensione che indirizza e incentiva il management a realizzare la strategia intenzionale; dall’altro, le azioni manageriali volte a realizzare la strategia intenzionale implicano, come tali, una riduzione o comunque un controllo del gap. La strategia intenzionale non viene messa in discussione. 2. Il circuito della formazione delle intenzioni strategiche, invece, prevede la possibilità che la strategia intenzionale sia rivista o modificata sulla base degli stimoli che provengono dall’osservazione della strategia realizzata e dalle performance aziendali che ne costituiscono parte integrante. L’attivazione e il funzionamento di tale circuito non implica una modifica dei valori, delle ambizioni e dei modelli mentali del top management, che si assumono come dati. 3. Il circuito dell’imprenditorialità e dell’iniziativa diffusa pone al centro dell’attenzione i processi di generazione delle innovazioni, che possono essere avviati dal basso (bottom-up), e i successivi processi di selezione di tali innovazioni. Da un lato, il contesto strategico-organizzativo, che è parte integrante della strategia realizzata, influisce sulla possibilità che vengano promossi processi innovativi, i quali alimentano lo stock di innovazioni strategiche e operative in un certo istante. Dall’altro, le innovazioni che superano i processi di selezione concorrono a loro volta a modificare la strategia realizzata, divenendone parte integrante. 4. Infine, il circuito dell’apprendimento / revisione dei modelli mentali e dell’orientamento strategico di fondo (OSF) è quello che agisce in maggiore profondità, dal momento che l’osservazione della strategia realizzata incide sul sistema di valori, sugli obiettivi e sui modelli mentali del vertice aziendale. Non viene messa primariamente in discussione la strategia intenzionale, ma gli assunti e i convincimenti sui quali essa si fonda. I circuiti 1, 2 e 4 sono direttamente governati dal vertice aziendale, mentre il terzo ha per protagonisti, potenzialmente, chiunque all’interno dell’organizzazione sia in grado di sviluppare nuove idee e iniziative. Il vertice aziendale svolge un ruolo di governo indiretto. Quanto ai primi tre circuiti, inoltre, quello del controllo strategico, essendo finalizzato a realizzare la strategia intenzionale, è volto in ultima analisi a ridurre il gap; i circuiti 2 e 4, invece, possono essere governati per riaprire il gap, generando nell’organizzazione un nuova tensione costruttiva capace di prevenire rischi inerziali e di indurre ad affrontare nuove sfide, consistenti in una nuova strategia intenzionale o, a monte, in nuove “visioni del mondo”, che, prima o poi, impattano a loro volta sui processi di formazione delle strategie intenzionali. 175 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Ne deriva, in un’ottica normativa, che il vertice aziendale dovrebbe governare la dinamica della strategia calibrando attentamente l’enfasi sul circuito 1 e l’enfasi sui circuiti 2, 3 e 4: in caso di sbilanciamento verso il circuito 1, l’organizzazione corre il rischio di rimanere imbrigliata in una sorta di “equilibrio confortevole”; al contrario, nel caso in cui vi sia un eccesso di enfasi sugli altri tre circuiti, essa rischia di essere travolta dal caos indotto da tensioni al cambiamento e all’innovazione che non riescono a incanalarsi in modo ordinato e costruttivo. Il modello ora sinteticamente delineato viene di seguito utilizzato per rappresentare i processi che conducono un’impresa a integrare la RSI nella propria strategia.
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Figura 5.1
I quattro circuiti a retroazione che compongono il modello dinamico di formazione della strategia di Coda e Mollona (2002) Processi di apprendimento di valori, obiettivi e modelli mentali degli attori-chiave
Esperienze passate degli attori - chiave
Valori, obiettivi, modelli mentali degli attori - chiave
Ambiente esterno 4 Processi di generazione delle innovazioni
Processi di formazione della strategia intenzionale che incorpora la RSI Strategia realizzata
2
3 Strategia intenzionale che incorpora la RSI Variabili-stock
Innovazioni strategiche e operative
1 Azioni manageriali volte a realizzare la strategia intenzionale che incorpora la RSI
Gap
Variabili-flusso
Processi di selezione e realizzazione delle innovazioni
Fonte: Coda e Mollona (2002), con adattamenti.
5.3 Le variabili-livello Le variabili-livello (o variabili-stock) costituiscono il risultato dei processi e delle azioni passate e, nel contempo, influenzano le azioni e i processi futuri. Rappresentano, dunque, lo stato del sistema in un dato istante. Perché si possa parlare di integrazione della RSI nella strategia è necessario che la “socialità” sia in qualche misura impressa in tutte e quattro le variabili-livello individuate nel modello. Con ciò non s’intende affatto affermare che tale integrazione sia una 176 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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condizione che un’impresa raggiunge una volta per tutte. Al contrario, le variabili-livello rappresentano lo stato di un sistema in continua evoluzione, che, a seconda dei casi, può andare nella direzione di rafforzare l’integrazione, di indebolirla, di modificarla. a) La prima variabile-livello è costituita dalle variabili-soft della strategia aziendale, ossia quelle per lo più implicite ma che determinano poi gli indirizzi strategici concreti. Si tratta dei valori, degli obiettivi e dei modelli mentali, ossia dei fattori emotivi, cognitivi e valoriali all’origine delle scelte e delle decisioni assunte dagli attori-chiave di un’impresa. In una parola, dell’orientamento strategico di fondo (OSF). Si noti che i valori hanno carattere essenzialmente etico, i modelli mentali hanno natura cognitiva 307 , mentre gli obiettivi si connettono anche alla sfera emotiva. L’ipotesi che qui s’intende avanzare è che il modello di relazione fra RSI e strategia 308 dipenda congiuntamente dai profili emotivi, cognitivi ed etici di coloro che assumono le decisioni fondamentali per la vita di un’impresa. Perché il modello effettivamente operante sia quello dell’integrazione, devono verificarsi almeno tre condizioni, relative, rispettivamente, a questi tre profili. In primo luogo, è necessario che la “socialità”, intesa come la ricerca della soddisfazione e del benessere dei diversi stakeholder dell’impresa, sia parte integrante della funzione-obiettivo del vertice aziendale. Se così non fosse, infatti, ben difficilmente i fini di carattere sociale potrebbero essere inclusi nella funzione-obiettivo dell’impresa, in quanto soggetto collettivo, e quindi, per definizione, la RSI essere integrata nella strategia. E’ bene ricordare che tale inclusione da parte degli attori-chiave dell’azienda si collega strettamente alla motivazione edonica (Lindenberg, 2001) per la RSI, nel senso che si assume che in tale ipotesi essi siano indotti ad agire in modo socialmente responsabile dall’emozione positiva che ne ricavano 309 . Una tale motivazione è all’origine di comportamenti e di scelte strategiche che difficilmente potrebbero fondarsi soltanto su logiche di tipo strumentale o su principi etici. La seconda condizione è che gli attori-chiave ritengano possibile l’integrazione della RSI nella strategia, ossia che le assunzioni che formano i loro modelli mentali ammettano la possibilità di relazioni sinergiche di lungo periodo fra competitività, socialità e profitto. Una tale “visione del mondo” si contrappone a quella, per altro ancora diffusa, secondo la quale la funzione sociale dell’impresa o è un ideale irraggiungibile, in quanto realisticamente incompatibile con la sua funzione economica di generare profitto e valore per gli azionisti, o, al limite, si realizza, secondo la logica della mano invisibile, in modo automatico per effetto della ricerca della massimizzazione del profitto. La terza e ultima condizione attiene invece alla sfera etico-valoriale. Sotto questo profilo è necessario che il sistema dei valori degli attori-chiave ricomprenda, Ciò non implica che gli attori-chiave siano necessariamente consapevoli dei loro modelli mentali. 308 Ai diversi modelli di relazione fra RSI e strategia aziendale è interamente dedicato il capitolo 3. 309 Il tema delle motivazioni edoniche per la RSI è stato ampiamente trattato nel § 3.2.5. 307
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oltre naturalmente ai valori etici fondamentali quali l’onestà, la legalità, il rispetto per la persona, anche la socialità e l’economicità. Ma per quale motivo – viene da chiedersi – non è sufficiente che la ricerca del benessere degli stakeholder sia percepita come desiderabile e giudicata compatibile con gli obiettivi di profitto e di competitività perché la RSI sia integrata nella strategia? La risposta poggia su due ordini di ragioni. Innanzi tutto, il radicamento della socialità nel sistema dei valori ha una funzione disciplinante, nel senso che previene il rischio di comportamenti irresponsabili quando, in presenza di un’intensificazione delle pressioni sul fronte competitivo o sociale o nel caso in cui si debbano assumere decisioni che, nel breve periodo, comportano il sacrificio di una o più attese degli stakeholder, le motivazioni edoniche non sono presumibilmente in grado di orientare nella giusta direzione l’azione dei vertici aziendali. In secondo luogo, la valenza etica della socialità produce in ogni caso l’effetto di rafforzare la motivazione a decidere e ad agire nella direzione della responsabilità sociale. Infine, l’inclusione dell’economicità, che come tale ricomprende anche il profitto, nel sistema dei valori funge anch’essa da fattore disciplinante nei confronti di quei vertici aziendali che, in nome della socialità, potrebbero essere indotti in certe situazioni a trascurare le condizioni di equilibrio economico duraturo dell’impresa, mettendone a repentaglio la sopravvivenza nel lungo periodo e quindi la stessa capacità di soddisfare le attese degli stakeholder. b) La seconda variabile-stock è la strategia intenzionale che incorpora la RSI. Essa consiste, in ultima analisi, nella visione della sintesi socio-competitiva in grado di coniugare in modo innovativo obiettivi di competitività e obiettivi di socialità. E’ la strategia che, proprio in quanto ha valore su un duplice piano, è in grado di motivare i collaboratori, quando non di entusiasmarli. Ancora, è la strategia che, se ben comunicata agli stakeholder, ne favorisce il consenso e il supporto alla realizzazione. E’ la strategia, infine, che dovrebbe essere relativamente stabile nel tempo, perché, essendo di ampio respiro e innovativa, richiede di norma tempi non brevi per essere efficacemente realizzata. Essa richiama il concetto di strategic intent di Hamel e Prahalad (1989). Per identificarla è necessario, in genere, ricorrere a interviste o a dichiarazioni del top management, oppure a documenti ufficiali della società quali il bilancio, la relazione sulla gestione o eventuali documenti di rendicontazione sociale. c) La strategia realizzata costituisce lo “stato dell’arte” della strategia aziendale in un dato momento. Essa include sia elementi che definiscono la struttura aziendale e il posizionamento strategico sui diversi mercati sui quali l’azienda opera, sia elementi espressivi della performance aziendale sotto il triplice profilo dell’economicità, della competitività e della socialità. Ne sono parte integrante, dunque, la cultura e i valori aziendali di fatto operanti, fra i quali la concezione della relazione con gli stakeholder, il ruolo del profitto, l’atteggiamento nei confronti dell’innovazione e via dicendo; l’assetto organizzativo, composto dalla struttura organizzativa e dai sistemi operativi, i 178 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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quali ultimi possono eventualmente prevedere sistemi di incentivazione del personale e di carriera che tengono conto in varia misura anche della soddisfazione degli stakeholder; l’assetto patrimoniale e finanziario; il posizionamento nel sistema competitivo, espresso anche da indicatori di performance quali le quote di mercato, il grado di penetrazione della clientela, ecc.; il livello di soddisfazione e di coesione degli stakeholder, che si può evincere sia attraverso variabili quantitative quali i tassi di assenteismo e di turnover del personale o le ore di sciopero, sia, soprattutto, dalla qualità delle relazioni con le varie categorie di stakeholder e che si manifestano in certi livelli di consenso, di cooperazione e di appoggio alle scelte aziendali. Nelle imprese che integrano la RSI nella strategia la strategia realizzata assume la forma di una sintesi socio-competitiva che riconduce ad unità i diversi elementi strutturali, di posizionamento e di performance. d) Infine, il portafoglio di innovazioni strategiche e operative esistente in un certo momento ha un ruolo fondamentale ai fini della realizzazione o del rafforzamento dell’integrazione della RSI nella strategia. Esso può essere analizzato lungo almeno due dimensioni: la prima è lo stato di avanzamento delle singole innovazioni, la seconda è la loro rilevanza per la strategia aziendale. Sotto il primo profilo, esso include sia idee o proposte a uno stato ancora embrionale – ne costituisce un esempio il già citato “box delle idee” al quale tutti i dipendenti della Solvay sono invitati a contribuire 310 – sia progetti in avanzata fase di sperimentazione. Sotto il secondo profilo, esso comprende idee e progetti in grado di produrre un qualche impatto positivo, in termini di produttività o di impatto sociale e ambientale, a livello di singole attività della catena del valore, ma anche progetti che costituiscono in se stessi delle sintesi socio-competitive in fase sperimentale. 5.4 Le variabili-flusso Le variabili-flusso rappresentano invece i processi che alimentano, nel corso di un certo periodo di tempo, le variabili-stock e, nel contempo, ne sono alimentati. Si illustrano di seguito sinteticamente le cinque variabili-flusso incluse nel modello. Nel paragrafo successivo esse saranno riprese in maggiore dettaglio, insieme alle variabili-stock, per descrivere il funzionamento dei circuiti a retroazione che spiegano le condizioni e i processi che conducono un’impresa a integrare la RSI nella propria strategia. In tale sede si farà ricorso altresì ad alcuni casi esemplificativi. i) I processi di apprendimento e di cambiamento dei valori, degli obiettivi e dei modelli mentali degli attori-chiave nascono dall’osservazione della strategia 310
Cfr. supra § 4.2.4.
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realizzata e, in particolare, delle performance conseguite. Si tratta dei processi che agiscono in maggiore profondità, in quanto agiscono sul “software” della strategia, dal momento che modificano lo stato di variabili implicite ma che impattano direttamente sui processi di formazione delle intenzioni strategiche. Essi si manifestano allorché l’osservazione della strategia realizzata attiva un processo – o, meglio, un sottoprocesso – di valutazione e di messa in discussione dell’appropriatezza dei valori, degli obiettivi e dei modelli mentali di cui il vertice aziendale è portatore e che costituiscono la genesi della strategia alla cui realizzazione esso si è fino a quel momento impegnato. Va per altro osservato che l’apprendimento dei valori, degli obiettivi e dei modelli mentali funzionali all’integrazione della RSI nella strategia non si attiva se non dopo che l’osservazione della strategia realizzata ha indotto nel vertice aziendale una sorta di “illuminazione”, ovvero una svolta, a partire dalla quale il processo di apprendimento si sviluppa in modo più graduale. ii) I processi di formazione della strategia intenzionale che incorpora la RSI si compongono a loro volta di almeno quattro sottoprocessi. In primo luogo, l’analisi delle dinamiche evolutive in atto nell’ambiente esterno, le quali potrebbero caratterizzarsi per un aumento delle pressioni degli stakeholder nei confronti della specifica impresa o di un intero settore ad adottare comportamenti socialmente responsabili. I processi di formazione di una strategia intenzionale che incorpora la RSI potrebbero nascere anche dall’analisi delle dinamiche competitive in atto: la percezione o l’attesa di un restringimento dello spazio economico e operativo a disposizione dell’impresa, per esempio, potrebbero stimolare un approccio creativo alla ricerca di nuovi segmenti di mercato e di nuove basi del vantaggio competitivo, che sfocia nella messa a punto di valide sintesi socio-competitive. Si noti che queste ultime non necessariamente si innestano su un sistema di valori e di obiettivi del top management che riconosce un ruolo di rilievo alla “socialità”: ciò può verificarsi eventualmente anche in un secondo momento, attraverso una presa di coscienza progressiva da parte del vertice aziendale dell’impatto sociale prodotto dall’azione dell’impresa – il che avviene ad evidenza osservando la strategia realizzata – e assumendo poi tale impatto nella propria funzione-obiettivo. Proprio l’osservazione della strategia realizzata costituisce il secondo sottoprocesso fondamentale nel quale si articolano i processi di formazione della strategia intenzionale. Esso non sfocia, in questo caso, in una modifica del “software” della strategia, né si limita alla ricerca di un migliore “allineamento” fra strategia intenzionale e strategia realizzata: piuttosto, conduce a un cambiamento più o meno radicale della strategia intenzionale, partendo dall’assunto che essa, così com’è, non può portare alle performance attese. Se i primi due sottoprocessi consistono in prevalenza nell’analisi della situazione esistente – analisi che per altro può avvenire anche in modo assai poco formalizzato, codificato ed esplicito 311 – gli altri due sono invece quelli che Nell’ambito della vastissima letteratura in tema di processi di gestione strategica si possono distinguere, quanto meno a un livello di prima approssimazione, i contributi riconducibili 311
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portano alla vera e propria definizione della strategia intenzionale. Un sottoprocesso consiste nella formulazione di visioni aventi per oggetto una determinata sintesi socio-competitiva: esso identifica determinati bisogni dei clienti non adeguatamente soddisfatti e, nel contempo, un modo originale e innovativo di soddisfarli in grado non solo di rispettare le condizioni di economicità, ma anche di produrre benefici significativi e differenziali rispetto a quanto fanno i concorrenti per una o più categorie di stakeholder. Oppure, identifica delle attese e delle istanze insoddisfatte degli stakeholder e intuisce modalità innovative ed efficaci per darvi risposta, le quali, favorendo l’accesso a risorse e competenze di valore o entrando direttamente nella proposta di valore ai clienti, impattano positivamente anche sulla competitività. Il quarto e ultimo sottoprocesso consiste nella pianificazione strategica, ossia nello sviluppo e nell’articolazione di tali visioni in piani aventi per oggetto la valutazione e l’approvvigionamento delle risorse necessarie, la ricerca del consenso all’interno della struttura aziendale, la comunicazione della strategia intenzionale all’interno e all’esterno dell’azienda, la motivazione del personale e via dicendo. E’ bene precisare che i quattro sottoprocessi sopra delineati non avvengono, di norma, in modo sequenziale, ma presentano sovrapposizioni e si sviluppano in modo spesso iterativo: la formazione della visione di una certa sintesi sociocompetitiva, per esempio, non solo prelude, ma segue anche un processo di valutazione, ancorché implicito, delle risorse e delle competenze di cui l’impresa dispone o alle quali può avere accesso. iii) Le azioni manageriali volte a realizzare la strategia intenzionale che incorpora la RSI sono finalizzate a ridurre il gap fra la strategia intenzionale e quella realizzata. Esse possono ricondursi a una molteplicità di sottoprocessi. Senza pretesa di farne una rassegna esaustiva, si tratta di: - iniziative volte a definire o a modificare la corporate governance. A rigore, dal momento che la variabile-flusso in esame è data dalle azioni manageriali volte a realizzare la strategia intenzionale, si dovrebbe assumere la corporate governance come data, ossia come una variabile di contesto dalla quale dipendono le scelte del management e che fornisce a quest’ultimo gli input fondamentali per le decisioni strategiche. Ciò non di meno, si preferisce in questa sede includere i processi e le scelte riguardanti la corporate governance fra quelle che concorrono alla realizzazione della strategia intenzionale soprattutto per due ragioni: in primo luogo, l’assetto istituzionale, di cui la corporate all’impostazione analitico-razionale, che sottolinea il carattere deliberato e top-down di tali processi, da quelli che ne colgono i profili emergenti, bottom-up, frutto di processi di apprendimento col fare (learning by doing). I contributi seminali del primo tipo sono quelli della scuola harvardiana di Andrews (1971) e di Ansoff (1965, 1979). Fra i lavori più importanti nell’ambito della seconda impostazione si segnala quello di Normann (1977). Mintzberg (1978, 1985) riconosce nei processi di gestione strategica una componente deliberata e una emergente. Per una rassegna della letteratura si vedano per es. Corbetta (1998), Coda e Mollona (2002).
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governance è parte integrante, influisce in modo rilevante sull’attitudine di un’impresa a rappresentare gli interessi dei diversi stakeholder nelle scelte di governo economico (Airoldi, Brunetti, Coda, 2005); in secondo luogo, le strutture e i processi di corporate governance hanno un ruolo fondamentale nel determinare l’attitudine di un’impresa ad attrarre, motivare e trattenere risorse e competenze di valore: si pensi, in proposito, alla separazione tra famiglia e impresa nelle imprese a proprietà familiare come condizione che impatta sull’accesso a competenze manageriali di valore. Iniziative e azioni manageriali volte a creare, gestire, accedere a relazioni di partnership e a network esterni. Si tratta, in ultima analisi, di sottoprocessi di apprendimento e di sottoprocessi funzionali alla condivisione dei rischi e dei costi connessi alla realizzazione della strategia intenzionale. Limitando l’analisi alle iniziative finalizzate a realizzare una strategia che integri la RSI, si pensi, per esempio, alla costruzione delle partnership con imprese locali nei Paesi in via di sviluppo per accelerare e facilitare la messa a punto di modelli di business in grado di migliorare l’accesso a prodotti e servizi essenziali da parte delle popolazioni locali (Prahalad e Hammond, 2002); alla gestione dei network di fornitori al fine di creare, condividere, trattenere le conoscenze utili allo sviluppo di prodotti innovativi ecologicamente compatibili, come nel caso della Toyota 312 (Dyer e Nobeoka, 2000, Dyer e Hatch, 2006); alle relazioni di partnership, sia pure di natura non contrattuale, con enti e istituzioni in grado di promuovere e diffondere la RSI: ad esse si riferisce, per esempio, Zadek (2004) parlando del civil stage come fase finale di un processo di progressiva adesione di un’impresa alle istanze di responsabilità sociale. Iniziative e azioni manageriali finalizzate a plasmare il contesto organizzativo interno in modo da renderlo adeguato alla realizzazione della strategia intenzionale. Tali azioni possono intervenire sui sistemi di valutazione e di incentivazione del management e del personale tutto, prevedendo, per esempio, che i bonus e gli incentivi siano in qualche misura correlati alla performance sociale dell’impresa; oppure, riducendo o eliminando le forme di incentivazione, quali le stock option, che si prestano a utilizzi distorti, in quanto possono indurre il management ad assumere iniziative tese a manipolare il prezzo dell’azione in prossimità della data di scadenza dell’opzione, oppure possono condurre a divari eccessivi fra i compensi dei manager che hanno accesso al programma di stock option e gli altri collaboratori, generando in tal modo una diffusa percezione di iniquità. Può trattarsi, inoltre, di sottoprocessi specifici aventi per oggetto, ad esempio,
Il caso Toyota è analizzato infra nel § 5.5.3.
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l’identificazione e la condivisione dei valori aziendali e la successiva messa a punto del codice etico che li incorpora; l’avvio di programmi di formazione in tema di RSI, che hanno la funzione di accrescere il livello di conoscenza e di consapevolezza del personale sui temi sociali e ambientali, ma anche quella di segnalare il commitment del vertice aziendale in tale direzione. In sintesi, perché possa realizzarsi una strategia intenzionale che integra la RSI è necessario che, parallelamente, la dimensione della socialità si integri nell’assetto organizzativo aziendale, permeando, in particolare, i sistemi operativi di gestione del personale (Weaver et al., 1999, Treviño, 1990) 313 . Iniziative di stakeholder management e di stakeholder engagement. Esse hanno fondamentalmente tre obiettivi: prevenire o ridurre il gap cognitivo fra attese da parte degli stakeholder e percezione che di esse hanno i vertici aziendali; prevenire la formazione o comunque ridurre il gap fra attese degli stakeholder e concrete possibilità dell’azienda di soddisfarle; infine, coinvolgere e motivare gli stakeholder a cooperare con l’azienda nella realizzazione della strategia intenzionale. Si tratta di iniziative delicate, in quanto devono essere calibrate attentamente per far sì che le relazioni con gli stakeholder siano improntate all’ascolto, alla fiducia e alla cooperazione reciproca, ma nello stesso tempo si eviti qualunque forma di appiattimento sulle loro istanze così come, all’opposto, di manipolazione del consenso. Tramite tali iniziative, l’impresa deve essere costantemente aggiornata sull’evoluzione delle attese degli stakeholder o sull’emergerne di nuovi; meglio ancora, deve affinare la propria sensibilità per anticiparle e prevederne l’evoluzione. Nel contempo, deve informare gli stessi stakeholder della propria strategia intenzionale, dei processi realizzativi in atto, dei problemi e delle difficoltà incontrate, evitando di suscitare attese di risultati a breve non realizzabili senza compromettere quelli a medio-lungo termine. Interventi sui processi di comunicazione (per es., Morsing e Schultz, 2006) e di reporting sociale (per es., Tencati, 2002). Se da un certo punto di vista essi costituiscono parte integrante di quelli di stakeholder management, è altresì vero che la specificità delle tecniche e la rilevanza di tali processi – documentata anche dall’abbondante produzione accademica e non – ne giustificano una trattazione a sé stante. L’ipotesi qui avanzata è che la realizzazione di una strategia intenzionale che integri la RSI non possa prescindere da processi di comunicazione e di
“Ethics programs can vary in the extent to which they are integrated or easily decoupled, even among companies that have ethics codes, ethics-dedicated telephone lines, ethics officers, and other basic elements of ethics programs. (…) By contrast, some companies’ ethics programs and policies are linked more strongly to everyday organizational activities (…). Reward systems may reinforce the message of the ethics program (Treviño, 1990), especially if ethics concerns are made a part of regular performance appraisals”, in Weaver et al., 1999, op. cit., p. 541. 313
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reporting che hanno per oggetto la strategia stessa, la quale, proprio per il fatto di combinare obiettivi di competitività e obiettivi di impatto sociale e ambientale positivo, è “bella” e come tale atta a sprigionare forza coesiva (Coda, 2004c). Per quanto concerne specificamente i processi e i sistemi di reporting, essi dovrebbero consentire sia al management, sia agli stakeholder interni ed esterni di accertare qual è il grado di conseguimento degli obiettivi sociali che l’impresa si è data: a tal fine è necessario che i documenti e gli eventi nei quali confluiscono i processi di rendicontazione sociale dichiarino gli obiettivi e gli impegni che l’impresa si è assunta, esplicitandone i collegamenti con la strategia aziendale, comunichino quelli raggiunti o assolti e quindi non nascondano il gap eventualmente esistente fra obiettivi e risultati. In questo modo, un’impresa si espone alla valutazione da parte degli stakeholder, dando prova della serietà del suo impegno sul fronte della RSI. iv) I processi di generazione delle innovazioni, che comprendono processi volti a dare vita a innovazioni operative e processi di imprenditorialità interna generatrici di innovazioni strategiche (Coda e Mollona, 2002), assumono grande rilievo alla luce del fatto che l’innovazione è in un certo senso connaturata ai processi di integrazione della RSI nella strategia aziendale. Non si tratta soltanto di innovazioni dirompenti, in grado di modificare le regole del gioco di un settore o comunque all’origine di sintesi socio-competitive originali, ma anche – se non soprattutto – di innovazioni incrementali, frutto di un orientamento costante e appassionato a sperimentare, cambiare e innovare. Un orientamento all’innovazione che diviene esso stesso valore in grado di permeare la cultura e l’operatività aziendale. I processi di generazione delle innovazioni possono assumere diversi gradi di formalizzazione: può trattarsi di processi di ricerca e sviluppo incardinati nelle strutture e nelle funzioni “ufficiali” dell’azienda come di processi che nascono e si sviluppano in modo del tutto informale ai vari livelli della gerarchia aziendale; possono essere incoraggiati con appositi sistemi di incentivazione o con regole formali oppure nascere dall’iniziativa spontanea in un contesto organizzativo che si limita ad assecondarli e a valorizzarli ex post. In sintesi, essi dipendono dal contesto organizzativo che è parte integrante della strategia realizzata e alimentano un “portafoglio” di innovazioni che costituisce un asset aziendale da valorizzare. v) Infine, i processi di selezione e realizzazione delle innovazioni hanno il ruolo di filtro delle iniziative emergenti. Tale azione selettiva si realizza in genere sulla base di criteri di sostenibilità reddituale e di fattibilità finanziaria, di compatibilità con i valori e con la cultura aziendale, di coerenza con la strategia intenzionale, di apertura o di chiusura a innovazioni strategiche che mettono in discussione la strategia intenzionale. Tali processi possono avere natura formale o informale e collegarsi in varia misura a meccanismi di allocazione delle 184 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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risorse, dai quali dipende primariamente la possibilità che le innovazioni proposte si affermino e si realizzino. Alcune iniziative strategiche, come osserva Burgelman, possono sopravvivere ed essere finanziate al di fuori dai meccanismi ufficiali di valutazione e selezione (Coda, Mollona, 2002). Le innovazioni che hanno superato con successo i processi di selezione entrano a far parte della strategia realizzata. 5.5 Le relazioni di causa-effetto che connettono le variabili del modello: quattro circuiti a retroazione
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5.5.1 Il circuito del controllo strategico: il caso UniCredit Prima di identificare la strategia intenzionale di UniCredit, i gap che la strategia realizzata presenta rispetto ad essa e le iniziative manageriali intraprese per colmarli, è opportuno svolgere alcune considerazioni in merito alle specificità del settore bancario sotto il profilo strategico e della RSI. Nel settore bancario, soprattutto nel comparto tradizionale dell’intermediazione creditizia, è difficile conseguire un vantaggio competitivo sostenibile fondato sull’innovazione di prodotto. Qualunque innovazione, infatti, tende ad essere facilmente e rapidamente imitata dai concorrenti. Ciò che invece sembra fare la differenza è la capacità di alimentare, mantenere e rafforzare le relazioni di fiducia con i propri clienti, una fiducia fondata sulla trasparenza, sull’ascolto delle specifiche esigenze, sul servizio offerto. Inoltre, anche le grandi banche stanno progressivamente acquisendo consapevolezza che la vicinanza ai territori, tradizionalmente appannaggio delle casse di risparmio, delle banche popolari e di credito cooperativo, costituisce una leva competitiva importante e che le economie di scala rese possibili dalla grande dimensione non sono in grado, da sole, di alimentare un vantaggio competitivo sostenibile. Ciò è tanto più vero in un contesto di mercato quale quello attuale, in cui la prolungata carenza di liquidità, il suo costo elevato, la sfiducia diffusa sui mercati finanziari internazionali “all’ingrosso” hanno reso la relazione con i territori, la fiducia dei clienti e la capacità di intercettare flussi consistenti di raccolta retail degli asset di grande valore anche per le banche maggiori, non solo italiane. Un’ulteriore considerazione riguarda la RSI nel settore bancario. Si può infatti affermare che l’intermediazione creditizia abbia intrinsecamente una valenza sociale rilevante, dal momento che l’attività di impiego, se realizzata secondo corretti principi di allocazione del capitale, è in grado di alimentare lo sviluppo economico e sociale di interi territori; tale sviluppo, a sua volta, costituisce una condizione alla base dello sviluppo qualitativo e quantitativo di una banca. Si delinea in tal modo un circuito virtuoso, di cui la fiducia da parte del cliente costituisce un perno fondamentale. A ciò si aggiunga che l’eventuale sfruttamento di asimmetrie informative da parte della banca nella relazione con i propri clienti la espone a gravi rischi reputazionali, soprattutto in un contesto, 185 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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quale quello attuale, in cui alcuni episodi asseritamente fraudolenti hanno intaccato la fiducia dei consumatori e delle loro associazioni nei confronti delle stesse banche. Anche l’attività di raccolta diretta e indiretta ha una grande valenza sociale di valorizzazione e di canalizzazione del risparmio verso l’economia reale, dentro e fuori le “aree di raccolta”, a maggior ragione se contribuisce a ridurre gli squilibri fra regioni povere e regioni ricche. Ebbene, come si posiziona UniCredit in tale contesto? Qual è la sua strategia intenzionale? In quale relazione si pone con la RSI? Dall’esame di alcuni documenti ufficiali e da alcune interviste al top management dell’azienda la strategia intenzionale pare potersi ricondurre a una strategia di crescita su scala internazionale da realizzarsi mediante una superiore capacità di coniugare un raggio d’azione globale con la promozione dello sviluppo dei singoli territori e comunità locali, rispettandone le diversità culturali ma, nel contempo, integrandole in un sistema di valori condiviso a livello di Gruppo. La RSI, a giudizio del vertice aziendale, assume un ruolo chiave in tale strategia intenzionale: da un lato essa ne è parte integrante, nel senso che si riconosce una forte valenza sociale al ruolo che la banca intende svolgere di propulsore dello sviluppo socio-economico delle comunità locali; dall’altro, alla RSI è attribuita anche una funzione preventiva e difensiva contro i rischi reputazionali 314 nei quali la banca può incorrere e, più in generale, di difesa della legittimazione sociale. Si tratta per altro, anche in questo secondo caso, di una RSI non di tipo “collaterale” e sganciata dal business, ma di una RSI che pone al centro la qualità delle relazioni nei confronti di tutti gli stakeholder, in primis dei clienti e dei dipendenti, che devono essere all’insegna dei valori dell’equità, della trasparenza, del rispetto, della reciprocità, della libertà e della fiducia 315 . Tale strategia è funzionale al perseguimento di un profitto di lungo periodo, ovvero di un valore durevole e sostenibile nel tempo. Per essere tale, il profitto deve prodursi nell’integrità. Un tale profitto, ancora, è visto come condizione necessaria per garantire la continuità e la libertà dell’impresa. Per quanto riguarda la strategia realizzata, si può dire, in termini molto sintetici, che il gruppo UniCredit è stato protagonista di un processo di crescita importante e prolungato, che l’ha portato a essere presente in circa 50 Paesi 316 nel mondo e a raggiungere posizioni di leadership in Italia, Germania, Austria e in alcuni Paesi dell’Est europeo. Grazie a una rete di oltre 9.000 filiali, ha un attivo consolidato di oltre 1.000 miliardi di euro al 31 dicembre 2007 e un ROE che da
314 La prevenzione dei rischi reputazionali è esplicitamente richiamata, per esempio, nel seguente brano tratto dal Bilancio di Sostenibilità 2007 (p. 28): “Alla luce dei frequenti cambiamenti nelle normative appare sempre più evidente la necessità di un continuo aggiornamento attraverso una strategia globale e coerente che coinvolga tutte le Unità e Divisioni del Gruppo e, contemporaneamente, lo sviluppo di controlli interni efficaci che rispondano all’esigenza di ridurre al minimo l’esposizione al rischio reputazionale”. 315 Tali valori sono enunciati e declinati con riferimento ai diversi stakeholder – le persone del Gruppo, clienti e fornitori, investitori, comunità territoriali – nella carta d’integrità del Gruppo UniCredit. 316 L’operatività diretta del Gruppo è in 23 Paesi.
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diversi anni si mantiene fra il 15% e il 18%. La capitalizzazione di Borsa è di oltre 66 miliardi di euro 317 . In cosa consiste il gap fra strategia intenzionale e strategia realizzata? L’ipotesi qui avanzata è che UniCredit non sia ancora sufficientemente percepita, rispetto alle intenzioni dei suoi vertici, come una banca vicina ai territori e alle comunità: ciò anche in conseguenza della marcata divisionalizzazione, che ha portato il Gruppo a privilegiare un modello organizzativo basato sulle linee di prodotto e di business rispetto ai marchi territoriali delle banche locali via via acquisite 318 . Un secondo tipo di gap attiene, presumibilmente, alla vendita di prodotti derivati: alcuni recenti articoli di stampa 319 e una trasmissione televisiva 320 hanno sollevato il problema degli utili realizzati da UniCredit grazie a un presunto, eccessivo ricorso alla vendita di prodotti derivati e delle perdite nelle quali sarebbero incorsi diversi clienti che vi avevano invece cercato copertura dai rischi di tasso d’interesse o di cambio. Non s’intende in questa sede entrare nel merito della fondatezza di tali accuse, quanto sottolineare come esse potrebbero aver intaccato la fiducia dei clienti e dei mercati nella banca. Si ritiene comunque opportuno riportare alcuni elementi e dati di fatto che possono rivelarsi utili ai fini di una migliore comprensione dell’entità e della natura dell’operatività in derivati del Gruppo, non senza aver preliminarmente ricordato che i contratti derivati, se vengono stipulati con mera finalità di copertura di rischi, assolvono una funzione di servizio nei confronti dei clienti. Dalle relazioni sulla gestione del Gruppo relative agli anni dal 2002 al 2007 si evince come l’operatività in derivati per la clientela corporate abbia raggiunto la sua massima fase di espansione nell’esercizio 2002, anno nel quale il nozionale dei derivati sui tassi d’interesse ha raggiunto i 31 miliardi di euro circa. I ricavi e i margini generati da tale operatività sono stati significativi soprattutto negli esercizi 2002 e 2003 321 . L’esercizio 2004 segna un’inversione del trend: i Dato basato sulla quotazione delle azioni in data 29 aprile 2008. Il Gruppo si articola attualmente nelle seguenti divisioni: asset management, Poland’s markets, retail, Central and Eastern Europe, corporate, markets & investment banking, private banking, a cui vanno aggiunte household financing e global banking services. Le divisioni, a loro volta, rispondono a tre Deputy CEO, che riportano direttamente all’Amministratore Delegato. 319 Si vedano, per esempio, i seguenti articoli: “Derivati: Unicredit bocciata” (Il Sole 24 Ore, Finanza e Mercati, 29 settembre 2007); “Derivati: vince Unicredit” (Il Sole 24 Ore, Finanza e Mercati, 6 ottobre 2007); “Unicredit inciampa sui derivati e cade in Borsa (Il Giornale, 16 ottobre 2007); “Derivati bugie e videotape” (L’Espresso, 8 febbraio 2008). 320 Si fa riferimento alla trasmissione televisiva “Report” andata in onda su Raitre il 14 ottobre 2007. 321 “Particolarmente significative sono risultate le performance delle attività di sales & trading di prodotti derivati per la clientela corporate ed istituzionale, grazie al significativo incremento dell’operatività con tutti i segmenti di clientela e tipologie di prodotto. Anche nell’Investment & Corporate Banking si è registrata una crescita rilevante, frutto della strategia di rafforzamento e sviluppo dell’attività, avviata nel 2001 e proseguita nell’esercizio. (…) Le attività di trading, strutturazione e vendita di prodotti derivati complessi, sia per la clientela corporate ed istituzionale che per gli enti pubblici, hanno generato ricavi per 442,8 milioni di euro, in crescita del 59,1% rispetto allo scorso anno. Tale area di business, caratterizzata da alti tassi di crescita, ha 317
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margini risentono dello sfavorevole contesto istituzionale e di mercato, che penalizza l’attività di strutturazione e vendita di prodotti derivati alla clientela corporate. Il calo prosegue nel 2005 322 . Anche se un incremento significativo del mark to market 323 sfavorevole alla clientela corporate ha inizio, presumibilmente, in concomitanza con l’inversione della curva dei tassi avvenuta nel corso del 2004, i media si occupano del problema soprattutto nell’autunno del 2007 324 , segnalando casi di clienti per i quali la dinamica dei tassi avrebbe reso gli oneri conseguenti alla stipula di contratti derivati particolarmente gravosi. Non è un caso che il bilancio di sostenibilità del gruppo UniCredit affronti per la prima volta il tema dei derivati con riferimento all’esercizio 2007, ripercorrendo sinteticamente la storia dell’operatività in tali strumenti finanziari, fornendo alcune cifre relative alla clientela corporate coinvolta e segnalando le iniziative assunte dal Gruppo ai fini di una migliore gestione di tale operatività 325 . rappresentato anche nel 2002 la principale fonte di ricavi di UBM (UniCredit Banca Mobiliare, n.d.r.) (76,5% dei ricavi complessivi). Tali risultati sono il frutto di un’offerta disegnata su misura per le esigenze della clientela, del suo costante adeguamento e dello sviluppo delle capacità commerciali della rete distributiva del gruppo UniCredito Italiano. Le competenze distintive sviluppate nella progettazione e realizzazione di strategie di liability management per enti pubblici ed aziende ex-municipalizzate hanno consentito ad UBM di consolidare la propria posizione di leadership nel segmento: nel corso del 2002 la Banca ha ottenuto 125 mandati per la gestione dei rischi finanziari, tra i quali si segnalano quelli per il Comune di Milano, la Regione Molise e la Provincia di Cosenza” (Relazione sulla Gestione dell’esercizio 2002, p. 23). “L’attività di Sales & Trading di prodotti finanziari rimane la maggiore fonte di redditività per la banca: il reddito fisso, l’azionario e soprattutto gli strumenti derivati hanno visto incrementare volumi e ricavi nei dodici mesi analizzati. Nello specifico, la vendita di prodotti derivati alla clientela corporate (in crescita del 20,5% rispetto al 2002) rappresenta l’asse portante dell’intero comparto, sebbene UBM continui a svolgere un ruolo di leadership indiscussa anche nel segmento di clientela costituito da Enti Pubblici ed Aziende ex municipalizzate”. (Relazione sulla Gestione dell’esercizio 2003, p. 78). 322 Cfr. le relazioni sulla gestione degli esercizi 2004 (p. 81) e 2005 (p. 52 e p. 58). 323 Si tratta del valore attuale dei flussi di cassa attesi futuri connessi a un certo contratto derivato. Se ha segno negativo per il cliente, coincide, in linea di principio, con l’importo che egli dovrebbe versare alla banca per chiudere il contratto stesso. 324 E’ ragionevole ipotizzare che l’interesse dei media al tema dei derivati dipenda anche dall’emergere, nel corso del 2007, della vicenda di Banca Italease. 325 “Nel 1999 il Gruppo UniCredit riorganizzò il proprio modello per offrire servizi specializzati e diversificati a diversi tipi di clientela, come ad esempio le famiglie e le aziende. In seguito a questa riorganizzazione, il Gruppo riuscì, da subito, a soddisfare esigenze specifiche come la richiesta di prodotti derivati da parte delle aziende. L’attività relativa ai derivati Corporate di UniCredit Banca d’Impresa (UBI) ha raggiunto la massima fase di espansione nel 2002. Dal dicembre 2001 al dicembre 2002, l’ammontare del nozionale dei derivati su tassi d’interesse è salito a circa 31 miliardi di euro per poi calare lentamente e assestarsi intorno ai 26 miliardi di euro alla fine del 2007. Alla fine dell’anno (2007) i clienti Corporate di UniCredit Banca d’Impresa in possesso di derivati su tassi d’interesse erano all’incirca 8.600 (ovvero circa l’8% del parco clienti UBI). Nel 2007, UBI ha ricevuto in totale 793 reclami riguardo ai derivati, un numero da ritenersi normale se rapportato alle dimensioni e ai settori d’attività del nostro gruppo bancario. L’80% di questi reclami è stato nel frattempo risolto.
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Il Gruppo, per altro, aveva già acquisito consapevolezza del problema negli anni precedenti, allorché le difficoltà di alcuni clienti avevano indotto il vertice aziendale a un progressivo ridimensionamento dell’operatività in derivati 326 , soprattutto per le imprese il cui profilo non raccomandava strumenti di hedging sofisticati, anche tramite chiusure anticipate a suo carico. Non a caso, quando il problema è divenuto oggetto di attenzione da parte dei media nel 2007 il mark to market negativo per i clienti era già sceso a circa un miliardo di euro, dopo aver superato i due miliardi nel 2004. Qual è il grado di consapevolezza che il management ha di questi o, eventualmente, di altri gap fra strategia intenzionale e strategia realizzata? Dalle interviste effettuate emerge chiaramente la percezione diffusa che il Gruppo abbia fatto molto nella direzione tracciata ma che permangano diverse aree di miglioramento, sia pure non specificate nel dettaglio: tale percezione infonde una tensione al miglioramento costante. “Sul fronte della legittimazione sociale il sistema bancario è rimasto indietro e così pure UniCredit. Noi comunque stiamo prendendo la RSI molto seriamente e stiamo migliorando giorno per giorno. Sotto questo profilo UniCredit è al di sopra della media del settore e tutti sanno che è un punto di riferimento, uno standard. Ciò non di meno molto rimane da fare, a livello di settore ma anche da parte della stessa UniCredit” 327 . “Il benchmarking rispetto ai nostri concorrenti esteri è sempre nell’ottica di un miglioramento nostro. Non è detto però che ciò che è stato fatto da altri possa essere tradotto al nostro interno in modo pedissequo. Dobbiamo comunque fare moltissima strada. Ci sono altre aziende partite da storie, esperienze, rapporti con il mercato diverse, diventando internazionali prima di noi e avendo quindi l’opportunità di confrontarsi prima di noi con un mercato più aperto, globale, con problematiche che noi soltanto oggi affrontiamo. (…) Noi cerchiamo di apprendere e di migliorare anche guardando ciò che è stato fatto in altri contesti, evitando un approccio colonialista nei confronti delle banche acquisite e dei loro territori” 328 . Numerose e significative sono le azioni manageriali e le iniziative messe a punto per allineare la strategia realizzata a quella intenzionale: esse pongono al Dall’inizio del secondo semestre del 2007 abbiamo attivato un Customer Care Derivatives Executive Committee che ha portato ad un sensibile miglioramento del monitoraggio delle attività di post-vendita e ad una gestione personalizzata dei conti dei singoli clienti. Si è pertanto velocizzato il tempo di risposta ai reclami e alle richieste di consulenza pervenute.” (Bilancio di Sostenibilità 2007, p. 82). 326 Tale breve excursus storico dell’operatività in derivati di Unicredit è frutto di una conversazione con il dott. Giorgio Capurri, responsabile dell’unità di Corporate Social Responsibility del Gruppo. 327 Da un’intervista a Rino Piazzolla, responsabile delle risorse umane del gruppo UniCredit. 328 Da un’intervista a Riccardo Della Valle, già responsabile dell’unità di Corporate Social Responsibility e ora responsabile dei comitati territoriali del gruppo UniCredit.
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centro dell’attenzione i clienti, le comunità locali e i collaboratori. Alcune di esse prendono avvio negli anni 2002-2003, altre negli anni successivi. In ogni caso vengono costantemente monitorate nei loro effetti, affinate, sviluppate nel corso del tempo, come emerge dalla sequenza dei bilanci sociali. Si segnala, in proposito, che il primo report sociale del Gruppo – denominato “Bilancio sociale ambientale” – è relativo all’anno 2000329 . 1. Innanzi tutto, la carta d’integrità. Essa nasce come “risultato di un processo continuo che ha coinvolto i colleghi di UniCredit in una discussione sulla cultura del Gruppo e sulla definizione di un insieme di valori di base. Questo processo è iniziato nel 2003, con un progetto denominato ‘Laboratorio dei Valori’, che ha coinvolto oltre 1.500 colleghi in specifici workshop” 330 . Non si tratta di un codice etico, quanto, piuttosto, di un documento che enuncia i principi e i valori fondanti del Gruppo 331 . Essa nasce soprattutto a fronte dell’esigenza di conciliare il rispetto delle diverse culture che convivono in UniCredit a seguito del suo processo di internazionalizzazione con la ricerca e la formazione “di un sentire e di un vissuto comune fra tutte le persone del Gruppo”. Come osserva Della Valle, già CSR manager del Gruppo, “la nostra carta di integrità comincia a delimitare quali devono essere i comportamenti comuni; è un documento progressivo, non solo migliorabile, ma anche integrabile, perché ci sono dei comportamenti che dovremo assumere nei confronti dei mercati e dei vari interlocutori che sono alla base della convivenza comune, a prescindere dalla cultura specifica”. Si tratta, dunque, di uno strumento di coordinamento ma anche di responsabilizzazione delle persone che operano nel Gruppo: “non abbiamo un meccanismo sanzionatorio nella carta d’integrità – sottolinea ancora Della Valle – perché non pensiamo si possa costituire un sistema di polizia, ma è necessario autoresponsabilizzarci sulla base dei nostri valori”. “La formazione della carta d’integrità è stato un processo intenso, nel corso del quale il top management ha discusso che cosa è importante per noi, ciò che costruisce la nostra identità”, osserva De Marchis, chief financial officer del Gruppo. Essa è soggetta a un processo costante di revisione e di riflessione che coinvolge tutto il personale di UniCredit: una volta all’anno, a cominciare dal 2005, si svolge la “giornata della carta d’integrità”, durante la quale tutti i collaboratori del Gruppo si fermano per alcuni minuti e discutono in gruppi sui valori e sui temi trattati nella carta. 2. Il sistema della “giustizia riparativa” si connette alla scelta del Gruppo di non prevedere meccanismi sanzionatori all’interno della carta d’integrità, Il report sociale di UniCredit è stato denominato “Bilancio sociale ambientale” per tutte le edizioni dal 2000 al 2005, “Bilancio di sostenibilità” con riferimento agli esercizi 2006 e 2007. Fin dalla prima edizione è stato certificato da una società di revisione, PriceWaterhouseCoopers per quanto riguarda le edizioni dal 2000 al 2003, KPMG per le edizioni successive. 330 Dal Bilancio di Sostenibilità, edizione 2007, p. 52. 331 Si tratta dei valori che vengono definiti “Fondamenti dell’Integrità”: Equità, Trasparenza, Rispetto, Reciprocità, Libertà d’Azione e Fiducia. 329
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quanto, piuttosto, un sistema che consenta, attraverso una forma di mediazione, la riconciliazione fra il dipendente che ha eventualmente infranto la carta stessa e la persona che si ritiene offesa. L’obiettivo non è di identificare un colpevole e di infliggere una sanzione, ma di capire cos’è successo e ricostruire una relazione di fiducia. Il sistema è imperniato sulla figura dell’ombudsman, che ha un ruolo di facilitatore nel percorso finalizzato al ripristino della relazione. Gli ombudsman di UniCredit in Italia sono nove: sono tutti ex dipendenti che fanno capo al dott. Grosso, ex presidente della società di internal audit del Gruppo. In ogni Paese è previsto un central ombudsman, un deputy central ombudsman (di sesso diverso dal central ombudsman) e alcuni local ombudsman. Tutti sono incardinati nella capogruppo e rispondono, per il tramite del dr. Grosso, al presidente Rampl. Gli ambiti di applicazione del sistema della giustizia ripartiva sono tre. Il primo riguarda le relazioni tra i dipendenti del Gruppo. In questo caso la giustizia riparativa si ispira e si fonda sulla cultura della mediazione, ossia lo strumento in grado di facilitare il ripristino di corretti rapporti interpersonali. La mediazione è un percorso in cui una persona terza, il mediatore, cerca di promuovere la comunicazione, facilitando il dialogo tra le due o più parti in conflitto. Dopo l’incontro con l’ombudsman la persona interessata può rivolgersi a un mediatore, che dev’essere un soggetto esterno all’azienda 332 . Nella maggior parte delle situazioni la mediazione non è necessaria: il dott. Grosso ha spiegato che “in alcuni casi è bastato l’ascolto, in altri elaborare il fatto è bastato per ridimensionarlo; in altri ancora è stato possibile risolvere il problema per le vie brevi prima di arrivare alla mediazione. Una parte residuale ha avuto dubbi sulla reale riservatezza del sistema”. Il secondo ambito ha a che fare con le politiche e le decisioni aziendali. Un dipendente che ha ravvisato un’incoerenza rispetto ai valori della carta d’integrità – per esempio, un comportamento non trasparente nei confronti della clientela – può effettuare una segnalazione a un ombudsmen, che attiva le funzioni competenti al fine di rimuovere l’incoerenza segnalata. Il terzo ambito, infine, riguarda le relazioni fra azienda e dipendente 333 . Gli ombudsmen esercitano in questo caso una funzione di facilitatori di incontri tra funzioni aziendali e dipendenti, in particolare quando il valore in discussione fosse quello della trasparenza. Al 31 dicembre 2007, il numero di casi gestiti dal sistema di giustizia riparativa era pari a 92 (tabella 5.1). “La giustizia riparativa – osserva Della Valle – è uno strumento volontario, non coercitivo: due parti possono scegliere di incontrarsi alla presenza di due mediatori (persone esterne all’azienda), che svolgono questa funzione presso i tribunali, per trovare una modalità di riconciliazione. E’ la possibilità di 332 In Italia si tratta di componenti dell’associazione Dike: molti di loro hanno maturato esperienze partecipando per diversi mesi alle commissioni di riconciliazione e giustizia di Nelson Mandela in Sud Africa. 333 Un esempio raccontato dal dr. Grosso riguarda un dipendente che ha lamentato una mancanza di trasparenza dell’azienda nei suoi confronti per quanto concerne la valutazione.
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riconoscere nell’altro quello che si era negato in precedenza: può trattarsi di una stretta di mano, di un fiore, di bere un caffè insieme. I primi casi trattati in questo modo sono stati di grande soddisfazione. Siamo l’unica azienda nel mondo che ha adottato questo sistema”. Tabella 5.1
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Paese
Numero di dipendenti di UniCredit Group che si sono rivolti al sistema della giustizia riparativa Mesi di operatività
Di cui mediazioni
Casi gestiti
Di cui segnalazioni
Austria
8
10
Ungheria
3
9
Germania
12
23
3
16
4
Italia
14
49
15
13
21
1
1
Slovacchia Totale
1
Di cui incontri
6
3
9
1
92
19
45
28
Fonte: rielaborazione della tabella a pag. 52 del Bilancio di Sostenibilità 2007.
Il sistema della giustizia ripartiva funziona a spese dell’azienda; gli incontri si svolgono durante l’orario di lavoro; nessuno all’interno del Gruppo, neppure la direzione del personale, viene a conoscenza della vicenda: tutto è gestito dall’ombudsman centrale di Gruppo. 3. Un’iniziativa di rilievo, finalizzata in ultima analisi ad avvicinare UniCredit ai territori e alle comunità locali in cui opera, è costituita dai comitati territoriali. Nominati dal Consiglio di Amministrazione, sono organismi consultivi composti da un numero variabile di esponenti di rilievo delle singole comunità locali, scelti nell’ambito dell’imprenditoria, delle associazioni di categoria, delle autonomie funzionali, degli operatori del terzo settore e del volontariato, della cultura, del mondo delle università e della ricerca, e accompagnati nei loro lavori dai responsabili sul territorio di riferimento delle tre banche di segmento (UniCredit Banca, UniCredit Banca d’Impresa, UniCredit Private Banking). Al loro interno si discutono problematiche locali, si elaborano progetti e proposte di intervento. I primi comitati territoriali 334 sono nati nel 2003, allo scopo dichiarato di mantenere il contatto con i territori di radicamento tradizionali anche dopo che la Banca, a partire dall’1 gennaio 2003, ha adottato un modello basato su tre segmenti (retail, corporate, private) anziché sulle sette banche di territorio 335 . In Fino al 2007 si chiamavano comitati locali. “Per questo motivo saranno costituiti in ambito interprovinciale Comitati Locali che nasceranno con l’obiettivo precipuo di contribuire alla realizzazione del progetto S3, accompagnando il processo di implementazione delle nuove banche di segmento operative dal 1° gennaio 2003 (retail, corporate, private) sui territori di riferimento delle sette banche (Credito Italiano, Rolo Banca 1473, Banca CRT, Cariverona Banca, Caritro, Cassamarca e CRTrieste, n.d.r.). In un momento importante e delicato di transizione che ha visto scomparire queste banche con un forte radicamento territoriale, la necessità di ascoltare e comprendere le esigenze e le aspettative delle realtà locali diviene per UniCredit assolutamente primaria. L’obiettivo dichiarato 334 335
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questo modo UniCredit viene direttamente a conoscenza delle specificità, dei problemi e dei fabbisogni dei singoli territori e comunità locali, mettendo a disposizione, all’occorrenza, il proprio sostegno finanziario. Alessandro Profumo, amministratore delegato del Gruppo, delinea in questo modo i tratti salienti dei comitati territoriali: “diamo l’opportunità di trovare un luogo dove si possa discutere. Uno dei problemi percepiti oggi in Italia è che non ci sono più luoghi dove la gente può discutere: i partiti, le chiese, gli oratori non assolvono più tale funzione. I rappresentanti delle comunità locali non trattano solo le questioni di ordine finanziario. Per esempio, si è discusso su come gestire la crisi del turismo sulla riviera romagnola, dove abbiamo una presenza storica, essendovi nato il Credito Romagnolo; la questione della rottamazione degli alberghi; come la riviera romagnola possa fronteggiare la concorrenza delle coste bulgare sul Mar Nero. Si riflette sulle priorità della comunità locale; si può discutere in modo neutrale, perché non si tratta di comunità politiche. E’ un servizio che offriamo, in cambio del quale comprendiamo le implicazioni e le opportunità di tipo finanziario. Manteniamo un contatto con la società vivente”. A fine 2007, ovvero trascorsi cinque anni dal lancio dell’iniziativa, erano attivi 21 comitati per un totale di 315 componenti; ora si stanno sperimentando nuove idee, che consistono soprattutto nel mettere in rete territori e comitati diversi ma accomunati da problematiche simili e nell’avvio di iniziative analoghe in altri Paesi, a cominciare dalla Germania 336 . L’idea è ben illustrata, ancora una volta, da Della Valle, di recente nominato responsabile dei comitati territoriali. “Stiamo mettendo in sinergia, in rete più comitati per lavorare sullo stesso tema, per dare risposte differenziate nei diversi territori, ma ci sono elementi comuni che ci permettono di avere visioni ampie e allargate dello stesso tema. Ciò vale per il turismo, per le infrastrutture, per l’agroalimentare. Quella dell’’Economia dell’arco alpino’ è un’idea nata nel comitato della Valle d’Aosta e a poco a poco trasferita agli altri comitati insediati nelle zone montane. Ci sono problemi trasversali, come quelli dell’energia e delle risorse idriche, non molto diversi da quelli vissuti nella zona delle Dolomiti; c’è anche un problema comune di immigrazione transfrontaliera. Si costituiscono dei gruppi di lavoro trasversali fra comitati. I comitati lavorano per progetti; quando si realizzano sinergie fra più comitati si formano gruppi di lavoro misti e itineranti, che permettono il trasferimento delle conoscenze e la conoscenza reciproca. Ci sono molti nomi sconosciuti ma molto importanti localmente, ma in alcuni comitati ci sono anche nomi importanti a livello nazionale. Adesso ci stiamo ponendo la è proprio quello di non perdere il contatto vitale con il territorio, il patrimonio di storia e di valori che ognuna delle ex banche federate porta con sé, ma di inglobarlo all’interno della nuova identità di Gruppo, in modo che le molteplici radici ed esperienze contribuiscano proficuamente alla realizzazione del progetto S3.” (Bilancio Sociale Ambientale, edizione 2002, p. 42). 336 “A seguito dell’operazione di integrazione, prima con HVB e nel corso dell’anno con Capitalia, è in corso un approfondimento per un progetto di radicamento territoriale anche in altre realtà locali ed internazionali.” (Bilancio di Sostenibilità 2007, p. 105).
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questione di come iniziare a parlare di radicamento territoriale in altri territori, iniziando dalla Germania: è nato un grande interesse da parte dei nostri colleghi tedeschi. Ma stiamo facendo dei ragionamenti anche relativi ad altri territori”. Quella dei comitati territoriali costituisce un’iniziativa funzionale all’avvicinamento della Banca ai territori e quindi al suo sviluppo commerciale, ma ha anche una forte valenza in termini di responsabilità sociale, sia pure di tipo emergente: “Per noi questo è un pezzo dello stakeholder engagement – sottolinea ancora Della Valle –. L’idea era di ascoltare il territorio, di sentirci in qualche misura legati, di dover corrispondere. In termini di RSI è perfetto. Ma non siamo partiti dall’idea di RSI”. 4. Diverse iniziative sono state intraprese a favore dei clienti, per dare concreta attuazione agli obiettivi e ai valori della trasparenza e della fiducia. Una fra le più significative è la riscrittura dei contratti per renderli semplici e trasparenti. Così la descrive Della Valle: “Un elemento distintivo nostro che non ho trovato in altri competitori europei è che noi abbiamo iniziato da qualche anno a riscrivere tutti i nostri contratti bancari, con il supporto di Cittadinanzattiva. Con loro abbiamo fatto un lavoro complesso e complicato, durato un paio d’anni e tuttora in essere, anche perché la contrattualistica è sempre in evoluzione, rispondendo a una loro sollecitazione: «perché una banca come la vostra non può rivedere i contratti dal punto di vista del cliente eliminando le clausole vessatorie, utilizzare un linguaggio meno paludato, una lingua più semplice, caratteri più chiari e grossi? Perché il foro delle controversie dev’essere deciso sempre dalla banca?». A due anni di distanza siamo ancora l’unica grande banca che ha rivisto tutti i contratti in modo non autoreferenziale. Come esce un nuovo prodotto o servizio regolato da rapporti contrattuali, questi vengono passati al vaglio, riformati, rivisti e corretti. Ciò è stato molto apprezzato dalla clientela. Se avessimo guardato solo ai costi non l’avremmo fatto. E’ un elemento distintivo del nostro modo di fare banca”. Il progetto, avviato a fine 2002, è consistito dapprima nell’analisi critica “dalla parte del cliente” di 19 tipologie di norme e regolamenti che le Banche del Gruppo applicano nei rapporti con la propria clientela, per poi sfociare, a partire dal 1° gennaio 2004, nella riscrittura di oltre 3,5 milioni di conti correnti bancari di UniCredit Banca, così da renderli più chiari e trasparenti. 5. Un’iniziativa importante nell’ottica di realizzare la strategia intenzionale è costituita dall’inclusione della RSI nei sistemi di valutazione e di incentivazione del personale. Ciò avviene attualmente in due modi: uno di tipo qualitativo, ossia non fondato su specifici indicatori, che consiste nel tenere conto della coerenza dei comportamenti tenuti dal singolo collaboratore con i principi enunciati nella carta d’integrità; uno, invece, di tipo quantitativo, che consiste nell’attribuire una
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quota compresa fra il 15% e il 25% del bonus sulla base dei risultati dell’indagine periodica di customer satisfaction 337 . Tale iniziativa ha preso avvio nel 2004, allorché il sistema incentivante incluse per la prima volta parametri orientati, in ultima analisi, a creare le basi per una redditività sostenibile nel medio-lungo termine (tabella 5.2) 338 . Tabella 5.2
Gli obiettivi considerati nel sistema incentivante del gruppo UniCredit e i rispettivi pesi.
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Peso % medio sul sistema incentivante
2003
2004
Obiettivi di soddisfazione della clientela (*)
-
10%
Obiettivi di qualità del credito (**)
-
10%
Obiettivi di redditività nel medio-lungo periodo (***)
-
30%
Sistema incentivante sulla retribuzione lorda (****)
Circa 10%
10,20%
Fonte: Bilancio Sociale Ambientale 2004, p. 70. (*) I dati si riferiscono alle tre Banche di segmento. (**) I dati si riferiscono ad UBI ed UCB. (***) I dati si riferiscono ad UCB e UPB. (****) I dati si riferiscono all’incidenza dell’MBO e del premio aziendale e sono riferiti alle tre Banche di segmento.
Si tratta di un’iniziativa riconosciuta e apprezzata anche da diversi stakeholder esterni alla Banca: nel corso di un’intervista condotta presso Transparency International è emerso come essa segnali un impegno concreto della Banca sul fronte della RSI e come la rilevanza attribuita da UniCredit alla customer satisfaction ai fini della valutazione e dell’incentivazione dei dipendenti sia elevata anche rispetto alle prassi vigenti nel settore a livello internazionale. L’inclusione della customer satisfaction nel sistema incentivante è stata possibile solo dopo che è stato messo a punto un sistema di misurazione che
L’assegnazione del bonus sulla base dei risultati dell’indagine di customer satisfaction è limitata, al momento, all’Italia, alla Germania e all’Austria. Nel corso del 2008 e del 2009 sarà gradualmente estesa a tutti i Paesi dell’Unione Europea. 338 “Inoltre per un continuo miglioramento nella qualità del credito accordato, i sistemi premianti di UniCredit Banca d’Impresa e di UniCredit Banca hanno recepito specifici obiettivi finalizzati a garantire un’attendibile valutazione del debitore o delle caratteristiche della transazione, una significativa differenziazione del rischio, una stima quantitativa del rischio stesso ragionevolmente accurata, migliorando la capacità della Banca di identificare i rischi, di prezzarli e di presidiarne eventuali variazioni inattese e creando i presupposti per una relazione duratura con i clienti. Infine i sistemi premianti di UniCredit Banca e di UniCredit Private Banking hanno recepito, nel 2004, parametri di incentivazione finalizzati a creare le basi per una redditività non soltanto elevata nel breve periodo ma anche duratura e sostenibile nel medio-lungo termine, principalmente legati a variabili quali la raccolta diretta e indiretta, gli impieghi, le masse gestite”. (Bilancio Sociale Ambientale 2004, p. 70). 337
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permette il calcolo di un indice sintetico 339 , a sua volta frutto di indagini campionarie su campioni a elevata numerosità, così da rendere possibili serie storiche e comparazioni nel tempo. Si tratta del “TRI*M Index”, espresso da un punteggio su una scala da 0 a 100, che misura la soddisfazione del cliente riguardo a prodotti, processi, qualità del servizio, rete di vendita e che verifica altresì la fedeltà dei clienti. La dinamica di tale indice nel tempo, riportata dal bilancio di sostenibilità, suggerisce l’ipotesi che il gruppo UniCredit si sia incamminato sulla strada di un progressivo miglioramento della soddisfazione della clientela, almeno per quanto riguarda la clientela retail (tabella 5.3) e del private banking 340 . Si segnala che alcuni sistemi di valutazione della soddisfazione dei clienti, i cui risultati non sono per altro comparabili con quelli esposti in tabella 5.3, erano utilizzati già prima del 2004. Una prima indagine è stata condotta nell’anno 2001 su circa 2000 imprese clienti delle allora banche federate distribuite su tutto il territorio nazionale 341 . Nel 2002 è stato avviato il “progetto cliente” con la realizzazione di una ricerca di mercato “estensiva”, conclusa nel 2003, focalizzata sull’ascolto delle attese della clientela e sulla rilevazione del loro grado di soddisfazione 342 . Tabella 5.3
TRI*M Index
Soddisfazione della clientela retail di UniCredit, misurata dal TRI*M Index dal 2004 al 2007 (su una scala da 0 a 100). 2004
2005
2006
2007
Clientela retail Italia
49
52
58
62
Clientela retail Germania
-
-
61
64
Quelle appena descritte (tabella 5.4) non esauriscono la gamma di azioni manageriali e di iniziative ispirate alla RSI, ma, oltre a trovare ampio spazio nei 339 “Gli indici sulla soddisfazione dei clienti sono un fattore importante nel sistema di bonus della Divisione Retail e sono la testimonianza tangibile dell’impegno profuso a trasformare i dati sulla soddisfazione del cliente in azioni concrete.” (Bilancio di sostenibilità 2007, p. 83). 340 La soddisfazione dei clienti di UniCredit Private Banking è passata da 66 punti nel 2004, anno nel quale è stato rilevato per la prima volta l’indice TRI*M, a 72 punti nel 2007. L’indice TRI*M non è calcolato, invece, per la clientela corporate. 341 “Dai giudizi di soddisfazione è emerso che in generale si riconoscono al Gruppo la competenza necessaria per l’offerta di servizi tradizionali e la capacità di innovazione di prodotti e servizi adeguati alle sempre più sofisticate esigenze della clientela. D’altra parte, l’indagine mette anche in evidenza specifiche aree di miglioramento che, in misura differenziale, le singole Banche del Gruppo possono attivare per aumentare il livello della soddisfazione complessiva.” (Bilancio Sociale Ambientale 2001, p. 81). 342 “La valutazione dei risultati ottenuti evidenzia che UniCredit Banca, quanto a soddisfazione media dei clienti, si diversifica in misura rilevante a livello di regione e di segmento, mentre appare allineata ai concorrenti a livello complessivo. Si evince inoltre come il grado di soddisfazione si basi principalmente sulla qualità percepita della relazione tra il cliente ed il personale di agenzia. Componenti relazionali quali disponibilità, efficienza, flessibilità, correttezza e trasparenza costituiscono fattori decisivi in tal senso.” (Bilancio Sociale Ambientale 2003, p. 38).
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report sociali di UniCredit, sono quelle sulle quali i manager intervistati si sono soffermati in modo particolare 343 . Esse sono accomunate dalla ricerca di un migliore allineamento fra strategia intenzionale e strategia realizzata e, nel contempo, fra gli interessi dei diversi stakeholder, posto che quest’ultima è considerata una condizione imprescindibile per la creazione di valore sostenibile nel lungo periodo. Tabella 5.4
Le principali azioni e iniziative finalizzate ad allineare la strategia realizzata alla strategia intenzionale del gruppo UniCredit 2003
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Carta d’Integrità
2004
2005
2007
Finalizzato a ricostruire, attraverso il dialogo, le relazioni che si sono deteriorate all’interno del Gruppo.
Sistema di Giustizia Riparativa
Comitati Territoriali
2006
Documento che esplicita i valori e regola l’operato del Gruppo UniCredit. Risultato di un processo iniziato nel 2003, con un progetto denominato “Laboratorio dei Valori”.
10 (155 componenti)
13 (201 componenti)
18 (287 componenti)
18 (circa 300 componenti)
21 (315 componenti)
Semplificazione rapporto banca – cliente
Dall’1/1/2004 contratti di conto corrente più chiari e trasparenti. L’iniziativa, in collaborazione con Cittadinanzattiva, riguarda oltre 3,5 milioni di conti correnti bancari di UniCredit Banca.
Inclusione della customer satisfaction nel sistema incentivante
Inserimento nel sistema premiante di parametri di incentivazione finalizzati a creare le basi per una redditività duratura e sostenibile nel medio-lungo termine (per es., livello di customer satisfaction)
Indagini di customer satisfaction
“Progetto cliente” (dal 2002)
Calcolo del TRI*M Index con riferimento alla clientela retail e private
Fra le altre iniziative vale la pena di ricordare, senza alcuna pretesa di esaustività, le seguenti: a) la Fondazione Unidea, creata nel marzo 2003 allo scopo di progettare e sostenere iniziative nel campo della solidarietà, della cooperazione internazionale e dello sviluppo: interamente finanziata dal gruppo UniCredit, ha erogato, dalla sua nascita, risorse per circa 50 milioni di euro; b) l’offerta di tre prodotti di asset management “etici”: due fondi azionari, Global Ethical Equity Fund (patrimonio gestito di € 203 milioni) e Global Ecology Fund (patrimonio gestito di € 1.425,9 milioni), cui si aggiunge un fondo obbligazionario, denominato Obbligazionario Euro Corporate Etico (con un patrimonio gestito di € 253,2 milioni); c) “Your Voice, Our Future”, ovvero la prima people survey che nel 2006 ha coinvolto tutti i dipendenti del Gruppo “con l’obiettivo di offrire a tutti l’opportunità di esprimere apertamente opinioni, aspettative e preoccupazioni; raccogliere indicazioni precise per costruire insieme il futuro, investendo sulle criticità e consolidando le aree di forza” (dal Bilancio di Sostenibilità 2006, p. 100); d) la rinegoziazione gratuita dei mutui, avviata nel dicembre 2007, che prevede un programma di estensione della durata del debito e una serie di soluzioni di rifinanziamento per i clienti retail con mutui a tasso variabile; e) l’iniziativa di formazione “I‘m a Customer” della Divisione Retail. Destinato a tutti gli sportellisti e assistenti front-office per il mercato mass market in Italia, il corso dedica due giornate e mezza ai principi cardine di intelligenza emotiva e di soddisfazione del cliente. “Il programma, varato nel marzo del 2007, si prefigge di rafforzare la cultura di eccellenza integrata nei servizi offerti ai nostri clienti.” (Bilancio di Sostenibilità 2007, p. 76). 343
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Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
Si può ipotizzare che l’allineamento in parola non sia solo della strategia realizzata alla strategia intenzionale, ma si verifichi, in qualche misura, anche nella direzione opposta. Per esempio, l’enfasi posta nella strategia intenzionale sulla sostenibilità e sulla RSI e il ruolo attribuito in tale ambito ai comitati territoriali dipendono, in parte, dalla consapevolezza che l’organizzazione marcatamente divisionale del Gruppo (strategia realizzata) espone UniCredit al rischio di un allentamento del legame con i territori di radicamento storico. Il mantenimento e il rafforzamento del circuito virtuoso che lega prosperità della banca e prosperità del territorio costituiscono, infatti, un perno fondamentale sia del vantaggio competitivo della stessa banca, sia dell’impatto che la sua attività produce sugli stakeholder. Le azioni manageriali e le iniziative sopra illustrate sono finalizzate, inoltre, a dare concretezza ai valori enunciati nella carta d’integrità e a far sì che essi permeino effettivamente tutta la struttura aziendale, a prescindere dai livelli gerarchici, dagli ambiti geografici e dalle culture. Ancora, si tratta di azioni e di iniziative oggetto di un processo continuo di sperimentazione e di revisione, nel quale si manifesta un forte commitment da parte del top management. 5.5.2 Il circuito della formazione delle intenzioni strategiche: il caso Kedrion Il circuito della formazione delle intenzioni strategiche spiega e rappresenta i processi di revisione o di modifica della strategia intenzionale sulla base degli stimoli che provengono dall’osservazione della strategia realizzata e dalle performance aziendali che ne costituiscono parte integrante. Vale la pena di ricordare come l’incorporazione della RSI nella strategia intenzionale non implica di per sé una modifica o un’evoluzione delle variabili soft quali i valori, gli obiettivi, i modelli mentali degli attori-chiave. Il caso Kedrion, già analizzato in precedenza 344 per mostrare come diversi modelli di relazione fra RSI e strategia possano svilupparsi e funzionare, in parallelo o in tempi successivi, all’interno della medesima azienda, è adatto anche a illustrare come possa avvenire l’incorporazione della RSI all’interno della strategia intenzionale. L’interrogativo di ricerca, in questo caso, è in che modo Kedrion sia arrivata a formulare una sintesi socio-competitiva che prevede il trasferimento tecnologico e la produzione di farmaci plasmaderivati in “conto lavoro” nei Paesi in via di sviluppo, così da conseguire, nello stesso tempo, l’obiettivo sociale di aiutare tali Paesi a far fronte al problema dell’autosufficienza nell’approvvigionamento di plasma e della disponibilità di emoderivati e l’obiettivo competitivo di entrare e svilupparsi in nuovi mercati. Ebbene, dalle interviste effettuate in azienda sembra potersi evincere che l’innesco del processo di formazione di tale strategia intenzionale (figura 5.2), che ha per oggetto in ultima analisi lo sviluppo di una nuova area di business, non deriva prioritariamente da modifiche nel sistema di 344
Si veda supra i §§ 3.2.3, 3.2.4, 3.2.5.
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Responsabilità sociale e strategia. Alla ricerca di un’integrazione
valori, obiettivi e modelli mentali del vertice aziendale, quanto, piuttosto, da un duplice lavoro di analisi delle dinamiche in atto o previste nell’ambiente esterno e di osservazione della strategia realizzata. I primi, infatti, sono rimasti sostanzialmente stabili: l’obiettivo prioritario è quello di massimizzare il valore per gli azionisti; la RSI e l’etica sono visti come strumenti di tutela della reputazione e di contenimento del rischio. La “visione” della nuova sintesi socio-competitiva è nata innanzi tutto dalla progressiva presa di coscienza da parte del top management del probabile aumento della pressione competitiva nel mercato italiano, nel quale Kedrion è leader, a causa della futura apertura del mercato della lavorazione del plasma nazionale a concorrenti esteri. Ne è derivato un processo ricognitivo di quali strade potessero essere percorse per far fronte a tale rischio, processo che è sfociato dapprima nella scelta di intensificare e di accelerare l’internazionalizzazione, per altro già avviata, e poi, più specificamente, di puntare ai Paesi in via di sviluppo, caratterizzati da un gap importante tra fabbisogno e disponibilità del prodotto e da una pressione competitiva in media inferiore rispetto ai Paesi “occidentali”. Tale ultima scelta si fonda, a sua volta, su un’analisi accurata dei tassi di incidenza delle patologie che si curano con i farmaci emoderivati, posti a confronto con indicatori di accesso e di consumo di tali farmaci. Figura 5.2
Il circuito della formazione delle intenzioni strategiche: il caso Kedrion Strategia realizzata Competenze distintive di Kedrion relative a:
Ambiente esterno Intensificazione competizione nel “conto lavoro” in Italia Fabbisogno insoddisfatto di emoderivati nei PVS
Processi di formazione della strategia intenzionale che incorpora la RSI Analisi ambiente esterno (minacce e opportunità) Analisi competenze distintive aziendali (strategia realizzata) Elaborazione di una sintesi socio-competitiva
-approvvigionamento e conservazione del plasma
-trasformazione e logistica -raccolta del plasma -gestione relazioni con i Governi e le autorità sanitarie
Leadership in Italia, livello ancora relativamente contenuto di internazionalizzazione Gap
Strategia intenzionale che incorpora la RSI Internazionalizzazione con trasferimento di tecnologia e “conto lavoro” nei PVS e aumento dell’accesso di questi ultimi agli emoderivati
Azioni manageriali volte a realizzare la strategia intenzionale Stipula di un contratto per la costruzione di impianti produttivi in Russia; ecc.
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La presa di coscienza, da parte dei vertici aziendali, dell’esistenza di un potenziale importante di mercato non sfruttato nei Paesi in via di sviluppo si è accompagnata alla crescente consapevolezza, corroborata dal successo conseguito sul mercato nazionale, che Kedrion è dotata di alcune competenze di eccellenza tali da metterla nelle condizioni di sfruttarlo economicamente: competenze nelle funzioni di approvvigionamento e conservazione del plasma e di trasformazione in plasma-derivati; di logistica, per assicurare la disponibilità del prodotto nei tempi stabiliti e nelle migliori condizioni di sicurezza e di conservazione; di raccolta del sangue e del plasma; infine, competenze relative alla gestione delle relazioni con le autorità sanitarie e dei connessi processi autorizzativi alla produzione e alla vendita di tali farmaci. Ciò non toglie, per altro, che sia necessario un processo di apprendimento per conoscere e gestire le specificità dei processi autorizzativi di ciascun Paese. A tali processi di analisi è seguito un processo di elaborazione di una sintesi socio-competitiva che costituisce la strategia intenzionale di Kedrion: crescere a livello internazionale mediante il trasferimento di tecnologia e la produzione in “conto lavoro” nei Paesi in via di sviluppo, contribuendo in tal modo ad aumentarne l’accesso agli emoderivati. Muovendo dalla constatazione di un gap, in termini di grado di internazionalizzazione dell’azienda e di accesso agli emoderivati da parte di tali Paesi, fra strategia intenzionale e strategia realizzata, sono state compiute diverse azioni realizzative di tale strategia intenzionale: fra queste, in primis, la stipula di un contratto per la costruzione del primo impianto di lavorazione del plasma a standard internazionale a Kirov, in Russia; poi la messa a punto di un piano finalizzato che, facendo leva sulle competenze e sull’esperienza maturata sul mercato italiano, è sfociato nella stima del punto di pareggio e del tempo necessario per conseguirlo, oltre che dei ricavi ottenibili, ripartiti fra ricavi per il know-how e la formazione della forza lavoro, royalties e ricavi per il servizio di supporto manageriale. Rimane da chiedersi quali ulteriori passi Kedrion possa eventualmente compiere per completare l’integrazione della RSI nella propria strategia. Tre sembrano essere i percorsi evolutivi in tale direzione: in primo luogo, la piena inclusione della RSI nella funzione-obiettivo del top management e dell’impresa, percorso per altro già iniziato 345 ; in secondo luogo, il completamento del processo di managerializzazione, avviato sin dalla nascita di Kedrion con l’assunzione di manager esterni alla famiglia proprietaria, nel senso di un maggior coinvolgimento del management nei processi decisionali, il che avrebbe positive ripercussioni sulla motivazione del management stesso; infine, un’evoluzione nei processi di stakeholder management: fino ad ora la comunicazione agli stakeholder ha avuto per oggetto, in netta prevalenza, il sistema di gestione dell’etica negli affari di Kedrion. Si può ragionevolmente ipotizzare che un’estensione dei contenuti della comunicazione alla strategia 345
Si veda supra il § 3.2.5.
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possa ulteriormente accrescere il livello di coesione e di cooperazione degli stakeholder. 5.5.3 Il circuito dell’imprenditorialità e dell’iniziativa diffusa: il caso Toyota
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In considerazione della più volte richiamata centralità dell’innovazione nelle imprese che integrano la RSI nella strategia, tale circuito assume un’importanza particolare. Nel presente paragrafo si richiameranno dapprima sinteticamente alcuni contributi della letteratura che si focalizzano sui processi di sperimentazione, innovazione e selezione delle innovazioni, per poi analizzare il caso Toyota. Dalla documentazione disponibile, infatti, si evince che in tale impresa l’innovazione ha avuto e continua ad avere un ruolo fondamentale ai fini dell’integrazione della RSI nella strategia. In primo luogo, il circuito in esame è quello meglio in grado di “catturare” le strategie emergenti, nell’accezione fornitane da Mintzberg (1978, 1985). Esso, infatti, si snoda a partire dal contesto organizzativo, parte integrante della strategia realizzata, che può essere più o meno favorevole all’assunzione di iniziative imprenditoriali bottom-up, non di rado all’origine di innovazioni operative o strategiche in grado di imprimere alla strategia una direzione in qualche misura diversa rispetto a quella deliberata incorporata nella strategia intenzionale. In secondo luogo, alcuni degli elementi qualificanti il circuito dell’imprenditorialità e dell’iniziativa diffusa si ritrovano, mutatis mutandis, nel “ciclo evolutivo della conoscenza” elaborato da Zollo e Winter (2002) per rappresentare dinamicamente l’evoluzione delle capacità dinamiche e delle routine operative. Si tratta di un ciclo basato sul classico paradigma evoluzionistico di variazione-selezione-ritenzione. Il punto di partenza è la generazione di idee innovative da parte di singoli individui o gruppi in merito a come accostarsi in modo nuovo a problemi vecchi oppure a come affrontare sfide nuove. Tali idee innovative, inizialmente proposte in forma embrionale e parzialmente tacita, sono assoggettate a un processo di selezione nell’ambito del quale devono essere valutate in relazione sia ai potenziali vantaggi, sia all’impatto sulle strutture di potere esistenti. Le idee e le iniziative che sopravvivono al processo di selezione vengono poi diffuse all’interno dell’organizzazione attraverso processi di replicazione in contesti diversi rispetto a quelli in cui hanno avuto origine. Infine, dall’utilizzo delle nuove routine in contesti diversi si ottengono feedback e si generano informazioni in merito ai vantaggi e alle performance delle routine stesse: da tali feedback e informazioni possono nascere gli stimoli necessari all’avvio di un nuovo ciclo evolutivo della conoscenza. In terzo luogo, il circuito dell’imprenditorialità e dell’iniziativa diffusa si rifà alla prospettiva ecologica adottata da Burgelman (1991), che si sofferma sui processi di generazione, selezione e ritenzione delle iniziative autonome all’interno delle imprese. Tali iniziative, che non sono riconducibili 201 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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all’impostazione strategica in atto, possono contribuire a modificare quest’ultima, sempre che superino un processo di selezione. Esse offrono all’impresa una “finestra interna” su possibili cambiamenti futuri nell’ambiente a livello di mercati e di tecnologie, nonché delle opzioni strategiche. Vi è, infine, un quarto filone della letteratura, di matrice in prevalenza organizzativa, che si connette logicamente e, nel contempo, dà ulteriore fondamento teorico al circuito in esame: si tratta di quello fondato sul classico trade-off tra exploration ed exploitation 346 (March, 1991) e, più di recente, sul concetto di organizzazioni ambidestre (Tushman e O’Reilly, 1996), ossia capaci di esplorare nuove conoscenze e, simultaneamente, di sfruttare quelle esistenti. Secondo diversi studi empirici, alle attività all’insegna dell’exploitation, ossia quelle basate sullo sfruttamento delle conoscenze e delle competenze esistenti, devono necessariamente accompagnarsi attività di tipo esplorativo, ossia quelle più radicalmente innovative. Le imprese capaci di combinare in modo equilibrato, rispetto ai concorrenti, questi due tipi di attività dovrebbero conseguire performance economiche e competitive superiori 347 . L’individuazione dei processi e dei contesti organizzativi all’origine della capacità di alcune imprese di essere “ambidestre” costituisce un ambito di studio e di ricerca di particolare attualità. La Toyota costituisce uno dei più significativi esempi di multinazionali che si sono adoperate per integrare la responsabilità sociale nella propria strategia, come si evince dall’ingente e pluriennale sforzo profuso nello sviluppo di modelli di automobili in grado di incontrare i gusti e le attese degli utilizzatori e, nel contempo, di produrre benefici in termini di minore impatto ambientale. Inoltre, l’obiettivo della riduzione delle emissioni nocive è strettamente interdipendente rispetto a quello del contenimento dei consumi di carburante, per cui si può affermare che la RSI è parte integrante della value proposition di Toyota al cliente ed è all’origine di un vantaggio competitivo di differenziazione. Lo sforzo in tale direzione dell’azienda giapponese è culminato nello sviluppo e nel lancio, nel dicembre del 1997, della Prius, prima auto di serie con un motore ad alimentazione ibrida, basato cioè sull’utilizzo combinato del gasolio e dell’elettricità (Porter e Kramer, 2006). Anche, ma non solo, grazie a tale innovazione, Toyota ha conseguito e consegue risultati eclatanti, come testimoniano la leadership nel settore automobilistico mondiale 348 , l’elevata
A rigore i termini exploration ed exploitation potrebbero essere rispettivamente tradotti con “esplorazione” e “sfruttamento”. Si ritiene tuttavia che le espressioni italiane non rendano adeguatamente la pregnanza di significato di tali concetti, per cui si preferisce in questa sede mantenere i termini inglesi. 347 “An organization that engages exclusively in exploration will ordinarily suffer from the fact that it never gains the returns of its knowledge. (…) an organization that engages exclusively in exploitation will ordinarily suffer from obsolescence” (Levinthal e March, 1993: 105). 348 Nel 2007 Toyota ha superato l’americana General Motors, diventando il primo produttore mondiale di automobili. 346
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redditività 349 e gli innumerevoli riconoscimenti 350 ottenuti per il contributo fornito alla mobilità sostenibile e all’evoluzione della tecnologia nella direzione della salvaguardia dell’ambiente. Se, da un lato, Toyota costituisce un caso emblematico di funzionamento del circuito dell’imprenditorialità e dell’iniziativa diffusa, dall’altro ben si presta a illustrare anche alcune relazioni di causa-effetto che compongono altri circuiti del modello in esame, in particolare quello del controllo strategico. Analizzare l’uno e le altre è utile per meglio comprendere la genesi del successo di Toyota e il ruolo svolto a tal fine dalla RSI. E’ bene precisare, inoltre, che la Toyota Prius, ancorché abbia avuto un ruolo fondamentale nel determinare il successo e la notorietà dell’azienda giapponese, può essere considerata un traguardo importante ma intermedio nel processo di realizzazione della strategia intenzionale, che si snoda lungo un periodo di oltre vent’anni. Infatti, i primi studi sulla tecnologia ibrida risalgono al 1993, la Prius fu lanciata nel 1997, la leadership del settore è stata raggiunta nel 2007, mentre lo sviluppo di un modello di auto molto vicino a quello ideale – ossia senza emissioni nocive e riciclabile – è previsto realisticamente per il 2015. Innanzi tutto, la strategia e il successo di Toyota sembrano fondarsi sull’assunto, fatto proprio dai vertici aziendali, secondo il quale le persone sono la risorsa più importante e gli investimenti effettuati per accrescere le conoscenze e le abilità professionali dei collaboratori sono necessari per costruire la competitività aziendale (Spear e Bowen, 1999) 351 . Tale assunto si incorpora nel modo in cui l’impresa giapponese cerca di realizzare la propria strategia intenzionale, che si potrebbe riassumere nell’obiettivo sopra delineato di sviluppare un’automobile che non produca emissioni nocive e sia totalmente riciclabile. Per conseguire tale ambizioso obiettivo, infatti, la Toyota ha investito fortemente nello sviluppo delle risorse umane sia all’interno dell’azienda, sia “Indeed, in 2003 Toyota’s net profit was larger than the combined profits of GM, Ford, and DaimlerChrysler. Moreover, according to JD Power’s Initial Quality Studies, Toyota’s vehicles had roughly 40 percent fewer defects than those same competitors.” (Dyer e Hatch, 2006, p. 702). Nel 2006 Toyota Motor Corporation ha conseguito ricavi per 21.036,9 miliardi di yen (pari a 178,9 miliardi di dollari), con un incremento del 13,4% rispetto al 2005; il reddito operativo è stato di 1.878,3 miliardi di yen (16 miliardi di dollari) (+12,3%) e l’utile netto, cresciuto del 17,2%, ha raggiunto i 1.372,2 miliardi di yen (pari a 11,7 miliardi di dollari). 350 Solo per citare alcuni esempi, per tre anni consecutivi il propulsore ibrido di Toyota Prius ha vinto il titolo di “Motore dell’anno” nel concorso “International Engine of the year”; la Toyota Prius è stata votata “auto dell’anno” 2004 per il Nord America dalla rivista Motor Trend e “auto dell’anno” in Europa nel 2005; è stata inoltre premiata come vettura più pulita dall’associazione svizzera ATE (Association Transports et Environment). Per queste e per altre informazioni sul caso Toyota sono debitore al dr. Marco Pirrone, che nel 2007 ha conseguito la laurea triennale in Economia Aziendale all’Università Bocconi con un lavoro finale dal titolo “Corporate Social Responsibility come fonte di vantaggio competitivo. Il caso Toyota Prius.” 351 “All the organizations we studied that are managed according to the Toyota Production System share an overarching belief that people are the most significant corporate asset and that investments in their knowledge and skills are necessary to build competitiveness.” (Spear e Bowen, 1999, p. 103). 349
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nell’ambito delle aziende fornitrici. Volendo sintetizzare al massimo, si può affermare che le azioni e le iniziative manageriali intraprese per realizzare la strategia intenzionale sono riconducibili alle seguenti quattro, per altro fra loro interconnesse: lo sviluppo del sistema produttivo Toyota e la sua diffusione nei numerosi stabilimenti dislocati in vari Paesi del Mondo; l’elaborazione e la formalizzazione di un sistema di gestione ambientale che include, fra l’altro, un insieme di linee-guida (compendiate nella Earth Chart, adottata nel 1992 e rivista nel 1997) e un sistema di valutazione ecologica delle automobili (EcoVAS, ossia, Ecological Vehicle Assessment System), introdotto nel 2004; la creazione di un contesto organizzativo atto a sviluppare e a utilizzare intensivamente le competenze e le abilità dei propri dipendenti; lo sviluppo di relazioni di network con i propri fornitori atte a creare, accrescere e trattenere le conoscenze all’interno del network stesso. La strategia realizzata, facendo perno su una cultura aziendale, su un sistema di valori e su principi di management consolidati che pongono al centro l’apprendimento e il miglioramento continui, si arricchisce e si alimenta costantemente dei risultati dei processi di generazione delle innovazioni. Tali processi, che costituiscono il “cuore” del circuito dell’imprenditorialità e dell’iniziativa diffusa, sono a loro volta alimentati e resi possibili da un contesto produttivo e organizzativo che lascia il più ampio spazio alla sperimentazione e all’innovazione non solo ai collaboratori impegnati nelle funzioni formalmente deputate alla ricerca e allo sviluppo, ma persino agli stessi operai. Hamel (2006) osserva che all’origine della “capacità di miglioramento incessante” di Toyota vi è il convincimento che gli operai possano essere “solutori di problemi, innovatori e agenti di cambiamento” 352 . Secondo Spear e Bowen (1999), nel sistema di produzione Toyota (TPS), che può considerarsi parte della strategia realizzata, si può ravvisare un paradosso: da un lato, il ricorso a quello che i due autori definiscono il “metodo scientifico” 353 – fondato sulla specificazione rigorosa di un insieme di ipotesi, una valutazione dettagliata dello “stato dell’arte”, la definizione del piano di miglioramento e dei test – nella progettazione e realizzazione di qualunque iniziativa di cambiamento; dall’altro, un contesto che non ha nulla a che fare con quelli di tipo “comando e controllo”, ma, al contrario, stimola lavoratori e manager a impegnarsi nei processi di sperimentazione tipici delle “organizzazioni che apprendono” 354 . 352 “Unlike its Western rivals, Toyota has long believed that first-line employees can be more than cogs in a soulless manufacturing machine; they can be problem solvers, innovators, and change agents”. Hamel, 2006, p. 74. 353 Spear e Bowen, nel loro articolo pubblicato su Harvard Business Review, hanno cercato di ricostruire le regole fondamentali alla base del sistema di produzione Toyota (Toyota Production System): una di queste prevede che “any improvement must be made in accordance with the scientific method, under the guidance of a teacher, at the lowest possible level in the organization” (1999, p. 98). 354 “Indeed, in watching people doing their jobs and in helping to design production processes, we learned that the system actually stimulates workers and managers to engage in the kind of experimentation that is widely recognized as the cornerstone of a learning organization. That is what distinguishes Toyota from all the other companies we studied”. Spear e Bowen, 1999, p. 98.
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Si può quindi affermare che lo stock di innovazioni in Toyota è alimentato sia da processi di ricerca e sviluppo incardinati in unità organizzative ad hoc, sia da processi di sperimentazione e di miglioramento incrementali, continui e diffusi a tutti i livelli dell’organizzazione. Ciò non di meno, questi ultimi sono regolati in modo rigoroso, persino “scientifico”, senza per altro che ne risentano in alcun modo l’attitudine e il commitment esplorativo del personale. Ancora, il portafoglio di innovazioni è alimentato da uno sforzo di ricerca e di investimento a tutto campo, avente per oggetto tutte le tecnologie che si reputa possano contribuire a ridurre l’impatto ambientale derivante dalla produzione e dall’utilizzo delle automobili: tecnologie diesel, catalizzatori speciali, motori alimentati da fonti energetiche alternative, celle a combustibile, materiali riciclabili e altre ancora, molte delle quali sono confluite nella tecnologia ibrida. Per quanto riguarda i processi di selezione e di realizzazione delle innovazioni, a onor del vero non è stato possibile evincere dalla documentazione disponibile molte informazioni. Si può comunque ipotizzare che essi si caratterizzino per almeno due elementi di rilievo. In primo luogo, un’”asticella” elevata per quanto riguarda l’entità della riduzione dei consumi di carburante e delle emissioni nocive ai fini della selezione delle proposte di innovazione: a testimonianza di ciò sta il fatto che un motore a iniezione diretta sviluppato nel 1994, che avrebbe comportato una riduzione del 50% dei consumi di carburante rispetto ai motori convenzionali, fu ritenuto un risultato insufficiente. La sogliaobiettivo in termini di risparmio, infatti, fu posta al livello del 100%. Un secondo elemento consiste nel posporre il problema del contenimento dei costi a quello dello sviluppo di una tecnologia ibrida in grado di realizzare gli ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni nocive. La strategia realizzata, oltre al sistema produttivo Toyota, a una cultura e a un assetto organizzativo funzionali all’avvio di processi di innovazione continui e diffusi, formali e informali, si alimenta in modo continuativo delle innovazioni che hanno superato il vaglio dei processi di selezione e, nel contempo, delle azioni e delle iniziative manageriali finalizzate alla realizzazione della strategia intenzionale. Considerata la sua natura di variabile-livello, la strategia realizzata andrebbe osservata con riferimento a un istante temporale preciso. In questa sede si presentano sinteticamente, solo a titolo esemplificativo, alcuni elementi di rilievo che sono divenuti parte integrante della strategia realizzata di Toyota in momenti diversi della sua storia recente. Ad altri si è fatto cenno in precedenza con riferimento alle condizioni del contesto organizzativo che hanno favorito l’avvio e il funzionamento dei processi di innovazione. Innanzi tutto, va detto che la strategia realizzata è di fatto progredita nel continuo grazie a una serie incessante di innovazioni e di miglioramenti incrementali ma significativi nel lungo percorso verso la realizzazione di un’auto sostanzialmente priva di emissioni nocive e interamente riciclabile. Ne sono esempi, nella seconda parte degli anni Novanta, lo sviluppo di una plastica speciale riciclabile denominata TSOP (Toyota Super Olefin Polymer) utilizzabile per i paraurti e altre parti dell’auto, nonché la messa a punto di una tecnologia per il riciclaggio della gomma, che può essere rilavorata e riutilizzata per le 205 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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guarnizioni e per altre parti. Un ulteriore, significativo risultato incrementale può essere considerato l’incremento del livello qualitativo delle parti e dei componenti prodotti dai fornitori, misurato in termini di riduzione del tasso di difettosità: Dyer e Hatch (2006) riportano che, nel periodo 1990-1996, i fornitori hanno ridotto il tasso di difettosità delle parti e dei componenti realizzati per Toyota del 50%, a fronte di un miglioramento soltanto del 26% che quegli stessi fornitori hanno conseguito nella produzione di parti e componenti destinati ad altre case automobilistiche. Ciò si deve, secondo i due autori, a un migliore processo di condivisione della conoscenza all’interno del network di fornitura, che, a sua volta, è all’origine di una più elevata velocità di apprendimento. Lo sviluppo e il lancio della Toyota Prius nel 1997 rappresenta ad evidenza un tassello cruciale della strategia realizzata, trattandosi della prima auto a tecnologia ibrida messa sul mercato, in grado di garantire prestazioni comparabili a quelle di una berlina tradizionale ma con un consumo di soli 4,2 litri di carburante per cento chilometri nel ciclo extraurbano e una produzione di emissioni inquinanti inferiore di quasi il 90%. Il numero cumulato di auto a tecnologia ibrida vendute da Toyota non è particolarmente elevato rispetto al numero di auto complessivamente vendute: sono circa 1.047.000 in dieci anni, a fronte di oltre nove milioni di auto vendute in totale nel solo anno fiscale 2006/2007 355 . Ciò nonostante, tale innovazione è di grande importanze per Toyota sia perché dimostra che la sua strategia intenzionale è realizzabile, sia perché ha contribuito in modo rilevante alla reputazione dell’azienda giapponese come produttore particolarmente attento alle problematiche ambientali e di mobilità sostenibile, trainando in questo modo anche le vendite di auto tradizionali. Non a caso, Toyota continua a investire in ricerca e sviluppo al fine di ridurre progressivamente le emissioni nocive e, in generale, l’impatto ambientale anche di queste ultime. Il conseguimento della leadership del settore auto a livello mondiale nel 2007 costituisce, ad oggi, l’ultimo tassello della strategia realizzata. Il circuito dell’imprenditorialità e dell’iniziativa diffusa è riportato in figura 5.3. Si noti che, nell’ambito della strategia realizzata, si sono tenuti distinti gli elementi del contesto produttivo e organizzativo che favoriscono l’innesco dei processi di innovazione (al di sopra della linea tratteggiata) dai risultati di tali processi, via via incorporati nella strategia realizzata (al di sotto della linea tratteggiata). Va da sé che si tratta di una distinzione di prima approssimazione, in considerazione del carattere iterativo del processo e del fatto che i risultati dei processi di innovazione possono a loro volta favorire la generazione di ulteriori innovazioni. Ciò avviene per almeno due ragioni: in primo luogo, il successo conseguito in termini di numero e valore delle innovazioni prodotte costituisce una conferma della validità del modello organizzativo, che ne risulta rafforzato; in secondo luogo, si rafforza altresì la cultura aziendale, nella quale si affermano progressivamente i valori dell’innovazione continua, del rigore scientifico Tali dati sono tratti dall’articolo “Auto: Toyota diventa il primo produttore”, pubblicato sul Corriere della Sera del 24 aprile 2007. 355
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nell’approccio ai problemi e, nel contempo, della libertà di iniziativa e di sperimentazione diffusa a tutti i livelli dell’organizzazione.
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Figura 5.3
Il circuito dell’imprenditorialità e dell’iniziativa diffusa: il caso Toyota
Strategia realizzata Toyota Production System (TPS) Operai come solutori di problemi, innovatori e agenti di cambiamento Capacità di “miglioramento incessante” Superiori tassi di apprendimento e di riduzione della difettosità da parte dei fornitori Toyota Prius e altri modelli di auto a tecnologie ibrida Leadership nel settore auto
Processi di innovazione Processi di R&S formali a tutto campo per ridurre le emissioni Processi di sperimentazione e di miglioramento a tutti i livelli dell’organizzazione Portafoglio di iniziative e di innovazioni Vari progetti e innovazioni relative a tecnologie diesel, motori alimentati da fonti energetiche alternative, materiali riciclabili, ecc. Processi di selezione Riduzione emissioni e consumi come criterio di selezione Prima ridurre le emissioni nocive, poi i costi
In conclusione, si può affermare che il circuito che descrive i processi di generazione e di selezione delle innovazioni in Toyota è sì bottom-up, ma è “voluto” dal top management, ovvero si iscrive nel paradigma strategico ufficiale dell’azienda. Tale fatto, oltre che la cura nel plasmare il contesto organizzativo in modo da favorire la sperimentazione e l’innovazione diffusa, ne giustificherebbero la collocazione all’interno delle azioni manageriali volte a realizzare la strategia intenzionale. D’altra parte, la centralità del ruolo dell’innovazione ai fini dell’integrazione della RSI nella strategia di Toyota e il carattere emergente, oltre che bottom-up, di molte innovazioni, sia pure incrementali, e iniziative di miglioramento ne giustificano l’evidenziazione nell’ambito di un circuito a sé stante. 5.5.4 Il circuito dell’apprendimento e della revisione dei valori, degli obiettivi e dei modelli mentali Il circuito dell’apprendimento e della revisione dei valori, degli obiettivi e dei modelli mentali è quello che agisce in maggiore profondità, in quanto conduce a modificare le variabili soft della strategia, ossia quelle da cui dipendono le scelte 207 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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e le decisioni strategiche concrete. Per questa ragione è anche il circuito che si attiva meno di frequente e, nel contempo, quello più difficile da decifrare dall’esterno. Premesso che tali variabili soft – che nel loro insieme definiscono l’orientamento strategico di fondo (OSF) (Coda, 1988) – dipendono in larga misura dalle esperienze passate e dalla formazione ricevuta dagli esponenti del vertice aziendale, l’interrogativo di ricerca è quali siano le condizioni e i processi che rendono possibile l’integrazione della RSI nella strategia a livello di OSF, ovvero che conducono a incorporare la RSI nella funzione-obiettivo del top management, alla ricerca del profitto di lungo periodo, allo sviluppo di modelli mentali che assumano come possibili sintesi socio-competitive in cui socialità e competitività si rafforzano a vicenda. L’ipotesi proposta è che tale processo di apprendimento e di revisione dei valori, degli obiettivi e dei modelli mentali in tale direzione: - si inneschi a seguito di una sorta di “illuminazione”, ovvero un momento di svolta o di discontinuità, nella mente del vertice aziendale, talora come effetto di un evento traumatico che l’ha coinvolto personalmente nell’ambito del suo rapporto con l’impresa, quale può essere una manifestazione tanto eclatante quanto inattesa di insoddisfazione da parte di una o più categorie di stakeholder; - prosegua in modo più lento e graduale, attraverso una maturazione interiore e la riflessione sugli eventi che hanno riguardato l’impresa e sulle performance da essa conseguite; Non si tratta, in ogni caso, di un processo prevedibile, né, tanto meno, scontato. Di fronte ai segnali e alle manifestazioni di insoddisfazione da parte degli stakeholder, infatti, i vertici aziendali tendono spesso a reagire senza mettere in discussione alla radice i loro comportamenti e, meno ancora, le assunzioni ad essi sottese. Talora intervengono sui processi di comunicazione, partendo dal convincimento – in qualche caso per altro corretto – che l’insoddisfazione espressa dagli stakeholder dipenda essenzialmente da una percezione distorta che essi hanno della strategia dell’impresa e dei vantaggi che essa reca loro in rapporto alle imprese concorrenti. In altri casi intraprendono azioni e iniziative di RSI che non hanno nulla a che vedere con la strategia, a volte neppure con le singole attività della catena del valore: attraverso varie forme di erogazione o di filantropia cercano di migliorare l’immagine aziendale e il consenso da parte degli stakeholder. In altri casi, ancora, intraprendono azioni di lobby o altre iniziative funzionali, in ultima analisi, a una sorta di captatio benevolentiae: si tratta di quelle che Barnett (2007) definisce “tattiche di influenza diretta”, miranti a influire sul consenso degli stakeholder senza apportare alcun contributo reale in termini di benessere sociale. Ciò che accomuna tali tipi di reazioni è il fermo convincimento che l’obiettivo dell’impresa sia di massimizzare il profitto e il valore per gli azionisti e che fra tale obiettivo e la soddisfazione degli stakeholder vi sia un sostanziale trade-off: al più, un livello minimale e comunque accettabile di quest’ultima è vissuto come un vincolo al quale l’impresa non può sottrarsi. 208 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Ma in quali casi e a quali condizioni la constatazione di una performance sociale negativa agisce in profondità sugli attori-chiave dell’impresa, intaccando tali schemi mentali? Senza alcuna pretesa di costruire una teoria per la quale sarebbero necessarie competenze specifiche, soprattutto nel campo della psicologia, si propongono alcune riflessioni, basate anche sull’analisi di alcuni casi e situazioni concrete. Una prima riflessione riguarda il caso in cui l’insoddisfazione degli stakeholder si accompagna a performance reddituali e finanziarie insoddisfacenti. In tal caso si può ipotizzare che la reazione degli attori-chiave possa polarizzarsi attorno a due modelli opposti: a un estremo, le difficoltà sul fronte reddituale-finanziario possono accentuare le pressioni alla ricerca dei risultati di breve periodo, producendo l’effetto di aggravare l’insoddisfazione degli stakeholder; all’altro estremo, la constatazione di una performance negativa su entrambi i fronti, reddituale e sociale, può indurre il vertice aziendale a spingere in profondità il processo di disamina delle cause della situazione e a mettere in discussione modelli mentali consolidati, per poi concepire strategie radicalmente nuove. Le performance negative, inoltre, avrebbero presumibilmente l’effetto di abbassare le resistenze al cambiamento all’interno della struttura aziendale. La prima reazione è, ad evidenza, di tipo statico e conservativo, mentre la seconda è improntata a flessibilità e cambiamento. Quali condizioni favoriscono il secondo tipo di reazione? L’ipotesi qui proposta è che essa sia più facilmente innescata allorché il framework cognitivo secondo il quale la RSI è estranea alla funzione-obiettivo dell’impresa ed è in conflitto con la sua redditività convive con un sistema di valori etici di fondo forti e positivi. Tali valori – di onestà, legalità, trasparenza, centralità della persona, sobrietà, spirito di servizio e via dicendo – divengono il riferimento a partire dal quale il top management dapprima mette in discussione un framework cognitivo spesso appreso sul campo e talora rafforzato in qualche business school, per poi elaborare un nuovo insieme di assunzioni e di convincimenti che sfociano nella messa a punto di strategie intenzionali nuove. In altri termini, non cambia il sistema di valori, ma cambiano gli obiettivi e i modelli mentali, oltre che – si potrebbe dire – la cultura d’impresa 356 di cui il vertice è portatore. Il sistema di valori, se riconosciuto all’esterno, può anche aiutare i vertici aziendali a preservare la legittimazione e ad accettare le difficoltà e i sacrifici connessi a un processo di cambiamento non di rado doloroso e sofferto. Si presentano di seguito tre casi emblematici di apprendimento o di cambiamento dei modelli mentali e degli obiettivi del vertice aziendale, da cui sono poi scaturiti cambiamenti significativi anche nei processi di formazione della strategia intenzionale. Nei primi due casi, Costa e Sabaf, si pone enfasi soprattutto sugli obiettivi e sui modelli mentali che attengono al rapporto tra impresa e famiglia proprietaria e sulle relative implicazioni in termini di corporate governance, di RSI e di scelte strategiche. Interface, infine, 356 Per alcune interessanti riflessioni in tema di cultura d’impresa si veda AA.VV., Appunti per un dibattito sulla cultura aziendale, Società Italiana dei Docenti di Ragioneria ed Economia Aziendale (SIDREA), 2006.
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rappresenta un caso interessante di inclusione della RSI negli obiettivi del capo azienda che si potrebbe definire “emergente”, ossia non immediatamente o facilmente riconducibile a un processo di osservazione, analisi e interpretazione della strategia realizzata. a) Il caso Costa 357 . Si tratta di un noto gruppo di imprese a proprietà familiare che, negli anni Settanta, aveva raggiunto dimensioni medio-grandi e un grado di diversificazione elevato, essendo impegnato nei settori oleario, tessile, del trasporto merci, del trasporto passeggeri, crocieristico e immobiliare. Fortemente radicato nella città di Genova, nel 1978 aveva conseguito un fatturato di 400 miliardi di lire con circa 5.000 dipendenti. Già alla fine degli anni ’60, a seguito dei grandi investimenti compiuti per convertire le navi al business delle crociere e per costruire nuovi impianti di raffinazione dell’olio, il Gruppo era sottocapitalizzato. Nella prima metà degli anni Settanta si verificarono diverse dinamiche ambientali che nel giro di pochi anni condussero il Gruppo alla crisi: la concorrenza del trasporto aereo e le politiche di dumping delle imprese a partecipazione statale misero in seria difficoltà il business armatoriale passeggeri; la crisi petrolifera del 1973-74 fece impennare i prezzi del petrolio, portando l’incidenza del bunker sui ricavi di una nave dal 12% al 25-30% in un anno, e avviò una spirale inflazionistica che fece quadruplicare i fabbisogni di capitale circolante nel business dell’olio. Ciò nonostante, all’interno del Gruppo e della famiglia Costa vi era scarsa consapevolezza della crisi in atto: l’inadeguatezza dei sistemi informativi, fra l’altro, impedì di riconoscere gli elevati utili da inflazione, che alteravano profondamente la rappresentazione della situazione economica delle imprese del Gruppo. Il processo di crescita dimensionale continuò, in quanto – come ebbe a dichiarare Andrea Costa – “i nostri genitori ci avevano insegnato che le cose più importanti erano lasciare un patrimonio ai figli e creare lavoro per la famiglia e per tutti” 358 . Le banche accompagnarono tale processo, nonostante l’informativa lacunosa. Fino al 1982 la crisi non fu percepita in tutta la sua gravità, per cui non furono intraprese iniziative di cambiamento decise, né a livello di governance – tutte le posizioni di governo e di direzione nel Gruppo continuarono a essere occupate unicamente da membri della famiglia Costa –, né di assetto proprietario – la famiglia Romanengo si limitò ad acquistare il 10% della capogruppo industriale Costa s.p.a. –, né, infine, a livello di sistemi informativi e di controllo, dal momento che non si redigeva il bilancio consolidato e il budget fu introdotto solo come strumento di previsione di massima. L’assenza, per quel che è dato sapere, di particolari manifestazioni di scontento o di insoddisfazione da parte degli stakeholder nei confronti del 357 I dati e le informazioni qui riportate sono contenute in: Corbetta G., “Costa: le famiglie, le aziende, il risanamento”, in AA.VV., Valori imprenditoriali e comportamento strategico, Cusl, Università Bocconi, anno accademico 1987/88; Corbetta G., Montemerlo D., “Caso Costa (A)”, SDA e Università Bocconi, 1997. 358 In Corbetta, op. cit., a. a. 1987/88, p. 139.
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gruppo e della famiglia Costa aveva presumibilmente contribuito a ritardare una seria riflessione sull’OSF degli attori-chiave e la messa in discussione dell’impostazione strategica in atto. Nel 1982 la società di consulenza incaricata dalla famiglia redasse il primo bilancio consolidato, dal quale emerse un patrimonio netto negativo stimato in 18 miliardi di lire. Si trattò del segno più tangibile e traumatico della crisi, dal quale prese avvio un doloroso processo di ristrutturazione sotto i profili strategico, manageriale, organizzativo e finanziario. Il Gruppo dovette uscire da diversi business per focalizzarsi sul settore crocieristico; molti esponenti della famiglia Costa lasciarono i rispettivi ruoli di governo e di direzione, assunti da membri esterni, selezionati sulla base dell’esperienza e delle competenze professionali; altri dovettero abbandonare il posto di lavoro; per giunta, molti familiari-soci dovettero partecipare alla ricapitalizzazione del Gruppo. Furono introdotti meccanismi formali di governo e di definizione delle responsabilità, oltre che di programmazione e controllo. Il processo di ristrutturazione fu completato dapprima con l’acquisto da parte di Arca del 10% di Costa Crociere S.p.A e poi, nel 1989, con la quotazione in Borsa. Costa era tornata una società sana, finanziariamente equilibrata e in grado di produrre utili significativi. Ebbene, quali fattori inerenti la sfera dei valori, degli obiettivi e dei modelli mentali del vertice aziendale contribuirono alla crisi del gruppo Costa e alla sua tardiva percezione? Da quali processi di cambiamento e di revisione furono investiti, al punto da rendere possibili l’avvio e il completamento di un processo di ristrutturazione così pesante e doloroso? Ancora: quali sono gli elementi rilevanti sotto il profilo della responsabilità sociale in questa vicenda? Al di là delle dinamiche ambientali, che hanno certamente avuto un ruolo importante nel causare la crisi, si può avanzare l’ipotesi che una determinante fondamentale di ordine interno sia consistita nell’inadeguatezza del sistema di obiettivi e dei modelli mentali dei familiari-soci, i quali hanno a lungo concepito l’impresa familiare come un istituto non distinto dalla famiglia proprietaria, ma a questa subordinato (Corbetta, 1995). Le scelte strategiche fondamentali, per molti anni improntate alla crescita dimensionale e alla diversificazione, si ispiravano all’obiettivo dichiarato di incrementare il patrimonio della famiglia e di assicurare posti di lavoro alle future generazioni. A ciò si aggiunga l’obiettivo di tutela degli equilibri e dell’unità della famiglia, che ha indotto a estendere impropriamente alle imprese la logica basata sull’uguaglianza di tutti i membri della famiglia. Ciò ha determinato numerose scelte che hanno minato la sopravvivenza del Gruppo nel lungo periodo: nessuna decisione drastica per non rischiare di compromettere equilibrio e coesione familiare; il riconoscimento a tutti del “diritto” di occupare ruoli di governo e di direzione, a prescindere dalle capacità e dalla competenze; logiche di governo e di gestione del tutto informali. Un tale sistema di obiettivi e di modelli mentali ha di fatto impedito al Gruppo di usufruire delle competenze manageriali che la crescita dimensionale e l’aumento 211 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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del grado di complessità ambientale avrebbero reso necessarie e, nel contempo, di dotarsi dei sistemi informativi in grado di dar conto in modo affidabile e tempestivo dello stato di salute delle singole imprese e del Gruppo nel suo complesso. Che dire, invece, dei valori di cui la famiglia Costa – e quindi i vertici aziendali – erano portatori? Già nel 1923, Federico Costa raccomandava ai suoi figli, nel proprio testamento spirituale, di ispirarsi ai valori della sincerità, dell’ordine, dell’onestà, della buona volontà e dell’umiltà 359 . Valori che sono entrati a far parte, si potrebbe dire, del DNA della famiglia e del gruppo Costa. “Mi sono chiesto spesso – osserva ancora Andrea Costa – come fosse possibile mantenere l’accordo tra un numero così alto di soci; penso che questo accordo abbia trovato il proprio cemento in determinati valori-guida che sono sempre stati condivisi nella storia della nostra famiglia: il rispetto del prossimo, la sottolineatura del servizio piuttosto che del potere, l’economia per l’uomo” 360 . L’ipotesi che si può avanzare è che essi non solo non siano cambiati dopo la crisi, ma che abbiano permesso alla famiglia di accettare i sacrifici richiesti dal processo di ristrutturazione, di superare le tensioni e i conflitti e quindi di salvaguardare l’unità della famiglia stessa. L’osservazione e la riflessione, pur tardiva, sui negativi risultati del Gruppo, che costituiscono parte integrante della strategia realizzata, hanno condotto, attraverso un processo di apprendimento per trauma, a una profonda revisione degli obiettivi e dei modelli mentali degli attori-chiave, ma non anche dei valori: agli obiettivi di crescita del patrimonio e di creazione di posti di lavoro per le future generazioni – che la strategia in atto avrebbe d’altra parte impedito di conseguire – si è sostituito l’obiettivo della sopravvivenza e della funzionalità durature del Gruppo; l’assunzione di fondo in base alla quale l’impresa è subordinata alle esigenze e agli obiettivi della famiglia proprietaria ha lasciato il posto alla consapevolezza che solo l’autonomia dalla famiglia permette all’impresa di ottenere le risorse di cui necessita per la competitività e la funzionalità durature. I valori sono rimasti quelli originari dell’onestà, del servizio, del rispetto per la persona (Figura 5.4). Quanto alle implicazioni in termini di RSI, la vicenda della crisi e della ristrutturazione del gruppo Costa presenta due aspetti di rilievo. Innanzi tutto, va ricordato che la subordinazione dell’impresa alla famiglia proprietaria conduce non di rado a indebite discriminazioni nel trattamento dei collaboratori esterni rispetto a quelli appartenenti alla famiglia (Corbetta, 1995): nel caso in esame, per quanto i valori etici di cui la famiglia Costa era portatrice abbiano con ogni probabilità limitato tale rischio e dalla documentazione esaminata non siano emerse manifestazioni evidenti di insoddisfazione da parte degli stakeholder, la “regola” in base alla quale l’accesso ai ruoli-chiave di governo e di direzione era riservato ai membri della famiglia penalizzava ingiustamente i collaboratori non familiari, limitandone le possibilità di crescita e di carriera. Ma ciò che più rileva è il secondo aspetto: gli obiettivi e i modelli mentali dei vertici del Gruppo prima della crisi hanno ispirato scelte strategiche che, anche a causa del contesto 359 360
In Corbetta G., op. cit., 1987/88, pp. 140-141. In Corbetta G., Montemerlo D., 1997, op. cit..
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ambientale nel quale sono maturate, hanno messo a repentaglio la sopravvivenza del Gruppo, esponendolo al rischio di non essere più in grado, per definizione, di servire gli interessi dei suoi diversi stakeholder.
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Figura 5.4
Il circuito dell’apprendimento e della revisione dei valori, degli obiettivi e dei modelli mentali: il caso Costa
Processo di apprendimento per trauma degli obiettivi e dei modelli mentali
Valori. Invariati: onestà, spirito di servizio, rispetto per la persona. Obiettivi. Prima patrimonio della famiglia e posti di lavoro per le future generazioni dei Costa; poi salvare l’azienda. Modelli mentali. Prima impresa subordinata alla famiglia, poi impresa autonoma dalla famiglia.
Processi di formazione della strategia intenzionale Prima informali e governati dalla famiglia Costa, dopo la crisi formalizzati e governati da poche persone scelte per competenza
Strategia realizzata. Crisi dovuta a: - diversificazione non correlata; - competenze inadeguate di governo e di direzione; - elevato indebitamento; - sistemi informativi e di pianificazione, programmazione e controllo inadeguati.
Gap
Strategia intenzionale Focalizzazione sul business crocieristico e contestuale ripristino delle condizioni di economicità duratura
Azioni manageriali volte a realizzare la strategia intenzionale Non familiari nei ruoli-chiave; apertura del capitale, razionalizzazione del portafoglio di business; ecc.
b) Il caso Sabaf Sabaf, come Costa, è un’impresa controllata da una famiglia, ma si differenzia radicalmente dal gruppo genovese – quanto meno nella sua configurazione prima della crisi degli anni Settanta – in termini di concezione del rapporto famigliaimpresa e di corporate governance. Sabaf, inoltre, si caratterizza per una marcata integrazione della RSI nella strategia 361 . La governance della società è improntata a una netta separazione fra proprietà e management: nessuno dei manager appartiene alla famiglia proprietaria. Tutte le regole relative al rapporto fra azienda e familiari sono scritte e firmate. Ogni 15 giorni i familiari incontrano i dirigenti, in modo che la famiglia sia sempre Il caso Sabaf è già stato analizzato supra nel § 4.2.3 proprio come esempio di integrazione della RSI nella strategia. 361
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informata sui progetti e sugli investimenti in essere e programmati: a tali incontri partecipano tre esponenti della famiglia, uno per ciascuno dei tre rami discendenti dal fondatore Giuseppe Saleri, in modo che ciascuno di essi sia sempre rappresentato. Si tratta di quello che lo stesso Saleri definisce un “comitato di famiglia”, non pubblicato né formalizzato. E’ stato stipulato anche un patto di famiglia, in base al quale nessun membro della famiglia potrà assumere ruoli dirigenziali in azienda. La ragione di tale scelta, ricorda Giuseppe Saleri, è che “se un mio dirigente non va bene, lo posso mandare via, se è mio figlio no”. Ai familiari, invece, non è precluso il ruolo di amministratori. Il consiglio di amministrazione attuale di Sabaf è comunque composto per la maggioranza da amministratori non familiari: per sei undicesimi da amministratori non esecutivi (di cui cinque indipendenti) esterni alla famiglia, per due undicesimi da manager, per tre undicesimi da Giuseppe Saleri (Presidente) e da due dei suoi figli. Quali sono i valori, gli obiettivi e i modelli mentali che soggiacciono a una scelta di governance così radicale e inconsueta fra le piccole e le medie imprese familiari italiane? Come si sono formati o modificati nel corso del tempo? Come si è già avuto modo di dire, il valore fondamentale al quale si ispira Giuseppe Saleri è la priorità dell’impresa sul denaro e l’assunto secondo il quale chi mette al primo posto il denaro non è un buon imprenditore. Gli obiettivi di assicurare la continuità del lavoro ai propri dipendenti, di realizzare prodotti sempre migliori e a costi sempre più bassi, di progredire lungo il cammino di crescita della conoscenza e dell’utilizzo di tecnologie sempre più evolute sono incardinati in una visione dell’impresa come bene sociale. Per conseguire tali obiettivi l’autonomia dell’impresa dalla famiglia e la separazione fra proprietà e management sono viste come condizioni imprescindibili. Tali valori, obiettivi e modelli mentali sembrano essere interiorizzati dal management e dalla struttura aziendale, i quali ne hanno colto altresì la valenza intrinsecamente responsabile e, nel contempo, la funzionalità all’adozione di comportamenti socialmente responsabili. Non a caso, il direttore amministrativo e finanziario di Sabaf, Alberto Bartoli, osserva che “la separazione degli interessi della famiglia da quelli dell’azienda è stato il primo passo verso la responsabilità sociale. (…) La RSI noi l’avevamo dentro senza saperlo, per noi non è una ‘mano di vernice’. Per molti invece è la frontiera avanzata del marketing”. La stretta relazione fra la RSI, il tipo di corporate governance adottata in Sabaf e la sostenibilità nel lungo periodo del modello di business è sottolineata anche dal CEO Angelo Bettinzoli: “Se è così (cioè se è intesa come modello di business sostenibile nel lungo periodo, n.d.r.), la RSI ti impone una governance di tipo diverso: persone libere, assenza di conflitti di interesse, amministratori indipendenti. L’indipendenza c’è quando non si è condizionati; è la contrapposizione di visione che fa crescere; l’unanimità di visione otto volte su dieci nasconde l’errore, perché significa illuminare l’oggetto in modo parziale”.
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La storia 362 e l’esperienza del fondatore Giuseppe Saleri sono illuminanti al fine di comprendere come si sono formati i suoi convincimenti e i suoi modelli mentali, che a loro volta hanno dato origine al modello di governance oggi adottato. Egli aveva quattro fratelli e una sorella, buona parte dei quali non condividevano la sua idea di contenere i prelievi di risorse dall’impresa, di farla crescere, di mantenerla autonoma dalla famiglia. Le differenze di vedute diedero luogo a conflitti in seno alla famiglia, che rischiarono di avere ripercussioni importanti anche sull’impresa. Giuseppe decise di liquidare a uno a uno i fratelli, il che ha comportato però la fuoriuscita di molte risorse dall’azienda, che si è trovata in difficoltà. Rimasti in due, Giuseppe e Patrizio, con visioni diverse in merito all’impostazione strategica da adottare, nel 1993 decisero di indire un’asta competitiva davanti a un notaio, al termine della quale Giuseppe prevalse e poté quindi liberamente dare seguito concreto alla sua visione imprenditoriale e strategica. L’esperienza sofferta dei conflitti all’interno della famiglia e delle ripercussioni per l’azienda non ha modificato i valori e gli obiettivi di Giuseppe, ma ne ha rafforzato il convincimento, che sta al cuore del suo modello mentale, secondo il quale l’impresa deve rimanere autonoma dalla famiglia proprietaria, inducendolo a compiere scelte di governance radicali, perché, come lui stesso ha dichiarato, “questo non deve più succedere”. Si tratta quindi, anche in questo caso, di un processo di apprendimento per trauma, che ha avuto però origine non da uno stato di crisi aziendale, ma da una situazione di grave conflitto all’interno della famiglia proprietaria. Ciò non di meno, quest’ultimo costituiva una importante minaccia per l’azienda e, soprattutto, ne impediva il pieno dispiegamento delle potenzialità di crescita e di sviluppo. c) Il caso Interface 363 Interface, azienda americana fondata nel 1973 da Ray Anderson, è il più grande produttore di tappeti commerciali al mondo: produce, fra l’altro, tappeti modulari, rivestimenti per pavimenti, tessuti per interni. Per i primi 21 anni della sua vita Interface non si è mai posta seriamente il problema della sostenibilità, limitandosi a rispettare le leggi e i regolamenti nei diversi Paesi in cui ha operato. Nel 1994 avvenne la svolta. Dovendo parlare a una task force sul tema della sostenibilità ambientale predisposta dalla divisione ricerca di Interface, il presidente Ray Anderson per tre settimane non riuscì a farsi un’idea precisa su cosa dire. Aveva sentito parlare di sviluppo sostenibile senza ben comprenderne il significato. L’illuminazione gli venne dalla lettura del libro The Ecology of Commerce di Paul Hawken, la cui idea di fondo era che il mondo del business era sì una causa del problema ambientale, ma poteva anche contribuire alla sua soluzione. Quella lettura gli ispirò non solo il discorso alla task force Sabaf venne fondata a Lumezzane negli anni Cinquanta da Giuseppe Saleri e dai suoi fratelli per la lavorazione di vari prodotti in ottone. 363 Le informazioni sul caso Interface sono tratte dall’Annual Report e dal Sustainability Report relativi all’esercizio 2006, nonché dalla tesi di Luciano Celani dal titolo “L’innovazione strategica orientata alla soluzione di problemi ambientali”, relatore prof. V. Coda, Università Bocconi, anno accademico 2003-2004. 362
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sull’ambiente, ma anche la formulazione della visione riportata nel report sulla sostenibilità relativo all’esercizio 2006, visione dalla quale discendono la missione e la strategia intenzionale di Interface: essere la prima impresa a mostrare al mondo intero, con i fatti e non con le parole, cosa significhi essere sostenibile e, nel far ciò, diventare “ristorativa” entro il 2020. Con tale termine l’azienda esprime la volontà di andare oltre la sostenibilità e di arrivare a restituire all’ambiente più di quanto essa non utilizzi. La strategia intenzionale di Interface, sintetizzabile nell’obiettivo di essere la prima impresa al mondo completamente sostenibile – espresso nello slogan “Mission Zero” – e poi di essere appunto ristorativa, si declina in sette “fronti”: eliminare i rifiuti, eliminare le emissioni tossiche, utilizzare energia rinnovabile, ridisegnare prodotti e processi in modo da utilizzare al massimo materiali di riciclo, studiare modalità di trasporto delle persone e dei prodotti in grado di contenere rifiuti ed emissioni, sensibilizzare gli stakeholder ai principi della sostenibilità, ridisegnare il commercio nell’ottica della sostenibilità. Tale strategia, fondata sull’assunto che la sostenibilità possa essere una fonte importante di vantaggio competitivo 364 e accompagnarsi a profitti elevati e crescenti, è perseguita in modo quasi ossessivo, misurando costantemente, attraverso una metrica ad hoc, ogni progresso nella direzione intrapresa: per esempio, i risparmi cumulati di costi derivanti dal contenimento della produzione dei rifiuti ammontano a 336 milioni di dollari in 12 anni; i rifiuti mandati in discarica sono diminuiti del 70% rispetto al 1996; la quantità di energia utilizzata per unità di prodotto nella produzione di tappeti si è ridotta del 45% dal 1996; e via dicendo. Tali risultati sono il frutto di un grande sforzo all’insegna della creatività e dell’innovazione, che è sfociato nello sviluppo di nuovi prodotti quali il primo tessuto in poliestere riciclato, di nuovi processi produttivi in grado di utilizzare nuovi materiali o fonti di energia rinnovabili, di nuovi software in grado di misurare le emissioni nocive e via dicendo. Fra sostenibilità e vantaggio competitivo non solo non vi è alcuna frizione, ma, al contrario, si tratta di due obiettivi così strettamente intrecciati da costituire parte integrante di una strategia definita “bella” 365 . I contenuti e i toni del Sustainability Report fanno pensare che la struttura aziendale abbia interiorizzato la cultura e i valori della sostenibilità che Ray Anderson vi ha infuso e che abbia colto il profondo cambiamento di direzione seguito agli eventi del 1994, tant’è che si parla di “drammatica metamorfosi” che Interface ha compiuto per diventare un “pioniere globale della sostenibilità”. Un ulteriore 364 Nel Sustainability Report relativo al 2006 viene riportato ciò che Interface ha appreso durante i primi 12 anni del suo “viaggio”: “(…) that sustainability can become a powerful source of competitive advantage if it is integrated into your core business strategy, not a mere footnote; that the human dimensions of the process, though less definable, are no less essential than the technological; that the pursuit of a higher purpose engages employees, encouraging them to use their hearts as well as their minds to collaborate, innovate, and earn customer satisfaction; that the cultural transformation of your company must come from inside”. 365 “The beauty of this strategy is that if you look at a sustainability activity, you’ll see a business benefit, too. If you look at a smart business move, you’ll see a step towards sustainability as well. They’re tightly intertwined at Interface and, as just about any employee here will mention, ‘It’s in our DNA’”. Interface Annual Report, 2006, p. 11.
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indizio dell’importanza e della pervasività dell’obiettivo della sostenibilità ambientale è costituito dal fatto che la “Mission Zero” non è soltanto enunciata nel bilancio di sostenibilità, ma è richiamata anche nell’Annual Report, laddove si precisa che i cambiamenti che possono verificarsi a livello di singoli brand non modificano in alcun modo l’obiettivo di eliminare qualunque impatto negativo sull’ambiente entro il 2020. Infine, lo sforzo e gli investimenti nella direzione tracciata sono proseguiti, sia pure a un ritmo più lento, anche durante un periodo difficile sul piano economico – il triennio 2002-2004 – durante il quale la forte contrazione della domanda di arredi d’interni per il mercato domestico ha causato a Interface perdite ingenti 366 . L’inclusione della sostenibilità nel sistema di valori, degli obiettivi e nei modelli mentali del fondatore di Interface Ray Anderson appare, almeno a prima vista, come il risultato di un evento del tutto contingente, quale è stata la lettura di un libro al quale si era accostato allo scopo di preparare un discorso ufficiale. Non è tuttavia del tutto infondato ipotizzare una qualche connessione, sia pure implicita, con la strategia realizzata: l’attività di Interface implicava un rilevante utilizzo di fonti energetiche non rinnovabili, di materie prime derivanti dal petrolio, emissioni di gas e di CO2, ingenti quantità di prodotti finiti utilizzati non riciclabili. La lettura del libro potrebbe aver determinato in Ray Anderson la percezione di un gap tra il modo di funzionare della sua impresa – che pure aveva sempre rispettato le leggi nei diversi Paesi in cui si trovava a operare – e l’ideale di impresa sostenibile. La percezione di tale gap ha con ogni probabilità scatenato in lui una tensione positiva sfociata nella completa ridefinizione sia dei suoi personali obiettivi e modelli mentali, sia della mission aziendale, costruita intorno all’idea di rendere Interface un benchmark nell’economia globale in tema di sostenibilità. 5.6 Considerazioni conclusive I casi analizzati nel presente capitolo avvalorano l’ipotesi che il modello sistemico di Coda e Mollona (2002) ben si presti a rappresentare e a spiegare i processi che conducono all’integrazione della RSI nella strategia. Esso, soprattutto, è adatto a cogliere i caratteri di pervasività e di dinamicità di una strategia che incorpora la RSI. Il carattere della pervasività sta a significare che, perché vi possa essere tale integrazione, è necessario che: -
la “socialità” pervada l’orientamento strategico di fondo del vertice aziendale, nelle sue componenti definite in termini di obiettivi, valori, assunzioni e modelli mentali;
Le perdite nel bilancio consolidato sono ammontate a 88, 33, 55 milioni di dollari rispettivamente negli esercizi 2002, 2003 e 2004. Nel 2005 Interface ha conseguito un modesto utile (1,2 milioni), mentre nel 2006 ha raggiunto i 10 milioni di utile a fronte di un fatturato consolidato di 1.075 milioni di dollari. 366
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la “socialità” costituisca un nucleo essenziale della strategia intenzionale, ossia un fattore sul quale poggia il vantaggio competitivo ricercato e, nel contempo, sia da questo alimentato all’interno di una sintesi socio-competitiva; si predispongano le condizioni per la realizzazione della strategia intenzionale, il che implica che sia accuratamente plasmato il contesto culturale, organizzativo e relazionale dell’impresa in modo da orientare le azioni e i comportamenti da parte dei collaboratori, ma anche degli stakeholder in generale, alla realizzazione di tale strategia; infine, si presti una particolare attenzione ad assecondare, promuovere e incentivare le idee e le proposte di innovazione, non solo di tipo formale e top-down, ma anche di tipo informale e bottom-up. La propensione all’innovazione e al cambiamento costituisce, infatti, una condizione fondamentale per la messa a punto e il funzionamento di strategie capaci di coniugare sinergicamente vantaggio competitivo, profitto e soddisfacimento delle legittime aspettative degli stakeholder.
Il modello utilizzato, attraverso i quattro circuiti a retroazione che lo compongono, non solo permette di dare adeguata rappresentazione a tutte e quattro le condizioni appena delineate, ma ne specifica anche le molteplici relazioni di causa-effetto che le avvincono a sistema. Il modello di Coda e Mollona, che affonda le sue radici proprio nell’analisi dinamica dei sistemi, è adatto altresì a rappresentare il carattere intrinsecamente dinamico di una strategia che integra la RSI. I processi mediante i quali un’impresa persegue simultaneamente vantaggio competitivo e soddisfazione degli stakeholder, infatti, non hanno mai fine. Ciò è vero non solo perché si modificano nel tempo la compagine degli stakeholder, le loro istanze, il contesto competitivo e le regole del gioco che lo caratterizzano, ma anche perché un approccio di tipo statico alla strategia sarebbe incompatibile con quella tensione costante ad apprendere, sperimentare, innovare che, sulla base dei casi osservati, sembra costituire il “DNA” delle imprese che perseguono l’integrazione della RSI nella loro strategia. L’ideale di eccellenza imprenditoriale proprio di tali imprese non solo non nega, ma assume come parte integrante la possibilità di commettere errori, l’esistenza di gap fra una situazione desiderata e quella effettiva, la varietà e la dialettica all’interno della propria compagine di vertice così come fra i propri stakeholder. Gli errori sono visti come opportunità di apprendimento, i gap come una situazione da gestire in positivo, progredendo nella direzione di un ideale di impresa innovativa e responsabile nei confronti di tutto il complesso dei suoi interlocutori, in quanto capaci di indurre tensione positiva e forza motivazionale, la varietà e la dialettica come condizioni per evitare i rischi di autoreferenzialità e di parzialità nei processi di analisi e decisionali. Come si è avuto modo di sottolineare in più parti di questo libro, il processo di integrazione della RSI nella strategia deve avvenire nella consapevolezza che la soddisfazione degli stakeholder, che di tale strategia 218 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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costituisce un obiettivo fondamentale, espone l’impresa a un rischio importante: quello dell’abbassamento della soglia dell’attenzione, dell’inerzia, della scarsa propensione al cambiamento, in una parola della conservazione dello status quo. La sapiente modulazione dei gap ai vari livelli fra situazione desiderata e situazione effettiva – com’è chiaramente postulato dal modello di Coda e Mollona – è una condizione fondamentale per prevenire tale rischio e per assicurare la sostenibilità dell’impresa nel tempo in condizioni di economicità e di autonomia.
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Conclusioni
L’obiettivo fondamentale di questo lavoro era, in ultima analisi, di contribuire a sviluppare teoricamente e a illustrare empiricamente il concetto di responsabilità sociale integrata nella strategia d’impresa. Un’integrazione da molti giustamente auspicata, nella consapevolezza che, se gli studiosi e le imprese non si impegnano e non progrediscono decisamente in tale direzione, la RSI rischia di rimanere confinata a strumento di comunicazione e di immagine per le imprese, nella migliore delle ipotesi di presidio contro i rischi reputazionali e di deriva illegale, in ogni caso ben poco incisivo rispetto all’obiettivo dichiarato di contribuire efficacemente a incanalare lo sviluppo economico nel sentiero della sostenibilità. In tale ipotesi, per di più, la RSI finirebbe con l’essere etichettata come una moda effimera, perderebbe forse definitivamente credibilità, sarebbe, in ultima analisi, un’occasione perduta, per la società ma anche per le stesse imprese. Per queste ragioni l’indagine empirica all’origine di questo libro si è concentrata sulla ricerca di casi di aziende per le quali vi sia almeno una qualche evidenza che la responsabilità sociale e il perseguimento degli interessi dei diversi stakeholder sono inclusi nella funzione-obiettivo del vertice, che vantaggio competitivo, profitto e soddisfazione degli stakeholder sono ricercati in modo unitario e sinergico nell’ambito di quella che è stata definita una valida “sintesi socio-competitiva”, che le strutture, i meccanismi e i processi organizzativi sono seriamente e autenticamente orientati alla realizzazione di tale strategia. Ebbene, quali elementi di interesse sono emersi dall’analisi di queste imprese? Quali stimoli hanno offerto alla costruzione e al progresso della teoria? Innanzi tutto, in queste imprese la dimensione della socialità appare talora così strettamente compenetrata nella strategia da rendere difficile, dall’esterno, identificare con precisione le relazioni di causa-effetto che la connettono al vantaggio competitivo e alla generazione di profitti. Al limite, si potrebbe affermare, in linea con il pensiero della resource-based view, che è proprio tale “ambiguità causale” a rendere sostenibile nel lungo periodo il vantaggio competitivo di quelle imprese che hanno la socialità nel loro DNA e nella loro funzione-obiettivo. Non è possibile, in esse, identificare una strategia sociale 221 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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distinta dalla strategia competitiva. Non è un caso che, almeno in alcune, non vi sia una funzione o un ufficio nell’organigramma aziendale specificamente deputato alla responsabilità sociale e alle relazioni con gli stakeholder: essa è così radicata nella storia, nella cultura e nella strategia, così come nel sistema di valori e di obiettivi del vertice, da pervadere tutta quanta la struttura, l’organizzazione e il modo di essere e funzionare dell’impresa, senza che sia avvertito il bisogno di strutturarla e di assegnarne la regia. Il processo di formalizzazione e di “codificazione” della RSI, se si verifica, avviene ex post, magari in risposta agli stimoli provenienti dal mercato o dagli enti di certificazione. Oppure, allo scopo di esplicitare i valori forti che di fatto contraddistinguono la cultura aziendale e i comportamenti che ne discendono, così da favorirne il perdurare nel tempo e la sopravvivenza rispetto alle generazioni e alle persone che, per prime, li hanno promossi. In secondo luogo, in queste imprese si osservano una passione e una spinta incessante alla generazione di nuova conoscenza, al miglioramento, all’innovazione. Tale passione è all’origine di quella che si potrebbe definire una maggiore produttività dell’innovazione stessa, nel senso che da quest’ultima si generano, sia pure con manifestazioni temporali talora differenti, vantaggi per gli azionisti e vantaggi per gli stakeholder e per la società in generale. Il concetto di innovazione va inteso qui in senso molto lato: può trattarsi di innovazione tecnologica, che sfocia, ad esempio, nello sviluppo di processi e di prodotti a maggiore compatibilità ecologica e, nel contempo, capaci di accrescere il valore per il cliente. Ma può trattarsi anche di innovazioni di tipo organizzativo, logistico, distributivo e via dicendo; oppure, di innovazioni del modello di business, al fine, ad esempio, di permettere l’accesso a un prodotto o a un servizio anche alle fasce più povere della popolazione, alla “base della piramide”, conquistando al tempo stesso nuovi mercati e ponendo le fondamenta per la crescita della redditività nel lungo periodo. L’innovazione, ancora, può consistere nel superamento di modelli mentali consolidati e diffusi in un settore, che si sostanziano in una visione statica del business e nell’idea che fra redditività e vantaggio competitivo, da una parte, soddisfazione degli stakeholder diversi dagli azionisti, dall’altra, non possa esservi che un gioco a somma zero. L’impegno e lo slancio a innovare e a migliorare continuamente poggiano, a loro volta, sulla consapevolezza della missione economico-sociale dell’impresa, di quanto essa può fare a beneficio della società facendo leva sulle proprie migliori risorse e competenze, sulla profonda adesione interiore alla realizzazione di tale missione. La propensione a innovare e a migliorare costantemente costituisce talora un segnale importante della volontà dell’impresa di integrare la responsabilità sociale nella propria strategia. Vi è un terzo elemento importante: il ruolo e il significato del profitto per queste imprese e, prima ancora, per i loro vertici. Il profitto è vissuto come uno strumento imprescindibile per alimentare la competitività di lungo periodo dell’impresa e, nel contempo, la sua capacità di continuare a rispondere in modo efficace e incisivo alle legittime istanze degli stakeholder. Di conseguenza, esso viene reinvestito in misura significativa, privilegiando sistematicamente la 222 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ricerca del benessere dell’impresa – vissuta come bene comune o come public good – rispetto a quella del benessere personale e familiare dell’imprenditore e del management, non di rado orientati a condurre un tenore di vita relativamente sobrio. Ciò deriva, in genere, sia dai valori e dai principi etici condivisi e interiorizzati, sia, soprattutto, dal fatto di essere motivati a conseguire anche obiettivi diversi da quelli di profitto e di accumulo di ricchezza. Il profitto ha anche un’altra funzione: quella di disciplinare le scelte e i comportamenti del management e di tutti i collaboratori, orientandoli a evitare gli sprechi e a ricercare l’efficienza e la produttività. Numerosi sono gli stimoli che lo studio dei casi aziendali, combinato con l’analisi della letteratura esistente in tema di responsabilità sociale dell’impresa, stakeholder theory, etica d’impresa ed eccellenza imprenditoriale, ha offerto alla riflessione teorica. Di seguito si richiamano sinteticamente i contributi che, con tale riflessione, si è inteso offrire all’avanzamento del dibattito fra gli studiosi e i ricercatori. Innanzi tutto, si è cercato di individuare i processi e i meccanismi che connettono vantaggio competitivo e “socialità”, oltre che le condizioni per la loro attivazione e il loro funzionamento. Da un lato, si è avanzata l’ipotesi che la RSI produca vantaggi sotto il profilo della creazione o del rafforzamento del vantaggio competitivo, inteso come il conseguimento di tassi di rendimento superiori rispetto alla media dei concorrenti, se e nella misura in cui è parte integrante della proposta di valore ai clienti o favorisce l’accesso, da parte dell’impresa, a risorse di valore, rare, difficili da imitare. Dall’altro, si è ipotizzato che il vantaggio competitivo possa influire positivamente sulla RSI e sulla coesione sociale attraverso il più elevato volume di risorse finanziarie disponibili da investire in innovazione a beneficio di tutti gli stakeholder; mediante l’utilizzo e la valorizzazione a fini sociali delle risorse e delle competenze di valore che sono alla base dello stesso vantaggio competitivo; attraverso il senso di identità e di appartenenza da parte dei dipendenti e, in qualche misura, degli stakeholder tutti nei confronti di un’azienda “unica”, proprio in quanto capace di conseguire un vantaggio competitivo sostenibile. L’utilizzo dell’analisi dinamica dei sistemi, che si fonda sulla distinzione tra variabili-flusso e variabili-livello, sull’identificazione delle relazioni di causaeffetto che le collegano e di circuiti a retroazione, sulla specificazione dei ritardi temporali con cui tali relazioni si manifestano, ha permesso di mettere meglio a fuoco alcune riflessioni di carattere teorico, che, per altro, meriterebbero di essere ulteriormente approfondite e testate attraverso apposite analisi empiriche. In primo luogo, si è cercato di identificare i processi e le condizioni che conducono un’impresa a integrare la RSI nella propria strategia: a tal fine, sono necessari processi di apprendimento di valori, obiettivi e modelli mentali che recepiscano la “socialità” come qualcosa di giusto, desiderabile e possibile al tempo stesso per l’impresa; tali valori, obiettivi e modelli mentali, a loro volta, dovrebbero orientare il vertice aziendale nei processi di analisi delle dinamiche ambientali in corso e prospettiche e di osservazione e riflessione sulle cause delle performance reddituali, competitive e sociali conseguite, così da pervenire 223 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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alla formulazione di una valida “sintesi socio-competitiva”; azioni e iniziative – riguardanti la corporate governance, il contesto organizzativo, i sistemi di comunicazione e di reporting, le relazioni con gli stakeholder – funzionali alla realizzazione della strategia intenzionale che incorpora la RSI; infine, adeguati processi di generazione e di selezione delle innovazioni, che, come si è visto, costituiscono un tratto qualificante delle imprese che integrano la RSI nella propria strategia. In secondo luogo, si è operata la distinzione fra RSI, considerata alla stregua di una variabile-flusso, e coesione sociale, assimilabile invece a una variabilelivello. Tale distinzione, ancora relativamente poco diffusa in letteratura, presenta essenzialmente due vantaggi. Da un lato, serve a specificare come la coesione sociale sia il risultato delle iniziative e dei comportamenti socialmente responsabili adottati in passato da un’impresa, che hanno determinato il livello di fiducia, soddisfazione e quindi coesione da parte degli stakeholder; dall’altro, è funzionale a riflettere sulle implicazioni della coesione sociale per il futuro dell’impresa. Ebbene, l’ipotesi che si è avanzata nel corso del presente lavoro è che fra coesione sociale e competitività dell’impresa la relazione non sia lineare. In altri termini, un livello molto basso di coesione sociale – o, il che è lo stesso, un elevato livello di conflittualità e di insoddisfazione degli stakeholder – rende problematico per il management ottenere il consenso e il supporto necessari all’innovazione e al cambiamento, con il rischio che l’impresa possa avviarsi in una spirale di crisi senza ritorno; un livello di soddisfazione e di coesione molto elevato, invece, se, da un lato, implica un elevato grado di consenso e di supporto al management, dall’altro, potrebbe ridurre pericolosamente gli stimoli a un monitoraggio attento e sistematico dell’ambiente, il che renderebbe difficile riconoscere la necessità di innovazione e di cambiamento, e generare un contesto inerziale che ne renderebbe comunque difficile la realizzazione. Il rischio, in questo caso, è che il vantaggio competitivo si eroda rapidamente, soprattutto quando l’ambiente si presenta dinamico o discontinuo. In sostanza, la presenza di un moderato gap di soddisfazione degli stakeholder potrebbe costituire un fattore di stimolo al management a mantenere viva l’attenzione all’ambiente, a introdurre cambiamenti nella strategia o nelle azioni finalizzate a realizzarla, a ricercare e ad attuare innovazioni. A certe condizioni, dunque, non è detto che fit sociale e fit competitivo vadano di pari passo. Ciò equivale a postulare una relazione omeostatica, non un circuito esclusivamente virtuoso o vizioso, fra vantaggio competitivo e soddisfazione degli stakeholder. Un’ulteriore riflessione di carattere teorico ha riguardato le motivazioni che possono spingere un’impresa ad agire in modo socialmente responsabile. Dalla letteratura esistente emerge che tali motivazioni possono essere ricondotte, in ultima analisi, a due: quelle strumentali e quelle fondate su valori e principi etici. L’ipotesi avanzata in questo libro è che possa esservi anche una terza motivazione, definita, mutuando il linguaggio della psicologia, edonica: l’intima soddisfazione che gli attori-chiave di alcune imprese traggono dal contribuire, con il loro operato, a migliorare il livello di soddisfazione e le condizioni di vita dei vari stakeholder. E’, quest’ultima, la motivazione che genera la più forte 224 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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spinta propulsiva ad agire in modo socialmente responsabile, che conferisce alla RSI un carattere proattivo anziché difensivo, che prelude all’inclusione dei fini di carattere sociale nella funzione-obiettivo dell’impresa e quindi a un’azione più efficace e incisiva a beneficio degli stakeholder. E’ la motivazione che emerge intervistando i vertici delle aziende nelle quali la strategia incorpora la responsabilità sociale. Non solo: non c’è ragione per affermare che le motivazioni individuate per la RSI siano in contrapposizione l’una con l’altra o, come sembra potersi evincere da certi contributi della letteratura, che motivazioni strumentali ed etico-valoriali si posizionino agli estremi di un’unica variabile. Piuttosto, sembra più realistico affermare che tutti e tre i tipi di motivazioni individuati per la RSI siano in qualche misura presenti in un’impresa e nei suoi attori-chiave. Il posizionamento di un’impresa in un ideale spazio tridimensionale definito dai tre tipi di motivazioni ha un ruolo fondamentale nel determinare la relazione in essere in un certo momento fra RSI e strategia. Molto lavoro rimane da fare agli studiosi e ai ricercatori per comprendere a fondo le condizioni e i processi che inducono le imprese a integrare la responsabilità sociale nella loro strategia, i meccanismi di funzionamento di tale integrazione, le implicazioni in termini di performance. Innanzi tutto, è necessario studiare a fondo altri casi, pur nella consapevolezza che, almeno fino ad ora, essi sono in numero abbastanza ridotto. In secondo luogo, sarebbe opportuno validare empiricamente le proposizioni e le riflessioni teoriche proposte in questo libro, costruite sulla base dell’osservazione e dell’analisi di pochi casi, per quanto interessanti e talora emblematici. Un terzo, interessante e relativamente inesplorato sentiero di ricerca riguarda le imprese “irresponsabili”, quelle imprese, cioè, che, in una certa fase della loro storia, hanno agito in modo gravemente lesivo di una o più categorie dei propri stakeholder e sono state al centro di vicende giudiziarie talora eclatanti. Questi casi sono stati analizzati in letteratura facendo soprattutto riferimento ai profili etici dei rispettivi vertici o al fallimento della corporate governance: molto poco, invece, si è riflettuto sulla qualità della strategia e sulla sua evoluzione nel tempo.
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